Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

PROFUGOPOLI

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

VITTIME E CARNEFICI

 

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

 

 

 

 

 

 

SOMMARIO

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

INTRODUZIONE.

L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.

CATTIVI MAESTRI.

STUPRI E FEMMINICIDI DEI CLANDESTINI: L'ASSOLUZIONE IDEOLOGICA.

COME SI CENSURANO LE NOTIZIE SUI CRIMINI DEGLI IMMIGRATI.

PORTI CHIUSI.

A LAMPEDUSA, PERSONE PER BENE.

ED ANCORA IL SOLITO FASCISMO. I SOLITI RAZZISTI. I SOLITI SCIACALLI.

NICOLAS SARKOZY E LA LIBYAN CONNECTION.

IMMIGRAZIONE O INVASIONE? SOROS ED I COMUNISTI.

IL COMUNISMO E L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO: LE PROFEZIE.

HEZBOLLAH. I GUERRIERI DI DIO.

PROFUGHI. LA GRANDE FUGA DALLE GUERRE ISLAMISTE. BUGIE E RESPONSABILITA'.

PROFUGHI. ARMA DI INVASIONE, DI DITRAZIONE E DI DISTRUZIONE DI MASSA.

BUONISTI ED ONG. TUTTA QUESTIONE DI DISONESTA'.

I MIGRANTI, I SALVATAGGI IN MARE E LE MENZOGNE DEI TALEBANI DEL BUSINESS DELL'ACCOGLIENZA.

ASSASSINI DI BAMBINI.

LA NORMALIZZAZIONE DI TRUMP SULL’ASSE PRO TERRORISTI.

LO “IUS SOLI” PER I TERRORISTI.

IL TERRORISMO ISLAMICO E LE MAFIE ITALIANE SONO IN AFFARI?

QUELLA MAFIA CHE SI FA FINTA DI NON VEDERE. LA MAFIA NIGERIANA.

LA MAFIA NERA.

PAGANO SOLO GLI ONESTI.

CHI SONO GLI IMMIGRATI?

CENTRI PER L'IMMIGRAZIONE IN ITALIA. CPSA, CDA, CARA, CIE. SPRAR, CAS. IL GRANDE AFFARE DEI CENTRI DI ACCOGLIENZA.

IMMIGRATI: AIUTATI A CASA LORO...

CASA LORO… HOTEL AFRICA.

IMMIGRATI. QUELLO CHE NON SI DICE. LA BUONA ITALIA DELLE ZONE FRANCHE E I “PROFUGHI TAKE AWAY”.

MAFIA ONLUS.

L’ITALIA DEI SEDICENTI PROFUGHI.

IL BUSINESS SULLA PELLE DEI BABY PROFUGHI. 

IL BUSINESS SULLA PELLE DEI PROFUGHI. 

IL TERRORISMO ISLAMISTA.

IL TERRORE ESPORTATO IN OCCIDENTE.

PROFUGHI ED ISIS.

TERREMOTO E SOLIDARIETA’.

PROFUGHI ED ACCOGLIENZA.

I PROFUGHI E LA SINISTRA.

PROFUGHI, ISLAM E CENSURA.

IL RAZZISMO AL CONTRARIO.

MANTENUTI…

SCOMPARSI…

SCHIAVIZZATI...

CI SONO PROFUGHI E PROFUGHI.

PROFUGHI E SPECULAZIONI.

LO SPRECO DEI PASTI AI CLANDESTINI.

IMMIGRAZIONE: RISORSA? MA QUANTO MI COSTI? UN MILIARDO O 4O MILIARDI DI EURO ALL'ANNO?

ZINGARI ED IMMIGRATI: GLI SPRECHI SOLIDALI.

ITALIANI IGNORANTI ED IMMIGRAZIONE: PARLIAMO DI PENSIONI.

 

  

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

INTRODUZIONE.

L’Islam esce allo scoperto e umilia una infermiera perché donna: “abbassa lo sguardo quando parli con me”, scrive Andrea Pasini l'8 settembre 2018 su "Il Giornale". “Abbassa lo sguardo quando parli con me, sei una donna”. Purtroppo non ci troviamo in Afghanistan ma siamo a Saronno comune alle porte di Milano. Queste parole sono state indirizzate ad un’infermiera italiana da parte di un paziente islamico. È la fine di agosto secondo quanto riporta “La Prealpina” un giovane e sua sorella hanno accompagnato la madre al pronto soccorso. Tutti islamici. Sia la donna che la ragazza indossavano il velo integrale, simbolo dell’oscurantismo musulmano. Alla signora, scrive il quotidiano locale, è stato quindi somministrato un antidolorifico e poi le è stato assegnato un codice verde perché non destava in condizioni preoccupanti. Quando l’infermiera del pronto soccorso è andata a riferire all’uomo le condizioni della madre e ciò che era stato fatto per curarla, l’uomo avrebbe contestato il fatto di trovarsi a parlare “solo” con una donna e non con un medico uomo. “Abbassa lo sguardo quando parli con me, sei una donna”, le avrebbe detto il musulmano. L’uomo, scrive il quotidiano locale, si sarebbe placato solo grazie all’intervento di un vigile che si trovava lì per assistere un paziente giunto in pronto soccorso a causa di un incidente stradale. Il fatto sarebbe stato confermato anche dai rappresentanti sindacali della struttura. Adesso io dico: ma vi sembra possibile che in Italia possa accadere una cosa del genere? E che un ospite di religione islamica possa pensare di comportarsi in questo modo? Permettendosi di umiliare una donna intenta a svolgere con serietà il proprio lavoro. Non è assolutamente possibile in un qualsiasi paese normale occidentale ma in Italia purtroppo per noi SI. Tutto questo perché la religione islamica impone delle regole che con la nostra cultura occidentale non potranno mai essere compatibili. E questa è una prova tangibile. È questa l’integrazione di cui si riempie tanto la bocca la sinistra. E si perché: una delle tante risorse della sinistra, un mediorientale, un immigrato islamico si può permettere di inveire contro un’infermiera che stava curando la madre invitandola ad abbassare lo sguardo e chiedendone la sostituzione con un infermiere di sesso maschile perché secondo le regole dell’islam la donna è un essere inferiore per cui non degno di poter parlare da sola con un uomo. È proprio questa l’integrazione che vorrebbe e che ci propone di continuò la sinistra in Italia. Bella roba! Ma vi rendete conto che l’infermiera è andata a riferire all’immigrato le condizioni della madre e ciò che era stato fatto per curarla e l’islamico ha contestato il fatto di trovarsi a parlare con una donna secondo lui una questa è una cosa inammissibile. Robe da matti! Ma vi sembra una cosa normale e soprattutto possibile che In un paese occidentale dove le donne hanno pari diritti degli uomini e per noi le donne rappresentano un grande orgoglio per la nostra comunità e meritano stima, riguardo e soprattutto rispetto queste persone ospiti nei nostri paesi si permettono di umiliarle e trattarle come delle pezze da piedi? Ma siamo diventati matti! Questa gente o viene in Italia e rispetta le nostre leggi, i nostri valori e le nostre tradizioni o torna a casa loro e di corsa anche. Queste dovrebbero essere le regole che una Stato giusto dovrebbe porre come requisito primario per poter risiedere in Italia. Gli islamici a cui non sta bene che qua in Italia le donne valgono come gli uomini ed anche di più, tornino pure a casa loro. Al posto che denunciarlo e poi sbatterlo immediatamente fuori dall’Italia, l’immigrato è stato tranquillizzato da un vigile che si trovava lì ero caso. Allora una buona volta per tutte mi sento di lanciare un messaggio chiaro a tutti gli islamici residenti in Italia: qua non siete a casa vostra dove vi è consentito trattare le donne come degli essere inferiori: qua siete in Italia e non prevale la legge della Sharia e se questo non vi sta bene tornate pure a casa vostra dove potete comportarvi come meglio credete senza dare fastidio a nessuno. 

"Con il burqa non riesco a visitarla". E il marito islamico punta la pistola contro il medico. Il medico l'ha invitata gentilmente a toglierselo, spiegandole che altrimenti non sarebbe riuscito a visitarla. Lei si è rifiutata e prima di uscire ha detto: "Le cose non finiranno qui", scrive Eugenia Fiore, Domenica 9/09/2018 su "Il Giornale". In Francia è vietato portare il burqa da sette anni. È la legge. Ma per alcuni vige solo una regola: quella del menefreghismo. Ecco un esempio. Qualche giorno fa una donna si presenta in un ospedale dell'Alta Corsica, nel comune di Poggio-Mezzana, completamente ricoperta dal velo. Irriconoscibile, quindi. Il medico, a quel punto, la invita gentilmente a toglierselo, per poter procedere alla visita. Lei rifiuta. Categoricamente. Il professionista le spiega che in quelle condizioni non sarà in grado di esaminarla, e le chiede allora di lasciare lo studio. Prima di andarsene, la paziente si gira verso l'uomo e con aria di sfida esclama: "Le cose non si fermeranno qui". Più tardi, infatti, all'ospedale si presenta il marito della donna. Entra nello studio del medico, sfodera una pistola niente meno che automatica e l'appoggia con arroganza sulla scrivania. Poi la rimette in una borsa e se ne va. Secondo quanto riportato dai media francesi, ancora non si conosce lo scambio verbale avvenuto tra i due uomini. Quello che è sicuro, però, è che l'islamico ha minacciato di morte il professionista. E perché, poi? Perché aveva semplicemente fatto il suo dovere. E il suo lavoro. Ora la procura di Bastia ha aperto un'indagine. "Non c'è posto in Corsica per il fondamentalismo e l'islamismo. La nostra isola è e resterà una terra di libertà e tolleranza", ha commentato il presidente del Consiglio esecutivo della Corsica, Gilles Simeoni. 

Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.

L'immigrato/emigrato italiano o straniero è colui il quale si è trasferito, per costrizione o per convenienza, per vivere in un altro luogo diverso da quello natio.

Soggetti: L’immigrato arriva, l’emigrato parte. La definizione del trasferito la dà colui che vive nel luogo di arriva o di partenza. Chi resta è geloso della sua terra, cultura, usi e costumi. Chi arriva o parte è invidioso degli altri simili. Al ritorno estemporaneo al paese di origine gli emigrati, per propria vanteria, per spirito di rivalsa e per denigrare i conterranei di origine, tesseranno le lodi della nuova cultura, con la litania “si vive meglio là, là è diverso”, senza, però, riproporla al paese di origine, ma riprendendo, invece, le loro vecchie e cattive abitudini. Questi disperati non difendono o propagandano la loro cultura originaria, o gli usi e costumi della terra natia, per il semplice motivo che da ignoranti non li conoscono. Dovrebbero conoscere almeno il sole, il mare, il vento della loro terra natia, ma pare (per soldi) preferiscano i monti, il freddo e la nebbia della terra che li ospita. 

Tempo: il trasferimento può essere temporaneo o permanente. Se permanente le nuove generazioni dei partenti si sentiranno appartenere al paese natio ospitante.

Luoghi di arrivo: città, regioni, nazioni diverse da quelle di origine.

Motivo del trasferimento: economiche (lavoro, alimentari, climatiche ed eventi naturali); religiose; ideologiche; sentimentali; istruzione; devianza.

Economiche: Lavoro (assente o sottopagato), alimentari, climatiche ed eventi naturali (mancanza di cibo dovute a siccità o a disastri naturali (tsunami, alluvioni, terremoti, carestie);

Religiose: impossibilità di praticare il credo religioso (vitto ed alloggio decente garantito);

Ideologiche: impossibilità di praticare il proprio credo politico (vitto ed alloggio decente garantito);

Sentimentali: ricongiungimento con il proprio partner (vitto ed alloggio decente garantito);

Istruzione: frequentare scuole o università o stage per elevare il proprio grado culturale (vitto ed alloggio decente garantito);

Devianza: per sfuggire alla giustizia del paese di origine o per ampliare i propri affari criminali nei paesi di destinazione (vitto ed alloggio decente garantito).

Il trasferimento per lavoro garantito: individuo vincitore di concorso pubblico (dirigente/impiegato pubblico); trasfertista (assegnazione temporanea fuori sede d’impresa); corrispondente (destinazione fuori sede di giornalisti o altri professionisti). Chi si trasferisce con lavoro garantito ha il rispetto della gente locale indotto dal timore e rispetto del ruolo che gli compete, fatta salva ogni sorta di ipocrisia dei locali che maschera il dissenso all’invasione dell’estraneo. Inoltre il lavoro garantito assicura decoroso vitto e alloggio (nonostante il caro vita) e civile atteggiamento dell’immigrato, già adottato nel luogo d’origine e dovuto al grado di scolarizzazione e cultura posseduto.

Il trasferimento per lavoro da cercare in loco di destinazione: individuo nullafacente ed incompetente. Chi si trasferisce per lavoro da cercare in loco di destinazione appartiene ai ceti più infimi della popolazione del paese d’origine, ignari di solidarietà e dignità. Costui non ha niente da perdere e niente da guadagnare nel luogo di origine. Un volta partiva con la valigia di cartone. Non riesce ad inserirsi come tutti gli altri, per mancanza di rapporti adeguati amicali o familistici, nel circuito di conoscenze che danno modo di lavorare. Disperati senza scolarizzazione e competenza lavorativa specifica. Nel luogo di destinazione faranno quello che i locali non vorrebbero più fare (dedicarsi agli anziani, fare i minatori o i manovali, lavorare i campi ed accudire gli animali, fare i lavapiatti nei ristoranti dei conterranei, lavare le scale dei condomini, fare i metronotte o i vigilanti, ecc.). Questo tipo di manovalanza assicura un vergognoso livello di retribuzione e, di conseguenza, un livello sconcio di vitto ed alloggio (quanto guadagnano a stento basta per sostenere le spese), oltre l’assoggettamento agli strali più vili e razzisti della popolazione ospitante, che darà sfogo alla sua vera indole. Anche da parte di chi li usa a scopo politico o ideologico. Questi disperati subiranno tacenti le angherie e saranno costretti ad omologarsi al nuovo stile di vita. Lo faranno per costrizione a timore di essere rispediti al luogo di origine, anche se qualcuno tenta di stabilire la propria discultura in terra straniera anche con la violenza.

Ecco allora è meglio dire: Dimmi come vai, ti dirò chi sei.

Dante contro gli immigrati: "La mescolanza delle genti è causa dei mali delle città". Nel XVI canto del Paradiso Dante, tramite il suo avo Cacciaguida, lancia un'invettiva contro gli stranieri che hanno invaso Firenze e contro la Chiesa, complice dell'invasione, scrive Matteo Carnieletto, Martedì 5/05/2015, su "Il Giornale". Esiste un Dante Alighieri che Benigni non vuole o non può vedere. Un Dante reazionario. Reazionarissimo. Un Dante che sarà poi ripreso dal "cattolico belva" Domenico Giuliotti e da Ezra Pound. Questo Dante, il vero Dante, ha scritto parole durissime contro l'immigrazione e contro la Chiesa che si rende complice di questa tratta di uomini. Basta leggere il sedicesimo canto del Paradiso, dove Dante, accompagnato da Beatrice, è a colloquio con Cacciaguida, il glorioso avo che trovò la morte durante la seconda crociata. Dante chiede a Cacciaguida di parlargli di Firenze, di raccontargli come fosse nei tempi civili. Subito Cacciaguida si infiamma "come s’avviva a lo spirar d’i venti / carbone in fiamma, così vid’io quella / luce risplendere a’ miei blandimenti". Ricorda come gli abitanti di Firenze fossero un quinto rispetto a quelli che ci sarebbero stati 150 anni dopo dopo la sua morte: "Tutti color ch'a quel tempo eran ivi / da poter arme tra Marte e ‘l Batista, / eran il quinto di quei ch’or son vivi. Ma la cittadinanza, ch’è or mista / di Campi, di Certaldo e di Fegghine, / pura vediesi ne l’ultimo artista". Ovvero: la popolazione di Firenze, che ora è mescolata con gli abitanti di Campi Bisenzio, Certaldo, Figline Valdarno, era pura fino al midollo. Fino al più semplice degli artigiani. E di chi è la colpa, secondo Cacciaguida e, quindi, anche secondo Dante? Della Chiesa che favorisce l'immigrazione dei toscani a Firenze: "Se la gente ch’al mondo più traligna / non fosse stata a Cesare noverca, ma come madre a suo figlio benigna, / tal fatto è fiorentino e cambia e merca, / che si sarebbe vòlto a Simifonti, / là dove andava l’avolo a la cerca". Ovvero: se la Chiesa non fosse stata matrigna nei confronti dell'imperatore e fosse stata amorevole nei confronti del figlio, certi fiorentini che ora passano il tempo a cambiar valute e a mercanteggiare sarebbero rimasti a Semifonte a chiedere l'elemosina come facevano i loro avi. E Dante riconosce la causa prima della decadenza delle città nell'immigrazione indiscriminata: "Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade, / come del vostro il cibo che s’appone". Ovvero: la mescolanza delle genti provoca sempre il male delle città. Insomma, attenti progressisti e radical chic a leggere Dante. Potreste rimanere parecchio delusi.

«Non voglio passare per un complottista, ma la saggistica scrive che la massoneria anglosassone, non anglicana, non atea, ma pagana, ha sempre complottato contro la chiesa cattolica per estirpargli l’egemonia di potere che esercita sul mondo occidentale. Per avere il primato d’imperio sulla civiltà e sui popoli e per debellare questa forza internazionale, prima temporale e poi spirituale, la massoneria ha manipolato le masse povere ed ignoranti contro le dinastie regnanti cristiane. Ha fomentato la rivoluzione francese, prima, americana, poi, ed infine, russa, inventando il socialismo ateo e anticlericale, da cui è scaturito fascismo, nazismo e comunismo, fonte di tante tragedie. La chiesa, ciononostante, non ha capitolato. Non riuscendo nel suo intento, la massoneria, si è inventata, attraverso i media ed i governi fantoccio, le guerre di democratizzazione del Medio Oriente e Nord Africa, foraggiando, al contempo, gruppi estremistici e terroristici, e contestualmente ha intensificato l’affamamento dell’Africa, con lo sfruttamento delle sue risorse a vantaggio di tiranni burattini, con il fine ultimo di incentivare l’invasione islamica dell’occidente, attraverso gli sbarchi continui sulle coste dell’Europa di migranti, rifugiati e terroristi infiltrati. L’islamizzazione dell’Europa come fine ultimo per arrivare all’estinzione della cristianità.

La sinistra nel mondo è soggiogata e manipolata da questo disegno di continua destabilizzazione dell’ordine mondiale, di fatto favorendo l’invasione dell’Europa, incitando il diritto ad emigrare.

“Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra” afferma il Santo Padre Benedetto XVI nel suo Messaggio per la 99ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 13 gennaio 2013, sul tema “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”.

Se i profughi vanno in vacanza nei posti in cui son perseguitati. Il viaggio di ritorno nel Paese d'origine conferma che le persone che lo compiono non sono veramente perseguitate, scrive Robert Favazzoli, Lunedì 12/09/2016, su "Il Giornale". Molti profughi trascorrono le proprie vacanze nei luoghi dai quali sarebbero scappati perché perseguitati. A renderlo noto è un'inchiesta del quotidiano tedesco Die Welt, che porta alla luce diversi casi di persone residenti in Germania con lo status di rifugiati politici e iscritti al registro dei disoccupati. Che però, durante l'estate sono tornati nei luoghi d'origini per le vacanze: Siria, Afghanistan, Libano. A confermare l'esistenza di tale fenomeno è il Ministero per le Migrazioni e i Profughi, creato appositamente dal governo di Angela Merkel per gestire l'emergenza migratoria che interessa il Paese da oltre un anno. "Ci sono diversi casi come questi, noi non ci occupiamo però di fare indagini o statistiche a tal proposito, per cui non abbiamo informazioni precise a riguardo" ha detto il portavoce. Le istituzioni di governo non sono inoltre autorizzate a diffondere i dati personali dei profughi, neanche quelli che riguardano le loro vacanze. Il Ministero per le Migrazioni e i Profughi poi conferma che i profughi non potrebbero fare quello che stanno facendo. Le vacanze nelle terre di origini sono infatti degli indicatori che dimostrano come le persone che le compiono non siano veramente perseguitate e che quindi non abbiano i requisiti per ricevere gli aiuti e i sussidi che lo Stato tedesco garantisce loro.

Come vive un rifugiato in Italia? «Manger, dormir, Facebook, un film», scrive il 26 Aprile 2016 la Redazione di “Tempi”. Emblematico reportage del Corriere della Sera tra i richiedenti asilo mantenuti dallo Stato a Briatico, in Calabria. Che non a caso vogliono tutti “fare i profughi”. Il Corriere della Sera propone oggi un reportage di Federico Fubini da Briatico (Vibo Valentia) dove è raccontato in maniera esemplare come l’Italia rispetto all’emergenza immigrazione «sta riproducendo le peggiori tare dell’assistenzialismo degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso». Un «welfare che dà qualcosa in cambio di niente» come «sola risposta che la macchina amministrativa sia in grado di fornire nell’emergenza». Il nostro sistema, denuncia Fubini elencando alcuni casi assai significativi, «distribuisce vitalizi e protezione senza pretendere dai beneficiari lo sforzo di imparare un mestiere, né le leggi o la lingua del Paese ospitante, o anche solo senza chiedere loro una mano a tenere pulita la strada comunale». A Briatico l’inviato del Corriere ha raccolto la testimonianza di Fofana Samba, 19enne cittadino del Mali che «da quando è sbarcato senza documenti dalla Libia a Vibo Valentia nel giugno di due anni fa» vive in Italia da perfetto mantenuto. «Di solito si sveglia alle nove – scrive Fubini – e trascorre le sue giornate in modo semplice: “Manger, dormir, Facebook, un film”. Qualche volta, una partita di calcio. Tiene pulita la sua stanza? No: ci pensa la signora Antonella, la donna delle pulizie. Si prepara da mangiare? “No. Vedo il cibo quando è pronto. Io non cucino”». Come Fofana secondo il Corriere vivono «tanti altri ragazzi sub-sahariani assorti nei loro smartphone all’ombra dei pini dell’hotel sul mare che oggi li accoglie». A differenza dei profughi siriani e iracheni di cui si è tanto parlato negli ultimi mesi, le persone incontrate da Fubini in Calabria in genere non arrivano da paesi in guerra e non sono vittime di persecuzioni, ma «tutti hanno presentato domanda d’asilo politico per guadagnare tempo e intanto restare qui». Giocano con «ricorsi e controricorsi» sfruttando «la lentezza della giustizia italiana». Lo stesso Fofana dice al Corriere: «Voglio essere un rifugiato» e per questo «ha presentato una serie di domande di asilo» tramite avvocato, pagandolo con il denaro che gli arriva dall’accoglienza italiana (100 euro a domanda, informa Fubini). Le pratiche, per la cronaca, sono state «tutte respinte fino al ricorso attuale, pendente da mesi», ma comunque nel frattempo «Fofana non ha mai fatto lo sforzo di imparare una parola d’italiano». Altro esempio che lascia a bocca aperta è quello dell’Associazione Monteleone, che Fubini descrive come «una delle centinaia che gestiscono l’accoglienza per conto delle Prefetture». L’organizzazione ha vinto una gara per la gestione dei migranti e infatti incamera «1.100 euro al mese per ciascuno di essi». E come impiega tutti questi soldi? Spiega il giornalista del Corriere: «Ha investito 85 mila euro in un centro computer nell’hotel dell’accoglienza, ha organizzato corsi di italiano e da elettricista, fabbro, pizzaiolo, cartongesso, guida macchine agricole, salvataggio e primo soccorso in spiaggia, teatro. Non si è presentato quasi nessuno. I 219 richiedenti asilo sono rimasti tutti in camera a sonnecchiare e guardare la tivù, semplicemente perché potevano». Per convincerli a muoversi hanno dovuto offrire loro «50 euro in cambio della frequenza dei corsi». Il sistema italiano secondo Fubini è improntato a un tipo di assistenzialismo che non esiste da nessuna parte, «neanche nei Paesi più aperti agli stranieri». In Germania, per dire, il governo ha annunciato una nuova legge per «rendere più facile per chi richiede asilo accedere al mondo del lavoro». Lo scopo è proprio «non renderli alienati, passivi e depressi, con un futuro da accattoni o da manovalanza criminale», e la chiave è esattamente l’approccio contrario al nostro: vitto, alloggio e diaria sì, ma in cambio Berlino «pretende dagli stranieri (…) frequenza a corsi di lingua, cultura e legislazione tedesca, con regolari verifiche dell’apprendimento; per chi non adempie c’è il ritiro progressivo dei benefici». L’Italia è lontana anni luce da questa impostazione. Scrive ancora Fubini: «A novembre scorso il prefetto Mario Morcone, capo dipartimento per l’immigrazione al ministero dell’Interno, ha scritto ai sindaci invitandoli a far fare ai richiedenti asilo piccoli lavori per i Comuni. Non è successo quasi nulla».

Non scappano: ci invadono! Scrive Nino Spirlì su “Il Giornale” Giovedì 1 settembre 2016. Ci siamo distratti con l’apocalittica tragedia di casa nostra, il drammatico terremoto del Centro Italia, e loro, farabutti, ne hanno approfittato! Quasi quindicimila sbarcati in quattro giorni. In verità, siamo andati a prenderli fin sul bagnasciuga libico e li abbiamo portati, sani e salvi fin dentro le nostre viscere. Altri quindicimila (quasi, per gli amanti della precisione) vagabondi, mantenuti e viziati. Tutti armati di smartphone e agenda di indirizzi dei migliori hotel disponibili sul suolo italico. Quelli dove si dorme e si mangia bene, dove le piscine sono piene e funzionanti, le SPA attive anche nella sala massaggi, la vista è confortevole e romantica. Quelli collegati con la navetta col Centro città o che hanno vicino le villette da svuotare, gli anziani da violare e rapinare, magari uccidere. Quelli buoni, dove c’è il wifi che funziona. Noi ci dedichiamo ai nostri Italiani morti sotto le macerie dell’ira di Dio, facciamo quadrato sui loro bisogni mettendo mano al portafogli, e lo Stato e l’UE, tartassando noi, si occupa dei clandestini: li coccolano e li vezzeggiano come fossero graziadiddio! Non può andare avanti così! Non può essere che questa Italia, questa Europa, vengano invase senza colpo ferire da interi popoli di furbastri con la fedina penale incerta… Forse sporca. Magari sporchissima. La maggior parte di questi codardi non scappa da Paesi in guerra. Non lascia madre, sorelle, mogli e figlie, in pericolo di stupro, schiavitù e morte. E se lo fa, è merda umana! La maggior parte di questa teppa è chiamata a cancellare secoli di lotte operaie, contadine, sociali. Viene a rompere il mercato del lavoro, l’organizzazione sociale, i progetti per l’avvenire. Viene a radere al suolo tutta l’emancipazione femminile, fino a riportarla al medioevo della sua storia. La maggior parte di questi carichi di carne umana non sa nemmeno perché deve venirci, in Occidente. Sa solo che deve venire a pisciare per strada, cagare ai giardinetti, spacciare droga, sfruttare la prostituzione, fare da cane da guardia per la mafia. O ci rendiamo conto che dobbiamo scendere in piazza e cominciare a fare barricate, oppure è finita. La nostra Civiltà è finita…Fra me e me. 

Quei giornalisti svelti a trovare il “fascista”, ma lenti a vedere l’islamista, scrive Adriano Scianca il 19 luglio 2016. Proviamo per un attimo a mettere insieme due fatti di sangue molto, molto, molto diversi. Non ci interessa confondere i piani, ma solo ragionare sul meccanismo mediatico e i suoi trabocchetti.

Primo caso: al termine di una scazzottata la cui dinamica è ancora da chiarire, a Fermo un nigeriano cade a terra, morto. Per questo fatto tragico, viene arrestato un ragazzo locale, tale Amedeo Mancini. Chi è? Di lui si sa che frequenta la curva della Fermana, ma non risulta alcuna militanza politica. Ci sono sue foto a un banchetto di destra radicale, ma anche alla raccolta firme del M5S. Il sindaco di Fermo, ex Pd, lo conosce bene, pare sia stato un suo sostenitore. “Qualche anno fa diceva di essere comunista”, afferma il primo cittadino. Qualcuno dice di averlo visto anche in alcuni centri sociali della zona. Insomma, un profilo che ha molto della figura “paesana” e poco del militante, di qualsiasi schieramento. Ma per i media, Amedeo Mancini è di estrema destra. È un fascista, lo hanno capito subito e lo hanno scritto ovunque, forti anche della versione della vedova nigeriana, smentita dagli esami autoptici e da tutte le testimonianze. Eppure loro lo sanno: l’uomo è un fascista. E se gli fai notare le incongruenze di tale affermazione, ti rispondono che poco importano le idee o le frequentazioni, chi si comporta in un certo modo è fascista, punto.

Caso numero due, cambiamo completamente scenario. A Nizza, durante i festeggiamenti del 14 luglio, un uomo falcia la folla con un tir e fa 84 vittime. Chi è? Un tunisino, con tutta una serie di problemi personali legati all’instabilità psichica, familiare ed economica. È uno jihadista? Qui gli stessi media di prima diventano improvvisamente cauti. Non si sa, chi può dirlo. Alcuni sono pronti a giurare che l’islamismo non c’entri proprio niente e che si tratti di un classico delitto della follia, un raptus maturato in una mente disturbata. L’illusione tiene, incredibilmente, anche di fronte alle prime evidenze: l’uomo aveva il padre che era un noto estremista islamico tunisino. Aveva il pc pieno di video di attentati e decapitazioni, mentre nella rubrica del suo telefonino è stato trovato il numero di uno dei maggiori reclutatori di jihadisti in Francia, un senegalese legato ad Al Nusra. Spunta uno zio che riferisce di come suo nipote fosse stato “radicalizzato” da circa “due settimane” da un reclutatore algerino membro dell’Isis a Nizza. E all’improvviso si trovano testimoni che ricordano, ultimamente, di averlo sentito elogiare lo Stato islamico. Eppure molti giornalisti sono ancora in attesa del documento in triplice copia firmato dal Califfo con le dovute marche da bollo in cui si attesti formalmente che l’uomo è un soldato dell’Isis. Si obietta che non osservava il Ramadan, che mangiava maiale e pare facesse uso di cocaina. Ma la coerenza militante e ideologica di un soldato è cosa che riguarda i suoi ufficiali o, al limite, il suo dio, non certo gli osservatori che dovrebbero prendere atto dell’evidenza.

Insomma, il quadro è chiaro: da una parte abbiamo un atto terroristico la cui matrice è chiara, limpida, cristallina (si potrà poi discutere sul grado di spontaneismo o meno dell’azione). Eppure si fa un’enorme fatica a riconoscerlo per quello che è. Se uscisse fuori che c’è una parte di mondo che ci ha dichiarato guerra si farebbe un favore alle destre populiste e xenofobe, capite? Dall’altra ci sono altre etichette, come per esempio quella di “fascista”, che i padroni delle parole dispensano a piene mani, senza troppi riguardi, decidendo loro chi lo è e chi non lo è, anche a prescindere dalle idee dell’interessato. Perché avere un fascista in più fa molto comodo a lorsignori, mentre avere un immigrato terrorista in più è una vera tragedia. E non a causa dei morti che ha fatto.

Buonisti: i morti di Nizza sono sulla vostra coscienza! Scrive Giampaolo Rossi il 16 luglio 2016 su "Il Giornale". Basta prenderci per il culo! Questa mostruosità l’avete creata voi e ha un nome preciso: si chiama multiculturalismo, la più evidente stortura ideologica del nostro tempo. Questa bestia che si annida nel cuore dell’Europa e che esplode periodicamente con una violenza cieca e disumana rappresenta il vero fallimento di tutto ciò che potevamo essere e che non saremo per vostra responsabilità. Non è importante sapere se il “franco-tunisino” che ha ammazzato 84 persone come stesse su una pista di bowling, fosse un terrorista addestrato dall’Isis, gli amici di quei sauditi che Hollande riceve con tutti gli onori all’Eliseo e che poi tornati in patria finanziano quelli che ammazzano i francesi (tutto questo è solo la resa ignobile di una classe politica europea corrotta e imbelle). Non è importante neppure sapere se l’assassino fosse un islamico praticante o saltuario, depresso o lucido; se abbia gridato “Allah Akbar” oppure nulla; se abbia sperato fino all’ultimo di raggiungere il suo Paradiso scatenando un inferno o semplicemente abbia regalato il suo inferno all’eternità. Quello che è importante è riconoscere la verità che voi continuerete a negare; e cioè che anche lui era figlio di quel pezzo di Europa che odia l’Europa; di quell’esperimento folle e suicida che la vostra ottusità ha prodotto. Siete voi che avete generato tutto questo: politici di sinistra, intellettuali ipocriti, giornalisti bugiardi e preti sconfessati. Questi mostri li avete creati voi con il vostro buonismo irreale, con i vostri gessetti colorati, con il vostro mito dell’accoglienza; voi che avete confuso l’uguaglianza dei diritti con la dittatura di un egualitarismo astratto. Voi che negate l’identità europea perché non avete il coraggio di difenderla: vigliacchi e stolti. Siete voi che continuate a non vedere che loro odiano ciò che noi siamo: odiano la nostra libertà, il nostro senso della vita, la nostra idea di uomo e di donna. Odiano i nostri diritti e la nostra cultura. Siete voi i responsabili di questa paura che ora viaggia nel cuore dell’Europa; voi che avete permesso le banlieue a Parigi, i “quartieri della sharia” in Belgio e Olanda (dove scuole e moschee sono finanziate dall’integralismo salafita), i tribunali islamici in Germania e Gran Bretagna, Husby e i laboratori di orrore sociale a Stoccolma dove travestite da integrazione ghetti di emarginazione. Siete voi che continuate a non leggere le ricerche che raccontano che il 30% dei giovani musulmani francesi tifa Isis, e che quasi la metà dei turchi tedeschi preferisce rispettare la legge islamica a quella vigente in Germania. Questi mostri li avete creati voi, tecnocrati di Bruxelles che state distruggendo le identità sovrane e nazionali per costruire un assurdo melting pot dove, da veri razzisti, pianificate i progetti di migrazione sostitutiva che trasformeranno l’Europa in Eurabia molto prima di quanto immaginasse Oriana Fallaci. Questi mostri li avete creati voi guerrafondai, con le vostre bombe umanitarie e le guerre illuminate; voi che avete pianificato il caos Mediorientale, che avete benedetto il disastro in Libia, quello in Siria che hanno aperto la strada all’esodo di disperati (pochi) e furbi (tanti) che si riversano nei nostri paesi e al dilagare dell’islamismo; voi che avete alimentato le primavere arabe che a loro volta hanno alimentato il terrorismo; voi che dite di combattere l’Isis e Al Qaeda e poi li finanziate e li addestrate per i vostri disegni strategici. Dai, forza buonisti, ora regalateci ancora un po’ del vostro sdegno. Continuate a scandalizzarvi e a bollarci come demagoghi, xenofobi e oscurantisti; scatenate i vostri giullari di corte sui giornali e in tv. Concedete ai menestrelli stonati di continuare a raccontare la favola del multiculturalismo, magari con i soldi pubblici della Rai e al solito Gad Lerner. Troverete ancora qualcuno che vi darà retta sperando che il mondo irreale della vostra ipocrisia non getti definitivamente l’Europa nel baratro. Ma questi morti sono sulla vostra coscienza. Fatemi capire.

La Boldrini vuole punire chi parla male dell'islam. La presidente della Camera insiste sul reato di "islamofobia" per censurare le critiche sulla religione di Allah. Ma si dimentica dei cristiani perseguitati, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale. La minaccia principale alla nostra civiltà laica e liberale risiede nel divieto assoluto di criticare e di condannare l'islam come religione, perché i suoi contenuti sono in totale contrasto con le leggi dello Stato, le regole della civile convivenza, i valori non negoziabili della sacralità della vita, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà di scelta. Mentre il terrorismo islamico dei tagliagole, coloro che sgozzano, decapitano, massacrano e si fanno esplodere, noi lo sconfiggeremo sui campi di battaglia dentro e fuori di casa nostra, di fatto ci siamo già arresi al terrorismo islamico dei «taglialingue», coloro che sono riusciti a imporci la legittimazione dell'islam a prescindere dai suoi contenuti ed ora sono mobilitati per codificare il reato di «islamofobia», un'autocensura nei confronti dell'islam. Le Nazioni Unite, l'Unione Europea e il Consiglio d'Europa hanno già accreditato, sul piano politico, il reato di islamofobia, assecondando la strategia dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Ebbene ora in Italia il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha fatto un ulteriore passo in avanti finalizzato a codificare per legge il reato di islamofobia, che comporterà sanzioni penali e civili per chiunque criticherà e condannerà l'islam come religione. È ciò che emerge dall'iniziativa della Boldrini di dar vita alla Commissione di studio sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, nelle varie forme che possono assumere, xenofobia, antisemitismo, islamofobia, antigitanismo, sessismo, omofobia. Secondo la Boldrini sarebbero nuove forme di razzismo, che si manifestano soprattutto nella rete, catalogate in inglese come «hate speech», da intendersi come «incitazione all'odio». È singolare che siamo in un'Italia e in un'Europa dove chiunque può dire di tutto e di più sul cristianesimo, su Gesù, sulla Chiesa e sul Papa, senza che succeda nulla perché viene ascritto alla libertà d'espressione, mentre ci siamo auto imposti di non dire nulla sull'islam, su Allah, su Maometto e sul Corano perché urta la suscettibilità dei musulmani, perché abbiamo paura della loro reazione violenta che si ritorce indiscriminatamente contro tutti i cristiani nel mondo. A proposito, dal momento che i cristiani sono in assoluto i più perseguitati al mondo per la loro fede, perché mai tra le categorie che sostanzierebbero il reato di «incitazione all'odio» non compare la «cristianofobia»? L'errore fondamentale che viene commesso è di sovrapporre la dimensione della persona con quella della religione, ritenendo che per rispettare i musulmani come persone si debba automaticamente e acriticamente legittimare l'islam come religione. Noi invece dobbiamo rispettare i musulmani come persone, ma al tempo stesso dobbiamo usare la ragione per entrare nel merito dei contenuti di una religione e poter esprimere in libertà la verità sull'islam. La Boldrini, la terza carica dello Stato che dovrebbe lealtà e fedeltà all'Italia, si esibisce in pubblico con al petto una spilletta su cui c'è scritto «Stati Uniti d'Europa», una entità inesistente ma che si tradurrebbe nella scomparsa dell'Italia come Stato sovrano e indipendente, così come promuove l'invasione di milioni di clandestini musulmani che a suo avviso rigenererebbero la vita e la civiltà dell'Italia. In questo contesto il reato di islamofobia si rivelerebbe il colpo di grazia all'Italia e agli italiani.

Le bugie di Fermo e il razzismo degli anti-razzisti contro la verità, scrive Salvatore Tramontano, Venerdì 15/07/2016, su "Il Giornale". E ora Boldrini e Boschi cosa fate? Se si guarda solo il colore si perdono di vista i fatti. Questo vale per il sesso, il genere, la lingua, la nazionalità, il reddito, perfino la religione. Non è razzismo. È il contrario. Quando un uomo uccide un uomo il colore della pelle non può essere l'unica variabile. Altrimenti si finisce davvero per peccare di razzismo, anche senza volerlo. Oppure la morte di una persona si sfrutta come strumento politico. Nella brutta e drammatica storia di Fermo sappiamo che ci sono una vittima e un assassino. Quello che bisogna valutare e raccontare con onestà sono i fatti. Per capire. Amedeo Mancini si è comportato da razzista. Ha insultato un uomo e quell'uomo ha reagito. Su questo non ci sono dubbi. Emmanuel era con sua moglie e probabilmente si è spaventato. Ha preso un cartello stradale e ha aggredito Mancini. Anche su questo ormai non ci sono dubbi. Solo che a lungo si è faticato a credere a questa versione, nonostante ci fossero sei testimoni. Qui entrano in gioco la politica e l'ideologia e una sorta di razzismo involontario o antirazzismo strumentale. Ci sono sospese ancora le parole di Laura Boldrini e Maria Elena Boschi. La prima testimone mente. È inattendibile. E anche gli altri cinque nascondono (...) (...) qualcosa. Questo perché conta più il colore della pelle di chi parla che la verità. Non per bontà, ma per vantaggio politico. Ma non è così che si sta dalla parte dei deboli e dei discriminati, perché se si mente o si preferisce non vedere per antirazzismo si finisce col fare il gioco dei razzisti. Si creano alibi e invece in storie maledette come questa nessuno deve averne, di alibi. Non è infatti in discussione la colpevolezza di Mancini, ma perfino lui ha il diritto processuale alle attenuanti. Non si contrastano le discriminazioni razziali cancellando il diritto, compreso quello alla difesa. Ora la moglie di Emmanuel, Chinyere, ha ammesso di essersi spiegata male. È vero, il marito ha reagito alle accuse disgustose con rabbia, aggredendo con un'asta di ferro. I testimoni avevano detto il vero. È bene subito dire che la precisazione di Chinyere non è un alibi per Mancini. Ma quello che deve far riflettere è la facilità con cui il politicamente corretto cancella ogni dubbio se deve scegliere tra un nero e un bianco. E questo danneggia soprattutto i neri. Perché comunque è una discriminazione. Quello che conta è l'uomo, l'uomo ucciso, non il suo colore. Boldrini e Boschi hanno voluto credere alla versione della vedova, sbugiardando i testimoni solo perché non rientravano nella narrazione che strappa applausi al loro elettorato. Applausi sulla morte. Tutta questa retorica purtroppo puzza di opportunismo e finisce per rendere poco credibili le battaglie di libertà di chi davvero si batte contro il razzismo, con i fatti, non con la retorica. Non c'è bisogno di caricare una storia già eloquente. In Italia c'è un razzismo di offese, di ignoranza, da bar e di cori da stadio. Emmanuel è stato offeso da un razzista, ma la sua morte non è un pestaggio. C'è una dose di fatalità, che non assolve affatto Mancini, ma di cui non si può non tener conto. Ma c'è da spazzare via anche tutto l'apparato ideologico che ha voluto trasformare una brutta storia in una fotografia dell'Italia razzista. Razzista sì, ma in questo caso nei confronti della verità.

Maometto vs Gesù. Riflessioni di Jerry Rassamni. La differenza tra Gesù, quindi il Cristianesimo, e Maometto, quindi l'Islam.

Nessuna profezia preannunciò la venuta di Maometto. Numerose e precise e antiche profezie si sono avverate con la nascita di Gesù.

Il concepimento di Maometto fu umano e naturale. Gesù fu concepito in modo soprannaturale e nacque da una vergine.

Numerose rivelazioni di Maometto servivano a soddisfare i suoi interessi personali, come ad esempio la legalizzazione del matrimonio con la sua nuora. Le rivelazioni e la vita di Gesù erano «sacrificali», come la sua crocifissione per i peccati del mondo.

Maometto non ha fatto alcun miracolo. Gesù ha guarito lebbrosi, dato la vista ai ciechi, camminato sulle acque, risuscitato i morti.

Maometto ha instaurato un regno terreno. Gesù ha detto «il mio regno non è di questo mondo».

Maometto ha ammesso che le sue più grandi passioni erano le donne, gli aromi e il cibo. La passione principale di Gesù era di glorificare il nome del suo Padre celeste.

Maometto era un re terreno che accumulava ricchezze, divenendo il più ricco possidente in Arabia. Gesù non aveva un posto dove appoggiare il suo capo.

La vita di Maometto era contrassegnata dalla spada. La vita di Gesù era contrassegnata da misericordia e amore.

Maometto incitava alla jihad, la guerra santa. Gesù ha detto che «coloro che feriscono di spada, periscono di spada». Uno dei suoi titoli è «Principe della pace».

Se una carovana era debole, Maometto l’attaccava, la saccheggiava e la massacrava; se era forte, fuggiva. Gesù disse: «Splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli.» «Amate i vostri nemici e benedite coloro che vi odiano.»

Maometto fece lapidare un’adultera. Gesù perdonò un’adultera.

Maometto sposò quattordici donne, compresa una bambina di sette anni. Gesù non ebbe relazioni sessuali.

Maometto riconosceva di essere un peccatore. Gesù fu senza peccato, perfino secondo il Corano.

Maometto non predisse la sua morte. Gesù predisse esattamente la sua crocifissione, morte e risurrezione.

Maometto non nominò né istruì un successore. Gesù nominò, istruì e Gesù nominò, istruì e preparò i suoi successori.

Maometto era così incerto riguardo alla sua salvezza che pregava settanta volte al giorno per ricevere perdono. Gesù era l’essenza della salvezza, egli disse: «Io sono la via, la verità e la vita! Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.»

Maometto massacrò i suoi nemici. Gesù perdonò i suoi nemici.

Maometto morì e le sue spoglie sono sepolte sulla Terra. Gesù risuscitò dai morti e salì al Cielo!

Il multiculturalismo imperante esige che si eviti di fare qualsiasi associazione tra terrorismo e fondamentalismo islamico, malgrado siano gli stessi terroristi a invocare il Corano. Abbiamo visto le assurde – e anche ridicole – conseguenze di questa censura “politicamente corretta” nella notizia pubblicata il 19 febbraio. Ora, ha ben ragione Benedetto XVI a insistere sul fatto che non è lecito uccidere in nome di Dio e che Dio non può volere la violenza, ma l’insistenza – che ha assunto il tono di una sfida alla ragione – si spiega proprio con il fatto che, in campo islamico, c’è chi teorizza il contrario. Sarebbe anche sbagliata un’equazione del tipo islam=terrorismo o islam=violenza, però allo stesso modo non si possono negare certi fenomeni inquietanti, che ripropongono la domanda sulle radici della violenza fondamentalista. Uno spunto originale ce lo offre il lavoro di William J. Federer, uno studioso americano esperto di rapporti tra religione e società, il cui ultimo libro esamina il rapporto tra islam e Stati Uniti. In un articolo scritto per WorldDailyNet, Federer smentisce sia gli apologeti islamici che accusano anche i cristiani di aver commesso violenze nella loro storia, sia i laicisti che credono sia la religione la prima causa della violenza – dimenticando gli stermini “atei” della Rivoluzione Francese, dello stalinismo, del maoismo -. Lo fa mettendo a confronto la vita e gli insegnamenti di Gesù con la vita e gli insegnamenti di Maometto: i quattro vangeli sono la fonte usata per Gesù, mentre per Maometto usa il Corano, l’Hadith (le storie sul Profeta trasmesse oralmente e poi raccolte dal califfo Omar II nell'VIII secolo) e il Sirat Rasul Allah (La vita del Profeta di Allah), anche questo scritto nell'VIII secolo. Il confronto tra le due figure, ben dettagliato da Federer e che potete leggere nell’articolo integrale, non necessita di alcun commento. Citiamo solo alcuni punti:

– Gesù è stato un leader religioso.

– Maometto è stato un leader religioso e militare.

– Gesù non ha mai ucciso nessuno.

– Maometto si stima abbia ucciso 3mila persone, compresi 700 ebrei a Medina nel 627.

– Gesù non ha mai posseduto schiavi.

– Maometto ne riceveva un quinto dei prigionieri catturati in battaglia, comprese le donne (Sura 8,41).

– Gesù non ha mai forzato i suoi discepoli a continuare a credere in Lui.

– Maometto ha forzato i suoi discepoli a continuare a credere in lui (pena la morte).

– Gesù ha insegnato a perdonare le offese ricevute.

– Maometto ha insegnato a vendicare le offese contro l’onore, la famiglia o la religione.

– Gesù non ha mai torturato nessuno.

– Maometto ha torturato il capo di una tribù ebrea.

– Gesù non ha vendicato la violenza contro di lui, affermando addirittura “Padre, perdona loro” (Lc 23,24).

– Maometto ha vendicato le violenze contro di lui ordinando la morte dei suoi nemici.

– Per cristiani ed ebrei martire è colui che muore per la propria fede.

– Per l’islam martire è chi muore per la propria fede mentre combatte (e uccide) gli infedeli.

– Nessuno dei discepoli di Gesù ha mai guidato eserciti.

– Tutti i califfi discepoli di Maometto sono stati anche generali.

– Nei primi 300 anni di cristianesimo ci sono state 10 importanti persecuzioni contro i cristiani (senza che ci fossero resistenze armate).

– Nei primi 300 anni di islam, gli eserciti islamici hanno conquistato Arabia, Persia, la Terra Santa, Nord Africa, Africa centrale, Spagna, Francia meridionale e vaste aree di Asia minore e Asia.

“Morendo, Gesù lascia quattro chiodi, Maometto sette spade”. Victor-Marie Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885). Sulla base di questa citazione mettiamo a confronto i principali personaggi delle due più diffuse religioni al mondo, troppo spesso equiparati ma mai per ragioni di verbo.

“Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” – Matteo 5,44

“Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce” – Corano VIII, 60

Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno vi perquote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra”. – Matteo 5,39

“Non combatterete contro gente che ha violato i giuramenti e cercato di scacciare il Messaggero? Sono loro che vi hanno attaccato per primi”. – Corano IX, 13

“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” – Matteo 5,11-12

“Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio” – Corano II, 191

“Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avra ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con ii proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.” – Matteo 5,21-22

“Quando [in combattimento] incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine. Questo è [l'ordine di Allah]. Se Allah avesse voluto, li avrebbe sconfitti, ma ha voluto mettervi alla prova, gli uni contro gli altri. E farà sì che non vadano perdute le opere di coloro che saranno stati uccisi sulla via di Allah.” – Corano XLVII, 4

“Nessuno è buono, se non Dio solo.” – Marco 10,18

“I giudei dicono: ‘La mano di Allah si è incatenata!’. Siano incatenate le mani loro e siano maledetti per quel che hanno detto. Le Sue mani sono invece ben aperte: Egli dà a chi vuole.” – Corano V, 64

“Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna e stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più.” – Giovanni 8,3-11

“Una donna di Ghamid si reco da lui (il Santo Profeta [Maometto]) e disse: “Messaggero di Allah, purificami poiché ho commesso adulterio”. Egli (il Santo Profeta) la mandò via. Il giorno seguente ella disse: Messaggero di Allah, perche ml scacci? […] In nome di Allah, sono rimasta incinta”. Egli disse: “Bene, se proprio insisti, allora vattene e non tornare prima di avere dato alla luce il bambino”. Dopo avere partorito la donna tornò con il neonato avvolto in un pezzo di stoffa e disse: “Questo e il figlio che ho dato alla luce”. E Maometto: “Vattene e allattalo fin quando non l’avrai svezzato”. Una volta svezzato il bambino, ella tornò da lui […] e disse: “Apostolo di Allah, ecco mio figlio. L’ho svezzato e ora è in grado di mangiare”. A quel punto il Santo Profeta affidò il bambino a uno dei musulmani e pronunciò la condanna. La donna fu messa in una fossa che le arrivava al petto e Maometto ordinò al suoi uomini di lapidarla. Halid ‘Ibn Walid si fece avanti e le tiro una pietra sulla testa. Il sangue schizzo sul volto di Halid cd egli allora abusò di lei. L’apostolo di Allah sentì la maledizione scagliata su di lei da Halid e disse: “Halid, sii gentile. In nome di Colui che ha nelle Sue Mani la mia vita, il pentimento di questa donna è tale che sarebbe stata perdonata persino se fosse un esattore della tasse disonesto”. Date quindi istruzioni su cosa fare di lei, si mise a pregare e la donna venne seppellita.” Hadith – Sahih Muslim, vol. 3, libro 17, n. 4206

“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna.” – Giovanni 3,16

“Allah ha comprato dai credenti le loro persone e i loro beni [dando] in cambio il Giardino, [poiché] combattono sul sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi. Promessa autentica per Lui vincolante.” – Corano IX, 111

“Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno.” – Matteo 26,52

“Sappiate che il Paradiso è all’ombra delle spade (jihad in nome di Allah).” – Hadith – al-Bukari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 4, libro 56, n. 2818

“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perche saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.” – Matteo 5,8-10

“Coiui che partecipi (alle guerre sante) in nome di Allah, e che non lo faccia per nessun’altra ragione che non sia la fede in Allah e nei suoi messaggeri, sarà ricompensato da Allah o con un ricco bottino (qualora sopravviva) o con l’ingresso in Paradiso (nel caso muoia da martire in battaglia).” – Hadith – Al-Bukhari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 1, libro 2, n. 36.

“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. […] Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” – Matteo 5,7; 46-47

“Maometto è il Messaggero di Allah e quanti sono con lui sono duri con i miscredenti e compassionevoli fra loro.” – Corano XLVIII, 29

Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio.” – Giovanni 16,2

“Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati.” – Corano IX, 29

“Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” – Marco 13,13

“Avete avuto un bell’esempio in Abramo e in coloro che erano con lui, quando dissero alla loro gente: “Noi ci dissociamo da voi e da quel che adorate all’infuori di Allah: vi rinneghiamo. Tra noi e voi è sorta inimicizia e odio [che continueranno] ininterrotti, finché non crederete in Allah” – Corano LX, 4

“Allora quelli che eran con lui, vedendo cio che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate, basta così!”. E toccandogli l’orecchio, lo guarì.” – Luca 22,49-51

“Secondo ‘Abù Qilaba, Anan disse: “Alcuni uomini di ‘Ukl e di ‘Uraina vennero a Medina, ma poiché il clima della regione non si confaceva loro essi si ammalarono. Allora uccisero il pastore che accudiva le bestie del Profeta e portarono via tutti i cammelli. Quando al mattino presto la notizia giunse alle orecchie di Maometto egli ordinò ai suoi [uomini] di inseguire i ladri, che a mezzogiorno erano già stati catturati e riportati indietro. Allora il Profeta diede disposizioni di amputare loro le mani e i piedi (e questo fu fatto). Quindi gli vennero bruciati gli occhi con dei pezzi di ferro incandescente. Dopodiché furono portati ad Al-Harra e quando chiesero dell’acqua non gli venne concessa”. ‘Abu Qilaba aggiunse: “Questi uomini rubarono, uccisero, tornarono a essere infedeli dopo avere abbracciato l’lslam e si opposero al volere di Allah e del Suo Messaggero”.  – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. vol. 1, libro 4, n. 234

“Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto.” – Giovanni 18,36

“Ho ricevuto (da Allah) l’ordine di combattere contro gli infedeli finché non testimonieranno che non vi è altro dio al di fuori di Allah e che Maometto è il Suo Messaggero.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. Vol. 1, libro 2, n. 25

Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.” – Luca 6,35

“I credenti non si alleino con i miscredenti, preferendoli ai fedeli. Chi fa ciò contraddice la religione di Allah, a meno che temiate qualche male da parte loro. Allah vi mette in guardia nei loro confronti.” – Corano III, 28

“Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi”. – Matteo 10,14

“Chiunque lasci il credo islamico per convertirsi a un’altra religione merita la morte.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 4, libro 52, n. 260.

“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro [tutti gli uomini]: questa infatti è la Legge ed i Profeti.” – Matteo 7, 12

“Nessuno di voi avrà fede finché non farà per il suo fratello (musulmano) ciò che fa per se stesso.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 1, libro 2, n. 13 

Nostradamus: “La Guerra inizierà in Francia e poi tutta l’Europa sarà colpita, Italia compresa”. Nostradamus, veggente e visionario, nel suo libro pubblicato nel 1555 “Le Profezie” ha predetto tantissimi eventi che sono avvenuti nei secoli successivi come l’avvento di Adolph Hitler, la Rivoluzione Francese, la bomba atomica, gli attacchi del 11 Settembre 2001 ed una terza guerra mondiale. E anche quello che è accaduto in questi giorni in Francia e nel mondo sarebbe determinante per grandi sconvolgimenti in arrivo. Secondo molti esegeti, ovvero coloro che hanno interpretato e cercato di comprendere il messaggio criptico contenuto nelle quartine e sestine del famoso profeta, gli avvenimenti descritti nel libro arrivano fino al 2025 dove un nuovo mondo di pace sorgerà dalle ceneri della distruzione del mondo come lo conosciamo oggi. Nel libro ci sono almeno 20 profezie che parlano dell’invasione araba dell’Europa (Italia compresa) e dell’Occidente con la distruzione di Parigi, Roma e altre città. Vediamone alcune che sono molto chiare: “LA GRANDE GUERRA INIZIERÀ IN FRANCIA E POI TUTTA L’EUROPA SARÀ COLPITA, LUNGA E TERRIBILE ESSA SARÀ PER TUTTI….POI FINALMENTE VERRÀ LA PACE MA IN POCHI NE POTRANNO GODERE“. “PER LA DISCORDE NEGLIGENZA FRANCESE SARÀ APERTO PASSAGGIO A MAOMETTO: DI SANGUE INTRISO LA TERRA ED IL MARE, IL PORTO DI MARSIGLIA DI VELE E NAVI COPERTO.” Secondo il profeta la tendenza a favorire a tutti i costi l’Islam rinunciando alle tradizioni è stato determinante per l’attacco arabo alla nostra cultura. Poiché la Francia è la nazione dove questo è avvenuto di più sarebbe il luogo dove inizierebbe la terza guerra mondiale. Ma la preoccupazione cresce se si considera anche cosa abbia scritto di Roma: CI SARANNO TANTI CAVALLI DEI COSACCHI CHE BERRANNO NELLE FONTANE DI ROMA […] CHE SPARIRÀ E IL FUOCO CADRÀ DAL CIELO E DISTRUGGERÀ TRE CITTÀ. E in questo caso, in relazione a una profezia retroattiva, si potrebbe pensare al racconto dei sopravvissuti del Bataclan, prima i colpi come se facessero parte della scenografia, poi le parole pronunciate dai terroristi. Nostradamus ha sempre affermato di basare le proprie profezie sull’astrologia giudiziaria, ma fu duramente criticato dagli astrologi dell’epoca, considerandolo incompetente in materia. Gli studi recenti hanno rilevato come egli stendesse la parafrasi di elementi escatologici derivati dalla Bibbia, integrandoli con fatti storici e testi antologici in cui erano raccontati presagi e predizioni. Si pensi per esempio al finale della città di Roma, con l’avvento della terza guerra mondiale: ROMA PERDERÀ LA FEDE E DIVENTERÀ IL SEGGIO DELL’ANTICRISTO […] I DEMONI DELL’ARIA, CON L’ANTICRISTO, FARANNO DEI GRANDI PRODIGI SULLA TERRA E NELL’ARIA E GLI UOMINI SI PERVERTIRANNO SEMPRE DI PIÙ. Un destino per la città eterna che non si addice al suo nome, in considerazione anche delle minacce dell’Isis, annoverata come prossimo bersaglio, generando non poche polemiche sull’eventualità della cancellazione del Giubileo. Il Papa però non ha intenzione di fare marcia indietro. Prepariamoci quindi alle prossime profezie, presenti fino al 3797, considerando anche che alcune predizioni non si sono avverate. Fonte: AttivoTV

L'islam vuole sostituirsi al cristianesimo. Radio Maria lancia il monito "L'islam punta a farci fuori". Padre Fanzaga sulla strage di Nizza: "Pericolo grave: più che politico è un problema soprattutto religioso", scrive Fabio Marchese Ragona, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Non usa mezzi termini e non sembra avere alcun dubbio Padre Livio Fanzaga, storico direttore di Radio Maria, finito spesso al centro delle polemiche per le sue esternazioni radiofoniche da molti considerate troppo «spinte» per un uomo di Chiesa. Contro ogni coro islamofilo, il religioso bergamasco questa volta ha affidato i suoi pensieri senza filtri a un breve messaggio scritto sul sito web della radio cattolica: parlando della recente strage di Nizza, il padre scolopio ha infatti detto: «È doveroso chiedersi che cosa i musulmani pensino di noi e della religione cristiana; l'obbiettivo dell'islam di qualsiasi tendenza è quello di sostituirsi al cristianesimo e ad ogni altra espressione religiosa. I mezzi per farlo dipendono dalle circostanze storiche». Un messaggio chiaro, un sasso lanciato nello stagno che apre di certo un dibattito sulla questione islam, considerato anche che a pronunciare queste parole non è stato un sacerdote sconosciuto nel corso di un'omelia in una chiesetta di campagna, ma l'ormai celebre Padre Livio, seguito ogni giorno da milioni di ascoltatori e di cybernauti che visitano il suo sito. «Il terrorismo di matrice islamica - scrive Don Fanzaga - rappresenta uno dei pericoli più gravi che incombono sulla nostra società. Il problema non è soltanto politico, ma anche e soprattutto religioso. Non vi è dubbio che la grande maggioranza di musulmani che vive in Occidente sia gente che vuole fare una vita tranquilla, ma l'obiettivo dell'Islam è di sostituirsi al cristianesimo». A sostegno di queste parole, il religioso ha pubblicato a seguire un breve estratto del suo volume «Non praevalebunt. Manuale di resistenza cristiana», in cui il direttore di Radio Maria, riporta alla luce una vecchia pubblicazione di Stefano Nitoglia secondo cui, nonostante le differenze tra Islam moderato, radicale e di matrice terrorista, i fini appaiono sempre gli stessi: «La soggezione di tutto il mondo all'islam, considerato il sigillo e il compimento di tutte le rivelazioni, con il mondo (secondo la dottrina classica dell'islam, accettata da tutti i musulmani) suddiviso in due parti, il territorio dell'islam, dove vige la legge dell'islam e il territorio di guerra dove sono gli infedeli. Quest'ultimo territorio dev'essere conquistato e assoggettato all'Islam». Parole che Padre Livio ha fatto sue, ritenendo peraltro inutile un ipotetico dialogo interreligioso con l'Islam in cui i cristiani proporrebbero la visione della fede cristiana ai musulmani «perché per essi il cristianesimo è quello che viene interpretato dal Corano e nessun argomento umano potrebbe cambiare quella che per loro è una rivelazione divina». Una posizione, quella espressa da don Fanzaga, secondo cui l'islam vuole sostituirsi al cristianesimo, in netto contrasto con quella ufficiale del Vaticano, con il cammino intrapreso da Papa Francesco, impegnato sin dall'inizio del suo pontificato in un dialogo con l'islam sunnita e con quello sciita, convinto che «con i musulmani si può convivere». Proprio qualche giorno fa, ad esempio, uno stretto collaboratore del Papa, il vescovo spagnolo Miguel Angel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ed esperto di Islam, è volato al Cairo per un incontro all'Università di Al-Azhar, uno dei maggiori centri d'insegnamento dell'Islam sunnita, retto dalla guida suprema, lo sceicco Muhammad Ahmad al-Tayyib. Nell'incontro, l'inviato papale ha discusso i termini e le modalità per un prossimo incontro che «segna la ripresa del dialogo tra Santa Sede e Al-Azhar per rafforzare i legami tra cristiani e musulmani». Nonostante ciò, Radio Maria e il suo direttore rimangono di un altro avviso: l'islam è un pericolo per i cristiani e in un altro editoriale intitolato «La donna e il drago» pubblicato qualche giorno fa, Fanzaga, parlando di terrorismo islamico ha ribadito: «Per quanto gli Stati si diano da fare, difficilmente verranno a capo di questo scatenamento infernale dell'impero delle tenebre. Per uscire vincitori di questo tremendo passaggio storico non bastano i mezzi umani, per quanto necessari».

La legittimità delle Crociate, un atto di difesa, scrive Massimo Viglione il 23 novembre 2015. Dal VII all’XI secolo l’Islam ha sistematicamente attaccato e invaso manu militari gran parte delle terre di quello che era l’Impero Romano d’Occidente (premendo nel contempo senza sosta alle porte di quello d’Oriente), conquistando gran parte del Medio Oriente, l’Africa del Nord, la Penisola Iberica, tentando di varcare i Pirenei, poi occupando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, risalendo con scorrerie fino a Lione e poi in Svizzera e alle Alpi, ponendo delle enclave fisse vicino Roma (le basiliche di San Pietro e San Paolo e l’abbazia di Montecassino furono distrutte), ma soprattutto terrorizzando per secoli le popolazioni cristiane mediterranee, specialmente quelle italiane. Quattro secoli di invasioni militari (massacri di uomini, deportazioni di donne negli harem, conversione forzata dei bambini) e razzie, di cui nessuno mai potrà fare il calcolo non tanto dei danni materiali, quanto del numero dei massacrati e del dolore immenso causato a intere generazioni di cristiani, senza che questi potessero in alcun modo contrattaccare. Gli stessi pellegrini che andavano in Terra Santa venivano spesso massacrati, specie a partire dall’XI secolo, con l’arrivo del dominio dei turchi selgiuchidi. Tutto quanto detto deve essere tenuto presente prima di emettere qualsivoglia giudizio storico e morale sulla crociate: non si può infatti presentare i crociati come una “banda di matti fanatici” e ladri che calò improvvisamente in Palestina per rubare tutto a tutti e uccidere i poveri musulmani indifesi. Ciò è solo ridicolo, evidentemente sostenuto da chi non cerca la verità storica ma è mosso solo dal suo odio anticristiano (o dalla sua simpatia filoislamica). Come sempre ufficialmente dichiarato dalla Chiesa tramite la voce dei Papi e dai teorici del movimento crociato (fra questi, san Bernardo di Chiaravalle) e dai teologi medievali (fra gli altri, san Tommaso d’Aquino e anche santa Caterina da Siena), lo scopo e la legittimità delle crociate risiedono nei seguenti princìpi fondamentali:

Il diritto/dovere assoluto della Cristianità a rientrare in possesso dei Luoghi Santi;

La difesa dei pellegrini (e a tal fine nacquero gli Ordini monastico-cavallereschi);

La legittima difesa dai secolari assalti della Jahad islamica.

Come si può notare, tutti e tre i princìpi indicati si fondano pienamente sul diritto naturale: quello del recupero della legittima proprietà privata lesa, quella della difesa del più debole dalla violenza ingiustificata, quello della legittima difesa da un nemico ingiustamente invasore. È interessante notare a riguardo che le fonti islamiche sulle crociate, pur accusando i crociati di atti barbarici e stragisti di ogni genere, mai mettono però idealmente in dubbio il loro diritto alla riconquista dei Luoghi della Redenzione di Cristo. Da conquistatori, essi sanno che il diritto del più forte, su cui essi si fondano, prevede anche il contrattacco. A questi tre princìpi poi, santa Caterina da Siena ne aggiunge un altro: il doveroso tentativo di conversione degli infedeli alla vera Fede, per la loro salvezza eterna, bene supremo di ogni uomo. Per necessaria completezza, occorre tener presente poi che il movimento crociato non si esaurì nell’ambito dei due secoli (1096-1291) in cui avvennero la conquista e la perdita della Terra Santa da parte cristiana (crociate tradizionali); infatti, a partire dal XIV secolo, e fino agli inizi del XVIII, con l’avanzata inarrestabile dei turchi ottomani, di crociate se ne dovettero fare in continuazione; questa volta però non per riprendere i Luoghi Santi, ma per difendere l’Europa stessa (l’Impero Romano d’Oriente cadde in mano islamica nel 1453) dalla conquista musulmana. I soli nomi di Cipro, Malta, Lepanto, Vienna (ancora nel 1683) ci dicono quale immane tragedia per secoli si è consumata anche dopo le stesse crociate “tradizionali” e ci testimoniano un fatto incontrovertibile e di importanza capitale: per quattro secoli prima e per altri quattro secoli dopo le crociate “tradizionali”, il mondo cristiano è stato messo sotto attacco militare dall’Islam (prima arabo, poi turco), subendo quella che può definirsi la più grande e lunga guerra d’assalto mai condotta nella storia, in obbedienza ai dettami della Jihad (Guerra Santa) voluta e iniziata da Maometto stesso. Mille anni di guerre. Per questo, occorre essere sereni, preparati e giusti nei giudizi. Le crociate furono insomma anzitutto guerre di legittima difesa e di riconquista di quanto illegittimamente preso da un nemico invasore. Pertanto, ebbero piena legittimità storica e ideale (ciò non giustifica, ovviamente, tutte le violenze gratuite commesse da parte cristiana nel corso dei secoli). Ancor più ciò è valido a partire dal XIV secolo, quando l’unico scopo del movimento crociato divenne la difesa della Cristianità intera aggredita dai turchi.

Con la Rivoluzione Francese abbiamo diviso lo Stato dalla Chiesa e questi ci vogliono imporre un nuovo tipo di regime teocratico ideologico?

Antonio Socci su “Libero Quotidiano” del 3 settembre 2016: "Il Papa, l'islam e migranti. Dopo secoli, così fa a pezzi la Chiesa". Proprio nelle stesse ore in cui il Viminale dava notizia di una nuova ondata migratoria all' assalto dell' Italia (oltre 13 mila in soli quattro giorni: siamo già arrivati a 145 mila migranti ospitati, quando in tutto il 2015 erano stati 103 mila), proprio nelle stesse ore - dicevo - Papa Bergoglio ha varato un nuovo dicastero sociale prendendo lui stesso - in persona - la responsabilità della sezione migranti per potenziare al massimo le sue pressioni per l' abbattimento delle frontiere d' Europa. Ormai quello dell'emigrazione, per lui, è qualcosa più di un'ossessione: è un dogma ideologico con cui sta sostituendo i bimillenari pilastri della Chiesa Cattolica. Non lo sfiora l'idea che l'emigrazione, in sé, sia una tragedia che dovrebbe essere scongiurata (sia per i paesi d' origine, sia per chi parte, sia per i paesi d' arrivo). Così come lo lascia indifferente la crisi del nostro stato sociale che ormai non riesce più a sostenere nemmeno le fasce indigenti della popolazione italiana. È indifferente pure all' enorme problema rappresentato dall' immigrazione musulmana in Europa che risulta non assimilabile ai nostri valori e a volte permeabile alla predicazione violenta o terroristica. La propaganda bergogliana per una immigrazione indiscriminata iniziò nel luglio 2013 con il viaggio a Lampedusa (che è stato preso come un invito a salpare dalle coste africane) ed è stata particolarmente devastante per l'Italia. L' ultimo numero di Limes dedicato proprio all' emigrazione, rileva la novità del 2016: «da Paese di transito siamo diventati Paese obiettivo». La rivista di geopolitica aggiunge: «L' Italia sta cambiando pelle» e «immaginare che mutamenti tanto profondi possano impattare sull' Italia senza produrvi strappi, a tessuto sociale e politico-istituzionale costante, implica l'uso di sostanze stupefacenti. Eppure proprio questa sembra la postura della nostra classe dirigente». L'asse con la sinistra - Purtroppo l'asse Bergoglio-Sinistra porta non solo a sottovalutare il problema, ma, peggio, a considerarlo positivo. A marzo scorso Bergoglio ha apertamente ammesso che è in atto una «invasione araba», ma che non è di per sé una cosa negativa. Del resto ha anche giustificato ed elogiato l'Islam in tutti i modi, assestando invece sui cattolici (e sull' Occidente) una gragnuola continua di accuse. Bergoglio sembra perseguire un progetto nichilista di distruzione delle identità dei popoli e della Chiesa stessa, nella quale assistiamo da tre anni a un radicale ribaltamento di direzione. Fino a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI - in continuità con duemila anni di tradizione cattolica - la missione fondamentale è stata spirituale (la salvezza eterna), al centro delle preoccupazioni e del lavoro della Chiesa c' è stata l'evangelizzazione (per far fronte alla scristianizzazione di interi popoli) e la difesa della vita e della famiglia, come fondamenti dell'umano aggrediti dall' ideologia moderna. Con Bergoglio sparisce ciò che è spirituale e soprannaturale e tutta la scena viene occupata dai temi mondani della rozza Teologia della liberazione sudamericana (un cattocomunismo ribollito). Bergoglio infatti intrattiene rapporti fraterni con tutti i capoccia della sinistra sudamericana, a cominciare da quel Morales che gli regalò il crocifisso su Falce e martello, per finire alla brasiliana Dilma Rousseff, appena destituita e sottoposta a impeachment (Leonardo Boff, uno dei padri della Teologia della liberazione, amico personale di Bergoglio, ha reso noto che il papa argentino ha scritto una lettera personale di sostegno alla Roussef). Ma ancor di più Bergoglio è vezzeggiato dai magnati del nuovo capitalismo americano che amano atteggiarsi da progressisti magari sostenendo le crociate più anticattoliche dell'ideologia politically correct. I paperoni laicisti - Il pellegrinaggio di questi paperoni laicisti da Bergoglio è continuo: l'ultimo in ordine di tempo è stato Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. Il 22 gennaio scorso era stata la volta di Tim Cook, amministratore delegato di Apple, che ha portato a Bergoglio una grossa elargizione (pecunia non olet). Pure Leonardo Di Caprio il 28 gennaio si è presentato con un assegno «per opere di carità». Bergoglio aveva ricevuto anche il capo di Google, Eric Schmidt e - a fine febbraio - Kevin Systrom, fondatore e amministratore delegato di Instagram. Invece il Papa argentino ha chiuso la porta in faccia ai poverissimi familiari di Asia Bibi, la madre cristiana condannata a morte in Pakistan per la sua fede, quando sono venuti in Europa a cercare aiuto e sostegno (hanno trovato appoggio perfino in Hollande, ma Bergoglio non ha accordato loro un'udienza privata o un appello pubblico). Solo per miliardari e vip ha sempre la porta spalancata. Ma il suo sponsor più potente e discusso è il famoso speculatore d' assalto George Soros (recentemente schieratosi contro la Brexit). Considerando il tipo di cause che Soros sostiene e finanzia è sicuramente da considerarsi un nemico della Chiesa Cattolica. Proprio le sue battaglie sono venute alla luce di recente grazie ad hacker che hanno reso pubblici migliaia di documenti della sua Open Society. Si è appreso del sostegno dato alla causa dell'aborto e a quella Lgbt, infine alla lotta contro la cosiddetta islamofobia (la sua fondazione finanzia anche organizzazioni anti-israeliane). Si batte inoltre a favore dell'emigrazione in Europa da considerarsi come «nuovo standard di normalità». Infine è emerso - ma i giornali italiani lo hanno taciuto - che Soros è potentemente intervenuto perché si cambino «le priorità della Chiesa Cattolica Usa» e perché i vescovi americani si allineino a Bergoglio. Lo scopo è portare l'elettorato cattolico a votare Clinton (di cui Soros è donatore) e non Trump. Cambiare le priorità della Chiesa significa accantonare i temi della famiglia e della vita e sbandierare i temi sociali cari ai liberal, alla Sinistra. Già altri potentati nei decenni scorsi hanno cercato di influenzare cattolici e gerarchia per sovvertire l'insegnamento della Chiesa. Ma ora, per la prima volta, hanno il loro migliore alleato nel vescovo di Roma. Nella Chiesa di Bergoglio sono spariti i «principi non negoziabili» e pure su sacramenti e legge morale si assestano colpi pesanti. Mentre sono stati elevati a verità indiscutibili l'emigrazione e l'ambientalismo più eco-catastrofista. Ieri per esempio Bergoglio ha celebrato la Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato. Non una giornata mondiale di preghiera per i cristiani perseguitati e massacrati, ma una giornata per la salvaguardia di zanzare e piccoli rettili di cui si preoccupa già nella sua enciclica ecologista. Sapore new age - È quella nuova «religione della terra» di sapore New age, cioè gnostico, che già ha celebrato il suo trionfo con la mostruosa proiezione di scimmioni sulla facciata di San Pietro. Nel suo messaggio per l'evento di ieri, Bergoglio chiede una «conversione ecologica». In un'epoca di grande apostasia, in cui interi popoli hanno dimenticato Dio, Bergoglio - vicario di un «Dio non cattolico» (parole sue) - chiede la «conversione ecologica», invece della conversione a Gesù Cristo. Inoltre papa Bergoglio - che evita di rinnovare il grido di dolore dei predecessori davanti a un miliardo di aborti in 20 anni - invita a pentirsi «del male che stiamo facendo alla terra», per esempio, quando non facciamo la raccolta differenziata, quando non facciamo un uso oculato della plastica e quando non utilizziamo il trasporto pubblico, ma quello privato (esempi suoi). Queste trasgressioni vanno confessate ed espiate, dice il Papa che nell' Amoris laetitia ha archiviato i peccati mortali da sempre condannati nel Vangelo. Come si vede qua il cambiamento di priorità è vertiginoso. Benedetto XVI aveva iniziato il suo pontificato tuonando contro «la dittatura del relativismo», Bergoglio in questo regime nichilista e anticristiano è invece applauditissimo. Antonio Socci

Antonio Socci su “Libero Quotidiano” del 20 agosto 2016: il megasiluro su islam e Papa. Sberla ai cristiani che stanno con Allah. Ieri Avvenire ha pubblicato un editoriale (un editoriale esprime la linea ufficiale del giornale) e il cuore di tale editoriale è un'enormità fuori dalla fede cattolica. Purtroppo tale editoriale è firmato da un mio amico di Cl, ma bisogna essere anzitutto amici della verità, per cui - con dolore - devo rilevare che se il giornale della Cei propone una simile idea come suo editoriale, siamo a un passo dall'abisso (e anche dal ridicolo). Ecco la frase su cui l'editoriale di Avvenire costruisce tutto il suo teorema bergogliano: "Infatti, per chiunque creda - cristiano o islamico o ebreo - Dio è uno, grande, onnipotente, misericordioso. Le differenze semmai sono a riguardo dell'io". Come si vede ormai "l'effetto Bergoglio" sta dilagando. Siamo alle parole in liberà. A leggere questo editoriale del giornale della Cei infatti la fede dei cristiani e dei musulmani sarebbe la stessa e identica sarebbe la loro concezione di Dio. Ma il direttore di Avvenire, Tarquinio, che un tempo fu ratzingeriano, non ha mai sentito parlare della Santissima Trinità che è il cuore della fede cristiana e che i musulmani ritengono la peggiore delle bestemmie? nella cupola della Moschea della Roccia, costruita dai musulmani sul luogo santo degli ebrei, al posto dell'antico Tempo di Gerusalemme, campeggia una scritta che appunto nega la Trinità. L'islam in quella scritta proclama: "Dio non ha un figlio". L'islam nasce proprio dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e dalla negazione della Trinità di Dio. È il più radicale e violento attacco che si sia visto al cuore della fede cristiana. Possiamo dunque dire che non c'è differenza nella concezione di Dio fra cristiani e musulmani? È lo stesso apostolo san Giovanni a chiarire che se non si riconosce il Figlio, non si possiede nemmeno il Padre: "Chi è il menzognero se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L'anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio. Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre (1Gv 2, 22-23). Mi sembra chiarissimo. Ed è ovvio che l'abissale differenza nella concezione dell'"io" (della persona), fra islam e cristianesimo, deriva proprio da un'abissale differenza nella concezione di Dio. Ad avvenire però lo ignorano. So per certo che l'editorialista ha almeno sentito parlare della Santissima Trinità e del credo trinitario dei cristiani. Tuttavia i tempi - nella Chiesa e dentro Cl - sono tali che la Verità della fede viene ormai allegramente cestinata, per dar voce alle più assurde supercazzole. Mi pare, vedendo quello che accade nella Chiesa (e anche il triste spettacolo del Meeting 2016) che si possa dire che molti "si vergognano di Cristo", come amaramente lamentò don Giussani nella sua ultima intervista. Oggi questa tendenza è diventata dominante dentro Cl e nella Chiesa. Solo come memorandum riproduco qui sotto alcuni passi della Dominus Jesus che ricordano a tutti qual è la fede dei cattolici: "Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo dalle teorie di tipo relativistico che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Di conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità, pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo". Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo. Deve essere, infatti, fermamente creduta l'affermazione che nel mistero di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, il quale è "la via, la verità e la vita" (Gv 14,6), so dà la rivelazione della pienezza della verità divina: "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11,27); "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1,18); "È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza" (Col 2,9-10). Fedele alla parola di Dio, il Concilio Vaticano II insegna: "La profonda verità, poi, sia su Dio sulla salvezza dell'uomo, risplende a noi per mezzo di questa rivelazione nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione". E ribadisce: "Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come 'uomo agli uomini', 'parla le parole di Dio' (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede il Padre (cf Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e manifestazione di Sè, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione dai morti, e infine, con l'invio dello Spirito di verità compie e completa la rivelazione e la conferma con la testimonianza divina [...]. L'Economia cristiana, dunque, in quanto è l'alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non si dovrà attendere alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo" (cf 1 Tm 6,14 e Tt 2,13). Per questo l'enciclica Redemptoris missio ripropone alla Chiesa il compito di proclamare il Vangelo, come pienezza della verità: "In questa Parola definitiva della sua rivelazione, Dio si è fatto conoscere nel modo più pieno: egli ha detto all'umanità chi è. E questa autorivelazione definitiva di Dio è il motivo fondamentale per cui la Chiesa è per sua natura missionaria. Essa non può non proclamare il Vangelo, cioè la pienezza della verità che Dio ci ha fatto conoscere intorno a se stesso". Solo la rivelazione di Gesù Cristo quindi "immette nella nostra storia una verità universale e ultima, che provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai". Antonio Socci

L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.

"Non spegnete la tv, ma accendete la libertà": l'inedito di Umberto Eco sulla televisione. La Tv è maestra, a volte cattiva, ma in modo non prevedibile. Come gli altri media. La lezione del grande semiologo ora diventa un volume, scrive Umberto Eco il 24 ottobre 2018 su "L'Espresso". L'intervento che qui anticipiamo, datato 1978, è integralmente contenuto nel volume "Sulla televisione" in uscita per La nave di Teseo. Otto o nove anni fa, quando mia figlia stava iniziando a guardare il mondo dalla finestra di uno schermo televisivo (schermo che in Italia è stato definito “una finestra aperta su di un mondo chiuso”), una volta la vidi seguire religiosamente una pubblicità che, se non ricordo male, sosteneva che un certo prodotto era il migliore al mondo, capace di soddisfare qualsiasi bisogno. Allarmato sul fronte educativo, cercai di insegnarle che non era vero e, per semplificare i miei argomenti, la informai che le pubblicità di solito mentono. Capì di non doversi fidare della televisione (in quanto, per ragioni edipiche, faceva di tutto per fidarsi di me). Due giorni più tardi stava guardando le notizie, che la informavano del fatto che sarebbe stato imprudente guidare lungo le autostrade del Nord per via della neve (un’informazione che soddisfò i miei più intimi desideri, dato che stavo disperatamente cercando di restare a casa per il fine settimana). Al che mi fulminò con uno sguardo sospettoso, chiedendomi come mai mi fidassi della tv visto che due giorni prima le avevo detto che raccontava bugie. Mi trovai costretto ad avviare una dissertazione molto complessa di logica estensionale, pragmatica dei linguaggi naturali e teoria dei generi allo scopo di convincerla che ogni tanto la televisione mente e ogni tanto dice il vero. Per esempio, un libro che comincia con “C’era una volta una bambina chiamata Cappuccetto Rosso e così via...” non dice il vero quando sulla sua prima pagina attribuisce la storia della bambina a un signore di nome Perrault. Solo lo psichiatra al quale mia figlia probabilmente si rivolgerà una volta arrivata all’età della ragione sarà in grado, direi, di constatare i danni consistenti che il mio intervento pedagogico ha provocato alla sua mente o al suo inconscio. Ma questa è un’altra storia. Il fatto, che ho scoperto proprio in quell’occasione, è che se si vuole usare la televisione per insegnare qualcosa a qualcuno bisogna prima insegnare come si usa la televisione. In questo senso, la televisione non è diversa da un libro. Si possono usare i libri per insegnare, ma per prima cosa bisogna spiegare come funzionano, almeno l’alfabeto e le parole, poi i livelli di credibilità, la sospensione dell’incredulità, la differenza tra un romanzo e un libro di storia e via dicendo. [...] Credo che i problemi legati all’uso educativo della televisione siano gli stessi di quelli legati ai suoi supposti effetti perversi. Può essere che la televisione, così come gli altri media, corrompa gli innocenti, ma lo fa indubbiamente in un modo non previsto da molti educatori (o da molti corruttori). Supponiamo che un marziano cerchi di estrapolare l’impatto della televisione sulla prima generazione cresciuta sotto la sua influenza (persone che hanno cominciato a guardarla all’età, poniamo, di tre anni nei primi anni cinquanta), quindi il nostro marziano potrebbe cominciare analizzando il contenuto dei programmi televisivi degli anni Cinquanta. Nutrita a forza di programmi come The $64,000 Question, soap opera, sceneggiati in stile Mary Walcott, pubblicità della Coca-Cola e film con John Wayne sulla seconda guerra mondiale, è probabile che quella generazione sia arrivata al 1968 con un buon posto di lavoro in banca, taglio militare e colletto bianco, una solida fede nell’ordine costituito e l’intenzione di sposarsi virtuosamente con la ragazza o il ragazzo della porta accanto. E invece, se non ricordo male quell’evento preistorico, nel 1968 è successo che questa “generazione televisiva” non ha cercato di ammazzare i giapponesi bensì i professori universitari, fumava la marijuana invece delle Marlboro, praticava lo yoga, la meditazione trascendentale, mangiava macrobiotico e così via. Lasciatemi aggiungere che quando la televisione propose capelloni che fumavano marijuana e mettevano fiori nelle canne dei fucili come nuovo modello per uno stile di vita “giovane”, la generazione successiva si tagliò i capelli, iniziò a usare le armi e a preparare bombe. Questo ci suggerisce che i giovani leggono la televisione in maniera diversa da chi la fa. Non credo che accada a caso: credo ci siano delle regole che governano lo spazio vuoto tra l’emissione e la ricezione di un programma televisivo. Bisogna conoscerle e bisogna soprattutto cercare di insegnarle, in particolare ai giovani. […] I sociologi che studiarono i mass media negli anni Quaranta e Cinquanta conoscevano già molto bene fenomeni come l’effetto boomerang, l’influenza degli opinion leader e la necessità di rafforzare il messaggio mediante una verifica porta a porta. Sapevano che tra il punto d’invio e quello di ricezione vi sono molti filtri attivati da schermi psicologici e sociali, o culturali. I primi test dopo l’arrivo della televisione nelle aree suburbane e depresse dell’Italia dimostrarono che moltissime persone guardavano i programmi serali come un continuum, senza alcun discrimine tra show, telegiornali o drammi. Tutto veniva preso allo stesso livello di credibilità, un assoluto guazzabuglio di competenza di genere. Per anni e anni, le aziende televisive hanno fatto affidamento su diversi tipi di indici di gradimento e si sono accontentate di sapere quante persone apprezzavano un determinato programma (un’informazione senza dubbio importante da un punto di vista commerciale) seppur ignorando quel che il pubblico realmente capiva del programma stesso. Detto questo, il gap comunicativo descritto poc’anzi è molto più complesso. Dobbiamo considerare non solo le differenze di codice fra mittente e destinatario, ma anche la varietà di codici che distinguono certi gruppi di destinatari da altri, in base al loro status sociale e alle loro propensioni ideologiche. E dovremmo considerare, anche da un punto di vista così flessibile, che il quadro resta incompleto dato che dovremmo anche tener conto del fatto che un dato soggetto appartiene a gruppi diversi a seconda del programma e dell’orario. Intendo dire che la persona X può valere come un lavoratore sensibile alla politica (quindi dotato di competenze economiche e politiche) quando guarda il telegiornale. Però la stessa persona X può sposare le predilezioni di un filisteo borghese quando guarda uno sceneggiato, tenendo in disparte le sue sensibilità in tema di ruoli sessuali, liberazione femminile o lotta di classe, anche se è capace di risvegliarle quando il televisore parla di salari, scioperi o diritti umani. Dovremmo essere consapevoli del fatto che lo stesso fenomeno accade ai bambini. I bambini possono essere estremamente sensibili ai valori ecologici quando la televisione stuzzica la loro competenza spontanea, già acquisita, circa il rispetto per gli animali, mediante una trasmissione sulla fauna selvatica. Ma lo stesso bambino, davanti a un western, parteciperà all’eccitazione del cowboy che parte al galoppo inseguendo i fuorilegge senza soffrire per il tour de force del cavallo, sfruttato senza pietà. Possiamo dire che anche in questo caso stiamo assistendo a una differenza tra codici? Possiamo dire che a seconda della situazione e dell’attivazione di una competenza di genere la stessa persona reagisce in base a codici culturali differenti? Dipende dal nostro accordo sulla nozione di codice culturale. [...]. Ma che succede al bambino che guarda il film western e, una volta accettate, le sue regole di genere non attivano la competenza sullo sfruttamento animale? Non riesco a immaginarmi lo stop del film con un presentatore che appare e dice “Fa’ attenzione al comportamento non etico dell’eroe”. O meglio, posso immaginarmi una situazione simile ma non nei termini di un intervento grammaticale, come nel caso della “metempsicosi”. Si tratterebbe piuttosto di una procedura di decontestualizzazione e decostruzione. [...] La televisione educativa ha avuto molti meriti. Un programma come Sesame Street ha insegnato a milioni di giovani americani che l’inglese della comunità nera è una lingua in tutto e per tutto, capace di esprimere gioia, arguzia, compassione, concetti. Ma mi piacerebbe vedere un programma che spieghi agli insegnanti come usare, ad esempio, il Johnny Carson Show al fine di prevedere cosa dirà a un giovane portoricano, a un giovane nero, a un giovane bianco protestante. Forse ciascuno di essi vede qualcosa di diverso in quel programma. Nessuna di queste interpretazioni è, in sé, un caso “aberrante”. La vera aberrazione è che tutti questi ragazzi non si rendono conto che il programma è lo stesso ma le interpretazioni variano. Ogni interpretazione riflette un diverso mondo culturale con codici differenti. [...]. Fino a che punto una formazione specifica nell’ambito delle arti visive consente di individuare meglio riferimenti visivi che (a loro volta) sono indispensabili per capire determinate situazioni narrative? Prendiamo i sottocodici estetici: ci sono differenti modelli di bellezza per il corpo umano così come in termini di arredamento, case e automobili, a seconda della tradizione nazionale, dell’adesione a una classe, di un’eccessiva esposizione televisiva ad altri modelli e così via. È importante mostrare che un dato programma fa uso di stereotipi, ma è anche importante vedere se questi stereotipi hanno lo stesso effetto su ciascun bambino della classe. […] Un’educazione criticamente orientata deve riconoscere il fatto che la televisione esiste e che è la principale fonte formativa per adulti e ragazzi. Ma un’educazione criticamente orientata deve far sì che gli insegnanti usino la televisione lorda come una fetta di mondo proprio come usano il tempo atmosferico, le stagioni, i fiori, il paesaggio per parlare dei fenomeni naturali. A questo punto la mia proposta per una televisione educativa riguarda, credo, non solo i bambini ma anche la formazione permanente degli adulti. Appena due giorni fa il primo ministro tedesco Schmidt ha scritto un lungo articolo sulla Zeit per manifestare la propria preoccupazione circa la tv, che assorbe gran parte del tempo libero dei suoi connazionali bloccando qualsiasi possibilità d’interazione faccia a faccia, soprattutto nelle famiglie. Schmidt ha quindi proposto che ciascuna famiglia decida di dedicare un giorno al rito di tenere il televisore spento. Un giorno a settimana senza televisione. Forse i tedeschi saranno così obbedienti da accettare la proposta. Spero solo che non lo facciano proprio nel momento in cui il governo sta promulgando una nuova legge! Comunque, se fossi nei panni di Schmidt, la mia proposta sarebbe diversa. Direi così: amici, connazionali, tedeschi (ma la proposta vale anche per gli inglesi), un giorno a settimana incontriamoci con altre persone e guardiamo la televisione in maniera critica tutti assieme, confrontando le nostre reazioni e parlando faccia a faccia di quello che ci ha insegnato o ha fatto finta di insegnarci. Non spegnete la televisione: accendete la vostra libertà critica.

Quella carovana di migranti che entusiasma il politically correct, scrive il 28 ottobre 2018 Michele Crudelini su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. In poche settimane è già diventata il simbolo dell’ala progressista americana e occidentale. L’hanno soprannominata “carovana dei migranti”, volendole così conferire un carattere innocuo e pittoresco. Una semplice carovana, al pari di quelle organizzate in occasione di alcune festività, è un qualcosa di pacifico e non potrebbe dunque rappresentare una minaccia. Come di consueto, la narrativa mainstream, con l’aiuto di una terminologia iperbolica e fotografie tatticamente estrapolate da contesti specifici, è riuscita a creare un “mito” nell’immaginario collettivo che, tuttavia, poco si avvicina a quella che è la realtà dei fatti.

Quanti sono davvero i migranti della carovana? Proviamo ad andare con ordine. All’inizio della scorsa settimana è iniziata a circolare la notizia, con foto annesse, che un nutrito gruppo di persone si sarebbero messe in marcia dall’Honduras con l’obiettivo di oltrepassare le frontiere di Guatemala e Messico per arrivare infine negli Stati Uniti. Il gruppo, beneficiando della possibilità di poter oltrepassare il confine guatemalteco solamente con il proprio passaporto, è arrivato dunque al confine con il Messico è lì si trova tuttora bloccato. Bene, partendo da questa ricostruzione, appositamente stringata e ridotta all’osso proprio perché si tratta degli unici eventi di cui si ha la certezza, proviamo a capire cosa è stato detto a sproposito e quelle che possono essere le interpretazioni di questo fenomeno. Innanzitutto i numeri. Non si riescono a trovare, infatti, due articoli di giornale che riportano lo stesso numero circa i partecipanti alla carovana. Secondo Rai News sarebbero attualmente 2mila, anche se non viene specificato quale fosse il numero iniziale. Stime decisamente più larghe arrivano invece da Askanews, dove si parla di 4mila persone. Molto più ridotta invece la stima del The Post International, secondo cui la carovana sarebbe composta da sole 1.600 persone.

Tutte le contraddizioni dei media sulla carovana. Non sono solo i numeri a creare confusione in questa vicenda. Anche lo stesso evolversi degli eventi non viene descritto in maniera chiara. Per esempio, sempre su Rai News, si può leggere così “migliaia di migranti dell’Honduras, di El Salvador e del Guatemala, componenti la carovana che marcia verso gli Usa, hanno sfondato, provenendo dal Guatemala, i cancelli e le reti di protezione della frontiera del Messico. Sono entrati nel territorio messicano e stanno avanzando verso gli Stati Uniti”, preludendo così ad un’avanzata senza intoppi. Nello stesso articolo viene però scritto che “molti altri sono bloccati sul ponte di confine tra Messico e Guatemala, dove si sono uniti ad altri manifestanti locali”, e nella foto pubblicata sono visibili alcune migliaia di persone proprio sul ponte. Se la maggior parte della carovana è bloccata sul ponte, chi ha sfondato la barriera con il Messico? Alla domanda prova a rispondere il Corriere della Sera, pur lasciando alcuni dubbi. Inizialmente afferma che “migliaia di migranti dell’Honduras hanno sfondato dal Guatemala i cancelli e le reti di divisione alla frontiera con il Messico a Tecun Uman”, per poi, quasi contraddirsi, poche righe più sotto, dove si afferma che in realtà “un primo gruppo di circa 30 persone ha attraversato il confine venerdì mattina e sono stati fermati dagli agenti del confine messicano che studieranno le loro domande di asilo o di visto”.

Chi è il vero organizzatore della carovana di migranti. Nel frattempo, quel che è certo, è che il Messico ha schierato alcune unità del proprio esercito lungo quel confine, proprio per evitare che alcuni impavidi migranti si avventurino attraverso il fiume per oltrepassare la frontiera. Difficile credere che poche migliaia di persone (numeri modesti anche per un corteo cittadino) abbiano vinto la resistenza della nutrita polizia messicana schierata al confine. Passando invece alle interpretazioni del fenomeno c’è, ovviamente, qualcosa di più profondo rispetto alla narrativa dominante che la carovana come un gruppo di persone alla ricerca di una nuova vita, in marcia proprio contro il Presidente dei “muri” e dei “confini”. I primi dubbi iniziano a sorgere quando si legge che dietro alla “carovana” ci sono alcuni organizzatori e tra questi risulta esserci tale Bartolo Fuentes. Si tratta di un ex politico honduregno legato al partito Libertad y Refundación che è attualmente all’opposizione nel Paese. Il governo honduregno sostiene che Bartolo Fuentes abbia “utilizzato le persone con finalità eminentemente politiche e persino criminali”. Inoltre non sarebbe la prima volta che lo stesso Fuentes viene riconosciuto come organizzatore di questi movimenti migratori, ruolo da lui stesso ammesso. Quest’ultimo però si difende sostenendo che queste persone stiano davvero scappando da una situazione di estrema crisi economica che colpisce l’Honduras.

L’Honduras è in una fase di crescita economica. Su questo punto sembrerebbe non esserci nulla da obiettare, sennonché il quadro macroeconomico dell’Honduras ci dà in realtà uno scenario ben diverso. Secondo la piattaforma Focus Economics, leader nella raccolta di statistiche economiche nei Paesi del mondo, “l’economia honduregna ha avuto una accelerazione nel secondo quadrimestre grazie ad una robusta domanda interna e i consumi privati sono molto aumentati”. Inoltre viene riportato come il reddito pro capite sia aumentato progressivamente dal 2013 al 2017 e il tasso di crescita del Pil sia passato dal 2.8% del 2013 fino ad arrivare ad un 4.8% nel 2017. Lo stesso tasso di disoccupazione è sceso dal 6.3% del 2016 al 5.9% del 2017. Certo, rimangono problemi legati alla criminalità organizzata e ad una sperequazione costante tra le campagne e i centri urbani. Tuttavia l’economia del Paese è in una fase di crescita e non sta attraversando una crisi tale da scatenare un esodo, come paventato da Bartolo Fuentes. Molto più probabile è che questa carovana rappresenti un’arma politica dell’opposizione honduregna volta a indebolire il Governo attraverso, in particolare, l’interruzione degli aiuti americani, ipotesi che è stata per l’appunto paventata da Donald Trump. 

Perché la “carovana” umanitaria in Centroamerica fa male alla causa dei migranti. Duemila persone partite dall'Honduras chiedono di entrare negli Stati Uniti. Trump ha trasformato la questione in un tema elettorale potente, scrive Maurizio Stefanini il 18 Ottobre 2018 su "Il Foglio". Negli ultimi giorni, circa 2.000 persone partite dall'Honduras, nell'America centrale, stanno marciando verso nord in una “carovana” con l'obiettivo dichiarato di immigrare negli Stati Uniti. Queste “carovane” sono un fenomeno tipico latinoamericano (ce ne fu una anche a marzo, che si disperse in Messico), e sono più marce di protesta che veri movimenti migratori. Tuttavia, la loro presenza crea un panico sconsiderato tra i media statunitensi: duemila latinos sono pronti all'invasione! Questo panico è spesso strumentalizzato in chiave politica, e in periodo di mid-term questo movimento nato con intenti tutto sommato umanitari sta ottenendo l'effetto contrario: avvantaggia gli impulsi anti immigrati e spesso xenofobi dell'elettorato del presidente Donald Trump, che non a caso negli ultimi giorni ha fatto della “carovana” un tema di politica nazionale. Le duemila persone sono partite da San Pedro Sula, in Honduras, venerdì 12 ottobre: il giorno della scoperta dell'America. Erano all'inizio 160, ma presto le loro fila si sono ingrossate. “In Honduras non c'è lavoro e non c'è sicurezza”, la semplicissima motivazione. “Abbiamo fede che Dio ci aiuterà come quando aiutò il popolo di Israele a uscire dall'Egitto scampando al Faraone”, ha scritto su Facebook un simpatizzante dell'iniziativa. E un altro: “Geova guida e protegge Bartolo Fuentes così come fece con Mosè per liberare il suo popolo”. Bartolo Fuentes è il leader dell'iniziativa. Giornalista, fu da 2013 al 2017 deputato in Honduras con il partito di Manuel Zelaya: il presidente liberale che durante il suo mandato si trasformò in un simpatizzante di Chávez. Come humus ideologico, siamo dalle parti del classico populismo di sinistra latino-americano. Ma un populismo che in centroamerica da una parte si ormai solidamente innervato col linguaggio e l'immaginario delle sette evangeliche. Lunedì 15 ottobre i migranti hanno passato il confine col Guatemala, puntando verso il Messico e il confine con gli Stati Uniti. Martedì 16 Trump ha iniziato a preoccuparsi al punto da minacciare di tagliare gli aiuti all'Honduras se non avesse fermato la fiumana. Il vicepresidente Mike Pence ha fatto sapere di aver chiamato direttamente i presidenti Juan Orlando Hernández dell'Honduras e Jimmy Morales del Guatemala. Il Guatemala ha risposto arrestando Fuentes e rispedendolo in patria. Ma i suoi seguaci hanno continuato la marcia. Secondo quanto aveva spiegato lunedì Fuentes alla Cnn, l'intenzione dei marciatori era quella di chiedere al Messico dei “visti umanitari”. L'ambasciata americana in Honduras ha avvertito sui rischi del viaggio e ha preannunciato che gli Stati Uniti avrebbero fatto valere le proprie leggi sull'immigrazione. Cioè, che i migranti sarebbero stato respinti in blocco al confine. Il governo del Messico ha a sua volta avvertito che fermerà coloro che non hanno i documenti in regola, il che però vuol dire che chi li ha potrà entrare indisturbato: stessa posizione già presa dal governo del Guatemala. Cogliendo al balzo l'occasione, mercoledì 17 Trump è tornato sul tema: “E' difficile credere che, con migliaia di persone che stanno camminando senza ostacoli verso la frontiera sud, organizzati in grandi carovane, i democratici non vogliano approvare una legislazione che permetta leggi per la protezione del nostro paese. Questo è un grande tema di campagna elettorale per i repubblicani!”. Oggi (18 ottobre ndr) il presidente è tornato sulla questione e ha accusato il Partito democratico di “guidare l'assalto al nostro paese dal Guatemala, dall'Honduras e da El Salvador (perché loro vogliono frontiere aperte e vogliono mantenere le deboli leggi in vigore)”, ha detto che tra i migranti ci sono “MOLTI CRIMINALI” e ha aggiunto: “Oltre a bloccare gli aiuti a questi paesi, che sembrano non aver praticamente alcun controllo sulla loro popolazione, devo chiedere con estrema forza al Messico di bloccare questo assalto”, e se il Messico non sarà in grado di farlo Trump chiamerà l'esercito. Infine l'ultima minaccia: difendere i confini americani è più importante dell'accordo di libero scambio con Messico e Canada appena ratificato – come a dire: sono pronto a stralciare tutto. Sono tutte minacce vuote e strumentali, anche perché, come già successo a marzo, con ogni probabilità i migranti hondureñi si disperderanno da qualche parte in territorio messicano – ma non prima di far ottenere a Trump qualche vittoria retorica e perfino elettorale sul tema dell'immigrazione. La marcia dei migranti avrà effetti diametralmente contrari a quelli sperati dai suoi organizzatori.

Sono di sinistra ma non voglio gli africani. Lettera del 28 ottobre 2018 su "L'Espresso". "Cara Rossini, sono una persona di sinistra che ha votato per il Pci, Pds, Ds, Ulivo, Pd e il 4 marzo avrei votato Leu. Ma qualche giorno prima Grasso dice in Tv: "Siamo il partito dell'accoglienza!". Ho cambiato idea. Vorrei chiedere ai sigg. dell'accoglienza quanti ne dobbiamo accogliere: 1 milione, 10 milioni, 20 milioni? Perchè non lo dicono? Penso che se non si fermano non si fermeranno mai. Li salviamo in mare? Ma vanno riportati da dove vengono. Perchè Salvini ha raddoppiato i voti? Leu, invece, che prima del 4 Marzo era dato a molto di più del 6 % é sceso dopo al 3 %. Chissà se molti mi hanno imitato. Posso essere in disaccordo su questo argomento? Si parla di "migranti" quando dovrebbero chiamarsi "pretenziosi fuggitivi" che imbarcano su precari gommoni anche donne incinte e bambini per impietosire chi li salva. Li chiamerei anche sciagurati. Sono quasi tutti giovanotti con le spalle così che alla domanda (ne ho fatte tante sulla via Tiburtina) perchè sei venuto qui? Rispondono: per trovare una casa e un lavoro. Alla faccia! In Italia abbiamo migliaia di giovani laureati e non, senza lavoro e senza casa. Credo che tutti quelli che parlano di accoglienza, umanità, solidarietà, ecc. lo facciano solo per compiacimento personale come a dire: "vedete come sono buono e come sono bravo?". Oppure per interesse personale. Non possiamo fare da balia a un continente. Una riflessione che ritengo realistica è che se non si fermano non si fermeranno più. Fino ad avere un'Italia colorata in nero. Non sono razzista. Il razzismo non c'entra niente. Anzi viene usato a sproposito perchè il razzismo è ritenere una razza o un popolo superiore agli altri (Hitler, Mussolini). Discendiamo tutti da chi lasciò le orme a Laetoli. Mi vien da dire che è razzista ci lo dice agli altri. Si tratta di non volere flussi di altri popoli, che non sono ineluttabili, a casa nostra. La destra, che aborro, semplicemente non accetta, con diritto, pretenziosi fuggitivi. TV e giornali ripetono come litanie: "Gli africani trasportati qui sono doni di Dio, risorse, fuggono da guerre e fame, ci pagheranno le pensioni" et similia. Ha scritto su un noto bimestrale Carlo Lauletta, magistrato a riposo, che per destabilizzare l'Europa e al tempo stesso sottrarre all'Africa fresche energie e frenarne così lo sviluppo si è trovato un metodo infallibile: trasferire in Europa quanta più possibile popolazione africana. Donde: indebolimento delle strutture territoriali, guerra tra poveri, conflittualità permanente, disfunzionamento dei pubblici servizi fino al collasso dello Stato sociale. Questa è la posta in gioco. Ha detto Wolfgang Schaeubler giorni fa: "L'Europa attira persone da tutto il mondo". Che cosa ne vogliamo fare, una scatola di sardine?. Marcello Fagioli - Roma.

Il signor Fagioli ha affidato alla tastiera, e poi a noi, pensieri che da qualche tempo vengono in mente a molte persone di sinistra. E' una riflessione importante e sincera. Coloro che qui la vorranno commentare sono pregati di tenerne conto, evitando faziosità in un senso o nell'altro.

CATTIVI MAESTRI.

Dl Sicurezza, l'armata buonista tira dritto. E scoppia la guerra tra sindaci. La rivolta della sinistra al decreto Sicurezza spacca le città. Palermo e Firenze tirano dritte. Udine, Cascina e Trieste sono con Salvini, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 03/01/2019, su "Il Giornale". L'Italia si divide e i sindaci si schierano. La guerra tra primi cittadini infiamma il dibattito politico con il decreto sicurezza sullo sfondo. Motivo del contendere, le norme volute da Salvini, approvate dal Consiglio dei ministri, votate dal Parlamento e promulgate dal presidente della Repubblica. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, dopo aver sospeso l'applicazione del dl, ha incassato l'appoggio di altre amministrazioni di sinistra. Dario Nardella, Luigi De Magistris, Nicola Zingaretti, Mimmo Lucano e i sindaci di Pescara, Fiumicino e Reggio Calabria si sono detti "vicini" alla disobbedienza (in)civile di Orlando. Il caso ha scatenato clamore mediatico in giorni poveri di notizie e sul carro sono saliti pure Federico Pizzarotti (Parma) e Beppe Sala ("Salvini riveda il decreto sicurezza"), mentre Di Maio l'ha bollata come "campagna elettorale" e il ministro dell'Interno è stato costretto a ricordare loro che una legge promulgata da Mattarella non può essere disattesa. "È gravissimo - ha detto - ne risponderanno penalmente, legalmente e civilmente". Chiaro. Anche diversi costituzionalisti, ben lungi dall'essere "leghisti", hanno bocciato l'armata buonista con la fascia Tricolore. "I Comuni sono tenuti a uniformarsi alle leggi", fa notare il presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli. Gli fa eco Giovanni Maria Flick: "Non spetta al sindaco decidere di sospendere l'applicazione di una legge se la ritiene incostituzionale". Orlando, però, non sembra disposto a fare passi indietro. "Non arretro, non c'è motivo di arretrare, io ho assunto una posizione che non è né di protesta, né di disubbidienza, né di obiezione di coscienza", rivendica. E per contrastare quello che definisce "un attentato alla sicurezza del nostro Paese" è pronto a sottoporre il provvedimento "all'esame di una autorità giudiziaria". Solo attraverso un giudice ordinario o amministrativo, infatti, il dl potrà finire di fronte alla Corte Costituzionale e eventualmente essere dichiarato incostituzionale. La strada è lunga e lastricata di ostacoli, intanto però il sasso è stato lanciato e la guerra santa a Salvini iniziata: "Non faremo niente di illegale - giura Nardella, che valuta il ricorso - però abbiamo già pronta un'azione per sterilizzare in ogni modo gli effetti nefasti di questo decreto". Come ogni conflitto che si rispetti, a ogni azione ostile corrisponde una reazione. Al fianco del Viminale si sono subito schierati i sindaci di centrodestra. Ha messo l'elmetto il primo cittadino di Trieste, Roberto Dipiazza, che definisce "preoccupante" il fatto che "un rappresentante delle Istituzioni (Orlando, ndr) voglia uscire dal sistema democratico". Si dichiara "sorpresa" dai "colleghi" pure Susanna Ceccardi (Cascina), che punzecchia il capo-rivolta palermitano. E si schierano a favore del dl anche Sara Casanova (Lodi), Roberto Di Stefano (Sesto San Giovanni), Francesco Rucco (Vicenza) e Pietro Fontanini, il sindaco di Udine, città che "garantirà piena applicazione al decreto Sicurezza". "Con il decreto Salvini abbiamo finalmente strumenti in più per mantenere la sicurezza dei nostri cittadini - dice il primo cittadino di Arona, Alberto Gusmeroli - Qui abbiamo applicato numerosi Daspo di allontanamento, tra cui quello per un questuante che veniva a chiedere l'elemosina prima in Mercedes e poi con auto nuova fiammante". Il conflitto è aperto.

Quella lobby dei Comuni rossi che cerca di uscire dall'ombra con la guerra santa anti Lega. La finta solidarietà degli amministratori in cerca di riflettori: «Basta col giogo padano», scrive Carmelo Caruso, giovedì 03/01/2019, su "Il Giornale". Usano Matteo Salvini per ingigantirsi come faceva Braccio di Ferro con gli spinaci. Non pensate, dunque, che sia la disobbedienza civile del sociologo Danilo Dolci o quella nobile della tradizione radicale. Nella volontà annunciata ieri dai sindaci di Palermo e di Firenze di ammutinarsi di fronte al decreto Sicurezza del ministro dell'Interno, c'è infatti la solidarietà pelosa che serve a ritrovare un nuovo e personalissimo protagonismo politico. Scomparsi dal dibattito e superati dalla promessa di reddito di cittadinanza a Cinque stelle, a sinistra sono tornati ad agitarsi i campioni ammaccati del populismo, i candidati alle primarie del Pd che in Salvini cercano una resurrezione. A Roma, il governatore Nicola Zingaretti ha dichiarato che «bisogna impegnarsi contro l'odio e contro le norme scritte solo per fare propaganda». A Napoli, interagiscono il governatore Vincenzo De Luca e il sindaco Luigi de Magistris, arcinemici da sempre ma amici per opportunità e per liberare il centro Italia dal giogo padano. A Bari, non arretra Michele Emiliano che è sempre in continua crisi di identità: è stato eletto con il Pd ma ha gettato la tessera del Pd e non si è dimesso da magistrato. A Palermo, come detto, l'ultimo caudillo a preparare la controffensiva è Leoluca Orlando, un antico e consumatissimo leader che è riuscito a servirsi del pensiero gesuitico di padre Ennio Pintacuda, a cavalcare il giustizialismo di Antonio Di Pietro, a salvarsi dalla rottamazione di Matteo Renzi, a esibire l'antimafia come patente morale. Ai funzionari del suo comune, Orlando ha ordinato infatti di recalcitrare contro il governo con tanto di nota ufficiale che già dal primo verbo è un comando che sfida un altro comando: «Impartisco la disposizione di sospendere, per gli stranieri eventualmente coinvolti dalla controversa applicazione della legge, qualunque procedura». Ebbene, a cominciare dall'impartisco c'è tutto il carattere di Orlando che somiglia più di quanto si immagini a quello di Salvini a cui disobbedisce. Come si vede, è a destra (e su Salvini) che si stanno celebrando le primarie della sinistra; è a sinistra che si fanno le prove di sedizione non contro un ministro ma contro una legge di Stato. Con un'incoronazione napoleoneggiante, lo scorso 3 dicembre, de Magistris si è autointronato perché - ha spiegato ai colleghi che lo ascoltavano mentre straparlava di deriva fascista - «il M5s ha tradito. L'inizio del nostro progetto è essere l'anti Salvini». A Firenze, l'impalpabile sindaco Dario Nardella, più volte ammonito da Matteo Renzi, per i suoi scarsi risultati e che è riuscito a multare il direttore degli Uffizi, un uomo che fa lode all'Italia anche nella sua Germania, ha riscoperto, grazie a Salvini, la tempra che aveva smarrito: «Firenze non si piegherà al ricatto contenuto nel decreto Sicurezza». E per fare un nuovo salto in Sicilia, all'Ars si sta addirittura pensando, su proposta del suo presidente Gianfranco Miccichè, di formare una speciale commissione sul fenomeno dei migranti. Insomma, Salvini è riuscito anche in questo: ha compattato la sinistra, il Nord e il Sud, democratici e para democratici e li ha fatti arrivare sino all'estremo paradosso. Ieri, a leggere le note di sindaci e governatori del Pd, non sembrava di abitare in Italia ma di vivere in un territorio occupato. Non sembrava di ascoltare parole di sinistra ma di leggere vecchi comunicati della Lega secessionista.

Dl sicurezza, sindaco Pd smonta i ribelli: "Legge va rispettata sempre". La presidente di Anci Veneto, Maria Rosa Pavanello, entra a gamba tesa sulla rivolta dei sindaci contro il Dl sicurezza, scrive Agostino Corneli, Giovedì, 03/01/2019, su "Il Giornale". Maria Rosa Pavanello, presidente di Anci Veneto, sindaco di Mirano e iscritta al Pd dalla sua fondazione, si schiera contro i sindaci ribelli che non vogliono applicare il Dl Sicurezza. "Un sindaco è tenuto ad applicare e a far rispettare la legge anche quando non la condivide. E questo un elemento che sta alla base del ruolo di sindaco e che è alla base dell'architettura democratica ed istituzionale del nostro Paese. Il decreto sicurezza è una legge dello Stato e, quindi, i sindaci devono rispettarla. Naturalmente questo non significa che non si possano manifestare critiche o giudizi negativi, ma la legge lo ripeto va rispettata. E il nostro ruolo che ce lo impone e non potrebbe essere diversamente". Pavanello ha poi affermato che: "Il confronto e non la disobbedienza è alla base della dialettica democratica per questo condivido le parole del presidente Decaro che ha invitato alla costituzione di un tavolo per cercare con il dialogo di trovare delle eventuali soluzioni condivise e correttivi al decreto". Per la presidente dell'Anci Veneto, il problema non deve essere affrontato come una battaglia politica, ma bisogna guardare all'interesse dei Comuni e dei sindaci che ogni giorno si trovano a dover fronteggiare la gestione dei migranti e della sicurezza. "In passato i sindaci sono stati lasciati soli nella gestione dell'emergenza immigrazione che non era di loro competenza, ma che purtroppo è stata scaricata senza mezze misure sui Comuni e di conseguenza sui territori e sulle comunità con il rischio concreto di tensioni sociali", ha detto la Pavanello. Parole che arrivano come una doccia gelata nei confronti della sollevazione dei sindaci e che riaffermano un principio di diritto imprescindibile: la legge va applicata. Un concetto già ricordato anche da illustri costituzionalisti e che dovrebbe essere sempre tenuto presente da chi è a capo non di una lista o di un partito ma di una pubblica amministrazione.

I costituzionalisti contro i sindaci ribelli: "Rispettate il decreto Salvini". Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta, boccia l'asse dei sindaci che vogliono boicottare il decreto sicurezza: "Non possono sollevare questioni di legittimità costituzionale". D'accordo anche il collega Giovanni Maria Flick, scrive Gianni Carotenuto, Gio, 03/01/2019, su "Il Giornale". La mancata applicazione del decreto Salvini, nella parte che riguarda i migranti, annunciata dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando e dai colleghi di Napoli e Firenze, Luigi De Magistris e Dario Nardella, "è un atto politico. I Comuni sono tenuti a uniformarsi alle leggi". A dirlo è il presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli che, interpellato da Adnkronos, smonta l'asse degli amministratori locali contro la norma prevista dal decreto sicurezza che vieta la possibilità di concedere la residenza a chi è in possesso di un permesso di soggiorno. "La pubblica amministrazione - spiega Mirabelli - non può sollevare questioni di legittimità costituzionale ed è tenuto a uniformarsi alla legge, a meno che non sia liberticida, che potrebbe essere un caso eccezionale, una rottura dell'ordinamento democratico. Bisogna vedere se si tratta di norme rispetto alle quali è prevista un'attività del Comune che ha carattere di discrezionalità, che la legge impone e che il sindaco ritiene di disapplicare. Non può essere una contestazione generale". "Se ci sono atti che la legge prevede per i Comuni il sindaco non può disapplicarla. Se la disapplica, e in ipotesi interviene il prefetto o un'altra autorità, sorge un contenzioso e allora potrebbe essere sollevata una questione di legittimità costituzionale. Al momento - chiarisce l'ex presidente della Consulta Mirabelli - è un atto politico". Parole dal contenuto inequivocabile confermate poi da un altro ex presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, in un'intervista a Radio Anch'io, su Radio 1: "Non spetta al sindaco decidere di sospendere l'applicazione di una legge se la ritiene incostituzionale ma ricorrere all'autorità giudiziaria per chiedere che ne verifichi l'applicabilità e nel caso l'autorità giudiziaria ne investe la Corte costituzionale". Non solo Mirabelli e Flick, anche i sindaci di diverse città italiane prendono le distanze dall'iniziativa di Orlando, De Magistris e Nardella. A salire sulle barricate, assicurando l'applicazione delle misure previste dal decreto Salvini, sono stati i primi cittadini di città come Udine e Novara. "Il Comune di Udine garantirà piena applicazione al decreto sicurezza varato dal Governo e approvato dal Parlamento. La lotta all'illegalità promossa dal ministro Salvini troverà dunque nella città che ho l'onore di rappresentare una solida alleata, nell'esclusivo interesse di tutti quei cittadini, anche non italiani, che rispettano la legge e le nostre tradizioni", ha dichiarato il sindaco di Udine, Pietro Fontanini. Altrettanto chiaro il primo cittadino di Novara, Alessandro Canelli: "il decreto Salvini è uno strumento fondamentale per il controllo del territorio e per la sicurezza dei cittadini. Spiace che alcuni sindaci, forse più per motivi ideologici, abbiano annunciato di non voler applicare una legge dello Stato votata dal Parlamento. Forse hanno nostalgia dell’epoca dell’immigrazione senza controlli, ma con la loro scelta arrecano un danno anche ai loro stessi cittadini".

Orlando: «Disobbedisco!» Il sindaco di Palermo contro Salvini. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, congela le norme sui migranti del decreto sicurezza, scrive Giulia Merlo il 3 gennaio 2019, su "Il Dubbio".  Matteo Salvini ha trovato il primo avversario del 2019. Il guanto di sfida al ministro dell’Interno, proprio sul ddl Sicurezza che è stato il suo decreto- bandiera, arriva da Palazzo delle Aquile: il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha impartito «disposizione di sospendere, per gli stranieri eventualmente coinvolti dalla controversa applicazione della legge, qualunque procedura che possa intaccare i diritti fondamentali della persona con particolare, ma non esclusivo, riferimento alle procedure di iscrizione della residenza anagrafica». In sostanza, Orlando punta a congelare gli effetti del decreto nella parte che riguarda i migranti e, per farlo, ha inviato una circolare al servizio anagrafe per «approfondire tutti i profili giuridici anagrafici» che derivano dall’applicazione delle norme. E, in attesa dell’approfondimento, a Palermo si applicheranno le precedenti regole per quanto riguarda la possibilità di iscriversi all’anagrafe e, quindi, di accedere a una serie di servizi sociali. Immediata è arrivata, via social, la replica di Salvini: «Con tutti i problemi che ci sono a Palermo, il sindaco sinistro pensa a fare “disobbedienza” sugli immigrati». La battuta è pane per i denti del sindaco, che replica immediatamente: «Il nostro non è un atto di disobbedienza civile nè di obiezione di coscienza, ma la semplice applicazione dei diritti costituzionali. Smettiamola di dire che chi applica i diritti umani è eversivo», aggiungendo però di non aver intenzione di dibattere ulteriormente con il ministro dell’Interno: «Giochiamo due partite diverse su due campi diversi, lui gioca a cricket e io a volley. Non ho nessun motivo di replicare». Schermaglie a parte, la tesi di Orlando è tutta politica: «Il governo ha buttato la maschera. Siamo davanti a una palese violazione dei diritti umani e a un provvedimento disumano e criminogeno, che, eliminando la protezione umanitaria, trasforma i legali in illegali. Ci sono migliaia, centinaia di migliaia di persone che oggi risiedono legalmente in Italia, pagano le tasse, versano contributi all’Inps e fra qualche settimana o mese saranno senza documenti. Questo significa incentivare la criminalità, non combatterla o prevenirla». Parole durissime contro il governo: la breccia aperta dal sindaco di Palermo mette in moto anche le altre città italiane. Il primo a prendere posizione in favore di Orlando è il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, che ha rivendicato di aver da subito «schierato la mia città dalla parte dei diritti. Noi applichiamo le leggi ordinarie solo se rispettano la Costituzione repubblicana. Ci muoviamo in questa direzione anche per il sistema Sprar». Lo stesso ribadisce anche il sindaco di Riace, Mimmo Lucano, che ha commentato: «Bisogna disobbedire perché è un decreto contro i diritti umani e la dignità degli esseri umani. Non è una novità: io l’ho già fatto e mi trovo in queste condizioni». Anche il sindaco di Firenze, Dario Nardella, sposa la linea di Orlando: «Firenze non si piegherà al ricatto contenuto nel decreto sicurezza che espelle migranti richiedenti asilo e senza rimpatriarli li getta in mezzo alle strade». Dal Lazio, anche il presidente della regione, Nicola Zingaretti, sposa la battaglia del fondatore della Rete: «Mi sento vicino al sindaco Orlando, al suo impegno contro l’odio e capisco la sua fatica per porre rimedio a norme confuse scritte solo per l’ossessione di fare propaganda e che spesso producono caos, più diffidenza e insicurezza per tutti. Tutto sulle spalle dei territori e degli amministratori locali». Preoccupazioni, queste, condivise anche dall’ex grillino sindaco di Parma, Federico Pizzarotti: «Da subito abbiamo segnalato che questo decreto, per come è scritto, crea solo problemi, difficoltà nell’avere documenti e quindi nell’inserirsi in un percorso regolare, anche per avere un lavoro. Cercheremo di capire come si muovono gli altri Comuni, certo non basta una lettera di un sindaco per modificare il funzionamento dell’anagrafe». E proprio questa sembra essere la prospettiva dell’iniziativa del sindaco di Palermo che, pur ribadendo di «non voler essere un modello», ha annunciato che invierà «una copia del testo all’Anci nazionale e ai sindaci più interessati dalla vicenda dell’immigrazione». Così, il primo intoppo al “governo del cambiamento” potrebbe arrivare dalla mobilitazione dei comuni.

Palermo, capitale dell'accoglienza: la grande lezione della Sicilia a tutta l'Italia. Nei quartieri più poveri volontari e Comune integrano 25 mila stranieri, Ballarò rivive con Moltivolti e con i commercianti bengalesi che denunciano gli estortori della mafia. Un modello alternativo. E ora Orlando annuncia la sospensione del decreto Salvini, scrive Carmine Fotia il 2 gennaio 2019 su "L'Espresso". Rimbalzano nei vicoli stretti di una pavimentazione resa scivolosa dagli umori del mercato le urla dei venditori: pane e panelle, pani c’a meusa, crocchè, fritturiedda, sfincioni, purpi, sfrigolano le stigghiole e gli odori delle verdure, i colori della frutta si mischiano con l’odore delle spezie, del kebab, del cous-cous. Bastano naso e palato per capire che straordinario miscuglio sia diventato Ballarò, il quartiere del mercato in pieno centro storico di Palermo. Poi, quando cala la sera, i negozi ancora aperti degli immigrati danno vita e luce al quartiere. Ecco la barberia di Salim, che viene dal Benin, dove mentre dentro la minuscola bottega lui ti aggiusta barba e capelli accompagnato da musica africana e altri ragazzi ballano, seduti ai tavolini esterni immigrati e palermitani sorseggiano birre e spinelli. Sarà tutto legale? Non lo so e francamente m’importa poco: «L’esclusione sociale non ha colore, qui il tema della legalità è complicato per tutti: al mercato non sono soltanto gli immigrati a essere fuori dalle regole della Ue», spiega Claudio Arestivo, uno dei fondatori di Moltivolti, ristorante multietnico, centro sociale, fucina culturale e gastronomica con la sua cucina “siculo-africana”, dove a pranzo puoi mangiare un cous-cous afgano e involtini palermitani e la sera assistere a un affollatissimo concerto di musica dei Balcani.

«Qui a Ballarò», continua Claudio, «abbiamo un 35 per cento di migranti, e siamo un Laboratorio Sociale». «Hanno fatto un po’ come a Riace», spiega Gianmauro Costa, giornalista e scrittore, che nel suo prossimo romanzo in uscita per Sellerio farà agire proprio a Ballarò, alle prese con la Black Axe, la nuova mafia nigeriana, la sua nuova eroina, la poliziotta Angela Mazzola, «i migranti hanno preso vecchie case fatiscenti e le hanno rifatte con le loro mani». Dice il presidente del Municipio, Massimo Castiglia: «Ti sei mai chiesto perché la Vucciria è un mercato morto mentre Ballarò è vivo? Perché la gente che vive qui, in primo luogo gli immigrati, fa la spesa al mercato, lì, no. Per fare vivere un mercato non basta chi viene a fare la foto, serve chi viene a fare la spesa». «Più che la Vucciria, in qualche modo santificata ma ingabbiata nell’irripetibile quadro di Guttuso, è Ballarò, nella sua tumultuosa vitalità, a rappresentare oggi meglio l’identità di Palermo», dice la scrittrice Evelina Santangelo che, insieme a Gian Mauro Costa e il suo rinato cinema Rouge et Noir, anima la sezione palermitana della scuola di scrittura Holden. «Gli immigrati hanno fatto rivivere un quartiere: a giugno sono venuti i Reali d’Olanda, e docenti dell’università di Cardiff. Caro Salvini, invece di cavalcare le paure che possono sdoganare la violenza pur di semplificare e ottenere consenso perché non vieni a vedere come funziona a Ballarò?», lancia la sua sfida il minisindaco di Ballarò. Guai però, ammonisce il Sindaco Leoluca Orlando, a individuare nuovi modelli perché Riace insegna che innalzare nuovi modelli può rendere più facile colpirli. Tuttavia da Ballarò una pratica alternativa emerge, dice Castiglia «nel senso che qui c’è un forte privato-sociale organizzato e le strutture sono messe in rete costruendo un presidio di contrasto alla povertà che non riguarda solo i migranti. E poi le istituzioni sono vicine: la gente magari si incazza ma viene comunque in Municipio».

Sceso a Palermo (nel sud si dice così: “scendi” quando arrivi, “sali” quando te ne vai) nei giorni del vertice sulla Libia il cui scopo (fallito) era normalizzare quel Paese per impedire i flussi migratori verso l’Italia ripenso a queste parole di Aldous Huxley - umanista, pacifista, maestro della letteratura distopica, scritte nell’introduzione a una nuova edizione dell’Inchiesta su Palermo di Danilo Dolci pubblicata da Einaudi nel 1956: «Senza carità, la conoscenza tende a mancare di umanità; senza conoscenza, la carità è destinata sin troppo spesso all’impotenza», mentre scopro una città controcorrente rispetto al delirio securitario, che per bocca del suo sindaco Leoluca Orlando (che magari i nuovi potenti italiani neri gialli e verdi considerano un criminale ma che in Germania viene premiato da Wim Wenders proprio grazie alle sue idee sull’accoglienza) propone addirittura l’abolizione del permesso di soggiorno, scopro che dalla semina di Danilo Dolci, il sociologo del nord che negli anni ’50 scelse di raccontare la spaventosa povertà di Palermo e della Sicilia Occidentale filtrando numeri e dati attraverso la sua esperienza umana di condivisione della vita e delle sofferenze di quel popolo, oltre mezzo secolo dopo, sono nati bellissimi fiori: Fra’ Mauro ai Danisinni; Alessandra, Roberta, Fausto, Massimo, Claudio a Ballarò. E ve ne sono tanti altri e altre allo Zen, all’Albergheria, alla Zisa, in mezzo al mare. Nessuno di loro è un santo (almeno finora), non tutti sono religiosi, non sono soltanto assistenti sociali, non sono militanti politici tradizionali, sono quasi tutti palermitani e non agiscono semplicemente per “solidarietà” verso i nuovi poveri del ventunesimo secolo, i migranti in fuga dalla guerra, dalla tortura, dalla fame, gli stessi fantasmi dai quali fuggivano i poveri della Palermo degli anni ’50 con i quali condivideva la vita Danilo Dolci. «È che i razzisti fanno una vita di merda», dice Alessandra Sciurba, precaria universitaria, una delle promotrici del Progetto Mediterranea che ha messo in mare la Mare Jonio, coordinatrice del Progetto Harraga (vuol dire ragazzi che bruciano) dedicato ai ragazzi migranti, che cela dietro un sorriso dolcissimo i poteri di una Supergirl che è insieme lavoratrice, mamma, assistente sociale, attivista, comunicatrice. E loro, invece, a Ballarò, alla Zisa, allo Zen, ai Danisinni, fanno quel che fanno perché, come dice Fausto Melluso, sferzante e ironico, giovane avvocato, delegato alle migrazioni dell’Arci di Palermo e responsabile del Circolo Arci “Porco Rosso” vogliono “una vita felice” non dominata dalla ferocia delle giugulari gonfie. È l’idea di una mitezza che è compassione e comprensione di un mondo nuovo che non può essere fermato né dalle ruspe, né dai muri, quella compresenza di carità e conoscenza, come scriveva Huxley, che qualcuno chiama sprezzantemente buonismo e che dovremmo invece riconoscere come un nuovo umanesimo che ci liberi da un futuro cupo che oggi possiamo forse raccontare solo con la distopia: «Forse solo raccontando i fantasmi possiamo raccontare la realtà», dice Evelina Santangelo, che ha scritto di migranti neri e di emigrati siciliani, il cui ultimo romanzo uscito per Einaudi, “Da un Altro Mondo”, è dedicato all’onda nera che attraversa l’Europa. Sono pazzi loro, è pazzo il sindaco, che scommettono sull’apertura, sulle radici proiettate nel futuro di una città che ha conosciuto invasioni, dominazioni, stratificazioni che ne costituiscono l’identità polimorfa nella lingua, nell’eredità genetica, nel cibo? «Prendi l’arancina - a Palermo rigorosamente tonda e femminile mentre nella Sicilia orientale diventa piramidale e maschile - è cibo palermitano senza dubbio, ma nasce dalla tradizione araba di mischiare il riso con un ripieno», spiega Danilo Li Muli, pubblicitario e imprenditore, figlio dell’eccellente disegnatore e grafico palermitano Gianni, che ha aperto una catena di street food palermitano e l’ha chiamata Kepalle, in onore a sua maestà l’arancina “tradendo” però l’ortodossia che la vuole solo al burro o al ragù e riempendola di delizie varie. Danilo ha subito intimidazioni pesanti che ha denunciato, ma non per aver tradito l’ortodossia dell’arancina, ma perché non paga il pizzo. A due passi da uno dei suoi negozi in via Maqueda, pieno centro storico, anche un gruppo di commercianti bengalesi di Ballarò si è rivolto all’Associazione Addio Pizzo per denunciare gli estortori mafiosi. Dunque la contaminazione riguarda anche le buone pratiche e allora i pazzi sono loro, o sono gli altri, i signori del governo che cavalcano paure e seminano odio? «A Palermo non abbiamo piante autoctone, le nostre piante, i nostri alberi sono “migranti” che risiedono a Palermo», dice il primo di questi pazzi, “u Sinnacollanno”. «Il futuro è nei nomi di Google (o un altro colosso digitale) e Ahmed (o un altro nome di migrante): il primo esprime la connessione virtuale, il secondo la connessione umana. La sfida di Palermo è dimostrare che l’innovazione e la relazione umana se stanno insieme producono futuro». Mentre la città assisteva con distacco e senza alcun entusiasmo al vertice blindato dei politici di governo, rinchiusi nell’Acquario di Villa Igiea, l’Hotel più lussuoso di Palermo, insieme ai signori della guerra che imprigionano, torturano, uccidono è proprio a Ballarò che ho trovato le storie terribili di chi fugge dai lager libici, come questa: «Da mesi non riesco a dormire, faccio sogni cattivi, mi spavento e temo che mi possa succedere qualcosa», racconta S. E. che ha 19 anni e viene dal Gambia, «i pensieri mi affollano la mente e non se ne vanno mai. Giorno e notte penso a quanto visto durante il viaggio dal Gambia all’Europa. La mia mente è affollata da immagini di gente morta. Rivedo i cadaveri in acqua. Ero in Libia a Sabratha, assieme a 150 persone che aspettavano di imbarcarsi sui gommoni… sul mare galleggiavano i corpi putrefatti e mangiati dai pesci di decine di persone. I libici mi hanno costretto a seppellire quei cadaveri. Erano irriconoscibili, puzzavano. Ricordo ancora quel mare e quella spiaggia della morte e mentre scavavo a terra la paura mi faceva tremare i denti e le mie gambe erano tese come il legno. Penso sempre a quei cadaveri e ai loro visi irriconoscibili e mangiati dai pesci». Secondo i dati forniti da Salvatore Avallano, coordinatore di Medu (Medicina per i diritti umani) in una delle sessioni del controvertice sulla Libia che si è svolto proprio a Ballarò, l’85 per cento dei migranti che arrivano dalla Libia hanno subito torture e violenze di vario tipo delle quali al vertice nessuno ha chiesto conto. A Moltivolti, Roberta Lo Bianco - coordinatrice Unità Migrazioni del Cesie, tutrice volontaria di due minori - ha portato a pranzo un gruppo di ragazzi per festeggiare la conclusione del loro corso di formazione, ma nessuno di loro ha voglia di festeggiare, le loro espressioni sono turbate e preoccupate: «Sono qui da sei mesi, ora sono tutti maggiorenni, ma alcuni di loro sono arrivati da minorenni», racconta Roberta, «facciamo corsi di orientamento socioculturale, per spiegare loro come funziona in Italia: la sanità, il lavoro, i diritti che spetterebbero loro. Sono richiedenti asilo che hanno avuto la protezione umanitaria. Ora rischiano di diventare irregolari e non possono pensare a nessun lavoro perché non sanno cosa succederà di loro. Io per questo sono molto arrabbiata». Alessandra Sciurba racconta la storia di B.: «Aveva solo 16 anni quando ha raggiunto la Sicilia. Non sapeva né leggere né scrivere, ma ha imparato in Italia: l’italiano è stata la prima lingua che ha scritto. Ha conseguito la licenza media, e adesso è iscritto alla scuola superiore, presso un istituto alberghiero. Oggi B., essendo stato escluso dalla possibilità di accoglienza presso gli Sprar, che il decreto sicurezza lascia aperta solo per i titolari di protezione internazionale e per i minori, e avendo appena compiuto 18 anni, si è ritrovato a vivere per strada, non riuscendo più a frequentare la scuola». Tutto il lavoro fatto finora, 240 ragazzi che hanno partecipato ai laboratori, 85 tirocini lavorativi, rischia di non servire a nulla. Per loro si apre un limbo di sei mesi che produrrà grande disagio psicologico e poi dovranno affrontare esami molto difficili: «Il sistema che hanno creato», conclude Alessandra, «è patogeno, perché ora si perdono anche quel minimo di garanzie che c’erano prima». I pazzi di Palermo (non è un’offesa, semmai la rivelazione di una strana qualità che Roberto Alajmo ha mirabilmente raccontato nel suo “Repertorio dei pazzi della città di Palermo”) sono anche i “proprietari” della Nave Jonio, l’unica nave delle Ong a navigare nel Mediterraneo. «Ma l’hai vista? Sembra la barca di Popeye», sorride Alessandra Sciurba, «l’abbiamo trovata grazie alla gente di mare, che è bella gente. Noi siamo solo persone normali che a un certo punto hanno pensato che in mezzo al Mediterraneo stavamo annegando tutti. Nessuno dovrebbe stare in mezzo al mare. Io non penso che la vita umana debba essere calcolata come un numero. Per questo pratichiamo l’obbedienza civile e la disobbedienza morale, mettendo in gioco anche le nostre fragilità». «La nave ci è costata 700 mila euro. Abbiamo trovato una banca di pazzi che ce li ha anticipati e stiamo raccogliendo i fondi con il crowdfunding», spiega Claudio Arestivo. «Perché l’ho fatto? Per questa semplice ragione: i miei fratelli, i miei cugini, insieme a una marea di persone, sono andati via da Palermo, mentre io ho difeso il mio diritto a restare. Non posso pensare che il ragazzo ghanese che lavora in cucina non abbia gli stessi diritti dei miei fratelli e dei miei cugini. Io voglio poter dire ai miei figli che in un tempo in cui accadevano cose brutte noi abbiamo reagito». A ridosso della cattedrale di Palermo, dentro il corso dell’antico fiume Papireto, lungo il cammino arabo-normanno, a poche centinaia di metri da dove sorgeva il quartiere Cortile Cascino, dove negli anni Cinquanta visse Danilo Dolci e dove nel 1962 girarono un bellissimo documentario i cineasti inglesi Robert M. Young e Michele Roem, c’è la borgata Danisinni. Il nome è di derivazione araba e indica una delle sorgenti, “Ayu’abi Sa Idin” (la fonte di Abu Said), che alimentava il Papiro che qui cresceva rigoglioso e, racconta la leggenda, proprio attraverso la grotta di Danisinni, riceveva le acque del Nilo. Oppure, secondo una radicata tradizione popolare, prese il nome da una bella principessa figlia del walì Abu Said. Borgata di povertà assoluta, vicoli stretti, piccole vecchie case malandate, edifici diroccati, sta risorgendo anche grazie al lavoro dei frati Cappuccini di Fra Mauro, una sorta di Massimo Cacciari più giovane con il saio e i sandali. Ci arrivo alle 11 di una domenica di sole accecante. Sui muri e persino sui bidoni dell’immondizia murales e graffiti. La cappella della chiesa dove Fra Mauro celebra i battesimi è piena, sicché molti seguono la cerimonia da una piccola cappella attigua dove è montato uno schermo. Mentre mostra con orgoglio la Fattoria sociale dove accanto agli orti pascolano oche, somari e galline, Fra Mauro racconta: «Qui vivono famiglie molto povere (circa 2.000 persone) ma con grande capacità di resilienza. Ci sono molti immigrati, in prevalenza marocchini che vivono di espedienti. Qui la rigenerazione urbana nasce dalla rigenerazione del tessuto umano insieme al tessuto ambientale. Per riscattare l’esclusione sociale servono passione e cultura, non solo risorse. Abbiamo avviato progetti di turismo sociale, sfruttando la nostra collocazione al centro del camminamento arabo-normanno tra Palazzo Reale e il castello della Zisa. Abbiamo appena stipulato un accordo con Airbnb che prevede la possibilità di poter affittare ai turisti, e già funziona l’accordo con un’associazione che si chiama Sicilscatta: un percorso fotografico che si conclude con un pranzo cucinato dalle famiglie della borgata che usano i prodotti della nostra Fattoria Sociale». L’accoglienza, qui non è qualcosa che viene dall’esterno, è connaturata alla vita reale: «È rimasto un senso di comunità», racconta Fra Mauro, «chi cucina condividendo con chi ha meno non fa differenza tra palermitani e immigrati. L’unica alternativa alla xenofobia è la riscoperta dell’umanità: se ascolti l’altro, se lo vedi nella sua concreta dimensione umana lo accetti, se alzi un muro non lo vedi. Il nostro popolo vive un sentimento empatico perché chi è povero, chi vive la fatica quotidiana del vivere si apre alla relazione con l’altro». Mi accorgo con lo stupore del vecchio cronista che ha battuto questi marciapiedi raccontando la violenza mafiosa che finora di mafia non ho parlato. Mentre è lunghissimo l’elenco di tutte le iniziative culturali che accompagnano la Palermo capitale della cultura 2018. È forse il cambiamento più grande di una città che, dice Evelina Santangelo, «si definiva contro, come antimafiosa e che ora può rivelare una sua identità positiva». Tutto ciò è reso possibile da un’azione del Comune che è economica (circa 35 milioni di spesa per il sociale e 8 per i migranti) ma che soprattutto fa leva su questa nuova identità per attrarre capitali e iniziative private. «Palermo», spiega Orlando mentre mi fa visitare i Cantieri della Zisa, dove vivono una quantità di attività private sostenute dal Comune ma autofinanziate che danno lavoro a circa 400 persone, «è la città che è cambiata di più negli ultimi quarant’anni: da capitale della mafia con il primo cittadino che era insieme sindaco e capo della mafia, a capitale della cultura con un sindaco che è lo stesso che per primo ha cacciato la mafia fuori dal palazzo della città. Liberarsi da quella legge del sangue che è la base del razzismo e della xenofobia, è una grande operazione culturale che spezza la cultura mafiosa, che è cultura del sangue». Qualche numero per rendere l’idea del melting pot palermitano: a Palermo risiedono 25 mila stranieri, provenienti da 128 Paesi diversi, rappresentati da una Consulta delle Culture di 21 eletti che eleggono a loro volto un presidente che li rappresenta in consiglio comunale. «Di questo cambiamento culturale dobbiamo ringraziare soprattutto i migranti», afferma il sindaco, «Palermo, città migrante, per cento anni ha rifiutato i migranti: le uniche migranti erano distinte signore tedesche, rumene, austriache, francesi che avevano cura di noi bambini della Palermo aristocratica. Oggi Palermo grazie all’arrivo e all’accoglienza dei migranti ha recuperato la propria armonia perduta: davanti alle moschee passeggiano musulmani, la comunità ebraica realizza una sinagoga e, qua e là, a decine sorgono templi hindu e buddisti. Oggi grazie alla presenza di migliaia di cosiddetti migranti, i palermitani scoprono il valore dell’essere persona e difendono i diritti umani, i loro diritti umani. Una ragazza disabile in sedia a rotelle, palermitana, mi ha detto: “Grazie Sindaco, da quando accogliamo i migranti io mi sento più eguale, più normale, meno diversa”. E se cominciassimo a puntare in alto? Ad accettare che i migranti ci aiutino a recuperare il ruolo del merito? Non più a chi appartieni? Ma finalmente chi sei? Chi hai deciso di essere, cosa sai fare? Don Pino Puglisi, il mio carissimo amico Pino, non combatteva la mafia con le armi e con le denunce, chiedeva venisse rispettato il diritto dei bambini del quartiere di avere una scuola, una scuola degna di questo nome e non più una scuola collocata in appartamenti di proprietà di mafiosi lautamente ricompensati con canoni di affitto gonfiati. A Palermo difendiamo l’unica razza: quella umana. Non ci sono migranti a Palermo: chi vive a Palermo è palermitano. E chi distingue gli esseri umani secondo le razze prepara Dachau e Auschwitz».

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

Quei cazzotti a Falcone. Due o tre cose che bisognerebbe sapere sul rapporto tra Falcone e Leoluca Orlando, scrive Anna Germoni su Panorama. L’ennesimo cazzotto a Giovanni Falcone. Nemmeno di fronte alla morte, si fermano gli attacchi e le polemiche. Si specula, si distorce, si spiega il suo nome per una manciata di voti. Perché non parlare di programmi, di piattaforme, di riforme, di contenuti del suo movimento? No, il leader di Rivoluzione Civile, Antonio Ingroia, non si arresta di fronte a nulla. Eppure di motivi per stare in silenzio ce ne sarebbero: come lo scontro Orlando-Falcone, che culminò con l’ennesimo calvario del giudice di doversi difendere davanti al Csm. E Leoluca Orlando è anche uno dei primi firmatari di quel movimento di Ingroia. E allora diventa imbarazzante, non ricordare la storia. Nell’agosto del 1989 inizia a collaborare con i magistrati il mafioso Giuseppe Pellegritti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava rivelando al magistrato Libero Mancuso di essere a conoscenza, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informa subito Falcone, il quale interroga il pentito il 17 agosto. Il giudice si muove rapidamente e il 21 agosto parte una richiesta istruttoria dalla Procura di Palermo. Negli atti depositati, Falcone spiega che il pentito non sta dicendo la verità. Il giorno dopo, Pellegritti viene interrogato dalla Corte d’Assise d’Appello nel carcere di Alessandria, dove conferma il teorema su Lima mandante dell’omicidio Mattarella. Il 4 ottobre, Falcone dopo due mesi di indagini, appurando la sua totale inaffidabilità, firma un mandato di cattura per "calunnia continuata" contro Pellegritti. È una reazione dura ma necessaria. Subito si scatena la canea contro Giovanni Falcone. La versione corrente è che il magistrato vuole proteggere Andreotti e Lima, cioè il potere. Leoluca Orlando Cascio dichiara guerra a Falcone. E proprio da una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre, il 24 maggio 1990 il sindaco di Palermo lancia un’accusa gravissima: il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene «chiusi dentro il cassetto». A questa denuncia si associano gli uomini del movimento La Rete: Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e Nando Dalla Chiesa. In particolare si fa riferimento a una serie di documenti, otto scatole sigillate negli uffici giudiziari e a un armadio pieno di carte, lasciato da Rocco Chinnici. Galasso, Mancuso e Orlando fanno esposto al Csm, l’11 settembre 1991. L’avvocato Giuseppe Zupo, avvocato di parte civile della famiglia Costa, recapita, sempre al civico del Palazzo dei Marescialli, due memorie, proprio su questi otto pacchi, sottolineando “il mancato esame… e di doveri trascurati”. Falcone ormai è sotto tiro. E anche i giornali intraprendono una battaglia di fuoco tra di loro. La Repubblica, del 20 maggio 1990, titola un’intervista di Silvana Mazzocchi a Falcone, con I nomi, altrimenti stia zitto…, dove il giudice replica:” Se il sindaco sa qualcosa faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma tutta la responsabilità di quello che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati…”. Il sindaco di Palermo ribatte attraverso L’Unità del 14 agosto 1991, a firma di Saverio Lodato, Indagate sui politici, i nomi ci sono. Per un anno Leoluca Orlando Cascio, come un martello pneumatico, bombarda Falcone con le stesse accuse. Lo fa con ogni mezzo: interviste su giornali, tv e conferenze stampa. Intercede anche Cossiga, ma il sindaco di Palermo non si placa. Il capo dello Stato allora il 16 agosto 1991 scrive una lettera al Guardasigilli Claudio Martelli e ne manda copia al presidente del Consiglio e al ministro dell’Interno affinché sulla “già nota teoria di Orlando”, “venga aperta un’inchiesta affidata all’autorità giudiziaria al di fuori della Sicilia”. (Leoluca Orlando Cascio, recentemente ha dichiarato di non pentirsi della polemica con Falcone e che “oggi dichiarerebbe le stesse cose”). Il Csm, dopo l’intervento di Cossiga, l’esposto di Galasso, Mancuso, Orlando e dell’avvocato Zupo, convoca Falcone. Ormai non si contano più le sue audizioni dentro al Palazzo dei Marescialli. E’ il 15 ottobre 1991 quando depone davanti al Csm, in un’udienza riservata. Ecco che cosa Falcone dichiara nel verbale (il n. 61): «Se c’è stata preoccupazione, da parte nostra, è stata proprio quella di non confondere le indagini della magistratura nella guerra santa alla mafia… Adesso non si parla di prove nel cassetto perché i cassetti sono stati svuotati. Essere costretto a scrivere all’Unità che non è certo carino scrivere – dopo che si presenta questo memoriale - Falcone preferì insabbiare tutto. Quando nel corso di una polemica vivacissima fra Orlando e altri, una giornalista mi chiese che cosa pensassi di Orlando, io ho detto “ma cosa vuole che possa rispondere di un amico”, ecco, dopo poche ore, tornato in sede, ho appreso quell’attacco riguardante le prove nei cassetti. Se vogliamo dirlo questo mandato di cattura non è piaciuto, perché dimostrava e dimostra che cosa? Che nonostante la presenza di un sindaco come Orlando la situazione degli appalti continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava ad imperare, sottobanco, in queste vicende. Difatti sono stati arrestati non solo Ciancimino, ma anche Romolo Vaselli, e Romolo Vaselli è il factotum di Vito Ciancimino per quanto attiene alle attività imprenditoriali. Devo dire che, probabilmente, Orlando e i suoi amici hanno preso come un inammissibile affronto alla gestione dell’attività amministrativa del comune un mandato di cattura che, in realtà, si riferiva a una vicenda che riguardava episodi di corruzione molto seri, molto gravi, riguardanti la gestione del comune di Palermo…la Cosi e la Sico (due imprese romane n.d.r.) durante la gestione Orlando… quegli stessi appalti che le imprese di Ciancimino si sono assicurati durante la gestione Orlando. La Cosi e la Sico, due imprese, che erano Cozzani e Silvestri che si trovavano a Palermo con tutte le attrezzature, materiale e con il personale umano di Romolo Vaselli, che è un istituzione a Palermo, il conte Vaselli”. Poi Falcone si sfoga: «Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è per adesso a Palermo». Questo diceva Falcone. Dopo la sua morte fu Ilda Boccassini, senza tanti giri di parole, a denunciare: “Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento”.

Quando Leoluca Orlando (e l’antimafia) infangavano Giovanni Falcone, scrive Filippo Facci il 20 maggio 2012 su Il Post. Un ricordo controcorrente del magistrato ucciso 26 anni fa. Ci sono molti modi per ricordare Giovanni Falcone. Noi abbiamo scelto quello che Filippo Facci, cronista che da anni fa un efficace controcanto al giustizialismo, scrisse 6 anni fa sulla querelle tra Leoluca Orlando, ‘paladino della legalità’, la trasmissione di Michele Santoro e lo stesso Falcone. Una storia rimasta sottotraccia per molti, troppi anni.

È la storia, questa, di un tradimento orribile da raccontare proprio nei giorni in cui Leoluca Orlando potrebbe diventare sindaco di Palermo per la terza volta, e che sono gli stessi giorni nei quali si celebra il ventennale della morte di Giovanni Falcone. Difatti «Orlando era un amico», racconta oggi Maria Falcone, sorella di Giovanni. «Erano stati amici, avevano pure fatto un viaggio insieme in Russia… Orlando viene ricordato soprattutto per quel periodo che in molti chiamarono Primavera di Palermo, ma anche per lo scontro durissimo che ebbe con Giovanni e che fu un duro colpo, distruttivo per l’antimafia in generale». Uno scontro che va raccontato bene, al di là della dignitosa discrezione adottata da Maria Falcone in Giovanni Falcone, un eroe solo da lei scritto di recente per Rizzoli. Siamo nei tardi anni Ottanta. Leoluca Orlando, tuonando contro gli andreottiani, era diventato sindaco nel 1985 e aveva inaugurato la citata Primavera di Palermo che auspicava un gioco di sponda tra procura e istituzioni. Però, a un certo punto, dopo che il 16 dicembre 1987 la Corte d’assise di Palermo aveva comminato 19 ergastoli nel cosiddetto «maxiprocesso», qualcosa cambiò. Tutti si attendevano che il nuovo consigliere istruttore di Palermo dovesse essere lui, Falcone: ma il Csm, il 19 gennaio 1988, scelse Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità. E a Falcone cominciarono a voltare le spalle in tanti. Con Orlando, tuttavia, vi fu un episodio scatenante: «Orlando ce l’aveva con Falcone», ha ricordato l’ex ministro Claudio Martelli ad Annozero, nel 2009, «perché aveva riarrestato l’ex sindaco Vito Ciancimino con l’accusa di essere tornato a fare affari e appalti a Palermo con sindaco Leoluca Orlando, questo l’ha raccontato Falcone al Csm per filo e per segno». Il fatto è vero: fu lo stesso Falcone, in conferenza stampa, a spiegare che Ciancimino era accusato di essere il manovratore di alcuni appalti col Comune sino al 1988: si trova persino su YouTube. Quando Falcone accettò l’invito di dirigere gli Affari penali al ministero della Giustizia, poi, la gragnuola delle accuse non poté che aumentare. Fu durante una puntata di Samarcanda del maggio 1990, in particolare, che Orlando scagliò le sue accuse peggiori: Falcone – disse – ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti. Per l’esattezza il riferimento era a otto scatole lasciate da Rocco Chinnici e a un armadio pieno di carte. Le trasmissioni condotte da Michele Santoro erano dedicate a una serie di omicidi di mafia, e «io sono convinto», tuonò Orlando, «che dentro i cassetti del Palazzo di Giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza su quei delitti». L’accusa verrà ripetuta a ritornello anche da molti uomini del movimento di Orlando, tra i quali Carmine Mancuso e Alfredo Galasso. Divertente, o quasi, che tra gli accusati di vicinanza andreottiana – oltre a Falcone – figurava anche il suo collega Roberto Scarpinato, cioè colui che pochi anni dopo istruirà proprio il processo per mafia contro Andreotti. È di quei giorni, comunque, uno slogan di Orlando che fece epoca: «Il sospetto è l’anticamera della verità». Falcone rispose a mezzo stampa: «È un modo di far politica che noi rifiutiamo… Se Orlando sa qualcosa faccia i nomi e i cognomi, citi i fatti, si assuma la responsabilità di quel che ha detto, altrimenti taccia. Non è vero che le inchieste sono a un punto morto. È vero il contrario: ci sono stati sviluppi corposi, con imputati e accertamenti». Ma Orlando era un carroarmato: «Diede inizio», scriverà Maria, a una vera e propria campagna denigratoria contro mio fratello, sfruttando le proprie risorse per lanciare accuse attraverso i media». Così aveva già fatto nell’estate del 1989, quando il pentito Giuseppe Pellegriti accusò il democristiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani: Falcone fiutò subito la calunnia ma Orlando si convinse che il giudice volesse proteggere Lima e Andreotti. «Seguirono mesi di lunghe dichiarazioni e illazioni da parte di Orlando, che voleva diventare l’unico paladino antimafia», ha scritto ancora Maria Falcone. Del fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, vicino a Palermo, torneremo a scrivere nei prossimi giorni. Per ora appuntiamoci soltanto quanto scrisse il comunista Gerardo Chiaromonte, defunto presidente della Commissione Antimafia: «I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità». Orlando era instancabile. Tornò alla carica il 14 agosto 1991, quando rilasciò un’intervista su l‘Unità poi titolata «Indagate sui politici, i nomi ci sono»: «Sono migliaia e migliaia i nomi, gli episodi a conferma dei rapporti tra mafia e politica. Ma quella verità non entra neppure nei dibattimenti, viene sistematicamente stralciata, depositata, e neppure rischia di diventare verità processuale… Si è fatto veramente tutto, da parte di tutti, per individuare responsabilità di politici come Lima e Gunnella, ma anche meno noti come Drago, il capo degli andreottiani di Catania, Pietro Pizzo, socialista e senatore di Marsala, o Turi Lombardo? E quante inchieste si sono fermate non appena sono emersi i nomi di Andreotti, Martelli e De Michelis?». Orlando citò espressamente, tra i presunti insabbiatori, «la Procura di Palermo» e implicitamente Falcone. Per il resto, tutte le accuse risulteranno lanciate a casaccio. Poco tempo dopo, il 26 settembre 1991, al Maurizio Costanzo Show, ad attaccare Falcone fu il sodale di Orlando, Alfredo Galasso. Lo stesso Galasso assieme a Carmine Mancuso e a Leoluca Orlando, l’11 settembre precedente, aveva fatto un esposto al Csm che sarà il colpo finale: si chiedevano spiegazioni sull’insabbiamento delle indagini sui delitti Reina, Mattarella, La Torre, Insalaco e Bonsignore e anche sui rapporti tra Salvo Lima e Stefano Bontate e sulla loggia massonica Diaz e poi appunto sulle famose carte nei cassetti. Così, dopo circa un mese, il 15 ottobre, Falcone dovette vergognosamente discolparsi davanti al Csm. Non ebbe certo problemi a farlo, ma fu preso dallo sconforto: «Non si può andare avanti in questa maniera, è un linciaggio morale continuo… Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo». Racconterà Francesco Cossiga nel 2008, in un’intervista al Corriere della Sera: «Quel giorno lui uscì dal Csm e venne da me piangendo. Voleva andar via». Anche della strage di Capaci torneremo a raccontare. Ora restiamo a Orlando, e a quando il 23 maggio 1992, a macerie fumanti, da ex amico e traditore si riaffaccerà sul proscenio come se nulla fosse stato. Il quotidiano la Repubblica gli diede una mano: «A mezzanotte e un quarto una sirena squarcia il silenzio irreale del Palazzo di Giustizia di Palermo. Arriva Antonio Di Pietro da Milano, il giudice delle tangenti, il Falcone del Nord… Con lui ci sono Nando Dalla Chiesa, Carmine Mancuso e Leoluca Orlando». Cioè parte degli accoltellatori, quelli dell’esposto al Csm. Proprio loro. Partirà da quel giorno un macabro carnevale di sfruttamento politico, editoriale, giudiziario e «culturale» dell’icona di un uomo che ne avrebbe avuto soltanto orrore. Il 25 gennaio 1993, intervenendo telefonicamente a Mixer su Raidue, Maria Falcone disse a Leoluca Orlando: «Hai infangato il nome, la dignità e l’onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato. Hai approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario». Il 18 luglio 2008, intervistato da KlausCondicio, Orlando l’ha messa così: «C’è stata una difficoltà di comprensione con Giovanni Falcone». Una difficoltà di comprensione. E poi: «Ma ridirei esattamente le stesse cose… Ho avuto insulti ai quali non ho mai replicato, perché credo che sia anche questa una forma di rispetto per le battaglie che io ho fatto… (pausa, poi aggiunge) … e che Giovanni Falcone meglio di me ha fatto, perché trascinare una storia straordinaria come quella di Falcone dentro una polemica politica, francamente, è cosa di basso conio». E lui non l’avrebbe mai fatto. Filippo Facci

Addio al business dell'accoglienza. E le cooperative sono costrette a chiudere. Dopo Trento, anche dalla provincia di Rovigo arrivano le prime voci di dissenso contro gli effetti del Decreto sicurezza: trovandosi senza fondi, molte coop saranno costrette a chiudere o ad effettuare importanti tagli del personale. Rappresentanti Cgil: “Alimentata voragine della disoccupazione”, scrive Federico Garau, Giovedì 03/01/2019, su "Il Giornale".  Mentre imperversa lo scontro fra il ministro Salvini ed i sindaci ribelli, anche i centri d’accoglienza, che vedono ridurre drasticamente il numero di stranieri all’interno delle loro strutture, si uniscono alle voci di dissenso contro le nuove norme vigenti. Un caso emblematico è quello di Rovigo, dove nei prossimi mesi gli effetti del Decreto sicurezza porteranno ad un ingente numero di licenziamenti. Gran parte del personale impiegato nelle cooperative non sarà più necessario, considerata l’evidente diminuzione di richiedenti asilo. Dopo Trento, dunque, anche dalla zona del Polesine cominciano ad arrivare le dure condanne dei sindacati, che accusano il governo giallo-verde di stare creando nuovi disoccupati. Col restringimento dell’accoglienza, le casse dei centri saranno sempre più vuote, di conseguenza si renderanno necessari dei tagli che colpiranno tantissimi dipendenti. Qualche struttura più grande resterà mentre altre, invece, saranno destinate a chiudere. Del resto, nel territorio in esame, sono presenti all’incirca 400 richiedenti asilo. Le organizzazioni sindacali rivolgono quindi tutte le loro preoccupazioni nei confronti di quei lavoratori che fino ad oggi hanno prestato servizio nei 7 centri d’accoglienza della provincia. Invocano una soluzione e decidono di rivolgersi direttamente al prefetto. “Assieme alla Cisl abbiamo chiesto un incontro urgente al prefetto Maddalena De Luca vista la situazione d’emergenza che si verrà a creare nei prossimi mesi sul fronte occupazionale. La nuova riorganizzazione decisa dal Governo avrà infatti conseguenze disastrose, non solo nella gestione dell’immigrazione, ma determinerà la morte di decine di posti di lavoro”. Questa la dichiarazione dei rappresentanti Cgil Piero Colombo e Davide Benazzo, riportata da “Il Resto del Carlino”. “Circa una sessantina di persone, per lo più giovani, perderanno, dopo anni di lavoro nel settore dell’accoglienza, la loro occupazione, alimentando la voragine della disoccupazione giovanile in provincia di Rovigo”. Ed i tagli del Governo, in effetti, sono stati tanti. Molti servizi, un tempo garantiti agli ospiti dei centri, sono stati aboliti o ridotti. Si parla, ad esempio, del sostegno psicologico ai soggetti vulnerabili, l’educazione e l’insegnamento della lingua, le pulizie e la manutenzione delle strutture (in alcune abitazioni agli stranieri verrà distribuito il materiale necessario per provvedere da soli all’igiene), biglietti gratuiti per i mezzi pubblici, servizio mensa (alcuni centri potranno fornire solo la spesa), formazione professionale ed altro ancora. A tremare maggiormente, nella zona di Rovigo, la cooperativa “Porto Alegre”, dove hanno trovato impego sessanta persone. “Figure professionali con una notevole esperienza” commenta Carlo Zagato, presidente della sopra menzionata coop. “Giovani laureati che con impegno e dedizione si sono impegnati in questo non facile compito attraverso la gestione di situazioni anche molto delicate. Molte di queste figure vengono tagliate, creando un danno importante non solo all’occupazione, ma ai tanti migranti che cercano salvezza nel nostro paese”. Ecco quindi che il pensiero torna ai migranti. “È stato tolto l’insegnamento dell’italiano durante il periodo di prima accoglienza. Un migrante, secondo le nuove disposizioni, rischia di restare chiuso in un grosso centro di accoglienza in Italia incapace di comunicare”.

Save the children, così si finanzia la ong: nel 2016 ricavi in salita del 26% grazie alle donazioni (anche del governo). L'organizzazione, la cui nave è stata perquisita nell'ambito di un'inchiesta per presunto favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, è la più importante tra le firmatarie del codice di condotta voluto dal governo. L'anno scorso ha ricevuto oltre 100 milioni contro gli 80,4 del 2015. La Ue ne ha dati 7,4. Per ogni euro raccolto, spende 20 centesimi in attività amministrative, scrive Lorenzo Bagnoli il 23 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". La nave con cui salva i migranti in mare è stata perquisita, lunedì mattina, su richiesta dei pm che indagano su alcune ong sospettate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Save the children è anche tra le organizzazioni non governative che la scorsa estate hanno firmato il codice delle ong voluto dal governo. Il direttore generale Valerio Neri – secondo fonti anonime del mondo ong buon amico del premier Paolo Gentiloni – ha affermato che la ong aveva accettato perché il codice prevede la protezione armata scatti solo in casi già previsti dalla policy di sicurezza adottata dall’organizzazione. Save the children è la maggiore tra le organizzazioni firmatarie del codice di condotta: la Vos Hestia, appena perquisita, è in mare dal 2016 e ha salvato al 31 dicembre dello scorso anno 2.700 persone, di cui 400 bambini. Dalla Vos Hestia sono anche arrivate le segnalazioni sulle irregolarità commesse dalla nave Iuventa. E nell’ultimo anno, insieme alla collaborazione con il governo, è cresciuta l’entità dei fondi ricevuti dai ministeri italiani.

Quanto arriva dal governo – Rispetto al 2015, il 2016 per Save the children è stato un anno molto positivo. Le donazioni complessive sono passate da 80,4 milioni (che già rappresentava quasi un quinto in più del 2014) a 101 milioni: il 26% in più dell’anno precedente. Un contributo importante arriva proprio dal governo italiano. Se nel 2015 le elargizioni sono state di poco superiori a 1,3 milioni (dal Ministero degli Esteri882.355 euro e da quello dell’Interno 535.121), nel 2016 le donazioni sono aumentate parecchio. Solo il Maeci ha messo 1,2 milioni di euro per progetti in Egitto, Palestina, Bosnia ed Albania. Diminuisce il contributo del Viminale (nel 2016 di 145.478 euro), il quale però è ancora in debito con Save the children per circa 420mila euro (per i progetti “Miglioramento della capacità del territorio italiano di accogliere minori stranieri non accompagnati” e “Praesidium IX”). Si aggiungono poi alla lista dei donatori anche il Ministero dei beni culturali e quello dell’Istruzione, per 39mila euro in totale. L’aumento esponenziale dei finanziamenti dalla Commissione europea – Medici senza frontiere, la più influente tra le ong che non hanno firmato il codice di condotta, non riceve donazioni dall’Unione europea e dai 28 Stati membri dal giugno 2016. Al contrario di Save the children, che invece è molto sostenuta da Bruxelles. La ong dei bambini ha ottenuto nel 2015 2,9 milioni di euro, diventati 7,4 nel 2016. Il programma più importante finanziato dalla Commissione riguarda il Malawi e vale 3,7 milioni di euro: il Paese africano è stato duramente colpito da El Niño, fenomeno climatico che dal 2015 ha provocato prima inondazioni poi siccità in tutta l’Africa sud-orientale, con il conseguente rischio di accesso al cibo per milioni di persone. In Italia, invece, la Commissione europea finanzia soprattutto progetti di assistenza legale, di coordinamento tra diverse ong e di prevenzione dai rischi di abusi soprattutto online.

Donatori sempre più costanti – Nel 2016 i donatori attivi sono stati 402.634, di cui il 70% regolari, ossia donatori che hanno aderito a programmi di donazione. Il dato è inferiore rispetto agli oltre 480mila dell’anno precedente, eppure il contributo è stato più alto: 72,5 milioni contro 63,5. Diminuiscono anche i donatori una tantum, dal 7 al 5% del totale. I donatori infatti sono diventati sempre più stabili. La raccolta attraverso il cinque per mille vale poi altri 4 milioni di euro. È cresciuta anche la reputazione e la notorietà di Save the children: secondo la ong il 70% degli italiani la conosceva nel 2015, nel 2016 tre su quattro. Insieme alle donazioni degli individui, in particolare slegate da singole attività, crescono anche i fondi provenienti da aziende e fondazioni, passati da 10,5 milioni a 16,7. Questo ha permesso a Save the children di diventare un’organizzazione più grande e aumentare di conseguenza anche il numero di progetti: nel 2016 la struttura conta 276 membri dello staff e 1.800 volontari, contro i 230 membri staff e i 1.500 volontari dell’anno precedente. I progetti sono passati da 214 (d cui 48 in Italia) a 239 (di cui 64 in Italia). Anche i beneficiari dei progetti sono in aumento: da 3,9 milioni nel 2015 ai 4,2 nel 2016.

Dove spende Save the children – Per ogni euro raccolto, Save the children spende 17 centesimi in comunicazione e altri 3 centesimi circa per la gestione della macchina amministrativa. Il resto viene diviso principalmente tra il programma Italia-Europa, che prende circa 13 milioni di euro, e i Programmi internazionali, che ne prendono 65. In particolare, per il programma Italia-Europa due dei settori dove Save the children ha speso di più sono Protezione abuso e sfruttamento (2,3 milioni) e Povertà alimentare (2,9 milioni). La campagna per il terremoto di Amatrice ha speso invece 212.455 euro.

Il dialogo con il governo – L’organizzazione vanta due risultati ottenuti dalle istituzioni italiane nel 2016. Sono riassunte nella voce Policy change del Bilancio 2016. Nel marzo 2017 la Camera ha approvato infatti un disegno di legge per la realizzazione di un sistema d’accoglienza per i minori stranieri non accompagnati. La proposta era nata un anno prima proprio da Save the children. In più, nel Documento strategico e programmatico per il prossimo triennio il Ministero degli Esteri ha inserito tra i temi prioritari anche educazione inclusiva, migrazione e nutrizione. Il peso della ong è legato anche agli illustri consiglieri che svolgono il loro compito a titolo gratuito. Tra i più celebri ci sono l’ex ministro Enrico Giovannini, Linus di Radio Deejay, il segretario generale della Regione Lazio Andrea Tardiola e il vice presidente del Gruppo Bulgari Silvio Ursini. Fino alla newsletter di giugno e al bilancio 2016 pubblicato nello stesso mese, tra i consiglieri comparivano anche i nomi di Marco De Benedetti, presidente di Gedi, il gruppo editoriale di Repubblica e La Stampa; Andrea Guerra, presidente esecutivo di Eataly e Patrizia Grieco, presidente di Enel spa. È ancora in carica il presidente, Claudio Tesauro, avvocato dello studio BonelliErede e presidente dell’Associazione antitrust italiana (Aai).

Chi è Marco De Benedetti, il marito di Paola Ferrari. Scopriamo chi è Marco De Benedetti, il super manager e marito di Paola Ferrari da oltre vent'anni, scrive il 28 febbraio 2018 Di Lei. Imprenditore, manager d’azienda e presidente di GEDI Gruppo Editoriale: Marco De Benedetti è il marito di Paola Ferrari, celebre conduttrice Rai. I due stanno insieme da vent’anni e formano una delle coppie dello showbiz più longeve di sempre. Classe 1962, Marco De Benedetti è il secondogenito del famosissimo Carlo De Benedetti. Ha due fratelli, Rodolfo ed Edoardo, ed è nato a Torino, non a caso è un grandissimo tifoso della Juventus. Nel 1984 si è laureato in storia ed economia nella prestigiosa Wesleyan University, nel Connecticut, Stati Uniti. Tre anni dopo Marco De Benedetti ha ottenuto un Master in Business Administration presso la Wharton Business School di Philadelphia. Dopo aver lavorato a New York negli anni Novanta Marco De Benedetti è approdato nel settore marketing della Olivetti, collaborando con Elserino Piol, magnate delle telecomunicazioni in Italia. Nella sua carriera ha lavorato in alcune fra le più grandi aziende italiane, da Infostrada a Tim, diventando nel 2005 Amministratore Delegato di Telecom. Nel 2017 ha ricevuto dal padre la presidenza della Gedi, società editoriale creata grazie alla fusione fra il gruppo L’Espresso, La Stampa e Il Secolo XIX. Infine sino al giugno 2017 è stato membro del consigli direttivo della Save the Children Italia Onlus. L’amore della sua vita è Paola Ferrari, sposata nel 1997 e da cui ha avuto due figli: Alessandro, nato nel 1998, e Virginia, arrivata nel 1999. Il primo incontro è avvenuto ad una cena dove la giornalista sportiva era arrivata in compagnia di Alba Parietti. «Se sono felicemente sposata lo devo a lei – ha svelato qualche tempo fa Paola Ferrari a DiPiù – È una mia cara amica da oltre trent’anni ed è proprio grazie a lei che ho conosciuto mio marito. È successo nel 1996: una sera, Alba è venuta a casa mia e mi ha pregato di accompagnarla a una cena con alcuni suoi amici e amici di amici. Io ero stanca, non avevo nemmeno voglia di uscire, ma lei ha insistito così che tanto che alla fine ho detto di sì. Ed è stato a quella cena che ho conosciuto Marco». Paola Ferrari e Marco De Benedetti oggi vivono a Roma in una splendida villa. Il 24 febbraio 2018 la casa è stata presa di mira da una banda di ladri che si è introdotta in casa, portando via un bottino di 100 mila euro.

BUFALA E ACCHIAPPALIKE Marco De Benedetti amministratore dell’ONG “Save the children”, scrive Luca Mastinu il 12 Giugno 2018 su Bufale.net. La disinformazione può maturare come la fermentazione di un cibo mal digerito. Accade quando i mendicanti del web riprendono un vecchio meme su Marco De Benedetti che il nostro staff aveva posto in analisi il 15 maggio 2017. Si diceva, infatti, che il figlio di Carlo De Benedetti fosse amministratore delegato della ONG Save the children, ma nella scheda Chi siamo del portale ufficiale, il suo nome compariva tra i membri del consiglio direttivo che prestavano il loro operato a titolo gratuito, e per questo avevamo parlato di disinformazione e acchiappalike. Vero che Marco De Benedetti è figlio di Carlo De Benedetti, vero che fa(ceva) parte di Save the children. Non ricopriva, però, il ruolo di Amministratore Delegato, carica che nel consiglio direttivo tuttora non esiste. Oggi, la pagina di Danilo Calvani del Movimento Forconi ripropone la stessa cosa, con una grafica e un’impostazione diverse: Toh, il figlio di De Benedetti è l’amministratore dell’ONG Save the children, che ha 2 navi attive su coste Libia. Ora, dalla disinformazione si passa alla bufala, perché nel nuovo consiglio direttivo di Save the children il nome di Marco De Benedetti non compare in alcuna voce. Inutile, dunque, seguitare a condividere e diffondere una notizia falsa, se già in tempi più credibili aveva scarse fondamenta. Abbiamo dunque provveduto a segnalare questa bufalaal diretto interessato, sperando in una sua smentita ufficiale.

La curiosità: nel consiglio di Save the Children uomini dell’alta finanza e manager, scrive Antonella Sferrazza il 6 maggio 2017 su I Nuovi Vespri. C’è Massimo Capuano, ex amministratore di Borsa Italiana e c’è anche Marco De Benedetti, figlio dell’editore di Repubblica. E, ancora, manager di banche e di società come l’Enel. E poi dice che capitalisti ed esponenti della finanza non hanno un cuore…Save the Children e Medici senza frontiere sono due Ong rimaste al di sopra di ogni sospetto in questi giorni di polemiche sul ruolo delle organizzazioni non governative nelle operazioni di soccorso ai migranti nel Mediterraneo. Le ha salvate anche il Procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che, invece, ha puntato i riflettori sullo strano proliferare di nuove Ong negli ultimi due anni, sulle fonti di finanziamento, e su presunti contatti con i trafficanti. Vale la pena ricordare che il traffico di migranti, secondo quanto statuito da Europol e Interpol, valeva nel 2015 circa 6 miliardi di euro. Molto di più oggi. E che dietro questo traffico ci sono “complesse e sofisticate” reti internazionali di criminali (qui l’articolo sul rapporto Europol dove si parla anche di rischio terrorismo). Al netto delle strumentalizzazioni politiche e delle visioni radical chic (buoniste e parziali), il polverone sollevato sul caso ha avuto il merito di fare cadere un tabù: chi l’ha detto che le organizzazioni umanitarie sono intoccabili? Chi l’ha detto che sono sempre anime pure a finanziarle? Lo stesso tabù, per anni, c’è stato sull’antimafia e sull’antiracket: chi osava denunciare mele marce, diventava esso stesso una mela marcia. I fatti hanno dimostrato che anche queste organizzazioni hanno fornito materiale per indagini giudiziarie. Tra l’altro, come ci ha ricordato Gian Joseph Morici, collega che vive a Parigi e che ha sempre seguito fatti di terrorismo, non sarebbe certo la prima volta che organizzazioni umanitarie di vario genere finiscono nel mirino delle indagini. “Anche Ilaria Alpi indagava sulla cooperazione umanitaria, per non parlare delle inchieste di Antonio Evangelista, che è stato comandante della Polizia Italiana in Kosovo con l’Onu” (qui potete leggere l’articolo sulle ONG islamiche pubblicato dal giornale online di Morici e le sue dichiarazioni sulle polemiche attuali). Insomma, bisogna distinguere tra missione umanitaria e altro tipo di missione. Le missioni umanitarie vanno sostenute, ma se all’interno di queste si fiuta uno strano odore, le indagini sono doverose. E la denuncia pure. Detto questo, e ribadendo che Save the Children e Medici senza frontiere non sono state toccate dai sospetti e che sono famose, fino a prova contraria, per le loro encomiabili missioni umanitarie, scopriamo un fatto curioso che potrebbe anche non significare nulla. Ma è un fatto e va raccontato. Il fatto curioso è il seguente: il consiglio direttivo di Save The Children è formato da nomi molto noti negli ambienti dell’alta finanza italiana. E da nomi molto noti nel campo dell’imprenditoria. Chi c’è? Il nome più noto è certamente quello di Massimo Capuano, Presidente IW Bank Spa- Gruppo Ubi. “Precedentemente- si legge sul suo curriculum- è stato Amministratore Delegato di Borsa Italiana S.p.A dal gennaio 1998, anno della privatizzazione della Società, al 1 aprile 2010″. L’elite della finanza italiana, insomma. Ed’ in buona compagnia. C’è anche Marco De Benedetti, Managing Director e Co-Presidente Europa, The Carlyle Group società internazionale di asset management e tra i maggiori fondi di Private Equity a livello globale. Sarebbe il figlio di Carlo De Benedetti editore di Repubblica.

E ancora: Luigi de Vecchi, Chairman of Continental Europe for Corporate and Investment Banking, Citigroup.

Maria Bianca Farina, Presidente ANIA, Amministratore Delegato, Poste Vita e Poste Assicura.

Enrico Giovannini, professore ordinario di Statistica Economica, all’Università di Roma “Tor Vergata”.

Patrizia Grieco, Presidente Enel SpA.

Andrea Guerra, Presidente Esecutivo Eataly srl.

Auro Palomba, Fondatre e Presidente della società di consulenza di comunicazione aziendale Community.

Paola Rossi, Funzionario Commissione Europea.

Marco Sala, Chief Executive Officer IGT international, Game Technology PLC.

Andrea Tardiola, Segretario Generale Regione Lazio.

Silvio Ursini, Vice Presidente Esecutivo Bulgari Group.

Tesoriere: Vito Varvaro, Presidente Cantine Settesoli.

Presidente: Claudio Tesauro, Avvocato, partner dello studio BonelliErede, Presidente Associazione italiana Antitrust.

Attenzione: “Il presidente, il consiglio direttivo e il tesoriere svolgono i loro incarichi a titolo totalmente gratuito e non hanno nessun ruolo diretto nella gestione dell’organizzazione”.  Lo fanno gratis, insomma. Le anime belle della finanza italiana…. Sul sito di Save The Children leggiamo anche che “il Consiglio Direttivo è responsabile di garantire che l’Organizzazione operi in coerenza con la sua missione e i suoi valori. È costituito da un massimo di 15 membri eletti dall’Assemblea. Il Consiglio elegge il Presidente, che ha la rappresentanza legale dell’Organizzazione, e il Tesoriere, che ha il compito di assistere e sovraintendere alla gestione economica e finanziaria”. E poi dice che finanza e capitalismo non hanno un cuore….

Lo scandalo che travolge le Ong tra bonus e investimenti pericolosi. Un'inchiesta della Bbc: buonuscite d'oro per ex manager. Spese a scopo di lucro in armi, alcolici e tabacco. Nel mirino della tv inglese le organizzazioni senza scopo di lucro, Amnesty, Save the children e Comic Relief, scrive Enrico Franceschini il 10 dicembre 2013 su La Repubblica. Paghe d'oro, cene dispendiose e soldi investiti in armi e tabacco. Sarebbero accuse serie nei confronti di qualunque azienda, lo sono ancora di più quando sono rivolte ad alcune delle più importanti Ong mondiali con quartier generale in Gran Bretagna, come Amnesty International, Save The Children e Comic Relief: sono state coinvolte a vario titolo in un’inchiesta di "Panorama", famoso settimanale televisivo di approfondimenti della Bbc. Che è andato a indagare nei conti delle associazioni di beneficenza e un po’ di panni sporchi, o perlomeno non proprio limpidissimi, li ha trovati anche lì. Per esempio, Amnesty International ha concesso una buonuscita d’oro al suo ex-segretario generale, Irene Khan, che ha ricevuto una liquidazione di 500 mila sterline (circa 600 mila euro), apparentemente più del doppio di quanto inizialmente stabilito dal suo contratto. Sempre Amnesty ha organizzato un evento per la raccolta di fondi di beneficenza l’anno scorso a New York con ospiti del calibro della rock band Coldplay e dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, finendo per spendere di più di quanto ha incassato: un "buco" da 750 mila sterline (900 mila euro). Save The Children, per parte sua, avrebbe evitato di criticare uno dei suoi maggiori donatori e sponsor, la British Gas, azienda fornitrice di servizi alla popolazione britannica, per le bollette troppo alte, a detta di molti commentatori, imposte alle famiglie del Regno Unito. E infine si è scoperto che Comic Relief, l’organizzazione che fa mettere un "naso rosso" da clown ai suoi rappresentanti e finanziatori, investe milioni di sterline in fondi di investimento che acquistano tra l’altro azioni di aziende che producono armamenti, alcolici e tabacco, non proprio il massimo per un’associazione che sostiene la pace e le iniziative benefiche per l’infanzia. Il programma dell’emittente pubblica britannica sarebbe stato rinviato più volte per il suo contenuto altamente polemico. In realtà nessuno è accusato di atti illegali. Un portavoce di Comic Relief ribatte per l’appunto che la maggior parte delle associazioni di beneficenza usano fondi di investimento per mettere a frutto i loro soldi prima di distribuirli e tali fondi comprendono aziende di ogni genere, incluse quelle di armi, alcol e tabacco, che del resto sono fra le più solide del mondo e garantiscono quindi buoni guadagni per chi ci punta sopra i propri risparmi. Ma dal punto di vista etico è come minimo una politica sorprendente, commentano il Times e l’Independent, che oggi hanno anticipato i contenuti della trasmissione. In serata, un comunicato di Save the Children Italia: "La sezione inglese di Save the Children viene citata nel pezzo della BBC unicamente in riferimento a mancate azioni di comunicazione sull'eccessivo rialzo delle bollette ad opera di British Gas, partner aziendale dell'Organizzazione in Gran Bretagna", ha commentato Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children. "Save the Children UK ha comunque dichiarato che mai metterebbe a rischio una campagna a favore dei diritti dei bambini per non contrariare un donatore aziendale. "Save the Children, sottolinea che non entrerebbe mai in partnership con aziende le cui attività primarie possano danneggiare gravemente i bambini come il tabacco, gli armamenti e la pornografia. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, a sua volta commenta: La "buonuscita d'oro di 500.000 sterline" versata nel 2010 all'ex Segretaria generale dopo la fine del suo rapporto di lavoro con Amnesty International è in realtà una somma costituita per il 39 per cento dal Tfr e comprende stipendi, adeguamenti pregressi, versamenti pensionistici e altri elementi di un contratto sottoscritto nel 2001 e durato dunque oltre otto anni.

La sentenza della Cassazione: pensione pure agli immigrati appena arrivati. L'Inps deve pagare il sussidio di invalidità civile anche a tutti gli extracomunitari, scrive Gian Maria De Francesco, Martedì 02/10/2018, su "Il Giornale". Dalla Cassazione arriva un'altra bordata contro Di Maio e compagnia pentastellata tutta. Non si tratta di un giudizio politico, ma di un'interpretazione estensiva di un pronunciamento della Consulta del 2017 che conferma l'insostenibilità del reddito di cittadinanza. La suprema Corte, con la sentenza 23763 depositata ieri, ha infatti stabilito che l'Inps non può negare l'erogazione della pensione di invalidità civile allo straniero che legittimamente soggiorna in Italia. In particolare, gli ermellini hanno annullato la decisione dei giudici di merito che ritenevano titolari del diritto alla prestazione assistenziale solo gli extracomunitari che avessero maturato un periodo di permanenza nel nostro Paese pari a 5 anni, cioè il presupposto temporale per ottenere il rilascio del permesso per soggiornanti di lungo periodo. La Cassazione ha ribadito che la Corte Costituzionale ha smontato l'assioma «diritto all'assistenza sociale solo a chi è in possesso dei requisiti per ottenere il permesso illimitato (ex carta di soggiorno)», cioè reddito di sostentamento e 5 anni di permanenza non episodica in Italia. L'ordinanza 95 del 4 maggio 2017 della Consulta, infatti, ha sancito che «i titolari di protezione sussidiaria hanno diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale e sanitaria e tale parità è effettivamente riconosciuta dall'ordinamento italiano per tutte le prestazioni». Casualmente si tratta dello stesso pronunciamento cui si riferiscono i critici del sussidio nella versione light che poi è la stessa sostenuta dal vicepremier. «Il reddito di cittadinanza sarà dato anche ai residenti in Italia da almeno 10 anni», ha ribadito ieri Di Maio a Quarta Repubblica su Rete4. Poiché il diritto funziona (quasi sempre) come la matematica, per la proprietà transitiva essendo il reddito di cittadinanza una misura di welfare che rientra nell'assistenza sociale come le pensioni di invalidità, allora anche i titolari di protezione sussidiaria (cioè coloro i quali, pur non essendo riconosciuti come rifugiati, sarebbero in pericolo di vita se rimpatriati) dovrebbero beneficiarne. Un'eventualità che aumenterebbe di almeno 3 miliardi il costo di 10 miliardi previsto per l'introduzione del reddito di cittadinanza (inclusi i 2 miliardi per la riforma dei centri per l'impiego). Intanto Di Maio ha continuato a fantasticare. «L'ideale sarebbe usare la tessera sanitaria con chip, ma nel frattempo sarà messa su una carta elettronica», ha aggiunto sottolineando che l'importo accreditato sarà «da spendere negli esercizi commerciali in Italia per far crescere l'economia, bisogna limitare al massimo le spese fuori dall'Italia». Il viceministro ha confermato che la casa di proprietà ridurrà la quota massima erogata (fissata a 780 euro al mese). Lavoro in nero? «Questa persona che prende il reddito è impegnata tutto il giorno tra lavoro di pubblica utilità e ore di formazione. Se il sindaco o il centro dell'impiego mi dicono che non si presenta, glielo tolgo».

"Scafisti sui gommoni per necessità". Assolti e scarcerati 14 imputati, scrive Riccardo Lo Verso su Live Sicilia Martedì 02 Ottobre 2018. Processo a Palermo. Tutti i nordafricani in cella da due anni saranno liberati. Scafisti per necessità. Tutti assolti gli imputati. Fa breccia nei giudici del Tribunale di Palermo la tesi difensiva degli avvocati Alessandro Martorana, Matteo La Barbera, Sergio Lapis, Daniele Giambruno, Loredana Culò, Bianca Savona, Emilia Lombardo, Consiglia Cioffa, Daniele Lo Piparo. Secondo i legali, si sarebbero messi alla guida delle imbarcazioni per scappare dall'inferno dei lager dov'erano rinchiusi in Libia. Se davvero fossero stati componenti della banda criminale non sarebbero stati minacciati con delle pistole, fatti salire su un gommone senza benzina e senza salvagente, con il rischio di andare incontro alla morte. Questi gli imputati assolti dal Tribunale presieduto da Fabrizio La Cascia e le rispettive nazionalità: Ebrina Fofana (Gambia), Fall Ibrahima (Senegal), Mamadi Jarju (Gambia), Mahamadou Bade (Senegal), Emanuele Nikwie (Ghana), Kofi Bilson (Ghana), Fall Mouhamed (Senegal), Sarr Mustefa (Gambia), Alex Janga (Guinea Bissau), Jobe Jegan (Gambia), Akim Karam Mohamed (Sierra Leone), Bah Draman (Senegal), Tune Ngala (Senegal). Quella del 25 maggio 2016 fu un'ondata di sbarchi. A largo delle coste siciliane arrivarono un migliaio di migranti a bordo di 8 gommoni, tratti in salvo e trasportati a Palermo dove furono identificati. Gli stessi passeggeri riconobbero gli scafisti, ma i legali hanno invocato per gli imputati la scriminante dello stato di necessità. I quattordici, in carcere da più di due anni, dovranno essere liberati nelle prossime ore.

Ora la sinistra manda i vigili a lezione di antirazzismo. A Bologna i vigili urbani inviati a lezione di antirazzismo e mediazione culturale. Il costo del progetto? Quasi 5mila euro, scrive Chiara Sarra, Martedì 02/10/2018, su "Il Giornale". Vigili urbani a lezione... di antirazzismo. Lo ha deciso il Comune di Bologna che ha stanziato quasi 5mila euro per dare nozioni di mediazione culturale agli agenti di polizia locale. Come racconta il Corriere, Palazzo d'Accursio ha dato il via libera al progetto dell'associazione Eos e ai corsi tenuti da Marina Pirazzi, Yassine Lafram e Luigi Chiesi. I tre indottrineranno gli agenti su temi come la "discriminazione su base etnica, razziale e religiosa" o "il pregiudizio", di cui è esperta la prima dei tutor. Lafram è invece rappresentante della comunità islamica di Bologna e mediatore culturale, mentre Chiesi rappresenta i sinti italiani. Il costo? Poco meno di 5mila euro dai fondi per la cooperazione per un progetto che partirà nei prossimi giorni e che si svolgerà con una prima fase di raccolta delle informazioni e una seconda fase di laboratori e seminari che da gennaio a settembre 2019 coinvolgerà tutti i vigili urbani. "Si rasenta il ridicolo il progetto è assurdo e offensivo", dice la senatrice leghista Lucia Borgonzoni, "Solo a Bologna mussulmani e sinti possono andare in giro a fare insegnanti per i vigili". Per i consiglieri regionali del Carroccio Daniele Marchetti e Gabriele Delmonte, poi, la formazione dovrebbe essere fatta non da "mediatori culturali o specialisti di immigrazione", ma da organi come "la Scuola interregionale di polizia locale delle Regioni Emilia-Romagna, Toscana e Liguria".

Migranti, la memoria corta della sinistra di Prodi & Co. C'era un tempo in cui i duri erano rossi e nessuno si scandalizzava. Era il tempo della sinistra al governo, scrive Domenico Ferrara, Martedì 02/10/2018, su "Il Giornale". C'era un tempo in cui i duri erano rossi e nessuno si scandalizzava. Era il tempo della sinistra al governo. Se paragonata ai nostri tempi, allora l'emergenza immigrazione era sicuramente uno spillo, eppure le leggi, le azioni e le dichiarazioni dei politici erano più forti che mai. Innanzitutto, partiamo dalla legge numero 40 del 6 marzo 1998 dal titolo "Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero", firmata da Turco e Napolitano, rispettivamente ministro per la solidarietà sociale e ministro dell'Interno. Rileggendo gli articoli di quella legge a volte sembra che li abbia scritti Salvini. Qualche esempio? "La polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti dalla presente legge per l'ingresso nel territorio dello Stato. Il respingimento con accompagnamento alla frontiera è altresì disposto dal questore nei confronti degli stranieri che, entrando nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all'ingresso o subito dopo; che, nelle circostanze di cui al comma 1, sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso". E ancora: "l'espulsione è disposta in ogni caso con decreto motivato. Quando lo straniero è sottoposto a procedimento penale, l'autorità giudiziaria rilascia nulla osta salvo che sussistano inderogabili esigenze processuali. Nel caso di arresto in flagranza, il giudice rilascia il nulla osta all'atto della convalida, salvo che applichi una misura detentiva ai sensi dell'articolo 391, comma 5, del Codice di procedura penale". Continuando poi, "fuori dei casi previsti dal Codice penale, il giudice può ordinare l'espulsione dello straniero che sia condannato per taluno dei delitti previsti dagli articoli 380 e 381 del Codice di procedura penale, sempre che risulti socialmente pericoloso". Insomma, di sicuro non si trattava di un testo permissivo. D'altronde, in quel periodo (era l'ottobre 1998) il presidente del Consiglio, Massimo D'Alema, era piuttosto tranchant: "Noi siamo esposti ad un fenomeno impressionante di immigrati clandestini che arrivano in Italia grazie all' opera di organizzazioni criminali, di mercanti di carne umana che non esitano a gettare in mare i bambini. Questo fenomeno deve essere combattuto attraverso politiche dell'accoglienza e della fermezza. Ma la fermezza è efficace solo se accompagnata da accordi coi paesi di provenienza e da trattati di riammissione che consentano di rimandare a casa i clandestini. Questa politica è efficace solo se saremo affiancati dai nostri partner europei". C'è tanta differenza con quello che va dicendo il vicepremier Matteo Salvini? E che dire di quando nel 1997 l'Ulivo di Prodi decise di attuare un blocco navale e "manovre di allontanamento" in mare per intimidire i barconi e per ovviare al flusso di immigrati albanesi. Insomma, non era profughi da accogliere, ma immigrati non in regola da respingere". Il sottosegretario agli Interni, Giannicola Sinisi, nel '97 spiegava: "Sulle nostre coste non stanno arrivando più profughi, gente spaventata, ma uomini e donne che vengono da zone dove la rivolta non è neppure arrivata. Cercano una vita migliore, un lavoro più redditizio, sono, insomma, immigrati". Solo due giorni dopo la firma dell'intesa con l'Albania, la motovedetta albanese Katër i Radës venne speronata da una nave della Marina italiana Sibilla. Fu una strage: 81 morti e 27 dispersi. Ma nessuno si sperticò a gridare: "Sinistra assassina".

Quando si fa apologia di una ideologia feroce sulle riviste di sinistra...

Aboubakar Soumahoro: la deriva razzista diventa legge. C’è una politica che da tempo indica nello straniero il “nemico pubblico”. In comune con il passato c’è l’indifferenza. Si vuole distrarre l’attenzione dall’ingiustizia sociale contro cui non si fa niente: è questa la vera insicurezza, scrive ABOUBAKAR SOUMAHORO il 28 settembre 2018 su "L'Espresso". Il decreto sicurezza approvato lo scorso Consiglio dei Ministri ha deliberato il prolungamento dello scioglimento del Comune di Gioa Tauro, commissariato dal maggio del 2017 per condizionamento della criminalità organizzata. Non ci sono le condizioni per indire nuove elezioni, eppure l’emergenza sono gli immigrati. Così dopo tante parole, provocazioni e selfie è il primo provvedimento formalmente proposto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini in tandem con il ministro Luigi Di Maio. Un decreto che segna l’inizio di un processo istituzionale di deriva razzista. Al di là dell’esame delle singole misure, che altri hanno esaminato prima e meglio di me, è evidente che questo atto mira a creare un “nemico pubblico”, individuato senza mezzi termini nello straniero. E lo fa nascondendosi dietro l’uso ambiguo della parola “sicurezza”. Eppure, tutte e tutti, indipendentemente dal colore della pelle, abbiamo bisogno di sicurezza e di giustizia sociale rispetto al dilagare delle disuguaglianze sociali che affliggono la nostra comunità in termini di disoccupazione ed impoverimento di massa. Chi non ha bisogno di sicurezza? Il problema è che quando tu non sei in grado di garantire sicurezza sociale, quando le tue promesse di un welfare più esteso si dimostrano false, allora sposti l’attenzione contro un nemico. Dalla sicurezza sociale alla pubblica sicurezza. Così il ministro Salvini, ma direi anche l’intero governo, ancora in alto mare per la ricostruzione del Ponte Morandi a Genova, tra tutte le promesse elettorali sceglie quella più demagogica e discriminatoria. Lo fa, ironia della storia, proprio nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali approvate dal fascismo nel 1938. Mi si obietterà che erano un altro contesto storico e giuridico e che la nostra Costituzione, che compie proprio quest’anno 70 anni dalla sua entrata in vigore nel 1948, non consentirebbe mai l’approvazione di provvedimenti di natura discriminatoria e di negazione delle libertà ad una parte della nostra comunità. A chi non crede che ciò sia possibile, lo invito a leggere un provvedimento che, mettendo sinanche in discussione la cittadinanza o il diritto alla difesa in sede giudiziaria, sancisce che di fronte alla legge non siamo tutti uguali. Devo anche osservare che questo provvedimento ha avuto la strada spianata dalle precedenti maggioranze politiche. È il caso del decreto Minniti-Orlando con l’istituzione di sessioni speciali nei tribunali per soli migranti e la trasformazione degli operatori dei Centri d’accoglienza in pubblici ufficiali, giusto per fare alcuni esempi. Anche chi ha preceduto questo governo si è impegnato in campagne di manipolazione della realtà, spesso con fini elettoralistici. A proposito vorrei ricordare le dichiarazioni dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) che «sui migranti ho temuto per la tenuta democratica del paese». Dichiarazioni rese mentre la popolazione continuava a chiedere, è il caso anche oggi con l’attuale Governo Movimento 5 Stelle e Lega, giustizia sociale. Il Dl Sicurezza varato all’unanimità è certo in palese violazione di libertà e tutele sancite dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, e limita di fatto la libertà e l’uguaglianza delle persone distinguendole in base alla provenienza geografica. Trasforma parte della popolazione in “categoria speciale” nonché capro espiatorio di una crisi economica che stiamo subendo e vivendo tutti, nessuno escluso, drammaticamente. Ma il Governo del Premier Giuseppe Conte rischia anche seriamente di mettere in discussione una memoria che dovrebbe essere collettiva e salvaguardata. Perché se oggi non vogliamo limitarci a celebrazioni vuote e prive di senso, dobbiamo segnalare l’indifferenza come legame tra le politiche razziali del 1938 che hanno spogliato e deprivato dei loro diritti i cittadini ebrei con quelle che oggi questo governo mette in campo per rifugiati, richiedenti asilo e migranti. La società sta smarrendo i valori fondamentali, stiamo tornando sudditi invece di cittadini e esseri umani. E queste politiche non hanno nulla a che vedere con la sicurezza, anzi funzionano come elementi di distrazione. Non dimentichiamo, per esempio, che l’Italia con un buco da 36 miliardi risulta il primo paese europeo per evasione fiscale. O che sono più di 7 milioni le persone che vivono in condizione di disagio economico in Italia. Mentre le persone costrette a sopravvivere nella povertà assoluta sono 5 milioni. Ricordiamo quanto accaduto in passato. Dobbiamo vivere il nostro presente senza però trasformare questa necessità, parafrasando Primo Levi, in una guerra di falsificazione e negazione contro la memoria. Senza la salvaguardia della memoria è difficile proiettarsi in un futuro migliore.

Manifesto di un’ideologia feroce. Il decreto Salvini nega diritti sanciti dalla Costituzione. E opera discriminazioni fra i cittadini come mai era accaduto nella storia della Repubblica, scrive Marco Damilano l'1 ottobre 2018 su "L'Espresso". Quando il 5 agosto 1938 cominciarono le pubblicazioni del quindicinale La difesa della razza, diretto da Telesio Interlandi, prototipo del giornalista fascista, con la pubblicazione del manifesto firmato da dieci scienziati, l’appoggio della stampa alla politica razziale del Duce fu «più del solito servilmente schifosa», appuntò sul suo diario Emilio Del Bono, uno dei quadrumviri del regime. Il 2 e il 3 settembre furono approvati i primi provvedimenti: il divieto per gli studenti ebrei di frequentare le scuole pubbliche, per i bambini delle scuole elementari l’istituzione di sezioni appositamente dedicate in classi con numero non inferiore di dieci, la revoca della cittadinanza italiana per gli ebrei stranieri che l’avevano ottenuta dopo il 1918. Per arrivare all’ultimo decreto, il 17 novembre, che impediva agli ebrei di lavorare alle dipendenze di enti pubblici. La vergogna più infame della storia del diritto italiano, e anche della cultura e della ricerca scientifica: le leggi razziali approvate dal fascismo ottant’anni fa. Se ripubblichiamo quel manifesto ignobile firmato da luminari di peso in apertura dell’Espresso, e le copertine del giornale di Interlandi, è perché di quella storia l’Italia ha perso memoria, al punto che il leader della destra Gianfranco Fini (poi convertitosi alla definizione di «fascismo male assoluto») per anni giocò sulle parole, su «un errore che si era trasformato in orrore», e sulle leggi razziali che in Italia hanno avuto «un’applicazione limitata». Premessa di una grande rimozione nazionale, il campo di concentramento di Fossoli a due passi da Carpi, un distesa di capannoni nel cuore dell’Emilia, oggi restituito alla memoria ma per decenni dimenticato. E di nuovo, sono state a lungo rimosse quelle parole orribili pronunciate da un capo di governo italiano, Benito Mussolini, impegnato in quelle settimane, come scrisse il suo biografo Renzo De Felice, nella svolta totalitaria, che passava anche per la sostituzione del lei con il voi e per l’introduzione del passo romano, «poderosi cazzotti nello stomaco» nel sedicesimo anno del regime, mentre il cedimento di Francia e Inghilterra nei confronti della Germania di Hitler alla conferenza di Monaco anticipava l’inizio del conflitto mondiale dell’anno successivo. Bisogna sempre stare attenti quando si maneggiano paragoni storici. Materiale incandescente, pericoloso. Per di più in tempi di ignoranza e banalità da social, in cui ogni politico avversario può essere trasformato, all’occorrenza, in un nuovo Stalin o in un redivivo Hitler. Di questa banalizzazione, e di una più preoccupante mancanza di categorie nuove per definire i fenomeni inediti del XXI secolo, i primi a beneficiarne sono proprio i leader messi in parallelo con il passato. Per prima cosa perché, ben al riparo all’ombra della superficialità, possono impunemente lasciarsi andare a ogni genere di remake verbale: i sovranismi, i nazionalismi, la difesa del popolo, della nazione, se non della razza, espressi in termini anti-storici. Salvo poi difendersi, in caso di attacco, spiegando che con quel passato ripugnante loro non c’entrano nulla e che semmai sono i loro critici a essere fuori dalla storia. Facciamo un esempio: un giornale per così dire minore, nulla a che fare con Telesio Interlandi, per carità, titola all’indomani della presentazione del decreto sicurezza firmato dal ministro Matteo Salvini: «Passa la stretta sugli immigrati. Salvini: “E adesso tocca ai Rom”». Scivola così, nella rassegna stampa, come un titolo qualsiasi nel mercato delle opinioni. E affermare che si tratta di un’affermazione francamente di stampo fascista, perché si tratta di un sequenza tragicamente già vista nella storia del Novecento, significherebbe esporsi all’accusa di voler criminalizzare l’avversario. Come accadde qualche settimana fa, quando una copertina dell’Espresso con il titolo ripreso da Elio Vittorini, “Uomini e no”, fu equivocata al punto di sostenere che la nostra intenzione fosse negare al ministro Salvini l’appartenenza al genere umano. Ambizione eccessiva, in effetti. Salvini è un uomo. E Salvini non è un fascista. Tutti d’accordo su questi due punti, restano i fatti. Il primo provvedimento importante del governo in materia di ordine pubblico, dopo la marea di parole estive, è un decreto in cui i migranti finiscono trattati come un sottocapitolo della questione sicurezza. Non è la prima volta che succede: nel 2008 il centro-destra berlusconiano tornato al governo presentò subito un pacchetto sicurezza, il ministro dell’Interno era un altro leghista, Roberto Maroni. Quel provvedimento introduceva per i sindaci la possibilità di avvalersi delle ronde dei cittadini per sorvegliare il territorio, allontanamenti e espulsioni più facili, e soprattutto il reato di immigrazione clandestina, su cui nel 2010 si è abbattuta la scure della Corte costituzionale, «i parrucconi», così li chiamò l’allora terza fila leghista Matteo Salvini. Una questione che ha diviso in anni più recenti il Movimento 5 Stelle, quando la coppia Beppe Grillo-Gianroberto Casaleggio intervenne per sconfessare un voto parlamentare di M5S: «Se durante le elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità, il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico», scrissero i fondatori, poi sconfessati dal voto degli iscritti alla Rete prima dell’associazione Rousseau. Ma anche un tipo solitamente incline ad attaccare briga come Matteo Renzi quando era presidente del Consiglio rinviò ogni decisione in merito affermando che l’opinione pubblica non era matura. Quel che più conta è che tutti questi interventi su immigrazione e sicurezza sono stati sempre presentati come salvifici, decisivi. E, invece, hanno provocato problemi ancora più complessi di quelli che intendevano risolvere. La novità del decreto Salvini, come l’ha chiamato lo stesso ministro costringendo il premier Giuseppe Conte a una pietosa comparsata di tipo pubblicitario - un’immagine apocalittica, scrive Massimo Cacciari, «in senso etimologico: manifestazione di quanto la competenza culturale e il lavoro intellettuale possano smarrire la propria valenza critica e auto-critica, se fagocitati da micro-cupidità di potere e private ambizioni» - è nel suo essere un inutile, ma devastante manifesto ideologico. Per la prima volta nella storia della Repubblica viene inserito in un atto legislativo che il diritto di asilo garantito dall’articolo 10 della Costituzione può essere affievolito e annullato, che la cittadinanza italiana conquistata da uno straniero può essere revocata, che il diritto di difesa non è uguale per tutti, che la protezione umanitaria viene annullata. Certo, nell’idea salviniana i diritti si spengono e si tolgono per chi si è macchiato di un qualche delitto, o addirittura è sospettato di averlo fatto (in una prima versione bastava la semplice denuncia per far cadere la domanda di asilo). Di questo passo si arriverà alla delazione, come nei tempi più bui. Salvini, la paciosità del male, lo chiama Giuseppe Genna, agisce nel vuoto politico di tutti gli altri, di un Movimento 5 Stelle che affida il suo ruolo sulla legge di Bilancio alle minacce fuori campo di Rocco Casalino e di un’opposizione sfiancata. Si presenta come banale e innocuo, come uno di noi. E invece è il volto di un’ideologia feroce che può assumere tratti pagliacceschi (questo Steve Bannon effigiato come merita da Vittorio Malagutti) o ben più inquietanti. Inquietante è la lettura che Salvini dà del suo stesso decreto: permessi di soggiorno strappati davanti alle telecamere, «se delinqui ti leviamo il foglietto». E allora nessun paragone con il passato è possibile. Ma, come scrive Aboubakar Soumahoro, il decreto Salvini «segna l’inizio di un processo istituzionale di deriva razzista». E non si potrebbe dirlo meglio, ottant’anni dopo.

Quando si fa apologia di una ideologia feroce nelle scuole...

Gli insegnanti di sinistra hanno distrutto la scuola in Italia: adesso è ora di cacciarli, scrive Andrea Pasini l'1 ottobre 2018 su "Il Giornale". Un insegnante che fa politica in classe è meglio che cambi mestiere. Non si può non commentare l’assegnazione della traccia di un tema, da parte di una docente di lettere ad una classe di quinta del liceo scientifico “Filolao” di Crotone, nel quale sarebbe stato fatto un probabile parallelismo tra le leggi razziali del 1938 in Italia e il recente decreto in discussione al Parlamento che riguarda l’immigrazione con al suo interno delle istanze razziste secondo l’insegnante. È una vergogna che nelle scuola possano accadere situazioni di una gravità così importante. La scuola tramite gli insegnanti politicizzati non deve permettersi di trasmettere pregiudizi. Purtroppo sempre più spesso vediamo in modo così palese che alcuni insegnanti politicizzati fanno il tifo per la sinistra. E questo è inaccettabile e andrebbe punito con il licenziamento in tronco. Non voglio credere che alcuni insegnanti siano arrivati a paragonare il decreto sulla sicurezza proposto dal Ministro Matteo Salvini e approvato dal Governo Italiano alle leggi razziali. Non voglio neppure credere che un docente possa davvero parlare di allarme razzismo in Italia, visto che i dati dicono l’estremo contrario. Ma i fatti purtroppo probabilmente smentiscono quello a cui non voglio credere. Io dico che se fosse vero quanto segnalato dallo studente e dal genitore di un liceo di Crotone, l’insegnante in questione dovrebbe cambiare immediatamente mestiere, anzi direi che dovrebbe essere licenziato immediatamente perché sarebbe palese che questo insegnante faccia politica all’interno delle scuola agli alunni. A sollevare il caso in questione della traccia particolare era stato un genitore della classe, che ha comunicato il testo al segretario delle Lega di Crotone Giancarlo Cerrelli, il quale ha informato il Ministro Salvini e ha denunciato l’accaduto alla stampa. Questa vicenda se fosse realmente confermata sarebbe di una gravità assoluta. Perché la scuola è un luogo di formazione e crescita dove non devono esistere le ideologie politiche ed i giovani studenti non devono essere mai e poi mai condizionati politicante. Il Governo dovrebbe varare delle leggi che puniscano severamente quegli insegnanti che si permettono di fare politica nelle scuole. Gli insegnanti che fanno politica a scuola sono sempre pro-sinistra e pro-immigrazione e a questo va immediatamente posto un argine. La scuola non è di sinistra! Anzi direi che la sinistra ha rovinato e distrutto la scuola italiana. La scuola deve essere un luogo apolitico. 

Leggi razziali e decreto Salvini: il tema al liceo apre il vespaio, scrive l'1 ottobre 2018 Pasquale Almirante su tecnicadellascuola.it. La traccia del tema che gli studenti dovevano svolgere a casa e consegnare al prof è la seguente: “Il 5 settembre del 1938 in Italia furono promulgate le leggi razziali. Oggi in Italia dopo 80 anni si registra un ritorno al razzismo, è un’opinione diffusa che proprio il recente decreto in discussione al Parlamento, che riguarda l’immigrazione, contenga delle istanze razziste. Descrivi le leggi razziali e confronta il testo con il decreto di recente ideazione ed esprimi le tue riflessioni”.

Bussetti, il tema e lo scandalo. Il primo a scandalizzarsi il ministro dell’istruzione, Marco Bussetti: “Apprendo con sconcerto la vicenda del tema assegnato in un liceo calabrese in cui si sarebbe chiesto agli studenti di tracciare un parallelismo tra le leggi razziali del 1938 e il recente provvedimento del Governo in materia di immigrazione. La vicenda, se confermata, sarebbe grave. In primo luogo perché la scuola è un luogo di formazione e di crescita dove non deve esserci spazio per le ideologie e il condizionamento del pensiero dei nostri ragazzi. In secondo luogo perché il parallelismo proposto rischia di strumentalizzare e sminuire una triste pagina della nostra storia, quella delle leggi razziali, che rappresenta ancora oggi una ferita profonda su cui proprio quest’anno si stanno aprendo, anche nel mondo scolastico e accademico, riflessioni e approfondimenti in occasione degli 80 anni dalla firma di quei terribili provvedimenti. Intendiamo – chiosa il Ministro – fare al più presto chiarezza. Anche per questo ho chiesto all’Ufficio scolastico regionale per la Calabria un immediato approfondimento”.

Tema shock al liceo scientifico: "Leggi razziali come dl Salvini". Scoppia il caso in una scuola di Crotone. Il ministro: "Se fosse vero l'insegnante dovrebbe cambiare mestiere", scrive Luca Romano, Domenica 30/09/2018, su "Il Giornale". Ancora un tema a scuola che scatena le polemiche. Nel mirino è finito, ancora una volta, il ministro degli Interni Matteo Salvini. A raccontare l'episodio è stato proprio lo stesso leader della Lega raccontando quanto avvenuto al liceo scientifico "Filolao" di Crotone. A quanto pare tra le tracce assegnate agli studenti, una chiedeva di analizzare il decreto Migranti confrontandolo con le leggi razziali del 1938. "Il 5 settembre del 1938 -sarebbe stata la traccia da sviluppare- in Italia furono promulgate le leggi razziali. Oggi in Italia dopo 80 anni si registra un ritorno al razzismo, è una opinione diffusa che proprio il recente decreto in discussione al Parlamento, che riguarda l'immigrazione, contenga delle istanze razziste. Descrivi le leggi razziali e confronta il testo con il decreto di recente ideazione ed esprimi le tue riflessioni", questa sarebbe la traccia del tema assegnato in classe. Il commento di Salvini è duro e replica alle accuse di chi vuole bollare il suo decreto come "razzista": "Purtroppo rimangono alcuni insegnanti politicizzati che fanno il tifo per la sinistra, ma non voglio credere che alcuni di loro siano arrivati a paragonare il mio decreto sulla sicurezza alle leggi razziali, come non voglio credere che una docente possa davvero parlare di allarme razzismo in Italia, visto che i dati dicono il contrario". La traccia del tema è stata segnalata da un genitore al segretario della Lega di Crotone, Giancarlo Cerrelli. Salvini infine manda un messaggio chiaro al professore: "Se fosse vero quanto segnalato da studenti e genitori di un liceo di Crotone, l'insegnante in questione -dice ancora il titolare del Viminale- dovrebbe scusarsi e cambiare mestiere, evitando di fare la militante politica in classe. Un abbraccio a quei ragazzi da parte di un papà che lavora per una scuola senza pregiudizi".

Tema shock. “Come facciamo a cacciare Salvini?”. Salvini: "Abbraccio i bimbi". Salvini è pericoloso, come le malattie, la guerra e la desertificazione dei continenti. L'insegnante delle medie dà un tema su una macchina fantastica che..., scrive Antonio Amorosi, il 26 settembre 2018 su Affari Italiani". In Italia ognuno pensa quello che vuole, figuriamoci i bambini. Ma fa sorridere quanto la “propaganda” possa andare in profondità, forse perché in Emilia Romagna sono particolarmente di sinistra, al punto da sentire che tra i problemi del mondo ci sono “la desertificazione”, “la guerra”, “molte malattie” e come “cacciare Salvini”. E' quello che è accaduto in un più piccolo Comune della provincia di Bologna, a Castel del Rio, area imolese, e precisamente in una scuola media dell'istituto comprensivo che ha sede a Borgo Tossignano. Un insegnante assegna ai ragazzi, come compito a casa, “scrivere le domande che ognuno di loro vorrebbe fare ad una macchina fantastica che può risolvere i problemi del mondo”. E un ragazzino torna in classe con le risposte, immaginiamo per ordine di importanza. “Come possiamo avere macchine con un'energia che non inquina? Come facciamo a cacciare Salvini? Come risolvere la desertificazione? Come smettere la guerra? Come guarire molte malattie?”. Sembra che Salvini sia così pericoloso da essere paragonabile ad una delle sette piaghe d'Egitto, da cacciare dal consesso civile. Una madre vede la risposta e fa una foto al tema, inviandola poi ad un'altra mamma che si fa delle domande su cosa sia accaduto. Il capogruppo della Lega di Imola Simone Carapia posta la foto del compito sulla bacheca di facebook, raccoglie le informazioni e subito si scatenano i commenti di denuncia. Chiamiamo la scuola per capire come sia andata davvero ma all'istituto tutte le bocche sono cucite. Oramai la notizia è iniziata a circolare in rete ed è il panico. Riusciamo a interloquire con la dirigente capo, la dottoressa Grazia Grassi: “Non ho elementi ancora certi”, spiega ad Affari. “Sto raccogliendo i fatti e stiamo cercando di capire cosa è davvero accaduto”, dice. Quello che fa sorridere è che un bambino che non ha ancora gli strumenti di approfondimento abbia già in bocca il luogo comune di estrema sinistra che Salvini è pericoloso come le malattie, la guerra e la desertificazione dei continenti. Il bambino ha fatto bene ad esprimere un'opinione, qualunque essa sia e per quanto possa essere estrema e irreale. Ma a questo punto il ruolo della scuola, dopo i dovuti approfondimenti, dovrebbe essere attivo, non censurare, tanto meno lasciare andare, ma dialogare con la classe e i ragazzi, essere in grado di sfatare i luoghi comuni, al di là delle opinioni che è giusto che la gente abbia. Educare, vuol dire dare degli strumenti per avere un senso critico, non cambiare le idee delle persone. Questo permetterebbe di avere dei ragazzi che non ripetono a pappagallo quello che sentono dalla propaganda tv o dai parenti, per avere le idee che più aggradano ma anche capire la differenza tra ideologie e fatti concreti. Sennò restiamo al livello dei comunisti che mangiano i bambini. Lo storia nata dal cannibalismo registrato in Unione Sovietica. Negli anni Trenta Joseph Stalin, dopo aver ucciso dieci milioni di ucraini, piegò la resistenza dei contadini locali con la carestia. Questi erano così poveri e disperati che per sopravvivere a mesi e mesi di fame dovettero mangiarsi i morti e la carne dei bambini era quella più tenera. Li disseppellivano dai cimiteri e se li mangiavano. Da lì il mito, in parte una manipolazione perché a patire le pene della fame furono soprattutto i nemici del comunismo e di Stalin. “In una scuola media di Castel del Rio, Bologna, una insegnante di italiano avrebbe chiesto agli studenti “come facciamo a cacciare Salvini?”. Non ci voglio credere, e infatti andrò fino in fondo per verificare se siamo di fronte a uno scherzo o a una triste realtà. Scriverò al ministro della Pubblica Istruzione. Un abbraccio a quei bimbi da parte di un papà che lavora per una scuola senza pre-giudizi in un Paese libero” afferma il ministro dell’Interno Matteo Salvini.

La Lega: "Prof dà un tema su come cacciare Salvini". Il Ministro chiede un'ispezione. La vicenda in una media di Castel del Rio (Bologna). L'insegnante aveva chiesto di non trascrivere sul quaderno il "sogno" di una bambina: via il ministro dell'Interno. Che non l'ha presa bene. Il provveditore: "Il caso non esiste", scrive il 26 settembre 2018 "La Repubblica". Il ministro dell'Istruzione Marco Bussetti ha chiesto all'Ufficio scolastico regionale dell'Emilia Romagna di avviare un'ispezione sulla "attività di conoscenza" dei bambini di prima media a Castel del Rio, sull'Appennino bolognese, diventata motivo di una polemica feroce della Lega contro la scuola e la docente di italiano che aveva assegnato il compito: esprimete i vostri desideri. C'è chi scrive: "Come facciamo a cacciare Salvini?". L'insegnante chiede di cancellarlo, ma un'alunna lo trascrive lo stesso, insieme ad altri desideri come "smettere la guerra" e "guarire molte malattie", oppure "risolvere la desertificazione" e avere macchine ad energia pulita. Il quaderno arriva a casa e la paginetta (in foto) con l'interrogativo sulla cacciata del ministro dell'Interno viene fotografata e postata nei social. La Lega cavalca la vicenda, con una nota stampa: "Certi insegnanti, anziché educare, fanno propaganda politica". E si arriva alla follia. Un caso "che non esiste nemmeno", precisa il direttore dell'ufficio scolastico dell'Emilia Romagna Stefano Versari anche in risposta a Matteo Salvini che immediatamente interviene, col condizionale, per capire se la cosa è vera. ''Non ci voglio credere, e infatti andrò fino in fondo per verificare se siamo di fronte a uno scherzo o a una triste realtà. Scriverò al ministro della pubblica Istruzione. Un abbraccio a quei bimbi da parte di un papà che lavora per una scuola senza pre-giudizi in un Paese libero'', afferma il ministro dell'Interno. Non c'è nessun compito in classe o a casa, precisa il provveditore Versari, dato dall'insegnante ai bambini - come denunciato dal commissario provinciale della Lega Daniele Marchetti, che è anche consigliere regionale dell'Emilia-Romagna -, ma un incidente nato da un esercizio fatto in classe. "Si tratta della 'bottega dei desideri', una pratica didattica fatta all'inizio di un nuovo ciclo scolastico per far conoscere i bambini tra di loro e all'insegnante". Ogni alunno esprime un desiderio e trascrive sul quaderno quelli degli altri, per parlarne poi insieme al docente e conoscersi. Il 'casus belli' sarebbe un desiderio particolare, "cacciare Salvini", che l'insegnante, secondo quanto riferito dalla dirigente scolastica dell'istituto comprensivo di Borgo Tossignano al direttore Versari, avrebbe anche chiesto di non trascrivere insieme agli altri.  "Per precauzione - sottolinea Versari - ho chiesto sull' episodio una relazione scritta. Ma ho la percezione di una realtà che cerca l'esorbitanza, e che quando l'esorbitanza non c'è tende a costruirla", a "stravedere rispetto alla realtà", "non è un bel segnale". "Auspico che sia una fake news perchè, se così non fosse, questo insegnante andrebbe allontanato immediatamente degli alunni": è quanto dichiara la senatrice della Lega Lucia Borgonzoni che sottolinea: "Il fatto è di una gravità inaudita, per tali motivi ho preallertato il Ministero dell'Istruzione".

Bologna, tema shock di italiano per gli alunni di una scuola media: "Come facciamo a cacciare Salvini?" Scrive il 26 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". "Come facciamo a cacciare Matteo Salvini?". È questa la domanda che si sono trovati nel compito di italiano gli alunni di una scuola media di Castel Del Rio, in provincia di Bologna. A segnalare l'accaduto è proprio un genitore, che ha immediatamente avvisato il commissario provinciale della Lega, nonché consigliere regionale dell'Emilia-Romagna, Daniele Marchetti. "Si tratta di un fatto, qualora confermato, gravissimo. Se è vero che stiamo indagando sulla veridicità della segnalazione che ci è arrivata, è anche vero che sin da ora è possibile trarre alcune conclusioni incontrovertibili: come si fa a porre una domanda simile a dei ragazzini di 11-14 anni?". E continua: "A quell'età i ragazzi vanno educati, devono imparare la lingua italiana, la matematica, le scienze, la geografia, le lingue straniere. Vanno a scuola per imparare e farsi una cultura senza condizionamenti esterni, tanto più se questi sono di matrice politica. Il solo pensare di sottoporre un compito in classe porgendo una domanda simile agli studenti significa non essere in grado di adempiere con correttezza alla propria professione di insegnante". Anche Fabio Morotti, segretario della Lega di Imola si scaglia contro l'insegnante: "Qualora le verifiche che stiamo facendo portassero a confermare i fatti chiederemo al Provveditorato di prendere immediati provvedimenti contro quella professoressa che ha scelto la scuola non per educare, quanto per fini di propaganda politica". Il diretto interessato, paragonato in termini di pericolosità alla malattia, alla guerra e alla desertificazione, replica sconcertato: "Non ci voglio credere, e infatti andrò fino in fondo per verificare se siamo di fronte a uno scherzo o a una triste realtà. Scriverò al ministro della Pubblica Istruzione. Un abbraccio a quei bimbi da parte di un papà che lavora per una scuola senza pregiudizi in un Paese libero".

Quando si fa apologia di una ideologia feroce nelle piazze...

Razzismo, flop manifestazione Pd a Roma: in piazza non c'è nessuno. Fiasco dell'iniziativa del partito democratico contro il razzismo, pochissimi partecipanti in una Piazza San Silvestro deserta, scrive Marco Zonetti, Mercoledì 1 agosto 2018 su Affari Italiani". Emergenza razzismo: il Pd organizza un presidio a Roma, nella centralissima Piazza San Silvestro, ma la partecipazione è un flop. Il solerte segretario Maurizio Martina ci prova, s'impegna, si arrabatta, ma è il 31 luglio, la Capitale è riscaldata dal solleone e da temperature proibitive anche alle 18,00, e quindi in piazza si ritrovano solo i big del Pd, da Marcuccialla Madia, da Delrio alla Morani e così via, ma a parte fotografi, cameramen e qualche dirigente romano dem, non c'è praticamente nessuno. Martina aveva indetto una manifestazione nazionale per settembre, al fine di protestare contro quella che il Pd ritiene la "deriva xenofoba" di questo Paese complici le "scellerate" politiche del Ministro dell'Interno Matteo Salvini, ma era stato subissato da critiche e improperi poiché "se c'è un'emergenza, non si può attendere il ritorno delle vacanze". Il segretario quindi, in fretta e furia, accusato da più parti (perfino da elettori piddini) di essere un radical chic che alla protesta contro il razzismo preferisce Capalbio, ha dunque organizzato il presidio, ma neanche in questo caso il suo sforzo è stato premiato. Peggio, è stato disertato anche dagli stessi simpatizzanti dem, in villeggiatura, al mare, o in città stremati dal caldo e semplicemente disinteressati all'iniziativa. Certo, non è mai un bello spettacolo vedere dei leader di partito e figure istituzionali - fino a qualche mese fa ministri della Repubblica - rivolgersi a una piazza deserta e a una platea inesistente. Un altro, l'ennesimo, esempio di come il Partito Democratico stenti ormai a intercettare il suo stesso elettorato e il suo stesso eventuale bacino di consensi, figuriamoci coinvolgere la società civile non necessariamente sua elettrice. Dimostrando così - come se ce ne fosse bisogno - la crisi nera che attraversa l'ex forza politica di governo, e l'opposizione in generale, crisi dalla quale sembra sempre più difficile risollevarsi. 

Razzismo, Pd: la foto che imbarazza i dem di Viterbo in piazza contro Salvini. Sta facendo il giro dei social network lo scatto che fotografa la mancata partecipazione al presidio antirazzista organizzato dai dem della Tuscia, scrive Mercoledì 1 agosto 2018 Affari Italiani". Il Pd si mobilita contro la presunta emergenza razzismo e le politiche "scellerate" di Matteo Salvini, e a Roma e a Viterbo organizza un presidio per esprimere il proprio dissenso. Ma se a Roma, in Piazza San Silvestro, la partecipazione è scarsa e fra i pochi partecipanti si vedono solo i big del Pd ma quasi nessun cittadino, simpatizzante, elettore, a Viterbo in Piazza del Comune la situazione è ancor più catastrofica. La foto fatta girare dai dem viterbesi mostra infatti uno scatto ravvicinato di una decina di persone che reggono uno striscione antirazzista, ma qualche perfido burlone scatta altre fotografie dall'alto palesando la catastrofe. In Piazza c'è solo la decina di attivisti con lo striscione di cui sopra, e tutt'attorno a loro il deserto più desolante.

Il flop della "No Salvini Night": hanno partecipato in quattro. Sabato sera al parco Ravizza di Milano ha avuto luogo la arrabbiatissima No Salvini Night (ma hanno partecipato solo gli organizzatori), scrive Eugenia Fiore, Lunedì 01/10/2018, su "Il Giornale". Sabato sera al parco Ravizza di Milano era tutto pronto. Tra salamelle, birre e deejay non mancava proprio nulla. Ma a partecipare alla arrabbiatissima No Salvini Night non è stato praticamente nessuno. "Contro il governo della repressione ci riprendiamo i parchi e le piazze. Il 29 Parco Ravizza prenderà vita con una serata gratuita autogestita dagli studenti per gli studenti", si leggeva nel volantino della serata (non autorizzata) organizzata da Casc Lambrate (Coordinamento Autonomo Studenti e Collettivi di Lambrate). Il gruppo ha postato qualche ora prima dell'inizio dell'evento alcune foto su Facebook. "I collettivi del Casc Lambrate stanno allestendo la vostra festa", si legge nel post entusiasta. Verso le 22 e 30, però, il flusso di gente sul posto era pari a quello delle 19. Alla festa contro Salvini, praticamente, c'erano solo gli organizzatori. Qualche curioso si è affacciato sentendo la musica arrivare dal parco. E si è presto dileguato. Insomma, doveva essere l'ennesima manifestazione contro il ministro dell'Interno e proprio a pochi giorni dall'approvazione del dl immigrazione, ma è stato solo un grosso flop. Ultimamente, comunque, se ne vedono di tutti colori. Solo qualche giorno fa, a Bolgona, il Cua-Collettivo universitario autonomo ha affisso degli striscioni giusto un filo diretti. In uno si leggeva "Salvini, Bologna ti odia! No al razzismo", mentre un altro manifesto presentava il volto del ministro dell'Interno al centro di un mirino con la scritta "Assassino. Prendilo di mira". E dire che stiamo parlando di un componente del governo della Repubblica italiana. Non male, in fondo. Poi si sentono pure "buonisti".

Povia, nel Leccese concerto annullato "senza motivo": «Mi danno del razzista». Il cantante si sfoga con un video su YouTube, ma il parroco del paese replica: «Mente. Non sapevo nulla dello spettacolo», scrive Pierangelo Tempesta l'1 Ottobre 2018 su "Lagazzettadelmezzogiorno.it". Il concerto di Povia viene annullato, e a Felline scoppia la bufera sulla festa di Sant’Antonio. Il 22 ottobre il cantautore milanese avrebbe dovuto esibirsi a conclusione dei festeggiamenti. Ma, con un video pubblicato su Facebook, ha annunciato l’annullamento della data, ritenendo il parroco del paese, don Antonio Verardi, responsabile della cancellazione. Dal sacerdote, però, arriva una secca smentita: «Non ho annullato nessun concerto, il comitato non ha firmato alcun contratto». Povia (che lo scorso aprile si era visto annullare un altro concerto, a Lecce) spiega che il contratto è stato firmato il 23 agosto da Mauro Palese, «con i membri del comitato che, più o meno, erano tutti d’accordo». E ritiene che l’annullamento sia stato disposto per motivazioni non economiche, ma ideologiche. «Don Antonio - afferma l’artista - si è messo di mezzo a gamba tesa e si è rifiutato di dare motivazioni. Ce lo hanno confermato sia chi ha firmato il contratto, sia i paesi vicini». E ancora: «Passo sempre per fascista, razzista, populista, omofobo, ma sono tutte stupidate: questi sono i motivi dell’annullamento». Concludendo il video, il cantautore ha anche affermato di voler smettere di cantare a partire da ottobre: «Essere umiliato con un motivo lo accetterei, ma così, senza motivo, no». Molto dura la risposta del parroco: «Non ho annullato nulla, non è stato firmato nessun contratto dal presidente del comitato e del concerto io sono stato informato solo 2 o 3 giorni fa. L’attacco del cantautore non mi interessa minimamente, so solo di non aver annullato nulla, semplicemente perché il comitato non ha niente a che vedere con quel concerto». Don Antonio aggiunge anche di non sapere «chi abbia firmato il contratto, probabilmente una persona che è venuta a trovarmi, ma che non fa parte del comitato. Con un certo sprezzo si parla di “un prete”, come se fossi chissà chi, ma questo non mi tocca. Non ho nulla a che fare con le persone che non dicono la verità e che sprezzano un interlocutore che non hanno mai avuto come tale». E conclude: «Non conosco il cantante, non so chi sia, non si permetta di diffondere false notizie». Mauro Palese, il firmatario del contratto, spiega di essere riuscito ad organizzare il concerto ad un prezzo molto basso, grazie al suo rapporto di conoscenza con il cantante. «Ho firmato e mi sono assunto l’impegno di trovare gli sponsor. Purtroppo il concerto è saltato senza una motivazione valida, era stato tutto deciso già nel mese di giugno con la commissione». Sullo sfondo dell’intera vicenda ci sarebbero alcuni screzi nati all’interno del comitato tra chi avrebbe voluto dare alla festa un’aria nuova (con diverse iniziative, tra cui il concerto di Povia) e chi, invece, non ha voluto discostarsi dalla tradizione. Proprio a causa di queste divergenze, tre «nuove leve» si sarebbero allontanate dal gruppo.

Quelli che seminano vento e raccolgono tempesta...

Immigrazione: la logica Capalbio ha travolto il Partito Democratico. Immigrazione: la logica radical chic del Pd mostra tutti i suoi limiti, scrive Giovedì, 30 agosto 2018, Affari Italiani. Tutti i partiti abituati a comandare da troppo tempo si illudono di considerare il loro mandato come una concessione divina (anche se non sono credenti) e finiscono quindi, quasi inevitabilmente, per considerare il popolo come se fosse un popolo bue anche se è in nome e al servizio del quale essi dovrebbero fare politica, scrive Pierluigi Magnaschi su Italia Oggi. È infatti quest'ultimo lo spirito stesso, l'anima vera, della democrazia che, tra l'altro, è stata solennemente e inevitabilmente ribadita anche dalla Costituzione italiana. Che l'insofferenza dei politici al potere verso gli elettorali disobbedienti alla loro supremazia, non sia nuova, l'aveva già rilevato, a suo tempo, anche il celebre drammaturgo tedesco di sinistra, Bertold Brecht, quando disse che «siccome il popolo non aveva votato come avrebbe voluto l'élite politica, quest'ultima aveva deciso di abolire il popolo». Lo stesso copione si è ripetuto con l'immigrazione alluvionale proveniente dall'Africa. I politici al governo, grosso modo nell'ultimo decennio (fate voi il calcolo chi fossero), hanno fortemente sottovalutato questo fenomeno epocale. Anziché governarlo, lo hanno subito. A livello europeo, l'Italia, se non altro perché è immersa nel Mediterraneo, avrebbe, fin dall'inizio, potuto e dovuto invocare quella dovuta solidarietà che Germania e Francia ci avevano imposto con i ridicoli, anche perché rigidi, parametri di Maastricht. I recenti governi italiani hanno invece barattato il loro lassismo sulle ondate di immigrazione, con l'ottenimento di successive dosi di flessibilità sul debito pubblico. Il governo Renzi, in particolare, ha scambiato l'accoglienza indiscriminata dei migranti che solcavano il Mediterraneo in direzione delle isole o delle coste italiane, con l'ottenimento dello sfondamento del budget pubblico. In pratica, per potere regalare i famosi 80 euro ai giovani, ha fatto subire all'intero paese l'alluvione immigratoria. Pensando di trarne un vantaggio elettorale, ha scambiato il regalo di birre e pizze ai giovani, in cambio dell'accettazione, presentata come ovvia, di centinaia di migliaia di immigrati. Sennonché mentre le birrette e le pizze sono state bevute e mangiate che è un piacere, gli immigrati che l'Europa non vuole condividere con noi, invece, non solo vengono metabolizzati dal paese con fatica ma hanno anche contribuito a creare un diffuso senso di paura e di preoccupazione. Quest'ultima infatti, sentendosi non presa in considerazione, ha reagito punendo la maggioranza politica precedente, nel solo modo a sua disposizione e cioè con un voto a sua volta alluvionale (come il flusso immigratorio che ne è stato in gran parte la causa). Questo voto anti ha spazzato via le maggioranze precedenti, rendendone anche impossibile, per loro insipienza, un ritorno al governo entro tempi ragionevoli. Il bello è che la sinistra (dal Pd a Leu, fino alle frattaglie di comunisti residuali), che è stata punita soprattutto per non aver governato i flussi migratori, dopo essere stata, per questo, sonoramente colpita dall'elettorato, fa finta adesso di non aver capito che questo è il problema più rilevante della sua crisi come ha dimostrato anche una bella inchiesta tv della La7 fra i frequentanti del più famoso circolo Arci di Bologna (la Mecca del comunismo rampante d'antan) che si opponevano al lassismo del Pd in tema di immigrazione e che quindi avevano votato soprattutto per i pentastellati. La défaillance del Pd sul fronte dell'immigrazione non regolamentata non è una purtroppo una dimenticanza ma una nuova cultura. All'ideologia marcatamente solidaristica del vecchio Pci, si è infatti sostituta l'ideologia liquida radical chic, cioè dell'ognuno per sé e dei tutti per nessuno. Il vecchio Pci infatti difendeva il tenore di vita della classi più sfavorite. Invece il nuovo Pd (e frattaglie varie) non difende più il tenore di vita dei suoi elettori ma bensì il loro stile di vita. È diventato cioè più attento ai gusti della nomenclatura di Capalbio o dei Parioli (che, non a caso, lo ringraziano, plebiscitandolo nel corso delle elezioni). Infatti, queste ultime località o quartieri si sono trasformati, da superciliose roccaforti della conservazione privilegiata, in baluardi della sinistra rosè. Da parte dei precedenti governi è stata adottata, nei confronti dei migranti, una controproducente strategia di nascondimento che ha finito per colpire ulteriormente le classi più deboli e/o dimenticate. Infatti, dopo le prime settimane di disordinata ed esibita concentrazione di immigrati che bivaccavano nelle grandi città sotto l'occhio dei media (oltre che della cittadinanza preoccupata), gli immigrati sono stati sparpagliati nei centri minori, dove, per il loro numero e la loro esuberanza (il testosterone non colpisce solo i giovani italiani), hanno causato rifiuti anche maggiori, sia pure nascosti ai giornali e tv ma riemersi nelle urne dove si manifesta il paese reale, anche se preso a merluzzate a suon di accuse di razzismo. Il proverbio dice: «Occhio non vede, cuore non duole» ma l'elettore marginale, che ha capito che il potere lo trascura, si è vendicato poi con il voto che è, ripeto, nelle democrazie moderne, l'unica arma a sua disposizione. Ad esempio, in un paesino popolato solo da vecchi nell'Appennino emiliano, gli anziani cittadini italiani che hanno bisogno di andare a fare delle analisi in città dispongono, a pagamento è ovvio, di una corriera che parte il mattino alle 7 e che torna alle 18,30. I giovani immigrati che sono stati accolti nei pressi, oltre ai 2,50 euro di pocket money giornaliero, possono invece chiamare (se sono almeno in cinque) un pulmino che li porta, gratis ovviamente, in città all'orario che loro più conviene e li restituisce quando essi vogliono. In un comune di periferia, a pochi chilometri da Como, un'amministrazione comunale da tempo previdente, aveva comperato una palazzina dove aveva ricavato dei piccoli bilocali molto bene attrezzati da far abitare, ad affitto quasi simbolico, alle coppie più vecchie. Ovviamente, stante l'età dei locatari, il ricambio era intenso. I nuovi occupanti erano scelti in base a graduatorie pubbliche. Sennonché le due unità pronte a essere assegnate, sono state utilizzate per ospitare dei migranti. Facile immaginare la reazione emotiva dei vecchi rimasti a piedi e della cittadinanza che ha assistito a questa oggettiva violenza. E che dire dell'offerta fatta dai sindaci di piccoli comuni (spesso di sinistra) ai migranti, di dedicarsi, con calma, è ovvio, a piccoli lavori di pubblica utilità? La sindaca Pd, che lo aveva proposto, aveva spiegato ai rappresentanti dei migranti che la sua iniziativa era tesa «a creare una maggiore integrazione con la popolazione locale» che, vedendo che si rendono utili, avrebbe potuto guardare con occhi diversi questi giovanotti permanentemente al cellulare. La sindaca (debbo dirlo?) è stata mandata a quel paese. Di casi del genere (spesso censurati dai media più seguiti, con la scusa che si tratta di fatti minori) è piena l'Italia. Il Pd (e, in genere, la sinistra) non li prendono in considerazione. Anziché mettersi nei panni dei cittadini normali (quelli di Capalbio, gli immigrati non li vogliono; e sono stati subito accontentati. Ci mancherebbe, sir) il Pd, dicevo, si è messo a insultare coloro che non condividono la sua politica immigratoria. Il metodo è il suo solito: la demonizzazione basata sull'insulto definitivo, quello al quale non si può replicare. Per loro infatti, chi non è d'accordo con le rovinose scelte della sinistra sull'immigrazione, è definito «razzista». È strano che siano stati mandati, a loro volta, a quel paese? Cuntènt?, diceva Gino Bramieri.

Immigrazione selvaggia a tutti i costi: così la sinistra ammazza l'Italia e si copre di ridicolo, scrive il 7 Agosto 2018 Elisa Calessi su "Libero Quotidiano". Contrordine: dei libici non ci si deve più fidare. Le motovedette non si vendono più. Anzi, doppio contrordine. Perché non solo gli accordi con il governo di Tripoli sul controllo delle coste erano cominciati con un ministro del Pd, Marco Minniti, che proprio su scelte come questa aveva accresciuto la sua (e del Pd) popolarità. Ma la decisione dell’attuale governo, che prevede, appunto, la vendita di 12 motovedette, 10 della Guardia Costiera e 2 della Guardia di Finanza, era stata approvata e votata dai senatori del Pd. Solo pochi giorni fa. Nel passaggio del decreto alla Camera, invece, si è deciso di cambiare completamente linea. Morale, il Pd, ieri, ha deciso di non partecipare al voto (alla fine il provvedimento è passato con 382 sì e 11 no). Un classico di quando non si sa come sbrogliare la matassa. Ma è il finale di una giornata di travaglio tra i dem.

LA SPACCATURA. Una parte dei deputati era per seguire l’orientamento dei colleghi senatori, confermando il via libera a una linea che era stata avviata dal ministro Minniti con il famoso memorandum, quello che trattava anche del codice di condotta per le Ong. Un’altra, capeggiata da Matteo Orfini e condivisa dal segretario Maurizio Martina, era, invece, per ribaltare quella posizione. Non a caso proprio il presidente del Pd, alcune settimane fa, aveva sferrato un attacco nei confronti dell’ex titolare del Viminale, contestandogli l’impostazione tenuta. E la critica riguardava, tra l’altro, proprio gli accordi con il governo libico, considerato responsabile di violazioni inaccettabili dei diritti umani. La spaccatura, poi, ha un altro risvolto: si dà il caso, infatti, che al Senato ci sia Matteo Renzi e il nocciolo duro dei suoi fedelissimi. E non a caso i renziani non hanno difeso il "ripensamento" avvenuto a Montecitorio. Alla fine, dopo una difficile mediazione, Graziano Delrio, capogruppo dei dem alla Camera, ha deciso per la non partecipazione al voto. Ma, off the records, i malumori erano tanti. L’argomento con cui il Pd di Montecitorio ha ribaltato la linea del Senato è che il governo avrebbe dovuto garantire sul rispetto dei diritti umani da parte della Guardia Costiera libica, alla quale, grazie al decreto, saranno consegnate le 12 motovedette. Stefano Ceccanti, Barbara Pollastrini e altri deputati hanno illustrato la posizione: bisogna tenere insieme, hanno spiegato, il principio della sicurezza dei confini e il rispetto dei diritti umani. «Tutti i governi della scorsa legislatura, nessuno escluso, si sono mossi sull’unica linea che è compatibile con i principi e i valori della Costituzione: sicurezza ai confini e tutela dei diritti umani. Questo è stato, nelle diverse fasi politiche, nei diversi contesti, l’obiettivo di tutti i governi che si sono avvicendati nella scorsa legislatura. Il governo fin qui ci aveva presentato questo provvedimento come un provvedimento in continuità», ha sottolineato Ceccanti. E ha chiesto, sul punto, «una risposta chiara da parte dell’esecutivo». Pollastrini ha richiesto «garanzie» sul rispetto dei diritti umani da parte dei libici nell’uso delle motovedette: la presenza a bordo di un osservatore internazionale, la presenza nei campi libici di rappresentanti delle organizzazioni internazionali, Unhcr e Oim, come previsto dalla convenzione di Ginevra.

LA REPLICA. Il governo ha risposto che non è possibile. Il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, ha spiegato che pur condividendo «evidentemente» il richiamo ai diritti umani, occorre seguire il principio generale per cui se un'intesa è troppo vincolante non è rispettata. «Sapete anche voi», ha detto Di Stefano ai parlamentari del Pd, «che prevedere l'obbligo di questi impegni renderebbe inefficace l'accordo. Tant’è vero che nello stesso memorandum sottoscritto da Minniti questi obblighi non c'erano. Eppure non mi sembra che Minniti fosse uno che non rispettava i diritti umani. Pertanto possiamo scrivere che l'Italia farà di tutto per promuovere il rispetto dei diritti umani, ma l'Italia non può obbligare altri paesi a farlo», ha concluso Di Stefano.

Immigrazione e Ius soli, gli errori del Pd e della sinistra. Il Salvini pensiero macina consensi. Anche grazie alla mancanza di analisi degli avversari che hanno ignorato la preoccupazione e il disagio degli strati più periferici della società, scrive Carlo Panella il 5 luglio 2018 su Lettera 43. Nell’arco di un mese, la Lega e i 5 stelle sono passati dal 49% e rotti del 4 marzo a sondaggi unanimi che li danno complessivamente sopra il 59%. Il tutto a demerito - va detto - dei 5 stelle che calano di qualche punto in percentuale (2 o 3) e a merito solo della Lega di Matteo Salvini che dalle elezioni a oggi ha conquistato ben più del 10-15% nelle rilevazioni di voto. Il tutto, in un periodo nel quale il governo non ha fatto nulla e Salvini, appunto, ha fatto e soprattutto detto di tutto. Sostanzialmente ha posto con straordinaria efficacia il tema dell’immigrazione, degli sbarchi, del confronto a muso duro con un’Europa più divisa e demente che mai, col risultato finale che il suo messaggio è apprezzato da quasi il 60-70% degli italiani.

UN FENOMENO INTERNAZIONALE. Chi si occupa e preoccupa della sinistra e della rifondazione di un Pd oggi ai minimi storici farebbe bene a dare un’occhiata a questa dinamica, perché ne è complice, perché se il Pd e la sinistra non si danno una regolata sul tema dell’immigrazione - non dei clandestini, dell’immigrazione nel suo complesso - non usciranno mai dalla crisi. Innanzitutto Pd e sinistra devono prendere atto che il Salvini pensiero, per così dire, sull’immigrazione e il suo consenso presso larghissimi strati popolari è un fenomeno non solo italiano, non solo europeo, ma mondiale. Si ricordi il muro col Messico di Trump, a quanto avviene in tutti i Paesi europei - Germania e Baviera in testa, ma anche Svezia e Olanda - e si dia un occhiata anche a quanto fanno gli Stati del Maghreb, Algeria in primis, e si troveranno innegabili assonanze. La società italiana non sopporta più o mal tollera una presenza di immigrati regolari che non seguono i meccanismi dell’assimilazione e dell’integrazione. Comunità di immigrati intere arroccarsi in se stesse in una dinamica che innesca disagio, paure e scontento. La realtà è tanto complessa quanto semplice: la società italiana, come le altre, non sopporta più o mal tollera una presenza di immigrati regolari che non seguono affatto i meccanismi dell’assimilazione e dell’integrazione, che vede comunità di immigrati intere arroccarsi in se stesse in quella che i francesi chiamano deriva comunitaria, in una dinamica che innesca disagio, paure e scontento. Una dinamica che riguarda, lo ripetiamo, innanzitutto gli immigrati regolari, esasperata poi dal sopraggiungere del fenomeno dei clandestini. Una dinamica il cui prezzo è tutto sugli strati più disagiati e periferici della popolazione, come dimostrano perfettamente risultati elettorali nei quali tutte le periferie popolari e proletarie vedono la Lega con percentuali di voto bulgare e la sinistra e il Pd perdere una a una tutte le roccaforti e imporsi solo nei quartieri “bene” delle metropoli.

I TRE ERRORI DELLA SINISTRA. A fronte di questo quadro, il Pd e la sinistra negli ultimi anni hanno compiuto tre errori di analisi e di proposta esiziali. Innanzitutto hanno dato per scontato che gli italiani non avessero problemi con gli immigrati regolari. Falso, superficiale, incredibile: basta frequentare le file agli sportelli delle case popolari, delle scuole materne o quartieri come Settimo Torinese, Tor Bella Monaca o Sesto Milanese, e così via e si tocca con mano addirittura una esasperazione, una certezza del crescere di ingiustizie che nulla hanno di razzista o xenofobo, e che poi si sono riversate nelle urne col risultato che sappiamo, soprattutto nel Nord e nel Centro Italia, là dove la Lega ha spopolato.

IL NODO MINNITI. In secondo luogo la sinistra e il Pd nella campagna elettorale e a tutt’oggi si sono letteralmente “vergognati” (vedi Matteo Orfini, ma anche Graziano Delrio) dell’azione contro gli immigrati irregolari e i flussi dall’Africa dell’unico ministro del Pd che aveva compreso questa dinamica. Matteo Renzi ha segato tutti i candidati di Minniti, ha fatto una campagna elettorale nella quale ha semplicemente ignorato i suoi meriti nel contrasto all’immigrazione clandestina. E ha platealmente perso.

LA CARTA (SBAGLIATA) DELLO IUS SOLI. Infine, siccome al male non vi è mai fine, il Pd e la sinistra proprio alla vigilia della campagna elettorale hanno alzato la bandiera dello Ius soli tentando di farlo approvare al Senato, con un chiaro messaggio al proprio elettorato: ora facciamo diventare italiani tutti quegli immigrati regolari che pure vi creano tanti problemi e disagi. Nessuno ha calcolato quanto questo benedetto Ius soli abbia contribuito al 17,8% elettorale del Pd, ma non crediamo di sbagliare se sosteniamo che ha dato una mano definitiva. Da questo quadro desolante per la propria “intelligenza” del reale, devono ripartire il Pd e la sinistra. Magari, con umiltà, riscoprendo quell’antico strumento che per tanti decenni ha portato risultati eccellenti: l’inchiesta, quella vera, in mezzo al popolo.

STUPRI E FEMMINICIDI DEI CLANDESTINI: L'ASSOLUZIONE IDEOLOGICA.

Il nigeriano intercettato: "Deve far sparire Pamela, anche a costo di mangiarla". Metodi da mafia africana nelle parole di Desmond Lucky. La procura rivela che nei telefonini sono state trovate anche immagini di torture, scrive il 25/04/2018 l'Huffington Post. Sezionare un corpo "è una cosa di poco conto, un gioco da bambini". La frase choc, ha detto oggi il procuratore di Macerata Giovanni Giorgio, è stata pronunciata da Desmond Lucky, uno dei tre nigeriani arrestati per l'uccisione e lo smembramento della 18enne romana Pamela Mastropietro, durante una conversazione intercettata in carcere con Awelima Lucky, fermato per gli stessi reati: i due avrebbero parlato di come Oseghale avrebbe potuto disfarsi del cadavere. Desmond Lucky, uno degli accusati di omicidio, il cui Dna non è nella casa degli orrori (ma il suo cellulare sì), arriva a dire che "Oseghale avrebbe dovuto far sparire il cadavere tagliandone una parte a pezzettini da gettare nel gabinetto, e mangiando il resto, dopo averlo congelato". "Va tenuto presente - ha però precisato il procuratore Giorgio - che le intercettazioni non sempre sono rivelazione della verità. C'è da valutare bene le singole parole e spiegare se dette in liberà o corrispondenti al vero". Lucky ha detto ad Awelima di aver fatto parte in patria di un "gruppo criminale" e di aver compiuto "cose terribili". Tra le foto trovate nei cellulari, ha spiegato Giorgio, in particolare di Awelima, ce ne sono alcune di africani torturati e del sezionamento di un animale. "Quando ci saranno noti tutti i risultati dei prelievi - ha aggiunto Giorgio - trarremo le conclusioni. Non cerchiamo capri espiatori, o nigeriani perché nigeriani, ma solo gli autori dell'omicidio".

“Doveva mangiarla, un pezzo alla volta”. Caso Pamela, l’intercettazione shock, scrive Anna Pedri il 10 maggio 2018 su Primato nazionale. Una nuova, agghiacciante intercettazione, svela un altro tassello relativo al macabro omicidio di Pamela Mastropietro, la diciottenne fatta a pezzi a Macerata dal nigeriano Innocent Oseghale, che prima l’ha stordita e violentata. Cannibalismo. “Sarebbe stato meglio se l’avesse mangiata, magari cucinata a poco a poco in brodo, tenendo i pezzi del corpo in freezer”. Frasi di questo tenore sono state intercettate in carcere tra Desmond Lucky e Awelima Lucky, anch’essi nigeriani, finiti in carcere per l’omicidio di Pamela. Parlando di Oseghale, Desmond dice ad Awelima: “L’ha tagliata… l’ha tagliata, l’ha tagliata”, “Gli ha tolto l’intestino… è molto coraggioso”. Al che il compagno di cella risponde: “Quell’intestino forse l’ha buttato nel bagno”. Da qui segue una conversazione sconvolgente, fatta di consigli e suggerimenti su quale sarebbe stato il modo migliore per Oseghale per non essere scoperto. Se il loro connazionale avesse mangiato il corpo di Pamela, anche a pezzi, nel corso del tempo, avrebbe avuto l’unico problema di far sparire la testa.

Desmond: «L’intestino è lungo. Come puoi buttarlo dentro al bagno?!».

Awelima: «L’intestino poteva tagliarlo a pezzi».

D.: «Tagliarlo in pezzettini?».

A.: «Sì. Pezzi, pezzi. Così buttava a pezzetti. Così sarebbe stato più facile… Forse lui (inteso Innocent) ha già ucciso una persona così».

D.: «Gli ha tolto tutto il cuore».

A.: «Poteva mangiarlo. Perché non l’ha mangiato?».

D.: «Poteva metterlo in frigo».

A.: «Lo metteva in frigo e cominciava a mangiare i pezzi».

D.: «Così sarebbe stato meglio per lui mangiare il corpo».

A.: «Sarebbe stato meglio. Avrebbe avuto solo il problema per la testa, quella avrebbe dovuto buttarla. Tutto il resto invece lo metteva dentro il frigo e poi quando voleva lo cucinava.

D.: «Faceva il brodo».

A.: «Sì, continuava a mangiare il brodo poco a poco».

D.: «Se lui avesse avuto un congelatore grande, avrebbe potuto metterlo lì».

A.: «Poi lui quello che non riusciva a cucinare, lo buttava piano piano…».

D.: «Però lui ha detto che non è stata lui a tagliarla e forse per questo stanno ancora investigando».

A.: «Per questo stanno cercando qualcun altro».

La pista del cannibalismo era già stata battuta in seguito alle intercettazioni tra i due nigeriani finiti in cella insieme a Innocent Oseghale. Ma ora la diffusione delle intercettazioni e la loro trasmissione in tv, evidenzia il livello di disumanità degli assassini.

Di seguito il video pubblicato sulla pagine facebook della trasmissione Chi l’ha Visto, con le intercettazioni tra Lucky Awelima e Desmond Lucky.

"In fila per stuprare Desirée". Ecco il "gioco" dell'orrore. Gli stupratori della 16enne avrebbero atteso il loro turno per poterla violentare. Un rito macabro finito con la morte, scrive Franco Grilli, Domenica 28/10/2018, su "Il Giornale". Lo stupro di Desirée Mariottini è stato crudele, osceno, una sorta di rito macabro. Dalle carte dell'inchiesta e dalle testimonianze su cosa è accaduto in quelle terribili 12 ore a San Lorenzo, emergono dettagli inquietanti. Uno dei testimoni ascoltati, un bulgaro, ha raccontato di aver visto la ragazzina disperarsi perché nessuno voleva darle una dose di droga. Non aveva soldi per pagarla. A questo punto entra in scena il branco che di fatto si mette in moto per mettere a punto il piano fatale. La ragazzina segue Youssef all'interno del container. Ma la scena è orribile. La ragazzina subisce la prima violenza. Poi dopo un'ora e mezza il bulgaro racconta di aver visto Paco che attendeva il suo turno per poter "consumare", pure lui, un rapporto con la 16enne: un altro stupro. Di fatto secondo quanto raccontato dal bulgaro c'era una vera e propria fila per poter abusare della povera Desy. Secondo i giudici in quel container c'era, come anche sottolinea il Tempo, un vero e proprio via vai per abusare del corpo di quella ragazzina. Dopo il primo stupro dunque, gli altri componenti del branco avrebbero atteso il proprio turno per far scempio del corpo di Desy ormai stordita da un cocktail di droghe e psicofarmaci. Poi è arrivata la morte. Nessuno, ormai dalla ricostruzione della procura è chiaro, ha chiamato i soccorsi. Anzi, ci sarebbero state minacce su chi era pronto a farlo. Questa storia si è chiusa con una frase pronunciata da uno degli aguzzini: "Meglio lei morta che noi in carcere". Il sigillo orribile su un rito osceno e fatale.

"Meglio lei morta che noi in cella". Così hanno lasciato morire Desirée. I tre immigrati le hanno somministrato un mix di droghe: erano consapevoli che l'avrebbero uccisa. Quando è stata male, hanno impedito i presenti di chiamare i soccorsi, scrive Sergio Rame, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Desirée Mariottini avrebbe anche potuto essere salvata ma i senegalesi Brian Minteh, il nigeriano Chima Alinno e il gambiano Yousif Salia, che l'avevano drogata e poi stuprata a turno fino a causarne la morte, non hanno fatto nulla per aiutarla impedendo persino che venisse soccorsa.

Tra le belve che l'hanno uccisa anche il fidanzato. "È meglio lei morta che noi in galera" è la frase choc, che secondo alcuni testimoni dagli inquirenti, avrebbero pronunciato tre dei quattro africani accusati dello stupro e dell'omicidio della ragazzina. Nelle quindici pagine di ordinanza di custodia cautelare in carcere il gip Maria Paola Tomaselli ha spiegato che Mamadou Gara e Brian Minteh e Chima Alinno hanno agito "con pervicacia, crudeltà e disinvoltura", dimostrando "una elevatissima pericolosità non avendo avuto alcuna remora a porre in essere condotte estremamente lesive in danno di un soggetto minore giungendo al sacrificio del bene primario della vita". Secondo la ricostruzione della procura, erano quasi due settimane che Desirée frequentava lo stabile abbandonato del quartiere San Lorenzo, dove si procurava la droga e la consumava. Andava e veniva da quel posto dove la notte tra giovedì e venerdì della scorsa settimana ha trovato la morte. Il pomeriggio del 18 ottobre la 16enne è tornata in via dei Lucani in cerca di droga, ha incontrato il gruppo e ha chiesto qualche stupefacente da consumare lì, come già successo in passato. Nel ricostruire l'intera vicenda, che ha portato alla brutale morte di Desirée, il giudice Tomaselli ha spiegato che "gli indagati hanno dapprima somministrato alla ragazza il mix di droghe e sostanze perfettamente consapevoli del fatto che fossero potenzialmente letali per abusarne". Quindi la hanno stuprata "lungamente e ripetutamente". È successo più volte e lo hanno sempre fatto in gruppo. La ragazzina non si è, ovviamente, opposta in alcun modo. Non poteva farlo perché non era in sé: non si reggeva in piedi mentre loro, senza nessuna pietà le erano addosso. Dopo gli abusi l'hanno abbandonata a terra, tremante, si sono allontanati e l'hanno lasciata morire. Nell'ordinanza di custodia cautelare si legge che le belve "la hanno lasciata abbandonata a se stessa senza adeguati soccorsi, nonostante l'evidente e progressivo peggiorare del suo stato". Il branco avrebbe addirittura "impedito ad alcuni dei presenti di chiamare i soccorsi esterni o la polizia per aiutarla".

Fulvio Fiano e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” del 28 ottobre 2018. Desirée poteva essere salvata. Mentre la giovane era ormai incosciente, stordita da un miscuglio di droghe e psicofarmaci, i suoi aguzzini hanno impedito i soccorsi: «Meglio lei morta che noi in galera», hanno gridato a chi voleva aiutarla. Tra loro anche tre donne, un'italiana e due straniere che frequentavano abitualmente il palazzo occupato di San Lorenzo. Le loro testimonianze, così come quelle degli altri pusher e tossici che trascorrono le giornate in quel luogo infernale, ricostruiscono quanto accaduto tra il 17 e il 19 ottobre. E dimostrano che l'indagine non è affatto chiusa. Ci sono altri tre ricercati. Uno è italiano. Si chiama Marco, riforniva il gruppo di pasticche. Proprio quelle - antiepilettici e antipsicotici - utilizzate per «privare Desirée di capacità di reazione» e dunque ridurla «a un mero oggetto di soddisfazione sessuale», come scrive la giudice nell' ordinanza che lascia in galera i tre extracomunitari fermati a Roma con l'accusa di omicidio volontario e violenza sessuale pluriaggravate. Gli altri due stranieri - tuttora in fuga - potrebbero aver partecipato allo stupro. È stato uno degli arrestati a fare i loro nomi e la polizia sta cercando di rintracciarli. Ma non è finita. Perché tra i testimoni c' è anche una straniera che ha ammesso di aver «rivestito e poi aiutato gli altri a spostare Desirée» quando era ormai in fin di vita o forse già morta.

Dettagli di un orrore che appare senza fine. Si torna dunque al 18 ottobre quando la 16enne, che è arrivata nel palazzo già il giorno prima, è in cerca di droga. Non ha soldi, si rivolge ai tre stranieri che già conosce. I racconti di chi c'era ricostruiscono quanto accade. Narcisa «dice di essere giunta intorno alle 13,10 con due uomini e di aver visto la ragazza insieme a Ibrahim (Brian Minteh, ndr) steso su un giaciglio dove è stato poi rinvenuto il corpo della ragazza, nonché Youssef (Yusif Saila, fermato venerdì a Foggia, ndr) e Sisco (Chima Alinno, ndr). Quest' ultimo era intento a fumare, Desirée gli aveva chiesto eroina perché era in crisi di astinenza, ma lui aveva rifiutato». Poi riferisce quello che le ha detto Muriel, straniera di circa 35 anni. Scrive la gip: «Muriel ha raccontato che a Desirée è stato somministrato un mix di gocce, metadone, tranquillanti e pasticche. Poi è stata violentata da Paco e Youssef, io li ho visti». Racconta ancora Narcisa: «Il giorno dopo ho incontrato Paco e gli ho detto "sei un pezzo di m..., hai dato i farmaci a Desirée per poterla stuprare. Lui ha ammesso che avevano fatto sesso, mi ha detto che le aveva dato solo pasticche». È Muriel ad ammettere di aver rivestito Desirée quando non era più in grado di muoversi, probabilmente morta. Lo fa con una lucidità che lascia agghiacciati. Poi indica un altro componente del gruppo, ancora in fuga. Scrive la gip: «Muriel racconta di essere giunta nel palazzo alle ore 20 del 18 ottobre chiamata da un certo Hyten che le chiedeva di rivestire una ragazza mezza nuda all' interno del container. Aveva trovato Desirée nuda dalla vita in giù e aveva provveduto trovando nei pantaloni una boccetta di Tranquillit mezza vuota. Riferiva di aver ritenuto che fosse stata violentata in quanto aveva pensato che nel caso in cui avesse avuto un rapporto consenziente avrebbe provveduto a rivestirsi da sola e che prima dello stupro le erano stati fatti assumere Tranquillit e Metadone». Muriel racconta anche di aver visto «il Tranquillit qualche giorno prima nella disponibilità di tale Marco, italiano frequentatore del palazzo. Marco le aveva riferito che i medicinali erano psicofarmaci per sua madre, sostitutivi del Seroquel». A confermare le sue dichiarazioni è Giovanna, una ragazza che sta spesso in quel complesso di San Lorenzo «che - come è scritto nell' ordinanza - ha riferito come fosse possibile reperire qualsivoglia sostanza stupefacente o medicinale, precisando come gli psicofarmaci fossero procurati da Marco». È proprio Giovanna, quando si accorge che Desirée è morta, a scagliarsi piangendo contro gli stupratori. Lo racconta Cheick, un altro testimone: «Piangeva e urlava. Diceva "voi l'avete uccisa, l'avete violentata" rivolgendosi ai tre uomini presenti nel locale. Li chiamava per nome, Paco (Mamadou Gara, ndr), Sisco e Ibrahim». Sono gli stessi che impediscono a chiunque di aiutare la 16enne. Scrive la gip: «Sin dal pomeriggio del 18 ottobre, la ragazza manifesta lo stato di stordimento strumentalizzando il quale gli indagati abusano di lei. Ma esso si aggrava così da tramutarsi in una condizione di dormiveglia prima e incoscienza poi che viene immediatamente avvertita dai presenti allorché trasportano il corpo della ragazza dal container al capannone». Spiega ancora il giudice che «è in tale fase che Youssuf, Ibrahim e Sisco, che pure sono presenti, ridimensionano la gravità delle condizioni della ragazza e impediscono che vengano allertati i soccorsi, assumendo lucidamente la decisione di sacrificare la giovane vita per garantirsi l'impunità o comunque qualsivoglia fastidioso controllo delle forze dell'ordine». L' ordinanza cautelare viene così motivata: «La pervicacia, la crudeltà e la disinvoltura con la quale i prevenuti hanno posto in essere le condotte contestate manifestano la sussistenza di un concreto e attuale pericolo di recidiva». Inoltre, trattandosi di «tutti soggetti che hanno dimostrato una elevatissima pericolosità e irregolari sul territorio nazionale, rispetto al quale non presentano alcun tipo di legame familiare e lavorativo, si manifesta un altrettanto inteso pericolo di fuga, eludendo agevolmente qualsivoglia controllo».

Desirée, gip convalida il fermo di 3 arrestati, solo uno parla, scrive l'Ansa il 28 ottobre 2018. Il gip di Roma, Maria Paola Tomaselli, ha convalidato il fermo dei tre indagati per la morte e lo stupro di Desiree Mariottini. Il giudice si è riservato di decidere nelle prossime ore in merito all'emissione della misura cautelare. In base a quanto si apprende l'unico a rispondere alla domande del gip è stato il senegalese Mamadou Gara, mentre il suo connazionale Brian Minteh e il nigeriano Alinno Chima hanno deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Nei loro confronti la Procura contesta i reati di omicidio, violenza sessuale e cessione di stupefacenti. Stesso reati contestati al quarto fermato, Yusif Sali, un cittadino ganese, bloccato ieri a Foggia e trovato anche in possesso di 11 chilogrammi di droga. La sua posizione è al vaglio degli inquirenti per capire il ruolo che ha avuto nella vicenda. I primi tre fermati sono immigrati irregolari accusati di omicidio volontario, violenza sessuale e cessione di stupefacenti. Ascoltate in Questur, fino a tarda sera, alcune persone informate dei fatti. Il cittadino del Gambia sospettato di essere il quarto uomo implicato nella morte di Desiree Mariottini e bloccato a Foggia era in possesso di circa dieci chilogrammi di marijuana. Secondo fonti investigative, lo stupefacente era nella baracca dove è stato trovato l'uomo nella baraccopoli che circonda il Cara - Centro richiedenti Asilo politico di Borgo Mezzanone. L'uomo è stato trovato in possesso anche di una pistola giocattolo, di metadone e di qualche grammo di hascisc. All'arrivo delle forze dell'ordine si è barricato nella baracca ed è stato necessario sfondare la porta per arrestarlo. "La coesione sociale è il mezzo fondamentale per costruire il resto della comunità solidale. Anche nei momenti difficili non ci vogliono ruspe ma più amore e partecipazione. Bisogna essere costantemente nei quartieri difficili senza lasciare mai nessuno solo". Lo ha detto il presidente della Camera Roberto Fico. "Non servono ronde, ma cose come il controllo di vicinato che stiamo già sperimentando. Un'attività corale che vede come perno i cittadini che forniscono indicazioni a supporto delle forze dell'ordine. Mi oppongo a qualunque tipo di visione che proponga l'uso della forza privata indiscriminata per risolvere questioni ordine pubblico e sociale", ha detto la sindaca di Roma Virginia Raggi, riferendosi all'annunciata manifestazione di Forza Nuova domani a San Lorenzo.

LE INDAGINI SULLA MORTE DI DESIREE - I primi tre fermati sono due senegalesi, irregolari in Italia, Mamadou Gara di 26 anni e Brian Minteh di 43. Il terzo è un nigeriano di 40 anni. Hanno tutti e tre precedenti per spaccio di droga. I capi di imputazione sarebbero gli stessi: omicidio volontario, violenza sessuale di gruppo e cessione di stupefacenti. Mamadou Gara aveva un permesso di soggiorno per richiesta d'asilo scaduto ed aveva ricevuto un provvedimento di espulsione. L'uomo si era reso irreperibile. Era stato poi rintracciato dal personale delle volanti a Roma il 22 luglio 2018 ed era stato richiesto nulla osta dell'autorità giudiziaria per reati pendenti a suo carico. La Sindaca di Roma Virginia Raggi ha deciso di proclamare una giornata di lutto cittadino in concomitanza con i funerali. La giovane è stata drogata e poi abusata sessualmente quando era in uno stato di incoscienza. E spunta un testimone che all'ANSA racconta: "Quella notte ero nel palazzo. Ho visto Desirée stare male. Era per terra e aveva attorno 7-8 persone. Le davano dell'acqua per farla riprendere", racconta, dicendo di essere stato ascoltato in Questura. Il teste racconta anche che quella notte, attorno all'una, "qualcuno chiamò i soccorsi". "Ora voglio giustizia per Desirée, voglio che questa tragedia non accada ad altre", dice Barbara Mariottini, la mamma della ragazza. E in serata a San Lorenzo è stata organizzata una fiaccolata in memoria di Desirée.

Ronde in azione a San Lorenzo. "Stamani ci hanno chiamato da un pub - racconta Valerio, uno delle ronde - dove uno straniero infastidiva le ragazze che stavano andando a scuola. Abbiamo chiamato la polizia ed è stato bloccato". Valerio, corpo palestrato e pieno di tatuaggi, aggiunge: "Siamo una decina di persone. I giustizieri" dice ridendo. "Ma non abbiamo mai contatti, ci limitiamo a chiamare la polizia". La tragedia di Desirée "deve essere l'ultima che accade in Italia e a Roma, una città abbandonata, il degrado è evidente, morale e sociale, servono più controlli in città, servono più uomini e donne delle forze dell'ordine, soprattutto la notte", ha detto il presidente del Pe Antonio Tajani.

«La ragazzina bianca è tornata per la droga». Così scatta la trappola della banda dei pusher, scrivono Fulvio Fiano e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 27 ottobre 2018. Si sono accaniti a turno sul suo corpo. L' hanno prima stordita con droghe e alcol, poi l'hanno violentata fino a farla morire. Erano quattro, o forse di più. Pusher stranieri che non hanno avuto per lei alcuna pietà. Un accanimento brutale, una spirale di orrore che ha inghiottito Desirée Mariottini per due giorni. Cercava stupefacenti questa ragazzina partita da Cisterna, ed era disposta a tutto pur di averli. Nella sua mente ormai perduta non c'era timore di entrare in quel luogo che spacciatori e tossici di varie nazionalità hanno trasformato in un inferno, con vecchi materassi buttati per terra in uno stanzone e il cortile ridotto ormai a una latrina. All' alba di venerdì scorso una telefonata ha segnalato al 118 «una persona che sta molto male». E quando i poliziotti del commissariato San Lorenzo sono entrati, lei era sotto una coperta lurida, vestita e senza alcun segno addosso. Ma nulla poteva essere più fatto, perché era morta almeno da un'ora. Una fine che nessuno ha voluto o potuto evitare, nonostante ci siano più di 12 persone che in quelle 48 ore hanno avuto a che fare con Desirée. Ci sono due ragazze straniere che l'hanno vista, avvicinata, le hanno parlato e in qualche modo hanno cercato di convincerla ad andare via. Ma ci sono anche tre uomini che in più occasioni hanno notato come le sue condizioni siano via via peggiorate. Ed è proprio incrociando i loro ricordi, frammenti di racconti sbiaditi o reticenti, che i poliziotti della squadra mobile - guidati dai capi della sezione violenza di genere Pamela Franconieri e della Omicidi Andrea Di Giannantonio - sono riusciti a ricostruire che cosa è accaduto dal momento della sua scomparsa. Si torna così a mercoledì 17 quando Barbara Mariottini denuncia di non avere più notizie della figlia sedicenne. «Vive con i nonni, è già scappata di casa varie volte», racconta. Non sa che in quel momento Desirée è già a Roma, nel palazzo occupato a San Lorenzo. È arrivata verso l'ora di pranzo per avere una dose di eroina. Non ha soldi e accetta di avere un rapporto con lo spacciatore. La giovane è stata lì altre volte nei giorni precedenti, ma questa volta è diverso, si sparge la voce che «la ragazzina bianca è tornata ed è disponibile». Scatta la trappola. C' è chi dice che Desirée si sia allontanata, chi pensa sia rimasta anche la notte, le testimonianze non sono precise. E invece diventano nitide per scoprire che cosa è accaduto nelle ore successive. Il 18 mattina Desirée è in evidente crisi di astinenza. «Chiedeva droga, ha preso di tutto», racconta una ragazza. Dice di averla esortata ad andarsene. «Che ci fai qui? Sei troppo giovane, devi andare via se vuoi salvarti». Lei non l'ascolta, entra nello stanzone e continua a drogarsi. Il gruppetto di spacciatori «che vengono dall' Africa centrale le sta sempre intorno, si alternano». Lei non si sottrae, non ce la fa. «Le hanno dato del vino con il metadone», ricorda un testimone. Passa ancora qualche ora tra dosi di crack e altra eroina, nel primo pomeriggio Desirée appare come in trance. Si accascia su un materasso, ormai è preda dei suoi aguzzini. Cominciano a violentarla a turno, si accaniscono su di lei. Sono in quattro, ma non è escluso che anche qualcun altro abbia abusato di lei. Saranno gli esami del Dna a rivelare ulteriori dettagli, analisi necessarie a individuare tutti gli stupratori. «L'ho vista, non era cosciente», giura un testimone. Altri confermano, ricordano come «gli africani l'avevano stordita per poi avventarsi su di lei». Una bambola quasi senza vita, ed è questo che rende tutto ancor più agghiacciante. Vanno avanti così per ore, fino alla notte. Verso le due del mattino di venerdì Desirée è ormai incosciente, ma neanche questo basta evidentemente a fermarli. Alle 4 arriva al 118 la telefonata da un numero privato con la richiesta di soccorsi. Quando entra l'ambulanza il palazzo è vuoto. Al cancello è rimasto qualcuno che indica il luogo dove c' è il corpo ma in quel momento non c' è nessuno disposto a dire di più. Si parla di overdose. Vengono prese le impronte digitali e poi via verso l'obitorio. Secondo la prima relazione la morta è Desirée Mariottini di anni 25. In realtà è stata lei a dare una falsa data di nascita quando è stata fermata dai carabinieri qualche settimana prima. E invece basta un controllo più accurato nei terminali per scoprire che si tratta proprio della ragazzina scomparsa da Cisterna. L' autopsia svela la violenza ripetuta, consegna i particolari di una fine orribile. Si apre la caccia agli aguzzini. Si torna nel palazzo e si individuano i testimoni. Si comincia dalle «assenze» dei pusher abituali e basta poco a capire che sono in fuga. Sbandati senza fissa dimora che nessuno è evidentemente disposto a «coprire». Il primo viene rintracciato in un palazzo abbandonato sulla via Tiburtina, l'altro è rimasto in zona e lo trovano in piazzale del Verano. Il terzo ha trovato rifugio in periferia, al Pigneto. La polizia sa che il quarto ha detto di voler andare a Napoli. In realtà le tracce lasciate dal telefonino dicono che già da domenica è a Foggia. Forse è il capo, certamente quello che Desirée conosceva meglio. La definizione usata dai pubblici ministeri nel decreto di fermo li inquadra: «Predatori che si sono accaniti su una giovanissima indifesa, senza alcuna pietà».

Lo strazio della mamma di Desirée: «Non si drogava, ma negli ultimi tempi era cambiata», scrivono il 25 Ottobre 2018 Monica Forlivesi e Claudia Paoletti su "Il Messaggero". Non faceva uso di droghe». Però c’è un episodio avvenuto pochi giorni prima che desta sospetto. «Un paio di settimane fa due ragazze - è la spiegazione che la mamma e l’avvocato forniscono - sono state fermate a Latina dai carabinieri perché trovate in possesso di due pasticche di “Rivotril”, uno psicofarmaco. I militari hanno chiesto loro da chi le avessero preso e loro hanno fatto il nome di Desirée. Era lì anche lei, alle autolinee di Latina, è stata perquisita, non aveva nulla, né addosso, né nello zaino, né pasticche, né soldi». Come si spiega la famiglia il fatto che Desirée fosse nella Capitale? «E’ stata una grande sorpresa per tutti» ammette l’avvocato. La madre assicura che «non c'era mai stata da sola, speriamo che abbiamo acquisito i video delle telecamere delle stazioni di Cisterna e Termini, almeno possiamo capire con chi era. Desy frequentava Cisterna, Latina, a volte Sezze... Quella mattina doveva essere a Latina, iscriversi al liceo Artistico, non si era trovata bene all’Agrario lo scorso anno, e poi era bravissima a dipingere, aveva una buona mano, ha anche vinto un premio». Di quella notte a Roma Barbara Mariottini non sa praticamente nulla, ha rivisto la sua bambina solo il giorno dopo, per il riconoscimento, dove è andata insieme all’avvocato Masci. «Abbiamo visto solo il volto, pulito, sereno, sembrava stesse dormendo. Non aveva tumefazioni e, a quanto pare, nemmeno segni di violenza esterni sul corpo. Era vestita, aveva la borsa ma non il tablet e nemmeno il cellulare». Sono momenti strazianti. La memoria della mamma va indietro, agli ultimi mesi, soprattutto nell’ultimo periodo si era preoccupata, Desirée non era più la stessa, non era più puntuale come prima, non aveva voglia di studiare, tanto che la decisione di iscriversi all’Artistico era stata accolta con enorme sollievo da tutta la famiglia visto che l’anno scolastico è iniziato da oltre un mese. Il padre di Desirée, Gianluca Zuncheddu, ha un passato turbolento, è stato arrestato per droga e attualmente è ai domiciliari. Non si dà pace. Vive nel quartiere San Valentino a poca distanza dalle abitazioni dei Mariottini. La madre e i nonni di Desirée da due giorni sono barricati in casa, non credono alle cose che hanno letto sui giornali. «Non sappiamo niente - conferma l’avvocato - neppure se ci sia stata violenza. Ci dicono che Desirée è stata trovata vestita, non mancava nessun indumento, era rannicchiata su un materassino come se stesse dormendo. Mancavano solo tablet e cellulare. Aspettiamo che venga depositato il referto del medico legale, siamo convinti che la Procura stia lavorando egregiamente e che ci saranno a breve delle novità». L’abitazione dei Mariottini ieri è stata presa d’assalto dai cronisti. La nonna Patrizia, dipendente del Ministero di Giustizia, alla notizia della morte della nipote ha accusato un malore, distrutto anche il nonno, Ottavio Mariottini, una vita spesa nel sindacato. L’unico a parlare, con un filo di voce, è suo fratello Armando, lo zio di Barbara: «Sono così addolorato da non avere più le forze. Se i fatti saranno confermati auguro a quei balordi la galera eterna. E spero che chi ha visto parli, non si può vivere con il rimorso di non aver aiutato la giustizia a far luce sulla morte di una ragazzina, di un angelo. Il mio angelo».

Desirée, Pamela, le vittime anonime degli stupri e l’invasione dei pessimi, scrive Nino Spirlì Venerdì, 26 ottobre 2018 su "Il Giornale". È un giorno sacro, per la mia Famiglia! Oggi festeggiamo, tutti insieme, la nostra Matriarca. Il suo compleanno, per noi, è un appuntamento dal significato potentissimo, profondamente consapevoli, come siamo, che Lei sia la nostra Radice! Mamma, Nonna, Bisnonna, Amica, Sorella, Complice, Guida… E tanto, tanto altro…In questa famiglia, quasi tutta al femminile, le donne sono il Cuore, la Testa, l’Anima. E noi, i miei cognati, i miei nipoti ed io, siamo ben felici di poter contare sulla Loro Presenza. Sulla Loro Essenza! Mamma è moderna, a ottanta anni passati. Comprende, si confronta. Accetta e accoglie. Ci ha educati alla Fede, all’Amicizia, all’Amore, all’Ospitalità. Alla cura dell’Altro. Al Bene… A tante cose, tutte belle. Da Donna, ci ha insegnato a rispettare le Donne e gli Uomini alla stessa maniera. Con la stessa intensità. Con lo stesso rigore. E, proprio nel rigore del rispetto e nel rispetto del rigore della Giustizia, non posso tacere tutto il mio dolore per tutte le vittime degli stupri, di ogni dove e di tutti i tempi. Io stesso l’ho conosciuto, subito, patito. Sembrava amore, era l’inferno. So cosa significhi sentire il calore del sangue in bocca, il furore della violenza nelle carni, la morsa della morte nella mente. So cosa significhi abbandonarsi, in un momento, al destino, qualunque esso possa essere… So. Io so. E per questo maledetta morte dentro che non mi abbandona mai, ad ogni stupro mi sento vittima. E vivo la croce nelle mie carni, che si straziano ogni volta alla stessa maniera. Pamela. Chi potrà mai dimenticarla? Adescata, drogata, violentata, fatta a pezzi, buttata per via come spazzatura. Forse, mangiata. Desirée, adescata, drogata, violentata, abbandonata alle ombre della morte…E mille e mille come loro. Stuprate nelle guerre, nelle invasioni, nelle case, nelle famiglie, nei dispetti, nelle malattie…Bambine, ragazzine, giovinette, donne, perfino anziane. Tutte da rispettare, da proteggere, da accompagnare. E, invece, sventrate come agnelli da sacrificio. Maciullate dai colpi di uomini impregnati di colpe. Inzuppati di colpe. Infangati di colpe! Che dolore! Oggi, qualcuno mi ha chiesto se conosco l’odio. Purtroppo, no! Non lo conosco. Non più. Ho disimparato a conoscerlo, abbracciando Gesù Cristo e accettando le ninnananne della Sua Santa Mamma. Però, so. So che non so perdonare. Questa pletora di maledetti assassini, non so e non voglio perdonarla. Questa canaglia di infami non deve conoscere pace. Non c’è purgatorio, per un peccato così scellerato. E, dunque, che inferno sia! A partire da questa vita terrena. Arrestateli, rinchiudeteli in una cella senza porte e consegnateli alle pene peggiori. Senza pïetas. Senza preghiere. Senza umanità. Ché, tanto, non la riconoscerebbero. Non la saprebbero apprezzare. E sarebbe sprecata. E, se è vero che i demòni non hanno un solo colore, non parlano una sola lingua, non professano una sola fede (se mai ce l’hanno), è vero anche che il nostro Paese stia pagando un prezzo altissimo per aver inscenato un’accoglienza scellerata e incontrollata di chiunque da ovunque. Senza controlli, senza verifiche, senza buonsenso. Italia, Paese aperto, tanto per citare il titolo di un film del nostro ricco patrimonio artistico. Paese per troppo tempo senza regole e senza ritegno, che ha venduto la propria dignità ai signori del denaro e dell’interesse. Alla malapolitica e al malaffare. Alla prostituzione morale. Schiavi della menzogna massomafiopolitica, abbiamo imbarcato tutti i balordi del mondo, liberandoli per tutto lo Stivale. Oggi, le carni delle nostre bambine ne pagano il peccato. Dio ci perdoni. Se può…

In memoria delle Donne uccise, scrive Sabato 4 ottobre 2014 Nino Spirlì su "Il Giornale". Potrei nominarne mille e mille, ma non ne nomino nessuna. Sono Tutte Una. Tutte le vittime di questi ultimi anni che, Donne, pagano la furia dell’Uomo. Muoiono per gelosia, possesso, sesso, “troppa emancipazione”, superficialità, e chissà per quanto altro. Cadono sotto ogni arma. Dalla pistola alla mano, dalla pietra all’acqua del lago, dall’automobile al burrone in montagna. Cadono come piume nell’aria, o come querce abbattute. Si spengono vite, sogni, sorrisi e urla. Restano attoniti, i figli. Le madri. I padri. A volte, i mariti. Sempre, gli amici. Vengono ingoiate, le donne, dal calendario, sempre più spietato verso di loro. Sembra non trovare pace, questo tempo di violenza spietata. Basta una meches, o una gonna più corta, o, a volte, un paio di orecchini più luminosi. Basta un’uscita con gli amici. O una risposta data male. Basta, ormai, solo essere donna per caricare l’arma e farla funzionare. Non sono mai stato “un femminista”: sono sempre dell’idea che non sia necessaria la lotta estrema. Già non la faccio per l’omosessualità…Ma ho sempre guardato con rispetto e devozione verso le donne. Ritengo che quel primo nostro progenitore fosse proprio più femmina che maschio. Altrimenti, non avremmo potuto esserci. Del resto, già nella Bibbia, quella vera e non manipolata da mille mani in malafede, si parla del primo creato, una sorta di essere ermafrodito, dal doppio bagaglio genetico…E molte delle prime divinità, lo erano. E, dunque, è così che mi piace pensare: che la radice di tutto sia stata femmina. Anche la nostra religione, tanto per non essere fraintesi, pone in alto, nei Cieli, a fianco al Padre e al Figlio, la regina degli uomini e degli angeli. Lei, Maria, sposa e madre di Dio, e, dunque, Dio Ella stessa. Ah, se potessero ricordarlo tutti quei folli che, della Donna, stanno facendo scempio ovunque. Vittime da vive e da morte. Puttane sfruttate, operaie maltrattate, madri dimenticate, mogli picchiate, morte umiliate e derise. Spesso, offese anche da cadavere. A fianco alle tante donne amate e rispettate, milioni di altre vengono schiaffeggiate dall’arroganza e dalla violenza di una società non ancora pronta a considerarle pari, se non superiori, agli uomini. A certi uomini, sicuramente. E il guaio è che, per molte donne, le peggiori nemiche siano proprio le altre donne. Schiave di millenni di sopraffazioni, hanno cervelli coi baffi e i testicoli. A danno della loro stessa femminilità. E di questa confusione muoiono. Cadono come frutta matura, che, toccando terra, diventa terra. Senza ricordo di ciò che è stato. Patisco le immagini dei tg, ma, soprattutto, la spietata ed irrispettosa cronaca inutile delle morti e delle sparizioni. Carne per i palinsesti, mai utile per stanare il colpevole. Patisco le mille pagine delle riviste a prezzo popolare, dentro le quali si intrecciano i finti amori dei finti fidanzati da finto scoop ai veri dolori di famiglie devastate dalla perdita di madri, figlie, amiche, compagne. Patisco il mutismo scellerato della Giustizia. Fra me e mia Madre, di cui son parte.

Desirée, Pamela, Sara e le altre: una mattanza senza fine, scrive Adriana De Conto giovedì 25 ottobre 2018 su Il Secolo d’Italia. Il corpo abbandonato su un lettino e una coperta tirata fin sulla testa. E’ stata trovata così Desiree Mariottini, la giovane di 16 anni morta in uno stabile abbandonato nel quartiere di San Lorenzo a Roma, una zona franca lasciata languire nel degrado. Una storia di droga, di spaccio, di fragilità e di immigrazione clandestina fuori controllo. Una vicenda che purtroppo riporta alla mente altre morti altrettanto tristi: le vittime sono tutte giovanissime. Una mattanza. L’ultimo episodio risale a meno di un mese fa. E’ il 3 ottobre quando nei bagni della stazione dei treni di Udine viene trovato il corpo di senza vita di Alice Bros, una sedicenne di Palmanova. E’ morta per overdose. Per la giovane proprio giorni fa la cittadinanza di Udine ha fatto sfilare ua fiaccolata, perché il suo ricordo non venga offuscato. Cinque mesi prima un’altra terribile morte: quella di Sara Bosco, 16 anni. L’8 giugno la ragazza di Santa Severa viene trovata senza vita su un lettino in uno dei padiglioni abbandonati dell’ospedale romano Forlanini. La morte sarebbe da ricondurre anche in questo caso a una dose letale. La giovane era fuggita da una comunità di recupero. Risale al 2 maggio il caso precedente, quello di Amalia Voican, 21 anni. In questo caso il corpo è straziato: divorato da topi e da altri animali. La ragazza, originaria di Civita Castellana, era scomparsa da casa da tempo. Anche lei muore in uno stabile abbandonato della Capitale, questa volta nel quartiere San Giovanni. E il degrado lascia il posto alla ferocia nella storia di Pamela Mastropietro: il 31 gennaio 2018 il corpo di Pamela, brutalmente sezionato da un branco di nigeriani, viene ritrovato in due valige nella zona di Pollenza, in provincia di Macerata. La 18enne romana si era allontanata dalla comunità di recupero per tossicodipendenti dove era in cura: ha trascorso le sue ultime ore nell’appartamento di uno spacciatore che ha abusato di lei prima o dopo la morte.

Desirée Mariottini, vittima due volte: stupro e femminicidio più strumentalizzazione politica, scrive il 25 ottobre 2018 Eretica su "Il Fatto Quotidiano". Desirée come Pamela. Se non ci fossero di mezzo gli immigrati se ne parlerebbe tanto? Se gli stupratori assassini fossero stati bianchi e italiani avrebbero dedicato a queste vittime di violenza di genere le prime pagine sui media? Gli italiani commettono più del 93% di stupri e gli immigrati meno del 7%. La maggior parte degli stupri avviene in casa, per mano di parenti, padri, zii, fratelli, ex fidanzati, ex mariti, conoscenti. Molti tra questi non sono neppure denunciati. Il sommerso è composto da cifre che almeno valgono il triplo degli stupri denunciati. Lo stupro è violenza di genere e non violenza etnica. E’ realizzata contro un genere al quale viene imposto il ruolo di oggetto sessuale ad uso di uomini di qualunque colore, etnia, religione. Quel che serve per prevenire questi crimini è prendere sul serio la cultura dello stupro e combatterla. Quella cultura è visibile ogni volta che una ragazza non viene creduta, quando si dice che dato che aveva bevuto se l’era cercata e se la sarebbe cercata anche se in minigonna, in giro ad ore sconvenienti, assieme a tanti bei fanciulli ciascuno dei quali viene supportato dalle famiglie e da tutti gli abitanti della cittadina, di volta in volta diversa ma esattamente con la stessa quantità di gente che intimidisce e minaccia e insulta la ragazza che ha denunciato. Quante volte abbiamo visto ragazze stuprate essere due volte vittima, la prima durante lo stupro e la seconda quando sono costrette ad essere processate in tribunale da parte di chi indaga sulle sue abitudini sessuali, sulla sua avvenente presenza o sulla sua presunta facilità nelle relazioni. Processi che si estendono ad ogni marciapiedi e ogni casa nei luoghi in cui famiglie arrabbiate stanno lì a proteggere i branchi di stupratori. Quante volte abbiamo visto che attorno a stupri che coinvolgono figli di papà, bianchi, etero, italiani, si realizza un silenzio orribile. Omertà, difesa a oltranza, amici e amiche degli stupratori che perseguitano la vittima sul web, nelle strade, ovunque, per farla demordere e farle attenuare le accuse. E’ successo anche questo, mille e più volte. L’unico momento che ha una ragazza per essere creduta è quando l’ha stuprata un branco di immigrati e, ovviamente, quando muore per mano degli stessi stupratori. A quel punto c’è chi strumentalizza, c’è chi usa i corpi delle vittime per diffondere allarmismo, psicosi, isteria collettiva. Per generalizzare, per fare in modo che si dica che tutti gli immigrati, i rifugiati, i richiedenti asilo, di qualunque età e sesso, farebbero meglio a crepare in mare giacché secondo i razzisti quelle persone sarebbero solo un branco di criminali. Quando un cittadino dice che “da un italiano posso accettarlo, da uno straniero no” nessuno si scompone. Ma l’idea di massima è questa. Gli stranieri – così dicono i fascisti – non devono toccare le “nostre” donne e, il senso della frase, si racchiude tutto in quel “nostre”. Dichiarando l’appartenenza di quelle donne si reitera la campagna di comunicazione che Mussolini & Company divulgava per giustificare la colonizzazione di paesi del Nord Africa. Che importanza può avere il fatto che i fascisti colonizzatori, italiani, da quelle parti, stuprassero delle bambine di dodici anni. La cultura dello stupro è quella contro cui combattiamo ogni giorno perché è così che si previene lo stupro. Quando i razzisti spostano l’attenzione sull’immigrato di fatto delegittimano la lotta contro la violenza di genere. Perché i razzisti negano l’esistenza di quel tipo di violenza e perché negano anche il fatto che lo stupro sia in primo luogo un delitto legittimato dai loro “la violenza di genere non esiste” o “la cultura dello stupro non esiste” o “le vere vittime sono gli uomini”. E quando si esercitano nella negazione di una violenza che le donne subiscono da secoli diventano complici e fanno di tutto affinché sia ripristinato il privilegio maschile. Da chi condanna ogni libera scelta delle donne, sulla gestione del proprio corpo, sulla propria sessualità, come quando i razzisti appoggiano mozioni contro l’aborto, contro la contraccezione e contro le famiglie omogenitoriali, cosa ci si può aspettare di più? Non c’è un vero interesse nei confronti delle donne violentate. Non sanno chiamare per nome un delitto che ha le caratteristiche del femminicidio. Non gliene frega un tubo di quello che ci succede e non si può biasimare chi dunque scorge della malafede nell’improvvisa attenzione dei leghisti e dei fascisti nei confronti di una vittima di stupro e femminicidio. Quello che appare chiaro è che tu, donna, per essere creduta devi essere stuprata da uno straniero, solo così fingono di crederti, solo così sospendono le critiche che in altre occasioni ti avrebbero gettato addosso, sulle tue abitudini, sul fatto che stavi lì, a quell’ora e che avevi assunto stupefacenti. Se lo stupratore fosse stato un italiano pensate a cosa avrebbero detto della vittima. Il victim blaming, la colpevolizzazione della vittima, è uno dei modi per alimentare la cultura dello stupro. Chi oggi sta usando la morte di queste vittime lo fa per legittimare le proprie scelte politiche, i divieti di sbarco, l’arresto del sindaco di Riace, la solidarietà diventata reato, l’assenza di empatia per le tante morti di uomini, donne e bambini nel mar mediterraneo. Perché preferiscono farli annegare che vederseli intorno. E tutto quel che fanno serve a far in modo che tu, tu e anche tu siate d’accordo. Se vi dicono che stanno arrivando gli stupratori voi direte che è un bene che non sbarchino nella penisola. Vi sentite con la coscienza a posto, anche quando i bambini figli di stranieri vengono discriminati e lasciati digiuni nelle mense scolastiche, anche quando viene rimproverato un prete che ospita rifugiati. Con Desirée c’è qualcosa di più: la destra da sempre avrebbe voluto gettare fango su femministe, militanti antirazzisti e antifascisti, e se è vero che “Gli unici neri che Salvini non sgombera sono quelli di Casapound” è anche vero che egli non vede l’ora di far sgomberare quegli spazi in cui la lotta di chi li attraversa, per rendere quel quartiere, quella città, un posto migliore, è prioritaria. D’altronde dissentono con le scelte del governo e non sono di destra. Dunque via anche loro.

Perciò prima Pamela poi Desirée servono a questo. A noi, le femministe, le antirazziste e antifasciste, che ogni giorno lottiamo contro stupratori di qualunque tipo, sapendo che tutti sono stati nutriti da sessismo e misoginia, a prescindere dai luoghi da cui provengono, fa veramente rabbia che non si dedichi davvero attenzione a queste vittime di stupro e femminicidio. Se Desirée fosse stata stuprata e uccisa da italiani avremmo visto Salvini in passerella, ad acchiappare un po’ di consensi elettorali? Io penso di no. E se ne parliamo in questo modo è per precisare che la prevenzione non passa per la cacciata dei “neri” o per gli sgomberi dei centri sociali. Il punto è l’esistenza della violenza di genere e della cultura dello stupro. Se chi ci governa non si impegna a lavorare su questi punti allora non c’è espulsione o sgombero che tenga. Cacciato via l’immigrato lo stupro resta sempre uno dei peggiori crimini realizzati per lo più al chiuso delle proprie case. La militarizzazione dei territori non serve. Vorrà mandare militari anche nelle case delle tante donne e ragazze e bambine stuprate da parenti e conoscenti? Quello che serve è racchiuso tutto in questo slogan: Le strade libere le fanno le donne che le attraversano e non i militari. Il securitarismo e la repressione non servono alle donne ma, soltanto, a chi fa della paura un’arma di controllo della gente. Il punto è che non possiamo permettere che qualcun@ metta le mani sui nostri corpi, chiunque esso sia. Che si tratti di stupratori o di chi strumentalizza quello che ci succede, i corpi sono nostri e guai a chi ci tocca. Perché se tocchi una di noi allora hai toccato tutte.

“E allora Pamela?” è diventato il nuovo “E allora le foibe?” Scrive laglasnost su Abbatto i Muri il 24 ottobre 2018. Lo stupro è stupro, chiunque sia a compierlo. Qualunque sia il colore della tua pelle, la tua cultura, la tua religione. Se stupri sei uno stupratore, punto e basta. La narrazione tossica di questi anni però è fatta di una strumentalizzazione fascista degli stupri commessi da stranieri (meno del 7%) negando ogni stupro commesso da italioti (un po’ più del 93%). Quello che la destra fa è disinnescare la potenza di chi combatte per difendere i propri diritti e metterti di fronte ad un vittimismo che riguarda proprio loro, gli uomini, quelli fascisti. Non mettono in evidenza le sofferenze della donna vittima di stupro ma continuano a difendere l’onore del maschio italico che difenderebbe le “nostre” (cioè le loro) donne. Lo considerano un attacco al pater familias, al marito, al fidanzato o all’estraneo che ti usa per fini ideologici. Giammai parlano delle donne e delle loro sofferenze, perché la loro empatia si ferma fino al punto in cui spicca il loro pene. Gli stessi che dicono “E allora Pamela?” poi ripetono fino all’ossessione frasi del tipo:

avevi la minigonna e te la sei cercata;

eri ubriaca e te la sei cercata;

sei femmina e dunque te la sei cercata;

varie ed eventuali.

Tutto ciò è stato scritto e riscritto, e non è mai abbastanza in fondo, ma ciò che mi fa imbestialire è il fatto che se io fossi Pamela li avrei fulminati da lassù tempo zero. Allora farò finta per un attimo di essere Pamela, chiudo gli occhi e non vedo il colore della pelle di chi mi ha massacrata. Vedo solo uomini, il loro bisogno di esercitare potere su di me, la totale assenza di empatia, il fatto che non mi guardano come persona ma come oggetto, il loro sessismo, la loro violenza. Tutto ciò è diffuso ovunque e riguarda uomini di qualunque nazionalità e colore della pelle. Le caratteristiche sono identiche per ciascuno di loro (non è vero che se stupra un bianco è più accettabile, come disse un leghista) così come il loro sangue è in ogni caso sempre rosso. Non c’è alcuna superiorità morale in un bianco, etero, fascista perché i valori da difendere quando si parla di stupro sono gli stessi di chi combatte la cultura patriarcale di cui il maschio bianco, etero, fascista, si fa portatore. La cultura dello stupro appartiene a molti uomini a prescindere da tutto. Il fatto che la bianchezza sia considerata segno di purezza è parte di una cultura razzista storicamente diffusa da bianchi che hanno colonizzato paesi stranieri per poi deportarne gli abitanti considerati senza anima né umanità perché di pelle scura. Ma la bianchezza non è un valore aggiunto. E’, casomai, solo un segno che contraddistingue chi possiede privilegi da quelli che non ne possiedono, se non per il fatto di essere uomini che pensano di essere superiori alle donne. Essere bianco, etero, occidentale è un privilegio e chi lo possiede ora dice che vuole la licenza di sparare al migrante e di stuprare le donne perché se stuprate da un bianco esse dovrebbero sentirsi felici. Perciò mi spiace davvero per Pamela, per l’uso sconsiderato che si fa della sua orribile storia, senza considerare la pena dei suoi parenti ma usando la vicenda per istigare odio contro gli stranieri, tutti gli stranieri. Sono tutti dei gran piagnoni questi fascisti e razzisti, perché non c’è giorno che non vengano sulla pagina di Abbatto i Muri, ogni qual volta in cui si parla di stupro e di cultura dello stupro, a dire “E allora Pamela?”. E non lo dicono per Pamela, la cui memoria rispettiamo e di cui abbiamo parlato (di lei e di tutte le vittime di stupro), ma lo dicono per fornire un argomento a supporto della loro necessità di ritenersi vittime delle terribili femministe. Quando dicono “E allora Pamela?” stanno dicendo in fondo “E allora noi?”. Ed è abbastanza per capire che il loro bisogno di attenzioni è tanto e tale da dover misurare più volte la distanza che bisogna prendere da loro. Se poi tenti di discutere con costoro alla fine la discussione si avvita su se stessa, perché sono in malafede e ovviamente ti sputano in faccia gli argomenti seri che tu stai mettendo sul piano della discussione dato che non sanno effettivamente cosa rispondere. Il fatto che essi abbiano madri, sorelle, amiche, non importa perché evidentemente non hanno loro chiesto quanto sessismo abbiano dovuto subire. Se abbiano più o meno paura a girare da sole per la città, non dico la notte, ma anche di giorno. Se e quanto faccia loro piacere stirare, pulire, lavare i piatti. Non fosse che credo la questione sia più complessa di così, giacché il razzismo è profondamente radicato in molte persone, non solo quelle ignoranti e quelli imbecilli, mi verrebbe da dire che il popolo tanto difeso dalla destra è pieno di gente frustrata che sfoga la propria frustrazione sugli stranieri. E’ un fatto che quelli che venivano chiamati terroni oggi votano Lega. E’ un fatto che non esista una memoria storica, anche grazie a chi fa del revisionismo alla Wilson Smith (Orwell, 1984) lo scopo della propria esistenza. E’ dai primi anni ’90 che dico che i leghisti e i fascisti non sono roba da riderci su, ma vanno presi sul serio perché pericolosi. Il fatto che si sia arrivati a questo punto è anche responsabilità di chi si sveglia solo quando vede l’emergenza razzismo, cioè oggi. Come se non ci fossero state aggressioni razziste o fasciste prima d’ora. E allora Pamela? Allora niente. Le ronde razziste non c’entrano niente con Pamela ma immaginano solo di poter controllare i corpi e la sessualità delle donne, non per niente sono antiabortisti e misogini convinti. Non parlateci più di Pamela come fosse la vostra arma per disinnescare l’antisessismo e l’antifascismo. E’ offensivo nei confronti di Pamela e di tutte le vittime di stupro. Grazie. Update: certe strumentalizzazioni fasciste toccano oggi purtroppo la sedicenne stuprata e uccisa a Roma. Esistono sciacalli senza pudore che usano la propria posizione politica speculando su tutto, anzi, su tutte.

DESIRÉE OFFESA: FEMMINISTE CON LE MUTANDE IN PIAZZA, scrive il 26 ottobre 2018 voxnews.info. La povera Desirée è vittima due volte. Prima degli stupratori africani col permesso umanitario, ora anche di chi se ne frega di lei se non nell’osceno tentativo di rovesciare la realtà, cercando di pasteggiare sul suo cadavere. Il meglio di questo peggio lo danno le presunte femministarde dell’associazione Non una di meno, che già l’altro giorno hanno difeso chi l’ha stuprata parlando di "discriminazione". Oggi hanno tenuto una piccola manifestazione a San Lorenzo: Con le mutande in mano dove hanno stuprato una ragazzina. Con deliranti tesi sul ‘patriarcato’: se ci fosse il patriarcato, Desirée non sarebbe finita come è finita. E’ proprio il mix esplosivo tra un Occidente decadente e la penetrazione di un’immigrazione patriarcale ad avere ucciso Pamela e Desirée. Non sono gli uomini che stuprano: sono gli immigrati. Lo dicono le statistiche. Tutta l’ideologia radical chic è una malattia mentale. E’ negazione della verità.

Ora gli ultrà dell'accoglienza vogliono imbavagliare Salvini. L'omicidio di Desirée è figlio dell'accoglienza indiscriminata e dei permessi facili. La sinistra, anziché fare mea culpa, se la prende con Salvini: "Sciacallo", scrive Andrea Indini, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". I fan dell'accoglienza si sono attaccati ai megafoni per sbraitare contro Matteo Salvini. Mentre l'Italia piange Desirée Mariottini, la ragazzina ammazzata da un branco di immigrati dopo due giorni di indicibili violenze e stupri, la sinistra se la prende con il vice premier leghista perché si sta spendendo in prima persona per assicurare alla giustizia le bestie che hanno ucciso la 16enne di Cisterna di Latina. Lo tacciano di essere "uno sciacallo" e gli consigliano addirittura di "usare l'amore anziché le ruspe" per riportare la sicurezza in Italia. E così, in un corto circuito senza precedenti, sul banco degli imputati anziché finire stupratori finisce il ministro dell'Interno. Davanti al corpo senza vita di Desirée, chi per anni ha fatto il tifo per l'accoglienza indiscriminata dovrebbe avere il ritegno di tacere. Il branco che la ha seviziata e ammazzata era formato da immigrati, tutti africani, senza permesso di soggiorno o con il foglio di via in tasca. Per un po' sono riusciti a rimanere in Italia grazie a un'invenzione della sinistra: una sorta di lascia passare per motivo umanitari che con il decreto Sicurezza da poco approvato Salvini ha stralciato. Poi hanno iniziato a delinquere a destra e manca e il permesso gli è stato stralciato. Ma loro non hanno lasciato l'Italia e hanno continuato a delinquere come se niente fosse, finché poi non sono stati arrestati per l'omicidio di Desirée. Quelli che per anni hanno predicato le politiche dei porti aperte e hanno regalato passaporti a chiunque, anziché fare mea culpa, se la vanno a prendere con Salvini. In primis Laura Boldrini che sui social network lo accusa di "trasformare il dolore per la povera Desirée in un set cinematografico in diretta Facebook". "Vada a lavorare nel suo ufficio al Viminale - scrive l'ex presidente della Camera - e metta in campo misure concrete per la sicurezza di tutti e tutte. Io sto coi cittadini e le cittadine che non sopportano più degrado, incuria e violenza". La Boldrini non è certo l'unica a ribaltare la frittata. La lista dei detrattori è lunga e, più viene a galla la crudeltà con cui il branco ha infierito sul corpo di Desirée, più questi provano a distrarre l'opinione pubblica attaccando il Viminale. Questa mattina, per esempio, Matteo Orfini ha postato un tweet al vetriolo: "Salvini, smettila di fare lo sciacallo e inizia a fare il ministro, se ne sei capace". E, insieme a lui, tutti i dem il Pd stanno usando la tragedia di Desirée per sostenere che ci vogliono più controlli in città. Sono gli stessi che, quando Salvini aveva lanciato l'operazione "Scuole sicure" per contrastare lo spaccio nei licei, si erano opposti parlando di "militarizzazione dei quartieri". Cecile Kyenge, poi, se la va a prendere con chi "tenta di strumentalizzare a proprio vantaggio, attraverso beceri tentativi di propaganda politica". E ancora: mentre il ministro dell'Interno invoca la castrazione chimica per chi stupra e l'espulsione per gli stranieri, Roberto Fico parla di inclusione sociale. "Anche nei momenti difficili non ci vogliono ruspe - spiega il presidente della Camera - ma più amore e fatica nelle idee e nella partecipazione. Essere costantemente nei quartieri difficili senza lasciare mai nessuno solo". Le piazze riflettono la stessa ideologia bieca della sinistra. Oggi l'Anpi ha marciato tra le vie del quartiere San Lorenzo non tanto per chiedere giustizia per Desiree, ma contro la "deriva fascista". Lo stesso avevano fatto i centri sociali, la rete studentesca e i movimenti femministi giovedì scorso, quando Salvini si era recato davanti allo stabile abbandonato, dove era stata ammazzata la 16enne, per deporre una rosa. "Sciacallo, sciacallo - hanno urlato gli antagonisti - vattene dall'Italia". Ai lati della strada, invece, i residenti lo avevano applaudito chiedendogli aiuto con un "Salvaci, Matteo! Il quartiere è con te" che sapeva di implorazione. Un'istantanea plastica della cecità della sinistra che, anziché vedere i problemi reali del Paese, se la prende con il suo antagonista politico.

Salvini adesso "spegne" Fico: "Serve amore? Sono bestie". Dopo lo stupro di una ragazza in un centro di accoglienza, interviene il ministro degli Interni: "Carcere ed espulsione", scrive Franco Grilli, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Lo stupro di una ragazza all'interno del centro di accoglienza di Ragusa ha riaperto le polemiche sui casi di violenza legati all'ingresso sul nostro territorio di immigrati. Di fatto dopo il caso di Desirée Mariottini stuprata e uccisa da un branco di immigrati a Roma e la violenza sessuale subita da una ragazza da parte di un mediatore culturale gambiano, arriva la presa di posizione dura del ministro degli Interni, Matteo Salvini: "Ragusa, 'mediatore culturale' del Gambia arrestato per aver violentato un'ospite del centro immigrati e averla picchiata a sangue per non farla parlare. Grazie alla polizia di Stato per l'intervento. Se colpevole, per questa bestia (gli animali sono meglio) carcere duro ed espulsione, altro che risolvere il problema con amore, gessetti, girotondi o sorrisi...". Parole forti quelle del titolare del Viminale che di fatto ha anche risposto tra le righe anche alle parole del presidente della Camera, Roberto Fico che sul caso di San Lorenzo ha espresso una posizione chiara riferendosi direttamente a Salvini: "La coesione sociale - ha detto Fico - è il mezzo fondamentale per costruire tutto il resto della comunità solidale e un'economia sana e forte. Anche nei momenti difficili non ci vogliono ruspe ma più amore e fatica nelle idee e nella partecipazione. Essere costantemente nei quartieri difficili senza lasciare mai nessuno solo". Ora è arrivata la risposta di Salvini. E a quanto pare lo scontro tra il ministro e una parte dei Cinque Stelle resta aperto.

L'Anpi in piazza per Desirée? No, contro la "deriva fascista". La Meloni attacca i partigiani: "Sono allibita", scrive Angelo Scarano, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Iniziata la manifestazione organizzata dall'Anpi provinciale di Roma, insieme alle associazioni e ai movimenti territoriali di San Lorenzo. L'evento si sta svolgendo in Piazza dell'Immacolata e, come riportato dai partecipanti, mira ad essere una risposta concreta al clima di odio e violenza che si sta generando nel Paese. "Abbiamo preso questa piazza, assieme al movimento femminista e alle associazioni del quartiere di San Lorenzo, perché non tolleriamo più strumentalizzazioni di chi reagisce ai delitti, come quello della giovane Desirée, solo quando l'aggressore è straniero", dichiara il Presidente Anpi di Roma, Fabrizio De Sanctis. "Esprimiamo solidarietà alla famiglia della giovane ma non accettiamo le strumentalizzazioni dei movimenti di destra, di cui auspichiamo lo scioglimento, e neanche della politica". La discesa in campo dei partigiani non è piaciuta per nulla al presidente dei Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. Che su Twitter ha scritto: "L'Anpi oggi in piazza a San Lorenzo. Per chiedere giustizia per Desirée, ammazzata e stuprata da un gruppo di immigrati? Ma no, contro la "deriva fascista". Sono allibita". Intanto, un gruppo di alcune decine di militanti di Forza Nuova, guidato dal leader nazionale Roberto Fiore, è partito dalla sede della formazione di estrema destra per una camminata in direzione San Lorenzo, per manifestare in memoria di Desirée Mariottini. Al termine della passeggiata si svolgerà un presidio a piazza di Porta Maggiore. Prima di partire ai militanti è stato rivolto un appello dai dirigenti del partito di "attenersi alle indicazioni ed evitare cori ed iniziative personali".

Centri sociali, collettivi e femministe, chi c'è dietro l'odio su Salvini. Attimi di tensione nel quartiere romano di San Lorenzo dove il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, è stato bloccato da centinaia di militanti dei centri sociali. E sulla morte di Desirée i collettivi difendono i migranti: "Non è una questione di immigrazione", scrivono Alessandra Benignetti ed Elena Barlozzari, Mercoledì 24/10/2018, su "Il Giornale". “Che schifo quei quattro idioti dei centri sociali che dimostrano di preferire caos a ordine, spacciatori a poliziotti”. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, commenta telegrafico la mattinata odierna e l’accoglienza ricevuta da centri sociali e collettivi universitari. San Lorenzo, d’altronde, è casa loro e non ci hanno messo molto ad organizzarsi. Verso mezzogiorno erano già ammassarsi davanti allo stabile di via dei Lucani, dove sabato scorso è stata trovata senza vita Desirée Mariottini, di appena sedici anni. Hanno aspettato il “fascista” e “dittatore” sotto il sole a picco con un solo obiettivo: “No pasarà”. Soprattutto nel quartiere simbolo della Resistenza. Chissà se Salvini, quando ha annunciato il sopralluogo in un post su Facebook, immaginava che razza di comitato di benvenuto si sarebbe trovato davanti. Probabilmente no, altrimenti non avrebbe portato con sé quel fiore bianco, convinto di riuscire a deporlo di fronte alla palazzina che ha inghiottito Desirée. Un gesto di umana pietà, ma anche un segnale: “Sono venuto qua per impegnarmi con la gente che non vuole lo spaccio e il racket”, ha detto. Ma di fronte alla cancellata degli orrori, il leader del Carroccio, non ci arriverà mai. Una barriera umana lo ha respinto, come un muro di gomma, da dove è venuto. Non lo vogliono. Lo chiamano “sciacallo” e “razzista” perché “è qui solo per raccogliere consensi accanendosi contro i deboli”. Ne è sicura una delle femministe di Non una di meno. Il movimento che, a livello mondiale, si batte contro la violenza sulle donne, non poteva mancare. Peccato che, invece di scagliarsi conto i carnefici di Desirée, la nostra suffragetta se la prende con il numero uno del Viminale. "È qui per soffiare sulle paure della gente - spiega Martina, ventiseienne studentessa di Lettere a La Sapienza - e il colore della pelle non c’entra, non c’entra neppure la cultura, né l’estrazione sociale". Insomma, sarebbe tutta una questione di genere: “La violenza – dice – la fanno gli uomini contro le donne”. Ragiona in maniera simile anche un’altra “compagna”. Per lei, il problema non sono gli immigrati, “poverini”. “Solo che vengono discriminanti dalla società, nessuno li aiuta e sono costretti a vivere allo stato brado: di conseguenza reagiscono come animali chiusi in gabbia”. Salvini, comunque, aveva messo in chiaro che “le bestie assassine, di qualunque nazionalità siano", sarebbero marcite in galera. Evidentemente non è bastato. Anche perché, sennò, l’Anpi (che oggi era in prima fila) contro chi scenderebbe in piazza? Ma c’è da scommettere che la cosa che meno viene perdonata a Salvini è quel piano sgomberi che ha fatto saltare sulla sedia i coordinamenti rossi che controllano la maggior parte delle occupazioni abusive della città. Oggi è tornato sull’argomento, non risparmiando una stilettata ai suoi contestatori, parlando di “100 palazzine in queste condizioni, con delinquenti che difendono le occupazioni abusive e lo spaccio”. L’atmosfera si raffredda solo quando il vicepremier si allontana. Hanno vinto una battaglia, ma la guerra non è finita. È lo stesso Salvini a lanciare il guanto di sfida: “Tornerò a San Lorenzo per incontrare i residenti”, promette. Stavolta però tornerà “con la ruspa”.

Desirée, la mamma di Pamela: «Qui i veri razzisti sono gli immigrati», scrive Venerdì 26 Ottobre 2018 Raffaella Troili su "Il Messaggero". Oggi si parla di Desirée ma il pensiero corre a Pamela. Drogate, stuprate entrambe. Lasciate morire. Era gennaio, la giovane romana era fuggita da una comunità di recupero di Macerata. A lei i carnefici, extracomunitari anche loro, non risparmiarono nemmeno lo scempio del corpo, fatto a pezzi e lasciato in una valigia sul ciglio della strada. Altro orrore da ingoiare, Alessandra Verni ha gli occhi verdi e lucidi. E un'idea da portare a termine. «Voglio parlare con la mamma di Desirée, perché so molto bene quello che sta provando in questo momento, perché so che posso aiutarla».

Dopo sua figlia, un'altra vittima. Anche stavolta hanno approfittato di un momento di fragilità.

«Un'altra ragazzina, speravo non succedesse più, spero che adesso qualcosa si muova davvero».

L'immigrazione spesso fuori controllo secondo lei ha portato a questo?

«Senta, qui si parla ancora di razzismo. Io e Pamela non eravamo razziste, ma quando mai. I razzisti sono loro, gli extracomunitari, che non si integrano. Noi li accogliamo, sono loro che non ci accolgono. In una intercettazione come dicevano? Abbiamo una bianca da stuprare. Una bianca capito».

E un'altra vita è stata spezzata, un'altra famiglia è distrutta. Fuorvianti secondo lei le connotazioni politiche di questa vicenda?

«Sì fanno tante manifestazioni antirazziste, ma piuttosto difendessero i nostri figli».

Come va avanti?

«Mi sta salvando la fede. Io Pamela la sento, mi manda segnali. Ora penso anche a Desirée, ridotta in quel modo. E alla sua mamma. Lo so solo io come sta».

Ridotta in quel modo nel cuore della città.

«Sì, appunto, a San Lorenzo: in un posto, in un contesto di degrado sociale che andava evitato, si poteva evitare. Anche stavolta non mancano gli imbecilli che dicono che se l'è andata a cercare, quasi che la colpa è della vittima e non del carnefice. Basta. Ora basta con lo giustificare questi atti, basta chiudere gli occhi di fronte a dati che sono oggettivi: sono tutti immigrati i protagonisti dei più orribili fatti di cronaca degli ultimi tempi».

Suo fratello, l'avvocato Marco Valerio Verni, parla del risultato di una politica migratoria fatta in modo criminale.

«Io credo che non si può morire nel centro di Macerata, a San Lorenzo a Roma, come a San Giovanni: ci siamo dimenticati della povera Amalia Voican, trovata morta a maggio in una casa demaniale abbandonata, il corpo decomposto, le hanno dormito accanto mentre gli animali le rosicchiavano il viso».

Da San Giovanni a San Lorenzo, una scia di orrore e giovanissime vittime.

«Due quartieri centrali dove esistono sacche di degrado paurose. È vergognoso. Questa non è integrazione. Stavolta è toccato a Desirée».

Tra un mese esatto è fissata l'udienza preliminare a carico di Innocent Oseghale, il pusher nigeriano accusato di aver ucciso sua figlia Pamela Mastropietro. Lei e il suo avvocato avete già espresso molti dubbi sul fatto che solo a lui siano stati contestati i reati di omicidio volontario, vilipendio, occultamento di cadavere e violenza sessuale.

«Ho chiesto più volte che indagassero più a fondo, sopravvivo per dare giustizia a mia figlia e ora me la aspetto davvero. Non mi arrenderò mai. Aspettiamo fiduciosi, anche se il tempo per studiare le carte è poco. E se avremo delle domande da fare in quella sede, siano tutti certi che le faremo».

E se ne rientra nel negozio, veloce, minuta, un sorriso triste e uno sguardo d'intesa. «Ah, stasera c'è la fiaccolata. Per Desirée, a San Lorenzo...».

Desirée, residenti contro centri sociali: "Non si azzardino a venire al funerale". Una settimana dopo la morte di Desirée Mariottini, la piazza simbolo del quartiere romano di San Lorenzo si divide ancora: da una parte gli attivisti dei centri sociali e dall'altra i residenti che stanno organizzando delle ronde per liberare la zona dai pusher, scrivono Elena Barlozzari ed Alessandra Benignetti, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". Nel giorno dell’arresto in una baraccopoli di Borgo Mezzanone della quarta belva che ha stordito, stuprato e poi lasciato morire Desirée Mariottini, la piazza simbolo del quartiere romano di San Lorenzo si divide ancora. Da un lato ci sono gli attivisti del Nuovo Cinema Palazzo. Femministe e militanti dei centri sociali che puntano il dito contro il “patriarcato” e contro chi “strumentalizza” la tragedia della sedicenne di Cisterna di Latina. “Se sei dei Parioli o vieni dal Ghana non stuprare una donna”, si legge sui cartelli che sfilano per le vie di San Lorenzo, da piazza dell’Immacolata allo stabile abbandonato di via dei Lucani dove Desirée è stata trovata senza vita la settimana scorsa. Insomma, in questa vicenda “l’immigrazione non c’entra”, torna a ribadire la sinistra antagonista. I protagonisti di questa storia, però, sono tutti migranti. I senegalesi Mamadou Gara e Brian Minteh, il nigeriano Chima Alinno e il ghanese Yusif Salia, secondo gli inquirenti, sapevano che la dose fornita a Desirée sarebbe stata mortale. Quando la ragazza ha iniziato a stare male non l’hanno soccorsa. Anzi, hanno iniziato ad abusare di lei, per poi abbandonare il suo corpo esanime tra le mura squallide e sporche di quel vecchio cantiere. Appoggiati al muretto della chiesa di Santa Maria Immacolata, invece, ci sono i residenti. “Siamo venuti a vedere cosa fanno, ma noi con questi non ci mischiamo”, mettono in chiaro alcune donne. Ci sono anche loro in prima linea per liberare il quartiere dai pusher. Non sono “ronde” precisano. “Scenderemo più spesso in strada e se troveremo qualcosa che non va avviseremo la polizia o, nel peggiore dei casi, interverremo di persona”, spiega un uomo sulla cinquantina. Una delle sue figlie ha la stessa età di Desirée. “Certo che sono preoccupato per lei - ci confessa – qui è diventata terra di nessuno, spaccio e risse sono all’ordine del giorno”. “Nascondono la droga nelle nostre macchine, tra le ruote e i paraurti, conoscono i nostri orari ormai, per quello stanno tranquilli”, racconta una mamma. “Ti fermano per strada, danno fastidio alle ragazzine – continua un diciottenne della zona – a me hanno scippato la catenina d’oro e una volta mi hanno puntato un coltello contro”. Il clima nel quartiere dove la sedicenne di Cisterna è stata violentata e uccisa resta da Far West. E se il presidente della Camera, Roberto Fico, contrappone “l’amore” alle “ruspe”, i sanlorenzini non ci stanno e invocano più controlli da parte delle forze dell’ordine. “La polizia si vede solo di mattina, ma lo spaccio c’è a tutte le ore, soprattutto di sera”, denuncia Patrizia, la proprietaria di un bar all’angolo tra via degli Equi e via dei Volsci. È tra le ultime persone ad aver visto Desirée prima che morisse. “È venuta qui giovedì mattina a fare colazione, era lucida ma un po’ agitata perchè le avevano rubato il cellulare”, ci racconta. “Poi si è seduta qui fuori, sulla panchina, e dopo un po’ è andata via”. “Da donna ho paura”, ammette Patrizia che, tra un caffè e l’altro, ci rivela anche di tenere sempre un bastone a portata di mano sotto il bancone. “Qui resta pieno di balordi”, dice scuotendo la testa. “Ronde o passeggiate per la sicurezza non importa, se le fanno, fanno comunque bene”, è convinta. “Non serve tanto per riportare un po’ di ordine, bastano una ventina di persone robuste per cacciare gli spacciatori”, dice un ragazzo di zona. “Anche se loro sono tanti, noi - è pronto a giurare - non abbiamo paura di nessuno”. Per lui e per gli altri residenti, a speculare sulla tragedia di Desirée non sarebbe il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ma i centri sociali. “Come al solito hanno fatto una figuraccia, vengono qui a fare politica e non hanno nessun rispetto per la memoria di questa ragazza”, accusa la gente del quartiere. E c’è anche chi sostiene che la famiglia della giovane abbia già dato direttive precise. “Collettivi e femministe farebbero bene a non presentarsi al funerale di Desirée perchè – ci dicono – la famiglia non la prenderebbe bene, è già molto arrabbiata”. Ad una settimana dalla morte della sedicenne, l'atmosfera resta tesissima. E lo scontro politico rischia di infiammarsi ulteriormente nella giornata di oggi, con l’Anpi e il presidio “Con i migranti per fermare la barbarie” che si contrapporranno ai militanti di Forza Nuova, che hanno deciso di sfilare proprio a San Lorenzo nonostante polemiche e divieti.

Da Libero Quotidiano del 27 ottobre 2018. Il commento di Gad Lerner sulla tragica morte della 16enne Desirée Mariottiniha scatenato ferocissime polemiche sui social. Il giornalista ha scritto su Twitter: "Dopo Pamela Mastropietro guardiamo attoniti la vita e la morte di Desirée Mariottini: dipendente da eroina, figlia di spacciatore italiano e madre quindicenne, vittima di pusher immigrati. Vicende tragiche che dovrebbero suggerirci qualcosa di più e di diverso dell'odio razziale". Lerner ci ha tenuto a sottolineare che la ragazza fosse figlia di uno spacciatore italiano, come se il dettaglio potesse cambiare la gravità di quanto ha subito la ragazza, e solo a margine si ricorda di citare i "pusher immigrati", che sono i veri carnefici della giovanissima di Cisterna. In tanti lo accusano di aver scritto "una cosa vergognosa", "vomitevole", altri che accusano Lerner di giustificare gli stupratori dando più peso alle vicende familiari di Desirée. Tanto che qualcuno gli scrive: "Ci manca che scriva 'se l'è cercata' o 'alla fine vedete che è colpa sua'". L'ennesimo scivolone.

Boldrini, Lucarelli, Lerner e il grullismo ideologico, scrive Augusto Bassi il 28 ottobre 2018. Il sinistro raglio del catechismo nonpensante è ineluttabilmente arrivato, come annunciato. La patetica goffaggine del rovesciamento ideologico della verità, della realtà, ha il suono somaro della dissonanza cognitiva e guizzo nemertino nei riflessi pavloviani della Boldrini, di Lerner, della Lucarelli, serpeggiando pestilenzialmente fra i nostri avamposti multimediali. «Anzichè trasformare il dolore per la povera Desirée in un set cinematografico in diretta Facebook, il Ministro Salvini lavori nel suo ufficio al Viminale e metta in campo misure concrete per la sicurezza di tutti e tutte. Io sto coi cittadini e le cittadine che non sopportano più degrado, incuria e violenza», scrive Laura. Il gelido ossequio alla vittima – femmina, minorenne, caduta sotto percosse maschili – portato di striscio, di sghimbescio, proprio dalla sposa dello spirito santo femminista, ci ha lasciato sorpresi e contrariati; nessun pensiero carezzevole per quella giovanissima anima sciagurata, nessun flagello verso i ripugnanti usurpatori; solo la foga uterina di chi, con risibile sforzo, cerca un falso colpevole. Per non trovare se stessa. E poi Selvaggia Lucarelli, su Facebook: «Quindi Cucchi che spacciava e si drogava vittima delle forze dell’ordine italiane era un tossico di merda, Desiree che era stata denunciata per spaccio e si drogava vittima di stranieri era un angelo volato in cielo. La doppia morale di tanti italiani». Distillato di grullismo ideologico, che piega la logica all’idea oca, rivelandosi più abbietto di qualunque bullismo. La storia di Stefano Cucchi è narrata in un film: «L’emozionante racconto degli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi e della settimana che ha cambiato per sempre la vita della sua famiglia. Solo su Netflix. Primo mese gratuito». Il suo volto martoriato è già icona, effigie tumefatta di un martirio. Non la fine che si meritava un tossico di merda, Lucarelli, ma il martirio di un ragazzo sventurato, caduto tragicamente innanzi alla iattanza poliziesca. Senza dimenticare Carlo Giuliani, come Stefano vittima degli sbirri, che dà il nome a un’aula del Senato della Repubblica. Non un teppistello, ma un eroe della contestazione, un indomabile drago di fuoco giovanile, che oggi sarebbe civilmente in piazza a manifestare contro i fascismi, contro Salvini. Sulla sua storia si sono girati documentari, uno dei quali di F.Comencini; si sono scritti libri, su Giuliani. Perché nel sinistro pattume culturale post-sessantottino, che ha spalancato finestre di Overton sull’impensabile, ciò era possibile; di più: popolare. Mentre Netflix racconterà la storia di nessuna 16enne drogata, volata in cielo. Nessuna aula del Senato per Pamela o Desirée. Questa è doppia morale. Che scrivere, dunque, della tanto celebrata solidarietà femminile? Quando il senatore Vincenzo D’Anna invitava pubblicamente le ragazzine ad avere più cautela nel mostrare il proprio corpo, per non correre rischi inutili, veniva lapidato come gvetto maschilista, come stegosauvo del pensiero. Perché una donna sarà pur libeva di vestive come vuole senza esseve molestata! Ma quando una ragazzina audace di costumi – non un angelo, ma poco più di una bambina – viene mangiata viva da una clandestinità d’importazione che chiede a noi umanità… non un moto di pietà. Non un’invettiva verso la primigenia ferocia dei maschi. Una qualunque donna vittima di stupro e omicidio di gruppo da parte di cittadini italiani porta a magliette rosse e seminari sui femminicidi; grazie a Dio, aggiungiamo. Se poi è una fanciulla forestiera a essere preda dell’uomo indigeno, il caso diviene nazionale. Immantinente difesa, presidiata, consolata, anche fosse per un uovo in faccia, per una frittata democratica. I seminari di cui sopra, che ho ampiamente elencato nella puntata precedente, stimolano le ragazze a riconoscere un’insistenza patologica, un’avance potenzialmente pericolosa, la cinesica di un possibile pervertito. Eppure, le stesse allertate signore, leste a sporgere denuncia per una carezza sotto la coda o per un complimento inopportuno, così implacabili nei confronti della fallocrazia e dei suoi simboli, sembrano poi inconsapevoli dell’inopportunità di accogliere esemplari di maschio scarsamente avvezzi alla creanza, all’urbanità, alla parità fra i sessi; esotici gentiluomini forse troppo ruspanti, che vedono le femmine come bistecche da battere. E magari spezzettare. Selvaggia Lucarelli, cuore delicato, riguardoso, soccorrevole verso qualsivoglia femmina perseguitata, oppressa, nella vita reale come sul web – spesso più vivido e violento della vita stessa – neppure è riuscita a scrivere compiutamente il nome, di Desirée, tale la cura che le ha riservato. Perché con la furia irriflessa dell’ideologia, cretinamente à la page e sedicente “civile”, si è scaraventa dal Carrefour-gate al biasimo verso la doppia morale di tanti italiani. Cieca com’è di fronte alla sua. Per fortuna Oliviero Toscani ci salva da ogni aporia, intervenendo a Radio Capital. In studio, Vittorio Zucconi e un tragico buffone di cui dimentico sempre il cognome; pertanto non Giannini. Ci si affligge per la deriva pentaleghista, ma si parla soprattuto di ignoranza, sulla quale Toscani è effettivamente apprestato. Dopo aver caracollato nello sproloquio… Oliviero giunge alla stoccata: «Diciamolo una buona volta, chi insulta è un coglione!». E diciamolo. In questa fertile semenza di acutissimi analisti del pensiero urico, concludiamo in bruttezza con un’infiorescenza carnivora, Gad Lerner: «Dopo #PamelaMastropietro guardiamo attoniti la vita e la morte di #DesireeMariottini: dipendente da eroina, figlia di spacciatore italiano e madre quindicenne, vittima di pusher immigrati. Vicende tragiche che dovrebbero suggerirci qualcosa di più e di diverso dall’odio razziale». Oh my Gad, che prurigine! Supero il fastidio epidermico perché non è facile scrivere sotto l’assedio di parassiti ematofagi, arduo digitare mentre ci si gratta. Sì, ci suggeriscono qualcosa di più, Lerner: l’odio profondo, ragionato, coltivato, verso la viltà dei protervi, la stupidità degli adulteratori e l’opportunismo dei #farisei.

Differenza Sessuale Nell’accoglienza: Il Dono Che Dobbiamo A Desirée, scrive il 26 ottobre 2018 Marina Terragni. Ieri a Piazza Pulita si è parlato di Desirée. O meglio si è parlato di quasi tutto – degrado urbano, mercato della droga, quartiere San Lorenzo diviso tra salviniani e non salviniani, inerzia delle forze dell’ordine, quantum della manovra economica sul tema sicurezza, probabile imminente campagna elettorale per il sindaco di Roma - tranne che di Desirée. Per “parlare di Desirée” non intendo parlare della sua famiglia disfunzionale, del fatto che venisse bullizzata a scuola per un suo lieve difetto fisico, della sua eventuale tossicodipendenza o che le stesse capitando o meno di prostituirsi in cambio di un po’ di pasticche, fatto eventualmente non sorprendente. “Parlare di Desirée”, così come “parlare di Pamela”, o di Jessica ammazzata a Milano dall’uomo che le dava ospitalità, o di tante altre, significa parlare di ragazze martiri – nel senso etimologico di “testimoni” - della sessualità maschile violenta, dello stupro come dispositivo del dominio. Le vittime di femminicidio sono sempre donne che hanno fatto una mossa di libertà: che si sottraggono a relazioni malate, che disubbidiscono, che non si fanno tutelare da un maschio-padrone, che non si chiudono in casa quando fa buio, o che semplicemente si fidano di uomini e non accettano la parte della preda. Probabilmente Desirée si è fidata dei suoi aguzzini. E gli aguzzini hanno preso questa bambina senza padrone e l’hanno ridotta a cosa morta. Lo stupro è assassinio simbolico, è downgrade di una donna viva verso il non-umano. Qui all’assassinio simbolico è seguito l’assassinio reale, in una sequenza ancora non chiarita. Ma di che cosa si tratti è già chiarissimo: di violenza maschile, funzione del dominio. Su questo non servono ulteriori indagini. Su un’altra cosa va detta la verità (oggi dire la verità contro ogni tentazione di correctness, come insegna il #metoo, è precisamente la cosa che abbiamo da fare): l’immigrazione sregolata comporta dei costi, e uno dei costi che vanno nominati è un carico ulteriore di rischio e di violenza per le donne. Se è vero che il più della violenza avviene nell’ambito delle relazioni familiari, è vero anche che (dati Istat) in Italia il 40 per cento degli stupri viene commesso dall’8 per cento della popolazione, i cosiddetti “stranieri”, e questo è un fatto su cui ragionare. In Svezia – nazione europea con il più alto tasso di violenza maschile - il 95,6 per cento degli stupri commessi tra il 2012 e il 2017 è stato a opera di stranieri, così come il 90 per cento delle violenze di gruppo. Gli autori degli stupri provengono prevalentemente dal Medio Oriente, dai paesi africani e dall’Afghanistan (studio Jonasson-Sanandaji-Springare). Nel dicembre 2017 a Malmö le donne sono scese in piazza protestare contro l’ondata di violenze. Il primo ministro svedese e leader del socialdemocratici Stefan Löfven ha parlato di un “grande problema di democrazia” per il Paese e di un “doppio tradimento” nei confronti delle donne. Uno stupro è uno stupro è uno stupro, certo, chiunque lo commetta. Ma qui ci sono degli stupri in più. Qualunque discorso di accoglienza deve tenerne conto. Indire un corteo che rappresenta la San Lorenzo “solidale” mentre quella bambina attende ancora di essere sepolta non è una grande idea, soprattutto da un punto di vista femminista. Qualcuno potrebbe intendere che quella solidarietà è destinata ai clandestini spacciatori o ai mafiosi nigeriani (in prima linea anche nella tratta delle prostituite), e il malinteso procurerebbe solo altri problemi. Il femminismo non è ancella della destra, ma nemmeno della sinistra, soprattutto di una sinistra confusa e distopica. L’occasione casomai andrebbe colta per una riflessione sulla differenza sessuale nella migrazione e nell’accoglienza. Secondo uno studio della scienziata politica Valerie Hudson l’Unione europea sta accogliendo un numero sempre più alto di giovani maschi: il 73 per cento dei richiedenti asilo è composto da uomini. Circa l’87 per cento degli immigrati arrivati in Italia sono maschi di età compresa tra 18 e 34 anni, e quasi tutti sono arrivati da soli. Trend confermato dagli ultimi dati disponibili (Ministero dell’Interno): nel dicembre 2017 sono sbarcati 2.327 migranti, dei quali solo 255 donne; a gennaio 2018, su un totale di 4189 sbarcati le donne erano 600. In generale l’80-90 per cento dei crimini — con lievi differenze da Paese a Paese — è commesso da uomini giovani adulti. Favorire l’accoglienza delle donne comporterebbe molti vantaggi: per loro, anzitutto, ma anche per le comunità ospitanti, a cominciare dalle donne. Un buon lavoro femminista potrebbe essere proprio questo: lavorare perché le donne migranti - profughe e migranti economiche - godano di una corsia preferenziale. Chiedere che si tenga conto della differenza sessuale nelle politiche di accoglienza e di integrazione.  Quelle donne fuggono da guerre che non hanno dichiarato, da situazioni economiche e politiche che non governano, sono spesso oggetto di violenza sessuale, di sfruttamento e di tratta. In cambio dell’accoglienza portano in dono tutto il loro desiderio intatto di libertà e di un mondo più giusto.  Differenza sessuale nell’accoglienza! Lo dobbiamo anche a Desirée.

"Maometto era pedofilo". Ma la Corte europea: "Non si può dire". Secondo la Corte europea per i diritti dell'uomo non si può dire che Maometto era un pedofilo nonostante avesse sposato una bambina di sei anni, scrive Andrea Riva, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". La figura di Maometto è una delle più complesse della storia delle religioni. Della sua biografia, però, una cosa ha fatto più scandalo di altre, ovvero il suo matrimonio con una bambina di sei anni. Certo, obietta la narrativa musulmana, sei anni sono pochi, ma erano altri tempi. Ma sei anni sono sei anni, anche se, secondo le cronache Aisha, questo il nome della bimba, avrebbe consumato il rapporto a nove. Ovvero quando il profeta aveva 50 anni. E qui entra in gioco la storia di Elisabeth Sabaditsch-Wolff, un'attivista per i diritti umani che aveva definito pedofilo Maometto. L'accusa della donna, come riporta Libero, risulterebbe però infondata secondo una certa narrativa "in quanto i due erano ancora sposati quando lei aveva 18 anni. Pedofilo sarebbe chi sia attratto solo o principalmente da minorenni". Il punto è che la Corte europea per i diritti dell'omo ha detto che è la signora Elisabeth Sabaditsch-Wolff a sbagliare. In particolare - sottolinea Libero - "si stigmatizza tra l'altro la generalizzazione senza basi fattuali in cui è incorsa la donna".

COME SI CENSURANO LE NOTIZIE SUI CRIMINI DEGLI IMMIGRATI.

 “Migrante uccise mio figlio. La procura ha nascosto tutto”, scrive il 24 settembre 2018 Eugenia Fiore su Gli Occhi della Guerra su "Il Giornale". “Sto lottando per avere giustizia. È questa l’unica cosa che mi tiene ancora in vita”. Mentre ci parla, Karsten Hempel ha due occhi che esplodono di rabbia e dolore. Fanno venire i brividi. Questo uomo sulla sessantina dal modo di fare delicato è un padre che ha perso il suo unico figlio. La cosa peggiore che possa succedere a un genitore, quindi. Ora la sua storia, dopo essere stata soffocata dall’omertà dei principali media tedeschi, arriva in Italia. “Il 29 settembre 2017 mio figlio è stato picchiato a morte da un richiedente asilo siriano davanti a un centro commerciale a Wittenberg. L’episodio – racconta Karsten – è stato ripreso dall’inizio alla fine da una telecamera di sorveglianza dell’edificio”. Dopo aver denunciato il fatto tramite i suoi legali, infatti, Karsten riceve dalla procura di Dessau una copia del filmato. Come si può vedere dalle immagini, la sequenza è piuttosto chiara. Il 29 settembre 2017 verso le 15 Marcus Hempel, 30 anni, arriva al centro commerciale insieme alla sua fidanzata. La coppia parcheggia le bici e si avvia a piedi verso l’ingresso. Intanto i quattro richiedenti asilo siriani sono fermi su un lato. Marcus è già oltre la porta quando uno di loro urla qualcosa. Il trentenne torna allora indietro innervosito. I due iniziano a discutere e a spingersi, fino a quando Marcus tira uno schiaffo al siriano. L’immigrato, a quel punto, si scaglia contro di lui e lo colpisce alla testa. Una, due, tre volte. Al terzo pugno Marcus finisce per terra sbattendo violentemente la testa. Morirà qualche ora dopo in ospedale. “La polizia ha rilasciato subito dopo un comunicato stampa. E questo comunicato stampa -spiega Karsten – corrisponde a quello che si vede nel video, è corretto”. Fin qui, quindi, tutto quadra. Ma ecco cosa succede in seguito. “Tre giorni dopo l’accaduto la procura di Dessau rilascia un comunicato stampa che contraddice completamente quello della polizia e cambia tutto ciò che si vede nel video”. Il pm di Dessau, infatti, archivierà il caso affermando che il richiedente asilo avrebbe agito per autodifesa. “Questo Makus Steeger (il nome del siriano, ndr) non è mai stato arrestato né messo in custodia cautelare. Niente, proprio niente”, spiega Karsten. Il richiedente asilo che ha picchiato Marcus, infatti, è libero e vive tranquillamente in Germania. La polizia l’aveva fermato per circa 24 ore il 29 settembre, ma poi il pm non ha convalidato la misura cautelare. “Io penso che il modo in cui il caso è stato presentato sia stato pianificato fin dall’inizio. Provate a immaginare se, da un momento all’altro, in una città con così tanti turisti si viene a sapere che un ragazzo tedesco è stato ucciso da quattro richiedenti asilo. Ecco, io credo che abbiano voluto nascondere come sono andate davvero le cose”. Secondo la polizia, dunque, Marcus è stato colpito da diversi colpi alla testa. Il pm di Dessau, invece, parla di un solo colpo. “Perché mi vogliono dire che una cosa è blu quando è verde?”, si chiede Karsten. E aggiunge: “Forse il pm non sa contare?”. Il rappresentate del Ministero della giustizia della Sassonia-Anhalt, Hubert Böning (CDU) si rifiuta di prendere una posizione sull’accaduto. L’otto giugno scorso il caso è stato presentato in Consiglio federale da alcuni esponenti dell’Afd. “Ha mai guardato il video delle telecamere di sorveglianza?”, è stato chiesto a Böning. Lui, però, non ha mai risposto a questa domanda. I mesi passano e, a un anno dall’accaduto, Karsten Hempel non è ancora riuscito a portare il caso a processo. L’indagine è stata ora consegnata alla Procura di Magdeburgo. Intanto i media nazionali restano in silenzio.  Alcune testate locali come il WittenbergerSonntag, invece, hanno attaccato Marcus Hempel definendolo un “nazista dichiarato”. Solo due settimane fa, un ragazzo tedesco di 22 anni è morto dopo essere stato coinvolto una rissa con due richiedenti asilo afghani. I media tedeschi parlano di un “decesso per arresto cardiaco” non direttamente collegato alle lesioni della colluttazione. Il 22enne, però, aveva delle costole rotte e il cranio fratturato.  A fine agosto, invece, un cittadino tedesco-cubano ha perso la vita dopo essere stato accoltellato. Per l’omicidio sono stati fermati due richiedenti asilo. Ma il 18 settembre l’immigrato iracheno – il principale sospettato – è stato rilasciato dalle autorità tedesche.  “Nessun testimone l’ha visto dare delle coltellate”, ha scritto il suo avvocato in una nota. 

Immigrazione e manipolazione: come i media tedeschi hanno falsificato la realtà, scrive Giampaolo Rossi il 4 agosto 2017 su "Il Giornale". È un atto di accusa senza precedenti quello contro i media tedeschi: nel pieno dell’emergenza migranti, tra il 2015 ed il 2016, i principali giornali della Germania hanno deliberatamente falsificato la realtà dando un’informazione unilaterale e acritica del fenomeno abbracciando esclusivamente il punto di vista della Merkel, del suo governo e dell’élite politica ed economica che voleva imporre all’opinione pubblica la “cultura dell’accoglienza indiscriminata”. L’accusa non viene dai soliti polemisti reazionari, da spudorati blogger di destra o dai sempreverdi xenofobi utili per liquidare qualsiasi opposizione al delirio del multiculturalismo ideologico. No. Stavolta l’accusa parte da una ricerca della Fondazione Otto Brenner e realizzata da un pool di ricercatori dell’Università di Lipsia e della Hamburg Media School, coordinati dal prof. Michael Haller; il titolo è “La crisi dei rifugiati sui media” ed è è “lo studio più completo e metodologicamente elaborato sul tema”.

La ricerca ha analizzato oltre 30 mila articoli dei principali giornali nazionali e regionali tedeschi tra il 2015 e il 2016. Oltre 200 pagine dense di numeri e statistiche su quello che hanno prodotto Süddeutsche Zeitung, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Die Welt, Bild, così come le pubblicazioni online e 85 giornali regionali. Dal 2015 al 2016 nessun giornale ha raccontato le preoccupazioni, i timori di una parte crescente della popolazione…La conclusione è devastante: mentre la Merkel imponeva la “politica delle porte aperte” nessuno degli editoriali o degli articoli che riguardavano il tema dell’immigrazione “ha raccontato le preoccupazioni, i timori e anche la resistenza di una parte crescente della popolazione”; in altre parole è come se per i giornali tedeschi, un pezzo (probabilmente maggioritario) dell’opinione pubblica del proprio Paese non fosse esistita. E le rare volte che i giornalisti collettivi hanno provato a raccontare quella parte di Germania preoccupata dall’immigrazione, l’hanno fatto “con un atteggiamento pedagogico” se non “sprezzante”. Chi non era allineato al mito dell’accoglienza era automaticamente xenofobo o razzista…I giornali non hanno saputo (o voluto?) distinguere tra le posizioni veramente xenofobe e razziste di una minoranza, con le legittime e realistiche preoccupazioni di pezzi importanti della società tedesca di fronte all’invasione di oltre un milione di immigrati voluta dalla signora Merkel. E quel sentimento di insicurezza, paura è stato trasformato in razzismo e intolleranza quando non di arretratezza culturale. Insomma il solito snobismo stupido dei menestrelli dell’élite europea.

Per capire il modo in cui i giornali tedeschi hanno manipolato l’opinione pubblica basterebbe qualche dato che emerge dalla ricerca: tra la primavera 2015 e la primavera 2016, nei tre quotidiani principali del paese, solo il 4% degli articoli è stata un’intervista e solo il 6% un report con dati oggettivi. Un articolo su cinque è stato un editoriale di commento che esprimeva ovviamente il parere delle redazioni, “una cifra insolitamente alta”. Nella classifica dei personaggi ascoltati o citati sul tema, due su tre sono stati politici di governo o di partiti favorevoli all’immigrazione; solo il 9% esponenti della giustizia (ufficiali delle Forze dell’Ordine, magistrati, giudici o avvocati) su temi legati all’ordine pubblico; appena il 3,5% studiosi o esperti di temi legati al multiculturalismo, al diritto di famiglia nelle società islamiche o al rapporto tra sunniti e sciiti.

Un caso emblematico è stata la narrazione costruita attorno alla definizione di “Willkommenskultur” o Cultura dell’Accoglienza tanto cara in Italia alla Boldrini, a Saviano e agli esegeti del pensiero sorosiano. I giornali hanno trasfigurato il concetto di Accoglienza, trasformandolo in una parola magica…Secondo lo studio, i giornali tedeschi hanno “trasfigurato il concetto di Accoglienza” trasformandolo in un “obbligo morale (…) una sorta di parola magica” per convincere i cittadini “a svolgere un’attività da buoni Samaritani verso i nuovi arrivati”. Per tutto il 2015 e buona parte del 2016, l’83% dei contenuti giornalistici ha enfatizzato il concetto di Accoglienza, nascondendo l’esistenza di una sempre maggiore fetta di popolazione scettica e dubbiosa sulla Willkommenskultur. E quando l’imposizione moralista non funzionava più, ecco pronta (come in Italia) la ricetta pseudo-economica da imporre come verità incontrovertibile dai soliti tecnici ed esperti: “la Germania ha bisogno di centinaia di migliaia di lavoratori per contrastare l’invecchiamento della popolazione”; ergo chi non vuole accoglierli fa il male della Germania. E così mentre i giornali sovraesponevano le manifestazioni di “benvenuto” agli immigrati, nascondevano le manifestazioni contrarie che si svolgevano in molte città tedesche.

Certo la ricerca ha dei limiti; per esempio non ha preso in considerazione l’informazione televisiva in quanto questo avrebbe richiesto uno studio molto più complesso sul rapporto tra immagine e parola. Ma l’idea di fondo è chiara. Secondo Michael Haller, il Direttore della Ricerca, i giornalisti tedeschi “hanno ignorato il loro ruolo professionale e la funzione informativa dei mezzi di comunicazione” utilizzando “troppo sentimentalismo buonista e troppo poche domande critiche ai responsabili di quelle decisioni”; e questo ha contribuito a generare una profonda divisione nell’opinione pubblica tedesca e un discredito totale verso il mondo dell’informazione. Jupp Legrand, Direttore della Fondazione Brenner, ha specificato che la ricerca mostra “la crisi strutturale del cosiddetto manistream” perché “la realtà descritta dai giornalisti è stata molto lontana da quella che tutti i giorni vivevano i loro lettori”. Un modo elegante e neutro per denunciare che le vere fabbriche di “fake news” in Occidente si trovano nelle redazioni dei grandi giornali del potere economico e culturale. Nei giorni in cui in Europa si sta svelando il fallimento del multiculturalismo progressista; in cui, anche in Italia emerge la stupidità con cui una classe politica irresponsabile e dolosa ha affrontato il tema dell’immigrazione; in cui il disegno criminale costruito attorno ai progetti di immigrazione indotta si fa sempre più evidente, il tema di una corretta informazione è vitale per la tenuta di una democrazia. Se una ricerca simile venisse fatta in Italia i risultati sarebbero forse simili; anche da noi, per anni, i grandi giornali hanno di fatto costruito una narrazione simile a quella tedesca criminalizzando chi non si adeguava al pensiero dominante o ignorando le tante voci di dissenso rispetto alla visione irenica dell’immigrazione. Ora però il clima sembra essere cambiato. Per carità quando i grandi giornali danno spazio agli intellettuali e alle loro profonde riflessioni, la irrealtà ideologica prende il come al solito il sopravvento scivolando quasi nella stupidità.

Ma quando si limitano a fare il loro mestiere, cioè a raccontare la cronaca e i fatti, allora la verità di questa nuova ed epocale tratta degli schiavi spacciata per destino storico, emerge impietosamente. E in questo caso non basteranno i Saviano e le Boldrini a inventarsi la realtà.

No, la Germania non è il paradiso: viaggio nel paese che nessuno racconta. Nello Stato più ricco d’Europa aumentano povertà e disuguaglianze. Mentre nel profondo Nord l'ostilità ai profughi è più forte dell'accoglienza. Siamo andati a scoprire la Germania fuori dai luoghi comuni, scrive Fabrizio Gatti il 26 aprile 2017 su "L'Espresso. La Germania è il tocco di un guanto di pelle sulla spalla. Ti svegliano così sul sedile dell’Eurocity 86 tra Verona e Monaco di Baviera. «Reisepass?», domanda il poliziotto della Repubblica federale. Poi sfoglia il passaporto e si sofferma sulla foto. L’epoca delle frontiere aperte è davvero finita, non solo per i profughi. L’uomo in divisa nera chiede i documenti perfino a due ragazzi e alle loro fidanzate biondissime, che stanno rumorosamente chiacchierando nel loro marcato accento bavarese. Forse lo fa giusto per evitare discriminazioni in pubblico: gli agenti italiani, saliti sul treno al confine del Brennero un’ora e mezzo prima, hanno controllato soltanto i passeggeri con la faccia scura. La polizia tedesca sembra molto più attenta al galateo multiculturale: o si controllano tutti i cittadini, o non lo si fa con nessuno. La Gleichheit, l’uguaglianza: è il primo filo al quale è appesa la società che Angela Merkel, 63 anni, sta consegnando alle elezioni federali del 24 settembre. Il secondo è la fiducia reciproca. Il terzo la sicurezza economica che, dove non c’è lavoro, è garantita da un sistema di protezione sociale ancora diffuso. Tre fili ben visibili nella vita quotidiana: insieme sostengono l’immagine di un popolo solido e apparentemente unito. Ma sono fili sempre più sottili: una crisi improvvisa, un nuovo attentato jihadista, il risveglio populista li potrebbe spezzare. Lo si nota chiaramente, girando in lungo e in largo questa nazione in cui, secondo dati pubblicati nel 2016, il 15,7 per cento degli ottanta milioni di abitanti è considerato a rischio povertà. E il 14,7 è già povero, con punte del 19 per cento tra i bambini. Da Sud a Est, da Nord a Ovest. Dalle Alpi alla Polonia. Dal Mar Baltico al Reno. Rigorosamente su treni regionali. E qualche Intercity. Oltre tremila chilometri. Questo è il diario di un viaggio sottopelle nel corpo della Germania e dell’Unione Europea. La Cancelliera di Berlino non è infatti soltanto la donna che governa da dodici anni, leader dell’Unione cristiano democratica, candidata per la quarta volta consecutiva. Angela Merkel rischia di essere l’ultimo robusto sbarramento europeo contro l’avanzata delle destre nazionaliste e sovraniste, a cominciare dalla Francia di Marine Le Pen. E può essere un rischio, sì: perché Frau Merkel è perfino umanamente più concreta di papa Francesco nell’accogliere i rifugiati, ma è più brutale di Margaret Thatcher nel difendere i dogmi economici. La sua dottrina contiene il bello e il brutto tempo. Industria galoppante a Ovest, Stato assistenziale a Est e nelle periferie delle grandi città. Disoccupazione intorno al tre per cento in Baviera e Baden-Württemberg, percentuali mediterranee sopra il dieci in quasi tutte le regioni orientali. La ricchezza media dei tedeschi per ora nasconde bene lo stress. Ma fino a quando reggeranno quei tre fili ai quali sono tutti appesi?

La stazione Centrale di Monaco è completamente aperta. Non ci sono controlli per accedere ai binari. Non ci sono camionette mimetiche e soldati nelle piazze, intorno alle chiese, davanti ai monumenti. L’attentato del 22 luglio 2016 al centro commerciale Olympia nel quartiere di Moosach sembra avvenuto in un altro mondo: 9 morti e 35 feriti, colpiti dalla pistola di Ali David Sonboly, 18 anni, genitori iraniani, passaporto tedesco, simpatizzante di estrema destra. L’arma con cui poi si è ucciso, Ali David l’aveva comprata da un amico afghano conosciuto in un reparto psichiatrico. Ma gli spari di quel pomeriggio di guerra non hanno scalfito la Vertrauen, la fiducia reciproca a cui partecipano tutti: tedeschi e immigrati. Noi italiani al confronto viviamo in uno stato d’assedio permanente. Non è solo questione di sicurezza. Non ci sono tornelli, sbarre, cancelli nemmeno per entrare o uscire dalle stazioni sotterranee della metropolitana. Un euro e quaranta il biglietto. E solo una persona ogni venti timbra l’ingresso. Gli altri? Avranno l’abbonamento, o forse no. Ma la fiducia è un collante sociale che vale molto di più di un euro e quaranta centesimi. Così nessuno ferma nessuno. Lo stesso filo riappare agli angoli di qualche strada o nelle piazze. I tedeschi non hanno mai smesso di leggere i giornali. E non dappertutto ci sono edicole. Bastano una scatola di vetro trasparente sul marciapiede, un coperchio sempre aperto, una feritoia per i soldi. Si infilano le monete e si prende il quotidiano. “Bild” costa 90 centesimi. Ma “Frankfurter Allgemeine” 2,70 euro al giorno, 2,90 il sabato, 4 euro la domenica. Chiunque potrebbe prendere il giornale o tutti i giornali senza pagare. Oppure forzare la cassetta e rubare i soldi. Soltanto “Süddeutsche Zeitung”, a pochi passi da Marienplatz, usa un distributore che rilascia una copia alla volta dopo aver infilato gli spiccioli.

La fiducia fa funzionare lo stesso sistema ovunque. Anche in campagna. Al posto dei quotidiani lì vendono prodotti della terra come zucche, sacchi di patate, frutta. Nessun agricoltore si sognerebbe di perdere tempo a fare il commerciante. Bastano un tavolo lungo la strada, un cartello con il listino prezzi e una cassetta: il cliente prende gli ortaggi e lascia il dovuto, senza che nessuno controlli. La sera passa il contadino e ritira l’incasso. Se questo rodato meccanismo sopravvive è perché i furti sono ancora una rara eccezione. Il sabato sera la Baviera è un viavai di trentenni, quarantenni, cinquantenni in calzoncini corti, calzettoni, bretelle e camicia a quadri. Non tutti indossano i costosi Lederhosen originali in pelle di camoscio. Va di moda la versione casalinga del pantalone vecchio di velluto, tagliato appena sopra il ginocchio. Vestirsi secondo la tradizione piace soprattutto agli uomini. Le donne agghindate con gonnellino e grembiule sono più rare. È anche un gesto politico il loro. Un po’ come se Matteo Salvini si vestisse da Brighella e gli industriali veneti da Pantalon. Alle undici di sera quasi tutti i ristoranti di Monaco hanno già le sedie rovesciate sopra i tavoli per le pulizie. L’Augustiner Klosterwirt, proprio davanti la cattedrale di Nostra Signora, è invece un frastuono di voci, gente in piedi e boccali di birra. Lì dentro tutti, proprio tutti, indossano Lederhosen e camicia a quadri. Camerieri e clienti. Al punto che è difficile distinguere a chi chiedere l’ordine: scambiare un imprenditore bavarese alticcio per il barman non provoca certo risposte amichevoli. Il desiderio di identità dei tedeschi del Sud ha il suo risvolto con gli immigrati turchi e arabi. La domenica pomeriggio vengono dalla periferia a passeggiare tra i negozi chiusi della centralissima Neuhauser Strasse. Davanti i bambini. Per ultimi i papà. In mezzo, le loro mogli rigorosamente avvolte nello chador nero. E di tanto in tanto qualche niqab, il velo integrale che lascia scoperti soltanto gli occhi.

Passau, la città al confine austriaco dove confluiscono i fiumi Inn e Danubio, è la porta tedesca della rotta balcanica. Gli accordi con la Turchia e il filo spinato in Ungheria hanno ridotto il flusso di profughi. Quanti ne passano adesso? «Sempre troppi», risponde il poliziotto di pattuglia al marciapiede dove si fermano i treni in arrivo dall’Austria. Ousmane Gaye, 28 anni, è partito da Bamako in Mali, ha attraversato il Sahara e ha chiesto asilo in Germania. La qualità del sistema di accoglienza è dimostrata dal suo tedesco: in appena due mesi di corsi obbligatori, lo parla già discretamente. Stanotte ha lasciato il dormitorio per venire in stazione a raccogliere bottiglie: «Al supermercato c’è una macchina che ricicla la plastica. Per ogni bottiglia ti danno venticinque centesimi», spiega e va a rovistare nei cestini. Solo che ha la pessima idea di attraversare i binari, anziché scendere nel sottopasso. E due agenti, l’uomo di prima e una ragazza, lo bloccano. L’identificazione va per le lunghe. Proviamo ad avvicinarci. «Mi hanno fermato perché ho attraversato i binari», ammette Ousmane. Bella stupidaggine, attraversare i binari è pericoloso. «No, non è pericoloso», interviene il poliziotto, «è proibito». Le sue parole sono lo spartiacque della vita quotidiana di un tedesco. Non è necessario scomodare l’inflessibilità con cui la Germania mette periodicamente sotto accusa i bilanci di Stato italiani o greci. Basta fermarsi di notte davanti al semaforo pedonale di Karlsplatz a Monaco, all’angolo con il senso unico di Prielmayerstrasse. Non c’è traffico, non arrivano auto, sono solo pochi metri. Davanti al rosso si fermano gruppi di giovani tiratardi. Passare a quest’ora non sarebbe pericoloso. Ma tutti aspettano il verde. Il rigore teutonico costa a Ousmane 25 euro di multa: cento bottiglie da raccogliere e infilare nella macchina mangiaplastica.

Uscire dalla stazione di Chemnitz è un tuffo nel silenzio. Strade deserte, non si vedono auto né persone, anche se sono le quattro del pomeriggio. Durante la dittatura della Germania Est si chiamava Karl-Marx-Stadt e del periodo conserva la grande statua del filosofo, i casermoni di cemento, i vialoni tipici della megalomania comunista. Mancano però gli abitanti. Il trenta per cento delle case è vuoto. E lo si sente nella mancanza di rumore di fondo. Chi ha potuto, se ne è andato all’Ovest o si è avvicinato ad altre città della Sassonia, come Lipsia e Dresda. Chemnitz ha due anime. Una è luminosa e per molti irraggiungibile dentro le vetrine dei due grandi centri commerciali, che si fronteggiano sulla piazza del municipio. L’altra è l’anima cupa e disoccupata di Sonndenberg, il vecchio quartiere in cui i fili dell’uguaglianza, della fiducia e della sicurezza economica si sono spezzati da tempo. Superata la sede dei socialdemocratici della Spd e una sala slot-machine, si cammina tra gli isolati dei negozi turchi e arabi. Gli alunni di una classe attraversano il cortile della scuola: su otto bambine, sei indossano il velo. Già in quarta elementare in Germania bisogna decidere cosa fare da grandi: il Gymnasium, il liceo che apre le porte all’università, comincia a dieci anni. E qui in Sassonia si è ammessi soltanto se la media dei voti è almeno due, secondo una scala che attribuisce uno come punteggio massimo e quattro come sufficienza: una selezione che divide la società tra manager e operai fin da piccoli. Più su in cima alla salita, i caseggiati più vecchi. Giovanissime mamme tedesche escono dai portoni e spingono carrozzine e passeggini. Molte di loro costituiscono famiglie monogenitoriali, mantenute dai sussidi statali. La quantità di piercing, anelli al naso, tatuaggi sulla pelle degli abitanti tradisce il forte bisogno di identità. Questo quartiere popolare nasconde una diffusa rete neonazista. Come se ne incontrano ovunque a Est, alla periferia di Dresda. Oppure nei paesi agricoli tra Schwerin e Wismar, in Meclemburgo-Pomerania Anteriore, il profondo Nord, bacino elettorale della Cancelliera: dove i commercianti mettono in vetrina riviste dai titoli “Califfato Germania” contro l’accoglienza dei profughi musulmani e “Merkel vattene”. A forza di minacce, ratti morti lasciati davanti alla porta e gavettoni di vernice contro le finestre, lo scorso inverno il partito di sinistra “Die Linke” di Chemnitz ha chiuso l’ufficio in Zietenstrasse 53, proprio nel cuore di Sonndenberg. Poco più avanti è apparsa una nuova vetrina con una macabra insegna: un teschio e i numeri otto e uno che nella numerologia estremista coincidono con le lettere H e A dell’alfabeto. Le iniziali di Hitler Adolf.

In una calda serata fuori stagione a Gera, nello stato centrale della Turingia, la polizia anticipa di qualche metro il corteo di duecento sostenitori di”Afd - Alternative für Deutschland”. Lungo la centralissima Leipziger Strasse gli agenti fanno rientrare nei loro negozi di alimentari i proprietari e i clienti dall’aspetto arabo o turco, perché i manifestanti non li vedano. Soltanto loro. Anche se abitano tutti a Gera. Come il fruttivendolo libanese a metà della via, residente e contribuente tedesco da oltre vent’anni. Una scena agghiacciante. Afd, il partito xenofobo, sta riunendo sotto un abbigliamento apparentemente borghese il consenso di “Pegida”, che tradotto significa “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente”, e dell’Npd, il partito filo nazista: un fronte antieuropeo che raccoglie simpatie e voti dalla costa sul mar Baltico fino ai confini con la Repubblica Ceca, nei distretti berlinesi di Pankow, Marzahn e Treptow-Köpenick, ma anche nei piccoli paesi agricoli ricchi degli stati federali del Sud. «Fino agli anni Novanta, la Germania era ancora uno Stato che sosteneva l’economia sociale di mercato e l’equità. Per questo avevamo basse disparità di reddito, tanto da avvicinarci ai Paesi scandinavi», spiega il grande giornalista e scrittore Günter Wallraff, 74 anni, che ha raccontato la spregiudicatezza della società tedesca in libri come “Faccia da turco” o “Notizie dal migliore dei mondi”: «Oggi invece, secondo ricerche dell’Unione Europea, soltanto in due Paesi il divario tra redditi alti e bassi aumenta più velocemente che in Germania e sono la Bulgaria e la Romania. Le crescenti diseguaglianze, la retrocessione della classe media e la campagna contro i profughi minacciano la coesione sociale. Il dieci per cento dei tedeschi possiede i due terzi delle risorse nazionali. Mentre il cinquanta per cento della popolazione si divide soltanto l’uno per cento. Se si tratta di rispettare il semaforo verde, la Germania garantisce la certezza della legalità. Ma far valere diritti più importanti, come scoprono i lavoratori che si rivolgono ai Tribunali, è molto complicato. Nelle industrie tedesche vale la legge del più forte. Se ci fosse più uguaglianza tra classi, partiti come Afd non avrebbero questo consenso». Il risveglio dell’estrema destra sta provocando una reazione uguale e contraria. Tra Neukölln e Kreuzberg, quartieri multietnici di Berlino, una coppia di omosessuali dovrà cercare casa altrove. Da qualche tempo i vicini, soprattutto turchi, li prendono a sassate ogni volta che li vedono uscire. Katharina Windmeisser, giovane inviata del settimanale “Bild am Sonntag”, da anni racconta il dramma dei piccoli profughi siriani. Ma i bambini del suo quartiere berlinese a maggioranza musulmana la insultano per strada. Semplicemente perché è bionda: quindi tedesca. «La più grande paura di molti tedeschi oggi», racconta Sascha Rosemann, 39 anni, attore e produttore cinematografico, «è l’aumento degli estremismi sui tutti e due i fronti: antisemitismo, islamofobia, omofobia si mescolano». Lontano dalle ciminiere fumanti della locomotiva industriale tedesca che per settecento chilometri da Amburgo scende fino Mannheim e Stoccarda, c’è un paese simbolo di queste opposte paure. Lohberg, ex villaggio minerario, oggi quartiere di villini a mezz’ora da Duisburg, ha dato il nome alla brigata di polizia che nello Stato islamico si occupava di interrogatori e torture. La Gestapo di Daesh, l’hanno chiamata: venticinque jihadisti, la più alta concentrazione per numero di abitanti, undici partiti per la Siria, quattro già morti. All’uscita della notizia, per marcare la loro distanza dai musulmani, molti tedeschi di Lohberg hanno piantato in giardino la bandiera oro rossa e nera. E come risposta gli immigrati turchi, operai in pensione mai veramente integrati e i loro figli ancor più nazionalisti, hanno fatto altrettanto con la loro. Una divisione ridicola, perché perfino la filiale del terrore qui è multiculturale. Philip Bergner, 26 anni, il kamikaze che a Mosul ha ucciso venti persone facendosi esplodere, era tedeschissimo foreing-fighter del paese. Così come lo è suo cugino Nils, 28 anni, diventato collaboratore della polizia dopo l’arresto. Ma ancora oggi camminare sotto i platani silenziosi di Lohberg è un continuo passaggio di confini. Come a Risiko: la Turchia al centro, la Germania tutt’intorno. E quando si cominciano a piantare le bandiere per terra, non si sa mai dove si va a finire.

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

COME LA STAMPA CENSURA LE NOTIZIE SU CRIMINI DEGLI IMMIGRATI. IN GERMANIA (E IN ITALIA?). Germania: media e polizia censurano le notizie sugli stupri degli immigrati, scrive il 22 novembre 2016 Giovanni Coppola su "Primato Nazionale", riportato il 24/11/2016 da Nexusedizioni. Ormai le cifre sono più che drammatiche. Gli stupri del capodanno a Colonia, contrariamente a quanto assicurato dal governo tedesco, erano solo la punta dell’iceberg. Le violenze sessuali su donne e minori, infatti, si sono moltiplicate vertiginosamente negli ultimi tempi, sia tra la popolazione femminile dei centri profughi sia tra le donne autoctone: una spirale di violenza che rende la giusta cifra di una vera e propria invasione. Da quando la Merkel ha varato il grande piano di accoglienza dei sedicenti “profughi”, in Germania sono affluiti circa un milione di immigrati. E il conto da pagare, per centinaia di donne (ma non solo), è stato salato: stupri, ruberie, maltrattamenti, attentati, prostituzione coatta. Insomma, il paradiso terrestre sognato dalla cancelliera, dai media prezzolati e dai buonisti plaudenti alle stazioni con i cartelli refugees welcome (il “popolaccio razzista e xenofobo” li chiama in maniera sprezzante Willkommensklatscher) si è infine rivelato un inferno. Un inferno che, però, viene deliberatamente e sistematicamente camuffato, celato, rimosso. Sia la polizia federale che i grandi mezzi di informazione, infatti, censurano ogni notizia che riguarda stupri e molestie sessuali perpetrati da richiedenti asilo e immigrati, oppure non menzionano l’etnia degli attentatori. Non si tratta di complottismo, ma di una pratica rivendicata dai suoi stessi fautori. Il Consiglio tedesco della stampa (Presserat) per esempio, senza troppi giri di parole, impone ai media un “codice deontologico” che limita pesantemente le informazioni che i giornalisti possono utilizzare nei loro articoli. Al paragrafo 12.1 del codice possiamo leggere: “Nel riferire in merito ai reati penali, i dettagli relativi al background religioso, etnico o altre informazioni generali riguardanti le persone sospettate o i colpevoli vanno menzionati solo se assolutamente necessari per comprendere la notizia riportata. Va rilevato che riferimenti del genere potrebbero fomentare pregiudizi contro le minoranze”. In sostanza, i lettori non possono sapere l’origine dei criminali. Il caso più aberrante riguarda l’identità di un richiedente asilo somalo, tale “Ali S.” con alle spalle un’altra condanna a sette anni per stupro, che ha tentato di violentare una 20enne di Monaco, poi condannato a quasi cinque anni di carcere: una testata bavarese, nel riportare il fatto, ha chiamato l’attentatore “Joseph T.”, cioè con un nome autoctono. E poi si lamentano che il popolo li definisce Lügenpresse, cioè la “stampa delle menzogne”… Ma anche la polizia non è da meno. Come ha dichiarato Hendrik Cremer dell’Istituto tedesco per i diritti umani, “la polizia non fornisce informazioni ai media o all’opinione pubblica sul colore della pelle, la religione, la nazionalità o l’origine etnica di un sospettato. Può farlo solo se assolutamente necessario, ad esempio, quando sta cercando una persona sospettata”. Di qui la protesta, che rimane per ora minoritaria, di Arnold Plickert, capo del sindacato di polizia nel Land Nord Reno-Vestfalia: “La polizia non è interessata a stigmatizzare, ma piuttosto a educare l’opinione pubblica. L’impressione che si pratichi la censura è devastante per la fiducia dell’opinione pubblica nella polizia. Condividere le informazioni sulle persone sospette è importante per sviluppare strategie di prevenzione. Ci devono permettere di parlare apertamente dei problemi di questo Paese, come parlare dell’eccessiva presenza di giovani migranti nei nostri ordini di servizio”. Benissimo, ma quali sarebbero queste “strategie di prevenzione” per le donne che rischiano di subire violenze sessuali? Ebbene, tra i consigli diramati dall’Ufficio federale della polizia criminale (BKA) c’è quello di calzare scarpe da ginnastica invece dei tacchi per poter scappare più velocemente (sic!). C’è da scommettere che le tedesche si sentiranno ora più tranquille… Ma l’isteria ideologica dei sostenitori delle “politiche dell’accoglienza” raggiunge ormai vette ineguagliabili: il preside di un ginnasio bavarese, per esempio, non ha esitato a consigliare ai genitori degli alunni di non far indossare alle loro figlie scollature e minigonne per evitare “malintesi”. George Orwell evidentemente, quando scrisse della “psicopolizia” in 1984, deve aver avuto meno fantasia dei buonisti tedeschi.

Fin qui la Germania. Ma a Gennaio un comportamento simile ve lo abbiamo segnalato anche in Svezia, in prima linea nell'accoglienza dei profughi come la patria di Angela Merkel, tanto che nelle scorse settimane una ONG svedese ha addirittura girato un video che è stato accusato di fare una vera e propria propaganda a favore della "sostituzione etnica" degli svedesi: E in Italia? Alcuni fatti significativi ci vengono dalla cronaca recente: questa notte, come riportano giornali ed agenzie di stampa, si sarebbero verificati gravi atti vandalici nella città di Torino, nell'ex villaggio olimpico ora occupato da "profughi". Così riporta la notizia Il Giornale, che all'articolo dedica anche questa copertina nel suo sito web: Notte di tensioni al Moi di Torino, l'ex villaggio olimpico occupato dagli immigrati. Intorno alle 23 nelle palazzine di via Giordano Bruno sono esplose due bombe carte, lanciate da soggetti ancora non identificati. Gli immigrati, circa trecento, sono quindi scesi in strada riversando i cassonetti, sradicando alcuni cartelli stradali e lanciando sassi e bottiglie. Sul posto, oltre alla polizia, si sono recati anche i vigili del fuoco. La situazione sembrava essersi placata, ma stamattina la tensione è tornata alta. Tra i residenti regna la paura: "Fino a ieri eravamo soltanto stufi di questa situazione di illegalità diffusa. Adesso abbiamo davvero paura". Come riporta La Stampa, i profughi sono tornati in strada e hanno gettato cassonetti sulla via, lanciano oggetti contro alcune persone che, terrorizzate, si sono nascoste nei negozi costretti a chiudere. Sul Fatto Quotidiano, la notizia viene riportata diversamente e le bombe carta che avrebbero provocato la reazione degli ospitati nell'ex villaggio olimpico sono stati già individuati…Secondo una prima ricostruzione delle forze dell’ordine, si sarebbe trattato di un gesto messo in atto da un gruppo di ultras del Torino calcio, che attribuisce ai migranti che abitano abusivamente nel complesso edilizio la responsabilità di un atto vandalico compiuto domenica al bar Sweet di via Filadelfia, storico ritrovo della tifoseria granata. Questo l'articolo del Fatto, che a differenza del Giornale usa un'immagine di repertorio per parlare della notizia. Nel sommario, traspare però soprattutto un altro modo di mostrare la vicenda: si fornisce come prima informazione l'attribuzione dei primi atti vandalici agli ultras del Torino, e la non presenza di immagini delle violenze che facciano riferimento ad immigrati allontana la possibilità di associare i gravi fatti alla politica di accoglienza migratoria del governo, imposta agli enti locali. Potrebbe essere un esempio, tra i tanti, di applicazione anche in Italia della censura in atto in Germania? Un altro esempio in questa direzione, forse più grave, può essere un'altra notizia riportata dal quotidiano on line Il Primato Nazionale, ma a cui l'informazione nazionale non sembra aver dato particolare attenzione: si tratta di un tentativo di rivolta avvenuto venerdì 18 novembre nel carcere Mammagialla di Viterbo. Ad innescarla, due detenuti monitorati come integralisti islamici. Facendo una ricerca sul sito dell'ANSA, non se ne trova la minima traccia (vedi qui). Non sorprende, allora, se chi cerca informazioni deve farlo attraverso l'editoria in rete e realtà informative alternative, fino alla creazione di interi ma ignoti movimenti di opinione di massa come quello che, attraverso Breitbart di Steve Bannon e Infowars di Alex Jones, ha contribuito in modo significativo all'elezione di Donald Trump. [Redazione NEXUS]

Viterbo: la rivolta in carcere degli estremisti islamici di cui nessuno parla. Un tentativo di rivolta è avvenuto venerdì 18 novembre nel carcere Mammagialla di Viterbo. Come riportato dai sindacati di polizia penitenziaria, a guidarla sarebbero stati due detenuti monitorati come integralisti islamici. Si legge nel comunicato: “Nel primo pomeriggio di venerdì 18 novembre all’interno della casa circondariale di Viterbo, si è verificato un incendio doloso appiccato da un detenuto monitorato come integralista islamico, che dopo aver danneggiato i suppellettili della propria stanza detentiva ed essersi barricato, ha dato alle fiamme il proprio materasso. Immediatamente si propagava all’interno del reparto detentivo una densa coltre di fumo tossico che invadeva anche i corridoi adiacenti. Prontamente diverse unità di polizia penitenziaria si portavano sul posto soccorrendo i colleghi in difficoltà ed evacuando i detenuti presenti nonostante la quasi totale assenza di visibilità e respirazione. Durante le operazioni di evacuazione un altro detenuto integralista islamico cercava di incitare alla rivolta gli altri ristretti e tentava di aggredire i poliziotti che stavano cercando di spegnere le fiamme. Tutti i detenuti sono stati portati in salvo e nessun detenuto è rimasto intossicato gravemente. Il bilancio per la polizia penitenziaria è stato ben peggiore con 7 unità inviate al locale pronto soccorso di Belcolle, di cui due sono stati ricoverati per più di 24 ore per intossicazione da fumo, gli altri 5 dimessi con prognosi di 3-4 giorni”. Un avvenimento preoccupante, inserito in un contesto di cui si parla da mesi, ossia quello della radicalizzazione alla jihad dei detenuti nelle nostre carceri ed in quelle europee. Vale la pena ricordare infatti come molti degli attentatori jihadisti in Belgio ed in Francia, entrati nelle carceri per reati comuni, abbiano costruito proprio lì il loro percorso di radicalizzazione, uscendone con una laurea in terrorismo. Fenomeno, questo, da non sottovalutare neanche in Italia e da cui anche lo stesso Alfano ed il ministero della Giustizia ci hanno messo in guardia. Singolare invece il comportamento della stampa nostrana, la quale non ha dato alcun risalto all’episodio, riportato solo in cronaca locale, così come per quello di una rivolta avvenuta in un centro d’accoglienza del Verbano Cusio Ossola sempre nello stesso giorno, questa volta ad opera dei richiedenti asilo, con sette agenti feriti e quattro arresti. Di episodi come quest’ultimo purtroppo se ne verificano molti, quasi ogni settimana: danneggiamenti di suppellettili e di immobili, aggressioni ad operatori ed a mediatori culturali, rivolte in strada da parte dei richiedenti asilo ospitati a nostre spese nelle strutture d’accoglienza. Ma per la stampa mainstream, nulla di tutto questo sta accadendo. Ruggero Vero su "Il Primato Nazionale".

Per "La Repubblica" italiani razzisti. Ma si scorda dei reati degli immigrati. Per Rep c'è "un'escalation" di violenze contro stranieri e rom: "Dieci casi in tre mesi". Ma solo a settembre decine di reati e aggressioni degli immigrati, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 11/09/2018, su "Il Giornale". L'allarmante titolo di Repubblica dice testualmente che in Italia “l’intolleranza” (verso gli stranieri, ovviamente) è ormai “legittimata”. A dimostrarlo ci sarebbero dieci aggressioni in tre mesi a sfondo razziale. Dieci. Significa più o meno tre casi al mese, e spiccioli di resto. Una “lunga estate di razzismo e intolleranza”, scrive Rep. Che però deve essersi persa qua e là un’altra (dura) verità, numericamente molto più consistente e preoccupante della presunta ondata xenofoba. Quella degli eventi delittuosi, delle risse, degli assalti, delle resistenze a pubblico ufficiale e delle violenze sessuali commesse dagli stranieri. I reati degli immigrati giustificano gli assalti razzisti? No. Anzi. Vanno condannati con durezza, raccontati, spiegati dettagliatamente. Ma farne un manifesto per paventare il ritorno di un’onda nera in Italia è sciocco. E spesso porta pure a distorsioni evidenti: ricordate il lancio xenofobo di uova? Dopo settimane di prediche sull’odio per il colore della pelle si scoprì che fu solo un fraintendimento. E che tra i giovani burloni c’era pure il figlio di un esponente Pd. Che smacco. Ecco perché parlare della "scia di odio” che “ha puntato contro migranti e rom” appare un'evidente esagerazione. Repubblica fa riferimento a “soprusi” addirittura “quasi quotidiani” (ma non erano 10 in tre mesi?), il tutto mentre l'Italia “per ordine” di Salvini fermava le navi cariche di profughi (ma che c’entra?). Forse è un modo per far credere a tutti, e maliziosamente, che “la deriva leghista e sovranista del governo giallo-verde sta facendo diventare gli italiani xenofobi”. In realtà, Rep nel pezzo ammette che “forse” non sono ancora i “numeri di un’emergenza”, ma nel titolo li presenta come se lo fossero. Eppure anche il sociologo Marzio Barbagli dice al giornalista che “non c’è un aumento dell’intolleranza” perché “non ci sono statistiche sufficienti per fare dei confronti”. Anzi: “l’insofferenza e l’ostilità” verso lo straniero - dice l'esperto - sono colpa della sinistra che non ha visto i problemi “che l’immigrazione portava” su welfare e sicurezza. Mica di Salvini. Per cui “l’escalation” di cui parla il quotidiano è frutto più di costruzioni giornalistiche che realtà quotidiane. A differenza, invece, dei tanti (troppi) casi di criminalità provocati da un’immigrazione incontrollata. Visto che c’è chi cita i “dieci casi in tre mesi”, allora è bene restare alla cronaca. E portare, solo per titoli, i motivi della preoccupazione (non “intolleranza”) di tanti italiani. Partendo da oggi, la polizia ha arrestato un 30enne di origine tunisine indiziato per aver stuprato una ragazza palermitana. Se le riforme contenute nel nascituro dl Salvini dovessero essere approvate, domani il giovane perderebbe la cittadinanza italiana che gli era stata concessa. Vedremo. E intanto andiamo oltre. A inizio settembre un’infermiera si è dovuta sentir dire “abbassa lo sguardo, sei una donna” da un musulmano entrato in un ospedale di Saronno. Pochi giorni prima a Mestre tre carabinieri sono stati feriti da un nigeriano restio a farsi arrestare: gli uffici della caserma, macchiati di sangue, sembravano un campo di battaglia. Il 9 settembre a Napoli un ghanese ha lanciato un manubrio di 10 kg addosso agli agenti che volevano solo sottoporlo a un controllo. Era irregolare sul territorio italiano. Due giorni prima, sempre durante la richiesta di documenti, a Macerata un nigeriano ha insultato e aggredito i poliziotti. Senza dimenticare i casi più famosi a Milano e Catania, finiti senza feriti solo grazie all’utilizzo del taser. Potremmo andare avanti all’infinito, altro che dieci casi in tre mesi. Dagli archivi di storie ne emergono a bizzeffe: c’è il pregiudicato marocchino espulso perché pestava la moglie incinta; c’è il ladro marocchino fermato per aver aggredito gli agenti; ci sono i tre immigrati che spacciavano cocaina ai minori; i 17 pusher stranieri che portavano avanti le loro attività illecite in spiaggia. Andiamo avanti? Non dimenticate il tunisino che manda in coma un malato di sclerosi multipla per derubarlo, le risse in Stazione centrale a Milano o quelle a Bisceglie, la guerra tra bande di nigeriani a Ferrara e la denuncia di una 74enne che sostiene di essere stata stuprata da un immigrato in casa. E ancora: il nigeriano che pesta due carabinieri (e subito viene liberato), il poliziotto massacrato in casa sua e trasformato da due migranti in una maschera di sangue, il marocchino armato di lametta che minaccia e rapina due 15enni e la rissa a Firenze a suon di cartelli stradali. Sono tutti casi che riguardano i primi 10 giorni di settembre. E basta. Vi sono sufficienti per parlare di “escalation”?

Circolare segreta del prefetto: ​"Vietato fotografare i migranti". Il documento (che doveva rimanere riservato) finisce sui giornali. Scoppia la polemica dei residenti nel Pesarese tra Borgo Santa Maria e Pozzo Alto, scrive Claudio Cartaldo, Domenica 15/10/2017, su "Il Giornale". Una circolare che fa scoppiare la polemica. Siamo a Borgo Santa Maria e Pozzo Alto, due piccoli comuni nel pesarese che da tempo sono alle prese con la presenza dei migranti. Il prefetto Luigi Pizzi, di fronte alle tante proteste dei cittadini e alle continue denunce presentate dai residenti (anche corredate di foto), cosa ha fatto? Ha messo un freno all'arrivo dei migranti? No, ha emesso una circolare per prevenire "possibili confronti verbali e fisici fra residenti e migranti dei centri di accoglienza", vietando ai residenti "privi di qualsiasi legittimazione" di fotografare gli immigrati o di chiedergli le generalità. L'ordine del prefetto inviato ai vertici delle forze dell'ordine è chiaro: "Disponete servizi di vigilanza e di controllo del territorio, con impiego di tutte le forze di polizia, onde prevenire e reprimere con rigore qualunque condotta del tipo sopra segnalati". Il documento sarebbe dovuto rimanere ad uso interno, ma il Resto del Carlino lo ha pubblcato facendo scatenare le polemiche. "Io ho il dovere - ha spiegato il prefetto Pizzi all'Ansa - di tutelare l'ordine pubblico, dando disposizioni alle forze di polizia. Se il singolo cittadino nota persone o comportamenti che ritiene possano rappresentare un pericolo per la sicurezza è tenuto a chiamare il 112 o il 113, non a intervenire direttamente, perché non ha la legittimità a farlo". La pensa diversamente Francesco Coli, legale espertissimo, già difensore di Lucia Annibali, intervistato sempre dal Resto del Carlino: "Uno può tranquillamente chiedere il nome a un’altra persona - dice - senza incorrere in nessuna violazione. E l’altra può rifiutarsi di dare le generalità, a meno, ovviamente, che a chiederle non sia un pubblico ufficiale. Sulla privacy, poi, non ci vedo estremi di violazione facendo una foto, se è in luogo pubblico. Chiaro, che se poi ne faccio un uso diffamatorio, il discorso cambia". Attualmente a Borgo Santa Maria sono presenti 95 migranti. Troppi per i residenti. Giusti per il prefetto, che per evitare problemi ha deciso di impedire ai cittadini di fare foto o chiedere le generalità ai richiedenti asilo. E a chi sostiene che non ci sia niente di illegale nel fotografare qualcuno in zona pubblica, risponde che sono "interpretazioni del diritto su cui valuterà eventualmente la magistratura". "Siamo delusi - ribattono i residenti in una nota - Qui non vogliamo creare allarmismo, ma segnalare un disagio sentito da tutta la comunità del quartiere. La problematica dei migranti è reale, vogliamo creare un dialogo costruttivo con le Istituzioni per risolverla". Critici anche i sindacati di polizia, che considerano una perdita di tempo impegnare le forze dell'ordine a controllare chi scatta fotografie invece di concentrare le forze sulla prevenzione dei veri crimini. Difficile dargli torto.

PROFUGHI, I PREFETTI ORA DENUNCIANO: OBBLIGATI DA SINISTRA A FARE PORCHERIE, scrive il 2 settembre 2018. «È vero che ne abbiamo fatte di porcherie, però quando le potevamo fare», questa l’ormai famosa frase intercettata dell’ex prefetto di Padova e oggi di Bologna Patrizia Impresa, che spiega come funzionavano le cose al tempo dei governi PD: porcherie, tutte porcherie. La donna è stata intercettata nell’ambito dell’inchiesta sullo scambio di favori tra la prefettura ed Ecofficina (oggi Edeco), la coop che vinceva tutti i bandi per l’accoglienza in Veneto. L’attuale prefetto di Bologna – che incredibilmente a differenza del suo sottoposto Aversa e del boss di Edeco Borile non è indagata – aveva anche avvisato Borile dell’imminente perquisizione dei CC. ha poi chiarito il senso generale delle sue parole spiegando che quando si è in emergenza a volte si fanno delle forzature: a quei tempi, eravamo in pieno governo Renzi, il governo inviava centinaia di profughi a settimana e a trovarsi la patata bollente in mano erano sempre i prefetti. Ora l’AP-Associazione Prefettizi, rappresentanza della casta più casta del Paese, esprime «piena» solidarietà a Patrizia Impresa a nome di tutti i colleghi: «Tutti i prefetti del territorio e i rispettivi collaboratori si sono trovati a doversi produrre in autentici salti mortali per dare esecuzione alle pressanti richieste di dare subito e comunque una sistemazione a grossi contingenti di migranti da parte degli uffici del Viminale che a loro volta sono sottoposti ad analoghe insistenze», ha scritto in una nota i presidente Antonio Corona. «I prefetti hanno dovuto sopperire a gravi criticità e inadeguatezze del Sistema Protezione Richiedenti Asilo immaginato per far fronte a qualche migliaio di persone e non a centinaia di migliaia. Amareggia quindi il poter essere messi alla gogna per alcune parole estrapolate dal contesto e dette in una conversazione colloquiale che non celavano alcuna malefatta bensì esprimevano un autentico grido di dolore. Accogliere o meno i migranti era e rimane una scelta esclusiva della politica, non dei prefetti. Ai quali andrebbe piuttosto appuntata una medaglia sul petto per essersi dimostrati pronti e affidabili al di là di ogni legittima aspettativa». Avete impestato l’Italia di clandestini, seguendo in modo pervicace gli ordini di un governo abusivo. Facendo quelle che la vostra esimia collega ha definito ‘porcherie’. Vi siete dimostrati affidabili sì, ma per gli obiettivi della mafia nigeriana: ovviamente, in modo inconsapevole. Fosse per noi, tutti i prefetti che hanno collaborato a questo scempio verrebbero licenziati. Si tratta comunque di una casta inutile e antidemocratica.

Tutta la verità sul muro di Trump, scrive il 27 gennaio 2017 Paolo Manzo su "Gli Occhi della guerra" riportato da "Il Giornale". Dopo l’avvertimento del Papa sui rischi del populismo che in passato ha creato mostri come Hitler – che molti media mainstream hanno interpretato come rivolto a Donald J Trump – dopo milioni di donne occidentali, non saudite né pakistane, scese in piazza per protestare contro quell’assassino di diritti umani che è Donald J Trump (forse l’Isis, proliferato sotto Obama, sarebbe una soluzione ai loro problemi?), dopo caterve di accuse sulla stampa più attenta al politically correct che ai fatti sui milioni di latinos che verrebbero espulsi da The Donald (Obama ne ha mandati via 2,5 milioni nel silenzio tombale di CNN & co) non poteva che arrivare il killeraggio mediatico al tycoon dopo la sua firma, l’altroieri, dell’ordine esecutivo per costruire il muro ai confini con il Messico. In realtà Trump non ha fatto altro che mantenere un’altra promessa – dopo aver fatto uscire gli Stati Uniti dall’accordo transpacifico – visto che “Costruiremo il muro e lo faremo pagare al Messico” era stato – dopo il celebre “let’s make America great again” – il suo secondo mantra elettorale più sbandierato. Nonostante le tante speculazioni dei media su altezza, chilometraggio e costi, di sicuro esiste una legge approvata nel 2006 dal Parlamento Usa (il Secure Fence Act del 2006) con i voti decisivi di molti Democratici che oggi gridano alla scandalo grazie alla quale Trump non dovrà passare al vaglio del legislativo per ottenere il “via libera” ai lavori della più grande barriera di contenimento dell’immigrazione al mondo. Inoltre è bene ricordare che sono oltre vent’anni – ovvero da quando nella campagna elettorale del 1995 Bill Clinton promise barriere per impedire il passaggio della frontiera agli illegali – che nessuno negli Stati Uniti arriva alla presidenza senza promettere la “mano dura” contro l’immigrazione clandestina proveniente dal Sud del Rio Bravo. Nessun “big media” impegnato nello sport giornalistico più praticato del momento, ovvero il “dagli al Trump” lo ricorda oggi, ma fu proprio Bill Clinton, avallando operazioni come la “Gatekeeper” in California, la “Hold the Line” ad El Paso (in Texas) e la “Safeguard” in Arizona, il primo presidente che, nell’ormai lontano e dimenticato 1994, introdusse barriere fisiche o, se preferite la terminologia inglese, “fences”, per difendere il confine Sud col Messico. Anche per questo Trump ha vinto, inutile nasconderlo con editoriali politically correct ma privi di qualsiasi legame con la realtà. E anche se alcune agenzie di stampa nostrane hanno tentato di nascondere l’evidenza con “fact checking” farlocchi (probabilmente per contrariare Alessandro Di Battista che aveva ricordato più o meno le cose che qui scrivo) basta andare sul sito del U.S. Department of Homelland Security – proprio dove Trump ha firmato l’ordine esecutivo in questione – per scoprire che, con malcelato orgoglio, il 9 ottobre 2014, l’allora segretario della Sicurezza Interna di Barack Obama, Jeh Johnson, mostrava a media assai poco critici (almeno rispetto a quelli di oggi) i risultati del boom nella costruzione alla frontiera messicana delle “fences”. O come le chiamerebbe Trump oggi, del “muro”. “Erano appena 77 miglia (124 Km) nel 2000 mentre”, diceva fiero ed applaudito dai giornalisti presenti Johnson, quel 9 ottobre 2014 “grazie al lavoro congiunto delle amministrazioni Clinton, Bush Jr ed Obama per rafforzare la nostra sicurezza, oggi le barriere (e cioè il muro) al confine con il Messico occupano almeno 700 miglia”, ovvero 1.127 chilometri, non uno di meno. La già citata legge pro-muro del 2006 che oggi consente a Trump di dare l’inizio ai lavori con un semplice ordine esecutivo non preoccupandosi di Camera e Senato, del resto, fu voluta dal presidente dell’epoca, il repubblicano George Bush Jr (che non a caso ha votato per la Clinton e con Obama ha fatto i peggio disastri in Iraq, contribuendo alla nascita dell’Isis non catturando il suo fondatore Abu Musab al-Zarqawi quando persino Bin Laden lo “schifava”), e fu votata con entusiasmo e discorsi di elogio tanto dall’allora senatrice per lo stato di New York, Hillary Clinton, come dall’allora senatore dell’Illinois, Barack Obama. Certo, la “barriera” innalzata negli ultimi 20 anni dalle precedenti tre presidenze copre solo oltre un terzo degli oltre 3mila Km di confine, ma esiste eccome. Soprattutto nella giornata della memoria che ricorda l’Olocausto la verità sarebbe opportuna raccontarla e allora – nell’attesa delle scontate polemiche che leggerete nelle prossime ore/giorni sui “grandi” media perché l’amministrazione Trump potrebbe imporre dazi del 20% sulle importazioni messicane per finanziare il muro (cosa che per la cronaca fanno 160 paesi al mondo, tra cui tutti quelli latinoamericani meno Cile, Perù, Paraguay e Panama- da anni il Brasile ha una tassazione media del 66,7% su gran parte dei beni importati senza che la CNN si sia mai scandalizzata) – finalmente Gli Occhi della Guerra ha scovato le prime, e sinora uniche, vere vittime delle politiche del losco figuro insediatosi da pochi giorni alla Casa Bianca: migliaia di polposi avocado messicani e centinaia di casse di succosi limoni argentini. Già perché sono ben 120 le tonnellate di Persea americana (questo il nome scientifico dell’avocado) bloccate alla frontiera con il Rio Bravo da giorni, dopo che stessa sorte era toccata lunedì scorso a tutti i limoni argentini, banditi addirittura per 60 giorni dalla svolta trumpiana che intende – lo accenna Reuters dando la notizia – aiutare il settore dell’agricoltura statunitense. Al di là delle politiche commerciali – staremo a vedere se tra due mesi i limoni argentini e gli avocado messicani potranno finalmente entrare negli States, sarebbe una vittoria senza precedenti per i difensori dei diritti della frutta – sui migranti clandestini, stando ai numeri reali, The Donald ne ha sinora rispediti al mittente molti di meno rispetto ad Obama il misericordioso. Quest’ultimo infatti, nella prima settimana del suo secondo mandato, ne aveva espulsi oltre mille, Trump poche decine. Per non dire dei 91 cubani rispediti all’Avana dal Messico a causa dell’abolizione da parte di Barack del decreto Clinton, che da 22 anni garantiva i diritti umani all’unico popolo oggi ancora costretto a vivere sotto il giogo di una dittatura. E che dire del muro al confine con il Guatemala sponsorizzato dal presidente messicano Enrique Peña Nieto, lo stesso che si lamenta dei muri che costruiscono gli altri, da oltre 20 anni? Questo per limitarci ai fatti che, al solito, sono sempre meno politically correct della realtà virtuale che vorrebbero imporci Soros e compagni.

Prima di Trump, vi era stato, senza alcuna copertura mediatica, il divieto di ingresso negli Stati Uniti per i rifugiati iracheni varato da parte del presidente Obama e la dichiarazione da parte di quest'ultimo di ben sette "stati terroristi", scrive il 30/01/2017 “L’Antidiplomatico". Ma prima di Obama c'era stato Bill Clinton, altro famigerato "democratico" che, addirittura, ricorda correttamente il blog Zero Hedge, aveva ricevuto una standing ovation nell'annunciar la difesa dei confini e il rimpatrio dei clandestini criminali. Queste le parole di Bill Clinton, più moderate anche di Trump: "Siamo una nazione di immigrati .. ma siamo anche una nazione di leggi". "La nostra nazione è giustamente infastidita dal gran numero di immigrati clandestini che entrano nostro paese ...Gli immigrati clandestini prendono posti di lavoro da parte diche appartengono a cittadini o immigrati legali. E rappresentano oneri per i contribuenti ... Questo è il motivo per cui stiamo raddoppiando il numero delle forze dell’ordine alla frontiera, deportando ("deporting") gli immigrati clandestini più che mai, colpiremo le assunzioni illegali dei clandestini e faremo di più per accelerare l'espulsione dei criminali. E 'sbagliato e in definitiva controproducente per una nazione di immigrati permettere questo abuso delle nostre leggi sull'immigrazione che si è verificato negli ultimi anni. E dobbiamo fare di più per fermarlo ". [Ovazione]

Trump ha sicuramente un merito, aver definitivamente aperto il vaso di Pandora dei peccati e crimini degli Stati Uniti. Trump, in altri termini, è semplicemente il vero volto dell'imperialismo nord-americano, non più celato dalla maschera dell'ipocrisia "democratica". La domanda che resta ancora senza risposta: ma dove erano quelle migliaia e migliaia di persone che si indignano oggi per Trump quando Bill Clinton pronunciava queste parole? Alcuni ad applaudire, come potete vedere dal video.

«Fake news», avvertimento dell’Ue a Facebook. Il commissario Ansip minaccia interventi diretti. Iniziativa di Tajani all’Europarlamento, scrive Ivo Caizzi, il 30 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Sulla scia dell’attacco lanciato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel contro le notizie false diffuse in rete, in vista delle elezioni in programma in autunno in Germania, l’Europarlamento e la Commissione europea intendono andare oltre le azioni nazionali e agire a livello Ue. Il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani intende promuovere una «soluzione europea» in grado di garantire la corretta informazione ai cittadini, continuando così con la linea trasversale lanciata dal suo predecessore tedesco Martin Schulz, ora candidato socialdemocratico alla cancelleria. Nell’Assemblea Ue è stata già approvata una risoluzione politica contro la disinformazione anti-Ue e a favore dei movimenti populisti, attribuita alla Russia di Vladimir Putin e ai terroristi islamici dell’Isis. Inoltre eurodeputati britannici sarebbero intenzionati a proporre una commissione d’inchiesta sulle cosiddette «fake news», sull’esempio di quella appena lanciata da loro colleghi del Parlamento di Londra. Alla Commissione europea, dopo una promessa generica di intervento del presidente lussemburghese Jean-Claude Juncker, il commissario estone Andrus Ansip ha annunciato interventi sui vari Facebook, Google o Twitter, qualora questi social network non introducano adeguati controlli per impedire la circolazione in rete di notizie false. Oltre alla Germania, vari governi Ue appaiono favorevoli ad approvare una legislazione europea per arginare la disinformazione tramite i social network. Numerosi premier europei si sono allertati dopo quanto è successo nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, dove la vittoria del repubblicano Donald Trump è apparsa favorita anche dalle notizie negative sulla candidata democratica Hillary Clinton. Ma in alcune capitali Ue non vorrebbero rischiare le polemiche e le proteste del popolo della rete, che scaturirebbero in caso di restrizioni della libertà di far circolazione le notizie sul web. Per questo la Commissione europea intenderebbe iniziare a fare pressione sui principali social network per convincerli ad attuare un «codice di condotta» contro i tentativi di disinformazione sul web. Il commissario Ue Ansip ha però ammonito che, se i vari Facebook, Google o Twitter non si assumeranno maggiori responsabilità nel controllare le notizie che consentono di diffondere, l’alternativa saranno gli interventi di Bruxelles. «Sono preoccupato, e tutti sono preoccupati, dalle notizie false, specialmente dopo le elezioni negli Stati Uniti — ha dichiarato Ansip al quotidiano britannico «Financial Times» —. Credo fermamente nelle misure di autocontrollo. Ma, se sarà necessario qualche tipo di chiarimento, saremo pronti». In ogni caso, se in Germania dovesse passare una legislazione restrittiva sulla diffusione di notizie false (si parla di introdurre multe ai social network fino a 500 mila euro), Merkel appare in grado di influenzare i successivi interventi della Commissione di Juncker.

Attenti, arriva la censura: Google punisce il blog di Messora, scrive Marcello Foa su “Il Giornale” il 29 gennaio 2017. Quanto sta avvenendo in queste ore a Claudio Messora, autore del blog ByoBlu, è grave. Google AdSense gli ha comunicato l’interruzione immediata e irrevocabile del proprio servizio. Cos’è Google AdSense? Semplifico al massimo per i non addetti ai lavori: è la pubblicazione automatica di inserzioni pubblicitarie che garantisce un introito a chiunque sia disposto ad ospitarle. Più traffico, più pubblicità: gli importi sono minimi ma servono a garantire un po’ di redditività sia ai singoli utenti sia ai gruppi editoriali, che a loro volta ne fanno uso. Claudio Messora, qualche ora fa, ha annunciato di aver ricevuto un’email da Google in cui viene accusato di aver pubblicato una “fake news” e in cui si annuncia la cancellazione immediata e non contestabile di AdSense. Naturalmente Google non dice a quale titolo si arroghi il diritto di discriminare tra notizie false e vere. E sapete qual è la “fake news” imputata a ByoBlu? Il filmato di un intervento dell’onorevole Lupi tratto dal sito della Camera dei deputati italiani e pubblicato senza commenti sul blog! Voi direte? Messora scherza e Foa ci è cascato. Niente affatto: tutto vero. L’arbitrarietà della decisione di Google è scandalosa ma non sorprendente. I blog, i siti alternativi e i social media hanno svolto un ruolo decisivo nelle campagne referendarie sulla Brexit nel Regno Unito e sulla riforma costituzionale in Italia; e soprattutto alle presidenziali statunitensi contribuendo alla vittoria di Trump. Come ebbi modo di spiegare qualche mese fa, l’influenza della cosiddetta informazione alternativa ha assunto proporzioni straordinarie, approfittando della disillusione popolare nei confronti di troppe grandi testate tradizionali, che col passare degli anni hanno perso la capacità interpretare le necessità di una società in continua evoluzione, ammansendo il proprio ruolo di cane da guardia della democrazia, per eccessiva vicinanza al governo e alle istituzioni. Non tutte le testate, sia chiaro e non in tutti i Paesi: ma in misura tale da generare una frattura fra sé e il pubblico, come dimostra il fatto che la grande maggioranza dei media inglesi era favorevole al Remain e che la totalità dei media sosteneva Hillary ed è stata incapace di prevedere la vittoria di Trump. Un’onda si è alzata e spinge milioni di lettori a cercare fonti alternative sul web; alcune di qualità, altre meno, alcune credibili altre no, come peraltro è naturale e legittimo in democrazia. Un’onda che l’establishment, soprattutto quello anglosassone, che è il più influente nella nostra epoca ora cerca di fermare. E nel peggiore dei modi.  La crociata avviata negli Usa e in Gran Bretagna contro fake news e post verità è chiaramente strumentale ed è stata solertemente recepita in Europa (la risoluzione approvata dal Parlamento Ue contro la propaganda russa rientra in questa corrente) e in alcuni Paesi europei tra cui l’Italia, dove il presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini recentemente ha annunciato l’avvio di una campagna contro le bufale sul web. Annunci che sono serviti a preparare l’opinione pubblica. Ora si passa dalle minacce ai fatti, attraverso i due Grandi Fratelli del web. Facebook, che ha già cominciato a segnalare come “pericolosi” alcuni blog (ad esempio, ma non è l’unico, quello di Maurizio Blondet), e Google che toglie ai siti anticonformisti la possibilità di finanziarsi, prendendo a pretesto, con sprezzo del ridicolo, proprio un post in cui viene diffuso un frammento di un dibattito del Parlamento presieduto dalla stessa Boldrini, quanto di più innocente e di ovvio ci sia in democrazia. Resta il fatto che Google si arroga il diritto di giudicare e di censurare un sito libero, per ora solo finanziariamente. Domani, chissà. Vi invito a guardare questo video di Messora, sono sei minuti di ottimo giornalismo. Giudicate voi. Io esprimo a Claudio Messora tutta la mia solidarietà. E la mia indignazione. E’ in pericolo la libertà di pensiero e di espressione.

Il blog ByoBlu e i 200 siti a cui Google ha tolto la pubblicità per la lotta alle fake news. Il sito di Claudio Messora, ex consulente della comunicazione M5S, è tra quelli che non potranno più utilizzare il servizio per l’advertising AdSense. La replica: «Mina alla libertà del web», scrive Michela Rovelli il 30 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Tra i centinaia di siti che non potranno più utilizzare AdSense, la piattaforma per la pubblicità online di Google, c’è anche l’italiano Byoblu. Lo ha rivelato il fondatore: il blogger di lunga data Claudio Messora, che ha iniziato con un canale Youtube nel 2007 — oggi seguito da più di centomila utenti — per poi aprire anche il sito, dalle cui pagine, come lui stesso dice, scrive e descrive «le sue posizioni critiche sulle relazioni tra le grandi banche d’affari, la speculazione internazionale e i governi». Toni forti e argomenti d’attualità. Non sempre, secondo Mountain View, veritieri. Contenuti ingannevoli, quindi. E quindi contrari alla nuova policy della società. Da novembre, infatti, Google ha intensificato gli sforzi per migliorare l’esperienza di navigazione online degli utenti, in un periodo in cui si parla così tanto di bufale e disinformazione. E ha annunciato la possibilità di interrompere anche il suo servizio AdSense per coloro che diffondono contenuti considerati non adeguati. Duecento i publisher finora sospesi. Tra cui ByoBlu, fa sapere lo stesso Messora in un videomessaggio dove denuncia l’ingiusta — secondo lui — decisione. Il distinguo tra ciò che è falso e quello che non lo è non è semplice, di certo resta la sospensione del servizio per il blog di Messora, vincitore nel passato, come ha scritto nella sua bio, di premi giornalistici come il Premio Agenda Rossa e il XXXI Premio Ischia Internazionale del Giornalismo. Il responsabile di Byoblu parla di una campagna «contro le cosiddette “fake news” orchestrata da Hillary Clinton, dal Parlamento Europeo, da Laura Boldrini, da Angela Merkel e da tutti quelli che hanno paura che l’informazione libera possa scalzare i loro privilegi e la loro posizione di forza». Definisce poi il 27 gennaio (quando gli è stato recapitato l’avviso), «il giorno più pesante per l’informazione libera da dieci anni». Nessun commento da Google. Il motore di ricerca, che ha bloccato il rapporto con ByoBlu solo per quanto riguarda la piattaforma AdSense, ma senza nessun intervento sull’indicizzazione del blog, fa sapere di inviare insieme alla segnalazione di disattivazione dei servizi pubblicitari anche un link con la possibilità di fare ricorso. La «denuncia» è stata ripresa anche dal blog di Beppe Grillo. Con lui Claudio Messora ha lavorato: è stato per un breve periodo responsabile della comunicazione del Movimento Cinque Stelle all’Europarlamento. Poi licenziato dallo stesso Gianroberto Casaleggio. Ma l’appoggio, in questa sua battaglia contro Google, è totale. L’appello del blogger viene pubblicato per esteso su beppegrillo.it con una breve frase introduttiva: «Quanto successo al blogger Claudio Messora è gravissimo. Siamo dalla parte dell’informazione libera in Rete. Diffondete». C’è chi — Google — le bufale prova a combatterle senza esclusione di colpi, e dunque togliendo loro il principale motivo di diffusione, quello economico. E chi si dichiara vittima di questa guerra alla disinformazione online, vedendo nelle mosse come quella di Mountain View, un sabotaggio della libertà garantita dal web.

Oggi attaccano Byoblu.com. Ma sarà presto un attacco contro tutti i dissidenti, scrive Pino Cabras su MegaChip riportato da Claudio Messora il 29 gennaio 2017 su Byoblu. Fa molto bene Claudio Messora a sottolineare che il vero obiettivo della campagna contro le ‘fake news’ non erano certo quei cialtroni che infestano il web di notizie false, razziste e irresponsabili per acchiappare clic, che pure ci sono e da chissà chi sono mossi. No, il vero obiettivo politico era ogni forma di dissidenza informativa, ogni voce non inserita in quell’oligopolio che controlla – con apparente pluralismo ma sostanziale totalitarismo – la galassia dei media tradizionali, un mainstream in radicale crisi di credibilità e ormai in modalità panico. E fa anche bene Messora a non fare tanti giri di parole quando fa i nomi dei maggiori artefici di questa sistematica volontà di censura, che stanno dentro le istituzioni e nelle aziende dominanti delle telecomunicazioni. Sono nomi che si muovono in un sistema legato mani e piedi al blocco d’interessi di cui Hillary Clinton sarebbe stata il maggiore garante, se non avesse subito il rovescio elettorale. E’ un blocco che ha una sua ideologia e che ha ancora molto potere: perciò vuole trasformare l’ideologia in misure concrete, mirate, inesorabili. Così, accanto al lavoro ai fianchi ideologico (in cui si fa aiutare persino da gente che crede di difendere la libertà), fa un lavoro più sporco, inteso a prosciugare le risorse del dissenso. Oltre alle personalità e istituzioni citate da Messora, è bene ricordare anche la NATO, un’organizzazione sempre più attenta a inserire nelle azioni di guerra anche la “guerra della percezione“: ha persino redatto un “Manuale di Comunicazione Strategica“, che intende coordinare e sostituire tutti i dispositivi antecedenti che si occupavano di Diplomazia pubblica, di Pubbliche relazioni (Public Affairs), di Pubbliche Relazioni militari, di Operazioni sui sistemi elettronici di comunicazione (Information Operations) e di Operazioni Psicologiche. Sono azioni coordinate ad ampio spettro, portate avanti da strutture dotate di risorse immani e che lavorano ventiquattr’ore su ventiquattro in coordinamento con i grandi amministratori delegati di imprese del calibro di Google. L’offensiva è dunque in atto e viene da lontano. Un’eminenza grigia molto importante dell’Amministrazione USA uscente, Cass Sunstein, anni fa scrisse un saggio in cui – oltre a teorizzare l’«infiltrazione cognitiva» dei gruppi dissenzienti, da perfezionare spargendo disinformazione, confusione, e calunnie – invitava il legislatore a prendere «misure fiscali» (diceva proprio così) contro i propugnatori delle “teorie cospirazioniste” e per l’assoluto divieto di esprimersi liberamente su quanto sia disapprovato dalle autorità. Ci siamo a suo tempo chiesti dove volesse andare a parare, il prof. Sunstein. Voleva dire che chi dissente paga pegno allo Stato? E come diavolo doveva chiamarsi questa nuova imposta? All’epoca erano misteri e deliri di un professore di Harvard, un costituzionalista che ripudiava i capisaldi della Costituzione scritta americana. Ma nel frattempo quel delirio si è fatto strada e si è fatto sistema di potere. E’ bene ricordarlo a quelli che si scandalizzano per Trump senza accorgersi che le ossessioni contro la libertà di espressione hanno colonizzato le istituzioni e i media in cui hanno riposto fiducia, anche a casa Clinton e a casa Obama. Oggi attaccano Byoblu.com. Ma sarà presto un attacco contro tutti i dissidenti. E’ una questione già maledettamente seria. Anche chi non va d’accordo con Byoblu, con Megachip, con PandoraTV.it e altri ancora, farà bene a sostenerli economicamente e difenderli politicamente. Lo dovrà fare per salvare il pluralismo da un’ondata di “maccartismo 2.0“, un’isteria che vuol fare tabula rasa dell’informazione non allineata.

L’altra faccia delle fake news. Si dia nuova dignità alle persone poiché qui convivono sia lo scrittore che il lettore: il problema fake news va risolto all'interno di questa ambiguità, scrive Giacomo Dotta il 30 gennaio 2017. Quando ci si ferma a riflettere (e a scrivere, cose spesso coincidenti) di “fake news”, il discorso slitta sempre sul medesimo versante: quello di chi produce, elabora, distribuisce, pubblica. In generale, la parte analizzata è sempre quella che emette la notizia, nei diversi livelli, nei diversi ruoli e nelle diverse fasi in cui vi si partecipa: chi la pensa, chi la scrive, chi vi trova uno spazio di pubblicazione, chi la distribuisce. Tali disamine sembrano dare per scontata la figura passiva (o di eco semiautomatico) del lettore. Con tutta evidenza trattasi però di un discorso zoppo che, nel proprio lento incedere, sembra in grave difficoltà: di fatto il problema delle “fake news” trova oggi ben poche ipotesi costruttive, ognuna delle quali smontate rapidamente da schiere di critici pronti a sfoderare validissime questioni di principio. Di fatto, però, non se ne esce: Google ha fatto bene a fermare ByoBlu? Ma con che diritto Google e Facebook possono decidere chi o cosa ha diritto di essere retribuito o divulgato? Cosa distingue una fake news d’agenzia da una fake news da retweet? Quando, chi e come si decide che una notizia è “fake”, immaginando quest’ultima parola nel suo senso assoluto di sanzione definitiva e deliberata?

Le ragioni del lettore. La sensazione è che queste considerazioni siano zoppe poiché non considerano a sufficienza le motivazioni che stanno alla base di un fronte parallelo e complementare: le ragioni del lettore. Di quest’ultimo spesso si son lette disamine massimaliste, raramente volte ad approfondirne ragioni recondite. A questo punto è però il momento di fare un passo avanti per considerare entrambi i lati della questione.

Bipolarismo. Ognuno di noi è lettore e scrittore allo stesso tempo. Una novità assoluta, per molti versi, e qualcosa di cui non abbiamo ancora esattamente piena coscienza. Succede poiché ognuno di noi ha oggi mezzi e capacità per fare entrambe le cose: per leggere, poiché l’informazione è libera e gratuita come mai lo era stato in passato; per scrivere, poiché mai come oggi sono disponibili strumenti e piattaforme che offrono a chiunque l’opportunità di farsi leggere, notare, ascoltare. Un aspetto differente, e più interiore, è invece disponibile in varia misura e non sempre a sufficienza: la capacità di capire, analizzare ed elaborare. Di qui la carenza di alcuni lettori e alcuni scrittori, i quali si trovano arricchiti soltanto di strumenti e non di capacità intellettive realmente all’altezza. In questo bipolarismo v’è la complessità della natura di ognuno di noi. Ma se siamo una figura così complessa, nella quale per la prima volta lettore e scrittore coesistono all’interno della stessa entità intelligente, allora non possiamo continuare ad analizzare una parte (quella dello scrittore) come fosse una figura profonda e degna, mentre quell’altra parte (quella del lettore) rimane ferma tra gli archetipi dell’entità passiva. Il lettore (così come il votante) è spesso considerato come unità singola di una grande massa, qualcosa di cui ragionare solo in termini quantitativi e statistici: goccia nel mare, uno tra molti, polvere di big data. Perché questa asimmetria? Si tratta probabilmente anzitutto di una eredità dei decenni passati, quando la cultura mainstream dava sicuramente maggior dignità a chi stava “dall’altra parte dello schermo”: sorridere alla telecamera o sedere in una redazione era questione di potere, mentre oggi è cosa democraticamente disponibile a chiunque abbia accesso a pc, internet e webcam.

Animale e bot. Ed è così che il lettore (così come il votante) spesso è dipinto come una capra che sbatte la testa contro false soluzioni senza essere in grado di identificare i veri problemi; è dipinto come un asino illetterato che non è in grado di capire realtà troppo complesse; è ritratto come una pecora, pronto a seguire la massa quand’anche quest’ultima dovesse andar dritta verso un suicidio di massa. Eccola l’epoca dei populismi e delle fake news, due facce della stessa medaglia (espressioni di una medesima dinamica, ma non certo ricollegati in modo esclusivo): chi vende fake news e chi vende populismi, del resto, sta vendendo una versione della realtà per fini differenti: propagandistici in un caso, di mercato editoriale nell’altro. Populismi e fake news, insomma, mettono a disposizione versioni di realtà ritagliate su indagini quantitative per far sì che qualcuno creda, clicchi e voti. Spesso il discorso termina qui: il lettore/votante è capra, pecora o asino, se non addirittura bot, ma in ogni caso destinato ad agire in preda ad allucinazioni collettive e secondo schemi prestabiliti dalla statistica e dalla sociologia. Le bufale, l'imporsi di improbabili medicine alternative, fake news, ronde per la sicurezza dei quartieri: se fossero fenomeni con una matrice comune?

La dignità del lettore e del votante. «La gente vuole essere continuamente rassicurata che quello che già crede sia vero». Marco Montemagno ha ottimamente riassunto in questa frase una situazione ormai radicata, fotografando alla perfezione quello che è il rapporto odierno tra chi produce l’informazione e chi la fruisce (e ricordiamolo: ognuno di noi siede sia da una parte che dall’altra in funzione delle proprie attitudini, emotività, impulsi). Ma occorre fare un passo oltre e chiedersi “perché”. Perché abbiamo bisogno di essere rassicurati che quello in cui si crede sia vero? Perché siamo disposti a cercare argomenti ovunque, purché possano puntellare le nostre ipotesi? La risposta potrebbe essere al di fuori dei semplici schemi della politica e della comunicazione, ed essere invece molto più inerente a quelli dell’identità e della coscienza di sé.

Le difficoltà del “sé”. Chi sono? Come mi posiziono in questa società? Qual è il mio ruolo? Trattasi di domande che sempre più spesso faticano a trovare una risposta. Succede perché la società è in profondo cambiamento per molti motivi, i ruoli sono mutevoli e la formazione del “sé” si fa così sempre più complessa. La famigerata complessità dei problemi non esenta le persone, le quali si trovano immerse in sconvolgimenti che avvengono a ritmo sempre più rapido, immerse in flussi di informazioni a cui non siamo né abituati, né culturalmente pronti. L’analisi del lettore e del votante porterebbe dunque probabilmente a questo rapporto con la politica e con l’informazione: la persona ha assoluto bisogno di trovare conforto nelle proprie convinzioni, cercando di volta in volta argomenti per consolidarle o candidati per supportarle. Non si può rinunciare al sé (o alla percezione che si ha di sé), soprattutto quando ogni singolo giorno ci sono milioni di utenti pronti a confutare le tue tesi, milioni di statistiche pronte a demolire le tue convinzioni e milioni di occasioni di scontro in cui affogare in una bulimia di argomentazioni. Il sé diventa fondamentale poiché ultima comfort-zone rimasta, pur se sempre più angusta e violentata. L’utente che crede nella bufala, lo fa perché si sta semplicemente difendendo: fa spazio attorno a sé e fa community, cercando rifugio ora in questo ed ora in quel gruppo. Sono i gruppi a definire il sé, non viceversa: sono i luoghi comuni in cui rifugiare temporaneamente la propria identità, costruendola di volta in volta attraverso queste vesti temporanee. La paura porta alla chiusura, il coraggio porta a spogliarsi. La bufala e il meme, il teorema complottistico e i grandi afflati para-rivoluzionari sono la coperta di Linus di cui abbiamo bisogno per sentirci al sicuro, insomma. All’interno di una tempesta, non ci si ferma troppo all’analisi poiché sarebbe deleterio: all’interno dell’attuale tempesta sociale, mettere in discussione le proprie convinzioni (segno inconfutabile di intelligenza) diventa quindi pericoloso e in assenza di basi solide si preferisce la tana che mette rapidamente al sicuro. Qualunque essa sia. Trovare una tesi che conforta offre la stessa sensazione della coperta calda; condividere questa tesi tra i propri amici è un modo per scaldarsi ancora di più e rafforzare la propria posizione in un branco (perché l’uomo è sì animale, ma non capra o asino: è uomo). Il linguaggio è quindi sempre di più atto perlocutorio, poiché automaticamente richiamo all’azione. Lo pretende la struttura stessa dei social network, ove oggi si riversa gran parte delle comunicazioni interpersonali, ove l’interazione è quel che l’elettricità rappresenta per l’energia.

Immigrati liberi di occupare. Il disagio sociale è sicuramente un problema, ma il Far West è assai più pericoloso, soprattutto se benedetto dal ministro dell'Interno, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 27/08/2017, su "Il Giornale". Il ministro Minniti ha dimostrato di sapersi muovere con fermezza e buon senso e gliene abbiamo sempre dato atto. Ma sulla gestione del dopo sgombero degli immigrati di Roma qualche cosa si è inceppato al vertice del ministero dell'Interno e della polizia. Peggio del «non fare» c'è solo il fare e poi pentirsi di averlo fatto. Così come a disorientare i soldati sono i generali che danno ordini e contrordini creando solo caos, così i cittadini rimangono disorientati da uno Stato che smentisce se stesso. Qualcuno deve avere pur deciso - per fortuna e finalmente diciamo noi - di intervenire per sloggiare gli abusivi di piazza Indipendenza. E quel qualcuno doveva pur sapere che uno sgombero è una operazione in sé violenta, anche se condotta in guanti bianchi. Perché a volte fare rispettare la legge è cosa violenta. Sono violente le cartelle di Equitalia, lo sono i pignoramenti, lo sono un avviso di garanzia e un arresto preventivo, lo è una sentenza di divorzio che toglie l'agibilità dei figli a uno dei due genitori. La democrazia è violenta perché deve imporre a tutti, senza distinzioni di censo, sesso e credo, il rispetto delle regole e l'unico spartiacque è se qualcuno, investito dell'ingrato compito, abusa di questo enorme e delicato potere. Non risulta - salvo un eccesso verbale rimasto senza seguito - che a Roma i poliziotti abbiano commesso abusi. Anzi, semmai è stato documentato il contrario. Minniti, quindi, si sta pentendo non di un fatto ma del fatto: «Mai più sgomberi senza prima aver individuato soluzioni alternative». Che è come dire: la legge va fatta rispettare solo quando è possibile e il farlo non crea complicazioni. Quindi - il ministro mi passi la semplificazione - se non trovo parcheggio posso lasciare la macchina in divieto di sosta, se non ho soldi non pagare le tasse, se ho fame rubare. Il disagio sociale è sicuramente un problema, ma il Far West è assai più pericoloso, soprattutto se benedetto dal ministro dell'Interno. Che, come purtroppo tutti i politici, nel momento critico diventa culturalmente succube di tre giornali, quattro opinionisti salottieri e qualche vescovo che gli danno del fascista. Mi perdoni, signor ministro, non si lasci intimidire: violento è chi, immigrato o no, le case le occupa, non lei che, per una volta, aveva deciso di liberarle come prevedono le legge e la Costituzione.

Parla Valentina Nappi: "Io, pornostar comunista. Sapete con chi voglio fare sesso?". Intervista di Alino Milan del 3 febbraio 2017 su "Libero Quotidiano”. Per far capire di chi stiamo parlando, Valentina Nappi è una che su Facebook ti accoglie così: “Per quelli che trovano il mio numero e rompono: sono misantropa, se siete fighi\e delle madonna mandate le foto, altrimenti evitate di rompere il cazzo. Cordiali saluti”. Insomma, Valentina Nappi non si sforza di piacere al prossimo. Poi, provate a intervistarla se vi riesce. Fa la spola tra l’Italia e gli Stati uniti, dove si trova anche ora, compare e scompare in sporadici contatti mail e soprattutto risponde a ciò che vuole. Quando non le piace la domanda, passa. Inutile insistere. Se però riuscite a far breccia nel suo cervello, e a quanto pare ne ha, la sentirete spaziare a tutto campo: dalla filosofia all’economia, dall’attualità alla politica. Senza trascurare ovviamente il sesso, dato che Valentina Nappi, 25 anni, di Scafati, lavora nel porno. E il 23 gennaio è stata vincitrice agli Avn Awards, in pratica gli Oscar dell’hard, nella categoria «migliore scena a tre» (per la cronaca, due donne e un uomo).

Valentina, dicono tu sia la pornostar italiana più pagata. Quanto guadagni? 

«Non lavoro sempre. Nei mesi in cui lavoro posso guadagnare dai cinque ai quindicimila euro lordi, da cui ovviamente vanno detratte spese e tasse. Non mi posso lamentare, ma non sono certo ai livelli di un qualsiasi personaggio del mondo dello spettacolo di fama pari alla mia».

Sulla carta di identità che c’è scritto alla voce “professione”? 

«Ho una carta di identità vecchia. A ogni modo un pornoattore è una via di mezzo fra un performer e un attore. In un certo senso è più di un attore, poiché è chiamato a muoversi sul confine tra rappresentazione e performance. Ma direi che attore va bene».

Valentina Nappi: attrice. 

«Sì, se facciamo riferimento a un’accezione sufficientemente ampia del termine, entro cui cada anche l’attore che improvvisa, l’artista performativo, il ginnasta e chiunque dedichi la propria vita alla ricerca della bellezza di un gesto pubblico».

Valentina Nappi ginnasta: il riferimento, immagino, è alle contorsioni…

«No: il riferimento, come detto, è alla ricerca della bellezza di un gesto».

Che ne pensi delle violenze sulle donne a Capodanno in Germania? Secondo te c’entra l’islam? 

«È una domanda mal posta sul piano logico. L’islam è una religione, è diffusa in contesti estremamente differenti tra loro, contesti il cui grado di modernità e sviluppo varia enormemente. A ogni modo io sono contro tutte le religioni».

Ma è in corso una battaglia di civiltà tra noi e l’islam? Quanto c’entra la libertà sessuale in questo discorso? 

«La battaglia di civiltà è tra la modernità e le forze, come ad esempio la religione cattolica, che provano a resisterle. La modernità è la morale autonoma kantiana, l’utilitarismo benthamiano, il positivismo, il futurismo e in futuro probabilmente il comunismo. Le forze che le resistono sono le tradizioni, le religioni, il conservatorismo sociale e il conservatorismo economico (che oggi è rappresentato dal nefasto neoliberismo che erode i diritti del lavoro)».

Il comunismo è il futuro?! Veramente mi sembra più il passato, e anche nefasto. O no? 

«Quello che dici è la banale vulgata di destra sull’argomento. Non intendo replicare perché il discorso sarebbe estremamente lungo».

Hai scritto su Facebook: “Io sono femmina, non sono donna. Perché alle donne piace abbuscare”, che poi in napoletano significa “prendere botte”. Me la spieghi?

«Donna viene da “mea domina”, è un lemma di origine stilnovista, non mi piace. Mi fa pensare ai ruoli di genere. E una che accetta i ruoli di genere come la porta aperta dall’uomo, essere servita prima al ristorante e cose così, dovrebbe essere coerente e accettare anche di abbuscare».

Fammi capire, dato che in un’altra occasione hai detto “han provato a farmi il baciamano, ho risposto baciami il culo”. Se una donna accetta una galanteria, è giusto che accetti anche uno sberlone? 

«Non è questo il punto. Il punto è che lo sberlone e la galanteria appartengono alla stessa cultura, che viene dal passato».

Valentina Nappi e i profughi: tu sei contro le barriere e i confini. Sei dunque contenta che il governo Renzi vuole togliere il reato di clandestinità? 

«Io non sono per la libertà di movimento di quelli che sono contro la libertà di movimento. Quelli li confinerei in uno Stato tutto loro e non li farei uscire».

Non credi che gli immigrati poveri e senza lavoro portano un maggiore tasso di criminalità? 

«Qualsiasi economista serio (un Giavazzi, per esempio) ti farebbe notare che gli immigrati costituiscono una ricchezza. Quasi in nessun caso c’è stato un aumento statisticamente significativo dei crimini nei Paesi che hanno aperto le porte all’immigrazione».

Una volta hai ammesso di avere fatto sesso con un profugo, è vero? 

«Ho fatto sesso con immigrati, ma credo si trattasse di immigrati regolari».

Sei anti leghista. Se uno vota Salvini tu lo banni e lo cancelli dai social. Perché? 

«Per dargli una sberla virtuale, sperando che si svegli».

C’è qualche politico che vedresti bene in un tuo film? 

«Passo. Che palle».

Dimmi allora che pensi del “bunga bunga” di Berlusconi. 

«Ci deve far vergognare. Ti rimando al mio video: “La do a tutti tranne che al capo”».

Il video è in rete, Youtube l’ha rimosso ma si trova facilmente. Dura 14 secondi, ci sei tu in costume che dici appunto questa frase. Stop. Cos’è, un invito alle donne a darla il più possibile, anche gratis, ma non al potente di turno? 

«Direi solo gratis. Quelle che la danno per interesse hanno tutto il mio disprezzo. Quanto alle meretrici, non sono proibizionista ma dovrebbero metterci la faccia e praticare prezzi accessibili anche all’operaio, altrimenti nella migliore delle ipotesi sono usuraie che sfruttano la frustrazione sessuale maschile. Ad ogni modo mi fa schifo che una possa avvantaggiarsi socialmente, economicamente o nella carriera per il semplice fatto che ha la figa».

Nel 2011 l’Agenzia delle Entrate disse che in Italia la porno-tax ha portato oltre 21 milioni di euro allo Stato. È una tassa giusta per te? 

«Il dato mi sorprende. Ma probabilmente vi si fanno rientrare molte cose (come la vendita di sex toys…). Sicuramente la parte che deriva dalla produzione e vendita di video sarà insignificante».

La Diesel di Renzo Rosso farà pubblicità sui siti porno, perché “lì la gente va a cliccare”. Che ne pensi? 

«È una buona notizia, dato che invece normalmente la pubblicità sui siti porno rende pochissimo».

Valentina, in Italia si parla di Unioni civili. Sei a favore? 

«Certo».

Due omosessuali devono poter adottare un bambino? 

«Assolutamente sì. Reputo assurdo che ci si ponga anche il problema».

Sabato però c’è stato il Family Day. Che pensi di quelle persone in piazza?

«Non tutti sono condannati a essere intelligenti».

Parliamo del tuo lavoro: una pornostar sul set fa finta di provare piacere? 

«I maschi secondo te godono davvero? E se i maschi godono davvero, perché le femmine non dovrebbero? La tua domanda è evidentemente sessista».

Non è sessista. D’altronde pesco da una tua vecchia intervista: “le donne che fingono l’orgasmo dovrebbero essere segnalate in una qualche lista pubblica!”. 

«Vuol dire che il fatto che fingano è un problema. È un po’ come la gente che ricorre all’adulazione, credendo di non far nulla di male ma alla lunga producendo più infelicità che felicità».

Massimo Boldi ti chiese: “Ma perché una ragazza bella come te fa porno?” e tu: “Per avere la possibilità di fare gang bang con dodici neri”. Al di là delle battute, mi dici davvero perché lo fai? 

«L’ho spiegato varie volte e quel tweet è in un certo senso una sintesi. Se preferisci che ti dia un’altra risposta, che magari non metta in crisi la tua visione del mondo, scrivitela da solo».

Nella mia domanda non c’era alcun giudizio morale. Ma come a me chiedono perché faccio il giornalista e rispondo, tu spiegami perché fai la pornostar.

«Perché ti dà possibilità di esplorare, ricercare, approfondire, anche grazie al rapporto con la cinepresa, che altrimenti non avresti».

Rocco Siffredi dice di essere guarito dalla dipendenza da sesso, a te spaventa questa patologia? 

«È una presunta patologia che non esiste. Non è riconosciuta dalla comunità medica. Su Rocco mi sono già espressa e non intendo tornare sull’argomento».

Quindi le cosiddette “cliniche del sesso” dove vanno anche i vip per disintossicarsi sono inutili? 

«Non le conosco».

Su Rocco non vuoi esprimerti, però lui ha lanciato una petizione on line per introdurre l’educazione sessuale a scuola. Tu la firmeresti?

«No, ma la spiegazione sarebbe estremamente lunga».

Cosa significa trasgressione per te? 

«È una cosa negativa. È una forma di incoerenza. Io sono per la coerenza col proprio punto di vista e se si è coerenti non si trasgredisce».

Mettiamo che giri sul set per otto ore, poi vai a casa e contempli l’idea di fare ancora sesso?

«Ci sono tanti modi di fare sesso. Al pilota di Formula 1 capiterà anche di guidare un’utilitaria in città o di fare una tranquilla gita fuori porta».

Hai fatto casting pubblici per pornoattori ma non hai ottenuto grandi risultati: significa che non sappiamo più fare sesso?

«Forse manca soprattutto chi prenda seriamente il mestiere di pornoattore».

Dimmi allora una caratteristica imprescindibile per fare il pornoattore. 

«La più importante è la testardaggine nel migliorarsi. Il pornoattore deve essere un po’ come un maestro di sushi o come un qualsiasi artigiano che lavori con la gestualità: deve provare e riprovare, vedere cosa viene fuori, modificare un po’ i particolari, cercare allo stesso tempo l’eleganza e la potenza dell’immagine trasmessa».

Il porno e la paura di contrarre malattie. Quanto ci pensi? 

«È ben noto che la gente sopravvaluta certi rischi e ne sottovaluta altri. Ad esempio, il rischio rappresentato dagli attentati terroristici è enormemente amplificato dalla percezione collettiva, mentre quello degli incidenti stradali è molto sottovalutato. Ecco: il rischio di contrarre l’hiv per un pornoattore è prossimo allo zero».

Con quelle acrobazie sul set, problemi fisici ne hai?

«Nessuno».

Già, sei giovane. Pratica sessuale preferita sul set e in privato?

«Non ho pratiche preferite. Sono un po’ come un cuoco: mi piacciono tutte le materie prime, poi tutto dipende dal “come”, non dal “che”».

Un giorno ti vedi mamma? Se sì che dirai a tuo figlio del tuo lavoro?

«Ti ricordo che il mio nome da pornoattrice coincide perfettamente col mio nome reale. Ad ogni modo, non voglio avere figli, anzi sulla Terra siamo in troppi e bisognerebbe entrare in una logica di controllo delle nascite».

E chi ci dovrebbe pensare?! 

«Ci stiamo organizzando, noi del Nuovo Ordine Mondiale».

Non tutte, però, si chiamano Valentina Nappi. Profughi, abusi sessuali su lavoratrici delle coop. Succede a Bagnoli. Donne molestate da alcuni ospiti: il primo cittadino e il sindacato fanno denuncia in Prefettura di Cristina Genesin, scrive il 12 marzo 2017 "Il Mattino di Padova". Violenze e abusi sessuali all’interno del campo profughi di Bagnoli, destinati a moltiplicarsi ogni giorno come si trattasse di un’eventualità da mettere in conto al pari di “un’attività ordinaria”. Compagna di lavoro ormai abituale la paura. Quella paura pronta ad assalirti ogni volta che varchi il cancello d’ingresso del posto dove lavori ben sapendo, per esperienza diretta o per esperienza della collega, che ti può capitare il peggio. E tu sei indifesa perché sei stata lasciata sola. E perché non c’è alternativa quando ti fanno capire che o ti va bene così oppure quella è la porta, libera di andartene. Le vittime. È il dramma che stanno vivendo un gruppo di donne, tutte residenti nella Bassa Padovana, dipendenti di alcune cooperative impegnate nel garantire lavori e servizi nel campo situato nella frazione di San Siro, oltre 800 ospiti “parcheggiati” in attesa di conoscere il proprio destino con il passaporto da rifugiati o con il “marchio” da indesiderati. Donne vittime di ripetute aggressioni sessuali. Nessuna al momento ha ancora presentato querela: hanno paura di essere lasciate a casa. Di essere licenziate. E non a caso: chiaro il messaggio ricevuto dopo aver informato dell’accaduto tanto il datore di lavoro quanto i vertici Edeco, coop che gestisce la struttura. La prefettura. Venerdì scorso incontro riservatissimo in Prefettura a Padova. Intorno al tavolo il vicario del prefetto con delega all’emergenza immigrazione, Pasquale Aversa, il sindaco di Bagnoli, Roberto Milan, e la sindacalista Elena Capone di Labor, sindacato autonomo che sta seguendo la delicatissima questione cercando di tenerla lontana da ogni forma di strumentalizzazione partitica. Sono stati sollecitati interventi e una maggior presenza di addetti alla sicurezza nel campo per tutelare chi lavora. Singolare circostanza: il sindaco sarebbe stato informato dell’accaduto proprio l’8 marzo, festa della donna. Per domani prevista un’assemblea con le dipendenti delle cooperative per decidere il da farsi. Doppia la parola d’ordine: tutelare la propria dignità di essere umano, ma pure il diritto al posto visto che, per la maggioranza delle donne, lo stipendio è indispensabile strumento per far quadrare il bilancio familiare. Uno stipendio che, però, non vogliono barattare passando sopra al principio del rispetto per se stesse. I fatti. Il caso è esploso negli ultimi mesi all’interno del centro dove stati trasferiti i clandestini approdati in Italia per lo più dal continente africano, tutti giovani o giovanissimi (poche le donne). Prima i comportamenti di alcuni stranieri si limitavano a qualche battuta in un italiano stentato, magari accompagnato da qualche gesto osceno. Poi dalle parole, si è passati alle vie di fatto. Così le lavoratrici sono state attese all’ingresso del campo; in qualche caso “scortate” nelle aree in cui dovevano lavorare oppure, vittima di un vero e proprio agguato, sono state sorprese e aggredite. Solo alcuni ospiti sarebbero responsabili dei ripetuti episodi. «Episodi gravissimi», riferisce un pubblico amministratore. Tuttavia ufficialmente, nessuno parla. Nessuno commenta. Introvabili il sindaco Milan e la sindacalista Capone, mentre la situazione è al limite. E ora, davvero, rischia di esplodere dentro e fuori la struttura. Tra l’ottobre e il novembre scorsi la tensione crescente si era tradotta in rivolte e sommosse nel centro di accoglienza che ha toccato punte di 900 profughi. Tanto da rendere necessario l’intervento della polizia in tenuta antisommossa. Allora il sindaco di Bagnoli Roberto Milan aveva commentato duro: «L’unico provvedimento possibile è quello di alleggerire il centro e distribuire i migranti in altre strutture, non certo creare delle nuove concentrazioni. Qui non abbiamo bisogno di slogan e passerelle, né di sparate populiste. Vogliamo soluzioni percorribili e su questo la Prefettura deve lavorare di più e meglio». Una richiesta ancora oggi reclamata da una popolazione sempre più sola.

Operatrice sequestrata nel resort: "Ha calato i pantaloni e ha iniziato a fare le sue cose", scrive di Peppe Rinaldi il 2 febbraio 2017 Libero Quotidiano”. Secondo gli specialisti era affetto da «effervescenze psico-caratteriali» l’immigrato nigeriano che ieri non ce l’ha fatta più e, abbassandosi i pantaloni, ha tenuto in ostaggio per circa mezz’ora una donna in un centro di accoglienza. Si chiama Eboh Jude, ha ventisei anni e da tre - dice - non ha rapporti sessuali. Ora è in cella a Poggioreale, Napoli, in attesa dell’espulsione alla conclusione dell’iter giudiziario. Intanto deve rispondere di sequestro di persona e di violenza sessuale, fattispecie che scatta indipendentemente dalla consumazione materiale del fatto. Il focoso giovane nero, infatti, non ha toccato la signora, peraltro sessantaduenne, limitandosi ad «effervescenti» manifestazioni di desiderio sessuale, aggravate da una patita, lunga astinenza. Esiste chi sta peggio con la cronologia, pur senza esibire terga e genitali. Siamo a Varcaturo, un tempo meravigliosa litoranea flegrea nel territorio del comune di Giugliano, divenuta una specie di slum interraziale in un panorama di strutture turistico-ricettive spesso convertite in centri per immigrati. Come ovunque nel Paese. Il posto è uno di quelli de luxe, almeno a giudicare dalla presentazione web del complesso «Le Chateau». La struttura pare abbia avuto in passato problemi con l’autorità giudiziaria per questioni legate ai permessi a costruire, non proprio una novità da quelle parti. Ci furono i rituali sequestri seguiti da altrettanto rituali dissequestri. Oggi è, con ogni evidenza, soggetto interlocutore della pubblica amministrazione in tema di immigrazione. Dentro sono ospitati 85 extracomunitari a prevalente composizione africana, tenuto conto anche di un antico insediamento della popolazione di colore in tutto il comprensorio. Da anni. Ora parliamo dei nuovi flussi, quelli genericamente - ed erroneamente - definiti di profughi. Eboh Jude era a Napoli da settembre ma ieri gli ormoni hanno preso il sopravvento, spingendolo nell’ufficio di una operatrice del centro con la scusa di informazioni sulla pratica per il suo permesso di soggiorno. Una volta dentro il giovane ha chiuso la porta, s’è calato i pantaloni e, a distanza, ha spiegato alla esterrefatta signora il suo problema. Masturbandosi. È lei stessa a dirlo: «Non mi ha violentata, si è abbassato i pantaloni e ha fatto cose sue. Ha raccontato che non aveva una donna da tre anni e chiedeva chiarimenti sul suo documento, scaduto oggi. Certo rimanere chiusa con lui non è stato piacevole, a un certo punto ha battuto anche i pugni sul tavolo. Ma non mi ha violentata, questo no». A liberarla dall’incubo i carabinieri del posto, avvisati da una collega dell’operatrice che aveva intercettato il bigliettino d’aiuto che la donna sequestrata era riuscita ad infilare sotto la porta. L’irruzione, quindi le manette e il carcere. E poi le polemiche. Come quella tra Matteo Salvini e Roberto Saviano. In un primo momento s’era diffusa la voce di una violenza carnale consumata e il segretario della Lega aveva twittato parlando di castrazione chimica. Poche ore e Saviano si dà alle sue di «effervescenze», dando sfogo via social ad un ragionamento standard su razzismo e immigrazione, forte delle statistiche Istat sulla nazionalità di vittime e violentatori. «Io la disprezzo» è stato il pezzo forte di Saviano rivolto a Salvini. Che ha replicato: «Quel disprezzo è per me una medaglia».

Molestie sessuali a Capodanno, l'incubo di sei italiane a Innsbruck: "Le mani degli immigrati tra le gambe", scrive il 6 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Molestie sessuali in piazza con strategia "militare". Le sei ragazze italiane che hanno subito approcci violenti la notte di Capodanno a Innsbruck raccontano al Corriere della Sera quei minuti di terrore puro vissuti in Austria. Ad aggredirle un gruppetto di uomini tra i 20 e i 40 anni, immigrati afghani o nordafricani, ancora ricercati. "Erano in cinque o sei, ci hanno circondato - spiega una delle ragazze, tutte studentesse e turiste tra i 19 e i 25 anni, provenienti da Bolzano -. Ballavano e ridevano e sulle prime non ci siamo preoccupate. Eravamo tutti in piazza per divertirci e festeggiare in mezzo a migliaia di persone. Ma quello che subito sembrava uno scherzo si è trasformato in qualcosa d'altro. Molestie pesantissime. Si sono avvicinati stringendoci, toccandoci, richieste esplicite di sesso. A me hanno messo le mani sotto le gambe, strappandomi i collant. Mi sono divincolata, li ho spintonati allontanandomi. La stessa cosa ha fatto la mia amica. Poi siamo tornate in albergo. In totale le denunce sono state 18: molestate anche nove austriache, due tedesche e una svizzera. La notte di Innsbruck ha ricordato da vicino quanto successo un anno prima a Colonia e in tutta la Germania, con 1.200 donne vittime di aggressioni a sfondo sessuale da parte di immigrati. "Non abbiamo mai visto niente del genere", ammette Ernst Kranebitter, portavoce della polizia di Innsbruck. "Non riesco a ricordare un attacco di questo genere, di questa scala e con questo modus operandi. Una specie di strategia studiata che avrebbe permesso agli assalitori in primo luogo di non mostrare subito le loro reali intenzioni, facendole sembrare l'avvio di una specie di gioco. E poi di sparire alla svelta, in caso di grida o di reazioni decise".

Scena "mostruosa" la notte di Capodanno. Stuprate 80 donne: "da mille nordafricani", scrive il 5 gennaio 2016 “Libero Quotidiano”. Capodanno choc a Colonia. Il sindaco della città settentrionale della Germania ha convocato i vertici della polizia dopo le notizie di aggressioni, anche a sfondo sessuale, subite da 80 donne e in cui sarebbero coinvolti circa 1.000 uomini. Secondo il capo della polizia Wolfgang Albers, citato dalla Bbc, gli aggressori, ubriachi, erano all’apparenza arabi o nord-africani. Le aggressioni si sono verificate nella zona tra la stazione centrale e il maestoso duomo gotico. Gran parte dei reati denunciati alla polizia erano rapine, ma anche molestie, palpeggiamenti, e almeno uno stupro. Anche una volontaria della polizia ha subito molestie sessuali. Secondo i media locali la polizia è preoccupata del fatto che le violenze siano state organizzate: branchi di uomini ubriachi a caccia di donne in un’area già normalmente a rischio furti e borseggi, tanto che Albers ha parlato di "una dimensione di reato completamente nuova" lanciando un allarme in vista degli eventi di carnevale previsti tra il 4 e il 10 febbraio, durante i quali notoriamente si versano fiumi di alcol. Il numero delle aggressioni è stato forse ancora superiore, perchè si teme che molte donne non abbiano denunciato le violenze. È qualcosa di "mostruoso", ha commentato il sindaco Henriette Reker, che fu accoltellata a ottobre durante la campagna elettorale prima della sua elezione. "Sono attacchi intollerabili, tutti i responsabili devono essere portati davanti alla giustizia" ha scritto il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas in un tweet. Secondo il portale di informazione Koelner Stadt-Anzeiger, i responsabili delle aggressioni sono già conosciuti dalla polizia, proprio a causa dei frequenti furti che si verificano nella zona intorno alla stazione centrale. Uno dei poliziotti in servizio nella zona ha detto al portale Express di aver fermato 8 persone: "Erano richiedenti asilo" ha specificato. Episodi analoghi si sono verificati anche ad Amburgo, nella chiassosa via Reeperbhan, nel quartiere a luci rosse di St.Pauli, e a Stoccarda. La reazione - Il governo tedesco promette di catturare e consegnare alla giustizia i responsabili degli abusi sessuali avvenuti a Colonia a Capodanno, nel quale sarebbero coinvolti numerosi migranti. "Si deve fare tutto il possibile per identificare quanto prima i colpevoli e punirli, da dovunque arrivino”, ha detto Angela Merkel. Il cancelliere ha espresso "indignazione" di fronte agli "attacchi ripugnanti e alle molestie sessuali, reati che esigono» una risposta compatibile con lo Stato di diritto".

Per essere intervistato da una donna, Muhammad Alfredo ha preteso che la giornalista Sara Giudice indossi l'hijab e si presenti senza trucco né profumo. Piazza Pulita su La7 il 13 marzo 2017 ha mandato in onda il faccia a faccia con l'integralista islamico italiano convertito nel 2010 che vuole spiegare com'è vivere nel completo rispetto della legge islamica, la Sharia. E lo spaccato offerto da questa visione fanatica è inquietante.

La femminista di sinistra: "I media occultano le violenze sessuali commesse da immigrati". Lorella Zanardo: "Da più parti mi viene consigliato di non diffondere la notizia della donna violentata in Puglia, caso di cui si è parlato pochissimo. La reticenza di molti gruppi femministi e giornalisti è dovuta al fatto che la violenza sia stata commessa da un rifugiato", scrive il 3 Agosto 2017 “Il Populista". In Italia, come accade in altri Paesi europei dominati dal politicamente corretto, i crimini degli immigrati vengono minimizzati. Se risulta difficile omettere l’identità e l’origine del delinquente, almeno per ora, ecco che il sistema mediatico impone una sorta di silenziatore diffuso. Fino a poco tempo fa le malefatte nei confronti delle donne, dai casi di stalkeraggio a quelli di molestie e violenze sessuali, occupavano giustamente le prime pagine dei giornali sia cartacei sia online, lunghi servizi nei telegiornali, doverosi approfondimenti nelle trasmissioni televisive. Poi gradualmente la musica è cambiata. Ora succede che questi atroci reati, se commessi da immigrati, vengano relegati alle pagine di cronaca o a minuscoli riquadri nelle home page dei giornali più importanti. Anzi, ormai spesso nelle home page dei “giornaloni” non ci finiscono nemmeno per sbaglio. Guai a evidenziarlo però, pena il marchio infamante di razzista e xenofobo. Che non si tratti esattamente di fantasia populista o delirio leghista, lo conferma un pezzo di Lorella Zanardo comparso sul sito del Fatto Quotidiano. Stiamo parlando di una femminista di punta, autrice del celebre documentario “Il Corpo delle donne” e fautrice del movimento venato di antiberlusconismo “Se non ora quando”, nonché candidata alle ultime Europee per l’estrema sinistra con la Lista Tsipras. L’incipit è lineare e illuminante: “Una donna è stata violentata e picchiata brutalmente in Puglia qualche giorno fa. La donna versa in gravi condizioni in ospedale. Da più parti mi viene consigliato di non diffondere questa notizia: perché?”. Ebbene sì, certa sinistra lavora per occultare notizie sgradite alla “narrazione” immigrazionista. Che stranezza. “Contrariamente a quanto accade solitamente”, scrive la Zanardo, “in questo caso la notizia è stata riportata solo da qualche quotidiano e diffusa pochissimo”. Il motivo è semplice, anche se indicibile: “La reticenza di molti gruppi femministi e giornalisti è dovuta al fatto che la violenza sia stata commessa da un ragazzo rifugiato di un centro Cara. Questa e solo questa la ragione dell’occultamento del fatto”. La regista racconta che certa pulsione censoria e minimizzatrice, anche se di mezzo ci sono odiose violenze nei confronti delle donne, è un malcostume radicato nel tempo: “Anni fa partecipai a Milano a un incontro contro la violenza organizzato da un’importante organizzazione che di violenza si occupava. Si trattava dell’omicidio di una donna a Roma da parte di un cittadino rumeno. Con mio grandissimo stupore e rabbia – scrive la femminista - tutta la riunione fu spesa, ed eravamo solo donne, a valutare se fosse meglio diffondere o no la notizia perché trattavasi di cittadino dell’est Europa e non si voleva incentivare il razzismo. Solo poche parole furono pronunciate a memoria della vittima”. Una denuncia coraggiosa, controcorrente. “Come femminista e come donna di sinistra mi ribello a questo comportamento e lo ritengo responsabile dell’allontanamento di molti cittadini e cittadine dai partiti e movimenti di sinistra”. Zanardo fu una delle poche, pochissime femministe a condannare con forza e senza ambiguità di sorta le violenze sessuali di massa commesse da immigrati a Colonia, nel Capodanno 2016. “Il voler ‘proteggere’ i migranti responsabili di reati odiosi, così come il ritenere che diffondendo le notizie negative che li riguardano (…) si possa fomentare il razzismo, è alla base dell’attuale pensiero di una certa sinistra italiana: elitaria e profondamente discriminante”. Insomma i primi ad attuare discriminazioni in base alla provenienza delle persone, sono esattamente coloro che a parole combattono contro le discriminazioni: “Il popolo è pancia, mi disse fiera una nota intellettuale ‘di sinistra’ lasciandomi basita. E se il popolo è pancia, e dunque non in grado di ragionare con la propria testa, ecco che c’è chi si è autoeletto interprete di quel popolo incapace di intendere e volere”. E ancora: “E con la stessa attitudine tronfia ed elitaria si trattano gli emigranti, i richiedenti asilo: proteggendoli tutti indistintamente come fossero bambini o incapaci di intendere, discriminandoli davvero in questo modo considerandoli così inferiori a noi”. Zanardo parla della necessità di avviare programmi educativi sugli usi e costumi che regolano i rapporti tra i sessi “che, come sappiamo, sono in Europa profondamente diversi da quelli vissuti nei Paesi di origine dai cittadini migranti”. Dalla retorica alla pratica, bypassando i dettami del politicamente corretto: “Dopo la grande manifestazione per i migranti dello scorso maggio a Milano, quali sono stati i progetti educativi intrapresi per facilitare la convivenza?”.

La violenza contro le donne è sempre violenza, che la compia un italiano o uno straniero, scrive Lorella Zanardo il 31 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Una donna è stata violentata e picchiata brutalmente in Puglia qualche giorno fa. La donna versa in gravi condizioni in ospedale. Da più parti mi viene consigliato di non diffondere questa notizia: perché? Contrariamente a quanto accade solitamente, quando cioè le notizie che riguardano stalking e violenze vengono commentate e diffuse sui social network da molte donne e anche uomini, in questo caso la notizia è stata riportata solo da qualche quotidiano e diffusa pochissimo. La donna ha 76 anni e verrebbe da pensare che non se ne è scritto per una forma nemmeno tanto velata di discriminazione verso le anziane: “Tanto è vecchia”, pare essere il messaggio sotteso all’indifferenza; l’indignazione, quando c’è, è riservata al sopruso verso chi è giovane. Mi sono ribellata dunque a questa ipotesi e ho diffuso la notizia per scoprire, ancora una volta, che la reticenza di molti gruppi femministi e giornalisti è dovuta al fatto che la violenza sia stata commessa da un ragazzo rifugiato di un centro Cara. 

Questa e solo questa la ragione dell’occultamento del fatto. Anni fa partecipai a Milano a un incontro contro la violenza organizzato da un’importante organizzazione che di violenza si occupava. Si trattava dell’omicidio di una donna a Roma da parte di un cittadino rumeno. Con mio grandissimo stupore e rabbia, tutta la riunione fu spesa, ed eravamo solo donne, a valutare se fosse meglio diffondere o no la notizia perché trattavasi di cittadino dell’est Europa e non si voleva incentivare il razzismo. Solo poche parole furono pronunciate a memoria della vittima. Come femminista e come donna di sinistra mi ribello a questo comportamento e lo ritengo responsabile dell’allontanamento di molti cittadini e cittadine dai partiti e movimenti “di sinistra”. Che una violenza sia commessa da un uomo italiano o da un migrante, vecchio o giovane che sia, non deve assolutamente cambiare la nostra reazione: la denuncia va sempre e comunque espressa. Certo spiegando, certo motivando. Ma condannando sempre con fermezza. Già ebbi modo di esprimerlo a inizio 2016 in occasione delle violenze a Colonia che vennero archiviate con l’esilarante raccomandazione per difendere le donne dalla violenza, espressa della sindaca della città tedesca: “Se i ragazzi nordafricani o mediorientali si avvicinano a voi, state loro a distanza “eine ArmeLange”, cioè teneteli a distanza di un braccio. Il voler “proteggere” i migranti responsabili di reati odiosi, così come il ritenere che diffondendo le notizie negative che li riguardano, esattamente così come faremmo per i crimini commessi dai cittadini italiani, ritenendo che così facendo si possa fomentare il razzismo, stanno alla base dell’attuale pensiero di una certa sinistra italiana: elitaria e profondamente discriminante.

“Il popolo è pancia”, mi disse fiera una nota intellettuale di sinistra lasciandomi basita. E se il popolo è pancia, e dunque non in grado di ragionare con la propria testa, ecco che c’è chi si è autoeletto interprete di quel popolo incapace di intendere e volere. E allora quel popolo che viene valutato non in grado di comprendere con la propria testa che una violenza è sempre una violenza indipendente da chi la commetta, lo si mantiene al di fuori delle scelte democratiche. “Non diffondendo troppo questo tipo di notizie” come mi è stato più volte consigliato, perché non sarebbe in grado di comprendere. E con la stessa attitudine tronfia ed elitaria si trattano gli emigranti, i richiedenti asilo: proteggendoli tutti indistintamente come fossero bambini o incapaci di intendere, discriminandoli davvero in questo modo considerandoli così inferiori a noi. Mi ribello e invito a ribellarci al dualismo che ci viene oggi proposto come unica possibilità: o sei razzista o accetti tutti i migranti a prescindere dal loro comportamento. Esiste una terza possibilità ed è l’apertura e l’accoglienza mediata da regole e leggi, necessaria per qualsiasi democrazia che voglia davvero accogliere tutti e tutte senza alcuna discriminazione. Facciamo che questa opportunità esista e si diffonda, senza timore di essere criticate ed emarginate! C’è un ultimo punto, che è quello che mi sta più a cuore, ed è quello dell’educazione foriera di una buona convivenza. In Nord Europa e in Canada si stanno sviluppando ottimi moduli educativi per i cittadini migranti che oltre all’indispensabile introduzione alla lingua del Paese ospitante, mirano a far conoscere usi e costumi anche per quanto riguarda i rapporti tra i sessi, che, come sappiamo, sono in Europa profondamente diversi da quelli vissuti nei Paesi di origine dai cittadini migranti. Dopo la grande manifestazione per i migranti dello scorso maggio a Milano, quali sono stati i progetti educativi intrapresi per facilitare la convivenza? L’educazione, la conoscenza, l’abbattimento delle barriere linguistiche, il rispetto: tutti valori democratici e di sinistra sui quali invito a lavorare.

Vietato dire che i ricercati sono stranieri. Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale".  Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo. Lo stupro è un reato infame, chiunque lo commetta. Ma il punto è: perché non dire chi, o meglio chi si sta cercando come presunti responsabili, come sta accadendo per il caso della ragazza violentata sulla spiaggia di Rimini? I lettori della maggior parte dei giornali quotidiani di ieri e dei telegiornali, che pure hanno riservato ampio spazio al fatto, non sanno o hanno al massimo intuìto, leggendo tra le righe, che la polizia sta dando la caccia a tre immigrati maghrebini. Saranno loro i colpevoli? Non lo sappiamo, ma la notizia è che gli inquirenti stanno cercando proprio loro. E allora perché non dirlo, non fornire all'opinione pubblica l'identikit del possibile assassino, come avviene in tutti i casi di cronaca nera fin dai tempi dei tempi? Siamo certi che se la ragazza stuprata e il suo compagno ferito avessero riferito di essere stati assaliti invece che da persone di carnagione scura da italiani, non ci sarebbero state tutte queste precauzioni e omertà. E i titoli sarebbero stati più o meno: «La banda dei biondini violenta giovane turista». Ripeto, oggi nessuno sa la verità, ma gli inquirenti sanno bene chi stanno cercando, i giornalisti sanno bene la pista battuta dagli inquirenti, i direttori dei giornali sanno bene cosa sanno i giornalisti. Tutti sanno, ma nessuno osa dire e scrivere con chiarezza. Siamo al punto che gli immigrati, rispetto a noi italiani, non solo sono tutelati dal sistema quando occupano una casa ma pure quando sono sospettati di avere stuprato una ragazza. È il maledetto virus con cui le Boldrini e i Saviano hanno infettato il paese, un razzismo all'incontrario, tutelato perfino dall'Ordine dei giornalisti che indaga e punisce i colleghi che osano vaccinarsi, cioè chiamare le cose con il proprio nome. Di recente sono finito sotto processo per un titolo: «Tentano di rapire un bimbo, la polizia setaccia campo rom», che riportava fedelmente i fatti. Rivendico la libertà di informarvi che la polizia, per i fatti di Rimini, sta cercando tre immigrati, il che non vuole dire nulla di più e nulla di meno di ciò che sta accadendo in queste ore. Non saremo politicamente corretti ma professionalmente sì. E questo ci basta.

"Lo strano mistero dello stupro di Rimini", scrive Pietro Senaldi il 27 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". I giornali non dicono la verità sugli stupratori di Rimini. O meglio, omettono che essi siano magrebini. Pietro Senaldi, a #90secondi, spiega perché al contrario Libero lo ha rivelato subito: "Non è nascondendo la verità che si evita l'odio sociale". La nuova prassi italiana, ma forse sarebbe più appropriato definirla terzomondista, per cui i carnefici si proteggono e le vittime si offrono alla piazza, si è arricchita di un altro capitolo. Dopo la solidarietà agli immigrati che avevano occupato abusivamente un palazzo romano di proprietà dei pensionati e la condanna dei poliziotti che, presi a bombole del gas in testa, li hanno sgomberati con la forza, il circolo mediatico votato al boldrinismo più fazioso si è cimentato in un altro fattaccio di cronaca. Una coppia di turisti è stata aggredita da una banda di ragazzotti sulla spiaggia di Rimini che hanno pestato a sangue lui e violentato ripetutamente lei. Sappiamo che le vittime sono polacche, che i delinquenti hanno poi riservato lo stesso trattamento a un trans peruviano e che la testimone chiave della vicenda è una prostituta romena. I particolari sono stati riportati da tutti, in certi casi perfino con disegnini illuminanti. Ma solo Libero, il Quotidiano Nazionale e i «giornalacci» della destra hanno evidenziato che secondo la polizia gli stupratori erano sì ubriachi, come hanno scritto tutti, ma anche immigrati, particolare ritenuto irrilevante invece dagli altri, per i quali era viceversa fondamentale la nazionalità delle vittime. Cautela? Può darsi, perché i criminali sono alla macchia e il rischio figuraccia c' è, ma non ci crediamo poi tanto. Dopo la cinquantesima riga infatti qualcuno l' ha anche scritto, in un sussulto di professionalità o confidando che il caporedattore non si spingesse fino a lì nella lettura, qual è l' origine degli aggressori, il che significa che è stata confermata da più fonti. Cionondimeno, anche ieri, i tg non hanno ritenuto di calcare sull' argomento. Insomma, è fondamentale che la prostituta sia romena e le vittime polacche e peruviane ma è un dettaglio da omettere chi abbia fatto loro la festa. Forse perché nessuno vuole che le lettrici e le telespettatrici si allarmino se vengono circondate di notte da una banda di immigrati. Meglio non instillare in loro il germe del razzismo e lasciare che girino, ignare e sicure, per le nostre spiagge e strade multietniche. Tutt' altro trattamento è stato riservato invece all' italiano che, multato per aver parcheggiato sul posto riservato a un disabile e da questi denunciato ai vigili, si è vendicato affiggendo un cartello infame in cui insultava il portatore di handicap rallegrandosi per la sua condizione. Un comportamento orribile, stigmatizzato anche da Libero ma che è valso al suo autore una gogna nazionale senza eguali. Di lui sappiamo l'età, l'auto, la professione, il titolo di studio e perfino il paese. Infatti non è un immigrato ma un italiano, addirittura un truce brianzolo, a cui forse Paolo Virzì, il regista di «Il capitale umano», sta già dedicando un film. Da stigmatizzare anche il silenzio del presidente della Camera, Laura Boldrini e, al momento della stragrande maggioranza delle paladine del femminismo. Evidentemente le donne si tutelano meglio se si costringono gli italiani a chiamarle avvocata o presidenta piuttosto che se le si mette in guardia dai rischi dell'invasione. D' altronde è cosa nota che per i nostri rappresentanti, e per i nostri media, un fatto non vale tanto per se stesso bensì per il significato politico che gli si vuole dare e per l'ideologia alla quale è funzionale. Il villano brianzolo, forse vicino di casa di Berlusconi, va messo alla gogna più dello stupratore nordafricano, del quale si sottolinea lo stato di ebbrezza, a mo' di attenuante, quando invece è un'aggravante, e non solo per il Corano ma anche per il nostro codice penale. Forse questa cortina di fumo viene messa per non alzare il livello di tensione sociale, come i tedeschi che non rivelano le nazionalità di chi commette attentati per evitare episodi di linciaggio. Forse siamo noi maliziosi nel voler vedere a tutti i costi la cattiva fede altrui e a sentire odore di ordini di scuderia in redazione. Ma la verità è che siamo allarmati e che chi nasconde l'identità degli stupratori immigrati ci fa quasi paura quanto questi. Nascondere, minimizzare, relativizzare i problemi, non aiuta a risolverli ma li aggrava rapidamente, fino a farli diventare ingestibili e portarli al punto di esplosione. Non si sa quando lo scoppio avviene, perché fino a un attimo prima la situazione è immutata e immanente, ma quando accade, è incontrollabile. È successo così con il traffico di uomini agevolato dalle organizzazioni non governative, molte delle quali, in combutta con gli scafisti, facevano i soldi spacciandosi per santi. È capitato con gli occupatori abusivi di case, a cui lo Stato fino al giorno prima aveva permesso di comportarsi come proprietari, consentendo loro di dare addirittura in affitto gli alloggi che abitavano illegalmente. Succederà anche con le violenze degli immigrati che nascondiamo sotto il letto come la polvere. Un giorno, improvvisamente, per vincere le elezioni, perché colpito in prima persona o per "impazzimento" individuale, qualcuno non ne potrà più, e sarà il caos. Ci auguriamo di no, ma lo temiamo.

Lo stupro innocente, scrive Antonella Grippo il 30 agosto 2017 su "Il Giornale". C’è stupro e stupro. C’è fallo e fallo. Quello immigrato, ad esempio, detiene un’intrinseca ragionevolezza sociologica, persino nella sua massima e ruvida erezione. Non è che puoi fare la femminista, se non c’è di mezzo un maschio di Ladispoli, di Muro Lucano o di Busto Arsizio! Come fai a prendertela con il piffero magrebino? A ben guardare, è poetico, intriso di lirismo ancestrale. Di fremiti di guerra e povertà. Si tratta di un fiotto di antropologia tribale. Va argomentato, discusso. Giammai decontestualizzato dalle braghe di riferimento. Vuoi mettere…Altro che la saccente protuberanza virile degli impiegati del catasto di Avellino, che, ancorché dimessa, si sollazza con lo stupro di suocere, colpevoli assertrici della secessione di Romagna. Per non parlare della fava dei benzinai di Matera, che quando s’ingrifa, non corrisposta, è capace di ispirare l’intera arte operaia del Femminicidio. Tutto il resto non fa dottrina. Del resto, non si può pretendere che le Damine di San Vincenzo disertino i summit settimanali sui prodigi terapeutici del ricamo ad uncinetto, per occuparsi di femmine sfigate, perdippiù polacche, incapaci di interloquire con la bestia che abita i calzoni africani, al fine di capirne i bisogni, interrogarne le aspettative, in un clima di Multimazza. Meglio falcidiare l’assioma partenopeo per eccellenza: Il cazzo non vuole pensieri. Contrordine, compagne: il pisello magrebino convoca tutta la storia del pensiero occidentale. Esige e reclama lo sguardo delle scienze umane. Chiede di essere indagato, decriptato. Accolto. In fondo, è un’innocenza analitica. Politically correct.

Stupri e immigrati, scrive Giampaolo Rossi il 31 agosto 2017 su "Il Giornale".

PREGIUDIZI E TABÙ. L’argomento è scottante e viola il rigido protocollo imposto dai talebani del politically correct. Certo, se decidete di affrontarlo, aspettatevi la solita accusa di essere i nipotini di Goebbels. Non vi preoccupate, fa parte del gioco; sopportate con santa pazienza e andate avanti perché il problema esiste e non va rimosso; e non solo sull’onda dell’emotività che la cronaca ci riserva: la giovane turista polacca stuprata a Rimini o l’anziana di Forlì violentata da un nigeriano o la 12enne di Trieste abusata da tre immigrati (solo per citare gli esempi più recenti). Quando un anno fa la piddina Debora Serracchiani, di fronte allo stupro di una studentessa italiana minorenne da parte di un richiedente asilo iracheno, dichiarò: “la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza”, un fiume in piena di scandalizzata indignazione si riversò contro di lei: colleghi di partito e immancabili intellettuali del Pensiero Collettivo. Allora proviamo ad affrontare il tema senza tabù e senza pregiudizi.

I NUMERI IN ITALIA. Stefano Zurlo, su Il Giornale, ha riportato una notizia scioccante: un’indagine di Demoskopika, realizzata elaborando dati del Viminale, ha svelato che “nel quinquennio 2010-2014, il 39 per cento delle violenze sessuali in Italia è stato compiuto da stranieri”. Un numero impressionante – nota Zurlo – se si considera “che nel 2014, solo l’8,1% dei residenti in Italia veniva da fuori”. Ovviamente Zurlo è molto cauto e sottolinea che non bisogna fare “generalizzazioni”, né “distribuire patenti di primogenitura”. Anche perché a distribuirle ci pensa il Ministero dell’Interno il giorno dopo, inviando una nota all’AdnKronos in cui spiega che nel 2016 i reati contro le donne compiuti dagli italiani sono aumentati (1.534 contro i 1.474 del 2015), mentre quelli degli stranieri sono diminuiti (904 contro i 909 del 2015, 4 in meno). Ma la stessa AdnKronos ammette che se si guardano le percentuali in rapporto alla popolazione (che è esattamente ciò che si dovrebbe controllare) le violenze commesse dagli stranieri sono maggiori. Anche perché al conteggio sfuggono ovviamente i casi non denunciati che è plausibile siano maggiori nelle comunità di immigrati perché una donna straniera (magari profuga e richiedente asilo, inserita in contesti comunitari chiusi) ha più timore a denunciare una violenza subita rispetto ad una donna italiana. D’altronde è un dato di fatto che la possibile correlazione tra l’esodo migratorio di giovani maschi e l’aumento delle violenze sessuali non sembra riguardare solo l’Italia. In tutti i paesi che hanno adottato politiche di accoglienza massiccia i reati a sfondo sessuale sono tra quelli con maggiore aumento, insieme ai furti.

I NUMERI IN GERMANIA. Il Rapporto annuale sulla “Criminalità nell’ambito della migrazione” pubblicato il 27 Aprile scorso dalla Bundeskriminalamt (BKA), la Polizia Federale tedesca, rivela che nel 2016, il numero dei reati a sfondo sessuale compiuti da stranieri è aumentato del 102%, passando da 1.683 violenze del 2015 alle 3.404 del 2016. In altre parole, da quando la signora Merkel ha aperto le frontiere ad oltre un milione di immigrati, avvengono circa 5 reati sessuali al giorno compiuti dai nuovi arrivati. Negli ultimi quattro anni, l’aumento è stato del 500%. I reati comprendono molestie, stupri e abusi sessuali su bambini e minori; quest’ultimo reato (il più odioso) è quello che ha registrato il tasso di crescita più elevato, +120%. Il 71% degli immigrati autori di violenze sessuali ha meno di 30 anni (il 17% è in età adolescenziale). Soeren Kern analista del Gatestone Institute e studioso dei problemi connessi alla migrazione in Germania l’ha definita una “epidemia di stupri”.

IL CAPODANNO DI COLONIA. Il caso più eclatante avvenne la notte di Capodanno del 2015, quando circa 1200 donne subirono aggressioni e molestie sessuali in diverse città tedesche (600 solo a Colonia e 400 ad Amburgo). Un vero e proprio assalto di massa perpetrato, “nella stragrande maggioranza da persone che rientrano nella categoria generale dei rifugiati”, come dichiarò allora il Procuratore di Colonia Ulrich Bremer. Il Capo della Polizia Holger Münch dichiarò che era evidente “la relazione tra ciò che era accaduto e la forte immigrazione avvenuta nel 2015″. La polizia tedesca denunciò i fatti di Colonia come applicazione del Taharrush, una sorta di “molestia sessuale collettiva” (che a volte si conclude con stupri di gruppo) praticata in alcuni paesi islamici e venuta alla ribalta dei media occidentali durante le manifestazioni di piazza della Primavera Araba, quando si verificarono diversi casi di violenze ai danni di giovani donne musulmane. Da sottolineare che per mesi, i media tedeschi hanno nascosto la portata dell’accaduto secondo un comportamento coerente con la volontà di manipolare l’informazione sui temi dell’immigrazione; volontà denunciata da una clamorosa ricerca scientifica che inchioda la stampa tedesca alle proprie responsabilità. La situazione è divenuta di una tale emergenza sociale che il 7 luglio 2016 il Parlamento tedesco ha dovuto approvare modifiche al codice penale proprio sui reati sessuali, ampliando la definizione di stupro per consentire più facilmente l’espulsione degli immigrati colpevoli.

SVEZIA E FINLANDIA. Il tema dell’aumento dei reati sessuali in relazione all’immigrazione è stato analizzato anche in altri paesi come la Svezia e la Finlandia dove hanno fatto scalpore episodi cruenti di violenze operate da giovani immigrati. In particolar modo nel 2016, in Svezia venne a galla lo scandalo della copertura che la polizia operò sulle violenze durante un festival musicale a Stoccolma, quando diverse adolescenti svedesi furono aggredite da giovanissimi immigrati, per lo più afghani. Uno solo caso di stupro ma decine i casi di molestie sessuali e violenze. La legislazione svedese vieta di rendere note le identità etniche e religiose di chi commette reati; è quindi impossibile capire se l’aumento oggettivo di stupri negli ultimi 10 anni sia legato al massiccio aumento di immigrati dai paesi islamici o solo a modifiche dell’apparato legislativo svedese che ha allargato la definizione di violenza sessuale (come tendono ad affermare i difensori del modello multiculturale). In Finlandia il più recente rapporto della polizia denuncia un aumento dei reati sessuali del 23% nei primi 6 mesi del 2017 ed un calo del 5% di quelli commessi da stranieri. Ma la percentuale degli abusi sessuali commessi da immigrati continua ad essere altissima, quasi il 30%.

IL PROBLEMA C’È. Tutto questo cosa significa? Che esiste un’equazione immigrato = stupratore? Certo che no e se qualcuno lo pensa è un imbecille. Ma è un imbecille anche chi nasconde l’identità di uno stupratore quando è un immigrato, per non suscitare sentimenti razzisti. È evidente che l’immigrazione a cui l’Europa si è aperta, presenta enormi criticità che mettono a rischio la tenuta sociale ed economica delle nazioni e la loro identità culturale ed il loro sistema giuridico. Alcuni punti da sottolineare: Profughi e richiedenti asilo rappresentano una minoranza di coloro che entrano in Europa. Dalle guerre fuggono in genere donne e bambini, mentre l’Europa sta accogliendo prevalentemente maschi giovani di età compresa tra i 17 e i 30 anni in piena vitalità sessuale. Quando un processo immigratorio non è governato ma subìto, come avviene (grazie all’irresponsabilità dei governi europei e alla volontà criminale delle élite globaliste), è impossibile controllare chi accogli nei tuoi paesi. Gli immigrati provengono prevalentemente da paesi con culture che hanno una visione del “femminile” e dei diritti tra uomo e donna molto diversi dall’Occidente. In queste culture (soprattutto islamiche) la condizione di sottomissione della donna rende difficile stabilire i limiti legislativi all’interno dei quali definire cos’è un abuso sessuale o una violenza

Ovviamente il problema non è se gli europei stuprano più degli immigrati o se un immigrato che stupra è più colpevole di un europeo (anche se il principio dell’accoglienza e dell’ospitalità, implica l’obbligo della reciprocità e rende più odioso un reato commesso da un immigrato, su questo ha ragione la Serracchiani); il problema è sancire l’esistenza di un problema sociale e culturale senza rimuoverlo secondo quel meccanismo paranoico proprio dell’ideologia globalista, liquidando come razzista chi lo pone; problema che deriva da un’immigrazione non più sostenibile.

IL CASO GOREN. In Germania fece scalpore il caso di Selin Goren giovane portavoce di Solid, movimento di estrema sinistra; una ragazza impegnata in politica nei movimenti a favore dell’immigrazione. Una sera di Gennaio del 2016, in un parco di Mannheim, la ragazza venne violentata da tre uomini. Alla polizia dichiarò che i tre parlavano tedesco. Solo tempo dopo, convinta da una sua amica, ritrattò e affermò che i tre erano immigrati e parlavano arabo. In un’intervista a Der Spiegel spiegò che aveva mentito per non “aumentare l’odio verso i migranti”. Dopo essere stata violentata questa ragazza imbevuta di ideologia, si è auto-violentata in nome di un buonismo che rasenta la patologia sociale. Vittima due volte: di una violenza generata da altri e di una generata da se stessa. Ecco questa è l’immagine più chiara di come l’Europa rischia di finire: auto-violentandosi per non guardare in faccia la realtà.

Stupratori, il dato choc: stranieri quattro su dieci. I non italiani sono l'8% della popolazione. I nodi: espulsioni e controllo del territorio, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". I dati sembrano essere fatti apposta per rovinare il presepe del politicamente corretto, ma i numeri non possono essere ignorati. Le statistiche criminali, anche se incomplete e in ritardo, ci dicono che quasi 4 stupri su 10 sono commessi da stranieri. Tanti, tantissimi, ancora di più se si pensa che i non italiani rappresentano solo l'8 per cento della popolazione. Inutile voltarsi dall'altra parte e fingere di non vedere: la realtà è lì con tutto il suo peso a travolgere facili teorie buoniste, ingenue come le favole. Non si tratta di un atto d'accusa, ma di riflettere su un Paese che si sta slabbrando per tante ragioni, non ultima un'immigrazione senza griglie e controlli che sta regalando frutti avvelenati. L' indagine condotta da Demoskopika, elaborando le tabelle del Viminale, compone un quadro purtroppo inquietante: nel quinquennio 2010-2014 il 39 per cento delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61 per cento opera di italiani. Dal punto di vista delle proporzioni qualcosa non quadra, anzi stride: nel 2014 risiedevano nel nostro Paese 60,8 milioni di persone e di queste il 91,9 per cento era italiano e solo l'8,1, circa 4,9 milioni, veniva da fuori. Le quote non sono in linea. Anzi. Denunce e arresti si sono moltiplicati in quella direzione. Su 22.864 casi segnalati nel quinquennio (il numero vero delle violenze resta naturalmente sconosciuto) molto spesso gli investigatori hanno messo nel mirino individui con passaporto non tricolore: romeni, anzitutto, e poi albanesi e marocchini. Sia chiaro, non si tratta di assolvere frettolosamente i nostri connazionali: sappiamo benissimo che tante donne subiscono angherie, soprusi e molestie di ogni genere fra le mura domestiche: gli autori sono mariti, fidanzati, ex che non ne vogliono sapere di alzare bandiera bianca. E sappiamo altrettanto bene che la lista degli autori di questi crimini efferati, dallo stalking fino al femminicidio, comprende nomi che suonano e ci sembrano familiari. Dunque non pericolosi, secondo un'equazione che invece non torna. Ma questo è solo un capitolo del libro nero: poi c'è l'altro che ha a che fare, gira e rigira, con la qualità di chi arriva. L'Italia è diventata, anche se non è elegante sottolinearlo, una sorta di Bengodi per ceffi e delinquenti in fuga dai loro Paesi e convinti, come ha scritto un giudice, che qui sia possibile fare quel che si vuole. Nella più completa impunità. Poi c'è il nodo di un'immigrazione fuori controllo, regolata con superficialità o peggio, come per la Romania, sottovalutando sconsideratamente le obiezioni all'ingresso di Bucarest nella Ue. Ci sono pure paesi in cui la donna vale poco o niente e questo inevitabilmente non è un elemento neutrale. Tanti problemi che si sommano, quelle cifre sconfortanti da mettere in fila. I romeni sono solo l'1,8 per cento dei residenti, ma vengono loro addebitati l'8 per cento degli stupri. Numeri pesanti anche per albanesi, tunisini, marocchini. Nessuna generalizzazione, ci mancherebbe, e nemmeno distribuzione di patenti di primogenitura. È che il nostro Paese ha una politica criminale che fa acqua: si difende poco e male e cosi tutela ancora meno le donne, italiane e non. La terribile vicenda di Rimini, la caccia al branco che viene da fuori, riapre una ferita mai chiusa. E che tocca tanti nodi: il controllo impossibile del territorio, l'effettività della pena, gli ingressi senza semaforo e le mancate espulsioni, la lentezza e la farraginosità della nostra giustizia. Non e' con qualche formuletta multietnica che si affrontano questi temi, come non è con una legge a costo zero e con la solita retorica delle buone intenzioni che si può fermare la mattanza che insanguina le nostre case da troppo tempo.

Ogni anno mille stupri commessi da immigrati: 3 casi al giorno. Gli abusi sessuali non calano mai. Ogni anno mille casi da stranieri, che sono i violentatori nel 40% dei casi. E spesso gli stupri rimangono senza denuncia, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 1/09/2017, su "Il Giornale". Ogni anno mille stupri commessi da migranti, regolari o clandestini. Un dato che allarma le autorità e gli italiani, sempre più spaventati dal rischio di finire vittime di un branco di stupratori come accaduto nei giorni scorsi a diverse coppie a Rimini. Le stime diffuse dall'Istati parlano chiaro e sono sempre numeri al ribasso, visto che solitamente solo il 7% degli stupri viene denunciato. L'istituto di statistica, come riporta il Corriere, spiga che nei primi sei mesi del 2017 le violenze sessuali sono state 2.333, allo stesso livello di quelle commesse nell'anno precedente, quando gli stupri furono 2.345. Tanti, anche se sottostimati. A sorprendere però sono gli autori denunciati di tali orribili atti: nel 2017 sulle scrivanie delle forze dell'ordine sono finiti i profili di 1.534 italiani e ben 904 stranieri. Divisione rimasta anche questa pressocché invariata rispetto all'anno precedente, quando gli stranieri furono 909 e i nostri concittadini 1.474. A conti fatti, dunque, ogni anno mille migranti si macchiano dell'orrendo reato dello stupro. Vi sembrano pochi rispetto agli italiani? Non è così. Perché il calcolo va fatto considerando che gli stranieri regolari in Italia sono appena 5 milioni (secondo l'ultimo dato ufficiale) oltre ad un altro milione di irregolari. Questo significa che il tasso di incidenza sulla percentuale di stupri è molto più alta rispetto a quella dei cittadini autoctoni. La "società di ricerche Demoskopica - scrive il Corriere - ha reso noto un dossier relativo agli anni 2010- 2014, secondo cui 'il 39% delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61% da connazionali'". I numeri sulle violenze carnali non sono incoraggianti. Secondo le stime il 21% delle donne italiane, ovvero 4,5 milioni di individui, almeno una volta nella vita è stata costretta ad avere un rapporto sessuale e almeno 1,5 milioni sono state vittima di volenze carnali più gravi: "653mila donne vittime di stupro, 746mila di tentato stupro", scrive il Corriere. E spesso le violenze avvengono in famiglia, dove quasi il 40% delle mogli, figlie o fidanzate è stata vittima almeno una volta di aggressioni che hanno portato a ferite o lesioni.

Il dossier del Viminale: 2.438 denunciati per stupro o abusi. Secondo i dati sui primi sei mesi di quest’anno, sono 1.534 italiani e 904 stranieri, scrive Fiorenza Sarzanini il 31 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". È certamente uno dei reati più odiosi. Ed è anche l’unico a restare sempre uguale nel numero di segnalazioni, a fronte di un generale calo dei delitti. Segnalazioni che, peraltro, sono una percentuale minima rispetto alla realtà. Perché le stime diffuse dall’Istat dicono che appena il 7 per cento degli stupri viene denunciato, vuol dire che migliaia di episodi rimangono impuniti. Le donne hanno paura, visto che molto spesso la violenza la subiscono in famiglia. Oppure si vergognano, comunque temono le conseguenze. La conferma è nei dati forniti dal Viminale: tra gennaio e giugno del 2017 sono state commesse 2.333 violenze carnali, nello stesso periodo del 2016 furono 2.345. Basso anche il numero delle persone denunciate o arrestate: 2.438 nei primi sette mesi di quest’anno. Tra loro, 1.534 italiani e 904 stranieri. Un dato che - come chiariscono investigatori e analisti - si deve però rapportare al numero degli abitanti e dunque all’incidenza percentuale rispetto alla popolazione. Nel 2016 sono stati 2.383 con una divisione che è rimasta pressoché invariata: 1.474 italiani, 909 stranieri.

6 milioni di vittime. È proprio l’Istat a fornire una fotografia drammatica. Secondo l’ultimo rapporto ben il 21 per cento delle donne italiane - pari a 4,5 milioni - è stata costretta a compiere atti sessuali e 1 milione e mezzo ha subito la violenza più grave: 653mila donne vittime di stupro, 746mila di tentato stupro. Un intero capitolo è dedicato della relazione è dedicato agli abusi in famiglia: il 37,6% tra mogli e fidanzate ha riportato ferite o lesioni, il 21,8% soffre di dolori ricorrenti. E in una catena di orrori senza fine si scopre che nel 7,5 % dei casi a scatenare l’ira del partner è la gravidanza indesiderata. Indicativo, secondo gli analisti, è lo stato di vessazione psicologica che riguarda ben 4 donne su 10. In questo caso viene sottolineata l’incidenza sui rapporti interpersonali di quello che gli esperti definiscono l’«asimmetria di potere» che «sempre più spesso sfocia in gravi forme di svalorizzazione, limitazione, controllo fisico, psicologico ed economico. Il 40,4% delle donne, oltre 8,3 milioni, «è stata abusata verbalmente fino a sopportare gravi danni allo sviluppo della propria personalità, una su 4 ha difficoltà a concentrarsi e soffre di perdita di memoria».

Delitti in calo. I numeri forniti dal ministero dell’Interno a Ferragosto segnalano un generale calo - in alcuni casi molto evidente - dei delitti. Negli ultimi due anni c’è stata una diminuzione pari al 12 %: si è infatti passati da 1.463.156 reati denunciati nei primi sette mesi del 2016 a 1.286.862 nello stesso periodo del 2017. Scendono del 15,1% gli omicidi passando da 245 a 208; giù del 11,3% le rapine da 19.163 a 16.991; si riducono del 10,3% i furti (anche se pure in questo caso gioca soprattutto la diminuzione delle denunce) da 783.692 a 702.989. A rimanere stabile è appunto soltanto il numero degli stupri: la statistica parla di una riduzione dello 0,5% quindi, di fatto, inesistente. E a far paura è anche l’analisi di un fenomeno che coinvolge spesso anche i minorenni. Nel 2015 il ministero della Giustizia aveva in carico 532 ragazzi condannati per stupro e 270 per stupro di gruppo.

Gli stranieri denunciati. Il numero di stranieri denunciati o arrestati è basso, ma diventa indicativo se si fa un raffronto con le presenze in Italia che - secondo le ultime stime - sono di circa 5 milioni di residenti e quasi un milione di irregolari. Nei giorni scorsi la società di ricerche Demoskopica ha reso noto un dossier relativo agli anni 2010-2014, secondo cui «il 39% delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61% da connazionali». L’analisi per etnie delle denunce presentate dice che dopo gli italiani «ci sono i romeni, poi gli albanesi e i marocchini». Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente del Telefono Rosa, avverte: «Più che fare una differenza di cittadinanza, dobbiamo preoccuparci visto che sta passando un messaggio tremendo di impunità. Gli stupri in Italia sono all’ordine del giorno».

Quasi il 35% dei detenuti è straniero, scrive Damiano Aliprandi il 10 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Secondo i dati del Dap, 6mila sono islamici. Il mondo politico e dell’associazionismo è diviso sulla proposta del ministro dell’interno Marco Minniti di rilanciare i Centri di identificazione ed espulsione. A proposito degli immigrati, Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) dice: «Spero e mi auguro che le dichiarazioni di intenti del Viminale sulla annunciata stretta dei migranti irregolari in Italia trovi concretezza anche per quanto concerne le ricadute sul sistema penitenziario, dove oggi abbiamo presenti oltre 18.700 detenuti stranieri». Per il Sappe, «fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia». Però i dati sugli stranieri in carcere risultano un po’ più complessi. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella ha più volte spiegato che la presenza degli stranieri in carcere è dovuta al fatto che «subiscono maggiormente i provvedimenti cautelari detentivi rispetto ai cosiddetti detenuti nazionali». Nei confronti di un immigrato irregolare è certamente più difficile trovare soluzioni cautelari diverse dalla carcerazione. Sempre Gonnella ha spiegato il motivo: «I giudici di sovente motivano i provvedimenti di carcerazione sostenendo la tesi che gli immigrati privi di permesso di soggiorno non hanno un domicilio stabile ove poter andare agli arresti domiciliari. In realtà molto spesso gli irregolari una casa o una stanza dove vivere ce l’hanno ma non possono essere indicate quale domicilio regolare essendo loro stessi in una generale condizione di irregolarità». In sostanza l’immigrato non regolare finirà più facilmente in carcere in custodia cautelare rispetto allo straniero regolare. Quindi i tassi di detenzione sono legati alla Bossi Fini, messa molto spesso in discussione da associazioni, movimenti politici e personalità che studiano il fenomeno dell’immigrazione nel nostro Paese. Secondo le più recenti stime della Fondazione Ismu (Iniziativa e studi sulla multietnicità), gli stranieri residenti in Italia che professano la religione cristiana ortodossa sono i più numerosi (oltre 1,6 milioni), seguiti dai musulmani (poco più di 1,4 milioni), e dai cattolici (poco più di un milione). Passando alle religiose minori, i buddisti stranieri sono stimati in 182.000, i cristiani evangelisti in 121.000, gli induisti in 72.000, i sikh in 17.000, i cristiano- copti sono circa 19.000. L’indagine dell’Ismu evidenzia come il panorama delle religioni professate dagli stranieri è molto variegato e sfata il pregiudizio secondo cui la maggior parte degli immigrati professa l’islam. Per quanto riguarda le incidenze percentuali i musulmani sono il 2,3% della popolazione complessiva (italiana e straniera), i cristiano- ortodossi il 2,6%, i cattolici l’1,7%. Per quanto riguarda le provenienze si stima che la maggior parte dei musulmani residenti in Italia provenga dal Marocco (424.000), seguito dall’Albania (214.000), dal Bangladesh (100.000), dal Pakistan (94.000), dalla Tunisia, (94.000) e dall’Egitto (93.000). In Lombardia vivono più immigrati cattolici è la Lombardia, con 277.000 presenze, seguita dal Lazio (152.000) e dall’Emilia Romagna (95.000). Per quanto riguarda la religione degli stranieri in carcere, la situazione rispecchia quella generale. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Dap, i detenuti presenti al 31 dicembre 2016 erano 54.653, di questi 18.958 stranieri. Coloro che si sono dichiarati di religione islamica sono circa 6000. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella spiega che «la radicalizzazione nei reparti dove sono reclusi detenuti sospettati di terrorismo ed appartenenze di matrice islamica, nessun operatore parla e legge l’arabo, vivendo così nell’impossibilità di capire e dialogare con queste persone. Inoltre, salvo rarissime circostanze, gli Imam non sono abilitati ad entrare negli istituti di pena italiani. Questo porta i detenuti stessi a scegliere tra loro chi debba guidare la preghiera, senza alcuna garanzia rispetto a quanto viene professato. La presenza del ministro di culto darebbe invece la possibilità di portare nel carcere un Islam aperto e democratico». Per questo motivo apprezza la decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di affidare al vicepresidente dell’Ucoii dei corsi per il personale di polizia penitenziaria. Sempre Gonnella ricorda che «la Camera ha già approvato il ddl di riforma dell’ordinamento penitenziario dove si riconosce uno spazio ad hoc per la libertà di culto e vengono previsti una serie di diritti per i detenuti stranieri. Disegno di legge attualmente al Senato che, più volte, abbiamo sollecitato per un’immediata approvazione». Il presidente di Antigone infine conclude con un auspicio: «Va evitata la segregazione che crea il rafforzamento della radicalizzazione. Va evitata la sindrome della vittimizzazione. Va evitata la stigmatizzazione degli islamici che produce violenza e ulteriore radicalizzazione. Va evitato un sistema penitenziario affidato solo ai servizi di sicurezza. Vanno previsti programmi sociali di deradicalizzazione».

La confessione SHOCK del GIUDICE: “In ITALIA giustifichiamo i REATI degli IMMIGRATI! Ecco perché…” Si chiama Ignazio de Francisci, ed è procuratore capo di Bologna, che ha espresso molti dei suoi dubbi nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario. Oggi, su “La Verità”, è uscita un’esclusiva intervista nel quale ha rilasciato dichiarazioni molto forti. Ha iniziato dicendo che in Italia “c’è un malinteso senso di accoglienza che disorienta i giudici” che quindi diventerebbero molto più clementi con i furfanti stranieri, rispetto a quelli italiani. Inoltre, secondo De Francisci, le nostre carceri sarebbero ricercate dagli stranieri “perché meno dure e perché si esce più in fretta”. In pratica, accade che a causa di una serie di regole europee, un immigrato che viene arrestato in un altro paese della comunità europea, può richiedere di scontare la pena qui da noi in Italia. E così le nostre carceri diventano quelle più ambite da una gran bella parte di furfanti immigrati di mezza Europa. Perché l’Italia è uno dei pochissimi paesi della Comunità Europea dove vige il principio della buona condotta, con enormi sconti di pena. Come se non bastassero i delinquenti nostrani, ci ritroviamo a carico dello stato anche migliaia di delinquenti stranieri!

Lo dice il pm: "Carcere comodo: criminali stranieri scelgono l'Italia". La denuncia choc del procuratore di Bologna, Ignazio De Francisi: "Qui carcere più vantaggioso, vengono soprattutto dall’Est", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 30/01/2017, su "Il Giornale". La denuncia non viene da un pericoloso razzista xenofobo. Ma dal procuratore generale della Corte di Appello d Bologna. Ignazio De Francisci, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha lanciato l'allarme riguardo le leggi troppo poco severe, le "carceri comode" e gli sconti di pena che spingono i criminali stranieri a venire in Italia dove hanno vita facile. Non è un segreto infatti che negli ultimi anni si siano impennati i reati commessi da stranieri, che spesso vanno a ingolfare le carceri italiane. Il 32% dei detenuti (17mila su 52mila) è straniero, sebbene la popolazione immigrata in Italia sia appena l'8,5%. Gli immigrati, in sostanza, delinquono in media 4 volte in più. "Agli occhi della criminalità dell’est Europa, la commissione di delitti in Italia è operazione più lucrosa e meno rischiosa che in patria - ha detto De Francisci - E alle loro carceri sono preferibili le nostre". Per gli "amministratori di giustizia", anche in Emilia-Romagna i problemi sono sempre complessi e, rispetto al passato, in parte più gravi. I mali della giustizia. Ma i problemi della giustizia non finiscono ovviamente qui. Ieri è arrivata anche una sferzata al "troppo precariato", l'allerta sui troppi reati prescritti, il boom dei procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale che rendono la situazione "critica". A cui si è aggiunto il monito di De Francisci sulla "radicalizzazione" dei detenuti riguardo al terrorismo.

Gli intoccabili clandestini, scrive Nino Spirlì su “Il Giornale” il 2 Febbraio 2017. E perché mai dovremmo tacere sui reati e sui problemi che commettono e procurano gli oltre cinquecentomila clandestini, sbarcati forzatamente sulle nostre coste senza alcuna vera giustificazione? Fossero realmente dei poveracci che scappano da persecuzioni personali, familiari, razziali, perpetrate a loro danno nei loro paesi d’origine, potremmo anche cominciare a riflettere sulla possibilità di dar loro una mano. Ma sono quaglie grasse e arroganti, pretenziose e violente, senza nome e senza documenti che attestino la loro vera identità, nazionalità, fedina penale pulita; invece, no: spacconi, con le tasche piene di soldi destinati a caporali, scafisti, volontari venduti, capibranco e smistatori corrotti, tonache sporcaccione e nere come i fumi dell’inferno. Tutto un popolo, quello dei loro “difensori e padrini”, di delinquenti, massopoliticomafiosi, che sta costruendosi un futuro unto di sangue e merda, quanto e più dei nazisti che si spartivano gli ori raccattati nei lager. Bestie dalla faccia (ri)pulita dalla Comunicazione al soldo dei poteri occulti. Finti moralizzatori che vorrebbero imporci le loro sporche regole del silenzio, a danno della nostra onestà e libertà, costate la vita ai nostri nonni, ai nostri Eroi. No! Non resteranno impuniti o, peggio, occultati, gli orrori commessi dai clandestini sul suolo Italiano. Non taceremo sugli stupri, le violenze, gli accoltellamenti, le arroganze, le rapine, gli abusi, le pretese assurde. Non chiameremo solo delinquenti, gli zingari delinquenti che scippano quotidianamente migliaia di indifesi turisti e cittadini Italiani nelle nostre città d’Arte. Non chiameremo solo malfattori, gli africani malfattori che distruggono alberghi e case d’accoglienze, stuprano le volontarie, ammazzano la gente per strada sull’esempio di quel kabobo, che nel maggio 2013 seminò il terrore per le strade di Milano. Non saranno solo terroristi, o, peggio, malati di mente, gli islamici terroristi che stanno tritando carne umana Cristiana con le loro sporche bombe attaccate ai coglioni e fatte esplodere in mezzo alla gente ignara ed innocente. Non saremo onerosi, né stitici della lingua Italiana. Sarà pane, al pane. Nero al nero. Zingaro allo zingaro, che sia rom o sinti. Ci scandalizzeremo ancora a vedere gli Italiani che crepano di fame e si impiccano per la vergogna di essere rimasti senza lavoro e senza casa, mentre una pletora di beduini e neri scansafatiche dorme al caldo e si sveglia sui comodi letti degli hotel a 4 stelle, scia e gioca a pallone a nostre spese, mentre – per giunta – ci urla in faccia il proprio odio razziale. Difenderemo il diritto dei popoli occidentali di alzare gli stessi muri che esistono nel resto del mondo, per contrastare invasioni e malaffare. Così come difenderemo il diritto dello stato vaticano, sede non solo di vergogne e immoralità da enciclopedia, a mantenere e tutelare la bellezza e la ricchezza della cinta muraria medievale che lo preserva (e ci preserva), oggi, dalla possibile evasione del peggior papa della sua storia. Sorrideremo ancora tragicomicamente davanti ai cortei di femmine e femministe che urlano contro Trump, il quale cerca di difenderle, e restano mute davanti agli orrori e alle violenze dei paesi islamici, dove le donne valgono meno di uno sputo a terra. E continueremo a lottare perché il mare diventi muro e le navi militari, sentinelle. Perché i confini nazionali vengano rispettati, onorati. Difesi. Perché esista il nazionale e il forestiero. Lo straniero.

Perché diciamo “migrante” anziché “immigrato”? Ce lo spiega la Boldrini, scrive Adriano Scianca il 18 maggio 2015 su “Il Primato Nazionale”. “Migrante”, participio presente del verbo “migrare”. Grammaticalmente, la parola indica un’azione che è in corso, che si sta svolgendo in questo momento, senza riguardo al passato o al futuro. Indica quello che stai facendo ora, non ciò che hai fatto o ciò che farai. Non c’è né origine né destinazione in un participio presente. Forse è per questo che il termine è stato scelto come definizione ufficiale delle masse sradicate che muovono il grande business dell’immigrazione. Finché la lingua italiana ha avuto una sua logica esistevano gli emigrati (chi lasciava una terra per andare altrove) e gli immigrati (chi si era mosso da casa sua e raggiungeva un nuovo luogo), che potevano anche essere le stesse persone ma viste da prospettive differenti. L’emigrato è andato da qui verso altrove, l’immigrato è arrivato qui da altrove. Resta comunque l’idea di un punto di partenza e di arrivo, lo spostamento è una parentesi limitata al fatto di raggiungere un determinato luogo.

Nei primi anni Ottanta, tuttavia, comincia a comparire nei documenti ufficiali della Cee la parola “migrante”. Il giornalismo italiano recepisce la novità a partire dalla fine di quel decennio, ma è in questi ultimi anni che la parola entra nel linguaggio comune, sospinta anche dall’eugenetica linguistica operata dal politicamente corretto.

I motivi del cambio sono spiegati dall’Accademia della Crusca: “Rispetto a migrante, il termine emigrante pone l’accento sull’abbandono del proprio paese d’origine dal quale appunto si esce (composto con il prefisso ex via da) per necessità e mantenendo un senso profondo di sradicamento su cui proprio quel prefisso ex sembra insistere […]. Migrante sembra invece adattarsi meglio alla condizione maggiormente diffusa oggi di chi transita da un paese all’altro alla ricerca di una stabilizzazione: nei molti transiti, questo è il rischio maggiore, si può perdere il legame con il paese d’origine senza acquisirne un altro altrettanto forte dal punto di vista identitario con il paese d’arrivo, restare cioè migranti”.

L’emigrante, nel nostro immaginario collettivo, è l’italo-americano o l’italiano che si è stabilito in Belgio o Germania per trovare lavoro. Persone che, per quanto siano riuscite a integrarsi, spesso solo dopo diverse generazioni, per noi restano sempre “italiani all’estero”, con un legame anche solo virtuale che non si spezza. Ma legami e appartenenze non sono visti di buon occhio oggi, potrebbero essere portatrici o suscitatrici di razzismo.

Aggiunge il sito della Treccani: “Emigrante, come dice l’etimo, sottolinea il distacco dal paese d’origine, calca sull’abbandono da parte di chi ne esce, come segnala anche l’etimologico e- da ex- latino. Ad emigrante, proprio per via di quel prefisso, ma anche a causa del precipitato storico che si è sedimentato nell’uso della parola, si associa l’idea del permanere di un’identità segnata dal disagio del distacco, e dunque l’allusione a una certa difficoltà di inserimento nella nuova realtà di vita […]. In ogni caso, migrante sembra adattarsi meglio alla definizione di una persona che passa da un Paese all’altro (spesso la catena include più tappe) alla ricerca di una sistemazione stabile, che spesso non viene raggiunta. In tal senso, il senso di durata espresso dal participio presente che sta alla base del sostantivo viene sottolineato: il migrante sembra sottoposto a una perpetua migrazione, un continuo spostamento senza requie e senza un approdo definitivo”.

Una “perpetua migrazione”: è questo il concetto chiave. E va interpretato alla luce di un ragionamento illuminante fatto a suo tempo da Laura Boldrini, secondo la quale il migrante è “l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi”. Anzi, secondo la Boldrini gli immigrati “sono molto più contemporanei di noi. Di me ad esempio che sono nata in Italia, sono cresciuta in Italia, ho anche lavorato fuori ma poi continuerò come tanti di noi a vivere in questo Paese”. Ecco quindi perché dire “migrante” anziché “immigrato”: perché indica una condizione di sradicamento generale, di continuo movimento, di nomadismo spirituale in cui forgiare il nuovo cittadino del mondo, rappresentato dall’immigrato ma al cui modello tutti ci dobbiamo ispirare. L’immigrazione è un esperimento di laboratorio, la creazione di un uomo nuovo a cui tutti prima o poi ci dovremo conformare, eliminando il peccato originale del radicamento per essere anche noi “più contemporanei” e cessare di pensarci come italiani, marocchini, cinesi o romeni. A quel punto, finalmente, nascerà l’homo boldrinicum, senza più origini né radici. Adriano Scianca

Boldrini regina del politicamente corretto: amica dei migranti ma lei non migra, scrivono il 15 Agosto 2016 Francesco Borgonovo e Adriano Scianca su “Libero Quotidiano”. È come il bambino di quella storiella, quello che indica il sovrano in veste adamitica e dice: «Il re è nudo». Anzi, no, il paragone non calza. Questa è un'altra favola.  Qui non c' è il re, c' è una regina ed è vestita. È lei che guarda il popolo e urla: «Siete tutti nudi». È il motivo per cui perfino la sua corte la odia: parla troppo, parla troppo sinceramente, dice quello che sarebbe conveniente non dire, smaschera tutti i piani. Se sveli al popolo che lo stai riducendo in mutande, il gioco si rompe. Lei è Sua Maestà Laura Boldrini, la regina del politicamente corretto. Sul fatto che, anche nella metafora, lei sia vestita è meglio insistere, giusto per autotutelarsi: tre anni fa, per esempio, cominciò a girare in rete una foto di una donna nuda vagamente simile al presidente della Camera. Era un fake, una bufala. Ma chi la condivise sui social network si ritrovò nel giro di qualche giorno la polizia alla porta. È fatta così, lei, sta sempre allo scherzo. È una delle ragioni per cui, pur essendo l'incarnazione vivente del pensiero dominante, finisce per non riscuotere troppi consensi nemmeno in tale ambito: non solo parla troppo, ma è pure permalosa. Del resto, quando qualche anno fa decise di rendersi «più simpatica», la Boldrini scelse come consulente Gad Lerner. Uno di cui tutto si può dire tranne che sia «popolare» o, appunto, particolarmente simpatico. Basta questo particolare a rendere l'idea di quanta presa sulle masse sia capace di esercitare Laura.

Una così sarebbe capace di gettare discredito su qualsiasi causa appoggiasse. E se si tratta di una causa particolarmente impopolare, un certo tatto è necessario. Prendiamo la Grande Sostituzione. Significa che prendi l'Italia, scrolli via da essa gli italiani come se fossero formiche attaccate a un tramezzino durante un picnic, e ci metti dentro popoli venuti da altri continenti. È quello che sta succedendo, qui da noi e non solo. Ma non lo puoi dire così, altrimenti c' è il rischio che qualcuno si incazzi sul serio. Devi per lo meno girarci attorno, ammantare le tue argomentazioni di finto buonsenso, se possibile citare «gli economisti» o non precisati «studi americani». Laura no, non ce la fa. Lei è priva della malizia dei politici.  Quando prova a ragionare in soldoni risulta goffa, come quando twittò: «Italia è Paese a crescita zero. Per avere 66 milioni di abitanti nel 2055 dovremo accogliere un congruo numero di #migranti ogni anno». Sì, vabbé, ma chi se ne frega di avere 66 milioni di abitanti qualsiasi nel 2055, possiamo anche essere 55 milioni di italiani senza dover portare l'Africa intera in casa nostra, no? A quanto pare, per Madama Boldrini non è così. Ma il meglio di sé, Laura lo dà quando parla a briglia sciolta. Una delle sue uscite più memorabili riguardò la confusione tra immigrati e turisti: «Non possiamo, senza una insopportabile contraddizione, offrire servizi di lusso ai turisti affluenti e poi trattare in modo, a volte, inaccettabile i migranti che giungono in Italia dalle parti meno fortunate del mondo, spesso in condizioni disperate», disse. Ma cosa c' entra? La Boldrini proprio non riusciva a capire che noi non «offriamo» servizi di lusso a nessuno ma che i turisti li hanno solo perché pagano per averli. Per gli immigrati, invece, è lo Stato a pagare. Ma la vera origine di queste gaffes è «filosofica».

Il top del Boldrini-pensiero risiede infatti nella sua visione del futuro in stile Blade Runner. Parliamo di quella volta in cui disse che il migrante è «l'avanguardia di questa globalizzazione» e, soprattutto, è «l'avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Capito?

Non si tratta di trasformare l'immigrato in cittadino europeo, come vorrebbe (vanamente) la retorica dell'integrazione. Siamo noi a dover diventare come lui. Noi dobbiamo integrarci con i suoi usi e costumi, o meglio con il rifiuto di ogni uso o costume, occorre solo abbandonarsi a un insensato nomadismo, all' abbandono generalizzato di ogni radice. Che l'obiettivo fosse quello di ridurre in miseria noi anziché di dare benessere a loro era già chiaro. Ma, appunto, è una di quelle cose che in genere si dicono con una certa prudenza. Laura no, lei non ha filtri. Del resto non è una politica di professione e non ha quindi le astuzie della categoria.

Laureata in Giurisprudenza, durante l'università ha dedicato metà del tempo allo studio, metà a viaggi nel Sud-est asiatico, Africa, India, Tibet: all' epoca preferiva ancora andare lei nel Terzo Mondo anziché portare il Terzo Mondo qua. Giornalista pubblicista, ha lavorato per un periodo anche in Rai prima di dar seguito alla sua vera vocazione: mettere radici nell' inutile carrozzone burocratico dell'Onu. Nel 1989, grazie ad un concorso per Junior Professional Officer, comincia la sua carriera alle Nazioni Unite lavorando per quattro anni alla Fao come addetta stampa. Dal 1993 al 1998 lavora presso il Programma alimentare mondiale come portavoce e addetta stampa per l'Italia. Dal 1998 al 2012 è portavoce della Rappresentanza per il Sud Europa dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (UNHCR) a Roma. Qui scopre il suo vero eroe: il migrante. Quando vede un migrante, Laura perde ogni freno: deve ospitarlo, mantenerlo, incensarlo. Arrivano orde di stranieri sui barconi? Lei vuol dare a tutti il permesso di soggiorno. Erdogan perseguita i turchi? Nemmeno il tempo di capire se ci saranno persone in fuga dal Paese che lei è già pronta a spalancare le frontiere. Tanto, che male può mai fare il Santo Migrante? Di sicuro non può essere un possibile jihadista, perché il terrorismo e l'immigrazione, per la Boldrini, non hanno alcun legame. E, comunque sia, i conflitti religiosi non esistono. Dunque, dal migrante non ci si può attendere che buone cose. Dopo tutto, egli è un po' il partigiano del nuovo millennio. Sì, Laura lo disse davvero, nel corso di un 25 aprile: «70 anni fa erano i partigiani che combattevano per la libertà in Italia, oggi capita che molti partigiani che combattono per la libertà nei loro Paesi, dove la libertà non c' è, siano costretti a scappare, attraversando il Mediterraneo con ogni mezzo». Combattono o scappano? Perché fare le due cose insieme non è possibile. In genere si usano i verbi come due contrari, anzi. O combatti, o scappi. Ma la logica, si sa, è un riflesso indotto dalla società patriarcale. Così come la grammatica. I suoi siparietti con i deputati che si ostinano a usare la «sessista» lingua italiana sono noti. Ma per lei è una crociata: «Sono arciconvinta - ha detto recentemente al Corriere della Sera - che la questione del linguaggio rappresenti un blocco culturale.

La massima autorità linguistica italiana, la Crusca, dice chiaramente che tutti i ruoli vanno declinati nei due generi: al maschile e al femminile. Ma la maggior parte accetta di farlo solo per i ruoli più semplici, e si blocca per gli altri». La Crusca le dà ragione. La Crusca: quella di «petaloso». Per la Boldrini, la politica è fatta solo di simboli, battaglie di principio, questioni formali. Un altro dei suoi chiodi fissi sono le pubblicità. «Certe pubblicità che noi consideriamo normali, con le donne che stanno ai fornelli e tutti gli altri sul divano, danno un'immagine della donna che invece non è normale e che non corrisponde alla realtà delle famiglie», disse una volta. Donne in cucina, che orrore, dove andremo a finire di questo passo? Praticamente non parla d' altro.

Nel maggio del 2013 auspicò orwellianamente nuove «norme sull' utilizzo del corpo della donna nella comunicazione e nella pubblicità» perché «se la donna viene resa oggetto nella sua immagine puoi farne quel che vuoi». Si sa, è un attimo passare dallo spot della crema abbronzante al femminicidio. Passarono pochi mesi e nel luglio 2013, si guadagnò più di qualche critica definendo una «scelta civile» quella della Rai di non trasmettere più Miss Italia. Nel settembre successivo tornò sul punto in un convegno, parlando di pubblicità e stampa. «Penso a certi spot italiani in cui papà e bambini stanno seduti a tavola mentre la mamma in piedi serve tutti. Oppure al corpo femminile usato per promuovere viaggi, yogurt, computer». Pubblicità obbligatorie con papà che cucinano: è praticamente il punto in cima alla sua agenda. Il femminismo caricaturale della Boldrini arriva al punto di distinguere gli attacchi politici a seconda del genere di chi attacca: «Per principio mi rifiuto di entrare in dispute tra donne che vanno a indebolire la posizione femminile. Se una donna mi attacca, mi aggredisce in quanto donna, non rispondo. Non mi presto». Ma che vuol dire? Se ti attacca un uomo rispondi, se lo fa una donna no? Questa non è discriminazione? Curioso strabismo. Non è l'unico caso.

Attenta alle parole degli spot, Laura è stata molto più di bocca buona nel soppesare il linguaggio del «Grande imam di al-Azhar Ahmad Mohammad Ahmad al-Tayyeb», invitato qualche mese fa a tenere una «Lectio Magistralis» sul tema «Islam, religione di pace» che si sarebbe dovuta tenere nella Sala della Regina di Montecitorio. E pazienza se lo stesso aveva esaltato gli attacchi suicidi contro i civili in Israele, se aveva detto in tv che alle mogli si possono rifilare «percosse leggere», se ai combattenti dell'Isis voleva infliggere «la morte, la crocifissione o l'amputazione delle loro mani e piedi» ma non - attenzione - perché siano degli assassini, ma perché «combattono Dio e il suo profeta», cioè perché non interpretano l'islam come dice lui. Le donne in cucina negli spot, no. Se vengono percosse leggermente dall' imam, invece, va tutto bene. Contraddizioni, ipocrisia? Non nel fantastico mondo di Laura. Dove tutti i migranti sono buoni. Anche perché tutti sono migranti. Francesco Borgonovo e Adriano Scianca

Chissà se madonna Laura Boldrini, papessa della Camera, ha letto di recente I promessi sposi e s'è dunque imbattuta in Donna Prassede, bigottissima moglie di Don Ferrante, convinta di rappresentare il Bene sulla terra e dunque affaccendatissima a "raddrizzare i cervelli" del prossimo suo e anche le gambe ai cani, sempre naturalmente con le migliori intenzioni, di cui però - com'è noto - è lastricata la via per l'Inferno, scrive Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano l'11 marzo 2014. Noi tenderemmo a escluderlo, altrimenti si sarebbe specchiata in quel personaggio petulante e pestilenziale descritto con feroce ironia da Alessandro Manzoni, e avrebbe smesso di interpretarlo ogni giorno dal suo scranno, anzi piedistallo di terza carica dello Stato. Invece ha proseguito imperterrita fino all'altroieri, quando ha fatto sapere alla Nazione di non avere per nulla gradito l'imitazione "sessista" della ministra Boschi fatta a Ballarò da Virginia Raffaele, scambiando la satira per lesa maestà e l'umorismo su una donna potente per antifemminismo. E chissenefrega, risponderebbe in coro un altro paese, abituato alla democrazia, dunque impermeabile alla regola autoritaria dell'Ipse Dixit. Invece siamo in Italia, dove qualunque spostamento d'aria provocato dall'aprir bocca di un'Autorità suscita l'inevitabile dibattito.

Era già capitato quando la Rottermeier di Montecitorio aveva severamente ammonito le giovani italiane contro la tentazione di sfilare a Miss Italia, redarguito gli autori di uno spot che osava financo mostrare una madre di famiglia che serve in tavola la cena al marito e ai figli, sguinzagliato la Polizia postale alle calcagna degli zuzzurelloni che avevano postato sul web un suo fotomontaggio in deshabillé e fare battutacce - sessiste, ça va sans dire - sul suo esimio conto (come se capitasse solo a lei), proibito le foto e i video dei lavori parlamentari in nome di un malinteso decoro delle istituzioni, fatto ristampare intere risme di carta intestata per sostituire la sconveniente dicitura "Il presidente della Camera" con la più decorosa "La presidente della Camera". Il guaio è che questa occhiuta vestale della religione del Politicamente Corretto è incriticabile e intoccabile in quanto "buona". E noi, tralasciando l'ampia letteratura esistente sulla cattiveria dei buoni, siamo d'accordo: Laura Boldrini, come volontaria nel Terzo Mondo e poi come alta commissaria Onu per i rifugiati, vanta un curriculum di bontà da santa subito. Poi però, poco più di un anno fa, entrò nel listino personale di Nichi Vendola e, non eletta da alcuno, anzi all'insaputa dei più, fu paracadutata a Montecitorio nelle file di un partito del 3 per cento e issata sullo scranno più alto da Bersani, in tandem con Grasso al Senato, nella speranza che i 5Stelle si contentassero di così poco e regalassero i loro voti al suo governo immaginario. Fu così che la donna che non ride mai e l'uomo che ride sempre (entrambi per motivi imperscrutabili) divennero presidenti della Camera e del Senato.

La maestrina dalla penna rossa si mise subito a vento, atteggiandosi a rappresentante della "società civile" (ovviamente ignara di tutto) e sventolando un'allergia congenita per scorte, auto blu e voli di Stato. Salvo poi, si capisce, portare a spasso il suo monumento con tanto di scorte, auto blu e voli di Stato. Tipo quello che la aviotrasportò in Sudafrica ai funerali di Mandela, in-salutata e irriconosciuta ospite, in compagnia del compagno. Le polemiche che ne seguirono furono immancabilmente bollate di "sessismo" e morte lì. Sessista è anche chi fa timidamente notare che una presidente della Camera messa lì da un partito clandestino dovrebbe astenersi dal trattare il maggior movimento di opposizione come un branco di baluba da rieducare, dallo zittire chi dice "il Pd è peggio del Pdl" con un bizzarro "non offenda", dal levare la parola a chi osi nominare Napolitano invano, dal dare di "potenziale stupratore" a "chi partecipa al blog di Grillo", dal ghigliottinare l'ostruzionismo per agevolare regali miliardari alle banche. Se ogni tanto si ghigliottinasse la lingua prima di parlare farebbe del bene soprattutto a se stessa, che ne è la più bisognosa. In fondo non chiediamo molto, signora Papessa. Vorremmo soltanto essere lasciati in pace, a vivere e a ridere come ci pare, magari a goderci quel po' di satira che ancora è consentito in tv, senza vederle alzare ogni due per tre il ditino ammonitorio e la voce monocorde da navigatore satellitare inceppato non appena l'opposizione si oppone. Se qualcuno l'avesse mai eletta, siamo certi che non l'avrebbe fatto perché lei gli insegnasse a vivere: eventualmente perché difendesse la Costituzione da assalti tipo la controriforma del 138 (che la vide insolitamente silente) e il potere legislativo dalle infinite interferenze del Quirinale e dai continui decreti del governo con fiducia incorporata (che la vedono stranamente afona). Se poi volesse dare una ripassatina ai Promessi Sposi, le suggeriamo caldamente il capitolo XXVII: "Buon per lei (Lucia) che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d'esser raddrizzati e guidati; oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s'offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que' luoghi un'attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni affare. Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d'altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza". Poco dopo, sventuratamente, la peste si portò via anche lei, ma la cosa fu così liquidata dal Manzoni: "Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto". Amen.

Sgarbi contro il vocabolario politicamente corretto della Boldrini, scrive il 4 gennaio 2017 "New notizie". Vittorio Sgarbi vs Laura Boldrini: il noto critico d’arte, che non si fa problemi a dire pubblicamente quello che pensa di ogni situazione che richiami la sua attenzione, ha preso di mira la Presidente della Camera, Laura Boldrini: non si tratta della prima volta, ricordiamo che quest’estate Sgarbi aveva demolito la sua decisione di istituire una fantomatica commissione parlamentare contro l’Odio. “La Commissione contro l’odio porterà a risultati sorprendenti. Riconosceremo finalmente i sentimenti di Totò Riina. Saremo indotti a giustificarlo e forse ad amarlo, anche se non lo abbiamo concesso ai suoi figli. Sì, esorcizziamo l’odio. Cerchiamo le radici del male.  Perché odiare gli assassini del Bangladesh? Perché provare rabbia e rancore? Rispettiamo lo slancio religioso dei terroristi. Condividiamo il loro martirio, i valori reali che li ispirano” aveva allora criticato Sgarbi. Ma non si ferma qui: il noto critico, che ha tantissimi seguaci sui social e non solo, ha anche preso di mira il nuovo vocabolario della Boldrini, il cui scopo politico primario sembra essere quello di declinare al femminile ogni nome. Con buona pace della grammatica italiana. ‘Sindaca’ e ‘Ministra’ o addirittura ‘Presidente’, neologismi che sono già mutuati da alcuni organi di informazione. Per deridere questa “battaglia”, Sgarbi chiama il presidente della Camera Boldrina. “Napolitano ha detto una cosa semplice: che i ruoli prescindono dai sessi, che non si applicano ai sessi, che sono persone ma che essendo di genere femminile non diventano femminili, un persono sostiene Sgarbi.

"Cara Presidente Boldrini, adesso ti racconto il mio stupro". Polemiche per i silenzi della Presidente su Rimini. Così la donna violentata nella Capitale da due rom scrive alla terza carica dello Stato: "Sulle violenze sessuali dei 4 immigrati la politica dice cose folli, e quel mediatore va cacciato" di (Lettera firmata dalla ragazza violentata da due rom a Roma) Pubblicata su “Il Tempo” il 30 Agosto 2017. "Caro direttore, mi permetta l’intrusione ma a tutto c’è un limite. Le chiedo un po’ di spazio e un po’ di coraggio che so non mancarle. Ci ho pensato e ripensato ma penso che oggi serva far parlare i fatti per mettere fine a questa follia dello stupro politico-mediatico. Le voglio raccontare in diretta cosa prova una donna, di qualsiasi nazionalità o religione, quando viene violentata. Le racconto cosa significa precipitare all’inferno, sporcarsi l’anima e non rivedere mai più la luce. Non ne posso più dell’ipocrisia della politica che interviene o non interviene a seconda se lo stupratore è un immigrato oppure no (o nel caso della signora Boldrini che ha condannato lo stupro di Rimini a tre giorni dai fatti e solo dopo le polemiche sollevate dai suoi avversari) o perché qualche simpaticone, tipo quel mediatore culturale della coop, rilancia l’idea che lo stupro è tale solo all’inizio perché poi la donna si calma e gode. Ora le racconto..."

"Cara Boldrini, ti racconto il mio stupro". Sul quotidiano Il Tempo, la lettera di una ragazza vittima della brutalità due rom nella Capitale: "Ora basta col perbenismo", scrive Luca Romano, Mercoledì 30/08/2017, su "Il Giornale". "Le voglio raccontare in diretta cosa prova una donna, di qualsiasi nazionalità o religione, quando viene violentata". Inizia così una lettera pubblicata in prima pagina dal quotidiano Il Tempo e firmata da una ragazza violentata da due rom a Roma. "Non ne posso più dell'ipocrisia della politica che interviene o non interviene a seconda se lo stupratore è un immigrato oppure no (o nel caso della signora Boldrini che ha condannato lo stupro di Rimini a tre gironi dai fatti e solo dopo le polemiche sollevate dai suoi avversari) o perché qualche simpaticone, tipo quel mediatore della coop, rilancia l'idea che lo stupro è tale solo all'inizio perché poi la donna si calma e godo", scrive la ragazza. Che poi si addentra nel racconto della sua tremenda vicenda in cui è finita vittima di "esseri umani stranieri che sarebbe meglio chiamare animali". "Mentre chattavo su Facebook al telefono con il mio ex ragazzo ho visto un'ombra nera allungarsi sempre di più. Mi sono fermata per capire cosa fosse ma quando l'ho vista correre verso di me era già troppo tardi. Ho provato a strillare ma l'urlo è tornato in gola rimbalzando sulla mano pigiata sulla bocca. Quell'uomo mi ha colpita e trascinato attraverso oltre la rete fino a chiudermi in una baracca maleodorante. Due belve feroci. Non era solo, quel bastardo. Mi hanno fatto sdraiare su un materasso putrido, strappato, mi hanno bloccato le gambe e a quel punto ho chiuso gli occhi e pregato mentre mi sentivo strappare la pelle, violare nell' intimità, in balia del mostro, privata della mia libertà, carne da macello. Come se la mia vita non avesse valore. Piangevo e tremavo mentre quei maiali si divertivano a turno. Sarà politicamente scorretto, sarà non bello a dirsi, sarà che cristianamente bisogna perdonare, ma queste persone, caro direttore, non credo possano vivere in mezzo a noi. Non posso dire cosa gli farei, ma chiunque nelle mie condizioni penserebbe di fargli esattamente le stesse cose. Fatico a considerarli umani. Perversi, infami, vigliacchi, questo sono". La ragazza poi spiega di aver ripensato a quel momento quando la vicenda dello stupro di Rimini ha fatto capolino nelle cronache. Anche lì uno stupro violento nei confronti di una donna e poi di un transessuale. "Per quegli schifosi, quell'abuso sessuale era una via di mezzo tra una festa e un sacrificio. Io ero lì, loro fumavano, bevevano, ridevano, si sfogavano sessualmente, parlavano tra loro mentre io ero buttata lì. Poi, forse per eccitarsi, inframezzavano parole in italiano e discutevano ad alta voce se uccidermi o tenermi invita, ovviamente dopo aver fatto un altro giro sguazzando nella mia carne, stuprando la mia anima. E ridevano, quanto ridevano...", si legge ancora sul Tempo. Poi alla fine la ragazza è riuscita a scappare, approfittando di un momento di distrazione di uno dei rom. Un incubo finito. Un incubo che rimarrà impresso indelebilmente nella sua anima. "Sa, direttore, tanta era la vergogna che non ho detto nulla a mio papà per 4 giorni, non volevo farlo soffrire. Poi però non ce l'ho fatta e mi sono liberata di tutto. Lui è stato un papà d' oro, si sorprendeva solo del silenzio stampa intorno a questa storia che coinvolgeva dei rom (zingari non si può scrivere, vero?). Ma non si dava pace. Temeva che altre ragazze potessero fare la mia stessa fine. Sa cosa ha fatto? Ha riempito il quartiere di volantini per raccontare cos'era successo, ed è solo a quel punto che i giornali hanno cominciato a scrivere. Non voglio buttarla in politica, non mi interessa. Non sono di destra e nemmeno di sinistra. Ma da allora sono iniziate ad accadere cose assurde. Certe associazioni di sinistra non solo non hanno avuto il minimo rispetto per quanto avevo subìto, ma hanno addirittura detto per telefono a mio padre che non doveva manifestare perché i due violentatori erano dei rom e così si sarebbe alimentato il «razzismo». Quei giorni sono stati terribili, ci chiamavano «fascisti», andavano in giro per il quartiere a mettere voci in giro che io mi ero inventata tutto, che ero una puttana". Infine l'appello: "Supplico tutti a finirla con questo politichese da schifo, col perbenismo, coi due pesi e le due misure. Perché quel che è capitato a me può capitare stasera a vostra figlia. Vorrei che la signora Boldrini, che tanto si batte per i diritti delle donne, non avesse remore a parlare di immigrati se immigrati sono gli stupratori, o di italiani se un italiano fa cose del genere. La violenza sessuale non ha colori, ideologie, religioni".

Boldrini clandestina. Accusa la polizia violenta, ma tace sugli stupratori nordafricani. Poi insulta chi la critica. E a Rimini il branco è ancora libero, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 30/08/2017, su "Il Giornale".  Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, critica a modo suo Laura Boldrini per il silenzio sullo stupro di Rimini e scoppia il pandemonio. La presidentessa è poi uscita dal riserbo solo per difendere se stessa dall'attacco, ma ancora una volta non ha detto una parola sulla ragazza vittima e sui nordafricani immigrati suoi aguzzini. Piagnucola come una bambina viziata, quasi che il problema del Paese e delle donne fosse la Meloni e non i suoi amici migranti fuori controllo e spesso in combutta con la delinquenza locale. Clandestina tra i clandestini, per la Boldrini è violenta solo la polizia che pochi giorni fa ha sgomberato una casa nel centro di Roma occupata dai clandestini e che oggi si scopre essere stata pure un «ufficio» dei trafficanti di esseri umani. Vorremmo tanto che la presidentessa della Camera, terza carica dello Stato, rompesse il silenzio per fare un appello alle comunità di immigrati che da quattro giorni proteggono, aiutano e forse ospitano i nordafricani autori dello stupro, sottraendoli così alla giustizia. Avremmo voluto vederla all'ospedale di Rimini a portare la solidarietà di tutti gli italiani alla ragazza vittima dell'abuso. Avremmo voluto sentirla zittire chi in questi giorni dà a noi dei razzisti perché abbiamo osato svelare l'identità (scomoda per quelli del politicamente corretto) degli aggressori. Sarebbe stata interessante una sua riflessione sul fatto che nella cultura islamica lo stupro non è poi così grave perché la donna non ha diritti, come scritto nel Corano (anzi, come noto, un giovane mediatore culturale pakistano da noi gentilmente ospitato, e pagato, ha sostenuto nelle scorse ore che alle donne lo stupro, superato il primo impatto, piace assai). Purtroppo le nostre speranze resteranno deluse. Ci resta la speranza che le donne italiane, soprattutto le politiche di ogni partito, in questa ennesima polemica, sappiano scegliere da che parte stare. Chi sta con i silenzi della Boldrini agevolerà la voglia di immunità degli stupratori nordafricani, della loro comunità e di eventuali balordi italiani che li stanno proteggendo; chi starà con Giorgia Meloni sarà al fianco della ragazza stuprata.

Filippo Facci su "Libero Quotidiano" il 29 Agosto 2017: le stuprate godono? È ciò che pensano gli islamici in Africa e Medio Oriente. Fosse solo un demente - un cretino, un idiota, scegliete voi - sarebbe meno grave: «Lo stupro è un atto peggio ma solo all’inizio, una volta che si entra il pisello poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale». Ma non è solo un demente sgrammaticato: ad aver scritto che alle donne, in pratica, lo stupro piace - scritto su Facebook a commento della violenza di Rimini - è un 24enne che si chiama Abid Jee e che vive a Crotone anche se studia giurisprudenza a Bologna. Ma non è solo un demente sgrammaticato e immigrato che si presuppone minimamente istruito: è uno che, intanto, fa anche il «mediatore culturale e operatore sociale» in una cooperativa bolognese che gestisce migranti e che, l’anno passato, ha guadagnato 883.992 euro di utile: dunque costui, con questa mentalità progredita, sarebbe un pontiere tra la nostra cultura e un’altra. Quale? Ecco, ci siamo: perché costui non è solo un demente e un migrante istruito eccetera che viene pagato per gestire altri migranti e fa il mediatore culturale, ma la cultura che dovrebbe «mediare» è quella islamica, visto che è un pakistano di Peshawar (paese dove i musulmani sono il 98 per cento) e visto che a quanto pare frequentava una comunità islamica. Da qui, in sintesi, il giustificato sospetto che la sua considerazione della donna non sia tanto quella di un demente, ma semplicemente quella di un musulmano: quella, cioè, che la sua cultura e religione gli suggeriscono. Tipo che la donna sia inferiore, impari, sprovvista di tutti i diritti, una bambola in mano all’uomo, una a cui spetta meno quota di eredità, la cui testimonianza vale meno nei processi, una che non può decidere di divorziare, viaggiare, guidare, fumare, talvolta studiare o vestirsi senza celare il corpo. Questo è lo status femminile nei paesi più ortodossi, beninteso: laddove una 19enne saudita, per esempio, è stata violentata da un gruppo di sette uomini e però poi, a processo, è stata condannata a 200 frustate perché colpevole di trovarsi in un luogo pubblico senza un membro maschio della famiglia. Accadeva nel 2015. Ma qui per fortuna siamo in Occidente, dove esiste una «mediazione culturale» che ti permette di sostenere, al massimo, che alle donne piace essere stuprate purché abbiano la pazienza di aspettare che «entra il pisello». Ora: se per voi questa è una notiziola - come l’hanno trattata molti quotidiani online - per noi non lo è, perché sintetizza molte cose. Ovviamente è scoppiato un casino. Il mediatore culturale ha subito rimosso il suo commento da Facebook ma era comunque troppo tardi: tanto che la cooperativa Lai Momo di Sasso Marconi, nel pomeriggio, ha dovuto smarcarsi e ha detto di ritenere «gravissime» le sue dichiarazioni. Il ragazzo lavorava all’hub regionale di via Mattei dove si smistavano i migranti poi ridistribuiti in tutta la regione o in altre strutture di accoglienza della città: prima di essere assunto a tempo determinato, e di firmare il contratto, ha dovuto sottoscrivere un codice etico che a questo punto ci piacerebbe leggere. La decisione di sospenderlo è avvenuta solo dopo le polemiche politiche: non tanto quelle della consigliera comunale della Lega Nord Lucia Borgonzoni («gente così meriterebbe solo di stare in galera», mi aspetto «una presa di posizione dalla comunità islamica cittadina») ma solo dopo l’intervento dell’assessore bolognese al welfare Luca Rizzo Nervo: «Parole di una gravità inaudita da parte di un operatore sociale che opera nel campo della accoglienza dei migranti: è intollerabile». Sì, lo è. Se n’erano già accorti tutti da diverse ore. Ma l’assessore si è detto certo «che la cooperativa, che conosco per la serietà del lavoro che svolge, saprà trarre le conseguenze». Insomma, si sono telefonati. In serata sui social è poi circolato un cosiddetto «fake» (un falso) scritto da un presunto esponente del Pd, Alberto Neri: «Abid non ha detto nulla di sbagliato, a livello biologico ha ragione». Un falso, appunto. O - peggio - l’esito di una mediazione culturale.

Comunisti tolleranti contro i blasfemi, detrattori della fede e delle tradizioni nazionali e intolleranti contro il buon senso.

Colonia: a Capodanno donne aggredite da mille uomini ubriachi “di origini arabe o nordafricane”. La notte si è conclusa con oltre 90 denunce, una delle quali per stupro, anche se la polizia crede che aumenteranno nei prossimi giorni. Il sindaco Reker: "Quello che è accaduto è inaudito". E anche a Monaco si sono verificati episodi simili nella notte di San Silvestro, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 gennaio 2016. Circondate, palpate, molestate e derubate la notte di Capodanno. A Colonia un migliaio di uomini ubriachi tra i 15 e i 39 anni e “di origini arabe o nordafricane” hanno aggredito decine di donne la notte di San Silvestro nei pressi del Duomo e della stazione dei treni. Il risultato: 90 donne che hanno denunciato furti e molestie, incluso uno stupro, anche se la polizia ritiene che le segnalazioni aumenteranno nei prossimi giorni. “Quello che è accaduto è inaudito”, ha detto il sindaco di Colonia Henriette Reker, accoltellata in ottobre alla vigilia delle elezioni per il suo atteggiamento favorevole all’accoglienza dei rifugiati siriani. Un suo portavoce ha assicurato che il sindaco non intende tollerare che nella sua città vi siano aree dove la legge non è rispettata. Allo stesso tempo vi è il timore che la vicenda venga strumentalizzata da gruppi razzisti o anti migranti. La Reker vuole anche predisporre un piano di sicurezza per il Carnevale, che ogni anno richiama oltre un milione di visitatori nella città renana e oggi coordinerà l’unità di crisi che dovrà varare misure per tutelare in futuro le donne da violenze di questo genere. E anche Angela Merkel, secondo quanto riferito dal suo portavoce Steffen Seibert, ha chiesto una dura risposta dello Stato di diritto. In una telefonata al sindaco di Colonia, la Cancelliera ha espresso il suo sdegno per le violenze, ha aggiunto Seibert, e ha chiesto che ogni sforzo venga indirizzato per indagare e condannare al più presto i colpevoli, senza riferimento alla loro origine. La dinamica – Gli uomini si sono radunati in piazza per poi dividersi in gruppi più piccoli, di 5 persone circa ciascuno, che hanno proseguito la caccia alle donne e hanno lanciato, secondo quanto raccontato dalla polizia, una quantità fuori dall’ordinario di petardi e fuochi d’artificio. E gli aggressori non si sono fatti impressionare neppure dall’intervento della polizia, sempre più massiccio. Intanto alcune vittime hanno raccontato ai media tedeschi la loro notte dell’orrore. La 27enne Anna ha descritto così allo Spiegel online il suo arrivo con il fidanzato alla stazione centrale: “L’intera piazza era gremita di soli uomini. C’erano poche donne isolate, impaurite, che venivano fissate. Non posso descrivere come mi sono sentita a disagio”. Ma Colonia non è stata l’unica città in cui si sono verificati questi episodi. Anche la polizia di Amburgo sta indagando su reati simili, sempre avvenuti nella sera di Capodanno. Nella città anseatica, luogo delle aggressioni è stata la Reeperbahn, la via nel quartiere St. Pauli famosa per i locali a luci rosse. Anche qui gruppi di uomini hanno circondato e molestato sessualmente donne che festeggiavano l’inizio del nuovo anno, derubandole di soldi e telefonini. Un portavoce della polizia ha spiegato che si indaga su 9 casi.

Stranieri e rifugiati siriani fra gli assalitori di Colonia. Il rapporto: «Le donne hanno dovuto attraversare delle forche caudine». Denunciate altre aggressioni sessuali dalla Finlandia alla Svizzera, scrive Elena Tebano l'8 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. A sera la piazza tra la stazione e la cattedrale di Colonia è quasi vuota, pochi lampioni a illuminarla mentre i passanti si affrettano sul selciato battuto dalla pioggia e sfilano tra i quattro poliziotti in tenuta antisommossa che presidiano l’ingresso principale ai binari. Un tentativo di mostrare che lo Stato c’è, mentre montano sempre di più le critiche per la risposta insufficiente delle forze dell’ordine alle aggressioni che la notte di Capodanno hanno trasformato il cuore della città in un inferno per «le donne che - come si legge in un rapporto della polizia - sole o accompagnate hanno dovuto attraversare delle vere e proprie forche caudine formate da masse di uomini pesantemente ubriachi». Intanto sono salite a 121 le denunce: «In tre quarti dei casi - ha affermato un portavoce della polizia - si tratta di reati a sfondo sessuale spesso avvenuti in concomitanza con furti o borseggi». Due denunce sono per stupro, le altre per «furti o lesioni». Sedici i sospetti identificati, «in gran parte uomini di origine nordafricana». Secondo il settimanale Der Spiegel ci sarebbero inoltre 4 fermati: due nordafricani accusati di furto e arrestati già a Capodanno, e altre due persone, in cella da quattro giorni, su cui le autorità non hanno dato informazioni e che sono invece accusate di molestie sessuali. La polizia assicura adesso di aver messo al lavoro sulle aggressioni ben 80 agenti (una task force chiamata senza nessuna ironia «Neujahr», «anno nuovo»), ma dal rapporto interno pubblicato ieri da Der Spiegel e dal quotidiano Bild emerge che gli uomini dispiegati l’ultimo dell’anno erano invece del tutto insufficienti ad affrontare il «caos» di «risse, furti, assalti sessuali alle donne» e che «le forze presenti non hanno potuto controllare tutti gli avvenimenti, gli assalti e i reati, perché erano troppi contemporaneamente». In alcune fasi non è stato possibile, scrive il funzionario rimasto anonimo, neppure verbalizzare tutte le denunce. Ma a suscitare polemiche sono anche i particolari che emergono sui presunti aggressori: molte vittime hanno confermato che erano stranieri, all’apparenza immigrati. E persino rifugiati: «Sono siriano, dovete trattarmi amichevolmente, mi ha invitato la Signora Merkel!» avrebbe detto uno dei sospetti citato nel rapporto. Altri avrebbero strappato i loro permessi di soggiorno di fronte agli agenti: «Non potete farmi niente - avrebbero commentato sprezzanti - domani vado a prendermene uno nuovo». Le molestie di Colonia non sono un fatto isolato: altre 70 aggressioni a sfondo sessuale sono state denunciate ad Amburgo, 12 a Stoccarda, sei nella vicina Svizzera, a Zurigo. Anche a Helsinki, in Finlandia, nella notte di Capodanno ci sono state molestie sessuali diffuse nella piazza centrale, che ospitava circa ventimila persone per i festeggiamenti, e sono stati denunciati tre stupri nella stazione centrale, dove si erano radunate circa mille persone, per lo più iracheni. In quest’ultimo caso i presunti aggressori sono tre richiedenti asilo, che sono stati arrestati. Al momento non risultano legami tra quanto successo nelle diverse città, ma ci sono stati contatti tra le polizie europee e tra le ipotesi al vaglio degli investigatori c’è quella di una comune regia: forse da parte di gruppi xenofobi che potrebbero aver aizzato gruppetti di immigrati per poi cavalcare l’indignazione causata dagli assalti. Di certo a Colonia il problema furti e molestie non è nuovo: «Nella zona della stazione si aggirano bande di giovanissimi che sono arrivati da adolescenti in Europa da Tunisia, Algeria e Marocco, si spostano spesso da un Paese all’altro e vivono di espedienti - dice al Corriere un volontario che lavora con i migranti e chiede di rimanere anonimo -. È possibile che fossero tra coloro che hanno agito a Capodanno. In generale quando ci sono gruppi di soli uomini fatti o ubriachi, non conta da quale Paese arrivino, facilmente ne fanno le spese le donne. Di solito qui succede a Carnevale, che attira sempre una grossa folla. La polizia lo sa e arriva con gli autobus per arrestarli. A Capodanno però nessuno se lo aspettava».

Colonia, gli immigrati dopo le violenze: "Da qui non potete cacciarci, ci ha invitati Frau Merkel". "Persone di origine straniera hanno lanciato molotov". In un rapporto choc gli agenti di Colonia smascherano le violenze degli immigrati: "Capodanno fuori controllo". Ed emerge tutta l'arroganza degli stranieri nei confronti delle forze dell'ordine, scrive Andrea Indini Giovedì 07/01/2016 su “Il Giornale”. Il caos e il clima di violenza della notte di Capodanno, a Colonia, dove un centinaio di donne indifese sono state aggredite, molestate e derubate da un migliaio di immigrati ubriachi, avrebbero potuto "anche provocare dei morti". Il rapporto choc della polizia tedesca, di cui la Bild pubblica alcuni stralci, svela senza più ombra di dubbio le gravissime colpe degli immigrati che la notte di San Silvestro hanno tenuto in ostaggio Colonia. Nel dossier si descrivono fra l'altro gli attacchi con bottiglie molotov e oggetti contundenti contro la polizia a cui è stato del tutto "impossibile" identificare gli aggressori delle violenze denunciate da donne in lacrime a fatti ormai avvenuti. Mentre il bilancio dei sospettati sale a sedici, le donne che hanno denunciato di essere state aggredite nella notte di San Silvestro sono già 121. Due terzi delle denunce riguardano anche molestie sessuali. In due casi, invece, si tratta di stupro vero e proprio. I principali sospettati non sono ancora stati identificati per nome, ma gli inquirenti li avrebbero già chiaramente riconosciuti attraverso le immagini video. Per vittime e testimoni oculari gli aggressori erano per lo più di origine nordafricana e araba. "Se emergesse che fra i responsabili ci sono anche dei richiedenti asilo - ha assicurato il ministro della Giustizia Heiko Maas - questi potrebbero essere espulsi". Anche per la cancelliera Angela Merkel è necessario trarre estese conseguenze da quanto accaduto. "Ad esempio - ha detto - dobbiamo valutare se finora sia stato fatto abbastanza per le espulsioni di stranieri macchiatisi di reati". Nel rapporto della polizia di Colonia ci sono, poi, le voci provocatorie di alcuni immigrati. Voci che provano il fallimento delle politiche buoniste della cancelliera. Ascoltarle è un ulteriore affondo a tutte quelle donne che, durante i festeggiamenti di Capodanno, sono state molestate e aggredite. "Sono siriano - ha urlato in faccia un profugo a un agente che lo aveva fermato - dovete trattarmi bene, mi ha invitato Frau Merkel". Un altro straniero, dopo aver stracciato il permesso di soggiorno "con un ghigno", ha sfidato il poliziotto deridendolo:"Non puoi farmi niente. Ne prendo un altro domani". Anche se non vi è alcun collegamento con i drammatici fatti di Colonia, a Weil am Rhein quattro siriani sono stati arrestati per aver violentato due adolescenti la vigilia di Capodanno. Le ragazze si trovavano nell'appartamento di uno degli immigrati quando sono arrivati il fratello 15enne e altri due 14enni e la situazione è degenerata. Le giovani sono state ripetutamente stuprate, per tutta la notte.

VIOLENZA SU 80 DONNE A COLONIA DA PARTE DI 1.000 “INTEGRATI”! IL SILENZIO ASSORDANTE DEI NOSTRI MEDIA, DELLA NOSTRA POLITICA RADICAL-CHIC E DELLA NOSTRA “INTELLIGHENTIA” (di Giuseppe Palma il 7 gennaio 2016). Circa 1.000 uomini (di origine nord-africana ed araba) hanno abusato, molestato e in alcuni casi violentato circa 80 donne! Al di là dei pesanti aspetti criminosi, che ovviamente riceveranno – si spera – un’adeguata risposta da parte della giustizia tedesca, il problema è tutto politico: la totale assenza dell’UE e l’ipocrisia della classe dirigente della maggior parte degli Stati europei, soprattutto di quella italiana. La nostra intellighenzia radical-chic (che poi è quella che vota Partito Democratico, SEL e Scelta Civica), sempre pronta a lavarsi la bocca con le parole “integrazione” e “ci vuole più Europa”, dopo i fatti di Colonia tace vigliaccamente! Su tutti, Laura Boldrini & Co., cioè quel manipolo di finte femministe, finte europeiste e finte sostenitrici dei diritti civili che – di fronte alle violenze poste in essere dai 1.000 immigrati di Colonia su 80 donne indifese – si sono nascoste dietro un silenzio assordante! Ma la storia è vecchia! Il manovratore (UE e capitale internazionale) e i politici che ne sono a libro paga non vogliono che il popolo si renda conto delle bestialità che stanno accadendo! L’immigrazione selvaggia serve all’€uro per poter abbassare i salari e le garanzie contrattuali/di legge del lavoratore! Quindi, bisogna a tutti i costi tacere! Vero, Laura Boldrini? Di fronte alle cene di Arcore (che Berlusconi pagava coi soldi suoi e dove mai nessuna violenza – di nessun tipo – fu fatta) tutte queste ipocrite femministe, ben appoggiate dalla solita e sporca intellighenzia di casa nostra, si scagliarono contro il “degrado” in nome della “moralità” e dell’ “immagine internazionale”. Oggi tacciono! Di fronte a qualche offesa verbale di qualche politico nostrano verso il problema dell’immigrazione, quelle stesse femministe e quegli stessi intellettuali (si fa per dire!) non si tirano indietro dall’etichettare tali episodi con parole come xenofobo, razzista, fascista etc…Il doppio-pesismo della sinistra italiana (e soprattutto dei post-comunisti e dei falsi buonisti) è qualcosa di vergognoso! Dove sono la signora Kyenge (eurodeputata PD) e il signor Chaouki (deputato PD)? Dove sono questi ipocriti benpensanti? Dov’è Niki Vendola (SEL)? Dov’è Gennaro Migliore (PD)? Dov’è Marianna Madia (PD)? Dov’è Simona Bonafè (PD)? Dov’è Anna Ascani (PD)? E soprattutto, dov’è Laura Boldrini? In tutto questo, anche i media hanno taciuto! Del resto, si sa: le linee editoriali dei giornaloni e delle TV italiane sono a favore dell’immigrazione selvaggia e dei crimini €uropei! Siamo rappresentati dalla peggiore politica e dalla peggiore intellighenzia!

Colonia: staccate la spina a questo schifo di Europa, scrive il 7 gennaio Emanuele Ricucci su "Il Giornale". Barbari! Barbari approdati nella terra di nessuno, nella terra di niente, solo un corridoio per l’avvenire, solo una capanna per la pioggia, niente più. “Le donne che hanno denunciato di essere state aggredite nella notte di San Silvestro sono già 121. Due terzi delle denunce riguardano anche molestie sessuali. In due casi, invece, si tratta di stupro vero e proprio”. Capodanno, Germania. Uomini contro donne. Prima di imparare ad essere altro, dovremmo ricordarci di essere noi stessi. Dove sono i cortei di sdegno del regime dei benpensanti? Non vedo Laura Boldrini ed accoliti, piangere, fissare un angolo silenziosamente, ansimare di dolore durante le dichiarazioni pubbliche post accaduto. Non sento il tonfo dei “buoni per davvero” del mondo omologato cadere a terra, svenuti. Non sento gridare alla fine, alla barbarie, al dramma più epocale nella storia del femminismo e dell’umanità. Non sento la rabbia, la voglia di cambiare, per davvero. Calano – gentilmente oggigiorno – i barbari, si ammosciano gli attributi. Che sia abbia il coraggio di ammettere che la situazione è fuori controllo, per Colonia? Non soltanto. Da un mese? da ben più di qualche mese. Mentre i sinistri nostrani scoprono che il dolore e l’errore provengono anche da dove non gli conviene guardare, risalgono gli echi delle “marocchinate”, dei marocchini deI Corps expéditionnaire français en Italie agli ordini del generale Alphone Juin, barbari immondi colpevoli – durante la Campagna d’Italia nella Seconda Guerra Mondiale – di migliaia di violenze ed omicidi compiuti ai danni di uomini, bambini, anziani e soprattutto, delle nostre donne, madri dei nostri figli. Colonia come le “marocchinate”, quando cominciò la vigliacca genuflessione dell’Occidente, mascherata da progresso. Tra Arabia ed Iran ai ferri corti, Schengen schifato da Paesi “liberalissimi”, tra gli esperimenti atomici koreani e l’impazzimento generale, abbiamo fior fior di ragazzoni, ipertecnologici tra le fila dell’esercito. Armi di quarantaquattresima generazione, addestrati al judo, al pugilato, al Krav Maga, finanche al Monopoly da competizione; abbiamo testate, contro testate, iper Consigli di sicurezza, abbiamo tecnologia come se piovesse. Poi miliardi di Euro di fondi da spendere in aerei supersonici, guerre, guerrette, democrazia in scatola e a domicilio ancora fumante. Abbiamo, abbiamo, abbiamo. Abbiam tutto, non abbiamo nulla. Abbiamo due guerre mondiali sulle spalle, svariate guerre di indipendenza, ribelli e ribellioni, anni di terrorismo interno, ancor prima che esterno, paure e crisi, rivoluzioni e tentate rivoluzioni e poi, e poi non riusciamo neanche ad evitare l’impensabile, a difenderci dalla brutalità di strada, come a Colonia, dopo non essere riusciti a difendere le nostre sovranità, i nostri figli, le nostre tradizioni, le nostre culture, genoma delle nostre identità. Non occorre scrivere quale sia il rimedio e neanche quale trattato invocare, quale linea di politica estera da seguire. Quale iniziativa, a mo di legge speciale stilare, né descrivere dettagliatamente a quale disastro totale stiamo assistendo. Viene solo da pensare che non ci sia più da star, poi, così tranquilli, a fermare il vomito, ormai incastrati in una marea fangosa di bulimia di informazione, si passa oltre, alla prossima notizia, con freddezza, come uno stupro. C’è tanta nausea, lo stupro è duplice. Fisico e spirituale. Come anime del purgatorio (per chi avrà la bontà di crederci) lagnanti, spaventate, inutili ed invisibili, ormai, irrinunciabilmente connesse all’orrore, dettaglio dopo dettaglio, con gli occhi aperti, come quel mattacchione di Alex nel capolavoro di Kubric, Arancia Meccanica, costretto a tenere gli occhi aperti di fronte a scene maligne, zeppe di massacro, così da provocarne rigetto. Colonia si poteva prevenire? Inutile dirlo, certamente. Colonia non si doveva neanche immaginare. Non occorre stare a dire chi aveva ragione e chi torto, capire che ne ha fino in fondo, non occorre stare a soppesare la dichiarazione minchiona del politico di turno, UE e non UE, Italì o non Italì. Fa solo venire il voltastomaco questo ragazzino presuntuoso, sciocchino e immaturo che l’Occidente, versante Europeo, è diventato. Da castrare, chimicamente, artificialmente, spiritualmente. Senza orgoglio civile, né appartenenza. Rabbia stoppata in petto, l’Occidente è politicamente corretto. Neanche alla calata dei Lanzichenecchi. Io non credo in questo, non voglio questo. Questa Europa fa schifo, senza mezzi termini. Dunque, che tramonti, si spenga pure l’Occidente insipido, ipocrita, malato di Alzheimer; vigliacco e guerrafondaio, che ha rinnegato la propria identità, che sputa sulla linearità della propria storia, che calpesta la purezza delle proprie culture genitrici. Che tramonti, questo Occidente, così da esser pronti a generarne un altro, senza sprecare neanche una vita, un’altra vita ancora. Che si plasmino le parole di Oswald Spengler, questo forse il più grande augurio da fare alla marmaglia di coinquilini ai lavori forzati che siamo oggi: “Questo è il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente. Di tali tramonti, quello dai tratti più distinti, il «tramonto del mondo antico», lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il «tramonto dell’Occidente”.

Le misure antimolestie sdi Colonia che penalizzano le vittime, scrive il 7 gennaio 2016 Giovanni Giacalone” su "Il Giornale. Le misure anti-molestie annunciate dal sindaco di Colonia, Heriette Reker destano serie perplessità in quanto non soltanto non risolvono il problema sicurezza ma paradossalmente sembrano penalizzare le stesse vittime degli abusi. E’ plausibile credere che la Reker voglia continuare a sostenere ad oltranza le sue politiche di accoglienza, ma davanti ad episodi del genere è necessario prendere immediati provvedimenti che facciano rispettare la legge e che tutelino l’incolumità del cittadino e non l’ideologia. Le linee guida del Primo Cittadino sembrano invece andare in ben altra direzione per sfociare addirittura nel contraddittorio, ad esempio: “Mantenersi a distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero”. La frase potrebbe far trasparire un certo razzismo, quasi a voler lasciar intendere che “straniero” equivalga a “molestatore”, paradossale per la ultra-tollerante Reker; oltre a ciò, il “consiglio” implica che la potenziale vittima debba girare per strada guardandosi continuamente intorno per scongiurare possibili molestatori. In poche parole, è la vittima che deve guardarsi le spalle e possibilmente evitare di girare sola, come suggerito da un altro consiglio, quello di “muoversi per le strade possibilmente in gruppo”. Fondamentale risulterebbe poi “evitare di assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di altre culture”. Decisamente agghiacciante! In questo modo non soltanto le vittime vengono colpevolizzate a discapito degli aggressori che, poverini, apparterrebbero a “culture” dove certi comportamenti “sarebbero ammessi”, ma limita palesemente la libertà di movimento della donna. Sono legali tali direttive? Qualche dubbio ce l’ho. Cosa significa poi quel “monitorare persone che potrebbero agire di nuovo”? Elementi sensibili e recidivi dovrebbero essere preventivamente messi in condizione di non nuocere, mentre sembra che diversi soggetti resisi responsabili delle aggressioni di Capodanno fossero già noti alle autorità. Davanti a episodi di questo tipo, che non dovrebbero neanche accadere, lo Stato ha il dovere di fornire risposte immediate ed efficaci per tutelare il cittadino, attraverso misure preventive e cautelative, ma nei confronti degli aggressori, non delle vittime. Segnali di debolezza e di non curanza da parte delle Istituzioni non fano altro che incentivare episodi come quelli di Colonia; speriamo di non dover assistere ad altri fatti del genere.

Germania, prove di sharia: immigrati islamici violentano, ma puniscono le donne, scrive “Riscatto Nazionale” il 6 gennaio 2016. Il sindaco della città annuncia una serie di regole per evitare il ripetersi delle violenze di Capodanno: vietato girare da sole e dare confidenza agli stranieri. L’amministrazione della città di Colonia ha annunciato che, a seguito delle violenze della notte di Capodanno, introdurrà un codice di comportamento per le donne e le bambine per scongiurare la possibilità che queste siano vittime di stupri o violenze. Ad annunciarlo è il sindaco della città Henriette Reker, che si è riunita ieri con i massimi esponenti delle forze dell’ordine locali, con i quali ha stabilito di introdurre nuove misure di sicurezza e dichiarato lo stato d’emergenza. La decisione è stata presa dopo che, durante la notte di San Silvestro, la stazione della città è caduta sotto il controllo di circa mille persone di origine mediorientale, che hanno importunato e derubato oltre 100 ragazze. “E’ importante prevenire questi incidenti” ha detto il sindaco. Il nuovo pacchetto sicurezza prevede anche l’introduzione di un codice di comportamento al quale le donne si devono attenere. Esso verrà presto reso disponibile su internet e le esorterà a mantenersi a “distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero, di non girare per le strade da sole ma sempre in gruppo, di chiedere aiuto ai passanti in caso di difficoltà, di informare immediatamente la polizia in caso notino persone sospette e di non assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di culture altre (andere Kulturkreise)”. Durante le celebrazioni del Carnevale, uno degli eventi più celebri e tradizionali della città che si terrà a febbraio, verrà aumentata la presenza delle forze dell’ordine sul territorio, il cui compito principale sarà quello di monitorare le persone che si ritiene possano agire nuovamente come a Capodanno. Un occhio di riguardo verrà dato alle persone di origini mediorientali. Il sindaco ha sottolineato che le misure introdotte non hanno alcuno sfondo razzista o xenofobo. “Non tutti gli aggressori sono dei rifugiati giunti da poco in Germania. Alcuni di loro erano già da tempo conosciuti alle forze dell’ordine. Se alcuni richiedenti di asilo sono colpevoli verranno presi provvedimenti, ma ciò non deve indurre a reazioni discriminatorie nei loro confronti”. Heriette Beck è da sempre un’attiva sostenitrice e fautrice delle politiche di accoglienza dei migranti. Per questo lo scorso ottobre era stata gravemente ferita da un estremista di destra, che l’aveva accoltellata alla gola lasciandola in fin di vita per diverso tempo.

Crolla la tesi buonista della sinistra: tra gli stupratori anche rifugiati siriani, scrive Guglielmo Federici venerdì 8 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. Vi ricordate la tesi buonista della sinistra che invitava a una distinzione quasi filologica tra rifugiati in fuga da paesi in guerra come la Siria, migranti e clandestini? Da non confondere, per carità, da non mettere tutti in unico calderone ad uso e consumo della propaganda “xenofoba”, sostenevano con le chiavi della verità in mano.  Anzi, secondo le tesi di chi gettava e getta acqua sul fuoco sui pericoli di un’invasione migratoria dagli effetti che abbiamo potuto constatare, gli illuminati della sinistra spiegavano che proprio i clandestini erano quelli che con i loro comportamenti gettavano fango su chi aveva lo status di rifugiato. Insomma, secondo il buonismo dilagante la maggior parte degli italiani sarebbe stata vittima di una cattiva comprensione del fenomeno immigrazione. Distinguere e non condannare, era la loro parola d’ordine di civiltà. Sorpresa! Questa tesi crolla, si è sbriciolata sotto i nostri occhi. A Colonia (e non solo) c’erano anche dei rifugiati all’interno del branco di un migliaio di nordafricani e mediorientali che hanno seminato panico e paura a San Silvestro. Lo riporta il Corriere on line: «Ma a suscitare polemiche sono anche i particolari che emergono sui presunti aggressori: molte vittime hanno confermato che erano stranieri, all’apparenza immigrati. E persino rifugiati: «Sono siriano, dovete trattarmi amichevolmente, mi ha invitato la Signora Merkel!» avrebbe detto uno dei sospetti citato nel rapporto della polizia», si legge sul quotidiano. Allora, continuiamo a distinguere, a capire, a minimizzare? «Altri avrebbero strappato i loro permessi di soggiorno di fronte agli agenti – si legge – «Non potete farmi niente – avrebbero commentato sprezzanti – domani vado a prendermene uno nuovo», riporta l’inviato. I fatti di Colonia, purtroppo, stanno diventando un caso europeo. Non solo a Stoccarda e ad Amburgo si sono registrati episodi di violenze analoghi, sempre a Capodanno, ma altre denunce sono arrivate dalla Svizzera – sei da Zurigo – e anche dalla Finlandia: anche Helsinki la notte di Capodanno è stata funestata da casi di molestie sessuali nella piazza centrale, che ospitava circa ventimila persone per i festeggiamenti, e sono stati denunciati tre stupri nella stazione centrale, dove si erano radunate circa mille persone, per lo più iracheni. Brutta sorpresa anche qui per i “professionisti” dei flussi migratori, perché anche in quest’ultimo caso tra i presunti aggressori ci sono tre richiedenti asilo, che sono stati arrestati. Insomma, le quisquilie dialettiche della sinistra, le distinzioni terminologiche tra immigrati bravi e cattivi, profughi, richiedenti asilo, rifugiati fanno ridere, non reggono alla prova dei fatti, non reggono alla prova di una realtà colpevolmente sottovalutata e minimizzata.

La Boldrini rompe il silenzio sugli stupri di Colonia ma non nomina i migranti, scrive Roberta Perdicchi giovedì 7 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. In un tweet del 15 ottobre 2015, Laura Boldrini solidarizzava con il nuovo sindaco di Colonia, fresco di accoltellamento xenofobo, salutando il nuovo corso “accogliente e tollerante” della cittadina tedesca. Il tutto con la solita enfasi della donna di sinistra che riconosce i semi di un mondo migliore, fatto di buoni che aiutano poveri disperati, e vuole darne notizia al mondo con i toni del messìa. Peccato che le cose, a Capodanno, siano andate in maniera un po’ diversa e che l’accogliente Colonia sia passata alle cronache per le violenze e i tentati stupri di massa degli immigrati ai danni di decine di donne tedesche. Dopo alcuni giorni di silenzio, il presidente della Camera ha finalmente sentito il bisogno di esprimere solidarietà, alle donne violentate, stavolta, non agli immigrati. Ma dimenticando di citare quel tweet nel quale la Boldrini spargeva demagogia ed enfasi sulla presunta convivenza multietnica e culturale di Colonia. «I fatti di Colonia sono molto gravi: quello che è accaduto è veramente inaccettabile e da parte nostra c’è la più ferma condanna», ha finalmente detto la Boldrini dopo che per giorni, sui social, era girato quel tweet imbarazzante e ridicolo, col senno di poi. «Io mi auguro che le autorità tedesche riescano quanto prima a fare chiarezza e le persone che si sono permesse questi atti di mancanza di rispetto, anche violenti – ha concluso – ne rispondano davanti alla giustizia». Mai, però, ha pronunciato la parola “immigrati”: come se quel termine, associato a una qualsiasi forma di violenza, fosse da nascondere, da occultare.

Il silenzio delle femministe dopo i fatti di Colonia. La paura di essere definite razziste ha fatto tacere tante attiviste di sinistra in prima linea contro la violenza sulle donne. Ma questo atteggiamento fa bene all'accoglienza? Scrive Claudia Sarritzu giovedì 7 gennaio 2016 su “Globalist”. Bisogna chiedersi cosa significa essere femminista, come significa essere di sinistra e cosa significa essere per l'accoglienza e per la libera circolazione di idee e persone, per capire cosa sta accadendo dopo i fatti di Colonia, tra le attiviste occidentali che difendono la dignità delle donne. La paura di essere marchiate come razziste, in questa occasione, a mio avviso ha fatto mettere in secondo piano la battaglia più importante per il genere femminile: quella per la nostra libertà, quella di poter circolare liberamente per le nostre città senza la paura di essere molestate o addirittura stuprate. Questo nostro inviolabile diritto non può certo essere messo in discussione solo perché si sospetta che tra i mille aggressori ci siano uomini di origine araba. Il razzismo sta proprio in questa differenza di trattamento. Un criminale, un violento, è violento qualsiasi sia il colore della sua pelle o la religione in cui crede. Siamo tutti uguali non solo nelle cose belle e onorevoli, ma anche in quelle meschine e orride. Altra questione. I fatti di Colonia non sono del tutto chiari, e solo le indagini potranno chiarire se si è trattato realmente di un attacco programmato e organizzato contro i costumi occidentali delle donne. Ma se così fosse, proprio in nome dell'integrazione, non dobbiamo venir meno alla difesa dei nostri valori, solo per paura di apparire meno "pro-immigrazione". L'immigrazione è sempre positiva quando porta pluralismo, non quando impone violenza in nome di una falsa identità culturale. Non è cultura molestare una donna. In fine credo che noi donne di sinistra dobbiamo assolutamente intraprendere un dibattito che abbia come tema l'equilibrio tra il nostro modello di vita e quello di tante donne immigrate. Tentare di trovare una conciliazione tra libertà e tradizione, senza ledere la libertà di espressione delle donne straniere, ma anche la nostra. Magari potremmo partire da una semplice distinzione tra burqa e velo. Dovremmo smetterla con l'ipocrisia tutta di sinistra di considerare il velo integrale (il burqa appunto) una scelta. Nessuna donna libera sceglierebbe di andare in giro per strada ad agosto con un telo nero che non le permette di respirare e di vedere se non da una retina. Essere dunque femminista e di sinistra e per un mondo accogliente e solidale, significa essere sempre e comunque per la libertà delle donne, libere dalla paura di etichette inutile e pericolose.

Colonia, il silenzio delle femministe sulle violenze degli immigrati. Dalla Boldrini alle femministe del Pd, tutte hanno paura a dire che i violenti erano immigrati. Per timore di dare ragione alla destra, scrive Giuseppe De Lorenzo Mercoledì, 06/01/2016, su "Il Giornale". Nemmeno il numero elevato di donne violentate nella loro intimità, nemmeno l'indignazione della pubblica opinione, niente di quello che è successo a Colonia è riuscito a scalfire il muro dell'incoerenza delle femministe nostrane. Mille uomini, di origine mediorientale, hanno violentato e derubato oltre 100 ragazze nella notte di Capodanno. Ma loro non parlano. Anzi, è bene specificare. A farlo sono stati 1000 immigrati, profughi, clandestini. Bisogna essere chiari, perché le femministe italiane vivono in questi giorni un dramma interiore che le distrugge. Sono divise tra l'accoglienza-a-tutti-i-costi e la difesa dell'integrità delle donne, dell'emancipazione, della libertà femminile. Su questi bei propositi hanno fatto una legge, quella sul femminicidio, di dubbia utilità ma dal forte impatto mediatico. Eppure, si dimenticano di condannare ad alta voce gli stupri degli immigrati. Perché? Cosa le ferma? Semplice, il buonismo. O chiamatelo come volete. Ovvero il rischio di dar ragione ai beceri della destra, ai populisti che da anni mettono la politica di fronte al problema - evidente - dell'integrazione degli altri popoli, delle culture diverse. Di quella islamica in particolare. Che in molti casi ha con la donna una relazione offensiva, lesiva dei diritti, barbara. Come si può scindere le violenze di Colonia dagli stupri di Boko Haram, dalle violenze dell'Isis, dalle schiave Yazide e dall'imposizione del burqa? Non si può. Sono principi e modi di comportamento che superano le barriere e arrivano sulle nostre coste. Immutati. E poi si manifestano nelle nostre strade, nelle nostre periferie. Pur di non dire che a mettere le mani sui seni e tra le gambe di quelle ragazze tedesche sono stati degli immigrati, le attiviste tutte preferiscono cucirsi la bocca. Quando invece occorrerebbe raccogliere gli avvertimenti di chi dice da tempo che ad integrarsi deve essere lo straniero e non un intero popolo adattarsi ai desideri di chi arriva in Occidente. Tace la Boldrini, che nel discorso di insediamento da Presidente della Camera aveva ricordato il suo impegno contro la violenza sulle donne. Quella volta era scattato l'applauso unanime dell'Aula. Oggi, invece, la Presidente ha scelto l'oblio. Dire che aveva ragione Salvini fa male. Essere d'accordo con la Meloni, pure. E' dalla parte del giusto anche la Santanché, che ha definito i fatti di Colonia "un atto di terrorismo contro le donne". "Hanno dimostrato bene il loro concetto del femminile - ha aggiunto - e cioè che non sono persone ma oggetti. Come si può dialogare con chi non rispetta le persone? Dove sono le donne del Pd e le femministe? Il loro silenzio è assordante". L'unica ad uscire dal coro del silenzio è stata Lucia Annunziata. Che sul suo blog ha riconosciuto come "il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica", ha messo in dubbio che tutti i migranti arrivati in Europa siano davvero in fuga dalle guerre, ha chiesto "barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di integrazione". Peccato che il suo sia un risveglio tardivo. Le aggressioni di Colonia, per l'Annunziata, sarebbero il "primo episodio di scontro di civiltà". Ma non è così. Ce ne sono stati altri. Solo che sono rimasti fuori dalla porta dei salotti radical-chic. La direttrice chiede alle femministe di iniziare una discussione sull'immigrazione per "evitare che la giustissima accoglienza di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza". Ma è già tardi. Oggi sarebbe bastato stigmatizzare le violenze degli immigrati. Condannare quello che è un attacco non solo alle donne, ma al modo di essere dei Paesi che accolgono, cioè dell'Europa. Invece è prevalso il silenzio. Colpevole.

Sul corpo delle donne no pasaran, scrive Lucia Annunziata su L'Huffington Post. Non c'è molto da dire ma va detto. E nel più semplice dei modi: noi donne, noi donne europee, abbiamo bisogno di cominciare una discussione vera su quello che l'immigrazione sta portando nei nostri paesi; sul disagio, e sulle vere e proprie minacce alla nostra incolumità fisica che avvertiamo nelle strade, sui bus, nei quartieri delle nostre città. Una franca discussione su come evitare che la giustissima "accoglienza" di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza. Mi pare che qualcosa si muova in questo senso fra le donne tedesche. E se è così saremo con loro. Sull'Europa che si è riunita per affrontare la caotica situazione della immigrazione, le ripetute sospensioni di Schengen, pesa l'emozione di quanto è accaduto nella notte di Capodanno a Colonia: l'aggressione sessuale inflitta da "un migliaio di giovani arabi e nordafricani" a tutte le donne che hanno incontrato sul loro cammino. Una violenza le cui modalità rivelano un episodio ben più grave della notte di follia, della frustrazione estrema ed ormonale di maschi frustrati. Quel migliaio di giovani erano preparati, il loro assalto è stato organizzato ed eseguito come una operazione semi-militare. Assalto per altro ripetuto in altre due città. Erano tanti, usavano il numero come arma di annientamento, e l'accerchiamento come trappola: le donne prese in mezzo, inclusa una donna poliziotto, sono state toccate e passate dall'uno all'altro, senza nessuna cura di proteste e reazioni. "Urlavamo, picchiavamo con quello che potevamo, ma inutilmente" raccontano le testimonianze (incluse quelle di uomini che hanno cercato di intervenire). Una madre e la figlia quindicenne sono state bloccate e "palpate ripetutamente al seno e in mezzo alle gambe". Un'operazione di molestie così vasta, continuata e determinata non può essere vista solo come un gesto contro le donne; si configura come un atto di scontro, umiliazione e dominio esercitato nei confronti delle donne sì, ma mirato a inviare un segnale di disprezzo e di sfida all'intero paese che quegli uomini ha accolto. Cioè noi, l'Europa tutta e non solo la Germania. La notte che ha inaugurato il 2016 nel paese che ha generosamente aperto le porte al maggior numero, circa un milione, di profughi dal Medioriente e da altre zone di guerra, è stata macchiata da quello che possiamo definire il primo episodio di scontro di civiltà, la prima sfida consapevole dei nuovi arrivati al nostro mondo. Un annuncio gravido di molte cose a venire. Tanto più grave perché qui non si tratta di Isis, qui non siamo di fronte a nessuna motivazione religiosa: anzi i giovani immigrati arrivati a migliaia di migliaia in Europa in questi mesi e generosamente accolti in Germania sono tecnicamente in fuga dalla guerra. Il pericolo dell'episodio di Colonia si nasconde proprio nelle pieghe della "normalità" di chi ne è stato protagonista. La verità di cui dobbiamo discutere è proprio questa: il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica, e non è tale solo nelle forme più estreme, nelle terre più bruciate del Medioriente, nelle esperienze più allucinate e militanti delle guerre dell'Isis o del terrorismo. Tutto questo lo sappiamo, ci conviviamo da anni, è stato al centro di tante nostre analisi e battaglie civili a favore delle donne in tanti e altri paesi. Ma negli ultimi venti anni, proprio sotto la spinta di guerre e rotture interne al mondo islamico, il rapporto fra Islam e donne si è metamorfizzato in una agenda culturale e politica di dominio, usata come arma, o anche solo espressione di potere, in una vastissima area sociale, la cui linea di rottura passa dentro lo stesso mondo mussulmano. Quel che voglio dire è che tutti ricordiamo gli stupri e le violenze in Iraq durante la conquista da parte dell'Isis, e i rapimenti di Boko Haram, la schiavitù sessuale imposta alle donne cristiane, yazide. Ma val la pena qui di cominciare a ricordare anche che il maggior numero di violenze viene usato nei confronti delle stesse donne musulmane. Vogliamo ricordare le condizioni in cui progressivamente stanno scivolando all'indietro tutte le società musulmane. Ricordiamo qui, ad esempio, il trattamento subito da centinaia di donne egiziane al Cairo durante la "primavera araba", come punizione per una partecipazione, o anche solo come occasione da non perdere. Ma andrebbe ora prestata più attenzione al fatto che questo modo di rapportarsi dell'Islam alle donne proprio perché deriva dalla politica non si ferma alle frontiere. Ci sono storie che solo le organizzazioni dei diritti umani seguono: nei campi profughi europei ci sono casi di violenze, e stupri. Queste violenze sono per altro la ragione per cui i cristiani quasi mai si sono uniti alle grandi migrazioni collettive di questi ultimi mesi. Ma è anche tempo di mettere in questo elenco l'aggressività, la mancanza di rispetto, che denunciano molte donne giovani ed anziane nei quartieri delle varie città europee, incluse quelle di molte città italiane: ricordate Tor Sapienza, la disperazione e la rabbia delle donne che raccontavano (inutilmente) le offese che subivano dai gruppi di giovani immigrati illegali parcheggiati in tutte le case di accoglienza? Tutto questo non è destinato a finire. L'attuale immigrazione non è un flusso ordinato. È il frutto di eventi traumatici, multipli e contemporanei, di guerre che hanno un'espansione globale e di lungo periodo. Non sarà aggiustabile secondo la logica di un progressivo assorbimento. La gestione di questa immigrazione è già da oggi uno dei maggiori problemi economici e sociali in Europa, il motore di uno sconvolgimento politico il cui impatto è già visibile. La sospensione di Schengen da parte di due degli stati da sempre più disponibili, la Danimarca e la Svezia, segnala che davvero si sta raggiungendo un livello di guardia. E indica anche come su questo tema la socialdemocrazia (e la sinistra) sia da tempo in difficoltà a mantenere una posizione "aperturista" a tutti i costi. Le formule con cui abbiamo fin qui vissuto si rivelano inefficaci di fronte alle nuove dimensioni. Ma dentro il problema di tutti con l'integrazione, c'è un problema specifico per noi donne, come stiamo vedendo. E credo tocchi anche a noi trovare una voce in merito. La prima idea su cui lavorare per il futuro non è forse difficile da individuare perché è un po' nelle cose: costruire un doppio percorso nella accoglienza. Dare priorità e immediata accettazione alle famiglie, ai bambini, alle donne, agli anziani. In qualunque condizioni e per qualunque ragioni arrivino. Costruire invece un percorso più lungo e approfondito per le migliaia di giovani uomini che per altro costituiscono la stragrande maggioranza anche degli illegali e clandestini. Davvero tutti questi giovani uomini sono in bisogno immediato e irreversibile di rifugio? Sono tutti alla ricerca di una nuova vita? Sono tutti decisi a non ritornare nei loro paesi d'origine? Domande scomode, ma realistiche. Le regole attuali, e possono essere migliorate, forniscono già la definizione per distinguere coloro che hanno diritto all'asilo politico; ugualmente esistono chiari requisiti necessari per poter invece entrare in un paese come immigrato. Intorno a queste definizioni vanno costruite barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di "integrazione" che cominci ben prima della stessa entrata. E se questo processo porta a prevedere più controlli, e dunque anche a una formulazione più elastica di Schengen, va ricordato che questo è già nelle cose. È un momento delicato, in cui l'opinione pubblica deve uscire dalle emozioni, dalle rabbie per cercare di capire davvero quale sia la strada migliore per il futuro. Le donne, anzi i diritti delle donne, devono essere una delle pietre miliari di questa chiarezza. In maniera uguale e contraria al modo come questi diritti negati vengono usati come un atto di aggressione nei nostri confronti. Non voglio pensare che mia figlia, le nostre figlie, vivranno in un mondo in cui abbiamo perso i diritti che avevamo conquistato per loro. Integrare e integrarsi con le tante diversità è la più dinamica opzione della nostra società per crescere. L'accoglienza è un valore supremo. Ma senza definizioni, senza regole e senza domande è possibile che diventi la semplice riproduzione al nostro interno delle disperate periferie del mondo, la ricreazione di permanenti masse di profughi, senza che noi sappiamo cosa far né di loro né di noi stessi.

Colonia e l’attentato di massa: quanto è ancora depredabile il corpo femminile? Scrive Andrea Pomella il 7 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano. Nella notte di Capodanno, mille uomini – la maggior parte dei quali giovani e stranieri – si sono radunati nei pressi della stazione ferroviaria di Colonia e hanno dato il via a un feroce attacco di massa. Un centinaio di donne sono state sessualmente molestate, aggredite e derubate, vittime di una strategia tanto coordinata da costituire, secondo il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas, una forma di crimine “di una dimensione completamente nuova”. Sui giornali italiani tuttavia la notizia ha assunto una certa rilevanza solo a partire dalla mattina del 6 gennaio. I primi cinque giorni dell’anno li abbiamo passati a discutere di una bestemmia passata in sovrimpressione sulla Rai e dei sette (poi diventati ventidue) milioni di euro incassati dal nuovo film di Checco Zalone. C’è da farsi qualche domanda. Perché la notizia di mille uomini che in una sola notte aggrediscono cento donne in un luogo ristretto di una città che sorge nel cuore funzionale dell’Europa non suscita clamore né choc collettivo? Perché un evento di questa portata non riceve lo status giornalistico di “attentato di massa”? E perché la notizia non sfonda sui social network, ossia perché non fruisce neppure di quella spinta dal basso che nella contemporaneità spesso dà voce a fatti omessi dai media tradizionali? Faccio due considerazioni.

La prima: due mesi fa, a seguito degli attentati di Parigi, in mezzo al diluvio di notizie laterali, approfondimenti che approfondivano dettagli insignificanti (SkyTg24 il 15 novembre mandò in onda per tre ore, quasi ininterrottamente, un filmato che mostrava il panico a Place de la Republique, anche una volta appurato che si era trattato di un falso allarme), opinionismi più o meno autorevoli, più o meno centrati, ho impiegato tre giorni a capire – per dire – la dinamica dei fatti allo Stade de France. In pratica, la ricostruzione dei fatti non catturava l’interesse, non dico dello spettatore, ma degli stessi giornalisti che erano chiamati a farne una ricostruzione. Per chi appartiene a un pubblico d’antan e chiede semplicemente di essere informato, la vendita sentimentale delle informazioni sta diventando un problema. Così, in assenza di una ricostruzione emotiva, cento donne molestate in una notte non scaldano il pubblico dei lettori, e quindi non fondano una notizia degna di primo piano. La gravità di un fatto non è più data dal fatto in sé, ma da ciò che suscita.

La seconda: viviamo in un’era in cui è ancora radicato, anche a livello inconscio, lo stereotipo patriarcale secondo cui la molestia sessuale è il semplice risultato della natura umana. Se in uno strato più o meno profondo di coscienza collettiva l’idea del dominio maschile sulla donna non fosse ancora così consolidata, l’assalto di Colonia monopolizzerebbe l’attenzione dei lettori e quindi imporrebbe ai direttori di giornale, agli elzeviristi e ai divulgatori culturali di trattare la notizia con la rilevanza che merita. Il disinteresse generale, lo sbadiglio, la freddezza rappresentano invece l’agghiacciante risultato di un involontario test sulla coscienza popolare del cittadino europeo del Ventunesimo secolo posto di fronte al tema del corpo femminile, e alla provocatoria questione di quanto esso sia “ancora depredabile”. Credo che, anche per questo primo ventennio di secolo, ci stiamo assicurando una discreta riserva di mostruosità.

Zanardo: «No al silenzio sulle violenze di Colonia». La scrittrice e autrice de Il corpo delle donne sulle aggressioni nella città tedesca: «Pericoloso che le mie compagne siano intimorite nel prendere posizione dalla strumentalizzazione delle destre xenofobe», scrive Antonietta Demurtas il 07 Gennaio 2016 su “Lettera 43”. Hanno attraversato la piazza della stazione centrale di Colonia nella notte di San Silvestro. E per loro è iniziato l'inferno: circondate, molestate sessualmente (uno stupro già accertato), palpeggiate, derubate di soldi e telefonini da circa mille uomini di origine nordafricana, ubriachi. Le vittime sono un centinaio di donne che nella città tedesca volevano solo festeggiare il Capodanno e che sono rimaste vittime di un attacco che ora le indagini iniziano a definire «premeditato» e messo in atto da «un'organizzazione proveniente dalla vicina Düsseldorf». Il ministro della giustizia Heiko Maas ha parlato di una «dimensione completamente nuova per la criminalità organizzata». C'è chi si è concentrato nel sottolineare che l’obiettivo delle aggressioni fosse il furto, e che le violenze sessuali fossero «solo un diversivo». Resta il fatto che le donne molestate e violentate a Colonia non hanno sinora ricevuto la solidarietà che in altri casi è stata manifestata alle vittime di violenza. Si è scritto: succede a Colonia come in piazza Tahrir al Cairo o al parco Gezi di Istanbul, si è cercato di mantenere un basso profilo sull'accaduto per non alimentare razzismo, intolleranza e violenza nei confronti dei migranti, proprio in un momento in cui la politica dell'accoglienza si sta rivelando il più grande fallimento dell'Ue, incapace di gestire flussi migratori e spinte discriminatorie. Con il risultato che però, alla fine, «per l'ennesima volta le donne vengono strumentalizzate, comunque vada, ci violentino o meno», dice a Lettera43.itLorella Zanardo, scrittrice e autrice del documentario Il corpo delle donne, che da anni si batte contro la mercificazione della dignità femminile. «Una reazione che definirei miserabile», dice riferendosi al modo in cui sono stati racconti i fatti di Colonia, in alcuni casi silenziati dall'opinione pubblica politically correct e dall'altra esacerbati a soli fini xenofobi. E «per rendersene conto, basta vedere come si sta raccontando nel nostro Paese».

DOMANDA. Forse po' troppo a voce bassa?

RISPOSTA. Come viene gestita la questione in Italia è vergognoso. Se diciamo: siamo donne libere e così vogliamo restare, improvvisamente leggo sul web una serie di voci critiche secondo le quali se non vogliamo dare manforte alla destra razzista e xenofoba, dobbiamo in un qualche modo stare zitte. Lo trovo un consiglio mostruoso, miserabile.

D. Che cosa si dovrebbe fare: urlare e scendere in piazza?

R. Non è una questione di femminismo, credo che un certo modo di interpretare i diritti in Italia sia superato. Indignarsi è però un diritto e un dovere, e questo non vuol dire essere xenofobi: io sono assolutamente dalla parte dei profughi, sono per l'apertura delle frontiere, voglio un'Europa accogliente.

D. Ma?

R. Ciò non toglie che davanti ai crimini di Colonia, fossero essi stati compiuti da svedesi, cinesi o marocchini, la mia condanna è comunque fortissima. Io sto dalla parte delle donne. Questa è la prima cosa.

D. Non per tutte è così, c'è chi preferisce tenere un profilo più basso per paura di essere tacciata di razzismo.

R. In questo momento trovo molto pericoloso che le mie amiche e compagne siano un po' intimorite nel prendere posizione per la paura della strumentalizzazione delle destre xenofobe. Se noi non ci facciamo sentire questo nostro silenzio può essere penalizzante non solo verso le donne ma verso i profughi stessi.

D. Che cosa si aspettava?

R. Che dicessimo tutte forte e chiaro: noi donne condanniamo assolutamente gli episodi di Colonia, e condanniamo quanto detto dalla sindaca di Colonia.

D. Henriette Reker si è spinta a dettare un 'codice' di comportamento alle donne, invitandole a tenere «a un braccio di distanza» gli sconosciuti.

R. Io sono solidale con Reker, è stata persino accoltellata proprio a causa delle sue posizioni favorevoli all'immigrazione. La sua può essere stata una uscita mal meditata, detta in un momento di tensione ma comunque pericolosa.

D. Il suo decalogo è suonato come un'inversione della colpa a carico delle donne.

R. Per questo sono preoccupatissima: noi donne abbiamo lottato secoli, rischiando anche la vita, per essere libere di autodeterminare i nostri corpi, di metterci una minigonna, di uscire a mezzanotte, per quanto, purtroppo, sappiamo bene quanto questo nel nostro Paese non sia poi così facile.

D. Ora invece il consiglio è tenere gli uomini a distanza, diffidare, temere.

R. Sì purtroppo, e se non ci alziamo tutte insieme ora per dire: al nostro territorio di libertà non rinunceremo, la situazione diventerà ancora più pericolosa. Ma dobbiamo essere abili a non farci strumentalizzare: fuori la destra da questo dibattito, da chi ci vuole dare ragione solo per fini politici.

D. Al posto del decalogo che cosa avrebbe preferito sentire?

R. Tenere gli uomini a «un braccio di distanza» è quello che mi diceva mia nonna 50 anni fa. Dobbiamo fare più attenzione alle parole, al mondo che stiamo preparando per le nostre figlie.

D. Che cosa propone?

R. La politica giusta è apertura totale e allo stesso tempo condanna verso chi non ci rispetta. Se il criminale è marocchino, siriano, turco o svedese non ci deve interessare. Non prendere posizione ora sarebbe davvero come dire che siamo un po' delle imbranate, donne impotenti.

D. In che senso?

R. Dato che non ci vogliamo far strumentalizzare, tacciamo, minimizziamo? No, dobbiamo essere fortemente dalla parte delle donne di Colonia, che questo non avvenga mai più.

D. Insomma, essere politically correct non porta a niente?

R. No, inoltre che le violenze accadono tutti i giorni non rende meno grave l'accaduto. Il fatto è che sul corpo delle donne si sono fatte le guerre, anche molto recenti se pensiamo a quanto accaduto nella ex Jugoslavia. Per questo dobbiamo difendere il nostro territorio conquistato faticosamente.

D. Sta facendo discutere un articolo del quotidiano tedesco Die Tageszeitung e riportato da Internazionale, dove si legge che: «In tutte le grandi manifestazioni in cui l’alcol abbonda, le donne devono affrontare una triste realtà...; che per certi maschi tedeschi, il carnevale o l’Oktoberfest non sono divertenti senza qualche palpatina; che succede a Colonia come in piazza Tahrir al Cairo o al parco Gezi di Istanbul». Un modo per riportare l'attenzione al fenomeno generale della violenza e minimizzare l'accaduto?

R. Spero di no, anche perché se già queste cose succedono all'Oktoberfest o in altre manifestazioni, è gravissimo, non è che perché già accaduto è meno grave. Così come sarebbe grave se si scoprisse che i fatti di Colonia sono stati resi pubblici solo 5 giorni dopo solo per non strumentalizzarlo.

D. Così a essere strumentalizzate e dimenticate sono ancora una volta le donne.

R. E non solo a Colonia. In questi giorni arrivano appelli di nuove formazioni che stanno per nascere in Italia, partiti, partitini, associazioni, tra i nomi dei futuri leader papabili non c'è una donna. E in questi momenti si spiega perché.

D. Perché?

R. Noi donne non abbiamo coraggio. Arrivano uomini di ultima categoria che senza vergogna si propongono come sindaci, amministratori, ministri, ma non c'è una italiana che faccia lo stesso. Questo dimostra la nostra incapacità di essere concentrate sui nostri interessi di donne e su chi verrà dopo di noi, e il terrore di scontentare qualche formazione di sinistra racconta questa nostra incapacità. C'è un silenzio preoccupante.

D. Silenzio che si rompe per difendere le donne solo per ribadire che «non c'è posto in Europa per chi non rispetta le nostre leggi e la nostra cultura», come ha fatto Giorgia Meloni.

R. Eppure c'è una terza via. Io temo questo popolarismo italiano ignorantissimo che si basa su: o chiudiamo le frontiere o ci violentano. Dobbiamo rifiutare questo modello, basta guardarsi intorno.

D. Dove?

R. In Norvegia, un piccolo Paese di 4 milioni di abitanti che ha avuto un flusso migratorio importante e si è trovato persone che venivano da Stati dove obiettivamente la realtà e il rapporto uomini-donne è molto diverso; così hanno creato un progetto di introduzione al Paese dove gli immigrati vengono formati agli usi e costumi del posto. Una parte è dedicata a come viene vissuto il femminile e il maschile, l'altra alla sessualità nel Nord Europa.

D. Crede che questo sia sufficiente?

R. Io credo alla possibilità che le persone cambino, si trasformino, quindi per chi viene in Europa ci deve essere un percorso di introduzione e integrazione culturale. E c'è un compito anche per noi.

D. Quale?

R. Continuare a essere molto duri e dure nel condannare la violenza contro le donne, altrimenti nessuno ci garantisce che non avverrà ancora. Ma per fare questo non c'è bisogno di conoscere la nazionalità dei violentatori.

D. Anche perché, frontiere aperte o meno, nell’Unione europea una donna su due è stata vittima di violenze fisiche o sessuali e nella maggior parte dei casi sono conoscenti e famigliari a commettere questi reati dentro le mura domestiche...

R. Esatto. Inoltre facendo finta di niente potremmo anche alimentare uno stereotipo al contrario, ovvero: nel timore che la nostra critica venga stigmatizzata dalle destre, quando questi criminali sono immigrati stiamo zitte. Se fossero stati tutti tedeschi ubriachi ci sarebbe stata una sollevazione popolare da parte delle donne europee.

D. Una discriminazione al contrario...

R. Sì, dato che sei africano ti ritengo inferiore e chiudo un occhio. Per questo bisogna fare chiarezza e non farne un fatto di razza o etnia, ma condannare per i fatti in sè che sono gravi indipendentemente da cosa c'è scritto nel passaparto di chi li ha commessi.

Germania, una epidemia di stupri da parte dei migranti, scrive Soeren Kern il 21 settembre 2015. Traduzioni di Angelita La Spada pubblicata su Imola Oggi l’1 ottobre 2015. Dove sono le donne? Dei 411.567 rifugiati/migranti che sono entrati nell’Unione Europea via mare nel 2015, il 72 per cento è costituito da uomini. Anche se lo stupro è avvenuto a giugno, la polizia ha taciuto per quasi tre mesi, fino a quando i media locali non hanno pubblicato un articolo a riguardo. Secondo un commento editoriale espresso nel quotidiano Westfalen-Blatt, la polizia si rifiuta di rendere pubblici i crimini commessi dai migranti e profughi perché non vuole conferire legittimità agli oppositori delle migrazioni di massa. Una 13enne musulmana è stata violentata da un altro richiedente asilo in un centro di accoglienza a Detmold, una città situata nella parte centro-occidentale della Germania. La ragazzina e la madre avevano abbandonato il loro paese di origine per sfuggire a una cultura di violenza sessuale. Circa l’80 per cento dei profughi/migranti accolti a Monaco sono uomini (…) il prezzo per fare sesso con una donna richiedente asilo ammonta a 10 euro. – L’emittente radiotelevisiva pubblica della Baviera (Bayerischer Rundfunk). La polizia della città bavarese di Mering, dove una 16enne è stata stuprata l’11 settembre, ha avvisato i genitori di non permettere ai loro figli di uscire da soli. Nella città bavarese di Pocking, gli amministratori del Wilhelm-Diess-Gymnasium hanno avvertito i genitori di non fare indossare abiti succinti alle loro figlie, al fine di evitare “malintesi”. “Quando gli adolescenti musulmani si recano nelle piscine all’aperto, sono turbati nel vedere le ragazze in bikini. Questi giovani, che provengono da una cultura dove non si approva che le donne mostrino la pelle nuda, seguiranno le ragazze e le infastidiranno senza rendersene conto. Naturalmente, questo genera paura”. – Un politico bavarese citato da Die Welt. Durante un raid in una struttura di Monaco che ospita rifugiati la polizia ha scoperto che gli addetti alla sicurezza erano implicati in un traffico di droga e armi e chiudevano un occhio sulla prostituzione. Nel frattempo, gli stupri delle donne tedesche da parte dei richiedenti asilo sono sempre più dilaganti. Sempre più donne e ragazze ospiti dei centri di accoglienza per profughi, in Germania, vengono stuprate, molestate sessualmente e costrette alla prostituzione dagli uomini richiedenti asili, secondo quanto asserito dalle organizzazioni di assistenza sociale tedesche. Molti degli stupri avvengono nelle strutture che ospitano uomini e donne dove, a causa della mancanza di spazio, le autorità tedesche costringono i migranti di entrambi i sessi a condividere i dormitori e i servizi igienici. Le condizioni per le donne e le ragazze presenti in queste strutture sono talmente pericolose che le donne vengono definite “selvaggina”, occupate a respingere gli assalti dei predatori maschi musulmani. Ma gli assistenti sociali affermano che molte vittime tacciono, per paura di rappresaglie. Allo stesso tempo, un numero crescente di donne tedesche di tutta la Germania viene violentato dai richiedenti asilo provenienti dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente. Molti di questi crimini sono minimizzati dalle autorità e dai media tedeschi, a quanto pare per evitare di alimentare sentimenti contrari all’immigrazione. Il 18 agosto, una coalizione composta da quattro organizzazioni di assistenza sociale e di gruppi per i diritti delle donne ha inviato una lettera di due pagine ai leader dei partiti politici del parlamento regionale dell’Assia, uno stato federato della Germania centro-occidentale, informandoli di come la situazione delle donne e dei minori sia peggiorata all’interno dei centri di accoglienza. La lettera diceva: “L’afflusso sempre più crescente dei rifugiati ha complicato la situazione per le donne e le ragazze ospiti nel centro di Giessen (HEAE) e nelle strutture succursali. “Il fatto di fornire alloggio in grandi tende, la mancanza di servizi igienici separati maschili e femminili, di locali in cui non ci si può chiudere a chiave, la mancanza di rifugi sicuri per le donne e le ragazze – tanto per citare solo alcuni fattori spaziali – aumenta la vulnerabilità delle donne e dei minori dentro queste strutture. Questa situazione gioca a favore di quegli uomini che assegnano alle donne un ruolo subordinato e trattano le donne che viaggiano sole come se fossero selvaggina. “Di conseguenza, si verificano numerosi stupri e molestie sessuali. Stiamo ricevendo sempre più segnalazioni di casi di prostituzione coatta. Va sottolineato che questi non sono episodi isolati. “Le donne e le ragazzine raccontano di essere state violentate o molestate sessualmente. Pertanto, molte donne dormono vestite. E raccontano anche di non usare i servizi igienici di notte, per paura di essere stuprate o derubate. Anche di giorno, attraversare l’accampamento è una situazione terribile per molte donne. “Molte donne – oltre a fuggire dalla guerra – scappano per evitare i matrimoni forzati o le mutilazioni genitali. Queste donne che affrontano rischi particolari, scappano da sole o con i loro figli. Anche se sono accompagnate da parenti maschi o da conoscenti, questo non sempre garantisce loro una protezione dalla violenza, perché ciò può portare a specifiche dipendenze e allo sfruttamento sessuale. “La maggior parte dei profughi di sesso femminile ha vissuto una serie di esperienze traumatizzanti nel loro paese di origine e durante la fuga. Esse sono vittime di violenze, rapimenti, torture, stupri ed estorsioni – a volte per anni. “Essere arrivate qui sane e salve e poter muoversi senza paura, è un dono per molte donne. (…) Vi invitiamo pertanto (…) a unirvi al nostro appello per creare urgentemente delle strutture protette (abitazioni o appartamenti muniti di serrature) per donne e minori che viaggiano da sole…“Queste strutture devono essere attrezzate in modo tale che gli uomini non vi abbiano accesso, ad eccezione degli operatori del soccorso e del personale addetto alla sicurezza. Inoltre, le camere da letto, i salotti, e cucine e i servizi igienici devono essere interconnessi in modo da formare un’unità completamente autonoma e che può essere raggiunta solo attraverso un accesso dotato di serratura e monitorato”. Dopo che diversi blog hanno richiamato l’attenzione sulla lettera il LandesFrauenRat (LFR) Hessen, un gruppo di pressione che si batte per i diritti delle donne, ha reso pubblico il documento politicamente scorretto sul proprio sito web, per poi rimuoverlo all’improvviso il 14 settembre, senza spiegarne il motivo. In Germania, il problema degli stupri e delle molestie sessuali nei centri di accoglienza dei profughi è un problema a livello nazionale. In Baviera, le donne e le ragazze ospiti della struttura di Bayernkaserne, una ex base militare a Monaco, ogni giorno rischiano di essere stuprate e indotte alla prostituzione coatta, secondo i gruppi per i diritti delle donne. Sebbene la struttura disponga di dormitori femminili, le stanze sono prive di serrature e gli uomini controllano l’accesso ai servizi igienici. Circa l’80 per cento dei profughi/migranti accolti a Monaco è costituito da uomini, secondo l’emittente radiotelevisiva pubblica della Baviera (Bayerischer Rundfunk), che ha riportatola notizia che il prezzo per fare sesso con una donna richiedente asilo ammonta a 10 euro. Un assistente sociale ha definito così la struttura: “Noi siamo il più grande bordello di Monaco”. La polizia continua a dire di non essere in possesso di alcuna prova che nel centro si commettono stupri, anche se in un raid è stato scoperto che gli addetti alla sicurezza erano implicati in un traffico di droga e armi e chiudevano un occhio sulla prostituzione. Il 28 agosto, un 22enne eritreo richiedente asilo é stato condannato a un anno e otto mesi di carcere per tentata violenza sessuale ai danni di una donna curda irachena di 30 anni in un centro di accoglienza della città bavarese di Höchstädt. Il giovane ha avuto una riduzione della pena grazie agli sforzi dell’avvocato della difesa, che ha convinto il giudice del fatto che la situazione dell’imputato nella struttura era disperata: “Da un anno, egli se ne sta con le mani in mano senza pensare a niente”. Il 26 agosto, un 34enne richiedente asilo ha tentato di stuprare una donna di 34 anni nella lavanderia situata in un centro di accoglienza a Stralsund, una città nei pressi del Mar Baltico. Il 6 agosto, la polizia ha rivelato che una 13enne musulmana era stata violentata da un altro richiedente asilo in una struttura di Detmold, una città situata nella parte centro-occidentale della Germania. La ragazzina e la madre avevano abbandonato il loro paese di origine per sfuggire a una cultura di violenza sessuale; e a quanto pare, lo stupratore era un loro connazionale. Anche se lo stupro è avvenuto a giugno, la polizia ha taciuto per quasi tre mesi, fino a quando i media locali non hanno pubblicato un articolo a riguardo. Secondo un commento editoriale espresso nel quotidiano Westfalen-Blatt, la polizia si rifiuta di rendere pubblici i crimini commessi dai profughi e migranti perché non vuole conferire legittimità agli oppositori delle migrazioni di massa. Il capo della polizia Bernd Flake ha ribattuto dicendo che il silenzio era finalizzato a tutelare la vittima. “Noi continueremo con questa politica [di non informare l'opinione pubblica], quando i reati sono commessi nelle strutture temporanee per profughi”, egli ha detto. Durante il fine settimane del 12-14 giugno, una ragazza di 15 anni ospite di un centro di accoglienza di Habenhausen, un quartiere della città settentrionale di Brema, è stata ripetutamente violentata da altri due richiedenti asilo. La struttura è stata descritta come una “casa degli orrori” a causa della spirale di violenza perpetrata da bande rivali di giovani provenienti dall’Africa e dal Kosovo. Il centro, che ospita complessivamente 247 richiedenti asilo, ha una capacità di accogliere 180 persone, e una caffetteria con 53 posti a sedere. Nel frattempo, gli stupri sulle donne tedesche da parte dei richiedenti asilo sono dilaganti. Qui di seguito alcuni casi di stupro commessi solo nel 2015. L’11 settembre, una 16enne è stata violentata da uno sconosciuto “uomo dalla pelle scura che parlava un tedesco stentato” nei pressi di un centro di accoglienza della città bavarese di Mering. L’aggressione è avvenuta mentre la ragazza si stava recando dalla struttura alla stazione ferroviaria. Il 13 agosto, la polizia ha arrestato due richiedenti asilo, di 23 e 19 anni, per aver stuprato una 18enne tedesca dietro una scuola di Hamm, una città del Nord Reno-Westfalia. Il 26 luglio, un ragazzino di 14 anni è stato molestato sessualmente nel bagno di un treno regionale, a Heilbronn, una città situata nella parte sudoccidentale della Germania. La polizia sta cercando un uomo “dalla pelle scura” tra i 30 e i 40 anni e “dall’aspetto arabo”. Lo stesso giorno, un 21enne tunisino richiedente asilo ha stuprato una ragazza di 20 anni, nel quartiere di Dornwaldsiedlung a Karlsruhe. La polizia ha taciuto sul crimine fino al 14 agosto, quando un giornale locale ha reso pubblica la notizia. Il 9 giugno, due somali richiedenti asilo, di 20 e 18 anni, sono stati condannati a sette anni e mezzo di carcere per aver violentato una 21enne tedesca a Bad Kreuznach, una città della Renania-Palatinato, il 13 dicembre 2014. Il 5 giugno, un somalo di 30 anni richiedente asilo chiamato “Ali S” è stato condannato a quattro anni e nove mesi di carcere per aver tentato di stuprare una 20enne di Monaco. Ali aveva già scontato una condanna a sette anni per violenza sessuale, e cinque mesi dopo il suo rilascio aveva colpito ancora. Nel tentativo di proteggere l’identità di Ali S., un quotidiano di Monaco ha fatto riferimento a lui chiamandolo con il nome più politicamente corretto di “Joseph T.”. Il 22 maggio, un marocchino di 30 anni è stato condannato a quattro anni e nove mesi di carcere per aver tentato di stuprare una 55enne a Dresda. Il 20 maggio, un 25enne senegalese richiedente asilo è stato arrestato dopo una tentata violenza sessuale ai danni di una ragazza tedesca di 20 anni, nella piazza Stachus, nel cuore di Monaco. Il 16 aprile, un iracheno di 21 anni richiedente asilo è stato condannato a tre anni e dieci mesi di carcere per aver stuprato una 17enne al festival della città bavarese di Straubing, nell’agosto 2014. Il 7 aprile, un 29enne richiedente asilo è stato arrestato per la tentata violenza sessuale ai danni di una ragazzina di 14 anni, nella città di Alzenau. Il 17 marzo, due afgani richiedenti asilo, di 19 e 20 anni, sono stati condannati a cinque anni di carcere per lo stupro “particolarmente aberrante” di una 21enne tedesca aKirchheim, una città nei pressi di Stoccarda, il 17 agosto 2014. L’11 febbraio, un eritreo di 28 anni richiedente asilo è stato condannato a quattro anni di carcere per aver violentato una 25enne tedesca a Stralsund, sul Mar Baltico, nell’ottobre 2014. L’1 febbraio, un somalo di 27 anni richiedente asilo è stato arrestato per aver tentato di stuprare una donna nella città bavarese di Reisbach. Il 16 gennaio, un immigrato marocchino di 24 anni ha violentato una 29enne a Dresda. Decine e decine di altri casi di stupro e tentata violenza sessuale – casi in cui la polizia sta cercando specificatamente stupratori stranieri (la polizia tedesca spesso li chiama Südländer ossia “meridionali”) – restano irrisolti. Qui di seguito è riportata una lista parziale di episodi commessi nell’agosto 2015. Il 23 agosto, un uomo “dalla pelle scura” ha tentato di violentare una donna di 35 anni a Dortmund. Il 17 agosto, tre uomini “meridionali” hanno cercato di stuprare una 42enne a Ansbach. Il 16 agosto, un uomo “meridionale” ha violentato una donna a Hanau. Il 12 agosto, un uomo “meridionale” ha stuprato una 17enne a Hannover. Lo stesso giorno, un altro uomo “meridionale” ha mostrato i genitali a una donna di 31 anni a Kassel. La polizia ha detto che un episodio simile si era verificato nella stessa zona l’11 agosto. Il 10 agosto, cinque uomini “di origine turca” hanno tentato di violentare una ragazza a Mönchengladbach. Lo stesso giorno, un uomo “meridionale” ha stuprato una 15enne a Rintein. L’8 agosto, un altro uomo “meridionale” ha violentato una 20enne a Siegen. Il 3 agosto, un “nordafricano” ha stuprato una bambina di 7 anni, in pieno giorno, in un parco di Chemnitz, una città della Germania orientale. L’1 agosto, un uomo “meridionale” ha tentato di violentare una 27enne nel centro di Stoccarda. Intanto, i genitori sono stati avvertiti di tenere d’occhio le loro figlie. La polizia della città bavarese di Mering, dove una 16enne è stata violentata l’11 settembre, ha avvisato i genitori di non permettere ai loro figli di uscire da soli. La polizia ha inoltre consigliato alle donne di non recarsi da sole alla stazione ferroviaria essendo quest’ultima nelle vicinanze di un centro di accoglienza per rifugiati. Nella città bavarese di Pocking, gli amministratori del Wilhelm-Diess-Gymnasium hanno avvertito i genitori di non fare indossare abiti succinti alle loro figlie, al fine di evitare “malintesi” con i 200 profughi musulmani ospitati in alloggi di emergenza in un edificio vicino alla scuola. La lettera diceva: “I cittadini siriani sono per lo più musulmani e parlano arabo. I profughi hanno la loro cultura. Poiché la nostra scuola si trova proprio accanto la struttura in cui essi risiedono, le vostre figlie dovrebbero indossare abiti modesti per evitare malintesi. Camicette e top scollati, pantaloncini corti o minigonne potrebbero creare malintesi. Un politico locale citato dal quotidiano Die Welt ha detto: “Quando gli adolescenti musulmani si recano nelle piscine all’aperto, sono turbati nel vedere le ragazze in bikini. Questi giovani, che provengono da una cultura dove non si approva che le donne mostrino la pelle nuda, seguiranno le ragazze e le infastidiranno senza rendersene conto. Naturalmente, questo genera paura”. L’aumento dei reati sessuali in Germania è alimentato dalla preponderanza di uomini musulmani nel mix di profughi/migranti che entrano nel paese. Una cifra record di 104.460 richiedenti asilo è arrivata in Germania ad agosto, facendo salire, nei primi otto mesi del 2015, il numero complessivo a 413.535. Il paese prevede di accogliere quest’anno 800.000 arrivi tra profughi e migranti, una cifra che si è quadruplicata rispetto al 2014. Almeno l’80 per cento dei migranti e profughi arrivati è musulmano, secondo una recente stima fornita dal Consiglio centrale dei musulmani in Germania (Zentralrat der Muslime in Deutschland, ZMD), un gruppo musulmano di copertura, con sede a Colonia. Anche i richiedenti asilo sono prevalentemente di sesso maschile. Dei 411.567 migranti e rifugiati che finora quest’anno sono entrati nell’Unione Europa via mare, il 72 per cento è costituito da uomini, il 13 per cento da donne e il 15 per cento da bambini, secondo i calcoli dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Le informazioni sull’identità sessuale di chi arriva via terra non sono disponibili. Secondo le statistiche tedesche sulla migrazione, dei richiedenti asilo arrivati in Germania nel 2014, il 71,5 per cento di quelli di età compresa tra i 16 e i 18 anni era costituito da uomini; lo stesso dicasi per il 77,5 per cento di coloro che avevano tra i 18 e i 25 anni, così come per il 73,5 per cento di chi aveva tra i 25 e i 30 anni. I dati per il 2015 non sono ancora disponibili.

Dio e la Bibbia sono caratterizzati da discriminazione sessuale? Scrive "gotquestions.org". Domanda: "Dio e la Bibbia sono caratterizzati da discriminazione sessuale?" Risposta: La discriminazione sessuale avviene quando un genere sessuale, di solito quello maschile, domina sull’altro genere, di solito quello femminile. La Bibbia contiene molti riferimenti a donne che, visti dalla nostra mentalità moderna, sembrano discriminatori nei confronti delle donne. Dobbiamo tuttavia ricordare che, quando la Bibbia descrive un’azione, non necessariamente la Bibbia sta dicendo che quell’azione sia giusta. La Bibbia descrive uomini che trattano le donne come se fossero mera proprietà, ma ciò non significa che Dio approva quel modo di agire. La Bibbia ha più interesse a riformare le nostre anime e meno a riformare le nostre società. Dio sa che un cuore cambiato produrrà un comportamento cambiato. Ai tempi dell’Antico Testamento, quasi ogni cultura nel mondo aveva una struttura patriarcale. La condizione storica di quei tempi è molto chiara, non solo nella Scrittura ma anche nelle regole che governavano la maggior parte delle società. Quando quelle condizioni sono giudicate dai valori moderni e dal punto di vista del mondo, sono etichettate come sessualmente discriminanti. Dio ha stabilito l’ordine nella società, non l’uomo, e Lui è l’autore dei principi costitutivi di autorità. Tuttavia, come in ogni altra cosa, l’uomo caduto ha corrotto questo ordine. Ciò ha provocato l’ineguaglianza tra la posizione degli uomini e delle donne in tutta la storia. L’esclusione e la discriminazione che troviamo nel nostro mondo non sono una novità. Sono il risultato della caduta dell’uomo e dell’ingresso del peccato nel mondo. Quindi, possiamo giustamente dire che la terminologia e la pratica della discriminazione sessuale sono il risultato del peccato. La rivelazione progressiva della Bibbia ci porta alla cura della discriminazione sessuale e a tutte le pratiche peccaminose della razza umana. Per poter trovare e mantenere un equilibrio spirituale tra le posizioni di autorità volute da Dio, dobbiamo guardare alla Scrittura. Il Nuovo Testamento è l’adempimento dell’Antico e in esso troviamo in principi che ci indicano la giusta linea di autorità e la cura del peccato, che è il male dell’umanità, e che include la discriminazione sessuale. La croce di Cristo è il grande fattore equalizzante. Giovanni 3:16 dice “Chiunque crede” e questa affermazione inclusiva non lascia fuori nessuno a causa di posizioni sociali, capacità mentali o genere sessuale. Anche in Galati troviamo un brano che parla delle pari opportunità riguardanti la salvezza: “Perché siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è qui né Giudeo né Greco; non c'è né schiavo né libero; non c'è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3:26-28). Non c’è discriminazione sessuale alla croce. La Bibbia non fa discriminazioni sessuali nella sua attenta presentazione dei risultati del peccato sia negli uomini che nelle donne. La Bibbia parla di ogni tipo di peccato: tanto la schiavitù e i legami quanto i fallimenti dei suoi più grandi eroi. Eppure ci dà anche la risposta e il rimedio per quei peccati contro Dio e contro il Suo ordine stabilito – un giusto rapporto con Dio. L’Antico Testamento anticipava il supremo sacrifico, e ogni volta che veniva fatto un sacrificio per il peccato, esso insegnava quanto fosse importante la riconciliazione con Dio. Nel Nuovo Testamento, “l’Agnello che toglie i peccati del mondo” nasce, muore, viene sepolto e risuscita e poi ascende al Suo posto in cielo da dove intercede per noi. Credendo in Lui si trova la cura per tutto il peccato, incluso quello della discriminazione sessuale. L’accusa che nella Bibbia c’è la discriminazione sessuale si fonda su una conoscenza superficiale della Scrittura. Quando uomini e donne da ogni epoca hanno rispettato i loro ruoli stabiliti da Dio e hanno vissuto in base al “così dice il Signore”, allora c’è stato un meraviglioso equilibrio tra i generi sessuali. Quell’equilibrio corrisponde a come Dio aveva stabilito le cose nel principio e a come Egli le stabilirà alla fine. C’è troppa attenzione dedicata ai vari prodotti del peccato e troppa poca attenzione alle sue radici. Solo quando c’è una riconciliazione personale con Dio attraverso Gesù Cristo troviamo vera uguaglianza. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8:32). E’ anche molto importante comprendere che, sebbene la Bibbia attribuisca ruoli diversi a uomini e a donne, ciò non equivale ad una discriminazione sessuale. La Bibbia rende molto chiaro che Dio si aspetta che siano gli uomini a condurre la chiesa e la casa. Ma ciò non rende inferiori le donne? Assolutamente no! Significa che le donne sono meno intelligenti, meno capaci o che sono considerate inferiori agli occhi di Dio? Assolutamente no! Significa è che, nel nostro mondo contaminato dal peccato, ci deve essere una struttura e delle autorità. Dio ha stabilito i ruoli di autorità per il nostro bene. La discriminazione sessuale è l’abuso di questi ruoli, non l’esistenza di questi ruoli.

L'ISLAM CONSIDERA LA DONNA INFERIORE ALL'UOMO: ECCO LE CONSEGUENZE PER CHI SPOSA UN MUSULMANO. Una ragazza che si innamora di un islamico dovrebbe tenere a mente le 7 differenze giuridiche che priveranno della libertà lei e i suoi figli (anche se abitano in Occidente), scrive Gianfranco Trabuio. Un approccio corretto alla conoscenza della antropologia culturale di popolazioni diverse da quelle occidentali, deve necessariamente fare riferimento alla religione di quelle popolazioni. La dimensione religiosa è certamente quella più importante e più pervasiva presso tutti i popoli, per l'Islam addirittura è la religione che regolamenta anche la vita civile, il diritto civile e penale, la politica. [...] La concezione occidentale dei diritti universali dell'uomo, come deliberati dall'ONU, non trova riscontro nelle legislazioni dei paesi musulmani. Tanto meno dopo le recenti rivoluzioni popolari che hanno portato al potere i partiti di ispirazione fondamentalista, rigidamente ancorati alla legislazione di derivazione coranica. [...] E' opportuno illustrare, anche se brevemente, cosa si trova nei testi sacri dell'Islam, per esempio negli Hadith (sentenze) del profeta. La considerazione di Muhammad per le donne: dagli hadith (editti) del profeta: [...] Sahih Al Bukhari, Hadith 3826, narrato da Abu Said Al Khudri Il Profeta disse: "Non è vero che la testimonianza di una donna equivalga alla metà di quella di un uomo?". La donna rispose: "Sì". Lui disse: "Il perché sta nella scarsezza di cervello della donna". [...] L'AFFERMAZIONE SULLA INFERIORITÀ DELLA DONNA RISPETTO ALL'UOMO, HA CONSEGUENZE IMPORTANTI PER LA VITA DI TUTTI I GIORNI. Non ci si riferisce qui alle disuguaglianze che possono esistere a livello sociologico tra uomo e donna, queste sono purtroppo diffuse in tutte le società, nel mondo musulmano come in altre culture o civiltà. È necessario parlare della disuguaglianza giuridica, che ha delle conseguenze durature perché è normativa, spesso impedendo o comunque ritardando qualunque adeguamento alla mentalità dei musulmani e delle musulmane di oggi. [...]

1. LA DONNA HA SOLO IL RUOLO DI OGGETTO DI PIACERE E DI RIPRODUZIONE. C'è anzitutto una disparità nella possibilità di contrarre il matrimonio. All'uomo viene riconosciuta la possibilità di avere contemporaneamente fino a quattro mogli (poligamia), mentre alla donna viene negata la facoltà di sposare più di un uomo (poliandria). La poligamia legalmente sancita significa una differenza radicale tra uomo e donna. All'uomo dà la sensazione che la donna è fatta per il suo piacere e, al limite, che è una sua proprietà che può "arare" come vuole, come afferma letteralmente il Corano (sura della Vacca II, 223). Se ha la possibilità materiale, ne "acquista" un'altra. La donna si trova in una condizione di sottomissione nel ruolo di oggetto di piacere e di riproduzione; questo ruolo è confermato dal fatto che non viene mai chiamata con il suo nome, ma sempre in relazione a un uomo: figlia di…, moglie di…,

2. I FIGLI NATI DA UN MUSULMANO SONO AUTOMATICAMENTE MUSULMANI (LA RELIGIONE DELLA MOGLIE NON CONTA). La donna musulmana non può sposare un uomo di un'altra fede, a meno che questi non si converta prima all'Islam. Il divieto è dovuto al fatto che, nelle società patriarcali orientali, i figli adottano sempre la religione del padre. Ma è anche giustificato dal fatto che il padre è il garante dell'educazione religiosa dei figli, e quindi solo se è musulmano può assicurare la loro crescita secondo i principi islamici. Ricordo a questo proposito che i figli nati da un musulmano sono considerati a tutti gli effetti musulmani, anche se battezzati. Perciò ogni matrimonio misto (tra un musulmano e una cristiana o un'ebrea, gli unici due casi contemplati nella sharia) accresce numericamente la comunità musulmana e riduce la comunità non musulmana. Non mi soffermo in questa sede per approfondire questo argomento così tragico per le conseguenze delle mogli cristiane sposate a un musulmano. I fatti di cronaca sono lì a dimostrare quanta leggerezza, e ignoranza, ci sia da parte delle nostre donne e da parte della Chiesa cattolica nel contrarre e nel concedere la dispensa per questi matrimoni misti.

3. L'UOMO PUO' RIPUDIARE LA MOGLIE QUANDO E COME VUOLE (LA DONNA NON PUO'). Il marito ha la facoltà di ripudiare la moglie ripetendo tre volte la frase «sei ripudiata» in presenza di due testimoni musulmani maschi, adulti e sani di mente, anche senza ricorrere a un tribunale. La cosa più assurda è che se il marito dovesse in seguito pentirsi della sua decisione e intendesse "recuperare" nuovamente sua moglie, quest'ultima dovrebbe prima sposarsi con un altro uomo che dovrà a sua volta ripudiarla. La donna passa in tal caso di mano in mano per rispettare formalmente la Legge. La moglie invece non può ripudiare il marito. Potrebbe chiedere il divorzio, che però diviene per lei motivo di riprovazione e la mette in una condizione sociologica molto fragile. Il ripudio è comunque vissuto come un'umiliazione per la donna e si presume sempre che lei abbia qualche problema a livello fisico o morale. Infine, la facilità con la quale il marito può ripudiare la moglie senza dover giustificare la decisione, la rende totalmente dipendente dal suo stato d'animo, con il costante timore di essere allontanata. È come una spada di Damocle che pende sulla sua testa: se non si comporta secondo il desiderio del marito potrebbe essere ripudiata, e allora dovrà cercarne un altro che accetti di prenderla con sé.

4. DIVORZIO FACILE SENZA TRIBUNALE. In quarto luogo c'è da considerare la facilità con cui si ottiene il divorzio, che avviene quasi sempre su richiesta dell'uomo. Tradizionalmente, non c'è neppure bisogno di andare in tribunale. È vero che un hadith di Muhammad, il Profeta, dice che «il divorzio è la più odiosa delle cose lecite», ma comunque è permesso.

5. I FIGLI SONO CONSIDERATI DI PROPRIETA' DEL PADRE (ANCHE IN CASO DI DIVORZIO). L'affidamento della prole, in seguito al divorzio, è un altro esempio di disuguaglianza. I figli "appartengono" al padre, che decide della loro educazione, anche se sono provvisoriamente affidati alla madre fino all' età di sette anni. Solo il padre ha la potestà genitoriale.

6. ANCHE NELL'EREDITA' LA DONNA E' CONSIDERATA INFERIORE. C'è poi la questione dell'eredità. Alla femmina ne spetta la metà del maschio, un provvedimento che trova fondamento nella situazione socio-economica in cui la famiglia viveva anticamente: dato che, secondo il Corano, è l'uomo che ha l'obbligo di mantenere la donna e l'intera famiglia, era logico che dovesse disporre di un piccolo fondo a cui attingere. Anche in questo caso una disuguaglianza fissata dalla legge divina aumenta la dipendenza della donna dall'uomo.

7. LA TESTIMONIANZA DI UN UOMO VALE COME QUELLA DI DUE DONNE. Una settima differenza a livello giuridico è che la testimonianza del maschio vale come quella di due femmine. Questo si basa su un hadith di Muhammad, molto diffuso negli ambienti musulmani nonostante la sua autenticità sia piuttosto discussa, in cui si afferma che «la donna è imperfetta nella fede e nell'intelligenza». Quando si chiede ai fuqaha, agli esperti della legge, di spiegare il motivo rispondono che la donna è imperfetta quanto alla fede perché, in certe situazioni, ad esempio durante le mestruazioni, la sua preghiera e il suo digiuno non sono validi e la sua pratica religiosa è dunque imperfetta. Riguardo la seconda parte dell'affermazione – l'"imperfezione" nell'intelligenza- forse un tempo questo poteva essere spiegato sociologicamente tenendo presente che le donne studiavano meno, che erano meno coinvolte nella vita sociale e dedite soltanto ai lavori domestici, ma da tempo tutto ciò non vale più. Eppure nella maggioranza dei tribunali dei Paesi islamici vige ancora questo principio nonostante le proteste delle associazioni femministe. In alcuni Paesi i fondamentalisti chiedono anche che alle donne sia vietato di fare da testimoni nei processi in cui sono previste le pene coraniche.

Nota di BastaBugie: il Corano prevede esplicitamente che le mogli non ubbidienti vadano picchiate. Si potrebbe obiettare che ci sono anche cristiani che picchiano la moglie, ma il paragone non regge. Infatti il Nuovo Testamento prevede che non si possa mai picchiare la moglie. La lettera di San Paolo Apostolo agli Efesini (Ef 5,25.28) nei rapporti tra moglie e marito afferma: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei. (...) Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso". Dunque il cristiano che picchia la moglie è un cattivo cristiano, mentre un musulmano che picchia la moglie è un buon musulmano. Anzi il musulmano che non picchiasse la moglie ribelle sarebbe un cattivo musulmano che non applica il Corano. Consigliamo la lettura di un articolo pubblicato in BastaBugie n.170 del 10 dicembre 2010: IL CORANO PERMETTE AL MARITO DI PICCHIARE LA MOGLIE - Allah ha onorato le donne istituendo la punizione delle bastonate, che però vanno date secondo regole precise: senza lasciar segni visibili e solo per una buona causa (ad esempio se lei si nega a letto). Fonte: Io amo l'Italia, 07/09/2012 Pubblicato su BastaBugie n. 262

Accoglienza e legalità. Serracchiani ha detto una pura verità: il tradimento dell’ospite ci ferisce di più, scrive Mario Ajello il 13 maggio 2017 su "Il Messaggero". Dante, che era il più saggio di tutti e naturalmente immune dalla demagogia savianea e dall’ipocrisia del politicamente corretto, avrebbe dato ragione a Deborah Serracchiani. L’Alighieri inserisce i traditori degli ospiti nel canto nono dell’Inferno e considera la loro colpa particolarmente grave. Anche gli americani, negli anni delle nostre grandi ondate di emigrazione, giudicavano i reati e le delinquenze, anche mafiose, compiute dagli italiani odiose al massimo grado.

“Dante parla dei traditori degli ospiti, non dei tradimenti degli ospiti”. Alla malafede o all’ignoranza non c’è mai fine. Nei miei testi e nei miei video mi astengo sempre dall’esprimere mie opinioni, potendo esser tacciato di mitomania, pazzia o ignoranza. Cito sempre le opinioni degli altri, ritenute meritevoli. Non mi astengo, però, se sollecitato, a far comprendere i concetti enucleati a chi non ha percepito il senso dei contenuti. Nello specifico il concetto non è il tradimento della fiducia nei confronti di parenti, amici, ecc.  Il concetto di Mario Ajello è l’ingratitudine e l’irriconoscenza verso i benefattori. Spiego meglio.

Dante e le figure retoriche.

L’allegoria (dal greco allon "altro" e agoreuo "dico" = "dire diversamente"), è la figura retorica (di contenuto) mediante la quale un concetto astratto viene espresso attraverso un’immagine concreta. È stata definita anche "metafora continuata". Tra le allegorie tradizionali è celeberrima quella della nave che attraversa un mare in tempesta, fra venti e scogli ecc.: rappresenta il destino umano, i pericoli, i contrasti ecc., mentre il porto è la salvezza. Il problema della comprensione delle allegorie dipende dalla loro maggiore o minore codificazione. Esempi: Nella Divina Commedia, Dante racconta un viaggio immaginario nel mondo dell’aldilà, che significa allegoricamente l'itinerario di un’anima verso la salvezza cristiana. Tutto il poema è infatti visto come un’allegoria.

La metafora. - Figura retorica consistente nell'usare in luogo del vocabolo proprio un vocabolo diverso attinto ad altro campo semantico. Il trasferimento del vocabolo da un campo a un altro campo semantico (di qui il termine latino di translatio che designa tale figura, e il termine consueto di traslato) non deve tuttavia essere imposto dall'esigenza di designare un oggetto o un concetto mancanti di denominazione propria, altrimenti si verifica quella necessaria metafora chiamata abusio o catacresi. La metafora assume in Dante, fra le figure retoriche, un posto privilegiato, sia per essere enormemente profusa, sia per il fatto di costituire uno dei punti di forza del suo stile realistico e immaginoso insieme e il segno più evidente del suo modo di concepire tutto il reale intrinsecamente connesso da un'infinita serie di corrispondenze e di analogie.

XXXI Canto. Il cerchio nono è interamente occupato da un lago ghiacciato, il Cocito appunto, che scende verso il centro; la crosta di ghiaccio è cosi spessa e dura che neppure il crollo di un monte potrebbe minimamente scalfirla. Il lago è diviso in quattro zone: Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca; Dante e Virgilio attraversano in questo canto le prime due. I dannati sono i traditori dei parenti, della patria, degli amici, dei benefattori, ossia i colpevoli di frode esercitata verso chi si fida; sono immersi più o meno profondamente, a seconda della loro colpa, nel lago ghiacciato diviso, appunto, in quattro zone concentriche: la Caina (traditori dei parenti), Antenora (tradito­ri della patria o della parte), Tolomea (traditori degli amici o degli ospiti), Giudecca (traditori dei benefattori).

Canto XXXIII. Nel cerchio nono, nella seconda e nella terza zona (la Tolomea), l’unica zona in cui le anime possono cadere prima della morte fisica, sostituite sulla terra, nel corpo che vive ancora, da un demone.

Canto XXXIV. Ci troviamo nel cerchio nono, nella quarta zona, alle sette e mezzo di sera del 9 aprile 1330, sabato santo; nell’emisfero australe corrispondono alle sette e mezzo del mattino del 10 aprile. I traditori dei propri benefattori sono nella quarta zona, detta Giudecca, nome coniato da Dante ma in uso allora, in alcune città italiane, per designare il Ghetto. Battuti da un forte vento, provocato dalle ali di Lucifero, i dannati sono interamente confitti entro il ghiaccio, come pagliuzze attraverso il vetro, distesi o diritti o stravolti. Dante scorge Lucifero (il più grande ingrato e traditore verso Dio Benefattore) che sta in una buca da cui si discende al centro della terra, ed è sospeso nel vuoto: è mostruoso, ha sei ali e tre facce, una rossa, una gialla ed una nera.

Spero di essere stato esauriente ed utile. Ho spiegato che già ai tempi di Dante si condannava l’ingratitudine e l’irriconoscenza nei confronti dei benefattori, riportando i passi. La risposto con ripicca: «la teoria...il concetto...Dante…i gironi...alla fine sono tutte parole e basta. Una violenza è una violenza. I politici sono i politici. Gli stranieri sono gli stranieri. Le donne sono le donne. Gli uomini sono gli uomini. E’ tutta una miseria per creare scompiglio». Io, a differenza di chi è ideologizzato, non divido il mondo in maschi o femmine, immigrati o cittadini, cristiani o mussulmani, ecc. ecc. Gli interlocutori, per me, sono solo persone che meritano rispetto e che sono obbligati al rispetto, a prescindere dal sesso, razza, opinioni politiche o religiose. Quindi la violenza e l’offesa è sempre violenza ed offesa contro la persona. Poi da giurista dico che ci sono le aggravanti. Mi spiace sono un liberale e come tale aborro ogni forma di ideologia vetusta totalitaria e partigiana di divisione e distinzione. Sia di destra che di sinistra.

La Serracchiani e lo stupro: ma che c'entrano destra e sinistra? Le parole del governatore friulano sono state strumentalizzate a fini politici in un cliché che non ha senso di esistere, scrive Marco Ventura il 13 maggio 2017 su Panorama. "È evidente che la gente non è seria quando parla di sinistra o destra". Bisognerebbe spillarle sulla parete, in tutte le stanze di partito e in tutte le redazioni dei giornali, quelle parole di buon senso ma proprio per questo anarchiche di Giorgio Gaber. Cos’è la destra, cos’è la sinistra. Fare il bagno nella vasca è di destra, fare la doccia di sinistra. Il pacchetto di Marlboro è di destra, di contrabbando di sinistra. La minestrina di destra, il minestrone di sinistra. I blue-jeans di sinistra, con la giacca virano a destra. Il culatello è di destra, la mortadella di sinistra. "Destra-sinistra basta!", chiudeva il refrain finale di Gaber. La sua conclusione? Malgrado tutto, le ideologie non sono morte. Ma tra le finte contrapposizioni che Gaber elencava con quella sua ironia controcorrente, ce n’è una che suona più verosimile e attuale delle altre. “Il vecchio moralismo è di sinistra, la mancanza di morale è di destra”.

Specie se a "moralismo" sostituiamo "politicamente corretto". Che ovviamente è di sinistra. Tutte le volte che qualcuno viola il "politicamente corretto", viene subito arruolato nella "destra". È successo questo alla governatrice del Friuli, Debora Serracchiani, rea di avere introdotto l’aggravante morale e politica dello stupro, "più inaccettabile" se a commetterlo è un richiedente asilo. Per essere precisi, la Serracchiani sostiene che quell’atto "sempre odioso e schifoso" che è la violenza contro una donna, risulta però "moralmente e socialmente più inaccettabile quando è ottenuta da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro paese". E giù valanghe d’accuse, soprattutto dalla sinistra a cui la Serracchiani in teoria appartiene. "Solo parole di buon senso", si difende lei. E spiega come quel gesto sempre ignobile indigni ancora di più in un rifugiato, perché tradisce la fiducia e ospitalità della comunità che lo ha accolto e crea un vulnus anche agli altri richiedenti asilo che da quel comportamento di uno di loro risultano ingiustamente macchiati e penalizzati. In fondo, l’indignazione dell’opinione pubblica europea nel caso delle molestie di massa in Germania con protagonisti molti immigrati aveva lo stesso movente e appariva naturale. Nota bene: l’ospitalità è un dovere tradizionale soprattutto nei paesi dai quali i profughi provengono. Quella violenza è quindi un tradimento anche verso la propria cultura. Lo scandalo della violenza sulle donne si interseca col fattore politico dell’accoglienza dei migranti. E qui sorge il problema. Che è strumentale. L’errore della Serracchiani è stato quello di confondere le due cose, dando un giudizio di merito su un atto, un crimine, che è inaccettabile in modo assoluto e semmai si presta a aggravanti che nascono non da posizioni di debolezza quale potrebbe essere la condizione di rifugiato, ma da posizioni di forza (e quindi abuso) come le violenze di un capufficio o di un capo famiglia. L’errore invece di quelli che a destra come a sinistra sono intervenuti per condannare o arruolare la Serracchiani consiste nello strumentalizzare le sue “parole di buon senso”, inserendole in un cliché destra-sinistra che già Gaber aveva smascherato come “colpa”. Un cliché al quale dire “basta”. Quel cliché è sia di sinistra (Saviano invita la Serracchiani a candidarsi con la Lega), sia di destra (Salvini giustifica il suo “non sentirsi di destra” dicendo che quelle parole lui non le avrebbe mai pronunciate). Morale: è evidente che la gente non è seria quando parla di sinistra o destra. Destra-sinistra, sinistra-destra… Basta!

Profugo stupratore e la sinistra non sa se difendere lui o la vittima. Per una volta Debora Serracchiani, governatrice Pd del Friuli, l’ha detta giusta: «Lo stupro è più inaccettabile se commesso da un profugo». Da sinistra, contro di lei, è partito un fuoco di fila che rasenta il linciaggio, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". Per una volta Debora Serracchiani, governatrice Pd del Friuli, l’ha detta giusta: «Lo stupro è più inaccettabile se commesso da un profugo». Da sinistra, contro di lei, è partito un fuoco di fila che rasenta il linciaggio. L’insulto più carino è stato «sei una sporca razzista». Insomma, i compagni (Saviano in prima linea, non poteva mancare il moralista a gettone in una polemica così ghiotta) hanno stuprato lei, che essendo bianca, etero (immagino) e normotipo (tendente al carino) può essere aggredita senza alcuna remora. Io penso invece che la Serracchiani abbia detto un’ovvietà. Lo stupro è uno dei reati più vigliacchi e infamanti, indipendentemente da chi lo commetta. Ed è devastante e umiliante allo stesso modo per qualsiasi donna lo subisca. Ma sicuramente c’è un’aggravante morale, che lo rende ancora «più inaccettabile», se a compierlo è una persona a cui abbiamo salvato la vita mentre andava alla deriva sul barcone, che abbiamo sfamato, curato e al quale concediamo ospitalità nonostante probabilmente non ne abbia diritto secondo i trattati e le convenzioni internazionali. Da persone così uno si aspetterebbe riconoscenza e rispetto assoluto. Alla violenza e al non rispetto della donna si aggiunge invece l’ingratitudine. Chiedi di entrare in casa mia perché disperato e perseguitato e poi appena mi giro mi violenti la moglie: odioso nell’odioso. La sinistra invece si barcamena tra la donna violentata e l’immigrato: negare l’aggravante morale è già un passo comprensivo nei confronti del reo. E ci spinge a un centimetro dall’ammettere l’attenuante sociale. In fondo bisogna capirli questi profughi: hanno sofferto, sono soli e lontani dalle loro donne. Sembra questa una stupida provocazione, ma invito a riflettere sul fatto che alcuni giudici stanno già applicando «attenuanti culturali» in sentenze che riguardano immigrati, regolari e non. L’altra notte mi hanno svaligiato la casa, nulla in confronto a uno stupro (anche se al danno economico si aggiunge una non lieve violenza psicologica). Mi dicono che potrebbe trattarsi di una banda di immigrati sbandati che ha già colpito in zona. Il che mi rende il torto «ancora più inaccettabile», proprio come dice la Serracchiani. Che spero non faccia ipocrite retromarce. Non Saviano, ma gli italiani tutti la pensano come lei.

Profughi intoccabili, Serracchiani al rogo Mieli la difende: «Su di lei critiche rozze». Anche l'«Unità» attacca la vicesegretaria del Pd e «giustifica» lo stupratore, scrive Tiziana Paolocci, Domenica 14/05/2017, su "Il Giornale". La sinistra sceglie il profugo e ghigliottina un suo esponente. Prosegue il tiro incrociato contro Debora Serracchiani, governatrice del Friuli Venezia Giulia, messa alla gogna dal suo stesso schieramento per aver commentato in modo non politically correct, con tanto di comunicato ufficiale della Regione, il tentato stupro ai danni di una minorenne da parte di un richiedente asilo iracheno. L'esponente dem ha fatto l'errore di sostenere che «la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre ma risulta socialmente e moralmente ancora più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese». Ed è stata immediatamente bacchettata da compagni di partito e d'area, che l'hanno invitata al «mea culpa». Dopo Roberto Saviano, oggi è arrivata perfino l'Unità a massacrarla in prima pagina parlando ieri di «orrenda frase». E ancora di «un discrimine che tra l'altro ridicolizza un istituto decisivo come lo status di rifugiato, che non comporta alcun obbligo in più, e semmai certifica e riconosce una vita vissuta con maggiori complicazioni». E, sebbene la frase sia seguita da una puntualizzazione («non è un alibi»), rispunta il solito vizio della sinistra di giustificare chi delinque, se appartiene a una minoranza disagiata. Una reazione, quella dei suoi compagni, che ha spinto anche la governatrice a trovare, di nuovo ieri, una scappatoia per allontanare i riflettori da lei e da una frase ovvia, che rappresenta il pensiero della maggior parte degli italiani. «Quando si parla di accoglienza dobbiamo mettere da parte le ipocrisie: se si vuole essere accolti bisogna rispettare le regole e questo noi dobbiamo chiedere - ha ribadito -. Chi non lo fa deve ovviamente pagarne le conseguenze. Non significa parlare di diversità di colore o provenienza: dico semplicemente che un furto in casa è sempre odioso, ma se lo compie la persona che ho accolto in casa mia il giorno prima, questo mi dà ancora più fastidio». «Le circostanze aggravanti e attenuanti esistono da sempre nel codice penale - afferma il segretario di Scelta civica, Enrico Zanetti - e nel comune sentire. Dire che essere un profugo accolto da un Paese rappresenta una aggravante, nell'istante in cui si commette un odioso crimine contro la persona, significa dire cose di pacifico buon senso». Dalla sua anche Paolo Mieli che parla di «un'Italia rozza e ignorante». «Il fatto che in Italia possa nascere una simile polemica - tuona - è orribile ed era impressionante leggere oggi (ieri, ndr.) alcune dichiarazioni. Ma è possibile che nel nostro Paese ogni occasione sia buona per saltarsi alla gola, per distruggere. Bisogna finirla bisogna voltare pagina e non continuare con questo stile orribile che porterà l'Italia nello sprofondo».

La Serracchiani contro lo stupratore profugo. E i buonisti la linciano. «Violenza più odiosa se commessa da chi chiede ospitalità». La governatrice Pd spacca la sinistra, scrive Anna Maria Greco, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". L'inciampo di Debora Serracchiani sull'aggravante per il profugo violentatore scatena proteste soprattutto in casa sua. Antirazzisti e femministe di sinistra si scagliano contro la presidente del Friuli Venezia Giulia, che fa dei distinguo sugli autori di uno stupro. «La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese», commenta mercoledì il vicesegretario del Pd, dopo il tentativo di stupro a Trieste su una minorenne di un iracheno richiedente asilo. La politica si sveglia in ritardo, prima gli internauti sommergono di critiche la Serracchiani sui social network. Poi su Twitter il guru Roberto Saviano la arruola d'imperio nel Carroccio: «Salvini saluta l'ingresso di Serracchiani nella Lega. Spero la candidi lui: se lo fa ancora il Pd, vuol dire che il Pd è diventato la Lega». Ed ecco il commento autentico del leader leghista: «La bella addormentata nel bosco... Peccato che lei e il suo partito siano complici di una invasione senza precedenti, e abbiano sulla coscienza ogni reato e ogni violenza commessa da questa gentaglia. P.S. A prescindere dalla razza, castrazione chimica e buonanotte, con buona pace di Saviani e Boldrine». La polemica si allarga a dem, ex dem e ultra dem, che insorgono contro la governatrice, già nota per le sue gaffe. «Le parole razziste di Serracchiani sono inaccettabili», per Roberto Fico. «Ragionamenti agghiaccianti. Serracchiani chiarisca e si scusi», aggiunge Elvira Savino di Fi. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala dice che le è «scappata» la frase «sbagliata», ma la polemica è «eccessiva». Lei cerca di ridimensionare la comprensione per «il senso di rigetto» verso colpevoli di «crimini così sordidi» e l'appello a interventi legislativi per l'espulsione dei colpevoli. Precisa in un tweet: «Non esistono stupri di serie A o di serie B. Sono tutti ugualmente atroci. In questo caso all'atrocità si aggiunge la rottura patto di accoglienza». Troppo tardi e troppo poco. Debora su Facebook ci riprova: «Ho solo detto una cosa di buon senso, anche se scomoda», perché vengono «traditi gli altri richiedenti asilo e tutti quelli che si battono per l'accoglienza dei migranti». Chi non se ne rende conto fa «il gioco dei razzisti». Ma la caccia è aperta. Per la dem Patrizia Prestipino la sua è «una dichiarazione uscita male perché lo stupro è stupro, c'è poco da discutere». Francesco Laforgia, di Mdp, vi legge non solo la «deriva di un partito», ma lo «scivolamento di un intero Paese sul piano della civiltà». Lo scivolamento del Pd, per Giulio Marcon di Si, è «verso destra». A Milano, i consiglieri dem si dicono «sconcertati». «Che il presunto colpevole sia italiano o straniero non fa e non deve fare alcuna differenza», sottolinea Maria Cecilia Guerra, di Mdp. Più cruda Celeste Costantino di Si: «Un conto è subire violenza dai nostri uomini, e un conto è subirla da un profugo. Prima gli italiani! Parola di Serracchiani».

Uomini soli verso l’Europa. In Italia 9 su 10 sono di sesso maschile, scrive Sara Gandolfi il 17 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Troppi uomini, soli e arrabbiati, bussano alla porta dell’Europa? La domanda si rincorre da giorni, dopo il caso Colonia. Scemata l’indignazione del momento, ora tocca ai ricercatori analizzare statistiche e precedenti, e i primi risultati sono allarmanti: l’Europa del futuro rischia di essere troppo «maschile» e di soffrire così, inevitabilmente, un brusco aumento del tasso di criminalità. Un pericolo non necessariamente dovuto alla fede dei profughi ma allo squilibrio di genere: il 73% degli 1,2 milioni di richiedenti asilo in Europa, secondo gli ultimi dati disponibili, pubblicati dall’Economist, sono maschi contro il 66% del 2012. E l’Italia guida la lista, con il 90% di richiedenti asilo uomini.

Le statistiche dei crimini. In generale, l’80-90% dei crimini — con lievi differenze da Paese a Paese — è commesso da giovani uomini adulti. «Non sappiamo ancora abbastanza della situazione demografica attuale per trarre delle conclusioni sui fatti di Colonia», mette le mani avanti Andrea Den Boer, docente di politica e relazioni internazionali alla University of Kent. «Finora non è stata compiuto alcuno studio specifico nelle popolazioni migranti, ma le mie ricerche in India e in Cina (dove la politica del figlio unico ha provocato un netto calo nella nascita di femmine, ndr) confermano che gli squilibri di genere nelle popolazioni più giovani conducono a una maggiore instabilità sociale, tra cui un aumento della criminalità e della violenza, in particolare contro le donne».

La miccia dell’emarginazione. La ricerca di Den Boer ha provato anche che, sul lungo periodo, le società con un alto numero di uomini che rimangono ai margini della società — perché impossibilitati a sposarsi o a ricongiungersi con le famiglie, o perché disoccupati — sono più instabili e soffrono di un crescente numero di crimini, abuso di droga, gang fuorilegge. Il rischio di ripercussioni negative aumenta nelle società in cui il passaggio alla vita di coppia è ritardato — come avviene tra i profughi e i migranti soli in Europa. «I celibi sono più propensi a commettere atti criminali rispetto agli uomini sposati o impegnati sentimentalmente», conferma Den Boer. In più «i giovani uomini soli tendono ad unirsi in gruppo e, inevitabilmente, il comportamento di un gruppo è più antisociale di quello di un individuo solo». Come hanno dimostrato i fatti di Colonia.

L’allarme in Svezia. La Svezia ha accolto tre richiedenti asilo ogni 1000 abitanti tra settembre 2014 e 2015, in percentuale il Paese più «accogliente». Il 17% di questi sono giovanissimi, tra i 14 e i 17 anni (in Germania questa fascia contribuisce per il 6%); un numero che potrebbe alterare in modo permanente gli equilibri di genere nel Paese nordico: attualmente ci sono 106 teenager maschi ogni 100 femmine, se tutte le richieste di asilo saranno accolte la proporzione diventerà 116 a 100.

Gli esempi positivi. La migrazione di massa non è necessariamente un problema, e sono numerosi gli esempi nel passato di Paesi che sono stati in grado di assorbire un alto numero di uomini senza soffrire di instabilità sociale. La Germania, ad esempio, negli anni Settanta accolse oltre 2,6 milioni di lavoratori stranieri, in gran parte uomini: perlopiù si fermarono un paio di anni per poi tornare in patria e contribuirono enormemente alla crescita dell’economia tedesca. «La chiave è far sì che i migranti possano compiere la transizione, diventare partecipanti a pieno titolo della vita sociale ed economica dello Stato in cui vivono — conclude Den Boer —. La maggior parte dei migranti in Europa, invece, sta ancora cercando di ottenere l’asilo politico, o addirittura non rientra neppure nelle statistiche ufficiali dei richiedenti asilo. La Germania ad esempio sostiene di aver accolto un milione di migranti nel 2015, ma finora ha registrato solo circa 400.000 richieste di asilo». In base alle cifre di Eurostat sui richiedenti asilo, l’Italia ha la più alta percentuale di richieste «maschili», rispetto agli altri Stati europei. «Ad ottobre 2015, il 90% delle 82 mila richieste erano di uomini, per la maggior parte giovani tra i 18 e i 34 anni — conferma Den Boer —. Ma l’Italia dovrebbe essere in grado di assorbire i nuovi arrivati e mitigare le conseguenze di questi numeri». Sebbene di più, insomma, gli arrivi nel nostro Paese non dovrebbero alterare gli equilibri di genere come in Svezia, dove il numero di profughi è in percentuale molto più alto rispetto al totale della popolazione.

Sassari, capotreno molestata dal branco di nigeriani. La donna accerchiata da un gruppo di ragazzi a Porto Torres Mare. Aggredita, ora è sotto choc, scrive il Domenica 16/07/2017 "Il Giornale". Stranieri scatenati: ancora un'aggressione a bordo di un treno. Questa volta la vittima è una capotreno che alla Stazione marittima di Porto Torres (Sassari) è stata aggredita e molestata sessualmente da un gruppo di nigeriani. Subito dopo l'aggressione la donna si è rivolta ai medici del pronto soccorso di Sassari e ora è ancora in stato di choc. L'episodio è avvenuto ieri mattina su un treno diretto a Sassari. La capotreno ha subito l'aggressione durante un controllo dei biglietti. La Polizia ferroviaria ha identificato gli aggressori. La violenza è scattata dopo la richiesta dei ticket di viaggio. I ragazzi erano senza biglietto e così hanno deciso di accerchiare la donna per poi aggredirla e palpeggiarla. A denunciare quanto accaduto sono stati i rappresentanti sindacali della Fit Cisl: «Non si può continuare così, con i lavoratori dei trasporti in balia dei violenti - dichiara Antonio Piras, segretario generale di categoria -. Ormai registriamo un episodio di violenza al giorno e le lavoratrici e i lavoratori non possono essere lasciati soli. Chiediamo a Protezione aziendale di Trenitalia un incontro urgente per valutare ulteriori azioni e iniziative da mettere in campo per meglio tutelare l'incolumità fisica del personale di front-line». Insomma il personale che lavora a bordo dei treni tutti i giorni deve fronteggiare questi rischi che di fatto espongono i controllori a violenze gratuite. Gli fanno eco il segretario Fit Cisl Sardegna, Valerio Zoccheddu, e la responsabile del Coordinamento donne della stessa sigla, Claudia Camedda. Viene denunciata la sempre più crescente «solitudine» del personale di bordo e si chiede con forza alla direzione di Trenitalia Sardegna di farsi carico, con iniziative di prevenzione, «di salvaguardare l'incolumità dei lavoratori e delle lavoratrici che quotidianamente sono vittime di aggressioni fisiche e verbali». E a poche ore dalla diffusione della notizia dell'aggressione si rincorrono le reazioni politiche. «Anche oggi registriamo gravissime delinquenze perpetrate da clandestini. Tristi fatti ormai all'ordine del giorno. Questa volta la vittima è una capotreno aggredita e molestata sessualmente da nigeriani mentre svolgeva il suo lavoro. Non se ne può più, la situazione è insostenibile ma i colpevoli non sono solo chi concretamente ha commesso questi i reati, ma anche chi ha favorito l'invasione» dichiara il capogruppo alla Camera della Lega, Massimiliano Fedriga. «Una brutale aggressione nei confronti di una donna, un episodio gravissimo, purtroppo non l'unico, dinanzi al quale occorre una risposta con la massima determinazione» dice il coordinatore regionale di Forza Italia in Sardegna, Ugo Cappellacci che chiede il blocco degli sbarchi degli extracomunitari sull'Isola e il loro immediato rimpatrio.

Stupri, gli stranieri commettono più violenze sessuali: il record ai romeni, scrive Fausto Carioti il 23 Ottobre 2016 su "Libero Quotidiano". Si può invocare una maggiore apertura delle frontiere italiane, come fanno la presidente della Camera, Laura Boldrini, e altri esponenti della nostra classe dirigente, fingendo di non sapere che gli stranieri residenti nel nostro territorio, pari all’8% della popolazione, sono accusati del 39% degli stupri? È giusto che il dibattito sulla libera circolazione dei cittadini comunitari prescinda dal fatto che sui romeni, pari all’1,8% della popolazione residente in Italia, ricadono ben l’8,6% degli arresti e delle denunce per violenza sessuale? Poche cose riescono a essere più politicamente scorrette delle statistiche sulla criminalità, ma chi sceglie di non vederle lo fa sulla pelle della popolazione. L’istituto di ricerca Demoskopika ieri ha pubblicato un’indagine sulla violenza sessuale in Italia, che attingendo ai dati del ministero dell’Interno analizza gli episodi commessi nel quinquennio 2010-2014. Il documento si conclude con un sondaggio sull’orientamento degli italiani, un terzo dei quali chiede la linea dura - inclusa la castrazione chimica - nei confronti degli autori degli stupri. È un documento interessante, che lo diventa ancora di più se si mettono a confronto le nazionalità dei colpevoli e delle vittime con le statistiche sulla popolazione presente nel nostro Paese. È quello che ha fatto Libero, incrociando i numeri pubblicati da Demoskopika con le statistiche Istat relative al primo gennaio 2014. I risultati impressionano. Nel quinquennio 2010-2014 sono state commesse sul territorio italiano 22.864 violenze sessuali (questo è il numero desunto dalle denunce presentate: quello vero, ignoto, è inevitabilmente superiore). Solo in 16.797 casi è stato scoperto il violentatore, che quindi è riuscito a farla franca il 27% delle volte. Denunce e arresti hanno interessato gli italiani nel 61% dei casi e gli stranieri nel restante 39%. Sono quote molto distanti da quelle della popolazione residente in Italia, che nel 2014 era pari a 60,8 milioni di individui, dei quali italiani il 91,9% e stranieri l’8,1% (circa 4,9 milioni). Da un punto di vista statistico, significa che la popolazione straniera ha una propensione a commettere questo tipo di reato assai maggiore di quella degli italiani. Ovviamente la responsabilità criminale è individuale, non collettiva, ma è un dato di fatto che alcune nazionalità abbiano un peso nelle statistiche degli stupri di gran lunga superiore alla loro incidenza sulla popolazione. È il caso dei romeni, che in Italia risultano essere circa 1,1 milioni, pari all’1,8% del totale dei residenti. Sono la comunità d’immigrati più numerosa, ma i reati di stupro che vengono loro addebitati sono addirittura l’8,6% del totale. La seconda nazionalità straniera più rappresentata è quella degli albanesi, che sono lo 0,8% del totale della popolazione: anche nel loro caso, la percentuale dei responsabili di stupri è particolarmente alta, visto che su loro ricadono l’1,9% degli arresti e delle denunce. Statistiche peggiori le ha la comunità dei marocchini: sono lo 0,7% dei residenti e il 6% dei denunciati ed arrestati per violenza carnale. Discorso simile per i tunisini: la loro presenza in Italia è pari appena allo 0,2% della popolazione, ma l’1,3% delle accuse di stupro ricade su di loro. Per contro cinesi, ucraini e filippini, pur rappresentando quote importanti della popolazione immigrata, non hanno un peso rilevante nelle statistiche dei presunti responsabili di reati sessuali. Anche i numeri delle vittime confermano che la violenza sessuale è particolarmente diffusa in alcune comunità. Il 68% delle vittime sono italiane e il 32% straniere. E tra queste le più colpite sono le persone di nazionalità romena (il 9,3% degli stupri denunciati è commesso su di loro), marocchina (2,7%) e albanese (0,5). Non si tratta solo di donne, ovviamente: i numeri dicono che in Italia uno stupro su quattro avviene ai danni di un minorenne. Sotto l’aspetto territoriale è la Lombardia, con il 17,5% dei casi, la regione con il triste primato del maggior numero di violenze sessuali. Seguono Lazio (9,8%), Emilia Romagna (9,1%), Piemonte (8,3%) e Toscana (7,7%). Ma se il calcolo viene fatto in rapporto alla popolazione femminile residente, la classifica cambia molto: in questo caso, avverte Demoskopika, in testa c’è il Trentino Alto Adige, con 88 episodi di violenza sessuale ogni 100mila donne residenti. Seguono l’Emilia Romagna con 79 casi, la Toscana con 78, la Liguria con 75 e il Piemonte con 72. Il sondaggio conferma che gli italiani sono sempre più convinti che occorra la linea dura. Il 12% oggi è favorevole alla castrazione chimica degli stupratori, senza differenze rilevanti di opinione tra uomini e donne. Un altro 24,1% degli interpellati chiede pene comunque più severe. L’approccio morbido, orientato alla «riabilitazione» di chi ha commesso una violenza sessuale, è condiviso solo dal 3,6% dei nostri concittadini.

La fecondità degli immigrati e altre mezze bugie che non fermeranno la morte demografica del nostro paese, scrive il 21 Settembre 2014 Rodolfo Casadei su Tempi”. La verità è che sull’invecchiamento della popolazione italiana e sulla sostenibilità del nostro welfare le cose stanno anche peggio di come ce le raccontano. Intervista al demografo Gian Carlo Blangiardo. Lo sapevate che in Italia gli ultranovantacinquenni sono circa 100 mila, ma nel 2065 saranno la bellezza di 1 milione e 258 mila? Che la popolazione residente in Italia non supererà mai i 62,1 milioni, dopodiché scenderà fino a essere, nel 2065, la stessa di oggi, cioè 59,4 milioni, ma con la differenza che oggi meno di 1 cittadino su 10 è straniero, mentre nel futuro lo sarà 1 su 5? Lo sapevate che la famosa alta fecondità degli immigrati è un mito, considerato che nell’arco di appena cinque anni il numero di figli per donna fra le straniere residenti in Italia è sceso da 2,5 a 2,1? Che da più di un decennio il numero degli over 65 ha superato quello degli under 20 e che nel 2027 gli ultraottantenni saranno più numerosi dei residenti italiani sotto i 10 anni di età? E che in dieci anni (fra il 2001 e il 2011) la classe d’età degli attuali 25-29enni italiani ha perso 30 mila unità a causa dell’emigrazione dei cervelli e delle braccia giovani? Queste e altre poco incoraggianti cose ancora sapreste se aveste partecipato al piccolo incontro tenuto dal demografo Gian Carlo Blangiardo, ordinario di demografia all’Università di Milano-Bicocca, svoltosi durante l’ultimo Meeting di Rimini presso lo stand del Movimento per la Vita. Uno di quegli incontri di nicchia che sono una specialità della kermesse riminese, fuori dal programma ufficiale, ma ricchi e stimolanti come gli altri. Quel pomeriggio Blangiardo ha parlato e mostrato powerpoint spiegando altre cose ancora. Ha puntualizzato che in Italia dagli anni Novanta il saldo naturale, cioè la differenza fra le nascite e i decessi, continua ad essere negativo, e l’afflusso di immigrati non ha cambiato il panorama, perché il numero di figli che mettono al mondo annualmente e va a sommarsi a quelli generati dagli italiani non è sufficiente a coprire il numero dei morti. La popolazione continua a crescere leggermente grazie all’immigrazione di adulti, ma fatalmente l’età media aumenta (non lo ha detto Blangiardo, ma secondo statistiche americane l’Italia è il terzo paese più anziano del mondo dopo il Giappone e la Germania). Ha esemplificato l’effetto che l’invecchiamento della popolazione avrà sulla sostenibilità finanziaria della spesa sociale evocando i 7 miliardi di euro che costerebbe il solo assegno di accompagnamento per il milione e 200 mila ultranovantacinquenni nel 2065.Le affermazioni più forti hanno riguardato il contributo degli stranieri alla sostenibilità del welfare e del sistema pensionistico italiani, che secondo Blangiardo non rappresenta affatto la panacea che molti dicono ma solo un rinvio del problema che si presenterà aggravato, e la sottovalutazione dell’emigrazione giovanile, quando «si può stimare che la “perdita netta” di giovani italiani nell’arco del decennio 2001-2011 vada ben oltre le 100 mila unità». Per tutti questi motivi abbiamo voluto approfondire con Gian Carlo Blangiardo i vari argomenti.

Professore, pare di capire che il saldo migratorio, che in Italia è positivo dal 1991, non sia sufficiente a invertire l’invecchiamento della popolazione italiana. È così?

«Sì, è così. Il fenomeno dell’immigrazione è rappresentato da immigrati che nella grandissima maggioranza arrivano qui già adulti. Trascorrono alcuni anni e vanno ad aumentare il numero degli anziani. Non fanno tutto il percorso, da bambino ad adolescente a giovane, poi ad adulto e infine ad anziano, che fa chi nasce in Italia. Danno una boccata di ossigeno al ringiovanimento della popolazione nel momento in cui arrivano, ma poi, col passar del tempo se la riprendono quando diventano a loro volta anziani».

Si dice che gli immigrati hanno un tasso di natalità più alto degli italiani, mettono al mondo più bambini, e questo dovrebbe contribuire al ringiovanimento della nostra popolazione più del semplice arrivo di immigrati. Lei però afferma che la loro fertilità diminuisce rapidamente quando sono in Italia? In che misura, e perché?

«Gli immigrati danno un contributo in termini di natalità che è importante, ma che non rappresenta una soluzione miracolosa ai nostri problemi. I nati da donne straniere sono cresciuti rapidamente dagli anni Novanta ad oggi, da 10 mila sono passati ai circa 80 mila attuali. Si sono stabilizzati attorno a questa cifra annua, magari cresceranno un po’ in futuro ma solo perché crescerà la popolazione straniera totale. Una volta esaurita la fase dei grandi ricongiungimenti familiari al seguito delle sanatorie che li permettevano, gli immigrati piuttosto rapidamente sono passati da livelli di fecondità largamente superiori alla soglia di ricambio generazionale a livelli che permettono appena il ricambio generazionale. Nelle grandi città italiane, dove è più difficile gestire la presenza di figli, l’indice di fecondità della popolazione straniera è largamente al di sotto del tasso di ricambio generazionale. Questo avviene per il semplice motivo che le coppie straniere incontrano le stesse difficoltà che incontrano le coppie italiane ad avere figli, e spesso in forma ancora più esasperata».

Ma è vero che la loro la fecondità è di 2,1 figli per donna mentre fra gli italiani è 1,4?

«È 1,3 per le italiane per l’esattezza, e 2,1 per le donne straniere. Però non bisogna dimenticare che appena cinque anni fa per queste ultime era 2,5. Nell’arco di poco tempo c’è stata una consistente riduzione. In certe realtà locali il dato è inferiore ai 2 figli per donna anche fra gli stranieri: Milano, Roma, Napoli, Palermo. Il disagio di essere genitore in emigrazione è un qualcosa di chiaramente tangibile».

Il saldo naturale in Italia attualmente è negativo, e lo è da più di vent’anni nonostante l’apporto di nascite degli stranieri. Quando tornerà – se mai tornerà – ad essere positivo?

«La domanda mi dà l’opportunità di ricordare che il 2013 è stato un anno record nella storia della demografia dell’Italia unita: non c’è mai stato un anno con un numero di nascite così basso. In tutto sono state 513 mila. E la proiezione dei dati dei primi tre mesi del 2014 promette un quasi 10 per cento in meno per il dato finale di quest’anno».

Quindi il saldo naturale continuerà a restare negativo e sarà compensato solo dall’immigrazione?

«Sicuramente, per un motivo molto semplice. Essendo una nazione sempre più vecchia, non solo le nascite non crescono, ma le morti aumentano. Il numero totale dei morti, che oggi è di circa 600 mila all’anno, è destinato in futuro, a causa della struttura della popolazione, a salire a 700-750 mila».

La popolazione residente in Francia è di poco superiore a quella italiana, eppure lì i nati sono 750 mila all’anno, anziché 500 mila come da noi. Perché c’è questa differenza del 50 per cento?

«Perché i francesi prendono sul serio la demografia. È un’eredità storica, derivante dalla necessità di affrontare ad armi pari la Germania con cui si trovavano sempre in conflitto. Comunque sia, hanno sempre fatto più attenzione di noi alle dinamiche demografiche e, dove necessario, agli interventi a favore della natalità, per raddrizzare certe tendenze. La Francia è solita prendere misure economiche, che costano, per sostenere la natalità. Laicamente, non si preoccupa se le coppie sono sposate o no, ma fornisce supporti economici perché vengano messi al mondo dei figli. Loro eliminano le cause che in Italia impediscono di far nascere i figli che si vorrebbero avere. Perché, non dimentichiamolo, in Italia le inchieste ci dicono che le donne vorrebbero 2,19 figli a testa, ma nella realtà ne hanno solo 1,3».

Lei sostiene che non saranno gli stranieri a risolvere il problema pensionistico italiano, ma in un certo lasso di tempo diventeranno parte del problema. Su che dati si basa?

«Chi dice “abbiamo rinunciato a 100 mila bambini ma abbiamo imbarcato 100 mila immigrati e alla fine il totale quadra”, non ha capito come funziona la demografia. La sostenibilità del welfare dipende dal rapporto fra anziani e attivi. Quanto più si sbilancia verso gli anziani, tanto maggiore sarà la quota di Pil che va a finire in pensioni, nella sanità, eccetera. La fetta di welfare che vanno a mangiarsi gli anziani va a raddoppiare. È sbagliato fare la divisione fra quanti sono oggi gli stranieri che lavorano e quelli che sono in pensione, per concludere che il carico è bassissimo e tutto va bene: bisogna ragionare guardando al futuro. Devo mettere in conto che quelli che oggi sono lavoratori, alla fine saranno soggetti che beneficeranno delle prestazioni pensionistiche e sanitarie. Se noi prendiamo in considerazione gli anni di vita futura della popolazione, che per l’Italia sono 2,4 miliardi, e calcoliamo quanti di questi anni saranno spesi in formazione, quanti lavorando e quanti a carico del sistema, scopriamo che l’“indice di carico” degli immigrati, cioè la loro pressione sul welfare nel corso di tutta la vita, è identica a quella degli italiani. Non abbassano il valore complessivo, danno solo una boccata d’ossigeno per un certo numero di anni, che poi pagheremo successivamente. Ci sono modelli matematici che dimostrano che c’è un beneficio di una ventina d’anni per la sostenibilità del welfare. Se io, in teoria, tolgo di mezzo 200 mila nascite e ci metto 200 mila immigrati trentenni, succede che il carico per una ventina di anni si abbassa, poi nel momento in cui la popolazione diventa stazionaria, il carico è più alto di quello che sarebbe stato senza l’arrivo degli immigrati al posto dei nati».

Come influisce la crisi demografica sull’economia?

«Non sono un economista, ma è intuitivo che una popolazione che cresce è una popolazione che esprime una domanda di beni, quella domanda che oggi non c’è e tutti invocano. Se fossimo una popolazione in aumento, come accadeva negli anni del miracolo economico, avremmo una spinta alla crescita economica attraverso una serie di consumi che permettono alla popolazione di crescere e andare avanti. Nel momento in cui la popolazione invecchia, l’economia ne risente perché l’anziano fa manutenzione, non fa investimento. Allora si spera di fare una compensazione attraverso gli immigrati e i loro consumi. Ma è gente con redditi che viaggiano attorno agli 800 euro mensili, una parte dei quali mandano ai paesi di origine: non hanno tanta disponibilità al consumo. Quando si dice “gli immigrati contribuiscono un tot al Pil”, io resto un attimo scettico, perché mi chiedo come facciano con 800 euro al mese a dare questi grandi contributi al Pil, al gettito fiscale, eccetera. Mi sembrano discorsi demagogici».

Anche i dati relativi ai giovani che lei ha presentato sono preoccupanti. Sembra che ci siano classi d’età che scompaiono.

«Abbiamo due problemi. Il primo è che le persone che raggiungono l’età per essere definiti giovani provengono da coorti di nati che si sono via via ridotte. Il totale della popolazione giovane risente di una immissione di forze fresche che nel tempo è andata riducendosi. Il secondo, che viene poco considerato e molto sottovalutato, è l’emigrazione giovanile. Non è più quella delle valigie di cartone, di 100 o di 60 anni fa, ma un’emigrazione di giovani talenti che si spostano perché altrove ci sono condizioni per ottenere maggiore gratificazione da tanti punti di vista. Stiamo perdendo cervelli, non valorizziamo i nostri giovani e loro se ne vanno».

A Rimini lei ha detto che chiuso dentro a un cassetto della presidenza del Consiglio c’è un Piano per la Famiglia. Cosa c’è scritto in questo piano? E perché lei dice che alcuni suoi provvedimenti sono necessari ma impopolari?

«Il Piano contiene tante cose. Fu steso da una commissione creata sotto il governo Berlusconi, ma si trattò di un progetto condiviso da tutti, c’erano dentro anche i sindacati. Si lavorò dal 2009 al 2012, ne facevo parte anch’io. Il documento è stato presentato dal ministro Riccardi e approvato dal Consiglio dei ministri al tempo del governo Monti. Poi l’hanno congelato ed è finita lì. Contiene proposte di natura economico-fiscale e altre a costo zero o quasi. Introdurre il fattore famiglia vorrebbe dire tirare fuori 16 miliardi di euro: se non ce li abbiamo, non si può fare. Però ci sono anche altre cose che sono più abbordabili: favorire le strutture per gli asili nido dei bambini, un clima culturale più favorevole alle famiglie che hanno figli, iniziative che rafforzino la compatibilità fra maternità e lavoro: ci sono misure che non costano molto e che varrebbe la pena di riconsiderare».

Anche il “comunista” Fassina diventa sovranista. E fonda un nuovo partito, scrive Vittoria Belmonte domenica 9 settembre "Secolo D'Italia". Che il destino di Liberi e Uguali sia quello della lenta estinzione è fuor di dubbio. Non solo il leader Pietro Grasso è scomparso, non solo Laura Boldrini auspica un nuovo soggetto unitario della sinistra ma ora c’è anche una miniscissione. Stefano Fassina, deputato di Leu, ha infatti annunciato sui social la fondazione di una nuova creatura politica, “Patria e Costituzione”, la cui assemblea fondativa si è tenuta a Roma l’8 settembre. “Un’associazione – dice Fassina – di cultura e iniziativa politica, dalla parte del lavoro, per affrontare la domanda di comunità, di protezione sociale e culturale, per rideclinare il nesso tra sovranità, democratica nazionale e Ue, per definire strumenti adeguati per lo Stato per intervenire nell’economia”. Da sempre critico verso la globalizzazione e il mercatismo che rappresentano gli idoli dell’Unione europea, Fassina – da sinistra – riscopre la patria e i diritti del popolo sovrano. Un’imitazione del percorso seguito dalla destra di Salvini nel rifondare la Lega e nel dare nuovo slancio al centrodestra. Fassina ha anche ammesso, nel suo discorso dedicato alla nuova associazione politica, che solo la destra ha capito il bisogno di protezione, comunità, identità che si genera attraverso l’evocazione di un nuovo «patriottismo costituzionale». 

No, in Svezia non è tutto come prima. E chi finge di ignorarlo sbaglia, scrive il 10 settembre 2018 Cristiano Puglisi su "Il Giornale". No, in Svezia, nonostante quanto affermato dal sistema mediatico mainstream, non hanno vinto i partiti tradizionali. È vero, le elezioni hanno visto ancora una volta al primo posto, con oltre il 28% delle preferenze, i socialdemocratici, come accade ininterrottamente dal 1917. Eppure questa volta sarà difficile per loro mettere insieme un Governo, dato che la coalizione di centrosinistra (che include anche la sinistra e i verdi) conta 144 seggi, contro i 143 della coalizione di centrodestra, costituita da moderati, liberali e cristiano-democratici. Insomma, nessuno ha una maggioranza. Forse determinanti saranno i seggi assegnati al partito nazionalista dei Democratici Svedesi, che con quasi il 18% delle preferenze incrementa notevolmente il bottino rispetto alla tornata precedente (oltre cinque punti percentuali) e che, pur non avendo vinto, ha fatto segnare un risultato più che significativo. Significativo perché, a prescindere da qualsiasi assurda valutazione tesa a sminuire il risultato finale della destra nazionalista, segnala che, anche nel Paese simbolo della socialdemocrazia nordica, della tolleranza, delle pubblicità politically correct di Ikea, l’immissione massiccia di immigrati degli ultimi anni (la Svezia è il Paese europeo che, in percentuale rispetto al numero di abitanti, ha accolto il maggior numero di richiedenti asilo) è stata rigettata dalla popolazione. Diversi sono i fattori da considerare per questa reazione. Non secondario è quello socio-economico. Sebbene in maniera magari inferiore rispetto ad altri stati del vecchio continente, grazie probabilmente al proverbiale ed efficiente welfare state, anche la Svezia ha sentito gli effetti della crisi economica globale. E così, mentre il PIL pro capite svedese non ha più raggiunto, dopo il grande crack della finanza del 2008, i livelli del periodo 2001-2008, e il PIL nominale è in costante calo dal 2014, la popolazione continua ad aumentare. Il motivo ce lo spiega la fondazione di studi europei GEFIRA: la continua immissione di migranti con alto tasso di fertilità. Secondo uno studio da loro condotto, infatti, l’alta fertilità delle donne svedesi (2,1 figli a testa, sopra il tasso minimo di sostituzione di due figli a coppia) sarebbe principalmente da imputare a donne nate all’estero. Le donne nate in Svezia, secondo un dato ufficiale, avrebbero infatti un tasso di soli 1,6 figli a testa, il risultato di 2,1 sarebbe dunque una media.

SOSTITUZIONE ETNICA IN CORSO. Si tratta, praticamente, di un processo di sostituzione etnica. Processo che ha subito un’impennata negli ultimi anni, con l’esplosione delle crisi migratorie. Se nel 2010, il 14,3% della popolazione svedese era di origine straniera, nel 2017, solo sette anni dopo, il dato è pari al 24,1%!

L’AUMENTO DEGLI STUPRI NON È CASUALE. I risultati di questo processo, ovviamente, si sono fatti sentire anche sul versante della sicurezza. Secondo dati del Consiglio Nazionale per la Prevenzione del Crimine, nel 2017 si sono avuti 7.230 casi di stupri, 667 in più dell’anno precedente pari ad un aumento del 10%. Chi sono questi stupratori? Secondo uno studio realizzato a ottobre 2017 dal ricercatore indipendente Patrik Jonasson, su 4.142 processi giudiziari relativi ad aggressioni sessuali nell’arco temporale che va dal 2012 al 2017 i dati parlano in maniera chiara: il 95,6% degli autori di stupri ha origini straniere (prevalentemente Medio Oriente e Africa) così come nel 90% delle violenze di gruppo. Insomma, che piaccia o meno al mainstream, i numeri dicono chiaramente che la scelta di importare un numero massiccio di immigrati in un breve lasso di tempo per “pagare le pensioni” non è sostenibile e ha un impatto devastante sulla coesione sociale di un Paese, per quanto questo possa essere all’avanguardia in termini di servizi sociali e qualità della vita. Figurarsi in quelli, come Spagna, Grecia o Italia, dove la situazione socio-economica ha subito un netto peggioramento negli anni della crisi.

L’EUROPA CHE SI GIRA DALL’ALTRA PARTE NON HA FUTURO. È chiaro, come già detto da queste colonne, che i partiti tradizionali dell’agone politico comunitario e anche il sistema mediatico loro connesso dovranno, in vista delle prossime consultazioni europee, dunque tenere conto di questo dato, piuttosto che liquidare come “populismo” o “razzismo”, qualsiasi istanza che chieda una rigida regolamentazione dei flussi migratori. In gioco, con l’emergere di movimenti nazionalisti, c’è la sopravvivenza del progetto geopolitico europeo, già vittima di notevoli squilibri economici. Continuare a non capire la situazione significherebbe consegnarlo definitivamente alla storia.

PORTI CHIUSI.

I porti chiusi inguaiano le coop. ​Senza migranti industria in crisi. Chiudono strutture per profughi e gli operatori vengono licenziati: con lo stop ai migranti il settore "accoglienza" rischia grosso, scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 15/10/2018, su "Il Giornale". Signori, abbiamo un problema. Anzi: avete un problema. Cooperative, Srl, associazioni e via dicendo che in questi ultimi anni si sono gettati anima e cuore nella gestione dell'accoglienza ora rischiano di rimanere senza migranti e quindi senza più i tanti fondi incassati fino ad oggi. Il risultato? Molte chiudono, altre sono costrette a licenziare. Da quando di immigrati nelle coste italiane non ne sbarcano più, manca la materia prima di quella che più volte è stata definita la "fabbrica dell'accoglienza". E che ora è in crisi. Nera. I numeri degli sbarchi dicono che nel 2018, (siamo ormai alla fine dell'anno) di immigrati ne sono arrivati 21.426. Se si guarda al dato dello stesso periodo dell'anno scorso la differenza è abissale: nel 2017 ne sbarcarono 108.384 e nel 2016 ben 144.574. La conseguenza del calo dell'80% degli sbarchi ha una conseguenza diretta: occorrono meno posti nei centri di accoglienza e chi ne aveva aperti ora non ha stranieri cui assegnare le brande. Come scrive La Verità, un esempio lampante arriva dal Cara di Mineo. Qui saranno ospitati ben 600 immigrati in meno rispetto al passato. Da 3mila a 2.400: sono sempre molti, e costano 40,9 milioni di euro, ma il taglio produrrà comunque un calo degli introiti. Tanto che i sindacati sono già sul piede di guerra visto che circa 200 persone rischiano di perdere i posti di lavoro. Oltre al Cara di Mineo, ci sono altri casi in tutta Italia. A Bergamo la Ruha ha annunciato che rivedrà il personale e altre, scrive La Verità, potrebbero chiudere. "Mentre si riduce in maniera netta l'accoglienza a profughi, migranti e transitanti su tutto il territorio nazionale a seguito delle nuove politiche adottate dal governo in carica - spiegano Sara Pedrini di Fp-Cgil e Alessandro Locatelli di Fisascat-Cis - e mentre si prevede la riduzione dei fondi ad essa collegata, si è giunti anche nella nostra provincia a una grave situazione di difficoltà delle realtà sociali che operano in questo settore". Situazione simile si è registrata a Benevento (120 lavoratori licenziati da un Cas), in Molise (3mila posti in 80 strutture ora in crisi) e a Biella, dove dei 663 posti disponibili solo 500 erano occupati. E così hanno chiuso un centro di Vercellino, un altro a Granero e chissà che altri non seguano la stessa strada. In fondo è stata la responsabile della coop Maria Cecilia, Enzo Calise, ad ammettere che "gli arrivi sono quasi nulli" e chi ancora dorme nei centri di accoglienza sono in Italia già da tempo. Manca insomma il ricambio generazionale. Quello che mantiene le strutture sempre piene.

«Italia razzista con i migranti», e l’Onu manda gli “ispettori”. L’annuncio da Ginevra dell’Alto Commissario per i diritti umani Michelle Bachelet, scrive Alessandro Fioroni il 10 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e Rom».  Anche l’Onu interviene sulla situazione italiana e lo fa con i massimi vertici, da Ginevra Michelle Bachelet, neo Alto commissario Onu per i diritti umani, aprendo i lavori del Consiglio Onu per i diritti umani ha annunciato che una squadra sarà inviata, per motivi analoghi, anche in Austria. «Il Governo italiano – ha continuato Bachelet – ha negato l’ingresso di navi di soccorso delle Ong. Questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili. Anche se il numero dei migranti che attraversano il Mediterraneo è diminuito, il tasso di mortalità per coloro che compiono la traversata è risultato nei primi sei mesi dell’anno ancora più elevato rispetto al passato». Un’ affermazione che contrasta con le politiche del ministro dell’Interno Matteo Salvini il quale continua ad agitare lo spettro dell’invasione ma che pare costretto a fare marcia indietro sulle espulsioni di massa.  «Per ora l’unico accordo che funziona è quello con la Tunisia. Ne rimpatriamo 80 a settimana ma anche se ne espelliamo 100 ci metteremo 80 anni». Il ministro scopre così quello che era noto a tutti, i rimpatri così come concepiti non sono assolutamente fattibili, almeno nei termini annunciati in campagna elettorale. «Andrò in Tunisia entro settembre –ha continuato Salvini - da lì ne sono arrivati più di 4mila e non c’è guerra, carestia, peste e non si capisce perchè». L’ammissione esplicita, quasi una confessione, è andata in onda durante un’intervista ieri a Radio Rtl 102.5. Il ministro continua a chiedersi retoricamente perché continuino ad arrivare persone, una costatazione che fa a pugni con il fatto che dopo quattro mesi di governo il Viminale non è riuscito ancora a stabilire accordi nuovi con i paesi di provenienza degli immigrati. Rimangono in piedi i quattro con Tunisia, Nigeria, Egitto e Marocco, lascito del precedente governo che certo non potranno mai far raggiungere la cifra dei 500mila rimpatri sbandierati a più riprese. Manca poi qualsiasi intesa con paesi come Senegal, Gambia e Costa d’Avorio che, nel periodo più intenso della crisi migratoria nel 2016, hanno costituito il 20% degli arrivi secondo i dati Onu. Intanto la situazione è cambiata, le politiche anti immigrazione sia del predecessore di Salvini, Marco Minniti, e la chiusura alle ong hanno drasticamente ridotto gli sbarchi dell’80%, spostando le rotte migratorie nel mediterraneo verso la Spagna. Ma il contesto potrebbe nuovamente capovolgersi a causa della crisi libica dove è deflagrata completamente la guerra civile. Mostrano la corda gli annunci di questa estate riguardo i rinnovati impegni con il governo libico di Serraji, il regalo delle 12 motovedette e l’addestramento della Guardia costiera libica. Anche perché, come già si sapeva, quest’ultima è divisa nella sua appartenenza proprio alle milizie che ora si combattono. E’ di queste ore la denuncia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) sulla gravissima condizione che vivono i migranti intrappolati in Libia in mezzo ai combattimenti che stanno sconvolgendo Tripoli nonostante la tregua raggiunta la scorsa settimana. L’Unhcr parla di «atrocità indicibili commesse contro i rifugiati e i richiedenti asilo nelle strade di Tripoli, tra cui stupri, rapimenti e torture».   Molte persone detenute nei centri per migranti di Tripoli sono fuggiti per paura di essere colpiti dalle pioggie di razzi sparati da un fronte all’altro, in questa maniera però cadono spesso in mano alle bande incontrollate (milizie o gruppi di criminali fuggiti dalle prigioni) che li catturano per poi estorcere ancora denaro. Per questo l’Onu chiede che sia messa a regime la struttura di raccolta e partenza a Tripoli, che fungerà da piattaforma per raggiungere la sicurezza in paesi terzi e che sarà gestita dal Ministero degli interni libico e dall’Agenzia Onu. La struttura ha la capacità di ospitare 1.000 rifugiati vulnerabili e richiedenti asilo ed è pronta per l’uso.

L'Onu ci manda gli ispettori ​per difendere migranti e rom. L'Alto commissario per i diritti umani annuncia: "In Italia razzismo e violenza, invieremo personale". E poi critica la chiusura dei porti alle Ong, scrive Nico Di Giuseppe, Lunedì 10/09/2018, su "Il Giornale". Ci mancava la reprimenda dell'Onu. Sul tema delle politiche migratorie che ogni stato mette in pratica, adesso scende in campo anche il nuovo Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet. Ma non solo su quello. Perché l'annuncio fatto oggi dall'ex presidente cileno nel suo primo discorso al Consiglio di Ginevra ha il sapore di un'azione moralizzatrice, se non di una vera e propria "invasione". "Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e rom", ha dichiarato Bachelet. Stesso discorso varrà anche per l'Austria. "Il governo italiano ha negato l'ingresso di navi di soccorso delle Ong. Questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili. Anche se il numero dei migranti che attraversano il Mediterraneo è diminuito, il tasso di mortalità per coloro che compiono la traversata è risultato nei primi sei mesi dell'anno ancora più elevato rispetto al passato", ha precisato l'Alto commissario. E ancora, secondo Bachelet, gli sforzi dei governi per respingere gli stranieri non risolvono la crisi migratoria e causano solo nuove ostilità. "È nell'interesse di ogni stato adottare politiche migratorie radicate nella realtà, non in preda al panico", ha detto l'ex presidente cileno criticando l'erezione dei muri di confine, la separazione delle famiglie di immigrati e l'incitamento dell'odio contro i migranti. "Queste politiche non offrono soluzioni a lungo termine a nessuno, solo più ostilità, miseria, sofferenza e caos", ha affermato. Nelle osservazioni di oggi, l'Alto commissario non ha citato esempi concreti, ma una versione più lunga del suo discorso presentata al Consiglio ha fatto riferimento a paesi tra cui Stati Uniti, Ungheria e Italia. All'inizio di settembre, Bachelet ha ottenuto la carica succedendo al diplomatico giordano delle Nazioni Unite Zeid Ràad Al Hussein, noto per il suo approccio altamente conflittuale nei confronti di alcuni di questi paesi. Oggi Bachelet ha invece optato per un tono meno combattivo, sottolineando al Consiglio per i diritti umani che avrebbe combattuto per i diritti umani mantenendo però la disponibilità ad ascoltare i governi. "I paesi dovrebbero vedere i diritti umani come uno strumento per lo sviluppo economico e contro l'estremismo violento. È costruendo l'accesso a tutti i diritti umani che la società diventa più forte e più capace di resistere a choc imprevedibili". Intanto il ministro dell'Interno italiano, Matteo Salvini, respinge le accuse dell'Alto commissario al mittente: "L’Italia negli ultimi anni ha accolto 700mila immigrati, molti dei quali clandestini, e non ha mai ricevuto collaborazione dagli altri paesi europei. Quindi non accettiamo lezioni da nessuno, tantomeno dall’Onu che si conferma prevenuta, inutilmente costosa e disinformata: le forze dell’ordine smentiscono ci sia un allarme razzismo. Prima di fare verifiche sull’Italia, l’Onu indaghi sui propri stati membri che ignorano diritti elementari come la libertà e la parità tra uomo e donna".

Migranti, Salvini sfida l'Onu: "Taglieremo i finanziamenti". Onu vuole inviare ispettori per valutare gli "episodi di razzismo" in Italia. Il ministro: "No lezioni da organismo con sprechi, mangerie e ruberie", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 10/09/2018, su "Il Giornale". Lo scontro tra l’Onu e Matteo Salvini potrebbe essere solo all’inizio. E così il leader della Lega potrebbe seguire Trump sulla strada dei tagli ai contributi alle Nazioni Unite, organismo che per il ministro non ha diritto di “venire a dare lezioni agli italiani”. Oggi nell’eterna bagarre sui migranti è scesa in campo l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet. E lo ha fatto con decisione per quella che il governo italiano già considera una invasione di campo. “Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e rom", ha detto l’ex presidente cileno nel suo primo discorso al Consiglio di Ginevra. Ed immediata è scattata la reazione del ministro dell’Interno. "Se uno ignora, fa migliore figura a stare zitto – ha detto Salvini ai cronisti - Non c'è nessun allarme razzismo o persecuzione in Italia". A dirlo non è solo l’inquilino del Viminale, ma i freddi dati: "I numeri - ha spiegato il ministro - smentiscono tutto questo, per fortuna”. Già, perché i reati in Italia sono in riduzione, sia quelli contro gli italiani che quelli contro i migranti. E quando alcuni mesi fa tutti parlarono di allarme razzismo o fascismo poi le indagini delle autorità smentirono buona parte degli allarmismi. A partire dal lancio delle uova contro l’atleta di colore. Salvini dunque non intende accettare “lezioni” da nessuno perché l’Italia “ha accolto 700mila immigrati, molti dei quali clandestini, e non ha mai ricevuto collaborazione dagli altri paesi europei”. E reprimende non ne accetta neppure dall’Onu, una "organizzazione che costa miliardi di euro, a cui l'Italia dà più di 100 milioni all'anno di contributi”. Lo scontro, per ora solo verbale, potrebbe evolvere in qualcos’altro. E così come dopo il caso Diciotti il governo si disse pronto a tagliare i contributi all’Ue o a non approvare il bilancio comunitario, così ora Salvini propone di riconsiderare i versamenti al conto delle Nazioni Unite. “Ragioneremo con gli alleati sull'utilità di continuare a dare questi 100 milioni per finanziare sprechi, mangerie, ruberie per un organismo che vorrebbe venire a dare lezioni agli italiani – ha detto il ministro - Poi ha Paesi che praticano torture e pena di morte. Invece di mandare gli ispettori dell'Onu in Italia, avrei mezzo mondo in cui mandarli. L'emergenza razzismo vadano a cercarla altrove e non in Italia". L’idea peraltro arriva da lontano. Nel 2015, in una intervista contenuta nel libro Il Metodo Salvini, a Domenico Ferrara e Francesco Maria Del Vigo il leghista disse: "Invece di spenderli qua, i soldi, li spendi là, mettendo alle spalle questi organismi inutili come l’Onu, che non capisco a cosa serva; io toglierei anche la sottoscrizione dell’Italia a questi organismi internazionali, l’Onu è l’ente inutile per eccellenza, costa 16 miliardi, non so quale sia la quota dell’Italia, ma io inizierei a smettere di pagarla".

Indignarsi non serve, scrive Piero Sansonetti l'11 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Matteo Salvini ha risposto con fastidio, e mostrando un certo disprezzo, a Michelle Bachelet, alto commissario dell’Onu per i diritti umani, la quale ha espresso preoccupazioni per il rischio di una crescita del male razzista in Italia. Ha fatto malissimo, almeno per tre ragioni.  La prima è il rispetto che si deve alla signora Bachelet.  Tra i leader politici mondiali di questo periodo è una di quelle che ha alle spalle una biografia piuttosto ricca e molto dignitosa (anche superiore a quella di parecchi esponenti politici italiani). Lei è figlia di un generale cileno che fu arrestato l’11 settembre di 45 anni fa dagli uomini del generale Pinochet (che aveva rovesciato, con un sanguinosissimo golpe militare, il governo legittimo di Salvador Allende). Dopo l’arresto, dovuto al suo rifiuto di tradire Allende, fu torturato e morì. Anche il fidanzato di Michelle Bachelet, che all’epoca era una studentessa universitaria, fu arrestato, torturato e ucciso. E poi furono arrestate e torturate la madre e infine lei stessa. La interrogò e la fece torturare il generale Manuel Contreras in persona, cioè il capo della Dina, la polizia segreta. Michelle Bachelet resistette, fu rilasciata dopo un anno e fuggì all’estero, profuga. Poi tornò, militò clandestinamente nel partito socialista e dopo la fine della dittatura fece parte di alcuni governi, come ministra, e infine vinse il mandato presidenziale per due volte. Salvini e Feltri (che lo ha spalleggiato in Tv) possono erigersi finché vogliono a suoi giudici, ma i fatti – quelli veri sono certamente più forti e più nobili del loro fastidio. La seconda ragione è che chiunque conosca seppur superficialmente il nostro paese sa che da alcuni anni (da molto prima che si insediasse il governo gialloverde) in Italia sta crescendo il germe razzista. Testimoniato da migliaia di episodi, anche di violenza, persino da alcuni linciaggi, e anche dai toni tenuti da molti politici e opinionisti in centinaia di pubblici dibattiti in Tv e sui giornali. Tutta colpa di Salvini? Francamente non credo. Proprio per questo mi sembra che lo scatto che ha avuto contro l’Onu sia un errore anche politico. La Bachelet non ha detto: «voglio vedere chiaro cosa sta facendo Salvini». Ha detto: «voglio accertare se in Italia sta crescendo il razzismo». La terza ragione per la quale il ministro dell’Interno ha sbagliato è ancora più squisitamente politica. Lui fa il ministro in uno dei più importanti paesi del mondo. Non può immaginare che le sue scelte e i suoi giudizi, e le frasi che pronuncia, restino una questione puramente interna, e che solo i suoi elettori siano chiamati a giudicare. I suoi comportamenti, ovviamente, sono davanti agli occhi del mondo intero. Ed è giusto che il mondo abbia la possibilità di sapere, di conoscere, di giudicare. Salvini avrebbe dovuto rispondere all’Onu in modo assolutamente positivo: «venite, parliamo, vi metterò a disposizione tutto quel che vi serve e vi spiegherò qual è il senso della politica che stiamo attuando e perché non è una politica razzista». Perché non ha reagito così? Ci sono due possibili spiegazioni. La prima è che l’iniziativa dell’Onu di mandare qui da noi un’ispezione lo abbia infastidito e abbia provocato una semplice reazione stizzita. Male se è così: deve abituarsi al suo nuovo ruolo. Forse deve anche capire che il linguaggio che usa deve essere più adatto alla funzione di governo che svolge (visto che non è più il capo di un partito che era piccolo, ma è il rappresentante dell’Italia). La seconda spiegazione possibile è che in qualche modo si senta colpevole. Tema che una ispezione di una autorità internazionale (molto più dell’iniziativa un po’ cervellotica di una Procura) possa danneggiare la sua immagine e mettere in discussione le sue scelte. In questo secondo caso una via d’uscita c’è: modificare il suo atteggiamento un po’ oltranzista sull’immigrazione, aprire un dialogo con l’Onu, accettare alcuni principi umanitari difficili da mettere in discussione, chiedere e pretendere una collaborazione internazionale. Cioè trasformare l’Onu da minaccia in alleato. Se l’obiettivo del governo è quello di realizzare una politica sui migranti che distribuisca il peso dell’accoglienza in modo più equo tra tutti i paesi ricchi del mondo, è difficile pensare di poterlo realizzare con una politica isolazionista. Michelle Bachelet, con la forza della sua esperienza politica, vuole aiutare l’Italia, non metterne a repentaglio l’onore. E’ assurdo non darle il benvenuto.

Onu, la nefandezza islamica coperta dai signori delle Nazioni Unite (che accusano gli italiani), scrive Fausto Carioti il 12 Settembre 2018 su "Libero Quotidiano". Michelle Bachelet è un personaggio politico screditato. Ha concluso il proprio incarico come presidente del Cile lo scorso marzo, tra i fischi degli elettori. Però è socialista, appartiene alla schiatta di governanti che hanno impoverito il sud America (i brasiliani Inácio Lula e Dilma Rousseff, il boliviano Evo Morales, il venezuelano Nicolás Maduro e tutti gli altri lustrastivali dei fratelli Castro). Così, anziché in esilio, è stata spedita all' Onu, dove per quelli come lei un posto si trova sempre. Da pochi giorni è Alto commissario per i Diritti umani, uno degli incarichi più importanti e meglio pagati del Palazzo di vetro, per il quale ha disposizione uno staff di 1.300 persone e un budget annuale di 200 milioni di dollari. A voler fare le cose sul serio, ci sarebbe solo l'imbarazzo della scelta: le discriminazioni nei confronti delle donne e degli omosessuali, le torture agli avversari politici e le violenze e le uccisioni in nome dell'islam sono prassi comune in Africa, Medio Oriente e Asia meridionale. Per la compagna Bachelet, l'infezione da curare si trova invece nelle democrazie occidentali governate dai conservatori. Nel discorso d' insediamento pronunciato ieri, ha accusato innanzitutto gli Stati Uniti di Donald Trump e l'Ungheria di Viktor Orbán, per le loro politiche di controllo sull' immigrazione. Quindi se l'è presa con l'Unione europea, che secondo lei dovrebbe «istituire un'operazione umanitaria di ricerca e soccorso per le persone che attraversano il Mediterraneo», e in particolare col governo italiano, cioè con Matteo Salvini, colpevole di avere negato l'attracco alle navi delle Ong e di altre nefandezze. Con l'intento di mettere in riga lui e noi, ha annunciato che invierà gli ispettori dell'Onu in Italia, «per valutare il segnalato forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e rom». Una sorta di caschi blu dell'immigrazione, i quali dovranno occuparsi anche dell'Austria di Sebastian Kurz. Incontreranno i responsabili delle Ong e chiunque abbia denunce da fare (Laura Boldrini può già prendere appuntamento), quindi stileranno un rapporto che di fatto è già scritto, nel quale il nostro Paese sarà dipinto come la culla del quarto reich. E tutto questo nemmeno a buon mercato, visto che per mantenere l'intero sistema delle Nazioni unite lo Stato italiano stacca ogni anno un assegno di 714 milioni di euro, cento dei quali alla sola Onu e il resto alle agenzie collegate. Nulla di nuovo, per carità. È la solita internazionale socialista che invia i propri nominati a picconare gli avversari. Soccorso rosso tra compagni in disarmo, che scalano le gerarchie degli organismi internazionali perché sono gli unici posti in cui possono portare avanti i loro ideali falliti senza chiedere il permesso agli elettori. Ha ragione Salvini quando dice che l'Italia non accetta lezioni da nessuno, tanto meno da un'Onu che non ha il coraggio di indagare sui propri Stati membri «che ignorano diritti elementari come la libertà e la parità tra uomo e donna». Ha ragione, soprattutto, quando sostiene che dovrà valutare assieme gli alleati se sia giusto continuare a pagare «per finanziare sprechi, mangerie, ruberie di un organismo che vorrebbe venire a dare lezioni agli italiani». Ma dei Cinque stelle l'unico a intervenire è stato Alessandro Di Battista, per dire che «l'Onu dovrebbe inviare ispettori in tantissimi Paesi del mondo». È chiaro che il ragazzo gode nel vedere Salvini sotto attacco. Si attendono tweet da Luigi Di Maio e dagli altri grillini di governo, una volta che avranno capito di cosa si parla.

Tutte le ombre sulla Bachelet. Paladina Onu dei diritti umani. Tutte le ombre sulla Bachelet, la paladina Onu dei diritti umani che vuole mandare gli ispettori in Italia a controllare, scrive Domenico Ferrara, Martedì 11/09/2018, su "Il Giornale". Fa un po' storcere il naso che a lanciare l'«invasione moralizzatrice» in Italia a difesa di migranti e rom sia una che è stata più volte criticata proprio sul campo del rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Sul curriculum dell'Alto commissario Onu Michelle Bachelet pesa, infatti, un comportamento molto ambiguo, soprattutto se si guarda al rapporto con Cuba, Nicaragua e Venezuela. A mettere in fila le anomalie, chiamiamole così, dell'ex presidente del Cile ci ha pensato l'Ong Un Watch, che ha il compito di monitorare quello che accade all'interno del Palazzo di Vetro e che ha espresso numerosi dubbi sulla poca trasparenza e sulla velocità che hanno accompagnato l'elezione della Bachelet. Qualche esempio? Durante la visita a Cuba, all'inizio del 2018, la Bachelet è stata fortemente criticata dai membri del suo stesso partito e dagli attivisti per i diritti umani per aver incontrato il generale Raúl Castro snobbando i membri dell'opposizione pacifica di Cuba. Non solo. Alla richiesta della leader dell'opposizione, Rosa María Payá, di incontrare i dissidenti per i diritti umani la Bachelet ha risposto picche, anzi, non ha proprio risposto. Anche la blogger cubana Yoani Sanchez ha puntato il dito contro di lei imputandole una «vicinanza all'Avana segnata da una nostalgia ideologica che offusca la sua visione e la sua capacità di riconoscere la mancanza di diritti che segnano la vita dei cubani» e aggiungendo che «dalla sua bocca non c'è mai stata alcuna condanna della repressione politica condotta sistematicamente da Raúl Castro, anche quando le vittime sono donne». Accuse durissime per una che adesso ha assunto il pesante ruolo di difensore dei deboli. Quando morì Fidel Castro ricorda ancora Un Watch - la Bachelet lo definì «un leader per la dignità e la giustizia sociale a Cuba e in America Latina». Lodi espresse anche per Chavez per «il suo più profondo amore per il suo popolo e le sfide della nostra regione per sradicare la povertà e generare una vita migliore per tutti». E ancora, nel rapporto dell'Ong, viene citato poi il rifiuto di condannare il regime di Maduro insistendo invece «sul fatto che il problema del Venezuela sia la mancanza di dialogo, suggerendo che esiste una sorta di responsabilità condivisa». C'è infine il silenzio assordante sulle uccisioni di centinaia di manifestanti da parte del regime di Ortega in Nicaragua. Su come l'Italia invece tratterebbe migranti e rom, la «nuova Boldrini» invece forse straparla.

La cricca rossa ai vertici Onu ha dichiarato guerra all'Italia. Il nostro Paese è obiettivo prediletto per i talebani dell'accoglienza che ormai controllano le Nazioni unite, scrive Fausto Biloslavo, Mercoledì 12/09/2018 su "Il Giornale". Ai vertici dell'Onu si annida una «cricca» pro Ong di talebani dell'accoglienza con idee di sinistra, talvolta estreme, vicina a papa Bergoglio. La sparata dell'Alto commissario per i diritti umani, Michelle Bachelet, di inviare ispettori in Italia a caccia di razzisti è solo l'ultima mossa di una strategia ben precisa e anti italiana. Una serie di attacchi pro migranti iniziati con la nomina a segretario generale dell'Onu dell'ex premier socialista portoghese, Antonio Guterres. Lo scorso anno, a margine della giornata mondiale del rifugiato, Guterres ha fatto capire che secondo lui l'Italia non rispetta le norme internazionali sui rifugiati nell'accordo sulla Libia per tamponare il flusso di migranti. Il governo era quello di centrosinistra ed il ministro dell'Interno, Marco Minniti, che stava preparando il famoso codice di condotta per le Ong. Guterres, molto vicino a papa Francesco, soprattutto sull'immigrazione, punta ad azzerare la differenza fra rifugiati, che hanno diritto all'asilo e migranti economici, che dovrebbero essere rimandati a casa. Il segretario generale dell'Onu è sulla stessa linea delle Ong. Non c'è da stupirsi tenendo conto che Guterres ha ricoperto per dieci anni la carica di Alto commissario dell'agenzia dell'Onu per i rifugiati (Unhcr) ingigantita a dismisura sotto il suo mandato. Più o meno nello stesso periodo, dal 1998 al 2012, la portavoce dell'Unhcr in Italia era Laura Boldrini. Quando Guterres ha conquistato il vertice dell'Onu la pasionaria pro migranti era presidente della Camera. E ha commentato così la nomina: «Sono dunque più che felice del fatto che sia stato scelto. Avendo lavorato con lui, sono certa che farà molto bene». Gli attacchi della cricca dell'Onu all'Italia sul fronte dei migranti sono iniziati lo scorso anno, con la tacita approvazione del segretario generale, per bocca del predecessore di Bachelet. Il principino giordano Zeid bin Raad Al Hussein sparava a zero sull'Europa accusando la Ue di puntare al «blocco della rotta (dei migranti, nda) verso l'Europa» dalla Libia, come se fosse un reato e non una legittima decisione. Al Hussein accusava «in particolare l'Italia che appoggia la Guardia costiera libica, che ha sparato alla nave di una Ong con il risultato che le Organizzazioni umanitarie operano a maggiore distanza in alto mare». L'Alto commissario dell'Onu sposava la linea oltranzista di Medici senza frontiere facendo da stampella alle loro accuse e alla richiesta di aprire le porte a tutti. In contemporanea a casa nostra il portavoce del Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia, Andrea Iacomini, bollava sull'account twitter dell'Unicef come «idiota» e «fascista» chi si è schierato contro la legge sullo Ius soli. L'ex addetto stampa di un assessorato della seconda giunta capitolina del sindaco Walter Veltroni ha fatto politica per 20 anni diventando segretario giovanile del Partito popolare. Candidato per l'Ulivo, in quota Margherita, nelle elezioni comunali di Roma del 2006 non è stato eletto per un soffio. Sul solco di Laura Boldrini anche Iacomini vede come un incubo la linea di fermezza di Matteo Salvini sull'immigrazione. All'inizio di luglio in un'intervista al Mattino di Napoli ha svelato il piano di battaglia: «Adesso serve una grande alleanza che unisca Ong, mondo cattolico, società civile, per proporre a questo governo idee e progetti costruttivi». Bachelet, la nuova responsabile dei diritti umani per l'Onu, è socialista come il segretario generale Guterres. E anche più estremista per la sua benevolenza nei confronti di regimi comunisti come quello cubano, venezuelano e dell'ex sandinista Daniel Ortega in Nicaragua. L'Italia è un obiettivo prediletto per un Alto commissario del genere, alfiere della «cricca» sinistrorsa, pro Ong e talebana dell'accoglienza che ha in mano l'Onu.

I comunisti, la morale e la prostituzione minorile, scrive Guido Prussia il 19 luglio 2014 su Il Giornale. I comunisti, la morale e la prostituzione minorile. Tutto si può riassumere in un episodio della mia vita. Aereo che va verso Cuba, all’interno una massa di sinistroidi arrapati per l’avvicinarsi dell’arrivo nell’isola dove il sogno comunista si è fatto realtà. Mi domando: Ma come sarà’ questo sogno comunista che si è fatto reale? La risposta arriva il giorno dopo sulla spiaggia. Gli stessi sinistroidi arrapati che erano con me sull’aereo avevano finalmente una faccia meno arrapata e più soddisfatta. Ed era vero, il sogno comunista diventato realtà aveva permesso a questi militanti di poter finalmente scopare delle meravigliose ragazzine cubane in cambio di pochi dollari. Fu una rivelazione. Non è vero che il comunismo non è servito a nulla. Milioni di uomini vivono ancora oggi, non nella nostalgia dei discorsi di Berlinguer, ma nella nostalgia dell’impero Comunista che anziché moltiplicare pane e pesci (miracolo troppo populista) ha trasformato milioni di calze di nylon in milioni di trombate.

"Fieri di essere radical chic": contro il razzismo, un italiano inventa le magliette per "buonisti". C'è quella con falce e martello o quella con scritto "zekka comunista". L'ideatore: "Mi hanno anche minacciato. Ma c'è bisogno di un simbolo per identificarci, per capire che non siamo soli a contrastare l'odio". In meno di un mese boom di richieste, scrive Valentina Ruggiu il 3 agosto 2018 su "La Repubblica". È l'insulto del momento. Basta una parola buona sui migranti o contro gli 'anti-casta' e te lo trovi affibbiato: radical chic. Ora per chi è 'buonista' e ne va fiero, c'è una linea di magliette dedicata creata da un italiano emigrato in Germania. Il nome, nemmeno a dirlo, è Radical Chic e l'obiettivo dichiarato è riunire tutti "comunisti con il rolex" d'Italia per aiutarli a contrastare odio, razzismo e intolleranza. Per chi pensasse che non è altro che una scusa per guadagnarci sopra: la risposta è no. Tutti gli introiti vanno in beneficenza.

L'ORIGINE DELL'IDEA. L'idea, provocatoria e geniale allo stesso tempo, è di Umberto Mastropietro: un abruzzese di Civitella Roveto arrivato nel 1990 a Potsdam, dove da 20 anni lavora come amministratore delegato per una società di software. Lo spunto è partito dai social network. "Anche se vivo fuori da anni - spiega Mastropietro a Repubblica - mi tengo aggiornato sulla politica e le vicende del mio paese. In pochi mesi ho visto la bacheca Facebook riempirsi di commenti razzisti, intolleranti, e la cosa mi ha disgustato". "Ciò che mi ha sconvolto di più è stata l'incomunicabilità: quando vedevo un post intollerante e cercavo di spiegare che gli italiani per primi sono stati un popolo di migranti, vittime di razzismo e xenofobia, ho sempre ricevuto risposte sconnesse, senza contenuto. Il dialogo è impossibile perché ti liquidano con un insulto". "Ti chiamano radical chic, buonista, zecca comunista - continua l'ideatore -. Una volta mi hanno detto: vivi in Germania, guadagni un sacco di soldi, ti piace fare il radical chic mentre noi siamo costretti a stare in Italia con i negri. Non sanno che ho iniziato come operaio e ho imparato a programmare dalla sera, da solo".

DAL GIOCO AL BOOM. Dopo questi episodi, il giovane Ad e un suo amico decidono di stamparsi - per gioco - una maglia con scritto "radical chic". Da quel momento inizia l'ascesa: i loro amici le vedono e le vogliono, in poco tempo il giro delle richieste si allarga e il 14 luglio Mastropietro decide di fondare il marchio. In meno di un mese le magliette vendute raggiungono quota 600. È boom di richieste, con centinaia di migliaia di visualizzazione sul sito internet. A lavorarci sono 20 volontari, ognuno dei quali mette al servizio della causa la propria professionalità.

NESSUN RICAVO. Da veri buonisti dietro la vendita però non c'è alcun guadagno. "Su ogni articolo venduto la ditta che le stampa si tiene l'80% del ricavato (per le spese di intermediazione, produzione e distribuzione della maglia ndr), e cede all’ideatore il restante 20 - spiega Mastropietro -. Quei soldi io li dono direttamente a Emergency, perché il mio obiettivo è far indossare le maglie, non fare profitto". Non a caso ogni attività del marchio è rendicontata e messa a disposizione di tutti sulla pagina Facebook. Su 12mila euro di articoli venduti, 3mila sono quelli che Umberto ha già destinato all'associazione.

IL VERO OBIETTIVO. Lo scopo rincorso con Radical chic è quello di creare un marchio identitario. "Provo a mettermi contro la violenza verbale, stampando delle magliette. Credo che la demagogia, il populismo, questa forma di comunicazione aggressiva che oggi vediamo sui social e nella politica non sia utile a nessuno. Voglio dar coraggio a quei pochi che ancora difendono i valori su cui è stata fondata la Repubblica, perché ora quasi ci si vergogna a dichiararsi antifascisti". "Secondo me, invece, gli italiani che non vogliono avere nulla a che fare con il fascismo, con il razzismo, sono la maggioranza. Se indossiamo una maglietta ci riconosciamo. Uniti ci sentiamo più forti". Per la sua idea Umberto è stato anche minacciato e insultato. "Mi hanno detto che merito che i rom mi rubino in casa o violentino mia moglie, che se mi incontrano per strada mi ammazzano di botte". Ma lui legge e va avanti per la sua strada.

Bacheca Cgil in frantumi. La sinistra: Raid fascista. Ma era solo una pallonata. Dure polemiche a Chiaravalle (Ancona) per una bacheca della Cgil trovata in frantumi. Si urla al "fascismo", ma era colpa di una semplice pallonata, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 05/09/2018, su "Il Giornale". Allarme è tornato il fascismo. A forma di pallone. Son tempi difficili questi per chi vede il ritorno del Ventennio ovunque. Pure in un vetro in frantumi. Chiaravalle, piccolo centro in provincia di Ancona. La bacheca della Cgil con dentro il manifesto della campagna “Mai più fascismi” viene ritrovata in frantumi e subito scatta l’indignazione della sinistra con la conseguente bagarre politica. Prese di posizioni e comunicati, scrive Ancona Today, sul “gesto sicuramente voluto – ha detto Rifondazione Comunista - visto che nessun’altra delle bacheche vicine ha subito alcun danno". Per il Circolo del PRC di Chiaravalle non si tratta di "ragazzate, ma covano invece il germe dell’intolleranza madre di ogni fascismo. Essi sono infatti alimentati dalla propaganda razzista sui social, sostenuti da goliardie sportive, fomentati da distorte narrazioni sulla Resistenza". Peccato che a quanto pare a rompere quella bacheca non siano state le squadracce nere né una banda di fascisti dediti a raid notturni. Ma solo un tiro maldestro di un bimbo che invece di insaccare in rete il suo pallone ha colpito altro. Un tempo qualcuno avrebbe detto “mo’ vo buco sto pallone”, ricordando la nota pubblicità, e invece si è preferito urlare all’incursione fascista. Alla fine però è stata la stessa Cgil a frenare le polemiche e il sindaco Damiano Costantini ha smentito le “futili polemiche” sollevate da dall'ex vicesindaco Antonio Moscatelli, dall'Anpi e da Rifondazione Comunista. “La fretta, soprattutto nel giudizio (oltre che nel calciare palloni) - ha detto il primo cittadino, come riporta Ancona Today - è cattiva consigliera. L’urgenza di denunciare serpeggianti e violenti fascismi ha fatto dimenticare agli autori che i fatti vanno prima verificati e poi commentati”. Alla fine il papà del bimbo pagherà la riparazione del danno causato dalla pallonata “fascista”.

Repubblica non sa più come indignarsi: ecco il “cane razzista”, scrive il 7 luglio 2018 Chiara Soldani su "Ilprimatonazionale.it. “Il cane è il miglior amico dell’uomo”, recita un detto popolare. Miglior amico, sì: ma non di tutti. È il caso di Speed, Jack Russell diventato un fenomeno a-social (perché socievolissimo non sempre lo è) proprio nelle ultime ore. Certo è scabroso parlare di un “cane razzista” nei tempi iper maturi del politicamente corretto. Ma questo, il nostro Speed non può saperlo: sulla spiaggia di Alassio, ringhia deciso contro neri ed extracomunitari. No: non è il cane di Salvini (come insinuerebbero i buonisti malpensanti) ma l’amico a quattro zampe di uno dei gestori dell’Hotel Milano. “Un cagnolino che abbaiava contro un ragazzo di colore sulla spiaggia di Alassio, alcuni bagnanti che ridono e applaudono e lo incitano, io che non credo ai miei occhi e li invito a fermarsi. Loro sghignazzano e una signora mi offende pesantemente con i soliti riferimenti sessuali a me e ai migranti”: così racconta, in un post su Facebook, una testimone delle “razziste, canine illazioni”. Sta di fatto che il “terribile Speed” ha raccolto il plauso di moltissimi turisti e bagnanti: cave canem! “Si, è vero che lui riconosce i negri dall’odore e gli ringhia, ma non ha mai azzannato nessuno. Ovviamente l’hotel accoglie anche clienti di colore. Razzista? Ma come fa un cane a essere razzista? Io? Macchè, è solo che quando vengono i marocchini a vendere Speed li riconosce subito e li manda va”, afferma la proprietaria. Comprensibile indignazione e moral denuncia de “La Repubblica” e affini. In tempi di razzismo più presunto che effettivo, la vicenda del cane di Alassio restituisce il fedele ritratto dello status quo. Parafrasando Pasolini “c’è razzismo in assenza di razzismo”, di quel “nemico immaginario”, chiamato Russell. Il solito, aulico “giornalismo (canino) d’inchiesta”.

Vittorio Feltri, come smonta le balle di Giannini: "I fighetti di sinistra odiano il popolo. Libero invece...", scrive l'11 Settembre 2018 Libero Quotidiano". Ci mancava l'Onu per farci venire l'orchite. Accusa gli italiani di essere razzisti quando nel nostro Paese non si sono registrati, se non raramente, episodi di violenza contro extracomunitari. Semmai è accaduto spesso il contrario. Ieri in televisione, ospite dell'Aria che tira, egregiamente condotta da Myrta Merlino, ho fatto notare che se fossimo xenofobi avremmo preso a calci nel sedere anche i cinesi, copiosamente presenti dalle nostre parti, e invece essi vivono tranquilli perché lavoratori indefessi, campano con risorse proprie e non si fanno mantenere dallo Stato. Nessuno nello studio de La 7 ha osato contraddirmi. Tuttavia Massimo Giannini, editorialista della Repubblica, appresa la notizia che Libero è il giornale che negli ultimi due mesi ha guadagnato il 16 per cento delle copie, più degli altri quotidiani che viceversa ne perdono assai, ha interpretato il fenomeno dicendo che questo foglio sale poiché sale in proporzione all' intolleranza verso gli stranieri. Palle di fra' Gioele. La carta stampata, come i programmi tv, fanno incetta di pubblico per un solo motivo: intercettano gli umori e i sentimenti del popolo, che a me non fa schifo mentre i fighetti di sinistra dicono di amare quel popolo, però detestano la popolazione. La quale ama i cinesi in quanto sgobboni e non pesano sulle sue tasche, ma non sopporta la folla di africani che bighellonano per le vie delle città senza sapere che fare e costretti a bivaccare come barboni. Tutto qua. L' Onu se ne infischia dei terroristi che mietono vittime in Europa e poi scoccia noi per un razzismo inesistente. Le Nazioni Unite costituiscono un ente inutile e inutili sono i suoi proclami. I tromboni che li incarnano, personaggi abietti, tacciano. E possibilmente spariscano. Quanto ai quotidiani che, anziché sprofondare, emergono serve dire che il loro successo è da attribuire al fatto che ascoltano la base, offrendole non soltanto articoli politici scontati, bensì pezzi di società e di costume. Il resto è chiacchiera salottiera e insensata. Approfitto della circostanza per ringraziare i nostri cari lettori che ci dimostrano stima e affezione. Senza di loro non saremmo niente. Quanto Giannini. 

Vittorio Feltri a L'aria che tira, lezione a Massimo Giannini che straparla di razzismo: "I nullafacenti...", scrive il 10 Settembre 2018 su "Libero Quotidiano". Tra gli ospiti della prima puntata della nuova stagione de L'aria che tira di Myrta Merlino su La7 c'era Vittorio Feltri, il direttore di Libero. In diretta, è piovuta la notizia: l'Onu invia degli ispettori in Italia per fronteggiare l'inesistente emergenza-razzismo. Dunque viene chiesto un parere al direttore, che risponde in modo tranchant: "L'Onu è un ente inutile, ciò che dice dunque è pure inutile". Dunque, in studio si parlava dell'aumento delle copie vendute di Libero (+10% a giugno, +6% a luglio). Tra gli ospiti anche Massimo Giannini di Repubblica, il quale non ha trovato nulla di meglio da dire che attribuire la crescita delle copie "alla narrazione xenofoba e per certi versi razzista" che dominerebbe in questi giorni l'Italia. Discreta faccia tosta, quella di Giannini, che scrive per quella Repubblica che in quanto a "narrazione", descrivendo un'Italia razzista e fascistoide, sta sfornando il peggio di sé. E in un successivo intervento, Feltri risponde a Giannini, tra le righe ma in modo molto netto: "Vorrei far notare che in Italia c'è una massiccia comunità di cinesi, non è mai stato registrato un episodio di razzismo o di intolleranza. Ci sarà un motivo - ha sottolineato il direttore -: vengono qua, lavorano come matti, non si fanno mantenere". Al contrario, prosegue Feltri, "quando l'Italia si riempie di nullafacenti che gironzolano senza far nulla si creano tensioni e si spaccia per razzismo quella che è una semplice ma evidente rottura di scatole".

Stasera Italia, Barbara Palombelli stende Pierluigi Bersani sugli immigrati: "Non è che la sinistra...?", scrive l'11 Settembre 2018 Libero Quotidiano". "Non sarà che vi siete dimenticati degli ultimi voi?". Barbara Palombelli, in diretta ieri con Stasera Italia, gela il suo ospite Pierluigi Bersani, in studio. La Palombelli si riferisce alla sinistra, al Pd, o quello che era prima. Il tema è la sicurezza nelle città in rapporto all'immigrazione clandestina. Prima della domanda, un servizio ha mostrato che a cinquanta metri dalla stazione della Capitale c'è un traffico di persone, di esseri viventi. Guardate questo video al minuto 12 e gongolate. "Ma io non sono mai stato un buonista", risponde Bersani, "non è vero che me ne sono dimenticato, qui c'è un fenomeno colossale". 

La (cruda) verità di Lucci "Un ghanese non ha gli stessi diritti di un italiano". L'ex Iena striglia la sinistra sull'immigrazione: "I tanti reietti che abbiamo in Occidente e che guardavano alla sinistra non si sono sentiti protetti", scrive Claudio Cartaldo, Martedì 11/09/2018, su "Il Giornale". Enrico Lucci le cose non le manda mica a dire. E la sua analisi sul fenomeno immigrazione, sul crescente consenso per la linea dura sui migranti e sulle decisioni del governo è una lucida stilettata diretta a tutta la sinistra. “Una persona che arriva dal Ghana – dice l’ex Iena in una intervista a Vanity Fair - non ha gli stessi diritti di un italiano che aspetta da 15 anni una casa popolare. Bisognava avere le palle di spiegarlo e di spiegarlo bene”. Ma la sinistra tutta non l’ha fatto. Per Lucci è in vista una nuova avventura in tv con il nuovo programma “Realiti Sciò”. Ma il fulcro della sua intervista è proprio sull’immigrazione. E su quello che non ha fatto la sinistra, che non ha capito come “l’arrivo di migliaia di disperati avrebbe dato il via a una guerra tra poveri. I tanti reietti che abbiamo in Occidente e che guardavano alla sinistra non si sono sentiti protetti”. Quei “reietti” sono i cittadini che abitano alle periferie delle città italiane e che più di altri vivono i disagi dell’emergenza immigrazione. “Ed è fatale che sentendosi indifesi dalle loro periferie – dice Lucci – si siano rivolti a chi dice (e magari afferma soltanto senza muovere un dito) di volerli difendere. La sinistra degli studiosi e dei capalbiesi non ha capito nulla di quel che stava accadendo”. Colpito e affondato. “Se non sei credibile – continua - e ti ripari dietro a un buonismo da quattro soldi è ovvio che arrivi poi uno come Salvini, dica sistemo tutto io e vinca in cinque secondi”. Secondo Lucci “la migrazione nel mare andava interrotta perché è illegale e criminale”. Certo, il conduttore e ex Iena non lo dice da posizioni leghiste. Non sembra chiudere le porte allo straniero. "Gli uomini che viaggiano sono senz’altro nostri fratelli – spiega - perché i razzisti e gli xenofobi ci ripugnano, ma non è quello il modo di venire in Europa”. Il motivo? Semplice: arrivare su un barcone è “pericoloso”. “Non si arriva sui barconi perché è pericoloso e il Mediterraneo è pieno di morti innocenti”. E ancora: “La sinistra non ha avuto il coraggio di ribadire cose ovvie e neanche i coglioni di mandare le navi militari in Siria a salvare chi stava scappando da guerre vere e torture”.

Ramazzotti: "Ho votato 5Stelle e lo rifarei. Salvini smaschera l'ipocrisia generale". Il cantautore romano in una intervista a Vanity Fair si racconta tra musica e politica. A novembre uscirà il suo quindicesimo album, "Vita ce n'è", scrive Luisa De Montis, Martedì 11/09/2018 su "Il Giornale". "Ho passato qualche anno in cui non sapevo se continuare o fermarmi per sempre. Mi sono chiesto se continuare avesse un senso perché mi sono detto: "Che lo compongo a fare un disco tanto per farlo?". Ci sono tanti artisti che vivono di memoria, non volevo iscrivermi al club". La risposta che Eros Ramazzotti si è dato si chiama "Vita ce n'è", ed è il suo quindicesimo album, che definisce rivoluzionario. "Per realizzarlo ho speso un anno e mezzo della mia vita in studio. È un disco che considero un nuovo inizio", racconta a Vanity Fair, dove torna a parlare a quasi tre anni dalla sua ultima intervista e alla vigilia del lancio (il 23 novembre) cui farà seguito - prima data 17 febbraio 2019, Monaco di Baviera - un tour mondiale. Nell'intervista, tra le altre cose, Eros definisce il suo rapporto con il denaro "pulito" e ricorda il padre comunista che "immaginava un mondo equo in cui a tutti toccasse in sorte un pezzo di pane. Era utopia e lo scoprì sulla sua pelle. La tessera del Pci la presi anche io, ma solo per sei mesi". E poi rivela: "Alle ultime elezioni ho votato 5 Stelle e lo rifarei. Ci vuole tempo per cambiare e migliorare l'Italia: parliamo di decenni, non di un anno o due". Infine, Eros ha spiegato che non avrebbe firmato un appello contro Matteo Salvini che a volte gli appare "duro e pesante" ma non pensa che abbia tutti i torti "in assoluto" e possa vantare almeno un pregio: "Smaschera l'ipocrisia generale".

Il discorso dell'immigrato che ​zittisce i buonisti: "Salvini ha ragione". Un video rilanciato da Matteo Salvini: "Parla più di mille articoli di giornale". L'uomo: "Io qui da 15 anni, ho sempre lavorato. Chi non lavora torni da dove è venuto", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 10/09/2018, su "Il Giornale". Il video sta letteralmente facendo il giro dei social network. E Matteo Salvini già lo considera un “editoriale” che “vale più di mille articoli di giornale alla faccia di Onu e buonisti”. Nelle immagini si vede un uomo di colore chiacchierare con delle persone mentre le aiuta a caricare la spesa sull’auto. E nel farlo parla dell’Italia, dell’accoglienza, dei troppi migranti arrivati sulle coste del Belpaese e dei suoi conterranei che “non fanno nulla” per meritarsi l’ospitalità dell’Italia. “Da quindici anni sono qui e ho sempre lavorato – si sente dire l’uomo vestito con una polo - Lavoro di notte e vengo anche a dare una mano ai clienti volentieri. Però quando vedo gli altri non fare niente...c’hanno ragione. E quando sento dire che gli italiani sono razzisti...non è vero che lo sono. Sono stufo. A parte gli italiani, in qualunque paese farebbero così. Bisogna lavorare, altrimenti non c’è niente da fare: torni a casa da dove sei venuto”. Il discorso è chiaro, netto. Parlando dei tanti immigrati che non fanno nulla nelle piazze italiane, l’uomo afferma: “Io mi vergogno vederli così che sono africani. Non è giusto. Non è assolutamente giusto. Bisogna lavorare e fare come gli altri, rispettare le regole del Paese. Io perché sono qui e la gente mi ama? Perché ho sempre lavorato da 15 anni, ho dato la mia disponibilità a tutti: i dirigenti mi conoscono, chi arriva sa chi sono. Perché il mio lavoro l’ho sempre peso sul serio”. Non è ancora chiaro ove sia stato registrato il video. Ma il suo messaggio è limpido: “Alla sacra famiglia è pieno di ladri nigeriani con telefono di lusso e tutti belli vestiti – dice - e poi a fine mese vanno a chiedere i soldi al comune. Ma io quando vedo le tasse sulla mia busta paga mi girano i coglioni: vai a lavorare e paga pure le tasse”.

Una delle donne che è con lui, forse la stessa che ha ripreso la scena con il cellulare, gli chiede se è vero che gli italiani sono razzisti. In fondo l’Onu oggi ha detto di voler mandare gli ispettori contro una presunta ondata xenofoba. Ma è lo stesso immigrato del video che “zittisce” indirettamente le Nazioni Unite e i buonisti in genere: “Gli italiani non sono razzisti, sono molto accoglienti. Hanno fatto anche di più. Gli immigrati arrivati in Italia negli ultimi anni sono tantissimi. Mi hanno ospitato bene, io mi trovo bene, lavoro in regola, ho una famiglia, ho una casa perché ho sempre lavorato”. E Salvini? La domanda ha una risposta che forse non ci si attenderebbe: “Salvini ha ragione – conclude l’uomo - Non ha tutti i torti e speriamo che vada fine in fondo e nessuno interrompa il bel lavoro che sta facendo. Perché non ho possibilità di incontrarlo, altrimenti lo avrei incontrato. Fai bene il tuo lavoro, che nessuno ti rompe. Vai avanti Salvini”.

Immigrati, quelli della Diciotti a Messina. Il sindaco Cateno De Luca: "Metto a disposizione le baracche", scrive il 27 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". "Mandiamo i baraccati negli alberghi e i migranti nelle baracche. Non sarebbe giusto dopo 110 anni dare un tetto dignitoso ai messinesi?". Lo dice provocatoriamente il sindaco di Messina Cateno De Luca riferendosi ai migranti scesi dalla Diciotti e portati in città. "Nessuno mi ha avvertito dell'arrivo dei migranti all'hotspot di Messina", ha aggiunto, "sindaci sono buoni solo per prendersi denunce ma muti su politiche migratorie".

De Luca come Salvini: basta coi nigeriani. E i compagni saltano sulle sedie, scrive martedì 11 settembre 2018 "Il Secolo D’Italia". Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, nel suo intervento alla Festa dell’Unità, a Ravenna, critica il Pd perché non si rende conto dei problemi di sicurezza creati dai migranti. Concetti che in genere provengono dalla Lega e dal suo leader Matteo Salvini mentre in questo caso è un esponente del Pd a farli propri.  De Luca ha così stupito tutti affermando: “Ci sono zone del Paese dove abbiamo bande di nigeriani che hanno occupato militarmente i territori, sul Litorale Domizio abbiamo nigeriani che si danno allo spaccio di droga e prostituzione. Ci sono padri che aspettano le loro figlie in balcone. Questa realtà il Pd la conosce o no?”. E ancora: “Se devo decidere tra la serenità di vita della mia famiglia e dei miei figli e una bandiera di partito, io scelgo la mia famiglia, è chiaro?”.

Facebook e la lezione di Umberto Eco sui quattro imbecilli, scrive ticinonotizie.it il 26 agosto 2018. “I social media? danno diritto di parola a legioni di imbecilli”, parola di Umberto Eco. Era questa l’opinione del noto studioso mancato agli inizi del 2016. Partiamo da qui per tornare, ancora purtroppo, sulla vicenda di cronaca del povero Souleman mancato l’altro giorno nella sua stanza, presso l’ex Casa Vincenziana di via Casati a Magenta. Per noi e in primis per il nostro capocronista Graziano Masperi, era una ‘semplice’ ancorché tragica, notizia di cronaca da dare. Per due ordini di motivi. Il primo: la giovane età del ragazzo, vent’enne morto improvvisamente nella sua camera. La seconda: il fatto che questi fosse un richiedente asilo ospite da poco più di un anno del Centro di Accoglienza Straordinaria di Magenta, un luogo sensibile, di cui in ossequio alla trasparenza, cerchiamo di raccontare tutto ciò che avviene da quattro anni a questa parte. Espulsioni, disordini, così come le iniziative d’integrazione, quando queste vengono messe in atto. Insomma, una notizia e basta. Poi è arrivato l’odio, la bile. Ma forse, molto più semplicemente, gli imbecilli di Umberto Eco. Benché dubbiosi davanti alla chiusura tranchant dell’illustre professore, gli abbiamo dovuto dar ragione dinanzi ad alcuni sproloqui. Che cosa brutta, molto brutta, sono andati avanti per giorni.  Come abbiamo scritto già in un altro pezzo, la pagina facebook del nostro quotidiano on line si è trasformata in una sorta di arena. Una pattumiera a cielo aperto. Abbiamo deciso di lasciare lì tutto, per qualche giorno, così che ognuno, l’opinione pubblica in primis, potesse farsi un’idea della fauna (per fortuna una minima parte) che popola i social network. Nostro malgrado, la notizia dei quattro imbecilli di Eco è diventata un affare di cronaca nazionale. Milano Today, La Repubblica e poche ore fa anche La 7 si è interessata alla vicenda che ci vede, seppur di riflesso, protagonisti involontari. Non cancelleremo nulla ancora per un po’. Perché abbiamo deciso di dare massima disponibilità ai colleghi che si stanno occupando della questione.  Dopodiché abbiamo convenuto di eliminare da facebook questa monnezza. Non prima però, di aver salvato accuratamente queste “perle” che valuteremo successivamente in quali sedi utilizzare. I primi a saperlo siete voi cari lettori. Ve lo diciamo in segno di massima trasparenza ma più ancora perché siete il nostro patrimonio più importante. Per fortuna, vi conosciamo da tempo, abbiamo imparato ad apprezzarvi come voi (speriamo) continuate ad apprezzare il nostro lavoro quotidiano. Della monnezza poco c’importa. E’ un po’ come quando si schiaccia una m… per strada. Ogni tanto capita. Si dice che porti fortuna e si tira avanti”.

Il populismo di oggi? L’aveva spiegato Umberto Eco, parlando del “fascismo eterno”. La rinuncia al confronto coi problemi reali, il richiamo all’identità, l’apparato ideologico approssimativo. Già Eco, nel suo famoso saggio sul “fascismo eterno” aveva delineato le caratteristiche dei populismi di oggi, scrive Matteo Bianchi il 3 Settembre 2018 su "L'Inkiesta". Sarà stata la noia estiva, oppure il crescendo endemico delle Destre europee a far aumentare le vendite in una città di provincia come Ferrara de Il fascismo eterno (La nave di Teseo)? Con lo sguardo di chi sa accettare il suo tempo senza perdersi e senza vergogna, Umberto Eco apre il pamphlet ricordando la sua infanzia fascista, quando ascoltava con ammirazione i discorsi di Mussolini e in classe doveva impararne a memoria i passi più significativi, magari al posto di una poesia di Leopardi. Un’esperienza di sicuro radicale, ma tutt’altro che inutile, poiché gli ha insegnato a liberarsi dalla retorica. Alternare durante un’orazione i desiderata che fanno gola al vulgus ai risultati ottenuti concretamente sul campo è un passaggio consueto anche nella demagogia spiccia alla quale si assiste in tv; il duce, però, era solito calcare la mano su questioni marginali che proprio nell’immaginario instaurato avevano un peso sostanziale. Se gli italiani degli anni Trenta volevano conquistare a tutti i costi per far grande la nazione nel mondo, sperperando risorse alla faccia della povertà montante, gli italiani di oggi non vogliono essere conquistati da chi fugge dalla povertà, dalla siccità, dalla disperazione di un’Africa allo stremo. Il ministro Salvini spesso fa il verso ai protagonisti di un passato drammatico, non ancora remoto, consapevole tanto della distanza che divide un regime da una democrazia parlamentare, quanto dei parallelismi che permette la fruizione costante del web. Alzare la voce, spararle sempre più grosse e usare l’ironia per dissacrare, come la t-shirt che sbeffeggiava la sconfitta del Pd a Pisa, Siena e Massa con la Bella ciao della Resistenza, o l’aver querelato Saviano in qualità di ministro della Repubblica e non in quanto rappresentante di una minoranza politica che ha “vinto” le elezioni con il 18%, distoglie l’attenzione dall’uso effettivo che fa del potere; senza fermarsi a contare i continui attacchi ai barconi, gli specchietti per le allodole. D’altro canto, uno degli errori comunicativi del Pd di emanazione renziana è stato proprio dare per scontato che le migliorie difficilmente realizzabili non fossero da sbandierare come imminenti; o peggio, che siano state taciute completamente, ha fatto sentire gli italiani in difficoltà in uno stato di abbandono e in balia della crisi. Il ventennio berlusconiano e la to do list del Movimento 5Stelle, al contrario, si somigliano per questo, perché mettono il focus su riforme che il paese nel prossimo biennio non potrebbe sostenere economicamente, così la flat tax o il reddito di cittadinanza. A preoccupare uno degli intellettuali più lucidi e lungimiranti del secondo Novecento sono state le abitudini culturali, unite agli istinti oscuri e alle pulsioni insondabili che hanno permesso al regime fascista e alla sua ideologia di arrivare in vetta. A preoccupare uno degli intellettuali più lucidi e lungimiranti del secondo Novecento sono state le abitudini culturali, unite agli istinti oscuri e alle pulsioni insondabili che hanno permesso al regime fascista e alla sua ideologia di arrivare in vetta. Orientare il protagonista di “Per chi suona la campana” (1940) contro i falangisti di Franco, chiamandoli fascisti, per Hemingway significava reagire a un determinato dispotismo. Eco definisce il Fascismo nostrano un totalitarismo “fuzzy”, ossia confuso e impreciso: a differenza del Nazismo e dello Stalinismo, che avevano un manifesto politico e dei precisi riferimenti filosofici e artistici per dare solidità ai loro fondamenti ideologici, il Fascismo si basava soprattutto sulla capacità retorica del duce e nel corso della sua storia si è più volte contraddetto. Da ateo coerente e militante, Mussolini finì per firmare il concordato con la Chiesa porgendo ai vescovi i gagliardetti fascisti da benedire. Finito il suo leader, come Hitler aveva intuito sin da subito, il partito non avrebbe avuto la possibilità di rigenerarsi. Era folkloristico, era sorto proclamando un nuovo ordine rivoluzionario, pur essendo finanziato dai proprietari terrieri più conservatori. In sostanza, non capitava di rado che Mussolini proclamasse a gran voce una scelta e facesse l’opposto, o meglio, quello che conveniva al mantenimento della sua leadership. Tuttavia, per quanto ideologicamente sgangherato, il Fascismo era emotivamente legato ad alcuni archetipi: il culto della tradizione, ad esempio, che ha motivato persino gli esordi della Lega inneggiando ai Celti che si erano stanziati nella valle del Po prima dei Romani. E qualsiasi esito di tradizionalismo che si rispetti prende comunque il largo dall’attaccamento al “sangue” e alla “terra”, da un senso primordiale di radicamento al territorio. L’humus che ha ingrossato le fila dei fascisti è stata la frustrazione delle classi medie, tanto da far predire a Eco che i vecchi “proletari” diventati piccola borghesia sarebbero stati un uditorio ideale. Ci pensa poi il nazionalismo a fare da collante: l’appartenenza allo stesso paese è l’unico privilegio che accomuni tutti coloro che sono privi di una qualunque identità sociale. Per sentirsi tali, però, bisogna avere dei nemici e fare appello alla xenofobia diventa comodo, instaurando la cosiddetta “ossessione del complotto” rispetto a chi potrebbe sottrarre risorse e lavoro ai cittadini italiani, come i rom e gli immigrati odierni ad esempio, che al contempo minerebbero pure la nostra serenità quotidiana. La vigilia di Ferragosto il ministro Salvini twittava: «Il sindaco di Napoli vuole ospitare (e mantenere) altri immigrati in città. Paga lui? A Napoli non ci sono cittadini in difficoltà, senza casa e senza lavoro? Ah, già, per certa sinistra è più importante pensare agli immigrati che agli italiani…» Al nemico dentro i confini nazionali ne deve corrispondere uno all’esterno, come lo spettro dell’Europa o degli stati che vorrebbero una zona euro più compatta economicamente, come Germania e Francia, della quali va necessariamente disprezzata l’erba troppo verde. Lo scorso 12 agosto sempre Salvini twittava: «Con questo calduccio, uno spuntino a base di spettacolare mozzarella di bufala campana ci sta. Alla faccia dell’Europa che vuole portarci in tavola ogni tipo di schifezza, io magio (e bevo) italiano!» L’humus che ha ingrossato le fila dei fascisti è stata la frustrazione delle classi medie, tanto da far predire a Eco che i vecchi “proletari” diventati piccola borghesia sarebbero stati un uditorio ideale. Dietro gli schermi dei nostri televisori o dei nostri pc, Eco intravedeva già il rafforzamento di un possibile “populismo qualitativo”, per cui «la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la voce del popolo». Quando lo ha argomentato correva il 1997 e Grillo non aveva ancora poggiato il primo pixel del Movimento 5stelle, né Di Maio era stato candidato premier dopo 490preferenze su un sito. Infine Eco sottolinea la questione linguistica, l’esigenza da parte del potere di semplificare la comunicazione, di renderla immediata, essenziale, lapidaria per essere comprensibili a chiunque, ma soprattutto degni di memoria. E gli slogan sono difficili da dimenticare: «Voglio un Paese che va avanti, non che torna indietro», usa Salvini per chiudere più di un post, ma ancora: «Lo Stato deve tornare a fare lo Stato» e il continuo «dalle parole ai fatti». La debolezza culturale del Fascismo prelude a un’altra considerazione, alla mancanza di spirito critico da parte di chi ne ha permesso l’instaurazione, quasi che gli italiani di allora si fossero accontentati di risposte che miravano alle loro pance, per essere saziati lì per lì, senza una reale lungimiranza, senza un leader che pensasse al loro bene futuro. Non solo, che in mezzo alla confusione ideologica si perda di vista una verità condivisibile, una base comune, cosicché ogni pretesto sia buono per giustificare pochi, identificabili con una lobby mafiosa, o addirittura un individuo soltanto e il suo entourage mediatico. Libertà, secondo Italo Calvino, sta nel rispettare le regole all’infuori di noi per non rischiare di nuocere al prossimo. Libertà, secondo Umberto Eco, sta nella pluralità di pensiero, nell’accettare la diversità e nel non imporre la propria visone di realtà sulle altre per paura o poiché la si ritiene via più breve. Il timore con cui ci ha lasciato è che il fascismo possa tornare sotto abiti civili, mascherato sotto da spoglie più innocenti.

Aveva ragione Umberto Eco: i politici in tv sono come Mike Bongiorno. Gioco dell'estate: rileggere la celebre Fenomenologia pensando agli ospiti dei talk show: "Ignoranti, non usano i congiuntivi e rappresentano l’uomo assolutamente medio. Per questo il pubblico li ama", scrive Beatrice Dondi il 30 luglio 2018 su "L'Espresso". Spuntano come i cucù dalle casette di legno, senza preavviso. Dicono, parlano, esternano continuamente, anche in questa coda di stagione che, da tradizione, dovrebbe lasciare a riposo lo spettatore stremato. Invece loro no, i politici in televisione non mollano e tra una reazione a catena e una canzone per l’estate presenziano senza sosta raccontando le loro visioni spicciole, le realtà tagliate con l’accetta e le opinioni di bassa lega (con la minuscola per carità). E il pubblico, a sorpresa, continua a guardarli. Torna utile dunque, vieppiù di questi tempi bigi, rispolverare quel capolavoro tratto dal “Diario Minimo” di Umberto Eco dal titolo “Fenomenologia di Mike Bongiorno”. Uscito nel lontano 1961, il saggio prendeva a sonori schiaffoni gli spettatori dell’Italietta che fu e che torna sempre uguale a se stessa, oggi come ieri. Quello specchio televisivo che affastella crisi e Isole, Uomini e Donne, false verità e comici senza storia, capaci nonostante tutto di attrarre grazie a un’implacabile normale ordinarietà: «La tv offre, come ideale in cui immedesimarsi, l’uomo assolutamente medio», scriveva Eco. Una lettura illuminante, che rende trasparente come una vetrina specchiata per i saldi, quel consenso formato talk altrimenti incomprensibile. Si provi dunque un giochino facile facile ma di sicuro effetto: sostituendo il nome di Mike Bongiorno con un qualsivoglia onorevole o senatore, portavoce, ministro, premier o vicepremier a piacere, seduto in studio, l’effetto fa effetto. «Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi». E ancora: «Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi. Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo». «Mike Bongiorno porta i clichés alle estreme conseguenze». E infine: «Mike Bongiorno non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo». Ogni riferimento a persone o cose è del tutto voluto. E ancora una volta, grazie professor Eco.  

Anche il “comunista” Fassina diventa sovranista. E fonda un nuovo partito, scrive Vittoria Belmonte domenica 9 settembre "Secolo D'Italia". Che il destino di Liberi e Uguali sia quello della lenta estinzione è fuor di dubbio. Non solo il leader Pietro Grasso è scomparso, non solo Laura Boldrini auspica un nuovo soggetto unitario della sinistra ma ora c’è anche una miniscissione. Stefano Fassina, deputato di Leu, ha infatti annunciato sui social la fondazione di una nuova creatura politica, “Patria e Costituzione”, la cui assemblea fondativa si è tenuta a Roma l’8 settembre. “Un’associazione – dice Fassina – di cultura e iniziativa politica, dalla parte del lavoro, per affrontare la domanda di comunità, di protezione sociale e culturale, per rideclinare il nesso tra sovranità, democratica nazionale e Ue, per definire strumenti adeguati per lo Stato per intervenire nell’economia”. Da sempre critico verso la globalizzazione e il mercatismo che rappresentano gli idoli dell’Unione europea, Fassina – da sinistra – riscopre la patria e i diritti del popolo sovrano. Un’imitazione del percorso seguito dalla destra di Salvini nel rifondare la Lega e nel dare nuovo slancio al centrodestra. Fassina ha anche ammesso, nel suo discorso dedicato alla nuova associazione politica, che solo la destra ha capito il bisogno di protezione, comunità, identità che si genera attraverso l’evocazione di un nuovo «patriottismo costituzionale». 

No, in Svezia non è tutto come prima. E chi finge di ignorarlo sbaglia, scrive il 10 settembre 2018 Cristiano Puglisi su "Il Giornale". No, in Svezia, nonostante quanto affermato dal sistema mediatico mainstream, non hanno vinto i partiti tradizionali. È vero, le elezioni hanno visto ancora una volta al primo posto, con oltre il 28% delle preferenze, i socialdemocratici, come accade ininterrottamente dal 1917. Eppure questa volta sarà difficile per loro mettere insieme un Governo, dato che la coalizione di centrosinistra (che include anche la sinistra e i verdi) conta 144 seggi, contro i 143 della coalizione di centrodestra, costituita da moderati, liberali e cristiano-democratici. Insomma, nessuno ha una maggioranza. Forse determinanti saranno i seggi assegnati al partito nazionalista dei Democratici Svedesi, che con quasi il 18% delle preferenze incrementa notevolmente il bottino rispetto alla tornata precedente (oltre cinque punti percentuali) e che, pur non avendo vinto, ha fatto segnare un risultato più che significativo. Significativo perché, a prescindere da qualsiasi assurda valutazione tesa a sminuire il risultato finale della destra nazionalista, segnala che, anche nel Paese simbolo della socialdemocrazia nordica, della tolleranza, delle pubblicità politically correct di Ikea, l’immissione massiccia di immigrati degli ultimi anni (la Svezia è il Paese europeo che, in percentuale rispetto al numero di abitanti, ha accolto il maggior numero di richiedenti asilo) è stata rigettata dalla popolazione. Diversi sono i fattori da considerare per questa reazione. Non secondario è quello socio-economico. Sebbene in maniera magari inferiore rispetto ad altri stati del vecchio continente, grazie probabilmente al proverbiale ed efficiente welfare state, anche la Svezia ha sentito gli effetti della crisi economica globale. E così, mentre il PIL pro capite svedese non ha più raggiunto, dopo il grande crack della finanza del 2008, i livelli del periodo 2001-2008, e il PIL nominale è in costante calo dal 2014, la popolazione continua ad aumentare. Il motivo ce lo spiega la fondazione di studi europei GEFIRA: la continua immissione di migranti con alto tasso di fertilità. Secondo uno studio da loro condotto, infatti, l’alta fertilità delle donne svedesi (2,1 figli a testa, sopra il tasso minimo di sostituzione di due figli a coppia) sarebbe principalmente da imputare a donne nate all’estero. Le donne nate in Svezia, secondo un dato ufficiale, avrebbero infatti un tasso di soli 1,6 figli a testa, il risultato di 2,1 sarebbe dunque una media.

SOSTITUZIONE ETNICA IN CORSO. Si tratta, praticamente, di un processo di sostituzione etnica. Processo che ha subito un’impennata negli ultimi anni, con l’esplosione delle crisi migratorie. Se nel 2010, il 14,3% della popolazione svedese era di origine straniera, nel 2017, solo sette anni dopo, il dato è pari al 24,1%!

L’AUMENTO DEGLI STUPRI NON È CASUALE. I risultati di questo processo, ovviamente, si sono fatti sentire anche sul versante della sicurezza. Secondo dati del Consiglio Nazionale per la Prevenzione del Crimine, nel 2017 si sono avuti 7.230 casi di stupri, 667 in più dell’anno precedente pari ad un aumento del 10%. Chi sono questi stupratori? Secondo uno studio realizzato a ottobre 2017 dal ricercatore indipendente Patrik Jonasson, su 4.142 processi giudiziari relativi ad aggressioni sessuali nell’arco temporale che va dal 2012 al 2017 i dati parlano in maniera chiara: il 95,6% degli autori di stupri ha origini straniere (prevalentemente Medio Oriente e Africa) così come nel 90% delle violenze di gruppo. Insomma, che piaccia o meno al mainstream, i numeri dicono chiaramente che la scelta di importare un numero massiccio di immigrati in un breve lasso di tempo per “pagare le pensioni” non è sostenibile e ha un impatto devastante sulla coesione sociale di un Paese, per quanto questo possa essere all’avanguardia in termini di servizi sociali e qualità della vita. Figurarsi in quelli, come Spagna, Grecia o Italia, dove la situazione socio-economica ha subito un netto peggioramento negli anni della crisi.

L’EUROPA CHE SI GIRA DALL’ALTRA PARTE NON HA FUTURO. È chiaro, come già detto da queste colonne, che i partiti tradizionali dell’agone politico comunitario e anche il sistema mediatico loro connesso dovranno, in vista delle prossime consultazioni europee, dunque tenere conto di questo dato, piuttosto che liquidare come “populismo” o “razzismo”, qualsiasi istanza che chieda una rigida regolamentazione dei flussi migratori. In gioco, con l’emergere di movimenti nazionalisti, c’è la sopravvivenza del progetto geopolitico europeo, già vittima di notevoli squilibri economici. Continuare a non capire la situazione significherebbe consegnarlo definitivamente alla storia.

Non abbiate paura dei sovranisti, scrive Marcello Veneziani, Il Tempo 11 settembre 2018. Anche in Svezia l’onda sovranista cresce, ma non abbastanza da rovesciare gli assetti di governo. Si ripete lo schema Le Pen, col Front National primo nei consensi ma non in grado di essere maggioranza né in grado di trovare alleati. E a quel punto scatta la coalizione antisovranista, tutti contro uno, e nascono governi stentati su fragili alleanze (come in Germania o in Spagna), con presidenti indesiderati dai due terzi della popolazione (Francia) o coalizioni spurie come da noi. O nascono perfino due, tre partiti “nazionali” che si cannibalizzano a vicenda (caso inglese coi conservatori biforcati più l’Ukip). Il vero problema è che siamo nel mezzo del guado, e dunque la situazione rischia la paralisi tra il non ancora e il non più. Perché poi i governi europeisti tra moderati e progressisti uniscono due debolezze e due declini, trascinano i paesi in coalizioni politiche di mera sopravvivenza, dentro sistemi fatiscenti, subordinati ai potentati economici, lontani dal popolo, dentro un’Europa ridotta a unione monetaria nel nome degli apparati di comando. Ma torniamo alla rappresentazione e alla percezione che ne ha la gente, ne danno i media, ne dà il potere. L’Europa di oggi è fondata sulla paura. Paura dello straniero per taluni, paura dei nazionalisti per talatri. Xenofobia e nazionefobia sono le due categorie politiche dominanti, le twin towers dell’Europa. Ma con la paura non si compiono scelte assennate. Fino a ieri nominavi la Svezia, l’Olanda, i paesi scandinavi e i paesi bassi, e spuntavano le immagini del socialismo democratico, della società aperta, permissiva, globale e spregiudicata, della droga libera, dell’eutanasia, delle coppie omosessuali esibite e parificate alle famiglie. Adesso nomini quei paesi e senti dire xenofobia, razzismo, nazionalismo. Fino a oggi appena nomini l’estrema destra ti viene fuori la solita genealogia: l’Austria reazionaria, asburgica e patria di Hitler, la Germania del Terzo Reich, la Francia di Vichy. Più l’aggravante cattolico-tradizionalista. E ora come la mettiamo che pure la permissiva, la protestante, la mai fascista Svezia, si rivolge a quella destra, dopo la Norvegia, l’Olanda e altri paesi nordeuropei? E come la mettiamo con paesi che hanno subito il nazismo e soprattutto il comunismo e ora si votano al sovranismo, come l’Ungheria, la Polonia, i cechi e gli slovacchi, cioè i paesi di Visegrad? Lasciamo stare i demoni fuori dalla porta, e lasciamo stare le paure. Ragioniamo con realismo. Sgomberiamo subito il campo da un’ossessione. L’antisemitismo e il razzismo non c’entrano con questa ondata populista, sovranista e nazionalista. Se conati antiebraici affiorano in Europa sono legati alla presenza islamica o alla questione palestinese; il resto è marginale periferia, patetico folclore, fuori dalla politica. C’è un tasso preoccupante di xenofobia in Europa? Ma non bisogna ridurla a patologia. Anche perché è paura, non odio razziale; è preoccupazione, non disprezzo etnico. C’è paura, umanissima e giustificatissima paura per l’ignoto e per l’estraneo, per la difficile convivenza, per il disagio sociale, per la criminalità legata a tutti questi fattori di instabilità. Quando la paura colpisce in modo così massiccio popoli maturi e civili non si può gridare al demonio, bisogna porsi il problema e affrontarlo fuori dai codici ideologici. La xenofobia attraversa oggi ceti sociali diversi, a cominciare dai più deboli e dai più popolari, e colpisce a destra come a sinistra. Vedete i travasi di voti in tutta Europa, compreso da noi, dalla sinistra al populismo, per rendervene conto. Allora rispetto allo straniero si devono portare a rigore due posizioni divergenti ma entrambi giustificate e rispettabili: quella di chi dice accoglienza punto e basta, viva la società multiculturale; e quella di chi dice accoglienza limitata e condizionata, e tutela prioritaria della comunità locale e nazionale e dei suoi confini. Sono due posizioni nettamente opposte, entrambi comprensibili e legittime se condotte con realismo e senza fanatismo. Se si accolgono nell’agone politico della democrazia entrambe le posizioni si spuntano le armi agli estremismi, ai fondamentalismi, alle violenze. Perché i fanatici stanno da entrambi le parti, e bisogna costringere entrambe a fare i conti con la realtà. I sovranisti crescono perché non hanno cittadinanza nella democrazia; e usano linguaggi duri e netti perché non sono ammessi nel gioco democratico. Finora la loro risorsa è proprio l’essere fuori, outsider, estranei e dunque critici radicali del sistema, a cominciare dal gergo usato. Non resta che scommettere a immetterla nel gioco, a pieno titolo, senza dichiararla criminale e illegale appena cresce (caso italiano docet): è una scelta che comporta rischi e incognite, ma complessivamente minori della scelta opposta, di escluderla e lasciarla inselvatichire, creando abissi tra popoli e istituzioni. Sarebbe un rischio anche per loro, perché si giocherebbero il loro ruolo di antagonisti anti-sistema. Larga parte di questi movimenti sovranisti non sono contro l’Europa ma contro l’Eurocrazia, ovvero contro le oligarchie finanziarie, tecnocratiche o ideologiche che decidono i destini dell’Europa a prescindere dai popoli e dalla loro realtà concreta. Sono movimenti fondati sull’importanza decisiva del confine e sulla priorità delle popolazioni autoctone e degli stati nazionali rispetto al mondo esterno. Uscendo dal demagogico populismo antisistema, queste forze sarebbero costrette a rendere ragionevole, realista e compatibile la loro posizione: e questo si può convertire in un rafforzamento della base democratica e popolare dell’Europa al suo interno e di una maggiore incisività strategica e politica all’esterno. Anzi, queste spinte, opportunamente metabolizzate, possono alimentare un patriottismo europeo, o un patriottismo dei cerchi concentrici, che va dalla piccola patria alla nazione fino alla patria europea. Questi movimenti invocano, seppure a volte con rozzezza e demagogia, il ritorno della politica e delle passioni comunitarie, il ritorno ai popoli e alle loro sovranità, la salvaguardia della civiltà e della continuità con la storia. Non mi sembra una cosa terribile, o negativa. Dicono che queste forze rappresentino una minaccia per la democrazia e per la libertà. Ma oggi la democrazia come sovranità popolare è minacciata più da chi vuole invalidare i verdetti elettorali piuttosto che da chi vuole rispettarli. Quanto alla libertà vorrei ricordare che molti di questi partiti sovranisti sono di estrazione liberale, si presentano come partiti democratici del progresso, dell’occidente, della modernità contro le invasioni islamiche, l’africanizzazione dei popoli. Il leader della destra olandese, l’omosessuale Pim Fortuyn, aveva scritto un saggio, L’influenza islamica sulla nostra cultura, in cui sosteneva l’incompatibilità tra l’Islam e la civiltà liberale d’Occidente. Posizione alla Oriana Fallaci, per intenderci. Fortuyn non si appellava alla difesa della tradizione europea o peggio al razzismo, ma al fatto che l’islamismo mette in pericolo la modernità liberale e democratica, la tolleranza e i costumi europei. Si può concordare o no con questa tesi (a me per esempio non piace), ma si deve riconoscere che si tratta di una posizione ultramoderna, liberale, occidentalista e perfino progressista. Che trova oggi molti seguaci nel nord Europa. Tesi non dissimili affiorano in difesa di Israele, rispetto al mondo arabo che lo circonda. Insomma, smettiamola di ingabbiare la mente e sprigionare le paure; proviamo a fare il contrario. Il futuro riserva sorprese e non è detto che siano amare. E tra le sorprese, la meno probabile mi sembra il ritorno al nazismo, al razzismo, al fascismo, e archeologia varia. Esortate ogni giorno a non innalzare muri; provate anche voi a non erigere muri dentro casa, contro l’onda sovranista. MV, Il Tempo 11 settembre 2018

RAZZISTA (D)A CHI? La guerra del linguaggio rovesciato di chi ha perso potere, ragione e analisi. Cosa c’è dietro la mitopoiesi dei migranti, scrive Fulvio Grimaldi su Antidiplomatico del 03/08/2018. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Scusate la citazione d’esordio, bassamente sovranista, al limite del nazionalismo, certamente populista, con impliciti accenti di razzismo.

Parola d’ordine: daje al razzista! Va bene, mettiamo le mani avanti, prima che mi si rovesci addosso una parte dello tsunami di livore-rancore-odio-fake news con cui la componente criminale dell’attuale classe dirigente occidentale e il mercenariato dei suoi portantini politici e mediatici cretinopportunisti (in Italia tutta e tutti, escluso qualcuno che oggi sta al governo e chi l’ha votato) sta cercando di esorcizzare quanto capitatogli il 4 marzo e quanto di pur modesto (ma per loro funesto) glie ne è derivato. Per la prima volta, dalla guerra, il popolo ha populisticamente e sovranamente mandato a casa, al diavolo, la dinastia dei regnanti ladri e mafiosi. E questi hanno sbroccato e urlano. Le mani avanti sono tre: primo, questo non è il mio governo, preferisco quelli di Robespierre e della Comune di Parigi, al limite quello di Fidel prima che se ne andasse il Che; secondo, ritengo i condizionamenti della Lega sul piano economico, ambientale, delle Grandi Opere, dell’amministrazione locale in perfetta continuità con i devastatori neoliberisti destrosinistri e la cultura linguistica del suo leader una sciagura; terzo, è dal 1966 che mi occupo senza soluzione di continuità di coloro dei quali viene ululato che sono vittime del razzismo di questo governo e, alla fin fine, degli italiani che questo governo hanno votato e, toh!, continuano a sostenere in numeri crescenti. Un mio caro amico e grandissimo vignettista ha disegnato l’idea dell’Italia come viene rappresentata da quelli del “daje al razzista”. Cercherò di spiegare perché è un’idea strumentale.

Con la razza sì, quella degli oppressi. Se avere combattuto direttamente e denunciato, in mezzo mondo e più, il colonialismo e l’imperialismo, ontologicamente espressioni di razzismo, di superiorità del dominante dotato di diritto e valori sul dominato e dominando, per definizione privi di tali diritti e valori (islamico, nero, ignorante, nazionalista, zotico, retrogrado, privo di democrazia); se essere corso in guerra contro chi le guerre le faceva, armate o economiche, per spedirne immagini e storie di dolore, distruzione, infami soprusi, eroismi inenarrabili, che, nel mio piccolissimo, gettassero granelli di sabbia negli ingranaggi del bulldozer della menzogna; se stare con i palestinesi, irlandesi, cubani, venezuelani e latinoamericani tutti, arabi tutti, iracheni, libici, siriani, algerini nello specifico, e poi vietnamiti, iraniani, africani, somali, eritrei, etiopi in particolare, quelli che allora come oggi costringono a migrare; se aver mandato al diavolo i grandi amplificatori dell’informazione, o esserne stato bandito per incompatibilità di schieramento; se avere riempito di tutto questo migliaia tra articoli, libri documentari filmati, conferenze, se avere fatto dell’amore per tutti costoro e, più ancora, della passione per la verità dell’oppresso, l’unica che debba avere corso legale, morale, deontologico, e dell’odio per i necrofagi che pasteggiano con le loro vite e degli sguatteri che gli apparecchiano la tavola; se questo mi merita l’ingiuria di razzista, che sia! E se, davanti alla miserabile mitopoiesi che gli eredi Ong della Compagnia delle Indie, del “fardello dell’uomo bianco”, civilizzatore di selvaggi a forza di genocidi, oggi tramutato in “valori europei” della solidarietà e dell’accoglienza, fanno del migrante in quanto tale, sempre e comunque “profugo” o “rifugiato”, sempre vittima, sempre buono e giusto e meritevole, esternando riserve e distinguo, si è razzisti, che sia! Per non essere razzisti, ai tempi di epifanie dell’élite morale, intellettuale, umana tout court, modernamente e metticciamente mondialista, come Laura – ghigliottina - Boldrini (mi riferisco al suo modo imparziale di presiedere la Camera, ricordate?), paginone profumato alla violetta sul “manifesto”, o Nicola Fratoianni, ora sinistro mozzo sull’ammiraglia del filantropo terminator George Soros, Open Arms, paginone salivato sul “manifesto”, o Emma Bonino, facilitatrice di tutte le guerre Usa e Nato e nella foto avvinghiata al premio Nobel del crimine finanz-razzista, onde per cui finanziatore di tutti i complotti Ong e di regime change (paginone all’incenso sul “manifesto”, o le edicole e gli schermi unificati che latrano “razzisti”, bisogna fare poche cose. Dire quel che serve e tacere quel che non serve.

L’informazione è miliardaria, ma anti-razzista. E’ la regola del buon giornalismo all’epoca dei suoi standard aurei. Quelli in mano a Jeff Bezos (Amazon: Washington Post), Comunità ebraica e Carlos Slim, uomo più ricco del mondo (Petrolio e telecomunicazioni: New York Times), Comunità Ebraica e De Benedetti (CIR, Sanità, Energia, Compagnie financière Edmond de Rothschild banque: Stampa, Repubblica, L’Espresso, ecc.). Un’equazione potere-politica-media che vale per gran parte di quella che viene definita “comunità internazionale” (coincide più o meno con l’estensione NATO, circa il 17% dell’umanità). Un’equazione i cui termini numerici sono quelle 8 entità che posseggono quanto 3,5 miliardi di esseri umani, quei 16,5 milioni di milionari che dispongono di 63,5 trilioni di dollari, quei ricchi che nel 2017 si sono arricchiti di 1 trilione, un incremento del 23%, quattro volte quello dell’anno precedente. Più o meno, nel piccolo mondo italico, la sorte del nostro 1% che possiede il 45% della ricchezza nazionale e del nostro 10% che ne possiede l’80%. Tra costoro anche il testè inserito tra le glorie marmoree sul Pincio Marchionne, davanti al quale l’operaio si cava il cappello ringraziandolo per avergli portato via quasi tutto per sistemarlo al sicuro in Svizzera, Olanda, Regno Unito e Stati Uniti. Questa sì, che è visione globale, scalzacani di Pomigliano! Chi oserebbe mettere in dubbio la rappresentazione del mondo che emana dai media residenti in tali campi elisi? Un’equazione dalla quale riceviamo la nostra conoscenza di quanto accade intorno a noi: l’Italia è un paese in mano a un regime cripto-fascista, razzista, xenofobo e – non me lo dire! - sovranista fino al midollo, che è riuscito, a forza di seminare paura dell’estraneo o diverso (migrante, donna, rom, LGBTQI e chi ne fa più ne metta) a pervertire quello che fino a ieri era il sano, saggio e lavoratore popolo che votava DC, PCI, Ulivo, DS, PD, LeU, FI, senza mai esprimere hate speech, discorsi dell’odio, rancore, invidia per Marchionne, Renzi e Orfini, senza mai insultare in rete, senza mai dare retta alle fake news.

Josepha dagli occhi sbarrati. E Josepha dagli occhi sbarrati, secondo i sorosiani di Open Arms rubata alle onde tra le quali l’avrebbero lasciati i libici (che non si vede perché debbano essere meno credibili di gente che si fa pagare da Soros e campa di Josephe, tanto più se accreditati da una giornalista tedesca); e il bambino curdo sulla spiaggia del Bosforo che scatenò la rotta balcanica e poi i 6 miliardi di euro a Erdogan per interromperla e che venne scoperto giustapposto sul bagnasciuga da chi lavorava a quegli esiti; e quell’altro ragazzino di Aleppo (foto), tirato fuori dai calcinacci e messo in ambulanza con la faccia imbrattata di polvere e sangue e che video non ortodossi scoprirono sceneggiata dei famosi elmetti bianchi (ora messi al sicuro dai padrini Nato che li pagavano per lavorare fianco a fianco con i terroristi Isis e ricoverati in Israele, nientemeno, e in Germania); e quello speronamento di salvanaufraghi tedesca Seawatch, che altro video non ortodosso rivelò essere stato manovra intimidatoria Ong nei confronti di motovedetta libica; e quella ripresa in campo stretto di Jugend Rettet (ora sequestrata e sotto processo) che vede salvatori raccogliere gente da un gommone, seguita da ripresa in campo largo di infiltrato sulla nave, che mostra il coordinamento tra scafisti e Ong, la restituzione di gommone e motore, i saluti cordiali… Di tutto questo e similaria avete saputo la seconda parte, la smentita del trucco, solo dai famigerati social delle fake news. Quelle contro cui la Boldrini, “manifesto” e “repubblica” in borsa, è andata ad ammonire i ragazzi dei licei. Equazione, dunque, dalla quale riceviamo la sconoscenza di particolari secondari, effettucci collaterali trascurabili. La pesista nera di Torino, “vittima di razzismo”, era solo uno dei 6 bersagli dei dementi lanciatori di uova e tutti gli altri erano bianchi. Il migrante morto (di auto o di pugno, non è chiaro) ad Aprilia aveva una cassetta piena di attrezzi per furti con scasso; nel periodo degli otto scellerati episodi di aggressione razzista (uova, pallini, “sporco negro”, eccetera), settimana di fuoco contro i migranti, le questure ci informano che sono state arrestate per reati vari 100 migranti e 400 ne sono stati denunciati. Informazione indubbiamente intrisa di razzismo. Da cestinare. Come lo sono i dati del Viminale pre-Salvini per i reati di violenza e contro la proprietà commessi dall’8,3% di popolazione straniera. A questa spetta il 55% dei furti con destrezza, il 51,7% dello sfruttamento della prostituzione (mafia nigeriana, ormai classificata la quarta mafia in Italia), il 45,7% delle estorsioni, il 45% dei furti in abitazione, il 41, 3% di ricettazioni, il 20,3% degli omicidi volontari, il 37,5% delle violenze sessuali. Sto criminalizzando i rifugiati, direbbero gli anti-razzisti. No elenco dati compilati dal governo degli anti-razzisti e aggiungo che un tasso così elevato di comportamenti devianti è la naturale conseguenza di chi pesta nel mortaio pietas e accoglienza universale e non fa altro, a forza di migranti schiavi o mendicanti, che allestire l’irrinunciabile, per il capitalismo, esercito industriale di riserva. Questi che da noi, gettati a morire nei campi o da Amazon o agli angoli col cappello in mano, a casa erano contadini, pescatori, artigiani, maestri, infermieri, impiegati, disoccupati. Gli avevano prospettato l’Arcadia, si sono imbattuti nel bulldozer dello sfruttamento più spietato. A delinquere qui li hanno costretti loro, gli accoglitori. Lasciate che il fiore bocconiano Tito Boeri farnetichi di migranti che pagheranno le nostre pensioni. Prima dovrebbero poter guadagnare e non in nero, poi dovrebbero esserci anche coloro che gliele pagheranno a loro, le pensioni. Con l’Italia che perde (caccia) quasi 300mila giovani (20% laureati) all’anno, con il Sud umanamente ancora la parte più salda di noi, da cui in 16 anni sono emigrati (cacciati) due milioni, la vedo dura. Questo del dico e non dico è dunque il giornalismo di un establishment potere-politica-media che per il momento si è privato del termine intermedio, la politica, e ne ha sostituito i contenuti - fatti, ragionamento, confronto, analisi - con le parole. Parole d’assalto lanciate con perfetti – e sospetti - sincronismo e sintonia da tutti gli sconfitti, dall’estrema e finta sinistra all’estrema e vera destra: dal “manifesto” a tutti gli altri. Persa la partita della politica e finiti nel buco nero della ripulsa popolare per la situazione sociale e culturale catastrofica, questa sì fonte di paura e insicurezza, in cui hanno precipitato la nazione, cercano, come dice bene Carlo Galli, della Sapienza di Roma, di imporre un terreno di gioco nel quale l’aggressività lessicale dovrebbe sostituire analisi e confronti e porre l’avversario vincente dalla parte del torto a forza di una superiorità morale fondata sui valori di bontà, accoglienza, tolleranza. Detti “valori europei” o, addirittura “occidentali” (con rumorosa esclusione di ogni Sud ed Est, in particolare di quel Putin che voleva imporre alla Rai il suo burattino Foa. Ma di questo la prossima volta.

“Il manifesto” agonizza, e neanche gli altri stanno tanto bene: colpa dei razzisti. Se dunque “il manifesto” agonizza alla mercè degli inserzionisti e grazie al milione e mezzo di generosità pubblica, non è mica perché al lettore che si ritiene altro rispetto a neoliberismo e imperialismo rifila un Marco Revelli, prestigioso corsivista, ultimo giapponese della grottesca Lista per un’altra Europa con Tsipras, che esalta la “resistenza vincente di Tsipras” all’indomani dell’ennesimo taglio delle pensioni, dell’ennesima svendita delle infrastrutture e, per fare felice la Nato, della cacciata di diplomatici russi e della prostituzione della Grecia a Netaniahu. Non è mica perché dal Nicaragua a Libia, Pakistan, Siria, Zimbabwe, Messico, Russia, Sahel ripropone, verniciate di rosso, le nefandezze false, bugiardi e necrofaghe della vulgata imperiale. Macchè, è perché quella comunità di “deplorables” (copyright di Hillary per gli elettori di Trump), quella società da rieducare, è stata fuorviata, pervertita, corrotta, da populisti, nazionalisti, sovranisti, razzisti e xenofobi. Il campo da gioco non è quello di chi utilizza al meglio il rettangolo e chi ci si muove sopra, ma quello che spara più populisti, razzisti, sovranisti. Ed è chiaro che a tirare in porta parole, specie se vuote di significato ma appesantite da odio, rancore, invidia, non si fa goal neanche in cent’anni. La tecnica del rovesciamento del linguaggio, di attribuire il cancro all’altro, non ferma la tua metastasi. Tutta questa gente si divincola nel risentimento, nell’odio, nel rancore, nell’invidia e, freudianamente, ne fa portatori gli altri, riuscendo solo ad evidenziare l’assenza di argomenti e il ridicolo tra coloro che, col voto, con una vera e propria sollevazione come non se n’erano più viste dagli anni ’70, ne hanno decretato la fine. Il povero Marco Revelli si abbarbica al detrito galleggiante di un fedifrago come Tsipras, quinta colonna del nemico quanto il giornale su cui imbarca naufraghi da accogliere senza se e senza ma e senza mai andare a vedere cosa c’era prima del gommone.

Colonialismo = razzismo, quello di ieri, quello di oggi. Perché qui casca l’asino. I valori europei di cui costoro cianciano stanno nella ripetizione di una storia colonialista di cui l’Europa e poi l’emisfero nord-occidentale si sono responsabili nel corso di mezzo migliaio di anni. Un valore essenziale per l’accumulazione primitiva è stata la tratta degli schiavi. Lo è tornato ad essere per l’accumulazione post-crisi e la riorganizzazione demografica ai fini globalistici. Se ne rivedono i missionari, apripista, oggi come allora innescatori di turbamenti e alienazioni scaturiti da una supponenza religioso-elitaria di dimensioni cosmiche, se ne vedono i benefattori e samaritani che portano istruzione e sanità di diretta derivazione cattocapitalista e di cospicua ricaduta per gli operatori. Ieri si andava, si occupava, si prelevava, per le Americhe anche vite umane. Oggi si mettono in piedi, militarmente o a forza di benefits, clan dirigenti i cui paesi non vedranno più coloni, ma ospiteranno manager. Rimane e viene potenziata, grazie a un apparato articolato in filiera organizzatissima, l’estrazione di merce umana. Spostamenti di popolazioni con la promessa, regolarmente delusa, di una vita migliore al Nord di quella, malridotta dai predatori e desertificatori transnazionali, al Sud. E la “via della seta” della mondializzazione. Il mezzo è sempre più lampante: sradicamento, trasferimento, impoverimento di chi arriva e chi accoglie, distruzione di identità, sovranità, popolo. Il daje al razzista serve a questo. Essendo il colonialismo per sua natura, premesse e fini necessariamente razzista. Ecco che un minimo di ermeneutica ci consente di riconoscere negli accoglitori pietosi il ceppo centrale della xenofobia e del razzismo postmoderno. Mi sentite Boldrini, Zoro, Revelli, il Blob degenerato in sciropposo buonismo del TG3, Beppe Giulietti, Camusso, Erri De Luca, Bergoglio e Parolin (suo segretario di Stato ospite acclamato al Bilderberg 2018), ossa di seppia piaggiate del PD e via sinistrando? E tutta gente da maglietta rossa. Li avete visti tutti, in massa, magliette rosse e petto in fuori a manifestare e a gridare contro il razzismo delle guerre imperialiste, con concorso italiano, ai 3 milioni di iracheni massacrati nelle guerre di Bush, Clinton, Bush; alla Libia felice e prospera frantumata e consegnata al caos, ai 300mila siriani uccisi e ai 6 milioni sradicati dalla guerra nostra e dei nostri terroristi jihadisti; allo Yemen, non solo raso al suolo dalle bombe, ma destinato al genocidio dal blocco totale dei rifornimenti; all’Afghanistan, nel quale collaboriamo a una guerra coloniale con sterminio di civili che dura da 17 anni ed è fondata sulla balla che Osama bin Laden ha buttato giù le Torri; all’orrore delle devastazioni in Africa, dove briganti inventati dai colonialisti e loro truppe di occupazione assistono le multinazionali nelle rapine delle risorse e nella distruzione degli habitati di tutti i viventi. E certamente avete visto queste benemerite magliette impegnate in altre cause, anche domestiche, come la lotta alla falcidie dei diritti dei lavoratori da Job Act, la difesa dell’ambiente e dei diritti delle comunità con lo Sblocca Italia, la rivolta contro la privatizzazione della scuola, fatta azienda monocratica al servizio degli sfruttatori, contro l’avvelenamento e depauperamento dei nostri mari e terre con piattaforme e trivelle dell’idrocarburo ammazza-pianeta, la vaiolizzazione del nostro territorio con ben 90 basi di guerra e di morte Usa e Nato…..Come non li avete visti? Eravate distratti….

Maria Giovanna Maglie per Dagospia dell11 settembre 2018. Provate a immaginare procedure speciali aperte contro l'Italia, ispettori che vengono a mettere il naso in campi rom e centri di accoglienza, con il loro manuale politically correct che tutti condanna e indica come colpevoli di poca solidarietà, ma che assolve sempre loro, gli ispettori del Grande Fratello, quelli che “ce lo dice l'ONU”, che fa a gara con “ce lo dice l'Europa”. A loro invece dice che sono impuniti comunque, le violenze sui bambini, gli stupri delle donne, la testa girata da un'altra parte quando ci sono le stragi, l'inutilità di grandi missioni internazionali, l'insipienza dimostrata per anni in Libia, le abitudini e vizi da satrapi, non costituiscono responsabilità alcuna. Provate a immaginare una nazione democratica messa sotto accusa da esponenti e amici di dittatori, affamatori, corrotti. Non è arrivata l'ora di dire basta, non bisogna cogliere l'occasione offerta dalla gentile signora Michelle Bachelet per sbattere la porta e dire tanti saluti e fuori dalle palle i vostri ispettori? Gentile Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che, a meno di un mio errore, non ha finora ritenuto di dire una parola sulla gravissima vicenda degli ispettori del Consiglio per i Diritti Umani Onu, e non vorremmo che imparasse troppo dai silenzi del presidente Mattarella; gentile ministro Matteo Salvini, che è il vero obiettivo dell'attacco di Ginevra, e che ha risposto duramente, ma non basta minacciare ritorsioni economiche; gentile ministro Enzo Moavero, che rappresenta l'Italia all'estero, e che ha con un qualche ritardo emesso un comunicato che mi azzardo a definire di flebile difesa della nostra democrazia e della pazienza degli italiani nell'accoglienza; signori rappresentanti del governo, dal cosiddetto Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite, che è fin dalla sua creazione, per la sua composizione, per le scelte attuate, per l'antisemitismo dominante, per lo strapotere di dittature musulmane, l'ultimo scherzo del carrozzone illiberale delle Nazioni unite, è doveroso, dopo un'offesa così grave al popolo e alle istituzioni italiane, ritirarsi. E certamente una decisione impegnativa, ma è anche una decisione dovuta agli italiani dal governo del cambiamento nel quale, così ci dicono rilevazioni e sondaggi, ripongono grande fiducia nonostante attacchi nazionali e internazionali furibondi e scomposti. L'imminente Assemblea Generale annuale delle Nazioni Unite a New York è l'occasione giusta per un annuncio del genere. Basta fare come hanno fatto gli Stati Uniti due mesi fa con la loro ambasciatrice Nikki Haley. "Prendiamo questa decisione perché il nostro impegno non ci permette di continuare a far parte di un'organizzazione ipocrita e asservita ai propri interessi che ha fatto dei diritti umani una barzelletta. Gli Stati Uniti si ritirano da questa fogna di pregiudizio politico”. Semplice, efficace, definitivo. Apprendiamo invece del sito della Farnesina che l'Italia in quel Consiglio ci vuole entrare, e con orgoglio. Cito. “Nell’autunno 2018 si svolgeranno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite le elezioni per il rinnovo parziale del Consiglio Diritti Umani (CDU) per il triennio 2019-2021. L’Italia ha presentato la propria candidatura perché conduce da sempre un’azione convinta di tutela e promozione dei diritti umani. Il Consiglio Diritti Umani (CDU) è il consesso elettivo più prestigioso e importante delle Nazioni Unite dopo il Consiglio di Sicurezza. Istituito nel 2006, il CDU prosegue il lavoro della Commissione Diritti Umani, che dal 1946 aveva assicurato massima risonanza internazionale all’esigenza del rispetto dei diritti umani nel mondo. Il CDU è composto da 47 Stati membri eletti per un mandato triennale dall’Assemblea Generale, con seggi ripartiti secondo il principio dell’equa distribuzione geografica. Il Consiglio si riunisce in sessione ordinaria tre volte all’anno (marzo, giugno e settembre) e in sessione speciale su richiesta di 1/3 dei suoi membri. L’Italia, che è già stata membro del Consiglio Diritti Umani nei mandati 2007-2010 e 2011-2014, ha presentato ufficialmente i propri impegni e priorità in vista della auspicata elezione al CDU, e attualmente segue con assiduità e partecipa ai lavori come Paese osservatore. Tra i temi per noi prioritari figurano: la lotta contro ogni forma di discriminazione, i diritti delle donne e dei bambini, la moratoria universale della pena di morte, la libertà di religione o credo e la protezione delle minoranze religiose, la lotta contro la tratta di esseri umani, i diritti delle persone con disabilità, la protezione del patrimonio culturale e religioso, i difensori dei diritti umani. Si tratta di una richiesta avanzata nel marzo scorso, hai elezioni politiche italiane già avvenute, ma ancora con il precedente ministro degli Esteri e il precedente governo. Dunque, c'è tutto il tempo è l'occasione per tirarsi indietro e magari per chiedere che vengano dimenticate espressioni come “consesso più prestigioso” o “equa distribuzione geografica”, Anche perché se già ci siamo stati per due volte, e osserviamo in modo attento e assiduo, non dovrebbero esserci rimaste residue speranze su che cosa sia il consiglio per i Diritti Umani dell'Onu. Istituito con grande pompa nel 2006, in luogo della precedente commissione, nei primi dieci anni di attività il Consiglio ha condannato 68 volte Israele, 20 volte la Siria, 9 volte la Corea del Nord, 6 volte l’Iran e mai Venezuela, Arabia Saudita o Cina. Veniamo all'equa distribuzione geografica ricordata dalla Farnesina, perché il Consiglio prevede 47 membri eletti dall’Assemblea generale, con una maggioranza di seggi (13+13) all’Africa e all’Asia, 8 al Sud America e ai Caraibi, 6 all’Est europeo, 7 seggi in tutto per la Ue e il resto dell’Occidente. Quando misero in piedi questa meraviglia di arbitrio, la presidenza Bush disse grazie no, e restò fuori, poi arrivò Barack Obama e si affrettò ad aderire. Seguirono scelte eclatanti. Nel 2014 sono stati eletti tra i membri del Consiglio Cina e Arabia Saudita, noti campioni di diritti umani. Non basta, nel 2015 l’ambasciatore saudita Faisal bin Hassan Trad è stato eletto a capo del Consiglio per l’anno 2016. Ora, qui nessuno è caduto con l'ultima pioggia e si sa che l'economia e il petrolio contano. Ma di qui a mettere a vigilare sui diritti umani nel mondo un Paese che ha il quarto record mondiale di esecuzioni capitali, molte per decapitazione, ma resta tempo per crocifiggere alcuni condannati, che non garantisce il diritto di stampa, espressione, libertà religiosa, che tratta come schiavi gli stranieri entrati per lavoro, che nega i diritti delle donne, tenute in tutela e segregazione tutta la vita, che mette fuorilegge e riserva pene durissime agli omosessuali, un paese che non ha mai firmato la Dichiarazione universale dei Diritti Umani, ecco, dovrebbe intervenire un minimo di pudore. Invece no. Invece no, perché alle Nazioni Unite noi paghiamo, gli altri comandano. Un solo esempio. Nel 2016 l'Arabia Saudita era stata condannata per i bombardamenti in Yemen che avevano ucciso centinaia di bambini. Una sorta di Blacklist dalla quale però l'allora segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, fu convinto a recedere perché a lui e alla dirigenza arriverà una serie di minacce pesanti e di ricatti da parte non solo dei sauditi ma di tutti i Paesi dell’Organizzazione della cooperazione islamica. Se la distribuzione geografica non è equa figuratevi quella economica. Fare i conti veri dei costi dell’Onu e delle sue agenzie è praticamente impossibile. Diciamo circa 6 miliardi di dollari di bilancio ordinario si raddoppiano e arrivano a 12 con le agenzie tra cui anche il Consiglio per i Diritti Umani con sontuosa sede a Ginevra. L'Italia è tra i primi 10 finanziatori, 95 milioni di dollari nel 2017, ma ci dovete aggiungere 4 milioni di dollari per i tribunali internazionali e circa 30 milioni di dollari solo nel primo semestre 2017 per le missioni di peacekeeping. Poi ci sono le missioni direttamente finanziate come quella al confine tra Libano e Israele. UN Watch ed altri organismi internazionali di controllo producono regolarmente materiale su uno stato delle cose incredibilmente illegale e corrotto. Altro che la casta italiana! Le denunce cadono regolarmente nel vuoto perché i Paesi finanziatori non intervengono, Donald Trump è stato il primo a cominciare a passare dalle parole ai fatti. Di Michelle Bachelet, già presidente del Cile, da un mese alto commissario per i Diritti Umani, Un Watch ricorda che quando morì Fidel Castro lo definì «un leader per la dignità e la giustizia sociale a Cuba e in America Latina», poi andò in visita da Raul Castro. Ma si rifiuta di incontrare qualunque esponente dell'opposizione cubana. Quando morì Chávez lo ricordò come un «grande amico», col merito di “aver sradicato la povertà, generato una vita migliore per tutti, e per il suo profondo amore per l'America Latina”. Naturalmente è una grande amica del brasiliano Lula, e anche ora che Maduro ha condotto il Venezuela alla fame, ha dichiarato che è solo colpa della mancanza di dialogo”.  Ora inaugura la sua attività di Commissario annunciando: "Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e rom”. A una così si risponde sbattendo la porta, non bussando per entrare.

Migranti, l’Ue a Roma: «Stop minacce». Di Maio: «Vi tagliamo i fondi». La Commissione europea risponde a muso duro a Luigi Di Maio, che fino a ieri mattina continuava a recapitare avvertimenti a Bruxelles, scrive Rocco Vazzana il 25 Agosto 2018, su "Il Dubbio". «Le minacce non sono d’aiuto e non porteranno a avvicinarsi a una soluzione». La Commissione europea risponde a muso duro a Luigi Di Maio, che fino a ieri mattina continuava a recapitare avvertimenti a Bruxelles, e l’incontro degli sherpa finisce con un nulla di fatto. «Ne trarremo le conseguenze», replica a sua volta il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, noncurante evidentemente dei segnali provenienti dall’Ue. Ma è soprattutto il ministro del Lavoro a ribadire la maniere forti: «Noi siamo pronti a tagliare i fondi che diamo all’Unione Europea», scrive in serata su Facebook il leader grillino. «Hanno deciso di fregarsene dei principi di solidarietà e di responsabilità nonostante nell’ultimo consiglio europeo avessero assicurato che chi sbarcava in Italia sbarcava in Europa», spiega, prima di consegnare la “dichiarazione di guerra”: «Non chiederemo un centesimo di più. Lo dico da capo politico del Movimento 5 Stelle, visto che la Ue non rispetta i patti e non adempie ai suoi doveri, noi come forza politica non siamo più disposti a dargli i 20 miliardi all’anno che pretendono». Per Di Maio l’Italia «deve prendersi in maniera unilaterale una riparazione. Non abbiamo più intenzione di farci mettere i piedi in testa», prosegue, recriminando per la vittoria elettorale mutilata: «Il Movimento 5 Stelle si è presentato agli italiani con una missione ben precisa e non abbiamo alcuna intenzione di fare passi indietro». E pensare che poche ore prima, Alexander Winterstein, portavoce della Commissione, aveva spiegato al governo che «il solo modo per risolvere le cose in Europa è lavorare insieme in modo costruttiva e di buona volontà». I 20 miliardi versati dall’Italia, inoltre, non sono una gentile concessione, sono previsti da «un chiaro obbligo legale che gli Stati membri hanno sempre rispettato». Solo il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, dal meeting di Rimini prova a smorzare i toni: «Pagare i contributi all’Unione europea è un dovere legale dei membri. Ci confronteremo su questo e altre questioni». Ma le minacce di Di Maio hanno già prodotto i loro risultati: il vertice Ue si conclude nel nulla e persino il silente Giuseppe Conte è costretto a intervenire: «Da parte di alcuni Stati è stato proposto un passo indietro, suggerendo una sorta di regolamento di Dublino “mascherato”», scrive su Facebook il primo ministro con piglio indignato, poco prima di utilizzare il registro già adottato, senza successo, dal ministro Di Maio: la minaccia. «Se questi sono i “fatti” vorrà dire che l’Italia ne trarrà le conseguenze e, d’ora in poi, si farà carico di eliminare questa discrasia perseguendo un quadro coerente e determinato d’azione per tutte le questioni che sarà chiamata ad affrontare in Europa». La reazione del Viminale è in linea con quella di Conte: «Dalla Diciotti non sbarca nessuno», fanno sapere, convinti che l’esito dell’incontro a Bruxelles sia «l’ennesima dimostrazione che l’Europa non esiste». In patria però le cose non vanno meglio per il governo. Si allarga infatti il fronte di quanti ritengono intollerabile e disumano il trattamento riservato da Salvini ai 150 migranti imprigionati sulla nave della Guardia costiera. Ad attaccare duramente il leader della Lega non è solo la sinistra. L’azzurro Gianfranco Micciché, presidente dell’Assemblea regionale siciliana, non usa mezzi termini per definire le politiche del vicepremier leghista: «Dici di non temere l’intervento del presidente della Repubblica, quello del primo ministro, o quello di un procuratore. Io non ti auguro un’indagine per sequestro di persona. Ti auguro di riuscire a provare vergogna», scrive su Facebook, rivolgendosi direttamente a Salvini. «Non so come tu riesca a dormire al pensiero di quanta sofferenza si stia procurando nel tuo nome. E per cosa poi, per prendere 100 voti in più? Salvini, fattene una ragione, non sei razzista: sei solo stronzo». In serata, Micciché, dopo essere stato a bordo della Diciotti, si rivolge ancora al ministro dell’Interno: «Se ti chiedo scusa, anche se ti ho detto stro…, fai scendere le undici povere donne?». Quello del presidente dell’Ars siciliana, però, non è un gesto isolato. È tutta Forza Italia a prendere le distanze dall’alleato di un tempo. «Fumata nera sulla Diciotti alla riunione tecnica a Bruxelles. Le richieste dell’Italia non sono state accolte e il nostro Paese è più isolato che mai», dice la capogruppo azzurra alla Camera, Mariastella Gelmini. «Salvini ha fatto bene ad alzare la voce, ma mostrare i muscoli doveva servire a raggiungere accordi per noi vantaggiosi con i Paesi Ue. E invece niente, con gli amici di Visegrad del governo gialloverde che per primi ci hanno chiuso le porte in faccia». Salvini e Di Maio non sembrano impressionati da emergenze umanitarie e rischi di isolamento internazionale. L’asse sovranista per ora regge.

La propaganda social di Matteo Salvini ora la paghi tu: e ci costa mille euro al giorno. Il primo giorno al Viminale il ministro dell'Interno ha assunto come collaboratori tutti i membri dello staff di comunicazione, incluso il figlio di Marcello Foa. Aumentando a tutti lo stipendio (tanto non sono soldi suoi). E sull'Espresso in edicola da domenica, l'inchiesta su come funziona la propaganda grilloleghista, scrive Mauro Munafò il 23 agosto 2018 su "L'Espresso". I post contro i migranti e le ong, le dirette Facebook per attaccare a destra e a manca, gli sfottò nei confronti di chiunque lo critichi, le bufale razziste rilanciate a milioni di follower e fan: la comunicazione di Matteo Salvini non è diventata più istituzionale da quando è seduto nella poltrona di ministro dell'Interno. Ma qualcosa in realtà è cambiato: ora la propaganda sulle sue pagine Facebook personali non la paga più lui, ma direttamente il suo dicastero. E quindi tutti gli italiani. Nulla di illecito o illegale sia chiaro. Si tratta dei contratti di collaborazione che ogni ministro, una volta insediatosi, utilizza per formare la sua squadra. Dai documenti del ministero dell'Interno si scopre così che già il primo di giugno, primo giorno con il governo Conte insediato, Salvini ha firmato il decreto ministeriale per assumere i suoi fedelissimi strateghi social, con stipendi di tutto rispetto. Primi a passare a libro paga del Viminale sono stati Morisi e Paganella, i fondatori della “Sistema Intranet” che da anni gestisce le pagine social di Matteo Salvini e tra i principali artefici del successo digitale del leghista. Per Luca Morisi, assunto nel ruolo di “consigliere strategico della comunicazione”, lo stipendio è di 65mila euro lordi l'anno. Meglio ancora va al suo socio Andrea Paganella, capo della segreteria di Salvini, che percepirà invece 86mila euro l'anno fino alla durata del governo. Non finisce qui. Passano due settimane e la squadra di Salvini si allarga: il 13 giugno vengono assunti direttamente dal Viminale anche altri quattro membri del team social già al lavoro per la propaganda social salviniana. Passano a libro paga del governo anche Fabio Visconti, Andrea Zanelli e Daniele Bertana, tutti con lo stesso stipendio: 41mila euro lordi, circa 2mila euro netti al mese. Stessa cifra e carica, “collaborazione con l'ufficio stampa”, anche per Leonardo Foa, il figlio del candidato alla presidenza Rai del governo gialloverde Marcello Foa che già l'Espresso aveva raccontato essere al servizio del segretario della Lega. Il conto totale dello staff di Salvini passato a libro paga delle casse statali è presto fatto: 314mila euro l'anno per lo staff social, a cui vanno aggiunti i 90mila euro l'anno garantiti al capo ufficio stampa Matteo Pandini, ex giornalista di Libero e autore di una biografia di Salvini, assunto il primo luglio scorso. Insomma, più o meno mille euro al giorno pagati da tutti per ricevere tweet, dirette Facebook e selfie da campagna elettorale permanente. Un dettaglio interessante che emerge dagli stipendi del team social è quello della generosità di Matteo Salvini: generosità con i soldi pubblici però. In una dichiarazione del maggio scorso Luca Morisi , rispondendo agli articoli della stampa, aveva affermato che la Lega aveva stipulato con la sua “Sistemi Intranet” un contratto da 170mila euro annuali per i vari servizi di comunicazione che richiedevano il lavoro di 4 persone: fatta la divisione, significa 42mila euro a persona. A un solo anno di distanza, e una volta conquistata la poltrona di ministro, Salvini ha deciso di dare a tutti un aumento: il team social, come abbiamo scritto, si compone ora di sei persone per un totale di 314mila euro annui. In media sono 52mila euro a testa, 10mila in più rispetto a quando gli assegni li firmava via Bellerio. La pacchia è iniziata.

IL GIUSTIZIALISMO CHE VERRÀ, scrive Giuseppe Sambataro il 14 giugno 2018 su The Vision. Il governo Lega-5Stelle è finalmente realtà, e con esso quel brivido lungo la schiena ogni volta che viene nominato il Ministro dell’Interno Matteo Salvini. A poche ore dalla conferma dell’esecutivo, il leader leghista ha promesso che renderà lo slogan “A casa loro” una delle sue priorità. “Sogno un Paese con qualche tassa in meno e molta sicurezza in più,” ha aggiunto il neo-ministro, “basta sconti di pena per assassini, pedofili e stupratori. Uno che mette le mani addosso a un bambino o a una donna non deve più uscire di galera.” In questo intervento vengono ribadite, se mai ce ne fosse bisogno, le intenzioni del nuovo governo in tema di sicurezza e giustizia, già messe nero su bianco nell’ormai iconico “Contratto per il Governo del Cambiamento”. Una frase in particolare, nelle cinque pagine del capitolo dedicato alla giustizia, sembra riassumere al meglio la visione grilloleghista: “È opportuno ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi.” Tra le modifiche proposte, da una parte pene più alte, più carcere (anche per i minori), tempi di prescrizione più lunghi e più legittima difesa; dall’altra, meno depenalizzazioni, meno garanzie per gli indagati, meno possibilità di accedere ai riti alternativi e di scontare parte della pena fuori dalle mura carcerarie. In generale si registra una netta inversione rispetto alla riforma penitenziaria quasi approvata al termine della scorsa legislatura, che cercava di ridurre al minimo la risposta punitiva in favore di misure di reinserimento sociale più in linea con il dettato costituzionale. Non si è fatta attendere la reazione degli avvocati penalisti, che hanno definito la proposta, in ordine di bontà, una risposta “puramente demagogica”, l’espressione di una “cultura contraria alla visione liberal-democratica che ispira i moderni ordinamenti” e una “supercazzola forcaiola”. Marco Travaglio – tifoso grillino della prima ora nonché uno dei più grandi equivoci degli elettori di sinistra durante il ventennio berlusconiano – ha accolto con entusiasmo il contratto giallo-verde, che “non ha paura di parlare di più carcere e più carceri, meno prescrizioni, pene più severe e più certe […] meno garanzie per chi commette i reati e più garanzie per chi li denuncia e li subisce. I puristi […] del sesso degli angeli e del giudiziariamente corretto storcono il naso con argomenti triti e ritriti […] Dei loro slogan i cittadini si infischiano: se vedranno qualche delinquente a spasso in meno, qualche irregolare espulso in più […] saranno felici e grati al governo (e noi con loro).” Considerato il peso che i due partiti firmatari hanno sempre dato a questi temi, e visti i risultati delle scorse elezioni, sembra purtroppo che Travaglio abbia ragione. L’idea di giustizia che emerge dal “Contratto” è infatti un ibrido dei leitmotiven delle due forze politiche, che sul tema sembrano essere riuscite particolarmente bene a trasformare in programma di governo il consenso populista di cui hanno sempre goduto. C’è innanzitutto l’idea di sicurezza della nuova Lega salviniana, costruita attorno ai concetti di ordine pubblico e di difesa dal nemico, poco cambia se è un immigrato che scavalca il confine o un ladro che scavalca il muretto di casa. Chi sbaglia paga, meglio se finisce in carcere e meglio ancora se ci rimane. A tutto questo si aggiunge il dogma grillino dell’onestà, alla luce del quale il disonesto è un criminale da mettere alla gogna con rabbia tangentopolesca. Non è un caso che Danilo Toninelli, concentratissimo capogruppo dei cinquestelle al Senato e ora ministro delle Infrastrutture, abbia promesso di rendere l’Italia uno “Stato etico”. Voluto o meno, il riferimento al modello teorico dei regimi totalitari, in cui ciò che è immorale è anche illegale, non fa ben sperare. Il fascino di questo mix di securitarismo e giustizialismo si spiega in buona parte con il bisogno degli elettori – banale ma quantomai diffuso in questo periodo di forte instabilità – di essere rassicurati. Impoveriti, incazzati, quotidianamente bombardati dalla retorica dell’invasione e da quella della casta, i cittadini proiettano le loro incertezze economiche su un sentimento di insicurezza sociale e rabbia indiscriminata contro il Palazzo, sfogando le loro frustrazioni nella richiesta di forche e manette. I dati però fanno emergere un’altra realtà. Dal 2014 a oggi si assiste infatti a un calo costante di reati, con percentuali impressionanti per quanto riguarda i crimini che più colpiscono l’opinione pubblica: -25,3 % di omicidi, -20,4% di furti e -23,4% di rapine. Aumenta la sicurezza oggettiva, ma evidentemente non quella percepita. Come risulta da un sondaggio realizzato prima delle scorse elezioni, il 70% degli italiani dice di sentirsi insicuro. Candidandosi alla guida del paese, Lega e M5S hanno preferito seguire gli umori dei cittadini piuttosto che prendere atto della realtà. È emblematico in questo senso il paragrafo del “Contratto” sulla legittima difesa: nonostante le aggressioni alla proprietà privata diminuiscano, alcuni casi assumono rilievo mediatico a livello nazionale, tanto basta per incentivare i cittadini ad armarsi. Già oggi la difesa da un’aggressione ingiusta è considerata legale quando necessaria e proporzionale. Presumere che lo sia sempre equivale però a dare licenza di uccidere al minimo sentore di pericolo. La parte sul carcere poi sembra il copia-incolla dei commenti incattiviti sotto le notizie di cronaca nera su Facebook. Anche in questo caso vengono ignorate, più o meno consapevolmente, alcune acquisizioni scientifiche ben consolidate. E non solo perché allargare l’utilizzo della pena detentiva contrasta con il principio penale per cui la si dovrebbe invece limitare il più possibile, ma sopratutto perché, numeri alla mano, il carcere è inutile. Lo dimostrano i tassi di recidiva: il 68% di chi sconta la pena dietro le sbarre torna infatti a delinquere. Non servono grandi studi per capire perché. Tra le mura di un istituto di pena ci sono buone probabilità di entrare in contatto con subculture criminali da cui sarà quasi impossibile emanciparsi una volta fuori. Il sovraffollamento patologico e le precarie condizioni delle infrastrutture — problematiche già più volte condannate anche a livello europeo — non fanno che aggravare la situazione. È proprio alla luce di queste considerazioni che la legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 ha introdotto le cosiddette misure alternative, che consentono al condannato di scontare tutta o parte della pena fuori dal carcere attenendosi agli obblighi stabiliti dal giudice. La percentuale di recidiva, per chi ne beneficia, si ferma circa al 19%. In spregio a queste evidenze empiriche, nell’architettura grilloleghista il carcere è una colonna portante, un edificio con molte entrate ma con le uscite sbarrate. In generale, la tesi per cui se si aumentano le pene diminuiscono i reati non regge, come dimostra quanto accaduto con il reato di omicidio stradale. Introdotto dal governo Renzi, ha ottenuto risultati a dir poco deludenti nonostante le sanzioni stratosferiche previste. Questa stessa visione semplicistica si ritrova nel “Contratto” di Lega e 5Stelle, dove l’unica risposta possibile è quella repressiva, anche quando finisce col danneggiare l’intera collettività. Il discorso è valido anche per le altre proposte, tutte tese a ridurre le garanzie di chi deve difendersi da una pubblica accusa, nonostante il fatto che per il nostro sistema un indagato sia innocente fino a prova contraria. L’allungamento della prescrizione e le limitazioni alla possibilità di accedere ai riti alternativi, che accorciano i tempi processuali, possono avere come unico e logico risultato quello di appesantire ulteriormente una giustizia penale già costretta ad arrangiarsi come può. Sarà questa la forma dell’ingiustizia del futuro, al continuo inseguimento delle paure dei cittadini, a prescindere dall’efficacia delle misure che si propone di introdurre. Concetti come “giustizia” e “sicurezza” diventeranno vuoti simulacri, strumenti al servizio della sola volontà di punire. Niente di nuovo, del resto. Fino al XVIII secolo la pena veniva espiata sotto gli sguardi eccitati del popolo, che accorreva nelle piazze per assistere estasiato ai pubblici supplizi. Certo, oggi nessuno viene più decapitato, lapidato o smembrato vivo, ma la sete di vendetta collettiva rimane la stessa. Che il futuro ci riservi un Far West di giustizieri dal grilletto facile, piuttosto che pattuglie dell’onestà pronte ad ammanettare chi non timbra il biglietto in tram, poco cambia. Avremo comunque rinunciato ad analizzare la criminalità come un fenomeno sociale, preferendo rinchiudere in gabbia chi commette un reato piuttosto che investire in sistemi di recupero davvero efficaci. Di certo, la sicurezza non aumenterà e la giustizia non sarà più efficiente.  “È il populismo penale, dolcezza,” e non importa che sia contrario a tutte le conoscenze che si hanno in materia, non importa che il risultato ottenibile sia l’esatto opposto di quello sperato, basta che tranquillizzi, almeno per un po’.

«I Pm come in Turchia» Salvini furioso per la Diciotti e i 49 milioni. Carabinieri al Viminale, ira del ministro: “Io sono stato eletto, i giudici no”, scrive Simona Musco l'8 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «È arrivata al Ministero una busta chiusa dal Tribunale di Palermo. Chissà per cosa sarò indagato oggi. Che dite, la apriamo insieme?». Matteo Salvini annuncia in diretta Facebook di essere iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona aggravato. La Procura di Palermo ha trasmesso gli atti al Tribunale dei ministri chiedendo ai magistrati di svolgere le indagini preliminari nei confronti del titolare del Viminale, modificando i reati contestati. «Sono indagato», conferma il leader della Lega. «Dovrebbe essere il famoso sequestro di persona aggravato dal fatto che io sia un pubblico ufficiale, aggravato dal fatto che a bordo ci fossero dei minori e per il fatto che è andato avanti per più giorni. Dovrebbero essere 15 anni», dice Salvini, nello stesso giorno in cui le forze dell’ordine avevano “dato la caccia” ai migranti della Diciotti fuggiti da Rocca di Papa. «Qui c’è un organo dello Stato che indaga un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato è stato eletto da voi».

LE DICHIARAZIONI. «Mi è arrivata al Ministero una busta chiusa dal Tribunale di Palermo. Chissà per cosa sarò indagato oggi. Che dite, la apriamo insieme?». Con queste parole il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, annuncia ufficialmente, in diretta Facebook, di essere iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona aggravato. La Procura di Palermo ha trasmesso gli atti al Tribunale dei ministri chiedendo ai magistrati di svolgere le indagini preliminari nei confronti del titolare del Viminale, modificando i reati contestati. «Sono indagato», conferma il leader della Lega. «Dovrebbe essere il famoso sequestro di persona aggravato dal fatto che io sia un pubblico ufficiale, aggravato dal fatto che a bordo ci fossero dei minori e per il fatto che è andato avanti per più giorni. Dovrebbero essere 15 anni», dice Salvini, dichiarandosi disponibile ad andare «a piedi a Palermo anche domani a spiegare cosa ho fatto, perchè l’ho fatto e perchè lo rifarei. Io avrei privato della libertà questi migranti che sono scomparsi, che non vogliono farsi identificare», presegue il capo del Carroccio. «Ci sarà sicuramente qualcuno, Boldrini, Renzi, Boschi, Saviano, Chef Rubio, che staranno festeggiando. La maggior parte degli italiani invece non festeggia», è convinto. Ma il problema, per il vice premier, è che «qui c’è un organo dello Stato che indaga un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato è stato eletto da voi», spiega in diretta. «A questo ministro avete chiesto di controllare i confini, contrastare gli sbarchi clandestini. Non sono preoccupato nè terrorizzato. continuerò a fare oggi, domani e in futuro. Non mi toglie il sonno; ecco, lo appendo qua, una medaglietta». Salvini, già imbufalito dalla sentenza del Riesame di Genova che conferma il sequestro dei fondi del suo partito – unico precedente «in Turchia», ironizza – vuole sfruttare politicamente la situazione. «Non mollo di un millimetro, non si molla di un millimetro, se gli italiani mi chiedono di andare avanti, io vado avanti. E se domani dovesse arrivare un’altra nave, non sbarcano. In questo ufficio si sta facendo quello che altri in 5 anni non hanno fatto», dice. «Grazie al procuratore di Palermo, di Agrigento e di Genova, rispetto il vostro lavoro, fate bene e in fretta. Un bacione e buon venerdì sera a tutti».

LE REAZIONI. Si smarca il vicepremier Luigi Di Maio, presagendo il conflitto che potrebbe attanagliare i 5 Stelle che sul fronte della giustizia sono sempre stati sensibili: “Non si possono sostenere le accuse ai magistrati”. Corre ai ripari anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Il ministro dell’Interno può ritenere che un magistrato sbagli ma rievocare toghe di destra e di sinistra è fuori dal tempo. Non credo che Salvini abbia nostalgia di quando la Lega governava con Berlusconi. Chi sta scrivendo il cambiamento non può pensare di far ritornare l’Italia nella Seconda Repubblica”. Immediata la replica anche dell’Anm: “Le dichiarazioni di oggi del ministro dell’Interno, intervenute dopo la notifica degli atti da parte della Procura di Palermo in merito alla vicenda della nave Diciotti, rappresentano un chiaro stravolgimento dei principi costituzionali, che assegnano alla magistratura il compito e il dovere di svolgere indagini ed accertamenti nei confronti di tutti, anche nei confronti di chi è titolare di cariche elettive o istituzionali”. Il vicepresidente del Csm Legnini: “Giudici legittimati dalla Costituzione, non dal voto”. Pd all’attacco, Renzi: “Leader Lega farnetica, da lui idee aberranti”.

Salvini indagato per sequestro di persona Lui: "Sui migranti non mollo". Il ministro accusato di sequestro di persona aggravato per la vicenda Diciotti: atti trasmessi al tribunale dei ministri, scrive Chiara Sarra, Venerdì 7/09/2018 su "Il Giornale". Dopo quello di Agrigento, pure il pm di Palermo ha deciso di indagare Matteo Salvini per la vicenda della Diciotti, a cui fino al 25 agosto fu impedito di attraccare al porto di Catania e far sbarcare i migranti recuperati nel Mediterraneo. Il reato contestato al ministro dell'Interno è quello di sequestro di persona aggravato. Reato che - recita la comunicazione arrivata al vicepremier - è stato "commesso nel territorio siciliano fino al 25 agosto 2018, in pregiudizio di numerosi soggetti stranieri". Gli atti sono quindi stati trasmessi al tribunale dei Ministri, l'unico organo che ha la competenza di indagare su un membro del governo. Salvini ha voluto aprire l'atto trasmesso dal tribunale di Palermo in diretta Facebook, rispondendo immediatamente alle accuse rivoltegli dalla magistratura. "Vado a memoria, ma credo che saranno almeno 15 anni di galera come pena massima di galera, a cui bisogna aggiungere le aggravanti", ha detto Salvini parlando a chi lo seguiva sui social, "Un organo dello Stato ne indaga un altro. Con la differenza che io sono stato eletto da voi cittadini, miei complici. Altri non sono eletti da nessuno e non rispondono a nessuno". Po si è rivolto ai magistrati: "Interrogatemi domani, vengo a piedi domani, vi spiego perchè lo rifarei", ha aggiunto Salvini, "Non ho tempo da passare con gli avvocati. Non mi toglie il sonno, questo foglio lo appendo nel mio ufficio: medaglietta. Venitemi a trovare a san Vittore con le arance, ma io non mollo di un millimetro finchè gli italiani mi chiedono di andare avanti. E se domani dovesse arrivare un'altra nave carica di clandestini in Italia non sbarca. Dopo la Diciotti non è arrivata nemmeno una nave".

Secondo fonti del Viminale, il ministro vuole farsi difendere dall'Avvocatura dello Stato.

Gian Carlo Caselli: «Difendo Patronaggio: è in corso una crociata antigiudiziaria». Intervista all’ex procuratore di Palermo, Gian Carlo Caselli, che analizza la polemica che si sta consumando intorno all’inchiesta sulla nave Diciotti. Intervista di Giulia Merlo del 29 Agosto 2018 su "Il Dubbio". «Sì, è ancora in atto una crociata antigiudiziaria senza eguali». Ne è convinto Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e uno dei principali protagonisti della lotta al terrorismo degli anni Settanta e alla mafia degli anni Novanta. L’analisi parte dall’inchiesta agrigentina sulla nave Diciotti, che ha riaperto la ferita del conflitto tra magistratura e politica, eppure Caselli non se ne stupisce: «La storia ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati che adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno».

L’iniziativa del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, che ha indagato il ministro Matteo Salvini per la gestione del caso della nave Diciotti, ha diviso le opinioni sia della classe politica che della magistratura. Lei ha condiviso la scelta del pm?

«Premetto che mi sono sempre astenuto dal prendere posizioni specifiche su inchieste in corso. Pertanto, anche in questo caso mi limiterò a considerazioni generali e astratte. Punto di partenza è che la Costituzione repubblicana vigente disegna una democrazia pluralista, basata sul primato dei diritti eguali per tutti e sulla separazione dei poteri, senza supremazia dell’uno sugli altri, ma con reciproci bilanciamenti e controlli. E’ vero che a questa concezione di democrazia una “robusta” corrente di pensiero vorrebbe sostituirne un’altra: basata sul primato della politica (meglio, della maggioranza politica del momento) e non più sul primato dei diritti. Ma il perimetro rimane sempre quello della Costituzione vigente. Quindi se “la sovranità appartiene al popolo” - il che significa che in democrazia chi ha più consensi, chi ha la maggioranza, ha il diritto- dovere di operare le scelte politiche che vuole – è chiaro anche che ogni potere democratico incontra dei limiti prestabiliti, che la nostra Costituzione fissa fin dal suo primo articolo, là dove stabilisce che la sovranità si “esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”».

E questo come si traduce nel caso di specie? Per il ministro Salvini è stato ipotizzato il reato di sequestro di persona.

«Uno dei limiti di cui dicevo è scolpito nell’articolo 13 della Carta, che proclama “la libertà personale è inviolabile”, nel senso che “non è ammessa forma alcuna di detenzione, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Dunque, il primo interrogativo che ci si deve porre – tenendo conto anche delle regole che la comunità internazionale ed i singoli stati si sono date, a partire dalla Convenzione di Amburgo del 1979 – è se vi sia stata o meno lesione del principio dell’inviolabilità della libertà personale ( con le eventuali conseguenze sul piano processual- penale) nella fattispecie della nave Diciotti, col suo “carico” di persone bloccate a bordo per giorni e giorni per disposizione del ministro degli interni. In altre parole, si tratta di stabilire se il caso in esame appartiene alla sfera della dignità e dei diritti di tutti, una sfera non decidibile, cioè sottratta al potere della maggioranza e tutelata da custodi ( una stampa libera e una magistratura indipendente) estranei al processo elettorale ma non alla democrazia».

Lei ritiene sia così?

«Senza entrare nel merito, che sarà verificato nelle successive fasi di giudizio, le rispondo che nel nostro ordinamento l’esercizio dell’azione penale è obbligatorio e la legge uguale per tutti: per cui definire infondata l’iniziativa della procura agrigentina sarebbe quanto meno azzardato».

L’iniziativa del procuratore Patronaggio ha avuto enorme risalto mediatico e le immagini di lui che sale sulla Diciotti hanno colpito molto. Ritiene si possa parlare di spettacolarizzazione di quest’iniziativa giudiziaria?

«Il procuratore di Agrigento, ispezionando la nave, ha compiuto un atto necessario ed utile per valutare in presa diretta la situazione sulla quale eventualmente intervenire. Se fosse rimasto chiuso nel suo ufficio mentre la tempesta imperversava avrebbe dimostrato insensibilità. Invece, conoscere per meglio giudicare è la strada giusta per i magistrati non burocrati che si ispirano, oltre che al rispetto delle regole, anche all’etica della responsabilità. Certo è che in questo modo ci si espone e si può diventare protagonisti senza protagonismo. Semplicemente facendo il proprio dovere».

La procura di Agrigento, tuttavia, è stata oggetto di attacchi dopo l’iniziativa. È il prezzo da pagare, oggi, per ogni pm che indaga su vicende al centro del dibattito pubblico?

«Con “Tangentopoli” e “Mafiopoli” si è registrata la novità di una magistratura che – sia pure con tutti i suoi limiti – cercava finalmente di applicare la legge anche ai “potenti”. Costoro non potevano rimanere indifferenti. E difatti hanno reagito con vigore, in tutti i modi possibili, senza risparmio di mezzi ed energie. Ed ecco lo scatenarsi, ormai da oltre 25 anni, di una crociata antigiudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali».

C’è chi parla, all’inverso, anche di crociata “antipolitica” da parte della magistratura.

«Ma è un paradosso. Se un magistrato si occupa di un politico, ricorrendo gli estremi in fatto e in diritto di un’accusa di corruzione o collusione con la mafia, subito scatta il riflesso pavloviano secondo cui a fare politica sarebbe il magistrato. Ma c’è di peggio. Non soltanto in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti, ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati “eccellenti” abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici, spesso indicati “tout court” come avversari politici. Questo invece è proprio ciò cui si è assistito nel nostro Paese, con un crescendo impressionante: un diluvio quotidiano di insulti e calunnie volgari, da osteria, ma ossessivamente riproposti fino a trapanare i cervelli. E si sa che a forza di ripeterle anche le fandonie più clamorose finiscono per sembrare vere. Contemporaneamente, ha preso a dilagare l’idea, terribilmente italiana, di una giustizia “à la carte” valida per gli altri ma mai per sé. Infine, si è verificata l’irresistibile tendenza a valutare gli interventi giudiziari non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unicamente in base all’utilità per sé e per la propria cordata. Fino al punto, che si è verificato proprio nel caso di cui stiamo parlando, che un importante esponente politico del Carroccio abruzzese ha minacciato i magistrati con parole vergognose: «Se toccate il Capitano vi veniamo a prendere sotto casa… occhio». Si è tornati alle intimidazioni squadristiche».

Volendo fare l’avvocato del diavolo, verrebbe da dire che la magistratura come categoria ha avuto reazioni diverse all’iniziativa di Patronaggio. L’ex procuratore di Venezia, Carlo Nordio, ha scritto che "L’idea che le Procure possano intervenire nella scelte migratorie è non solo bizzarra, ma irrazionale ed ingestibile".

«La magistratura, per quanto mi risulta, si è schierata compattamente a difesa dell’indipendenza dei magistrati di Agrigento. Questo e non altro, insieme alla tutela dei diritti di tutti attraverso il doveroso controllo di legalità, è il fulcro del problema».

Allargando lo spettro, ritiene che questa sia stata la proverbiale goccia che ha fatto di nuovo traboccare il vaso, infiammando di nuovo lo scontro tra magistratura e politica?

«Una delle maggiori anomalie italiane degli ultimi 25 anni è stata il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro, la difesa non tanto “nel” quanto piuttosto “dal” processo, con una sorta di impropria riedizione del cosiddetto «processo di rottura» da parte di pezzi di Stato – e mi riferisco a inquisiti “eccellenti” o comunque soggetti forti mentre in passato a praticarlo erano sue antitesi, vale a dire opposizioni radicali, fino alle “Brigate rosse”. Dunque, la storia ci insegna che nel nostro Paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati “scomodi”, perché adempiono i loro doveri senza riguardi per nessuno e con “troppa” indipendenza. Questo malvezzo si è articolato anche a colpi di leggi ad personam, lodi assortiti, commissioni bicamerali e sistematici dinieghi di autorizzazioni a procedere. Con sullo sfondo una “inefficienza efficiente”, vale a dire l’irredimibile agonia di un sistema giustizia che per certi versi appare funzionale alla tutela di coloro che non vogliono mai pagare dazio».

Una patologia di sistema, in cui lei non distingue tra governi di destra e sinistra?

«Io credo si sia disegnato un vero e proprio circolo vizioso che ha coinvolto trasversalmente le forze politiche, alcune più attive e altre meno, ma in ogni caso tutte interessate a limare le unghie della magistratura. Un circolo vizioso che si dovrebbe spezzare nell’interesse dei cittadini e della loro tutela giudiziaria imparziale».

Tornando all’oggi e dunque al nuovo governo, l’Anm ha chiamato in causa il Guardasigilli, Alfonso Bonafede. Secondo lei avrebbe dovuto intervenire in modo più forte in difesa della magistratura?

«Alla fine il ministro della Giustizia qualcosa ha detto, sia pure con un certo ritardo e attestandosi sul minimo sindacale».

Il ministro Salvini, invece, ha parlato di necessità di una riforma della giustizia. È strumentale farlo in concomitanza di un’inchiesta a suo carico?

«Mi preoccupa che abbia parlato dell’inchiesta di Agrigento come di un possibile “boomerang”. Se voleva dire – ma spero non volesse farlo – che ne deriverà una riforma della giustizia, mi limito ad osservare che le riforme “ab irato” sono sempre le peggiori».

La giustizia già è o potrebbe diventare il banco di prova di questo governo?

«Sono 58 le cartelle del “contratto per il governo” grillo- leghista. Una dozzina, quasi il 20%, riguardano la “giustizia rapida ed efficiente” e altri temi a vario titolo connessi, come la corruzione, i reati ambientali, l’ordinamento penitenziario, la sicurezza nelle sue molteplici declinazioni eccetera. In generale si tratta di linee guida piuttosto generiche e talora persino ambigue o fumose. Soltanto ove e quando fossero tradotte in specifici e articolati progetti concreti sarà possibile valutarne la portata effettiva, le implicazioni e gli effetti. Qualcosa di chiaro, però, c’è».

Che cosa?

«Trovo che sia precisa e ben articolata la linea di intervento in tema di corruzione, con una sequenza di misure forti: l’inasprimento delle sanzioni; l’esclusione dei riti alternativi; la previsione del cosiddetto Daspo e dell’agente sotto copertura; la valutazione dell’agente provocatore; la tutela del Whistleblower e l’ampliamento della possibilità di intercettazioni. Nel complesso si tratta di un pacchetto idoneo a conseguire l’obiettivo fondamentale in materia: rendere la corruzione sempre meno appetibile e non – come oggi – decisamente conveniente in base al calcolo costi/ benefici».

C’è altro che la convince?

«Paradossalmente, la cosa più positiva del “contratto” è un’omissione. Vale a dire che non parla di separazione delle carriere fra pm e magistrati giudicanti, uno dei cavalli di battaglia di Berlusconi & company».

Eppure il dibattito è ancora aperto, per lo meno in ambito giuridico.

«Checché se ne dica, è dimostrato che il risultato ineludibile e verificabile di tale separazione – ovunque nel mondo – è la dipendenza del pm dal potere esecutivo, che influisce sull’azione penale con ordini o direttive vincolanti. Un grave pericolo per l’indipendenza della magistratura italiana scolpita nella Costituzione come premessa all’effettiva uguaglianza dei cittadini, anche perché nel nostro paese le “tentazioni” di certa politica, corrotta o collusa col malaffare, sono sempre dietro l’angolo. Non tenerne conto sarebbe – per gli onesti – un’astrazione masochistica. Ovviamente, va ricordato che la separazione delle carriere è cosa ben diversa da quella delle funzioni, ormai una realtà acquisita dal nostro ordinamento».

Aquarius e migranti, l'ex magistrato Carlo Nordio dà ragione a Salvini. L'ex magistrato Carlo Nordio dà ragione a Matteo Salvini sul caso Aquarius e sulla politica migratoria. E il ministro dell'Interno lo cita al Senato, scrive Giovedì 14 giugno 2018 Affari italiani. Un importante nome della giustizia italiana dà ragione a Matteo Salvini sulla vicenda Aquarius. Stiamo parlando dell'ex magistrato Carlo Nordio, uno che di legge se ne intende insomma. Lo ha fatto in un articolo pubblicato su il Messaggero dal titolo "Diritto e diritti/ La lezione che nessuno può dare al nostro Paese". Una presa di posizione molto importante che ha portato lo stesso ministro dell'Interno a citare l'articolo durante l'informativa in Senato sul caso Aquarius: "Ringrazio l’ex procuratore di Venezia Carlo Nordio" ha detto Salvini, "che ha scritto un articolo che mi ha confortato". Ma che cosa dice Nordio? "Il diritto internazionale, come tutto il diritto, non è una scienza esatta, e su ogni questione esistono opinioni diverse, e addirittura opposte", scrive l'ex pm di Venezia. "L’ultimo esempio lo abbiamo avuto poche settimane fa, quando illustri costituzionalisti, anche appartenenti alla stessa area culturale, si sono divisi sulla legittimità del veto posto dal Presidente Mattarella alla nomina del professor Paolo Savona. Nel diritto internazionale, tuttavia, esistono alcuni punti fermi, che risalgono ai tempi di Ugo Grozio, cioè alle prime teorizzazioni di questa disciplina. Sono i seguenti: 1) pacta sunt servanda; 2) rebus sic stantibus; 3) bona fides". In merito al diritto internazionale sui migranti, Nordio scrive: "I trattati sono molti, e ambigui. (...) Tutti comunque concordano nell’imporre l’obbligo, in caso di soccorso in mare, di trasferire i naufraghi in un porto sicuro. Quello di Dublino ha un oggetto diverso: prevede i doveri dello Stato di prima accoglienza. Ma restiamo al salvataggio dei naufraghi. La nave olandese (o tedesca, non si è capito) ha tratto in salvo i migranti al largo delle coste libiche: i porti più sicuri e (vicini) erano in Tunisia e a Malta, paesi pacifici che garantiscono il rispetto dei diritti umani. Perché allora portarli in Italia? Perché, si dice, l’Italia avrebbe coordinato le operazioni di salvataggio. Ma questo non è previsto dalla legge del mare, che parla, appunto, solo del porto più sicuro". "Ammettiamo, per assurdo, che questo nostro obbligo esista", prosegue Nordio. "Orbene, la disciplina dei naufraghi si applica a coloro che, in circostanze occasionali e impreviste si trovano in pericolo d vita. Ora è indubbio che i poveretti soccorsi in questi giorni versassero in pericolo. Alcuni, temiamo, saranno anche annegati. Ma è possibile affermare che queste navi tedesche battenti bandiere olandesi ( o viceversa), che incrociano a poche miglia dalla Libia e spesso sono in contatto con gli scafisti, è possibile, dicevo, sostenere che raccolgano “naufraghi”, o non piuttosto disgraziati cacciati in quella carrette secondo programmi elaborati da organizzazioni criminali? Ed è possibile che gli Stati di partenza, e anche quelli di bandiera delle navi, siano davvero ignari di questo traffico sciagurato? E allora da che parte sta la buona fede, che dovrebbe presiedere all’interpretazione e all’esecuzione dei trattati?". Nordio passa poi all'aspetto politico: "Il presidente Macron non ha nessun titolo per impartire lezioni di morale. Le vergogne di Calais e di Ventimiglia, dove i francesi hanno tenuto ammassati migliaia di migranti, fanno il paio con la macroscopica violazione della nostra sovranità con l’arrogante sconfinamento dei “gendarmes” a Bardonecchia. Ma la Francia non è l’unica. I primi a chiudere le frontiere sono stati i “progressisti” Stati baltici, la Svezia e la Danimarca. Poi la Gran Bretagna ha chiuso Dover, quindi tutta l’Europa dell’est ha sbarrato i confini, e l’Austria ha minacciato i carri armati al Brennero. L’Italia, ormai è quasi banale dirlo, è stata lasciata a sbrigarsela da sé". Dunque, conclude Nordio, "il nostro nuovo governo si sta comportando con coerenza e dignità. I migranti raccolti dall’Aquarius sono, e sarebbero stati comunque, assistiti: il ministro Salvini aveva anche proposto lo sbarco delle donne incinte e dei bambini. E’ comprensibile che l’Europa si rammarichi di aver perso il nostro universale centro di raccolta che la esonerava da tanti impegni umani e finanziari, ma deve farsene una ragione. E in effetti qualcosa si sta muovendo. Dopo una politica di remissività passiva, occasionalmente corretta dal ministro Minniti, alzare un po’ la voce non fa male". Insomma, la linea di Salvini promossa a pieni voti.

Ma il razzismo peggiore è quello dei buonisti, scrive Karen Rubin, Sabato 08/09/2018, su "Il Giornale". Esistono due forme di razzismo: manifesto, vecchio stile, carico di sentimenti ostili che impediscono qualsiasi forma di contatto con il migrante, e latente, più sottile, che si esprime in forme socialmente accettabili. Gli episodi di razzismo, dell'uno e dell'altro tipo, scaturiscono da un'ipotesi naïf per cui tunisini, ghanesi, siriani e nigeriani, a prescindere dalla loro singolarità e dallo status, di migranti o di rifugiati sarebbero tutti uguali: criminali alla ricerca di ricchezze facili o vittime miserabili in fuga dalla guerra e dalla povertà. Stereotipi che creano un pregiudizio da ambo le parti, avvalorato da una politica che oggettivizza il migrante come strumento per creare una contrapposizione ideologica tra presunti comunisti schierati con i deboli, e supposti fascisti odiatori dello straniero, categorie che non esistono più. Nel razzismo manifesto il migrante va rispedito al mittente, anche se il luogo da cui fugge è stato raso al suolo e imperversano guerre intestine. In quello latente il razzista dichiara solo quello che andrebbe fatto, accogliere tutti in nome dell'umanità e dell'uguaglianza tra i popoli e mai quello che realisticamente è possibile fare. L'intolleranza palese nasce quando chi accoglie ritiene insufficienti le risorse economiche e culturali finanche per se stesso, e alla luce di questa competizione ritiene legittimo difendere l'interesse del suo gruppo sociale. Il buonista convinto di combattere il razzismo lo alimenta, negando l'esistenza dei «buoni» da accogliere e dei «cattivi» da rispedire al mittente salva i secondi penalizzando e discriminando i primi. A livello conscio è egualitario ma inconsciamente è razzista perché nasconde un pregiudizio che trasforma ogni africano in un bisognoso del suo aiuto perché da solo, nel suo Paese mai progredirà. L'immigrato senza distinzioni d'identità sociale, culturale e nazionale, deve fuggire da casa sua e ritrovarsi in una baracca a Rosarno dove troverà un'accoglienza fatta di clandestinità, assenza di un lavoro dignitoso e di una casa in cui dormire perché anche l'Italia peggiore è migliore del Paese da cui proviene. In nome di questo pregiudizio all'immigrato e alle minoranze è perdonata l'illegalità. Lasciare che i rom trasformino i loro campi in zone franche dove tutto è possibile e nessuno può entrare non è egualitario, è razzista. Si autorizzano ghetti dove lo zingaro non ha doveri ma neanche pari diritti di sicurezza, e i ghetti generano razzismo. Il razzista latente è solidale al punto da non tollerare una giusta politica di regolamentazione dell'immigrazione, volta ad interrompere un traffico di esseri umani che frutta alle mafie mondiali 150 miliardi di dollari l'anno, di cui neanche uno andrà ai paesi africani che così perdono la loro forza lavoro e la loro gioventù e con loro la possibilità di un futuro.

Caso Salvini indagato: quando l’ipocrisia trapassa le nuvole e sfonda la cupola del cielo, scrive Enzo Sanna martedì 28 agosto 2018 su Agora Vox. Ci siamo arrivati! Il punto di non ritorno sembra essere stato raggiunto. Superfluo riassumere la nota vicenda della richiesta di messa sotto accusa di Salvini per i reati di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. La faccenda è arcinota. Chi ipotizzava (ed evocava) epocali cambiamenti a opera del governo grillino-leghista è servito. Chi già sapeva della truffa mediatica, o anche chi solo l’aveva intuita, oggi si può concedere un attimo d’ilarità, tanto amara, d’accordo, ma pur sempre accompagnata da una sonora risata liberatoria. Chi ha assistito al comizio di Salvini (andate a rivederlo in TV) a distanza di pochi minuti da quando gli è giunta notizia dell’operato della Magistratura nei suoi confronti, avrà colto in pieno il patema d’animo dell’uomo il quale, a caldo, forse non ancora istruito in merito dai suoi “consigliori”, sparava dal palco le solite trite e ritrite stupidaggini, ma ansimante, stordito, impaurito. E sì! Il “condottiero” se la stava facendo addosso. Altro che uomo forte, difensore degli italiani e dell’italianità, sfidante la magistratura; costui è apparso infine per ciò che è in realtà: un pallone gonfiato, un bulletto che cerca (e purtroppo trova) schiere di bulletti in giro per l’elettorato, gli stessi che gonfiarono di consensi prima Berlusconi, poi Renzi, poi Grillo e lui, Salvini. Vale per costoro, Berlusconi, Renzi, Salvini e Grillo (lasciamo al posto che meritano le mezze cartucce del M5S) ciò che potremmo definire il “paradosso del dirigibile”. Ai loro tempi, i dirigibili furono ammirati, invidiati, osannati, perfino venerati, sino a che una scintilla li trasformò un giorno in un inferno di fuoco, al pari dei loro inventori e realizzatori nazisti. Definire Salvini (o Grillo, o Renzi, o Berlusconi) un dirigibile può apparire esagerato. Però, fatte le dovute proporzioni, considerare l’attuale Matteo, al pari del suo omonimo predecessore e del mentore di entrambi, di nome Silvio, un palloncino gonfiato pronto a esplodere alla prima spina di rovo che incrocia il suo svolazzare, rende bene l’idea. Il paradosso è destinato a divenire paradigma? Passato il primo istante di confusione mentale procurata dalla paura, Salvini, di certo imboccato dal suo staff, si atteggia ora a vittima, avendo metabolizzato nel frattempo la assoluta certezza di trovarsi nella classica botte di ferro. Lui, povera vittima, fa parte degli impunibili, grazie ai suoi scudieri, alla sponda in Parlamento dei reduci berlusconiani e degli autodefinitisi Fratelli d’Italia, nonché (ve ne stupite?) dei grillini; per essere sintetici, dell’intero schieramento parafascista. I grillini mostrano finalmente al Paese il loro vero volto, quello degli imbroglioni; gli altri il volto che hanno sempre avuto. Martina, segretario del PD, accusa i grillini di servilismo nei confronti di Salvini, ma sbaglia; è qualcosa di molto peggio, è collusione. Toc toc… Provate a bussare alle porte del grillini “duri e puri”, quei forcaioli che si dicevano pronti a rivoltare la società in nome di una giustizia che in un tempo non troppo lontano somigliava tanto al giustizialismo. Dove sono finiti? Costoro, l’inconsistente Di Maio in testa, plaudono Salvini, gli assicurano salda l’immunità parlamentare, al pari degli altri fascistoidi in Parlamento, dai Fratelli d’Italia ai reduci berlusconiani in una sorta di “brodo primordiale” andato a male, del quale i putridi effluvi iniziano a permeare la società intera. Salvini godrà dell’immunità, dunque continuerà a fare e a disfare non solo su faccende riguardanti il Ministero al quale è stato nominato, ma scantonando ben oltre, dato che il presunto Presidente del Consiglio, tale Conte Giuseppe, latita, ben felice di dormire sonni tranquilli, tanto per lui non c’è problema. L’indimenticabile Fortebraccio, il corsivista dell’Unità quando il giornale era ancora di sinistra, avrebbe descritto così il Presidente Giuseppe Conte all’atto di apparire nella sala del Consiglio dei Ministri: “La porta si aprì. Non entrò nessuno. Era il Presidente Conte.” L’ultima “stellare” ipocrisia sulla vicenda si consuma nella dichiarazione di Salvini di rinuncia all’immunità parlamentare, ben sapendo che il cosiddetto “Tribunale dei Ministri” se ne può infischiare (?) dei suoi propositi falsamente dichiarati, della serie, prendiamo ancora per i fondelli gli italiani, tanto sono assuefatti alla vasellina. A tanto siamo ridotti! L’ipocrisia grillo-leghista ha raggiunto livelli “celesti” che neppure i ciechi mentali potranno ignorare di aver visto. A tal punto non è fuori tema rivolgerci la seguente domanda: in questo contesto, che fine ha fatto la sinistra, quella vera? Chissà! Ci dovremo affidare alla trasmissione RAI “Chi l’ha visto”, oppure qualcuno individuerà una sponda sulla quale approdare iniziando a mettere a dimora le semenze di una nuova cultura progressista, solidaristica, umanistica e socialista?

Si riporta il post sulla pagina facebook dell'avv. Franz Pesare di Sava dell'8 settembre 2018. Dunque, Salvini è indagato per il reato di cui all'art.289 ter cp. Se tale ipotesi non fosse stata contemplata nel nostro codice, non sarebbe stato messo sotto accusa. Sapete quando questo articolo è' stato introdotto nel nostro codice penale? Esattamente con D.L.vo. Del 1 marzo 2018 n.21. Pensate, è stata introdotta questa ipotesi di reato dal governo di sinistra esattamente tre giorni prima delle elezioni del 4 marzo. Tecnicamente si dice "in articulo mortis", cioè legiferato da un governo che aveva terminato il suo mandato, deputato a svolgere solo atti di ordinaria amministrazione, essendo il paese in attesa di nuove elezioni. Ed invece ecco l'art.2 comma 1 lett.a) del D.L.vo 1 marzo 2018 n.21. E' lecito dubitare che sia stato fatto apposta dalla sinistra, consapevole della ascesa di Salvini allo scopo di distruggerlo attraverso la magistratura?

Cosa dice l'articolo 289-ter, che sembra scritto apposta per la vicenda della nave Diciotti. La legge sul "sequestro di persona a scopo di coazione". In ogni caso una soluzione giudiziaria per un problema politico può creare più problemi di quanti ne risolva, scrive Massimo Bordin il 24 Agosto 2018 su Il Foglio. Lo scorso 22 marzo la Gazzetta Ufficiale ha pubblicato, conferendogli esecutività, un nuovo articolo del codice penale che si attaglia perfettamente alla vicenda della nave Diciotti. Il nuovo articolo del codice è frutto, insieme ad altri, della riforma complessiva della giustizia varata, solo in parte come è noto, dal ministro Andrea Orlando. Si tratta dell’articolo 289-ter, che riguarda il “sequestro di persona a scopo di coazione” e punisce con la reclusione da 25 a 30 anni “chiunque, fuori dai casi indicati dagli articoli 289 bis [sequestro per terrorismo o eversione NdR] e 630 [sequestro a scopo di rapina o estorsione] sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di costringere un terzo [di questo si tratta NdR] sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale fra più governi [per esempio la UE NdR], una persona fisica o giuridica o una collettività di persone fisiche a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione”. Il nuovo articolo indubbiamente descrive la situazione creatasi con la nave Diciotti secondo una interpretazione non solo avallata ma addirittura rivendicata dal ministro Salvini. Resta da capire però se dal punto di vista tecnico possa configurarsi l’abuso d’ufficio, necessariamente preliminare al sequestro di fatto dei naufraghi, in assenza, a quanto pare, di atti formali, sostituiti da proclami dal balcone dei social. Fermo restando che in ogni caso una soluzione giudiziaria per un problema politico può creare più problemi di quanti ne risolva, come l’esperienza insegna.

Anche Salvini ha diritto di dire la sua sui magistrati. Pretendere il silenzio sul proprio operato è pretesa da "casta". Ma una breve esperienza carceraria potrebbe essere utile anche al ministro dell'Interno, scrive Massimo Bordin il 29 Agosto 2018 su "Il Foglio". Nessuno, neanche un ministro, può dirci cosa fare e come. Questo, in sintesi, era fra l’altro messo nero su bianco nel comunicato emesso alla fine della scorsa settimana dalla giunta esecutiva della Anm in risposta alle polemiche sulla indagine aperta ad Agrigento sul ministro degli Interni. La necessità di farsi sentire da parte della associazione dei magistrati può essere comprensibile, molto meno questo passaggio assai discutibile. In realtà, in democrazia, tutti, altro che nessuno, hanno il diritto di dire la loro su come la giustizia viene amministrata. Se mai, gli unici ad astenersi dall’intervenire nel dibattito pubblico dovrebbero essere proprio i magistrati, almeno quelli direttamente impegnati nella vicenda oggetto di dibattito. Considerati i tempi quest’ultima considerazione viene però tranquillamente considerata una petizione di principio, e dunque lasciamola cadere, ma sul controllo democratico della magistratura da parte dell’informazione e dell’opinione pubblica è bene non transigere. Naturalmente i commenti, di diversa autorevolezza, com’è inevitabile, devono tenere conto del codice penale. Per essere chiari: un’espressione come “occhio, che vi veniamo a prendere sotto casa”, messa su un social da un parlamentare leghista, è inammissibile e sanzionabile in ogni caso, al di là del suo oggetto. Pretendere il silenzio, soprattutto di chi non è ministro, sul proprio operato, converranno le eccellenze togate, è pretesa propriamente definibile di “casta”. Chiarito questo, qui si pensa che una – breve – esperienza carceraria potrebbe aiutare il ministro Salvini a comprendere la necessità della riforma del settore.

Il deputato leghista minaccia i magistrati: "Toccate Salvini e vi veniamo a prendere, occhio", scrive il 23 agosto 2018 "L'Espresso". Un messaggio shock rivolto ai magistrati: una minaccia per nulla velata. È quella lanciata dal deputato e segretario della Lega in Abruzzo Giuseppe Bellachioma su Facebook. Condividendo un messaggio di Matteo Salvini sull'indagine contro ignoti aperta per il caso della Diciotti, Bellachioma ha aggiunto: "Messaggio da parte della Lega Abruzzo: se toccate il Capitano vi veniamo a prendere sotto casa...occhio!!!"

Salvini indagato per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. «Non ci fermeranno, vergogna». Le ipotesi di reato contestate anche al capo di gabinetto del ministero dell’Interno, scrive Rinaldo Frignani il 25 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". Matteo Salvini e il suo capo di gabinetto al Viminale Matteo Piantedosi indagati per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. La decisione è stata presa ieri sera dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio al termine di una giornata cominciata con gli interrogatori a piazzale Clodio di due funzionari del ministero dell’Interno sulla catena di comando che ha portato al divieto di sbarco prima a Lampedusa e poi a Catania dei 177 migranti soccorsi dalla nave Diciotti della Guardia costiera. Gli atti dell’inchiesta sono stati trasmessi per competenza distrettuale alla procura di Palermo che li inoltrerà al Tribunale dei ministri della stessa città. Che a questo punto deciderà chi sentire e quando, mentre «ogni eventuale negativa valutazione delle condotte» di Salvini — spiega Patronaggio — dovrà essere sottoposta all’autorizzazione del Senato (il responsabile del Viminale e vice presidente del Consiglio è infatti un senatore della Lega). «È una vergogna, non mi fermeranno», la reazione a caldo del leader del Carroccio.

La svolta nelle indagini. La svolta nelle indagini è arrivata dopo l’audizione durata tre ore come persone informate sui fatti dei prefetti Gerarda Pantalone e Bruno Corda, rispettivamente capo e vice del Dipartimento libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno. L’ufficio che in caso d’emergenza deve scegliere il porto sicuro per le imbarcazioni italiane, mercantili o militari, sul territorio nazionale. Dall’interrogatorio è emerso che i due funzionari — in particolare Corda visto che il suo superiore era in ferie — avrebbero ricevuto disposizioni dal capo di gabinetto del Viminale in contatto diretto con il ministro. Ma davanti ai pm siciliani in trasferta nella Capitale Pantalone e Corda avrebbero anche confermato che Catania non è stato il «porto sicuro» della Diciotti. È stato solo un approdo tecnico, almeno fino a ieri sera. Insomma la nave della Guardia costiera non era tecnicamente ancora arrivata a destinazione. Per questo motivo i migranti a bordo non sono stati fatti sbarcare, ma è stata assicurata assistenza e solo accoglienza a situazioni particolari.

«Chi ha vietato lo sbarco?». I magistrati, che hanno ascoltato anche funzionari del ministero dei Trasporti e personale militare della Guardia costiera per ricostruire quanto accaduto negli ultimi dieci giorni, hanno chiesto a Pantalone e Corda chi ha vietato lo sbarco e se loro stessi sono stati coscienti che in quel modo si sarebbero potuti configurare dei reati. I prefetti avrebbero risposto di essersi attenuti alle disposizioni dei superiori e di aver agito secondo i regolamenti, anche se per giorni il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha ripetuto pubblicamente che era suo l’ordine di non far scendere i migranti in attesa di un impegno dell’Europa sulla loro redistribuzione.

Lo «scalo tecnico». La procedura operativa che regola la catena di comando in situazioni d’emergenza in acque italiane è quella del 2005, con il Centro nazionale di controllo — struttura interforze riunita nella Sala Iavarone del Polo Tuscolano, a Roma — che incarica il Dipartimento di individuare un porto sicuro per lo sbarco dei migranti. In questo caso decisivo sarebbe stato l’intervento del ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, che ha autorizzato l’attracco a Catania della nave della Guardia costiera. Per il Viminale però si è trattato solo di uno «scalo tecnico» durante il quale, proprio come è successo a bordo, nessuno dei 177 è stato identificato. Una procedura che ha lasciato aperta per qualche giorno la possibilità di invocare l’aiuto dei Paesi europei perché in caso contrario, come prevede il Regolamento di Dublino, i migranti sarebbero dovuti restare tutti in Italia.

Diciotti, Antonio Socci il 9 Settembre 2018 su "Libero Quotidiano": inchiesta a senso unico, l'Europa diceva di arrestare i clandestini. Avvengono cose strane. Matteo Salvini è indagato per aver impedito, per qualche giorno, lo sbarco a terra dei migranti della Diciotti, trattenuti a bordo in attesa di ottenere ricollocamenti nei Paesi Ue come (a parole) stabiliscono gli accordi. La Ue - si sa - ha risposto picche all' Italia dicendo: affari vostri, ce ne infischiamo. Tuttavia, dopo che quei migranti sono sbarcati in Italia e dal centro di Rocca di Papa si sono resi irreperibili (forse diretti in Germania o Francia), la portavoce della Commissione Ue per l'immigrazione, Tove Ernst, ha tuonato che essi «potevano essere trattenuti in centri di detenzione per evitarne la fuga. Siamo stati chiari» ha aggiunto «nel sottolineare che, quando serve, la detenzione può essere utilizzata per facilitare l'identificazione dei migranti e per impedire che spariscano. Abbiamo chiesto a tutti gli Stati membri, inclusa l'Italia, di fornire centri di accoglienza adeguati, che comprendano la detenzione». Non so se la magistratura un giorno indagherà anche la Commissione Europea, nel caso in cui venga eseguita questa direttiva Ue. Però da tutto questo quadro si deduce che il governo italiano non può trattenere i migranti sulla nave se vogliono sbarcare in Italia, ma dovrebbe mettere quegli stessi migranti in centri di detenzione per impedire loro andarsene in altri paesi europei. Tuttavia così potrà finire di nuovo sotto indagine della magistratura. Non è contraddittorio? E non vi pare che il governo italiano si trovi con le mani legate? Che fine fa il mandato ricevuto dagli elettori sull' immigrazione? E il programma di governo? È evidente che c' è una colossale questione politica, non giudiziaria, e sbaglia l'esecutivo M5S-Lega a non affrontarla come tale scaricando tutto sul «Salvini indagato». Infatti Salvini è indagato, ma non ha agito per la Diciotti come privato cittadino, bensì come ministro. Tutto il governo, con lui, ha deciso, condiviso e sostenuto quella linea. Ieri il vicepremier grillino di Maio ha dichiarato: «Abbiamo preso una decisione politica tutti quanti assieme sulla nave Diciotti e la portiamo avanti tutti quanti assieme». Ma allora perché non è indagato tutto il governo? E perché il governo nel suo insieme non si schiera apertamente e incondizionatamente col ministro dell'Interno, assumendosi tutta la responsabilità politica dei propri atti? L' esecutivo è stato davvero compatto sulla Diciotti. Una linea collegiale e ufficiale vigorosamente affermata da Conte e Di Maio, con Salvini.

«BATTETE UN COLPO!» - Il 22 agosto il premier Conte dichiarava polemicamente: «Ma l'Europa vuole battere un colpo? Le istituzioni europee, che pure su mia sollecitazione avevano accolto l'idea di una cabina di regia, cosa aspettano a intervenire per operare la redistribuzione dei migranti che sono a bordo della nave italiana Diciotti, ancorata nel porto di Catania? Ancora una volta l'Italia sta mostrando il suo volto umanitario, ma il prezzo non può essere il rimanere abbandonata a se stessa». Il 24 agosto commentava così la fallimentare riunione della Commissione europea: «L' Italia è costretta a prendere atto che l'Europa oggi ha perso una buona occasione: in materia di immigrazione non è riuscita a battere un colpo in direzione dei princìpi di solidarietà e di responsabilità che pure vengono costantemente declamati quali valori fondamentali dell'ordinamento europeo».

CONSEGUENZE ECONOMICHE - Poi spiegava: «Non è stato dato alcun seguito alle Conclusioni deliberate nel corso dell'ultimo Consiglio Europeo di fine giugno Eppure è noto a tutti che l'Italia sta gestendo da giorni, con la nave Diciotti, una emergenza dai risvolti molto complessi e delicati. Ancora una volta misuriamo la discrasia, che trascolora in ipocrisia, tra parole e fatti». Infine il premier lanciava il guanto di sfida: «Se questi sono i "fatti" vorrà dire che l'Italia ne trarrà le conseguenze». E il giorno dopo, il 25 agosto, dettagliava tali conseguenze del caso Diciotti: «Siamo al lavoro per porre una riserva all' adesione dell'Italia al piano finanziario pluriennale in corso di discussione. A queste condizioni, l'Italia non ritiene possibile esprimere adesione a un bilancio di previsione che sottende una politica così incoerente sul piano sociale». Il vicepremier Di Maio era ancora più esplicito e dirompente: «A questo punto l'Italia deve prendersi in maniera unilaterale una riparazione. Non abbiamo più intenzione di farci mettere i piedi in testa. L' Unione Europea non vuole ottemperare ai principi concordarti nell' ultimo consiglio europeo? Noi siamo pronti a tagliare i fondi che diamo all' Ue. Vogliono 20 miliardi dei cittadini italiani? Dimostrino di meritarseli e si prendano carico di un problema che non possiamo più affrontare da soli. I confini dell'Italia sono i confini dell'Europa. Agli italiani non chiederemo un centesimo di più. Lo dico da capo politico del M5s: visto che la Ue non rispetta i patti e non adempie ai suoi doveri noi come forza politica non siamo più disposti a dargli i 20 miliardi all' anno che pretendono».

TUTTI PER UNO... - L' Italia - come sappiamo - ha dovuto risolvere il caso Diciotti senza la Ue (grazie alla collaborazione di Albania, Irlanda e Cei) e il governo ha gestito compattamente questa soluzione. C' è un video del 26 agosto in cui Luigi di Maio spiega bene questa linea condivisa: «In questi giorni non è mancata la compattezza del governo. Devo ringraziare il ministro degli Esteri Moavero e il presidente del Consiglio Conte, perché abbiamo fatto un gioco di squadra. Un gioco di squadra che sarà molto importante anche sugli altri tavoli delle altre emergenze che abbiamo in Italia». Poi ha ripreso: «Quando in questi giorni ho sempre ripetuto che il governo era compatto prima di tutto (l'ho detto) perché era vero, cioè eravamo compatti sulla linea da tenere: redistribuire i migranti. E ci siamo riusciti in pochi giorni ed è solo questo il motivo per cui la Diciotti non ha fatto sbarcare subito i migranti a bordo».

...UNO PER TUTTI Di Maio ha aggiunto: «Ho ripetuto che questo governo era compatto anche perché bisognava contrattare con altri Paesi e un governo compatto quando contratta con altri Paesi ottiene risultati, quando invece è diviso gli altri Paesi non sanno nemmeno con quale ministro parlare. Ve lo ripeto: il governo è stato ed è compatto sulle decisioni che abbiamo preso. Ci assumiamo tutte le responsabilità sugli atti che abbiamo portato avanti in questi giorni sulla Diciotti». Conclusione? Il solo ministro Salvini è indagato, mentre il governo resta silente. Dov' è quella assunzione di responsabilità collegiale? Il governo avrebbe dovuto dire: solidarietà a Salvini, indagateci in quanto governo. Invece nulla. Anzi ora Di Maio dichiara: «Ci vuole rispetto per la magistratura». Certo, va rispettata la magistratura, ma vanno rispettati tutti. Anche gli italiani. E pure il buon senso. Possibile che venga indagato un ministro per una decisione collegiale del governo e il presidente del Consiglio non abbia nulla da dichiarare?

CARTA CANTA - Eppure l'articolo 95 della Costituzione recita: «Il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri». Perché Conte non si assume la responsabilità politica, come governo, della vicenda Diciotti? Se un esecutivo, nella sua collegialità, non è capace di rivendicare e difendere le sue prerogative e le sue scelte politiche è destinato a fallire, a deludere presto gli elettori e ad avere vita breve. Perché è un vaso di coccio tra vasi di ferro. Post scriptum: Conte dovrebbe anche dirci se il minacciato taglio di fondi alla Ue sarà fatto, visto che la Ue ha risposto picche ai ricollocamenti, oppure se erano solo parole. Antonio Socci

Il pm "complice" di Salvini: doveva liberare i migranti. Il procuratore Patronaggio che indaga per sequestro salì sulla Diciotti: per legge aveva l'obbligo di intervenire, scrive Luca Fazzo, Lunedì 10/09/2018, su "Il Giornale". Se i profughi che viaggiavano a bordo della nave Diciotti sono stati vittime di un sequestro di persona, come sostengono le Procure di Agrigento e di Palermo, come è possibile che a risponderne debba essere solo il ministro dell'Interno Matteo Salvini? Chi si è limitato a eseguire gli ordini del Viminale non può essere incriminato, e per questo anche il capo di gabinetto del ministero Matteo Piantedosi, inizialmente iscritto tra gli indagati, è rapidamente uscito di scena. Ma c'è almeno una figura che ha svolto un ruolo cruciale nella vicenda, e che non faceva parte della linea di comando degli Interni: il problema è che si tratta di Luigi Patronaggio, il procuratore della Repubblica di Agrigento, che dell'indagine contro Salvini è stato in queste settimane il protagonista, prima di trasmettere il fascicolo a Palermo. Uno scenario paradossale, quello della incriminazione di Patronaggio, ma che ad una lettura asettica delle norme del codice parrebbe difficilmente evitabile. Ovviamente non accadrà, ma questo rende ancora più marchiane le incongruenze della trasformazione di un caso politico e istituzionale in faccenda da codice penale. L'interrogativo incombe sul caso fin dalle ore drammatiche del 22 agosto, quando Patronaggio sale personalmente a bordo della nave della guardia costiera, ormeggiata a Catania. Cosa accade, quel giorno? Patronaggio compie una accurata ispezione della nave, parla con gli ufficiali e con i profughi, visita i malati, insomma si rende conto perfettamente della situazione. Che un sequestro di persona sia in corso, d'altronde, per il procuratore è già chiaro, tant'è vero che ha aperto nei giorni precedenti un fascicolo a carico di ignoti per questo reato oltre che per arresto illegittimo. La visita a bordo non farà che rafforzarlo nelle sue convinzioni, e lo spingerà tre giorni dopo a recarsi al ministero dell'Interno per interrogare alcuni funzionari, e a incriminare subito dopo Salvini e Piantedosi. Eppure quel 22 agosto, compiuta l'ispezione a bordo, Patronaggio lascia la nave senza fare nulla perché la drammatica situazione cessi immediatamente. Poteva intervenire? Per legge sì, anzi ne aveva il dovere. Basta leggere l'articolo 55 del codice di procedura penale: «La polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati e impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori». Si potrebbe obiettare: fatti della polizia, Patronaggio non c'entra. Ma l'articolo successivo stabilisce chiaramente che «le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte alla dipendenza e sotto la direzione dell'autorità giudiziaria». La polizia, insomma, non è altro che il braccio operativo della magistratura: in quel momento, la pg opera insieme a Patronaggio, ne esegue gli ordini, e infatti lo accompagna sulla nave. Se a bordo della Diciotti era in corso un sequestro, Patronaggio aveva l'obbligo di farlo cessare immediatamente. E poiché non lo ha fatto, sul suo comportamento incombe un altro articolo - anch'esso assai chiaro - del codice: «Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Nel momento in cui, dopo avere visto con i suoi occhi cosa accadeva sulla nave, se n'è tornato tranquillamente ad Agrigento, Patronaggio per la legge si è reso complice di Salvini. Se i migranti erano in ostaggio, il procuratore ha permesso che per altri tre giorni, fino allo sbarco del 25 agosto, restassero illegalmente a bordo della nave: con conseguenze potenzialmente drammatiche, visto lo stato di salute (a detta dello stesso Patronaggio) di molti di loro. I pm di Palermo, insomma, potrebbero in teoria incriminare il loro illustre collega: ma non lo faranno mai, anche perché in quel caso dovrebbero mandare l'intera inchiesta a Caltanissetta.

Matteo Salvini rivela lo scandalo: "Immigrazione, guardate cosa sostiene Magistratura Democratica", scrive il 9 Settembre 2018 "Libero Quotidiano". La battaglia di Matteo Salvini con i giudici che lo assediano, o parte di essi, prosegue sui social. Già, perché il ministro dell'Interno mette in luce qualcosa di quantomeno anomalo: Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, infatti sostiene una campagna pro-immigrazione spalleggiata, tra gli altri, da Potere al Popolo, Ong, Cgil, Arci, Rifondazione comunista e diverse coop (tra le quali il centro Baobab Experience dove si erano rifugiati alcuni dei migranti fuggiti dopo lo sbarco dalla Diciotti). Il fatto che MD sostenga la campagna è ben evidente dallo screenshot postato da Salvini su Facebook, in calce al quale ha aggiunto: "Poi quello accusato di ledere l'autonomia dei magistrati sono io...".

"Dai pm campagne pro-migranti". ​Salvini inchioda le toghe rosse. Il ministro dell'Interno riapre lo scontro: "Magistratura Democratica sposa la campagna pro-immigrazione con le Ong", scrive Giuseppe De Lorenzo, Domenica 09/09/2018, su "Il Giornale". Due giorni fa l’affondo, ieri i toni più pacati e oggi di nuovo all’attacco. Lo scontro tra Salvini e la magistratura non si è chiuso con le parole concilianti di ieri. Anzi. Riprende con la classica intensità, solo senza più sparare nel mucchio: “Se un tassista ti frega, non vuole dire che tutti ti fregano", è il ragionamento. Il leghista conferma di non vedere "golpe giudiziari”, ma critica “l’ipocrisia” di quella fetta di magistratura che da sempre ha “simpatie di sinistra”. E lo fa scoperchiando un retroscena su Magistratura Democratica. Il suo day after la retromarcia sulla giustizia, il leghista lo fa partire con un'intervista radiofonica a 'L'Indignato speciale' su Rtl 102,5. Il tema è sempre quello dell’indagine aperta a suo carico sul caso Diciotti. Salvini non si capacita di come sia possibile che le toghe siano tanto interessate da quanto successo al porto di Catania mentre non concentrino altrove le loro energie e le limitate risorse. "Non tutti i reati sono uguali - dice il "presunto imputato” - ci sono reati più gravi e reati meno gravi e dovrebbe esserci la responsabilità in una scaletta di gravità di reati". L’idea potrebbe essere quella di mettere mano ad una riforma della giustizia (M5S permettendo), rivedendo “l’ipocrisia” dell’istituto dell’obbligatorietà dell’azione penale. E costringendo così i pubblici ministeri a selezionare i fascicoli da aprire in base ad un ordine di importanza. “Lo proporrò”, spiega uno scettico vicepremier. "Ma sai che cosa mi diranno? Che la politica vuole mettere le mani sulla giustizia, che il governo fascista di Salvini vuole dare indicazioni ai giudici che invece sono un potere terzo libero e indipendente, sovrano eccetera eccetera". La posizione del leghista paga per ora l’accordo di governo con i Cinque Stelle. Il ministro può criticare le toghe, certo. Ma senza esagerare. Ieri Di Maio lo avrebbe convinto a non calcare troppo la mano: il timore è quello di irritare l’ala movimentista che già guarda al duro e puro Fico come al nuovo faro verso uno sbilanciamento a sinistra. Entrambi i vicepremier puntano a stare al governo il più a lungo possibile, ma occorre evitare frizioni. Meglio non sparare nel mucchio dei pm o si rischia di far scattare la reazione dei magistrati considerati sacri dal M5S. Se succedesse, tra moglie e marito potrebbe inserirsi il Pd, che alla festa dell’Unità non ha mancato di coprire d’applausi il presidente della Camera. Questo, però, non impedisce a Salvini di mettere nel mirino una parte del mondo togato. “Per carità di Dio io non ce l’ho coi giudici”, spiega pacato il ministro. “Ma che ci sia qualche magistrato con chiare e evidenti simpatie politiche non svelo il mistero di Fatima". E su Facebook spiega con più precisione a chi sta pensando: “’Magistratura Democratica’ - scrive pubblicando uno screenshot - sposa la campagna pro-immigrazione insieme, tra gli altri, a: Potere al Popolo, ONG, Cgil, Arci, Rifondazione Comunista e coop varie (compresa la “Baobab Experience” dove si erano rifugiati gli sbarcati della Diciotti). Poi quello accusato di ledere l’autonomia dei magistrati sono io...”. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Diciotti, fuggiti tutti i migranti. La grande figuraccia buonista. Matteo Salvini aveva avvertito: "Sono in fuga dalla legge". In 53 sono scappati da Rocca di Papa, altri 17 dalle Diocesi, scrive Claudio Cartaldo, Martedì 11/09/2018 Il Giornale. Sono arrivati e già non ci sono più. I migranti della Diciotti, quegli “scheletrini” tenuti a bordo della nave della Guardia costiera italiana per qualche giorno da Salvini, a Rocca di Papa già non ci sono più. Dopo le proteste di fine agosto, infatti, nelle strutture della Cei al "Mondo Migliore" dei cento eritrei non è rimasto più nessuno. Al centro restano, scrive il Messaggero, solo gli ospiti non eritrei. Gli altri sono finiti nelle diocesi italiane e molti sono fuggiti. Scomparsi nel nulla. Come noto, alcuni di loro, circa 34, sono stati visti e riconosciuti dalla polizia italiana a Ventimiglia. Sono arrivati al confine su un bus affittato dalla Baobab, l’associazione dove si erano rifugiati 16 dei migranti fuggiti dopo lo sbarco della Diciotti. La destinazione finale era il Campo Roja gestito dalla Croce Rossa, uno dei punti da cui tanti passano e poi tentano la traversata verso la Francia. A conti fatti, dei circa 100 migranti accolti dalla Chiesa, solo in pochi hanno accettato l’ospitalità della Cei. In 53 se ne erano andati via da Rocca di Papa, 17 sono fuggiti dalle varie diocesi. Cifra parziale. Significa qualcosa come 70 stranieri su 100 scomparsi nel nulla nonostante le polemiche, la fame, i pericoli che corrono. Praticamente tutti quelli a bordo della Diciotti, se si escludono i 4 scafisti, i 27 minori fatti sbarcare qualche giorno prima, i 40 ospitati da Albania e Irlanda e le persone in difficoltà scese dalla nave quando ancora si trovava a Lampedusa. Salvini aveva avvertito che sarebbe successo: "Sono in fuga dalla legge", spiegava. Aveva denunciato il primo fuggi fuggi e la Digos aveva cercato di rintracciarne alcuni. Ma per ora la norma dice che di giorno sono liberi di circolare, dunque non si può far nulla. Se non constatare la grande figuraccia dei buonisti.

Diciotti, gli immigrati fuggiti? A Roma nel regno della criminalità organizzata, scrive il 9 Settembre 2018 Stefano Re su "Libero Quotidiano". Acqua, fuocherello, fuocone… Qual è il porto sicuro in cui si sono rifugiati gli scheletrini della Diciotti? A Roma in zona stazione Termini, come ha notato Il Messaggero, “nel quadrilatero tra via Goito, via del Macao, via Cernaia e via Castelfidardo”. Ma qui ci troviamo nel cuore istituzionale del nostro paese, zeppo di obiettivi golosi per qualsiasi terrorista: le ambasciate di Russia, Inghilterra, Turchia, Germania, Giappone e quella di Francia presso la S. Sede. Poi il CSM, la Cassa Depositi e Prestiti, il ministero dell’Economia, l’ENAC (sicurezza dei voli), la redazione romana del Sole24Ore. Poco più in là: ambasciata USA, Viminale, ministero della Difesa e Quirinale. Non dovrebbe esserci un forte presidio dello Stato? Macché. Proprio qui, tra via Curtatone e piazza Indipendenza, fino all’anno scorso erano installati abusivamente oltre 900 clandestini, tra cui scafisti che squartavano i migranti se non pagavano la “tariffa”, per poi rivendersi gli organi. Lo ha stabilito il recente processo siciliano Glauco 3, che ha distribuito condanne per oltre 140 anni. Dietro l’angolo, in via Goito, lo scorso giugno la Guardia di Finanza ha arrestato un avvocato, accusato di essere vicino alle cosche calabresi. Gli hanno sequestrato 17 milioni di Euro, pronti – secondo gli inquirenti – ad essere riciclati all’estero dopo essere stati truffati alle banche con l’aiuto di un ex sindaco pd dell‘Aspromonte. I residenti della zona riferiscono di intimidazioni e minacce, ma soprattutto di continui abusi (risse, spaccio, schiamazzi fino all‘alba) da parte degli inquilini africani. A via Goito infatti l‘avvocato reggino possiede appartamenti e locali (ora sequestrati) con assidua frequentazione di somali ed eritrei. Ne è gestore, secondo i registri delle imprese, il proprietario di un vicino ristorante etnico, presente anche negli organi societari della Lagote & Khf SNC, che ha sede in via Castelfidardo 32. Ma l’indirizzo è fittizio: qui da anni c`è solo un fondaco in rovina. E alcuni nomi della Lagote tornano nella Liberty International Business & Marketing, già attiva a Panama con fiduciari che risultano essere al centro dello scandalo Panama Papers, che rivelò una rete mondiale di riciclaggio ed evasione fiscale. E il terrorismo, direte voi? Dalle carte della Liberty International spunta anche Sua Eccellenza Ali Mohammad Al Shorafa, già Gran Ciambellano degli Emirati Arabi Uniti e oggi presidente della United Eastern Group, potente conglomerato finanziario-industriale degli Emirati. Secondo il sito wealthx.com, Al Shorafa possiede un patrimonio personale di circa 2 miliardi di dollari. Il suo nome appare nel megacrack della banca BCCI, accusata di finanziare Abu Nidal e il cartello di Medellìn. E in via Volturno, secondo la Procura di Roma, aveva una base Osman Hussain, uno dei responsabili dell‘attentato terroristico di Londra del 7 luglio 2005, che fece 56 morti e 700 feriti, per il quale Hussain è stato condannato in Inghilterra a 40 anni di carcere. Per anni, tutto in via Goito è andato avanti sotto gli occhi di polizia locale, Carabinieri (piazza Indipendenza), DIA (via Sicilia, cinque minuti a piedi) e militari (di guardia alle ambasciate). Il cronista giudiziario di un quotidiano romano confessa sotto anonimato: “I grandi giornali non scrivono volentieri della ‘ndrangheta. È un’agenzia utile a tutti. A volte, anche ai grandi imprenditori”. In zona ci sono anche Save the Children (via Volturno, davanti alla centrale degli scafisti squartatori) e Medici Senza Frontiere (via Magenta).

Chi è il pm Patronaggio. Le sue parole sui migranti: «persone, non nemici». Il magistrato volato a Roma per indagare al Viminale fra gli uffici del ministro Salvini, indagò sugli assassini di Don Puglisi e chiese la condanna di Dell’Utri, scrive Felice Cavallaro il 25 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". Sempre in lotta con il vento per il suo ciuffo scapigliato, 60 anni celati da un fisico asciutto, le giacchette strette, funzionario delle Poste nella prima vita, Luigi Patronaggio, il magistrato volato a Roma per indagare al Viminale fra gli uffici del ministro Salvini, ad Agrigento lo scrutano in tanti con timorosa diffidenza come il procuratore che non guarda in faccia nessuno. E se ne sono accorti in tanti negli ultimi tempi per l’attenzione che la sua procura accende su appalti e pubblica amministrazione. L’ultimo ciclone giudiziario su un calderone di sospette raccomandazioni legate al pianeta di Girgenti Acque ha travolto perfino la carriera del prefetto Nicola Diomede, costretto a lasciare l’incarico. È la storia di un presunto giro di relazioni fra i potenti indicati da Patronaggio, compreso il padre del ministro Alfano. Così, il temuto procuratore è la seconda volta che in poco tempo si confronta in qualche modo con inquilini del Viminale. Ai tempi di Falcone e Borsellino, che fece in tempo a conoscere definendoli «amici dell’ultima ora», indagò, subito dopo le stragi, anche su Rino Nicolosi, il presidente della Regione poi morto di cancro. Di potenti ne ha incrociati tanti. Da Dell’Utri a Mori. Chiedendo da sostituto procuratore generale di Palermo la condanna per il co-fondatore di Forza Italia quando poi scappò in Libano per una incomprensione con il tribunale della libertà che non dispose l’arresto. Ed inquisendo il generale assolto per la mancata perquisizione della villa covo di Riina, (seppure recentemente condannato per la «trattativa Stato mafia»). Grandi processi nei quali Patronaggio ha continuato a mantenere un certo distacco professionale, senza mai lasciarsi tentare da avventure come quelle che hanno portato suoi colleghi in salti acrobatici verso la politica. Padre di tre figli, a 38 anni, nel 1996 dopo avere indagato sugli assassini di Padre Puglisi, minacciato dalla mafia, decise di lasciare la procura di Palermo. Qualcuno insinuò una polemica contro l’allora procuratore Giancarlo Caselli. Equivoco soffocato immediatamente dallo stesso Patronaggio che definì il procuratore arrivato da Torino come il migliore in assoluto. Ad Agrigento era già arrivato negli anni Novanta come capo dell’ufficio dei gip. Occupandosi di tanti processi di mafia. Il resto della carriera fra Mistretta, Trapani, Palermo. Infine il ritorno nella città dei Templi accompagnato per l’insediamento dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, pronto a tesserne le lodi. E lui a ringraziare ribadendo la sua idea di giustizia. Così come ha fatto all’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario quando ha in fondo indicato la strada che sta adesso ripercorrendo con l’ispezione sulla Diciotti e gli interrogatori al Viminale. Spiegando che «in un’area di frontiera come Agrigento, e quindi Lampedusa, bisogna fare i conti con il fenomeno dei migranti tenendo conto che si tratta di persone costrette a lasciare con dolore terra e affetti, a fuggire da guerra e miseria». Una ragione in più «per non considerarli nemici». Posizione gradita a tanti ambienti, a cominciare dal cardinale di Agrigento, Don Franco, presidente della Caritas italiana. Forse un po’ meno da chi oggi Patronaggio chiama a verbalizzare sull’ipotesi del sequestro di persona.

Diciotti, Salvini: "Mi arrestino pure, ne sono fiero". Lascia il presidente dell'Aifa: "La salute va garantita". Il ministro dell'Interno, sotto inchiesta per il caso Diciotti, va all'attacco dei pm: "Stanno sprecando denaro pubblico. La giustizia va riformata. Fuori le correnti dalle aule". L'Anm: "Interferisce sulle indagini". Si dimette il presidente dell'Agenzia del farmaco: "La salute deve essere garantita, da medico non posso tollerare come sono state trattate queste persone". La Cei ospiterà un centinaio di profughi. Altri in Albania e Irlanda. Il leader leghista e il premier Conte minacciano veto su bilancio Ue. Imbarazzo 5Stelle, scrive il 25 agosto 2018 "La Repubblica". Un attacco durissimo contro i magistrati. "Indagano un ministro che difende i confini di questo Paese, è una vergogna". Matteo Salvini - parlando alla festa leghista di Pinzolo - reagisce così alla notizia di essere indagato per il caso Diciotti. E intanto annuncia: "Altri migranti della nave saranno ospiti della Chiesa. Sbarcheranno nelle prossime ore, ho ritenuto di farli sbarcare. Ma chiedo di ridiscutere i miliardi che l'Italia manda a Bruxelles, è giunto il momento di tagliare i finanziamenti a un ente inutile". Già nel pomeriggio la Farnesina aveva fatto sapere che 20 immigrati saranno accolti dall'Albania. In serata si aggiunge anche l'Irlanda. Ma l'ira del governo gialloverde nei confronti dell'Ue resta: "A queste condizioni, l'Italia non aderisce al bilancio dell'Unione che sottende una politica così incoerente sul piano sociale", dice il premier Giuseppe Conte. Un veto che era già stato prospettato da Salvini.

Salvini: "Vengano ad arrestarmi, ne sono fiero". Matteo Salvini prova a presentarsi come vittima di un processo politico: "Se un giudice vuole fare politica, non faccia il magistrato o il procuratore, ma si candidi con il Pd. È una vergogna essere indagati per difendere gli italiani, serve la riforma della giustizia. Faccio affidamento sulle migliaia di giudici per bene e ai magistrati che fanno il loro dovere: buttate fuori le correnti dalle aule e se qualcuno vuole fare politica per il Pd si candidi". E ancora: "Aspetto un procuratore che indaghi i trafficanti e chi favoreggia l'immigrazione clandestina. Gli ricordo che gli scafisti comprano armi e droga che poi viene spacciata magari fuori dalle scuole dei nostri figli". In nottata twitta: "Indaghino, mi interroghino, mi arrestino. Io sono fiero di battermi per difendere i confini, tutelare la sicurezza degli italiani e proteggere il futuro dei nostri figli". Regisce l'Anm, protestando: "Da Salvini interferenza sulle prorogative dei magistrati". Si legge in una nota della giunta esecutiva centrale: "La Procura di Agrigento sta svolgendo gli accertamenti necessari a verificare se nella delicata vicenda della nave Diciotti siano stati commessi dei reati. Purtroppo registriamo che il ministro dell'Interno ha rilasciato dichiarazioni tendenti ad orientare lo sviluppo degli accertamenti. Nessun altro soggetto può sostituirsi ai magistrati, neanche un membro del governo". Qualche ora prima anche i togati del Consiglio superiore della magistratura erano intervenuti chiedendo che sia "tutelata l'indipendenza" dei pm, lanciando un appello perché del caso si occupi il plenum fissato per il 5 settembre.

Si dimette il presidente dell'Aifa. Tra quanti criticano duramente il modo in cui il governo italiano ha gestito la vicenda, c'è il presidente dell'Agenzia italiana del farmaco, Stefano Vella, che ha presentato le sue dimissioni al ministro della salute Grillo e alla conferenza delle Regioni. "Non mi è possibile tollerare - ha detto - come medico, di presiedere un ente di salute pubblica in questo momento in cui persone vengono trattate in questo modo sul nostro territorio, dove esiste un sistema universalistico di garanzia della salute. Rispetto il ministro Salvini perché ha messo la sua faccia nelle sue decisioni; ritengo che chiunque si opponga debba farlo come sto facendo in questo momento".

L'imbarazzo dei 5Stelle: "Atto dovuto". Dai vertici sui 5Stelle filtra una dichiarazione imbarazzata: "Abbiamo sempre detto che la magistratura deve fare il suo corso" e che "alla politica spetta la valutazione politica. in questo caso è chiaro che è un atto dovuto per un'azione politica. Quindi non può essere sullo stesso piano di indagini per corruzione o altro". Questo mentre sui social rimbalza il tweet con cui Di Maio chiedeva, nel 2016, le dimissioni di Alfano indagato. Intanto cresce il malumore nei confronti della linea Salvini sui migranti. A Torino la capogruppo in Consiglio comunale, Valentina Sganga, sposa la linea Fico: "Non possiamo restare sulle posizioni di chi pensa all'immigrazione come una questione di contabilità", dice. Luigi Gallo, presidente della commissione Cultura della Camera, definisce la linea di Salvini indegna: "Non è degna sotto al profilo umano di un Paese civile e di uno Stato di diritto come il nostro". Un altro parlamentare M5S, Aldo Penna: "I centocinquanta migranti trattenuti sulla nave della nostra Guardia Costiera hanno tutto il diritto di poter accedere alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato politico". E la senatrice Paola Nugnes: "Non c'è nessuna emergenza migranti, le ipotesi di chiusura dei porti, di respingimenti o eventuali revisioni, addirittura dei trattati di Ginevra, non sono nel contratto di governo". E una presa di distanze dei Cinquestelle nei confronti di Salvini si è manifestata anche sull'incontro in programma il 28 agosto con il premier ungherese Orban, leader del gruppo di Visegrad, i superfalchi europei sull'immigrazione: "È un incontro politico, non riguarda il governo", hanno detto i capigruppo parlamentari 5Stelle.

Vicenda al Csm. La vicenda della nave Diciotti potrebbe arrivare anche all'attenzione del Consiglio superiore della magistratura. I consiglieri Valerio Fracassi, Claudio Galoppi, Aldo Morgigni e Luca Palamara chiedono, infatti, che la questione sia inserita all'ordine del giorno del primo plenum del Csm, fissato per il 5 settembre.

Migranti in Albania e Irlanda. Altri ospiti della Chiesa. Nella trattativa sulla distribuzione dei migranti della Diciotti, l'Albania è stato il primo Paese che si è detto disposto ad accoglierne alcuni. L'annuncio è arrivato dal ministro degli Esteri, Enzo Moavero, attraverso l'account ufficiale della Farnesina. In tutto saranno 20 i profughi ospitati da Tirana. Un Paese dunque che non fa parte dell'Unione europea. Per quanto riguarda il coinvolgimento della Chiesa, la Conferenza episcopale italiana ha fatto sapere che garantirà "l'accoglienza ad un centinaio di migranti della nave Diciotti. L'accordo con il Viminale è stato raggiunto per porre fine alle sofferenze di queste persone in mare da giorni". E in tarda serata arriva anche l'annuncio dell'Irlanda: "Posso confermare che il ministro della giustizia Charlie Flanagan e io abbiamo concordato che l'Irlanda accetterà 20-25 migranti della Diciotti. La solidarietà europea è importante e questa è la cosa giusta da fare. I lavori proseguono con i partner Ue per soluzioni più sostenibili", scrive su twitter il ministro degli Esteri irlandese Simon Coveney.

Matteo Salvini indagato, come funziona il tribunale dei ministri: che fine può fare l'indagine sulla Diciotti, scrive il 25 Agosto 2018 Libero Quotidiano". Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha iscritto nel registro degli indagati il ministro dell'Interno Matteo Salvini per sequestro di persona dopo il divieto di sbarco dalla nave Diciotti, ma dovrà trasmettere entro 15 giorni il fascicolo dell'indagine al tribunale dei ministri presso la procura di Palermo. Il presidente del tribunale siciliano, Salvatore Di Vitale, spiega quale sarà la procedura da seguire per svolgere l'indagine sul ministro leghista. Il tribunale dei ministri è un "organismo composto da tre magistrati scelti per sorteggio ogni due anni e attualmente in carica. In ogni caso - ha spiegato Di Vitale - il tribunale dei ministri dovrà eseguire una istruttoria alla fine della quale può archiviare, ovvero trasmettere nuovamente le carte al procuratore della Repubblica che dovrà inoltrare l'autorizzazione a procedere alla Camera di competenza". 

Matteo Salvini indagato dalla procura di Agrigento per la nave Diciotti, scrive il 25 Agosto 2018 Libero Quotidiano". Il procuratore di Agrigento ha iscritto il ministro dell'Interno Matteo Salvini per sequestro di persona a proposito del caso della nave Diciotti. Il magistrato Luigi Patronaggio trasmetterà ora il fascicolo al tribunale dei ministri di Palermo. Le accuse formulate dalla procura siciliana sono di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio. Nel registro degli indagati c'è anche il capo di gabinetto del ministro. L'inchiesta ha subito un'accelerazione nel pomeriggio, quando il procuratore ha ascoltato in audizione al palazzo di giustizia di Roma il capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l'immigrazione, Gerarda Pantalone, e il suo vice, Bruno Corda. I due prefetti sono stati sentiti come testimoni, utili ai magistrati per ricostruire la catena di comando che ha portato al divieto di sbarco per le 150 persone a bordo della Diciotti.

Diciotti, Salvini è indagato dal pm di Agrigento: "Non mi ferma, vergogna". Il pm di Agrigento mette sotto indagine il leghista per sequestro di persona. Il fascicolo ora passa al tribunale dei Ministri, scrive Claudio Cartaldo, Sabato 25/08/2018 su "Il Giornale". Alla fine Matteo Salvini è stato indagato. L'ipotesi di reato del procuratore di Agrigento è di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio. Nel registro degli indagati anche il capo di gabinetto del ministro. Ora la palla, però, esce dalle mani della procura siciliana. Il fascicolo per legge dovrà andare al Tribunale dei Ministri, l'unico competente quando ad essere chiamati in causa sono dei membri del governo. "Tale procedura - se legge nel comunicato con cui procura - prevista ed imposta dalla legge costituzionale 16/1/89 n. 1, permetterà, con tutte le garanzie e le immunità previste dalla medesima legge, di sottoporre ad un giudice collegiale specializzato le condotte poste in essere dagli indagati nell'esercizio delle loro funzioni, uno dei quali appartenente ai qualificati soggetti indicati all'articolo 4 della norma costituzionale". Il pm aggiunge: "Com'è noto, infine, ogni eventuale negativa valutazione delle condotte di cui sopra dovrà essere sottoposta alla autorizzazione della competente Camera dei deputati". La risposta del ministro è arrivata da Pinzolo: "Che indaghino me è vergognoso. La riforma della giustizia è la prima cosa da fare. Hanno quattro milioni di processi arretrati e indagano me". Quella tra Matteo Salvini e i pm, sul caso Diciotti, sembra ormai una guerra aperta. La procura di Agrigento aveva aperto un fascicolo contro "ignoti" ipotizzando il reato di sequestro di persona. Prima che trapelasse la notizia dell'indagine aperta contro il ministro, era stato lo stesso ministro a rivelare su Facebook che "il Procuratore di Agrigento ha chiesto ufficialmente i miei dati anagrafici". Il vicepremier aveva subito attaccato il giudice: "Per fare cosa li chiede? - aveva scritto - Non perda tempo, glieli do io. Matteo Salvini, nato a Milano il 9/3/1973, residente a Milano in via xxx, cittadinanza italiana. Se vuole interrogarmi, o magari arrestarmi perché difendo i confini e la sicurezza del mio Paese, lo aspetto a braccia aperte!". Il leghista aveva anche definito "meschina" la decisione di Luigi Patronaggio di interrogare i funzionari del Viminale nella sua attività istruttoria invece di andare direttamente dal capo. "Mi spiace che ci sia qualche giudice che ha tempo e soldi da spendere per andare a interrogare i funzionari del Viminale: vengano direttamente dal ministro", aveva detto il vicepremier. "Mi sembra meschino andarsela a prendersela con dei funzionari quando c'è un ministro che si prende la responsabilità di dire no", ha sottolineato Salvini. Il pm oggi è andato a Roma e ha interrogato come persone informate sui fatti il capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l'immigrazione, Gerarda Pantalone, e il suo vice Bruno Corda. Il ministro comunque non intende fare passi indietro. "Nonostante insulti, minacce e inchieste - dice infatti il ministro - sto lavorando per chiudere la pratica Diciotti senza che a pagare stavolta siano gli Italiani, visto che abbiamo accolto e speso abbastanza". Un primo passo è stato fatto: venti dei migranti della Diciotti andranno in Albania, visto che Tirana si è detta pronta ad aiutare il Belpaese dopo che l'Italia ha fatto tanto per gli albanesi.

Luca Romano per il Giornale il 25 agosto 2018. "Mi spiace che ci sia qualche giudice che ha tempo e soldi da spendere per andare a interrogare i funzionari del Viminale: vengano direttamente dal ministro". Così Matteo Salvini, vicepremier e ministro dell'Interno, in conferenza stampa da Pinzolo (Trento) riferendosi al procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio che sul caso Diciotti procede contro ignoti con i capi di accusa di sequestro di persona e arresto illegale. "Mi sembra meschino andarsela a prendersela con dei funzionari quando c'è un ministro che si prende la responsabilità di dire no", sottolinea Salvini. Che poi sul caso Diciotti dichiara: "Stiamo lavorando con alcuni Paesi, con alcune realtà più vicine a noi" che potrebbero accogliere alcune persone. E ancora: "In sede Ue noi il voto non lo diamo fino a che non si risolve una volta per tutte il problema dell'immigrazione. Non c'è più un governo schiavo, un governo complice".

L'ira di Salvini su giudici e pm: "Indagano me e nessuno a Genova?" Il pm di Agrigento indaga il leghista. Il fascicolo al Tribunale dei Ministri. Salvini: "Nessun indagato per il crollo di Genova e indagano me?", scrive Claudio Cartaldo, Sabato 25/08/2018, su "Il Giornale". Lo scontro tra Matteo Salvini e la magistratura si fa ora durissimo. La decisione della procura di Agrigento di indagare il ministro dell'Interno per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio ha fatto infuriare il leghista. Che da Pinzolo non si è fatto pregare e si lancia all'attacco dei giudici, dei pm e della magistratura in genere. "Fuori la politica dalle aule di giustizia - dice il vicepremier - In Italia ci sono 4 milioni di processi arretrati e indagano un ministro che difende i confini e difende i diritti degli italiani". Non si mostra preoccupato dell'indagine decisa dal pm Luigi Patronaggio, ma lo considera un affronto. "Se vogliono indagarmi mi indaghino ma è difficile fermarci", spiega ai suoi fan il ministro. "Possono arrestare me ma non la voglia di 60 milioni di italiani, indaghino chi vogliono. Abbiamo già dato abbastanza, è incredibile vivere in un paese dove dieci giorni fa è crollato un ponte sotto il quale sono morte 43 persone dove non c'è un indagato e indagano un ministro che salvaguardia la sicurezza di questo Paese. È una vergogna". L'invettiva contro la magistratura prende poi pieghe più generali. Salvini non cita mai per nome Patronaggio, ma è inevitabile pensare che le parole pronunciate al microfono non siano dirette a lui. "Se un giudice vuole fare politica, non faccia il magistrato o il procuratore, ma si candidi con il Pd", attacca il vicepremier. "Il procuratore di Agrigento lo aspetto con il sorriso a Pinzolo. Aspetto un procuratore che invece di indagare un ministro indaghi i trafficanti di essere umani e spero che mi stia guardando. Essere indagato per difendere i diritti degli italiani è una vergogna". La polemica si sposta anche su Genova. Il ministro definisce "vergognoso" vivere "in un Paese dove dieci giorni fa è crollato un ponte sotto il quale sono morte 43 persone e non c'è un indagato e indagano un ministro che difende i confini del Paese". E Pinzolo lo riempe di applausi.

Salvini indagato: quando Di Maio chiedeva le dimissioni di Alfano "in 5 minuti", scrive il 26 agosto 2018 "L'Unione Sarda". "Ieri sera con un grande lavoro di squadra come governo abbiamo dato l'ok allo sbarco di coloro che erano a bordo della nave di migranti Diciotti, e quelle persone che stanno sbarcando". Così il vicepremier Luigi Di Maio ha commentato, su Facerbook, la risoluzione della vicenda della nave della guardia costiera con a bordo quasi 150 migranti, rimasta per giorni "bloccata" al porto di Catania, dopo lo stop allo sbarco voluto dal Viminale. Un caso che ha innescato polemiche politiche e anche un'inchiesta della Procura di Agrigento, che ha aperto un fascicolo a carico del ministro dell'Interno Matteo Salvini, accusato di abuso di ufficio, arresto illegale e sequestro di persona. Ieri sera lo stesso Viminale ha dato l'ok allo sbarco dei migranti, di origine eritrea, molti di quali denutriti e ammalati. "Una parte andrà in Albania, una parte in Irlanda e una parte se ne farà carico la chiesa con la Cei", ha precisato Di Maio. Aggiungendo: "Questo era il primo obiettivo che ci eravamo dati con l'immigrazione: cioè la possibilità di redistribuire i flussi migratori. Questo non è un obiettivo da poco". Ma il Movimento 5 Stelle e il suo leader sono finiti nel mirino dell'opposizione. Anche per il cambio di posizione rispetto alla scorsa legislatura, quando al Viminale c'era Angelino Alfano. "Di Maio chiedeva le dimissioni 'in cinque minuti' per Alfano ministro dell'Interno indagato per abuso d'ufficio. Ora che ad essere indagato è il suo alleato ministro Salvini, anche per sequestro di persona e arresto illegale, quanti minuti chiede Di Maio per lasciare il Viminale?" si domanda ironicamente il deputato Pd Michele Anzaldi su Twitter. Il tutto mentre la Rete ha ripescato un post, subito molto condiviso fino a diventare, del capo politico pentastellato che - era il 2016 - a proposito dell'indagine a carico di Alfano, ne chiedeva, appunto, il passo indietro.

Da repubblica.it il 26 agosto 2018. Subito dopo la notizia dell'indagine a carico del ministro dell'Interno Matteo Salvini per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio per il caso Diciotti, su Twitter alcuni utenti hanno ripubblicato il tweet del 2016 in cui Luigi Di Maio chiedeva le dimissioni dell'allora ministro dell'Interno Angelino Alfano indagato per abuso d'ufficio. Questo è il giustizialismo cinque stelle che ha manganellato tanti innocenti e io ne so qualcosa. Con i loro avversari sono violenti, con i loro alleati come salvini silenziosi. Di Maio ha una doppia morale ma nessuna dignità

Alessandro Trocino per il Corriere della Sera il 26 agosto 2018. A un certo punto della giornata, il vicepremier Luigi Di Maio alza il telefono e chiama l'altro vicepremier, Matteo Salvini: «Matteo ora basta, trova una soluzione. I miei non li tengo più, hai visto cosa sta succedendo?». Succede che da giorni la base del Movimento è in fermento e, dopo l'esternazione del presidente della Camera Roberto Fico, si moltiplicano gli appelli a una soluzione umanitaria della questione della nave Diciotti. Ed è anche grazie alla pressione congiunta di Di Maio e del premier Giuseppe Conte se in serata si sblocca la situazione. Lo stesso Salvini non vedeva vie d' uscita e sapeva di non poter tirare ancora la corda. Quindi si appiglia al primo spiraglio, le dichiarazioni del premier albanese, e dà il via libera. Intanto Di Maio fa sapere, a soluzione trovata, che il merito della soluzione è ascrivibile alle pressioni del premier Conte. In realtà, Di Maio è sostanzialmente in sintonia con Salvini e condivide la linea dura sulla questione migranti, che paga in termini di consensi elettorali, anche in vista delle Europee. Ma sa anche che deve smarcarsi, perché il Movimento ha sensibilità diverse. Di qui la doppia strategia. Sul fronte interno il leader dei 5 Stelle tiene le truppe, almeno fino a quando Fico decide di uscire allo scoperto. Esternazione molto sgradita, come fa notare in un'altra telefonata al presidente della Camera, lo stesso Di Maio. Non serve il mezzo rimprovero, sia perché ormai Fico ha un'autonomia e un ruolo istituzionale, sia perché si moltiplicano le uscite di politici legati al presidente. L' ultimo, durissimo, è di Luigi Gallo, l'uomo più vicino a Fico. Che spiega come la linea di Salvini serva a «alimentare l'odio e il rancore» e inquadrato l'atteggiamento del leader leghista nell'ambito di «una lunga campagna elettorale fino alle Europee». Segnali di opposizione chiara e frontale alla linea dura di Salvini. E che vanno a intercettare un malumore crescente da parte della Guardia Costiera. Tanto che il ministro Elisabetta Trenta si sente in dovere di ricordare di avere candidato al Nobel per la Pace la Marina e chi «ha partecipato al salvataggio di vite umane». Non è un caso che lo stesso Salvini ritenga necessario, dopo giorni di silenzio, esprimere «ringraziamento e sostegno» alla Guardia Costiera. Ma c' è un ulteriore passo che fa capire come il Movimento non voglia rompere affatto con Salvini, ma voglia mantenere un profilo autonomo. È la dichiarazione congiunta dei capigruppo, che rispondono a Di Maio, con la quale, in modo del tutto inusuale, definiscono l'incontro tra Salvini e Orbán «esclusivamente politico e non istituzionale o governativo». Un modo per prendere le distanze. Nota che all'inizio si era pensato di far fare al premier Conte, per poi cambiare rotta per evitare di alzare i toni. Comunque sia, la decisione finisce per essere un cedimento alla linea di Fico, visto che fu lo stesso presidente della Camera a ricordare che il presidente dell'Ungheria doveva partecipare alla redistribuzione europea dei migranti. Il timore dei 5 Stelle è che l'incontro a due finisse per impegnare il governo in un pericoloso patto politico tra i due Paesi con il quale si sceglieva, invece della solidarietà europea, il no unilaterale ai migranti. Che questo sia l'approdo finale di Salvini, lo ha reso chiaro lui stesso nei giorni scorsi riferendosi al «no way» australiano e lodando incessantemente Orbán. Ma i vertici dei 5 Stelle non vogliono, o non possono, seguire il leader della Lega su una strada troppo sbilanciata a destra. E non vogliono seguire a tutti i costi le sorti di Salvini. A maggior ragione, dopo la notizia che Salvini è stato indagato dalla magistratura. Per questo non ne chiedono le dimissioni, appigliandosi al codice etico dei ministri (diversamente da come fecero con il ministro Alfano), ma sottolineano il «rispetto della magistratura».

Diciotti, Meloni e Toti con Salvini: "Sovversivo indagare chi vuol fermare l'invasione". La solidarietà di Giorgia Meloni e Giovanni Toti per l'indagine a carico di Matteo Salvini sul caso Diciotti, scrive Claudio Cartaldo, Sabato 25/08/2018, su "Il Giornale". Giorgia Meloni si schiera al fianco di Matteo Salvini. E arriva la solidarietà anche di Toti per l'indagine aperta dalla procura di Agrigento (ma ora il fascicolo passerà al Tribunale dei Ministri) nei confronti del leader della Lega. Sul caso Diciotti il vertice del Viminale (e il suo capo di Gabinetto) potrebbe dover rispondere di sequestro di persona e detenzione illegale. "Scandaloso e sovversivo indagare un ministro che cerca di fermare l'invasione di clandestini, come chiesto a gran voce dai cittadini italiani nelle ultime elezioni politiche, per costringerlo invece a far sbarcare gli immigrati e a non cambiare nulla", ha scritto su Facebook il presidente di Fratelli d'Italia. "Ancora più scandaloso - ha aggiunto - se si tiene conto che mai nessun magistrato ha pensato di indagare il precede governo per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, pur essendoci tutti i presupposti. Nessuno creda di potersi porre al di sopra della volontà popolare e di piegare la nostra democrazia alla propria ideologia. Fratelli d'Italia esprime la sua solidarietà a Salvini e chiede al Ministro della Giustizia e al Presidente della Repubblica di intervenire immediatamente per censurare questo gravissimo atto. E ci aspettiamo una parola di sdegno anche da quella parte significativa della magistratura non obnubilata dal furore ideologico". Immediata è arrivata anche la solidarietà del governatore della Liguria, Giovanni Toti: "C'è chi difende l'Europa che non ci ha mai aiutato a gestire l'immigrazione sulle nostre coste - ha detto - C'è chi prova a ristabilire un pò di equilibrio e di equità nell'accoglimento dei migranti. E c'è chi indaga chi ci prova. Solidarietà all'amico Salvini. Se esiste un reato di opinione, mi sento indagato con lui. Non resta che una strada di fronte a tutto ciò: il Governo ordini il blocco navale in Libia".

Nave Diciotti, Cacciari: "Mi vergogno di questo Paese, chi non si indigna è un pezzo di merda", scrive il 23 agosto 2018 "L’Espresso". Massimo Cacciari è un fiume in piena: durante il collegamento con In Onda, programma di La7 condotto da Luca Telese e David Parenzo, il filosofo affronta il tema dei migranti. "Mi vergogno di questo Paese, di questa Europa. E chi non si indigna della situazione in cui ci troviamo secondo me è un pezzo di m...", conclude Cacciari parlando della nave Diciotti.

«Sì, sono di destra. Ma i migranti li chiamo fratelli». Parla Nello Musumeci. L’urgenza di una «rigenerazione culturale». E la politica «rimasta senza padri». Intervista al presidente della regione Sicilia, chiamato il "fascista gentiluomo", scrive Stefania Rossini il 24 agosto 2018 su "L'Espresso". Lo chiamano fascistagentiluomo ed è difficile capire se sia più compiaciuto del primo o del secondo attributo. Ma è certo che la definizione gli calza a pennello. Nello Musumeci è un signore siciliano elegante e asciutto, composto e cerimonioso, con una sicurezza di sé e del proprio ruolo che gli viene da una esperienza politica di quasi cinquant’anni. Da fascista sempre dichiarato ha attraversato la prima e la seconda Repubblica, passando senza danni di immagine da Almirante a Fini, a Storace, fino alla costruzione di un personale movimento di destra che già nel nome, “Diventerà bellissima”, vuole evocare Paolo Borsellino e la Sicilia migliore. Oggi Musumeci, presidente di una Regione difficile, difende ancora la sua collocazione ideologica, cercando di non farsi confondere con le schegge di destra xenofoba che circolano nel Paese e con le ambiguità dei messaggi governativi. Così comincia proprio dalla non semplice contiguità con il governo centrale una conversazione che si scioglierà poi in un racconto di vita personale e sentimentale.

Domanda diretta, presidente: le piace questo governo?

«Risposta diretta, signora: io non do ne voti né veti e giudico i governi alla scadenza, non alla partenza».

Qualche impressione l’avrà pure avuta.

«Ho la necessità di interloquire con molti ministri e, anche se la ritengo ibrida, ho il dovere di rispettare questa coalizione».

Ho capito, non le piace.

«Rilevo semplicemente che la geografia del centrodestra nel Paese non è la stessa del Parlamento. Vorrei che tutti ritrovassimo le ragioni che ci uniscono, non quelle che ci dividono».

Lei governa la Regione con i 5 Stelle che fanno opposizione su tutto. Come li giudica?

«Mi aspetterei da loro un rispetto istituzionale che per ora manca. Ma quando vado in campagna trovo negli insetti le risposte alle mie domande. Ascolto le cicale che non smettono di cantare, osservo le formiche che lavorano senza tregua per preparare la buona stagione e mi convinco che la politica di oggi funziona nello stesso modo».

E con Esopo abbiamo sistemato i 5 Stelle. Invece i rapporti con Salvini sembrano buoni, se lei è andato persino al raduno di Pontida.

«Ci sono andato per rispetto del galateo e sul palco ho detto che il Nord senza il Sud non va da nessuna parte. Mi aspettavo qualche contestazione e invece ho avuto applausi fragorosi. Comunque se l’arcivescovo di Palermo mi invita a visitare il seminario, io da persona educata ci vado, ma non per questo mi faccio prete».

Però sulle politiche dell’immigrazione la sua voce si è sentita poco.

«Ne parlo nei momenti opportuni. E se me lo chiedono, dico che la chiusura dei porti è servita a mettere a nudo l’egoismo di un’Europa che, se continua così, non merita più la nostra presenza. Ma ovviamente è una cosa che non può durare a lungo».

Che ne pensa del razzismo strisciante?

«Che non c’è, e tanto meno in Sicilia, terra che ha avuto 15 dominazioni ed è abituata a convivere con l’altro. Qui è necessario lottare contro lo sfruttamento di questi nostri fratelli sulla cui pelle qualcuno ha fatto affari e si è arricchito».

Parla come uno di sinistra.

«Non è la prima volta che me lo dicono. Invece io sono orgogliosamente di destra, ma ho la fortuna di ricevere consensi elettorali anche da elettori di sinistra. Credo che sia il massimo per un politico».

Che tipo di destra è la sua?

«Quella di Giorgio Almirante. Non sono un nostalgico e nel mio studio non troverà testimonianze del passato, ma soltanto un suo ritratto con dedica. Ho anche chiamato Giorgio il mio figlio minore. C’era Almirante alla guida del Movimento sociale quando nel 1970 mi iscrissi al partito».

Come nasce in un quindicenne una passione del genere?

«Ero un ragazzino che credeva nella libertà e invece i picchetti degli attivisti rossi non mi facevano entrare a scuola, secondo la logica “Chi non è con noi, è fascista”. Così mi sono avvicinato ai giovani di destra e mi ci sono subito trovato bene per valori condivisi e quasi per vocazione genetica».

Si riferisce ai suoi genitori?

«No, mio padre era un autista di autobus del tutto qualunquista: votava per gli amici. Una volta, da piccolo, mi portò nella cabina elettorale e fece decidere a me dove fare la croce. Mia madre non pensava alla politica ed è morta quando avevo quattordici anni».

Lei si è iscritto al Msi subito dopo. Quanto ha contato questo lutto nella sua scelta politica?

«È un’associazione a cui non avevo pensato. Probabilmente ho cercato un altro calore. Con la morte di mia madre avevo perso l’amica, la sorella, la confidente. Forse il partito ha riempito in parte quel vuoto».

Come è stata in seguito la sua vita di adolescente?

«Ho imparato a cucinare, lavare, stirare, per prendermi cura di mio padre. Avevo lasciato gli studi, ma poi mi sono diplomato da privatista alla Scuola agraria. Più tardi mi sono mantenuto all’università lavorando presso uno studio legale. Un giorno l’avvocato mi dice: “Sei licenziato, tu non sei fatto per guadagnare 40 mila lire al mese”».

Tutto sommato, un complimento.

«Forse sì, comunque uno stimolo a fare altro. Ho scritto per diversi giornali locali, ho condotto il telegiornale di una tv privata legata al partito, dove non leggevo le notizie ma le commentavo a modo mio. Ne ho guadagnato in popolarità e sono stato eletto facilmente nel consiglio comunale di Militello. Poi mi sono innamorato di mia moglie intorno al tavolo dove si impaginava il rotocalco per cui entrambi lavoravamo. Lei faceva la grafica, ma era anche la figlia dell’editore, che mi disse: “Non posso consentire che mia figlia si prenda un fascista squattrinato”».

Questo invece ha l’aria di un doppio insulto.

«Infatti lo era, ma noi abbiamo tenuto duro, ci siamo sposati, abbiamo avuto tre figli e il matrimonio è andato bene per venticinque anni.»

E poi?

«E poi, come si sa, la politica qualche volta unisce i popoli, ma spesso divide le famiglie».

Presidente, mi permette di chiederle qualcosa anche sulla tragedia che l’ha travolta cinque anni fa: la morte di suo figlio Giuseppe?

«La prego no, non ce la faccio. Mi sono rialzato e la politica è stato il mio grande sostegno».

Mi parli allora degli altri due suoi ragazzi.

«Volentieri. Salvo è tornato da Londra dopo la morte del fratello per starmi vicino ed ora si occupa di case vacanza e dell’azienda agricola con il giardino di aranci che mi ha lasciato mio padre. Giorgio fa l’attore a Roma».

Lo dice come se non fosse un vero lavoro.

«Sognavo un figlio avvocato penalista e fatico a vederlo attore. Ha avuto già qualche ruolo, ma in quegli ambienti ci vuole un pizzico di accreditamento. E io non farò mai una telefonata per aiutare un figlio. Ora si è sposato, per fortuna con un’insegnante di lettere che ha un lavoro stabile».

E lei? Ha una nuova vita sentimentale dopo la separazione?

«No, mia moglie è rimasta l’unica donna della mia vita. Io la penso come Alberto Sordi, che diceva: “Non riesco a stare a casa con un’estranea”».

Torniamo alla politica. Lei è governatore della Sicilia da quasi un anno e aveva promesso di farla diventare bellissima. Pensa di riuscirci?

«L’isola è già esteticamente bellissima. Io voglio darle una bellezza etica, una rigenerazione morale e culturale. È un processo che la politica può soltanto guidare cercando di coinvolgere la gente. Ma noi siciliani abbiamo un nemico atavico più potente della mafia: la rassegnazione. Se pensa che nella nostra lingua non esiste la coniugazione al futuro, capisce tutto».

Come pensa di combattere questo immobilismo?

«Ho il grande vantaggio di aver deciso di non candidarmi più. Quindi oggi posso scegliere soltanto quello che mi sembra giusto e dire tutti i no che mi servono».

Che cosa farà senza la politica, che è il suo mondo da cinquant’anni?

«Non ci sono solo le elezioni. Mi occuperò dei nostri giovani, che oggi sembrano tutti ricoverati in un orfanotrofio della politica, senza padri, senza riferimenti. Voglio essere la guida di una nuova generazione di siciliani».

«Io, poliziotto, dico: coi migranti Salvini si comporta da criminale».

Intervista esclusiva a Orlando Amodeo, primo dirigente medico della Ps appena andato in pensione: «Il ministro specula sulle tragedie e costruisce la sua fortuna sulla morte. Impedire di attraccare nei porti o ostacolare il lavoro delle Ong significa fare vittime che nessuno conosce», scrive Susanna Turco il 17 agosto 2018 su "L'Espresso". Trent’anni da medico-poliziotto, venticinque passati con la divisa indosso e lo stetoscopio al collo, su e giù dalle navi, dentro e fuori palestre e centri d’accoglienza, più di centomila migranti ai quali ha guardato gli occhi, le mani e la lingua, una vita da giusto che adesso Orlando Amodeo, 61 anni, primo dirigente medico della Polizia di Stato fino a pochi mesi fa, scaglia dritta contro Matteo Salvini, tutta intera. L’avete visto mai un poliziotto che dà del criminale al suo ministro dell’Interno e si vergogna di essere italiano? Eccolo qua. L’Italia di oggi la racconta anche la rivolta di un uomo così. «Salvini specula da criminale sulla tragedia, costruisce la sua fortuna sulla morte. A me non importa chi sia, ma non sopporto la sofferenza inutile. Se qualcuno la crea per ricavarne un beneficio politico, non è altro che un criminale», dice con la fermezza a bassa frequenza dell’uomo mite. Siamo sul lungomare di Crotone. Il dottor Amodeo è una specie di monumento vivente, da queste parti. Ha cominciato a gestire gli sbarchi nel ’93, nel ’98 ha aperto a Crotone il primo centro d’accoglienza, il Sant’Anna, quando ancora nessuno sapeva come si facesse: «Facevo le mie sei ore e poi tutto il resto del tempo lo passavo lì, gratis. Non mi sono mai neanche segnato un’ora di straordinario». L’hanno spostato a Reggio Calabria nel 2005, ha continuato a occuparsi di sbarchi. Non ha mai imparato a nuotare, ma conosce le grandi navi della rotta turca, le barchette di legno, i gommoni dalla Libia, gli scafisti e i trafficanti, la terrificante calma apparente e coartata di adesso. Ha escogitato quelle che chiama «le invenzioni aggratis»: riciclare i guanti monouso in lattice, dopo averli passati nel sapone e varechina, «perché gonfiati, diventano dei meravigliosi palloncini per i bambini, per farli divertire dopo che sono sbarcati»; ma raccogliere tra gli studi medici «i campioni delle medicine mandate dalle case farmaceutiche, con quelli curavamo i migranti a costo zero». Sul lungomare di Crotone, monumento vivente, lo salutano tutti e lui risponde con calore, anche quando non sa chi siano. È abituato: i suoi social, i suoi indirizzi di posta e il suo telefonino strabordano di storie, persone, frammenti di vite intercettate in volo come stelle cadenti. La sua vita aderisce alle storie che racconta: non c’è scarto, non c’è distanza. Una volta, dopo una retata di prostitute nigeriane, i suoi colleghi hanno dovuto convocarlo in piena notte perché tutte le donne fermate avevano il suo numero di telefono, con nome e cognome, nemmeno fosse il più abituale dei clienti: «L’avevo dato a una di loro, sono medico le avevo detto, per qualsiasi cosa». Raccoglitore di funghi, coltivatore di pomodori, in casa può presentarsi tutt’ora con cassette di verdura o migranti, dipende. A casa sono abituati. Migranti ne ha ospitati nel suo appartamento e sulle scale che portano a casa: una volta ci stettero in 180 per tre giorni. Altre volte in cinque per mesi. «Era inverno, pioveva: non si può lasciare la gente per strada così senza motivo». In questi giorni capita ci sia a pranzo Tony, che è venuto dalla Nigeria: «Suo zio voleva ammazzarlo per prendergli la terra, dopo aver ammazzato suo padre: tu che avresti fatto? Lui è scappato per non morire, ma per questo governo è solo un migrante economico: un permesso non lo vedrà mai, ma senza lui non può lavorare. Così invio dei soldi giù a sua moglie, ogni settimana, e resto nella legalità». Andando sulle navi, il dottor Amodeo ha imparato che soltanto mettendosi in mezzo, fisicamente, facendo da esempio, si persuade qualcun altro: «I finanzieri, i volontari, gli uomini della Capitaneria di porto e i poliziotti magari temono di prendersi la scabbia, hanno paura ad avvicinarsi ai migranti. Poi mi vedono in mezzo a loro, si tranquillizzano, e vengono». «Ana tabib», sono un medico, «è la prima cosa che dico sempre quando salgo su una nave: è arabo, qualcuno mi capisce sempre». Con lo stesso spirito, par di capire, affronta Salvini: «Perché non si possa dire che non lo sapevamo. O che non c’erano altre risposte possibili». Ana Tabib. Il dottor Amodeo ha cominciato a battagliare con i politici, e in particolare con il ministero dell’Interno, almeno quindici anni fa. Quando lo vollero trasferire con una bella promozione, perché era diventato troppo ingombrante, «e andai a Roma a pregare che non volevo essere promosso, volevo solo continuare a fare il mio lavoro». O ancora prima, quando il ministero dell’Interno lo chiamò per spedirlo al Maurizio Costanzo Show. «Dopo il G8 di Genova gli serviva il “poliziotto buono”, per recuperare d’immagine. Sul Corriere della Sera era uscito un articolo in cui parlavo anche io, allora mi chiamò il dottor Sgalla, delle relazioni esterne del ministero: disse, vai da Costanzo ma prima passi da noi. Io da voi non ci passo, quindi da Costanzo non ci vado, gli risposi». Vinse lui: «Ci andai, da Costanzo, senza passare per il ministero. Alla fine della registrazione nemmeno mi ricordavo cosa avevo detto. La sera, quando riaccesi il telefonino, c’erano quaranta chiamate dal centralino del ministero. Era Sgalla. Disse: è andata bene, può stare in tv quanto vuole. Ma io alla fine della registrazione avevo sudato così tanto che mi son dovuto cambiare pure le mutande». Quei filmati circolano ancora in rete. Il colore politico, allora come ora, c’entra fino a un certo punto: «Anche Minniti, quando ha fatto accordi con i libici, l’ho mandato a quel paese, molto banalmente», dice Amodeo di taglio, per semplificare. Sulla sua pagina Facebook, del resto, non risponde a nessuno che tenti una polemica. «Ho presente i fatti, molto banalmente». A spiegare i perché, soccorre la vita. Circostanze, racconti, nessuna supposizione. «Tutti esagerano, quando raccontano qualcosa, lo so benissimo. Quando decido di riferirla è perché l’ho constatata di persona, oppure l’ho sentita raccontare identica, da persone diverse, in luoghi e tempi diversi: e allora è vera per forza». Lo sa perché c’era, lo dice perché ha verificato. Le cicatrici dei reni espiantati per pagarsi il viaggio, la disidratazione, le malattie, i morti per annegamento e per asfissia, l’assenza di una alternativa. Le ragioni elementari, quelle che servono a smontare le cattedrali babeliche della politica. «Nel 2014 arrivò qui una imbarcazione dalla Libia, che era stata programmata per affondare: a bordo quattrocento persone, imbarcava acqua sin dalla partenza. In questa nave in cui tutti dovevano morire, c’erano 40-50 eritree. Quando mi hanno visto si sono messe a gridare. Avevo la divisa indosso. Erano passate per Eritrea, Sudan, Libia. Gente in divisa le aveva trattate come cose, per mesi: seviziate, violentate, di tutto. Alla fine, le avevano lasciate andare via soltanto perché erano malate. Malattie come la gonorrea erano state la loro salvezza. Le avevano messe però su una nave destinata ad affondare. “E voi, che lo sapevate, perché avete accettato di partire?”, gli ho chiesto. “Lì saremmo morte in ogni caso, forse qui riusciamo a sopravvivere”. Molto banale: gente che destinata a morire che tenta di sopravvivere, forse. Allora Salvini di cosa parla? Prima gli italiani? Ma che c’entra?». «Uno le cose le impara parlando: ma se tu con questa gente non ci parli, non lo sai. Quando chiedevo: perché dal Kashmir venite qua? Mi dicevano: perché c’è una guerra tra musulmani e induisti, il Kashmir è in mezzo. Se sei musulmano ti ammazzano gli indiani, se sei indiano ti ammazzano i pakistani. E allora, chi voleva vivere è scappato dal Kashmir, punto. Non è che ci sia altro. C’era la guerra, sono scappati perché non volevano morire. Però quando parli con loro, poi con i rom kosovari, i curdi, gli eritrei, i somali, gli etiopi, i nigeriani, ti rendi conto che il mondo è pieno di guerre, fame, problemi. E allora impari, ti metti dall’altra parte. Se io fossi stato là e avessi voluto vivere, cosa avrei dovuto fare? Scappare, punto. O ti fai ammazzare o scappi. Questo è». Spesso, racconta il dottor Amodeo, i migranti neanche sanno di essere sbarcati in Italia. «Gli viene raccontato che sbarcheranno in Germania, in Belgio, in Svezia. E non ci vogliono neanche stare in Italia: cercano lavoro. E qui non ce n’è, è persino vietato senza un permesso di soggiorno. Altrove danno una casa, una chance. Noi li teniamo qui senza fare niente. Quando sono stato trasferito a Reggio Calabria, vedevo che stavano lì nelle palestre un mese, due mesi. A un certo punto domandai alla Questura: abbiamo fatto tutto come polizia? Tutto, mi risposero. Scoprii proprio allora, per caso, che c’era un treno notturno: partiva da Reggio Calabria alle 21.35, andava al nord. Milano, Torino. Ho chiesto ai migranti: tu dove vuoi andare? Frugavano, e da una cucitura delle mutande tiravano fuori un foglietto. C’era scritto il paese, o la città. Allora, sempre per caso, c’era un sacerdote della Caritas che aveva un pulmino da 20 posti, che passava proprio vicino alla palestra, la sera, e un gruppo di ragazzi che ne aveva un altro: anche loro passavano di là. Alle 19, ora del cambio della guardia, invitavo tutti agli agenti fumare: ci radunavamo su una sola delle quattro vie d’uscita. Sa quanto ci mettono cento persone a uscire da una palestra? La stazione non era poi così lontana. E, sempre per caso, qualcuno aveva suggerito al capostazione di aggiungere un paio di vetture. Insomma ogni quattro giorni svuotavo tutto. Il 99 per cento di loro voleva andare in Germania, Belgio, Francia, in Svezia. In sei-sette anni gliene ho mandati in giro per l’Europa 50-60 mila. Poi se ne è accorto un funzionario, un austriaco, ci hanno imposto le impronte digitali, non s’è potuto fare più. Prima glieli mandavo tutti. Da noi dove stavano, a fare che?». «Ma sono le nostre leggi a non funzionare. Siamo noi a renderli un peso. Metti un maschio adulto, con famiglia, a non fare niente, per mesi. Quello i soldi prima o poi li deve mandare a casa: finirà per fare la prima cosa che gli offrono, molto banalmente. Ma sei tu, politico, che hai creato il disagio: e poi ti autoproclami l’eroe chiamato a risolverlo? Fai leva su chi è in crisi e gli dici prima gli italiani? Bravo, molto bravo». «Adesso però invece che in Europa, li rimandiamo indietro in Libia. E nemmeno arriviamo a saperlo. Ma accade questo: cento che non partono, sono cento che muoiono. Mohamed, che era venuto dal Ghana anni fa, mi aveva raccontato che si erano fatti una foto alla partenza, e una foto all’arrivo: in Ghana erano 41, qui 19. Il 54 per cento è morto. Ma ora, sono cento su cento. Impedire di attraccare nei porti, ostacolare il lavoro delle Ong, significa fare morti che nessuno conosce. Anche perché adesso i gommoni, per esempio, non hanno bisogno nemmeno di uno scafista, che in fondo era una garanzia che la barca arrivasse. E la gente si riorganizza: i curdi sbarcati a Capo Rizzuto a fine luglio se l’erano comprata quella barca, dovevano solo arrivare qua, avevano già i parenti in Europa. Ma se fossero affondati tu non ne avresti saputo niente. E quante ne affondano di barche così? Chi te lo dice?» «Sai di Josefa perché quelli di Open Arms l’hanno soccorsa. Ma se al loro posto ci fosse stata la marina militare, o peggio i libici, tu sapevi che la sua famiglia era annegata? No. Se nel Mediterraneo ci fossero solamente navi militari, le notizie che tu sapresti sono quelle che i militari ti vogliono fare sapere. Di certo, non sapresti che sono morte ad oggi diecimila persone: ti direbbero delle persone soccorse. E ti posso garantire che avremmo detto: abbiamo soccorso tutti. Senza Ong, nessuno ti avrebbe mai detto che una nave italiana stava tornando in Libia, o che i libici sparano alle imbarcazioni se non si fermano: sono segreti di Stato, banalmente. Ecco perché sono sempre stato favorevole alla presenza di civili in mare. Un giorno mi chiama la capitaneria, c’è una nave ferma a venti miglia dalla costa. Vado col rimorchiatore, salgo: a bordo c’erano quattro finanzieri che cercavano di mettere in moto l’imbarcazione. Eravamo io e loro, nessun altro. Sembrava una nave fantasma. Poi sento gridare. E vedo che, sotto, c’era di tutto. 480 persone, in una stiva unica, impossibilitate a uscire. Gli scafisti avevano chiuso tutti i boccaporti con cavi d’acciaio. Mi sono incazzato coi finanzieri: ma scusate, pensate a sto cavolo di motore, mentre questi muoiono soffocati. Poi sono riuscito a entrare. Mi sentivo morire, non c’era aria. Ana Tabib, sono un medico. Mi prendono per mano, mi mi portano da qualcuno. Al buio sento un collo, non c’era battito. Metto una mano su naso e bocca, nessuna reazione. Era una donna, morta asfissiata. I finanzieri sopra continuavano a non voler far uscire nessuno. Con un grimaldello sono riuscito ad aprire qualche fessura. In porto li abbiamo liberati. Se in mare ci fossero stati solo militari, in porto di asfissiati ne avremmo trovati non uno, ma cento. Perché nessuno aveva in mente di farli respirare prima. Perché l’ordine, sacro, era: riportate la nave a terra. E non: fate vivere queste persone. Gli uomini di mare sono grandi uomini ma gli ordini sono ordini». Anche vent’anni fa, in tv, Maurizio Costanzo gli chiese: quale è la sua reazione, di fronte a tutto questo? «Mi indigno. Mi indigno sempre», risponde anche adesso Amodeo. «Però le persone che non si indignano io le capisco, perché queste cose non le sanno. La gente sa quello che gli dice la televisione, quindi non sa niente. Se sapesse cosa succede nel mondo, e nel mediterraneo. Non c’è un politico serio che lo spieghi: siamo in una migrazione perpetua, perenne, e bisogna affrontarla politicamente, in un modo serio. Adesso stai tamponando. Non hai risolto niente. E tra vent’anni quando sarai accusato di crimini contro l’umanità, non puoi dire “ah ma io non lo volevo”. La gente deve sapere. E se non lo sanno, bisogna dirlo: in Libia ci sono i lager, uccidono le persone, violentano, torturano. Spesso e volentieri, le persone vengono messe sui camion, portati tra Libia e Algeria e lasciati là. Sai cosa vuol dire se ti lasciano nel deserto? Che scompaiono le tue tracce: dopo due giorni sei morto di sete, e dopo altre 24 ore il deserto ti copre. Magari fra cinquant’anni verrà fuori il tuo scheletro. Non me lo ha detto una sola persona, me lo hanno detto in tanti. Chi è sopravvissuto lo ha detto anche all’Onu. E noi li mandiamo in Libia? Ma che stiamo facendo? Quale è il senso di ammazzare le persone?». «Ecco perché non sopporto Salvini, che parla sempre col sorriso. Ha capito che la Lega nord non avrebbe avuto un futuro, fondamentalmente sta imponendo la razza italiana, sa che manda la gente a morire. I miei amici dicono che sono un pazzo. Ma io so che ho avuto la fortuna di stare nel posto giusto, ho usato la mia divisa per aiutare gli altri e ho sempre rispetttato alla lettera le leggi italine. Non mi sento isolato, e neanche appoggiato. Non cerco alleanze, non me ne frega niente. Se qualcuno mi vuol ascoltare mi ascolta. Però oggi mi vergogno di essere italiano. E voglio campare da uomo libero. Comandi Salvini, Di Maio, o chiunque altro».

La violenza antirazzista: al corteo per la Diciotti feriscono un poliziotto. Scontri ieri sera al molo di Levante del porto di Catania vicino alla nave Diciotti. Un agente ferito, un manifestante ha avuto un malore, scrive Claudio Cartaldo, Sabato 25/08/2018, su "Il Giornale". Eccoli i buonisti e antirazzisti al molo di Catania. Protestavano per far scendere i migranti dalla nave Diciotti della guardia costiera. Ieri cantavano Bella Ciao, oggi sono passati a menar le mani. E hanno pure ferito un poliziotto. Alla faccia della bontà d'animo. In serata, mentre il governo stava ancora cercando una soluzione alla questione Diciotti, un gruppo di persone si è ritrovato al molo di Levante per una manifestazione organizzata da un insieme di associazioni. Il motto? La "liberazione" dei migranti che per 5 giorni sono rimasti a bordo della nave Diciotti. Un gruppo di militanti ha caricato le forze dell'ordine in assetto antisommossa, per provare a sfondare il cordone di sicurezza. Un agente è rimasto ferito ed è stato soccorso. Poche ore dopo è arrivata la notizia che tutti, forse, si aspettavano. Il ministro dell'Interno Matteo Salvini è stato indagato dalla procura di Agrigento e ora il fascicolo passerà al Tribunale dei Ministri. Le ipotesi di reato sono sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio… Il leghista non si è mostrato preoccupato e ha reagito all'apertura dell'indagine a suo carico definendo "vergognoso" il fatto che i magistrati abbiano deciso di indagare lui e "nessuno per il crollo del ponte di Genova". Fatto sta che ora i migranti a bordo della Diciotti lasciano la nave. Ma non verranno ospitati dall'Italia o a spese degli italiani. Venti di loro andranno in Albania, altri 25 in Irlanda e degli altri se ne farà carico la Chiesa cattolica italiana. Il tutto a sue spese. Salvini ha ringraziato dal palco di Pinzolo i Vescovi per questa scelta. Ben diversa da quella degli antirazzisti di Catania. Che hanno preferito ferire un agente di polizia.

Diciotti: da cosa scappano i migranti a bordo. Molti vengono dall'Eritrea, un paese dove libertà civili e diritti politici di fatto non esistono, scrive Marta Buonadonna il 24 agosto 2018 su "Panorama". La parola d'ordine dell'Occidente è libertà. Possono crollare ponti, la disoccupazione può avere percentuali a due cifre, il dibattito politico, sui social e non solo, può essere di un livello molto basso, ai limiti dell'insulto, ma possiamo considerarci un paese avanzato nella misura in cui come cittadini ci sentiamo liberi. Di vivere la vita che vogliamo, di esprimere le nostre opinioni, di partecipare alla vita politica.

Dove la libertà è un lusso. Secondo il più recente rapporto di Freedom House, watchdog americano che monitora lo stato dei diritti umani nel mondo, nel 2018 solo 88 paesi su 195 possono essere definiti liberi: il 45% del totale, che rappresenta solo il 39% della popolazione mondiale, cioè poco meno di 3 miliardi di persone. Ed è già un passo avanti rispetto al rapporto precedente, del 2017, quando i paesi liberi erano 87, a cui quest'anno si è aggiunto Timor Est. In seconda battuta ci sono i paesi che l'organizzazione definisce, in base a punteggi assegnati su un lungo elenco di parametri, come parzialmente liberi. Si tratta di 58 nazioni, (dal Bangladesh al Kosovo, dalle Fiji al Guatemala), cioè il 30% di quelli considerati, in cui vivono 1,8 miliardi di persone, un quarto della popolazione mondiale. Infine vi sono 49 paesi in cui la libertà di un totale di 2,7 miliardi di cittadini non è ancora garantita. La metà di essi vive in un solo paese, la Cina. Parafrasando Orwell, che nella sua fattoria degli animali diceva che tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali di altri, tra i paesi che non possono definirsi liberi ve ne sono alcuni nei quali la popolazione è meno libera che altrove. L'Eritrea, il paese dal quale pare di capire arrivino molti dei 177 migranti a bordo della nave Diciotti, attraccata nel porto di Catania, è uno di questi.

Eritrea tra i 4 peggiori. In un indice compreso tra 1 e 7, dove 1 indica il massimo della libertà e 7 indica invece il minimo, l'Italia ottiene 1 sia per quel che riguarda i diritti politici sia per le libertà civili. L'Eritrea ottiene 7 in entrambi i parametri. Per quel che riguarda il punteggio aggregato, assegnato da Freedom House a ogni paese esaminato, secondo un indice che va da un minimo di zero a un massimo di 100, l'Italia ottiene 89, la Finlandia, il migliore in assoluto, 100, l'Indonesia (tra i paesi considerati parzialmente liberi), 64, la Cina 14, l'Eritrea 3. Fanno peggio solo la Siria, che ottiene addirittura -1, il Tibet, che si ferma a 1 e il Sud Sudan, che ottiene 2. Per avere idea di come si traduca quel 3 su 100 nella pratica, basta leggere la scheda che Freedom House dedica al paese. "L'Eritrea è uno stato autoritario militarizzato che non ha tenuto elezioni nazionali dall'indipendenza dall'Etiopia nel 1993. Il Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (PFDJ), guidato dal presidente Isaias Afwerki, è l'unico partito politico. La detenzione arbitraria è comune e ai cittadini è richiesto di prestare il servizio nazionale, spesso per tutta la vita lavorativa. Il governo ha chiuso tutti i media indipendenti nel 2001".

Niente elezioni, zero informazione libera. Scendendo nel dettaglio, scopriamo perché il paese meriti i punteggi più bassi per diritti politici e libertà civili. Dal 1993 c'è un governo non eletto guidato da un presidente scelto da un'Assemblea provvisoria, in attesa di una nuova Costituzione, entrata in vigore la quale si sarebbero tenute libere elezioni, cosa che non è mai avvenuta. Non ci sono partiti politici legalmente riconosciuti a parte quello di governo, e non è possibile fondarne. La società eritrea è dominata dalle forze armate, ogni dissenso è punito con la reclusione. L'alternativa è l'emigrazione illegale. Solo l'1% della popolazione ha accesso a Internet. Tutti i giornali indipendenti sono stati chiusi nel 2001 e molti dei giornalisti che vi lavoravano sono stati incarcerati. Non c'è libertà di riunione. Le principali proteste degli ultimi decenni, come quelle dei veterani di guerra del 1993 e del 1995 e degli studenti del 2001, si sono concluse con arresti di massa e la reclusione per gli organizzatori.

Arresti, torture e schiavitù. Quanto allo stato di diritto, "arresti arbitrari e detenzioni sono comuni; gli obiettivi includono coloro che sfuggono al servizio militare, cercano di fuggire dal paese o sono sospettati di praticare una religione non autorizzata. I detenuti vengono regolarmente trattenuti per periodi indefiniti senza accusa né processo, con le autorità che si rifiutano persino di informare i familiari se sono ancora vivi. Non esiste un sistema operativo di avvocati della difesa pubblica. Migliaia di prigionieri politici e prigionieri di coscienza rimangono dietro le sbarre", si legge nel rapporto. E poi naturalmente c'è la tortura. "Gli investigatori delle Nazioni Unite hanno descritto l'uso abituale e sistematico della tortura fisica e psicologica nei centri di detenzione sia civili che militari. Sono stati segnalati anche decessi in custodia o durante il servizio militare a causa di torture e altre condizioni dure". I due gruppi etnici Kunama e Afar sono gravemente discriminati, le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso sono criminalizzate e le persone LGBT non godono di alcuna protezione legale dalla discriminazione sociale. Anche la libertà di movimento conosce forti limitazioni, e i giovani in età da servizio militare, in particolare, non hanno il permesso di abbandonare il paese. "Rifugiati eritrei e richiedenti asilo che sono rimpatriati da altri paesi sono soggetti a detenzione in condizioni dure". E ancora: "Lo stupro di donne e forme di violenza sessuale contro gli uomini sono comuni nella detenzione e nel servizio militare".

Il viaggio della speranza. Il servizio militare obbligatorio per uomini e donne dovrebbe avere la durata di 18 mesi, ma di fatto può protrarsi per anni, nei quali ai coscritti può essere richiesto di lavorare per le imprese controllate dall'elite politica. Un sistema che gli esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani hanno descritto come una forma di schiavitù. I primi racconti dei migranti a bordo della Diciotti sembrano confermare quanto rilevato da Freedom House nel suo rapporto. Parlano di servizio militare senza fine, di violenze indiscriminate, di condizioni di vita rispetto alle quali la fuga, per quando estremamente pericolosa, rappresenta un'alternativa per molti auspicabile. Ecco perché si affidano ai trafficanti di esseri umani.

"I topi, le scimmie e Matteo Salvini": l'indecenza in diretta, scoppia un caso alla Rai, scrive il 24 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". "Hanno testato il vaccino sui topi e sulle scimmie, ora proveranno con Matteo Salvini e poi con l'uomo". Questa la "simpaticissima" battuta di Mauro Casciari, conduttore di Summer Club su Radio 2, che rischia di sollevare un polverone in Rai. "La commissione di Vigilanza richiami i conduttori e chieda una rettifica dell'offensiva battuta - attacca Simona Pergreffi, senatrice della Lega e membro della Vigilanza -. Simili battute non solo non si confanno ad un programma del servizio pubblico, ma risultano essere offensive e fortemente lesive per l'immagine istituzionale del ministro". La Pergreffi ha già scritto al presidente della commissione di Vigilanza Rai Alberto Barachini, di Forza Italia, per informarlo dell'accaduto, invitando Casciari al "rispetto della dignità della persona Matteo Salvini, nonché al ruolo istituzionale che ricopre. Mi auguro che nella prossima puntata arrivino delle rettifiche". Scuse che sono arrivate. Almeno quelle.

Diciotti, Fazio anti Salvini ora invoca gli dei: "Sbarcare i migranti". Al partito di chi vuol far scendere i migranti dalla Diciotti si iscrive pure Fazio Fazio: "Bisogna consentire di sbarcare a tutte le persone a bordo della Diciotti", scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 23/08/2018, su "Il Giornale". "Guarda chi si rivede! Mancava solo lui all’appello", con questa frase Matteo Salvini accoglie l'ultima critica che gli viene rivolta per come sta gestendo il caso Diciotti. Si tratta di Fabio Fazio, conduttore tv a volte critico nei confronti del leader della Lega. Dopo Roberto Saviano, dopo una lunga lista di parlamentari del Pd e della sinistra in genere, dopo l'Anpi e le altre associazioni, ora anche Fabio Fazio si iscrive al partito di chi considera un obbligo fa sbarcare gli immigrati a bordo della nave della Guardia costiera italiana. "Tanto tempo fa - ha cinguettato il giornalista - qualcuno ha scritto che 'esistono le leggi non scritte e immutabili degli dei' a cui bisogna obbedire innanzitutto. Bisogna consentire di sbarcare a tutte le persone a bordo della Diciotti". A giugno il condutore di Che tempo che fa era entrato nel dibattito pubblico con una posizione simile e critica nei confronti del vicepremier leghista. Era il tempo della Aquarius e della Lifeline. "Nessuno sceglie da chi nascere e dove nascere - scrisse allora Fazio - Tantomeno se essere quello che attraversa il mare su un barcone o quello che invece decide se farlo attraccare in un porto sicuro. Non ci possiamo abituare a quello che sta accadendo in questi giorni".

Partigiani e centri sociali in pressing sulla Diciotti. Rete antirazzista, Anpi e centri sociali pronti a scendere in piazza. La Guardia Costiera al Viminale: "Fateli scendere", scrive Luca Romano, Sabato 25/08/2018, su "Il Giornale". Quinta giornata al porto di Catania, la decima sulla Diciotti, la nave della Guardia costiera dove sono costretti a vivere tra ristrettezze e timori 150 migranti. "Facciamoli scendere" è lo slogan della manifestazione programmata nel pomeriggio per iniziativa, tra gli altri della Rete antirazzista, Legambiente, Pax Christi, Cobas, Arci, Anpi, No Muos e centri sociali. Il quadro resta fortemente incerto dopo la fumata nera in sede europea. Ieri un folto gruppo consistente di migranti, circa 120, ha iniziato lo sciopero della fame a riprova di una insofferenza e tensione crescenti e un deciso e inedito pressing è arrivato anche dalla stessa Guardia costiera che in un report inviato al governo e alle procure ha evidenziato la criticità della situazione che impone lo sbarco immediato. Ieri Matteo Salvini ha indicato quella che potrebbe essere una possibile via d'uscita: eseguire le procedure di riconoscimento e identificazione a bordo per individuare i reali profughi: sulla nave ci sono 130 eritrei, un somalo, due siriani, 10 delle Isole Comore, 6 bengalesi, e un egiziano. E oggi missione della procura di Agrigento a Roma per sentire come persone informate dei fatti alcuni funzionari del Viminale nell'ambito dell'inchiesta coordinata da Luigi Patronaggio, per sequestro di persona e arresto illegale (ma che potrebbe contestare anche l'abuso d'ufficio), puntando a ricostruire la catena di comando per individuare chi ha dato l'ordine di non fare sbarcare i migranti. Al momento l'inchiesta resta contro ignoti e le indagini sono state delegate alla Guardia costiera, verso la quale, dunque, c'è la massima fiducia, e punta ad accertare le responsabilità individuali dei soggetti che fanno parte di questa catena di comando. E il titolare del Viminale ha lanciato la sfida: "Ascoltino me". Indagano anche la procura di Palermo, per associazione a delinquere finalizzata al traffico di uomini, e quella di Catania, che ha aperto un fascicolo di atti relativi.

Travaglio contro Salvini: “Governo disumano e xenofobo”. La vignetta del Fatto: "Il Ministro dell'Interiora". Travaglio contro Salvini: “Ha reso il governo disumano e xenofobo”. Il direttore del Fatto Quotidiano commenta il caso Diciotti: “Deve intervenire Conte”, scrive il 24 agosto 2018 Silvana Palazzo su "Il Sussidiario". Se anche un ambienti vicini alla sinistra non è passata inosservata la dura invettiva di Marco Travaglio, nel suo editoriale di questa mattina su Il Fatto Quotidiano, contro Matteo Salvini e anche l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte, raccogliendo diversi consensi, a difesa del Ministro degli Interni arriva invece Libero Quotidiano. Infatti, la testata diretta da Vittorio Feltri replica nella sua edizione online scagliandosi contro la vignetta che il giornale di Travaglio ha dedicato in prima pagina allo stesso leader del Carroccio e che raffigura uno schizzo di Salvini intento al telefono con in bella vista però gli organi interni e un feto al posto dello stomaco, mentre invece non v’è alcuna traccia del cuore. “Il quotidiano più grillino d’Italia ha tra i suoi lettori molti simpatizzanti di sinistra, assai sensibili al tema dell’accoglienza” si legge nell’articolo apparso sul sito di Libero e nel quale si critica l’imbarazzo del Fatto che alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle non seguono Roberto Fico nella vicenda della nave Diciotti ma si allineano a Salvini: “Che fare? Semplice, dare addosso a Matteo Salvini scaricando sul ‘cattivone’ alleato leghista tutta la responsabilità” si legge, sottolineando anche che la rappresentazione del titolare del Viminale quale “Ministro dell’Interiora” è “roba da macelleria”. (agg. di R. G. Flore)

"RIECCO LA SUA SOLITA LITANIA SUI MIGRANTI...". Nel suo durissimo editoriale apparso oggi sul giornale che dirige, Marco Travaglio non solo si è lanciato in un durissimo affondo contro il Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, in merito alla oramai surreale vicenda della nave Diciotti, ma come già gli era capitato ha sferzato il Governo Conte che si sta rendendo complice di una sorta di deriva xenofoba imposta, secondo il direttore de Il Fatto Quotidiano, proprio dal leader del Carroccio. A detta di Travaglio, la strategia della tensione montata sull’ennesimo caso riguardante dei migranti servirebbe a Salvini non solo per distogliere le attenzioni dall’agenda di Governo dell’alleato, il Movimento 5 Stelle, ma anche per riprendersi la scena e dirottare l’attenzione dagli sviluppi delle indagini sul crollo del ponte Morandi a Genova: “Per esempio, i rapporti malsani e spesso corrotti tra politica e affari, riportati alla ribalta dal crollo del ponte, col retrostante scandalo dei beni pubblici regalati ai privati dai vecchi partiti, Lega compresa”. Dunque secondo Travaglio quella del Ministro sarebbe una gigantesca strategia della distrazione di massa, a scapito dei migranti a bordo della Diciotti, al fine di dirottare l’attenzione dei media lontano dai fatti di Genova di cui vuole che se ne parli “Il meno possibile”. (agg. di R. G. Flore)

IL DIRETTORE DEL FATTO SUL CASO DELLA NAVE DICIOTTI. «Però adesso basta». Questo il titolo scelto da Marco Travaglio per l'editoriale sul Fatto Quotidiano in merito al caso Diciotti. La nave è attraccata al porto di Catania senza che i migranti a bordo possano sbarcare: non sono autorizzati a farlo dal Viminale guidato da Matteo Salvini. Si è così creata una situazione di stallo definita «vergognosa» dal direttore del Fatto Quotidiano, il quale ha lanciato accuse chiare al governo e ha chiesto al premier Giuseppe Conte di intervenire, in quanto «responsabile dell'indirizzo generale del Governo». Travaglio suona la sveglia a Conte, «anche perché nemmeno il sadico più efferato può pensare di lasciare quei poveretti su una nave non certo da crociera in alto mare per altri giorni o settimane». Spetta dunque al presidente del Consiglio, «spiegare al suo vice premier e ministro dell'Interno Matteo Salvini che il tempo per le ostentazioni muscolari è ampiamente scaduto». A Conte anche il delicato compito di «levare al più presto l'Italia dalla parte del torto – cioè della disumanità e della xenofobia – in cui Salvini l'ha cacciata. Proprio perché finora era stata dalla parte della ragione».

TRAVAGLIO: “CON SALVINI GOVERNO DISUMANO E XENOFOBO”. Le responsabilità di Malta, Libia e più in generale dell'Europa sono chiare a tutti, ma i migranti non ne hanno alcuna colpa. Questo il pensiero di Marco Travaglio, che in un editoriale sul Fatto Quotidiano ha sferrato un duro attacco al governo M5s-Lega sul caso Diciotti. L'Europa «continua a essere soltanto un'espressione geografica e linguistica», ma di tutto ciò «questi i 177 eritrei ridotti a larve dopo settimane di navigazione non hanno alcuna colpa e la responsabilità della loro vita ricade sulla solita Italia». Se da una parte l'Italia non può accettare lezioni di accoglienza da nessuno, dall'altra per Travaglio non deve mettersi nelle condizioni di riceverne. Non manca nell'editoriale di Travaglio un attacco a Matteo Salvini: «Al solito, gioca la sua partita cinicamente e spregiudicatamente: usa l'arma di distrazione di massa di un'emergenza finta, per riprendersi la scena rubata dai 5 Stelle sui vitalizi, il dl Dignità e il caso Autostrade; e per distrarre l'attenzione dalle vere emergenze nazionali».

Giorgia Meloni demolisce i Pearl Jam: "Insultano Matteo Salvini, intanto questi in Costa Smeralda...", scrive il 29 Giugno 2018 "Libero Quotidiano". Dopo Rita Pavone, anche la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni attacca i Pearl Jam. La band di Seattle è finita al centro delle polemiche dopo aver eseguito durante il concerto allo stadio Olimpico di Roma una cover di Imagine dedicata ai migranti mentre sui maxischermi scorrevano gli hashtag della campagna #Apriteiporti e #Saveisnotacrime ("salvare non è un crimine"). Un messaggio diretto al governo italiano e a Matteo Salvini in particolare che non è piaciuto alla Meloni. "Diamo ascolto ai Pearl Jam - ha scritto su Twitter la leader di Fratelli d'Italia -: andiamo a prendere i barconi degli immigrati e portiamoli al party esclusivo degli stessi Pearl Jam organizzato nei prossimi giorni in Costa Smeralda!". Contro i Pearl Jam si è scagliata anche Rita Pavone. "Della serie: ma farsi gli affari loro, mai?!", ha scritto su Twitter la cantante ricevendo dure critiche per le sue parole.

Toh, chi si rivede: la Kyenge la spara grossissima in diretta, meno male che Sallusti la blocca, scrive il 24 Agosto 2018 "Libero Quotidiano".  "L'immigrazione è un fenomeno che non si può fermare, è impossibile". L'ex ministro Cecile Kyenge la spara grossa a In Onda, su La7. Meno male che Alessandro Sallusti riporta la logica in trasmissione. "Ogni paese deve fissare un numero di migranti che può accogliere e aiutare, l'infinito non esiste", dice il direttore del Giornale. Parole sante. 

Federica Mogherini come Salvini: "Gli immigrati aiutiamoli a restare in Africa". Boldrini e Kyenge distrutte, scrive il 28 Giugno 2018 "Libero Quotidiano". "Aiutare gli immigrati nei loro paesi". Quando lo dice Matteo Salvini, la sinistra lo addita a simbolo di razzismo, egoismo, xenofobia. E quando lo ha scimmiottato Matteo Renzi, anche nel Pd lo hanno accusato di populismo d'accatto. Bene, a Laura Boldrini, Cècile Kyenge, Gino Strada e compagni sarà preso un colpo leggendo giovedì mattina su Repubblica la lettera di Federica Mogherini, Alto rappresentante per l'Unione europea (la ministra degli Esteri Ue, messa lì proprio da Renzi), ripetere con altre parole gli stessi concetti dell'attuale ministro degli Interni. Il "cattivone leghista", insomma. Lady Pesc snocciola i dati, fin noiosi, di quanto fatto dall'Unione europea in Africa "salvando decine di migliaia di vite e riducendo dell'80% gli sbarchi in Italia". "Insieme a Unione africana e Onu in 7 mesi abbiamo evacuato oltre 20mila migranti rinchiusi in condizioni disumane nei centri di detenzione - si difende dall'accusa di cinismo, già rovesciata sull'ex ministro degli Interni Marco Minniti -. Chi ne aveva diritto ha ottenuto un canale di protezione; gli altri sono stati aiutati a tornare in patria con un sostegno per iniziare un'attività economica". Eccolo, l'elemento ricorrente: gli africani a casa loro. "Una delle mie prime visite è stata a Agadez, in Niger. Lì abbiamo creato un centro in cui le agenzie dell'Onu assistono i migranti e li aiutano a rientrare a casa. Nell'estate del 2016 c'erano 70mila persone, oggi i flussi sono diminuiti del 77%. Anche questo è un modello che si può replicare". La tesi, sacrosanta, è che la emigrazione sia per l'Africa un impoverimento epocale e drammatico, un'ipoteca sul futuro del continente. Anche per questo, aggiunge "lì investiamo ogni anno 20 miliardi di euro su crescita economica, aiuti umanitari, diritti umani". La colpa, conclude, non è dell'Europa ma degli Stati membri che non contribuiscono adeguatamente ai fondi per l'Africa. "L'Ue ha messo 2,9 miliardi, gli Stati membri appena 379 milioni. Ora manca un miliardo per completare i progetti. L'Ue ne metterà la metà, il resto dovrà venire dalle capitali". Anche lei verrà definita razzista?

Laura Boldrini, oltre la follia: "Salvini popolare come i dittatori. Oggi i migranti, domani...", scrive il 25 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". "Si è incartato da solo, Matteo Salvini. I suoi amici di Visegrád non gli hanno concesso neanche un dito". Viaggia tra l'indignazione e l'euforia, Laura Boldrini. Reduce dalla visita di cortesia alla nave Diciotti, tra i migranti, una ritrovata vetrina politica per l'ex presidenta della Camera caduta nel dimenticatoio al 4 marzo, la deputata di LeU riversa sul ministro degli Interni una clamorosa colata di bile. Intervistata dal Corriere della Sera, la Boldrini mette in guardia gli italiani (o perlomeno, i suoi pochi elettori) dal rischio di considerare una vittoria la linea dura di Salvini sull'immigrazione. "Affronta in questo modo i flussi immigratori perché deve distogliere l'attenzione dalle promesse fatte agli elettori: davanti a me disse che con la Lega al governo sarebbero stati espulsi 600 mila immigrati", ricorda la Boldrini, che poi regala due perle degne del vecchio repertorio. Quando le fanno notare che molti italiani la pensano come Salvini, le risponde così: "Anche i dittatori sono popolari. Il fatto che Salvini abbia seguito non implica che stia facendo la cosa giusta. Non per questo bisogna rinunciare a contrastare le sue affermazioni". E poi, il monito con il ditino alzato: "Gli italiani dovrebbero porsi una domanda davanti a questi immigrati trattenuti in modo illegittimo. Oggi tocca a loro e domani? Si arriverà a trattenere senza l'autorizzazione di un giudice i manifestanti e gli oppositori politici?". Il regime, ovvero l'unica speranza di esistenza per la sinistra.

Diciotti, Boldrini: non è questo il modo, perdiamo credibilità. La ex presidente della Camera al molo di Catania, scrive il 24 Agosto 2018 Libero Quotidiano". "Il presidente Conte al Consiglio ultimo di giugno disse 'l'Italia non è più sola, finalmente qualcuno ci ascolta', la Diciotti è la prova del fatto che non ci ascoltano perché non è questo il modo, non è sequestrando, così perdiamo credibilità agli occhi di tutti i paesi in cui vige lo Stato di diritto, qui si rischia di andare a infrangere lo stato di diritto2. Lo ha detto la ex presidente della Camera Laura Boldrini da Catania dove è salita sulla nave Diciotti. "Mi auguro che capisca che tutto questo è controproducente, il Paese perde credibilità non solo agli occhi dei partner europei ma agli occhi del mondo".

Diciotti, Alessandra Mussolini contro Laura Boldrini: "Lasciamola sulla nave dei migranti", scrive il 24 Agosto 2018 Libero Quotidiano". Alessandra Mussolini, da poco passata alla Lega di Matteo Salvini, sbrana Laura Boldrini per la sua visita agli immigrati della Diciotti: "Vattene a Genova non a Catania. Lasciamola sulla nave ed imbarchiamola per la Libia", le urla in diretta all'Aria che tira, che la ospita insieme ad Annalisa Chirico e Andrea Ruggeri. Alessandra Mussolini, eurodeputata non più di Forza Italia appoggia il Governo sulla questione immigrazione ed attacca Laura Boldrini per aver visitato la Diciotti e non gli italiani colpiti dal crollo del ponte Morandi a Genova. Come non essere d'accordo con lei?

Alessandro Sallusti zittisce Laura Boldrini: "La verità sulle donne della Diciotti", scrive il 24 Agosto 2018 Libero Quotidiano". Nessuna emergenza. "Le donne a bordo della Diciotti non sono né più tranquille né meno tranquille di tante donne italiane". Questo dichiara Alessandro Sallusti zittendo Laura Boldrini. L'ex presidente della Camera ha fatto visita alla nave e ha lanciato l'allarme. Fuffa, secondo il direttore de Il Giornale, che si è espresso in diretta tv a In Onda. 

Diciotti, dopo la visita di Laura Boldrini scatta la rivolta: i migranti fanno sciopero della fame, scrive il 24 Agosto 2018 Libero Quotidiano". Sciopero della fame a bordo della Diciotti: i migranti a bordo hanno deciso di rifiutare la colazione per protesta. A rendere noto il fatto il senatore del Pd Davide Faraone, che giovedì era sulla nave per rendersi conto della situazione. "Le visite sono sospese per ragioni di sicurezza", conclude il dem. L'ultimo politico a salire a bordo alla Diciotti è stata l'ex presidente della Camera Laura Boldrini, che poi ha provocato il ministro degli Interni Matteo Salvini: "Faccia l'uomo e faccia scendere le donne ancora presenti". "Oggi va a fare le sfilate a Catania chi ha fatto diventare l'immigrazione un bubbone - è l'attacco di Luigi Di Maio, ospite di Agorà -. Non dovrebbero farci la lezioncina, dovrebbero chiedere scusa agli italiani". "Abbiamo a cuore la salute delle persone sulla nave - ha proseguito Di Maio -, ma non accetto lezioni da chi va a fare le sfilate e poi non è venuto ai funerali.

Salvini zittisce la Boldrini: "Vive su un altro pianeta". Matteo Salvini risponde alla Boldrini dopo le polemiche sulla Diciotti: "Lo sciopero della fame? Questa vive su un altro pianeta!", scrive Claudio Cartaldo, Sabato 25/08/2018 su "Il Giornale". Torna lo scontro a distanza tra Matteo Salvini e Laura Boldrini. Sulla nave Diciotti il dibattito politico non è certo mancato. E non sono mancati i momenti di frizione tra l'ex presidente della Camera e il ministro dell'Interno. Ieri la deputata di Leu è salita a bordo della nave dove sono accolti i migranti in attesa di una soluzione al loro sbarco. L'Ue ieri ha sbattuto la porta in faccia all'Italia e oggi il Viminale ne ha aperta un'altra, che però guarda ai paesi extra europei. L'Albania, infatti, ha appena comunicato alla Farnesina che prenderà in carico 20 migranti della nave. Intanto l'autorità sanitaria ha disposto lo sbarco di 17 persone. Ben 13 sono già scese dalla Diciotti, le altre invece hanno deciso di rimanere a bordo per stare con i loro compagni o mariti. Lo sbarco per motivi sanitari, infatti, non necessita di una autorizzazione del Viminale che invece è necessaria per tutti gli altri migranti. Ma torniamo alla Boldrini. "Finalmente #Salvini sta facendo ciò che si deve: sette donne e sei uomini bisognosi di cure mediche sono appena sbarcati dalla nave #Diciotti. Ma non basta, adesso faccia un altro passo verso l'umanità e il rispetto del diritto: liberi tutti gli altri e l'equipaggio. #FateliScendere", ha scritto su Twitter l'ex presidente della Camera che ieri aveva rilanciato lo sciopero della fame degli immigrati a bordo della Diciotti. Ma è arrivata la risposta di Salvini: "La Boldrini è rimasta scioccata perché i passeggeri della Diciotti “non hanno accettato il cibo”. Questa vive su un altro pianeta... Un pensiero ai milioni di italiani in condizione di povertà che quel cibo lo avrebbero accettato volentieri", ha scritto su Facebook il vicepremier.

Antonio Socci, la frustata a Boschi e Boldrini: "Una questione umanitaria", come le umilia sui migranti, scrive il 25 Agosto 2018 Libero Quotidiano". Una "questione umanitaria" sulla nave Diciotti. La denuncia Antonio Socci, ma non è quella urlata ai quattro venti dalla sinistra. Anzi, scrive con amara ironia Socci su Twitter, l'emergenza è data dal pellegrinaggio dei compagni a Catania. Dalla Boschi alla Boldrini, da Martina a Fassina, tutti in sfilata. "Non si possono infliggere ai migranti queste sofferenze...", sentenza Socci. I migranti della Diciotti oggi hanno dovuto subire le visite della Boschi, di Miccicché, di Fiano, di Fassina e già prima della Boldrini, di Magi e di Martina. Non si possono infliggere ai migranti queste sofferenze... E' una questione umanitaria. 

Paolo Bargiggia, il tweet che asfalta Laura Boldrini: "Tu e la tua risorsa senegalese...", scrive il 25 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Con la consueta schiettezza, il giornalista Mediaset Paolo Bargiggia si scaglia su Twitter contro Laura Boldrini e Maurizio Martina. "Scusate: quando Laura Boldrini e Maurizio Martina vanno sul posto a trovare la ragazza violentata dalla risorsa senegalese che hanno voluto e lasciato in Italia, mi avvisate per favore?", scrive Bargiggia, che condivide la notizia di "Jesolo, fermato un giovane per lo stupro della 15enne".

Matteo Salvini, la frase con cui umilia Roberto Fico: "Non penso a lui quando mi sveglio o vado a letto", scrive il 25 Agosto 2018 Libero Quotidiano". “Non vado a letto pensando a Fico e non mi sveglio pensando a Fico, onestamente. Sto aspettando che si svegli mia figlia per farle il latte con il miele. Questa è stata un’estate così complicata, così tragica, da Genova alla Calabria, che avere tempo di rispondere a tutti quelli che da quando son Ministro mi diffamano e mi attaccano, da Saviano ad Asia Argento, e Gad Lerner e qualche rapper di serie B”. Così il Ministro dell’Interno Matteo Salvini nel suo intervento ai microfoni di RTL 102.5 durante “Non Stop News”.

Mons. Antonio Suetta, il siluro del vescovo di Ventimiglia a Famiglia Cristiana: "Sui profughi meglio Salvini", scrive di Andrea Morigi il 25 Agosto 2018 su "Libero Quotidiano". Mons. Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia Sanremo, accoglie i migranti, anche in seminario, senza bisogno di retorica immigrazionista. «Sono assolutamente convinto che l'accoglienza sia un aspetto essenziale della carità e che, nella prospettiva della fede, abbia una priorità assoluta, ma la carità chiede di essere esercitata all' interno delle possibilità e delle responsabilità umane. Richiede l'uso dell'intelligenza e della responsabilità, che hanno a che fare con un incrocio di doveri, principi, situazioni. Non può esser ridotta a uno slogan e una bandiera. Le parole del Santo Padre e l'atteggiamento concreto della Chiesa sono espressione autentica del Vangelo».

Eccellenza, ha visto il sondaggio di Libero? L' 85% dei cattolici sostiene la politica di Salvini in tema d' immigrazione.

«C' è un senso comune dei fedeli che non sarebbe giusto per noi, come pastori, ignorare. A seconda degli argomenti, le sensibilità si esprimono in maniera diversa. Posso registrare che gran parte del mondo cattolico italiano ha una sensibilità di fondo che si esprime nell' adesione alle sue tradizioni in maniera salda e significativa. Ma va letta come difesa delle radici cristiane. E credo che molti cattolici, guardando alle espressioni diverse che abbiamo nel panorama sociale e politico, riscontrino una custodia, una preservazione a determinati valori».

Il risultato del sondaggio potrebbe risentire dell'effetto Famiglia Cristiana?

«Un po' penso di sì. Nel senso che, quando le posizioni diventano intransigenti ed esasperate, come nel caso della copertina di Famiglia Cristiana, molti non vi si ritrovano né nella sostanza né nella forma».

Gli intervistati hanno risposte anche a domande sui temi di carattere etico. Che ne pensa?

«Sui valori non negoziabili, durante la legislatura precedente, molti cattolici praticanti e credenti o anche non praticanti hanno provato un certo disagio nel vedere come esponenti di area cristiana non sono stati fermi nella difesa di certi princìpi quando si è trattato di legiferare sul fine vita o le unioni civili. Anche se nessuna formazione politica riflette totalmente la visione cristiana, è inevitabile che sul tema della famiglia o della vita, certe posizioni un po' troppo accondiscendenti possano e debbano far problema. Molti credenti si fanno domande, al di là delle intenzioni, sui risultati. Come pastore lo devo registrare e anche orientarlo».

Le prime reazioni dalla stampa cattolica sono accuse: si tratta di «praticanti non credenti». È d'accordo?

«Mi sembrano affermazioni ad usum delphini. Non è possibile giudicare credenti quelli che si uniformano a una data linea di pensiero e liquidare gli altri come se non avessero dignità di credenti. Sarà più faticoso, ma bisogna considerare che vi sono posizioni e sensibilità diverse che si confrontano.

Con tutta la pazienza che questo comporta. La società vive una crisi di fede e quindi anche di identità del cristiano. Mi pare di capire che un'affermazione di questo genere si concentra un po' troppo su un unico aspetto. Purtroppo considerato spesso da un unico punto di vista, quello dell'accoglienza dei migranti».

In più, chi è il prossimo?

Cioè, possiamo permetterci di aiutare i lontani, cioè meno prossimi?

«La vedo da un altro punto di vista che è la parabola del Buon Samaritano. Non è corretto tentare di fare gerarchie nella questione del prossimo.

Ci sono gradualità nella logica di un intervento: la prima è quella che configuriamo come emergenza: chi ha bisogno ha titolo al mio aiuto. Non vuol dire contrapporre coloro che hanno bisogno. Il vero sforzo della politica è il bene comune, che deve crescere nella pace e produrla».

Diciotti, nella notte sbarcano tutti i 137 migranti. Conte: “Sconfitta per l’Europa”. Ue: “Solidarietà non basta”. I profughi scesi dalla nave della Guardia Costiera sono nell'hotspot di Messina in attesa della successiva distribuzione tra Chiesa Italiana, che ne accoglierà un centinaio, Albania e Irlanda, che invece ne prenderanno una ventina ciascuno. Un risultato ottenuto solo grazie all'interlocuzione aperta dal governo italiano con Paesi extra Ue, scrive Il Fatto Quotidiano" il 26 agosto 2018. L’incubo è finito poco dopo la mezzanotte. Sono tutti a terra i 137 migranti rimasti a bordo della nave Diciotti ormeggiata per cinque giorni al porto di Catania. Hanno trascorso la notte nell’hotspot realizzato nell’ex caserma Gasparro di Messina. In molti hanno dormito poco visto che sono arrivati, su autobus dell’aeronautica militare di stanza a Sigonella, nella tarda nottata. Resteranno nella struttura gestita dalla società Badia Grande in attesa della successiva distribuzione tra Chiesa Italiana, che ne accoglierà un centinaio, Albania e Irlanda, che invece ne prenderanno una ventina ciascuno. Un risultato ottenuto solo grazie all’interlocuzione aperta dal governo italiano con Paesi fuori dall’Unione Europea. In questo senso – e cioè sul fronte della mancata solidarietà degli Stati comunitari – i rapporti tra Roma e Bruxelles non sono mai stati così tesi. “L’incontro che si è svolto ieri a Bruxelles, in tema di immigrazione, e che si è concluso con un nulla di fatto, non è una sconfitta dell’Italia, come qualcuno superficialmente ha scritto. È una sconfitta dell’Europa. Non attesta solo un arretramento rispetto alle Conclusioni che tutti e ventotto i Paesi membri hanno liberamente sottoscritto nel corso del Consiglio Europeo dello scorso giugno. Attesta una palese violazione dello spirito di solidarietà che anima i Trattati e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, è un passaggio del post scritto su facebook dal premier Giuseppe Conte. Un messaggio con cui il premier ha annunciato di aver sbloccato l’impasse. Lanciano nuovi avvertimenti verso Bruxelles: “Siamo al lavoro per porre una riserva all’adesione dell’Italia al piano finanziario pluriennale in corso di discussione. A queste condizioni, l’Italia non ritiene possibile esprimere adesione a un bilancio di previsione che sottende una politica così incoerente sul piano sociale”.  Scontro con Ue: “Politici italiani attacano Ue ma si sparano nei piedi” – Accolgo con favore il fatto che sia stata trovata una soluzione e che i migranti a bordo della Diciotti siano in grado di sbarcare e ricevere l’assistenza di cui hanno bisogno”, e questo “grazie alla solidarietà attraverso le frontiere e le comunità”, ma “non possiamo sempre aspettare per questo tipo di solidarietà basata sulla buona volontà, dobbiamo avere misure strutturali”, ha detto nella notte il commissario Ue alla migrazione Dimitri Avramopoulos.”I politici italiani devono mettere fine al gioco delle accuse, attaccare l’Ue significa spararsi nei piedi. Alcuni responsabili di governo per ragioni di politica e consenso interno si comportano in modo poco responsabile mentre sui migranti è necessario andare avanti tutti insieme, oppure il progetto europeo è a rischio”, ha aggiunto in un’intervista a Repubblica il commissario europeo. “L’Italia deve accettare di sbarcare e identificare i migranti, anche con l’aiuto finanziario della Commissione e il pieno sostegno di Easo (ufficio europeo di sostegno per l’asilo, ndr) e gli altri governi non devono lasciare Roma da sola, devono farsi carico dei richiedenti asilo”. L’indagine su Salvini. Minniti: “Ha creato conflitto tra poteri” - La giornata di ieri è stata segnata anche da un’altra notizia: l’iscrizione nel registro degli indagati di Matteo Salvini da parte della procura di Agrigento. Il pm Luigi Patronaggio ha ipotizzato il sequestro di persona e girato gli atti dell’inchiesta al tribunale dei ministri. Il leader della Lega non l’ha presa bene attaccando più volte la magistratura durante un comizio a Pinzolo. Indagano un ministro che difende i confini del Paese: è una vergogna ma non ci fermeranno. Aspetto con il sorriso il procuratore di Agrigento, voglio spiegargli le mie ragioni. Aspetto un procuratore che indaghi i trafficanti e chi favoreggia l’immigrazione clandestina. Gli ricordo che gli scafisti comprano armi e droga che poi viene spacciata magari fuori dalle scuole dei nostri figli”, ha detto il ministro dell’Interno. Che oggi viene attaccato per la prima volta dal suo predecessore al Viminale, Marco Minniti. Le sue scelte sono provvedimenti senza motivazione e, cosa più grave, stanno provocando un conflitto tra poteri dello Stato. E lo stanno facendo per un mero e basso scambio politico. Vogliono aprire una trattativa con l’Europa sulla pelle delle persone. Ma ci rendiamo conto che stanno gestendo quella nave come se fosse straniera in un porto italiano? L’effetto è incredibile: un conflitto tra corpi e poteri del nostro Paese”, dice l’esponente dem in un’intervista al Corriere della Sera. Per Minniti “c’è il rischio di uno slittamento della nostra democrazia. I nazionalpopulisti ci spiegano che non è possibile tenere insieme due sentimenti: umanità e sicurezza. Ma una democrazia deve saperli conciliare non costringendo nessuno a scegliere rinunciando così ad un pezzo di se stessi”. ” C’è una strategia della tensione comunicativa. Estremizzano ogni evento per capitalizzare il consenso da qui alle prossime europee”.

Diciotti, Salvini: ''Caso gestito in modo illegale o inumano? Avevamo un problema". Diciotti, concluso lo sbarco: migranti accolti da Albania, Irlanda e Chiesa. Nella notte si sono concluse lo operazioni di sbarco. Gli immigrati sono stati fotosegnalati e trasportati a Messina, scrive Claudio Cartaldo, Domenica 26/08/2018, su "Il Giornale". Alla fine sono scesi tutti. Nella notte si è concluso lo sbarco dei 137 migranti che erano rimasti a bordo della nave Diciotti. Al molo di Levante di Catania i richiedenti asilo sono stati fatti scendere a partire da mezzanotte, dopo l'annuncio di Salvini da Pinzolo. "Croce Rossa ha garantito prima assistenza e distribuzione di kit igienici", si legge in un tweet dell'organizzazione. Ora i migranti verranno accolti dall'Albania, dall'Irlanda e dalla Chiesa cattolica. Che si è impegnata a pagare di tasca propria la permanenza nel Belpaese degli immigrati. La vicenda, come noto, inizia circa dieci giorni fa quando le motovedette della Guardia costiera intercettano un barcone con 190 migranti. Dopo le polemiche con Malta, i profughi vengono traghettati sulla Diciotti che rimane per ore ormeggiata al largo di Lampedusa. Il governo autorizza lo sbarco di bambini e persone in difficoltà. Poi autorizza la rotta verso Catania, dove il pattugliatore della Guardia costiera resta ormeggiato con i migranti a bordo per ben 5 giorni. Intanto Salvini cerca l'appoggio dell'Europa, cui vorrebbe appaltare l'accoglienza di una parte degli "ospiti" della Diciotti. Ma l'Ue risponde picche. La riunione degli sherpa a Bruxelles si traduce in un nulla di fatto che fa infuriare Lega e M5S. Un giorno dopo la soluzione: ad accogliere i migranti sarà l'Albania (ne prenderà 20), l'Irlanda (dovrebbe accoglierne 25) e la Chiesa Cattolica. Stanotte dopo le rapide procedure di fotosegnalamento e prima identificazione, vengono fatti salire a bordo di tre pullman diretti a Messina. Nel pomeriggio di ieri avevano lasciato l'unità militare in 13 per ragioni sanitarie. Le operazioni si sono svolte con molta serenità, anche tra i migranti che avevano aderito allo sciopero della fame.

Diciotti, dopo dieci giorni i migranti sbarcano dalla nave. I 137 rimasti a bordo accompagnati nell'hotspot di Messina. Il commissario Ue alla migrazione Dimitri Avramopoulos: "Bene, ma non possiamo contare solo sulla buona volontà", scrive il 26 agosto 2018 "La Repubblica". Finita l'odissea dei migranti della Diciotti. E' iniziato dopo mezzanotte per concludersi poco dopo lo sbarco dei 137 migranti, scesi uno dopo l'altro dalla nave della Guardia costiera, ormeggiata al porto di Catania per 5 giorni. Sul pattugliatore sono rimasti però dieci giorni. I primi a scendere sono stati 12 giovanissimi, che sono stati presi in consegna da personale della Croce Rossa italiana. Dopo le rapide procedure di fotosegnalamento e prima identificazione, i migranti sono stati fatti salire a bordo di tre pullman diretti verso l'hotspot di Messina. Come in ostaggio, i migranti. Al centro di un braccio di ferro - e di un'aspra trattativa che ha visto l'Italia confrontarsi a muso duro con l'Europa - che si è risolto solo a tarda sera, e dopo la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati del ministro dell'Interno Matteo Salvini, fermo nell'opporsi allo sbarco. Dalla sua ha il premier Giuseppe Conte. "A queste condizioni - il commento del presidente del consiglio - l'Italia non aderisce al bilancio dell'Unione che sottende una politica così incoerente sul piano sociale". Alla notizia dello sbarco, il commissario Ue alla migrazione Dimitri Avramopoulos ha dichiarato: "Accolgo con favore il fatto che sia stata trovata una soluzione e che i migranti a bordo della Diciotti siano in grado di sbarcare e ricevere l'assistenza di cui hanno bisogno", e questo "grazie alla solidarietà attraverso le frontiere e le comunità", ma "non possiamo sempre aspettare per questo tipo di solidarietà basata sulla buona volontà, dobbiamo avere misure strutturali". Le operazioni si sono svolte con serenità, tra il sollievo dei migranti, delle forze dell'ordine, del personale di assistenza e dei 43 militari della Guardia costiera che hanno condiviso a bordo la sorte delle persone salvate dal mare.

Quella telefonata Salvini-Di Maio: "Matteo ora basta, non li tengo". Prima dello sbarco della nave Diciotti, Luigi Di Maio avrebbe chiamato al telefono Matteo Salvini per intimarlo a raggiungere una soluzione, scrive Giovanna Stella, Domenica 26/08/2018, su "Il Giornale". Ieri, in tarda serata, gli immigrati rimasti a bordo della nave Diciotti sono stati fatti scendere. Ma prima di arrivare a questa decisione definitiva, il ministro dell'Interno si è assicurato che i 150 migranti non rimanessero in Italia. L'apertura è arrivata dalla Chiesa italiana, dall'Albania e dall'Irlanda. Ci sarà, quindi, una redistribuzione come voleva fin dall'inizio Matteo Salvini. Questa redistruzione, però, gli è costata cara: il vice premier è finito nel registro degli indagati per sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio. Ma cosa è successo prima di tutto questo? Facciamo un passo indietro. Il caso della nave Diciotti ha creato parecchi malumori e mal di pancia dentro e fuori il governo. Perché se Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono sempre stati convinti sulla linea da tenere con i migranti e con l'Unione Europea, Roberto Fico ha fatto il bastian contrario e si è messo di traverso. "La giusta contrattazione con i Paesi dell'Unione Europea può continuare senza alcun problema, adesso però le 177 persone - tra cui alcuni minori non accompagnati - devono poter sbarcare. Non possono essere più trattenute a bordo, poi si procederà alla loro ricollocazione nella Ue", aveva detto solo tre giorni fa. Da questo momento si è creata una vera e propria spaccatura all'interno del Movimento 5 Stelle. E ecco che qui arriverebbe una telefonata segreta. Stando a quanto scrive il Corriere della Sera, infatti, prima dello sbarco della nave Diciotti ci sarebbe stata una telefonata tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Sarebbe stato proprio il grillino a telefonare al leghista. "Matteo ora basta, trova una soluzione - sarebbe il contenuto della telefonata -. I miei non li tengo più, hai visto cosa sta succedendo?". Il riferimento di Di Maio va sicuramente a tutti quei pentastellati che in questi giorni hanno chiesto lo sbarco immediato degli immigrati. Il vice premier pentastellato ha cercato di tenere i suoi buoni in tutti i modi, finché è arrivato "al limite". Poi il resto lo hanno fatto Albania, Irlanda e Chiesa italiana, i magistrati e Matteo Salvini...

Nave Diciotti, sbarcano tutti gli immigrati a bordo: trionfo di Salvini, dove li manda, scrive il 26 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Sono sbarcati tutti gli immigrati a bordo della nave Diciotti, dopo che il governo italiano e il ministro dell'Interno Matteo Salvini ha chiuso l'accordo con Albania, Irlanda e Cei per una distribuzione volontaria, nonostante il rifiuto di buona parte dei Paesi Ue. È iniziato poco prima della mezzanotte e un quarto lo sbarco dei 137 migranti scesi uno dopo l’altro dalla nave della Guardia costiera, ormeggiata al porto di Catania per 5 giorni. Ma sul pattugliatore sono rimasti complessivamente ben dieci giorni. Dopo le rapide procedure di fotosegnalamento e prima identificazione, vengono fatti salire a bordo di tre pullman diretti a Messina. Nel pomeriggio avevano lasciato l’unità militare in 13 per ragioni sanitarie. Le operazioni si sono svolte con molta serenità e sollievo sulla banchina, sia tra i migranti, sia tra le forze dell’ordine e il personale di assistenza. E sotto gli occhi della Guardia costiera (43 i militari che hanno condiviso a bordo la sorte dei profughi) che ha gestito la complessa vicenda con grandi professionalità e umanità, come riconosciuto da tutti, e che ultimamente aveva sollecitato i ministeri e le procure perchè si arrivasse a questo risultato, in considerazione della criticità della situazione. Nutrita sul molo la presenza della Croce rossa italiana. Del resto, sostanzialmente tranquillo, pur tra i timori e l’insofferenza crescente, era stato il comportamento dei migranti che hanno manifestato la loro insofferenza solo con lo sciopero della fame. Preghiere e canti avevano accompagnato lo sbarco dei giorni precedenti dei 27 minori. A luna già alta alcune decine di catanesi sono riusciti a raggiungere il molo e li hanno salutati, facendogli gli auguri per la loro nuova vita. In nottata, quindi, concluse le procedure, il previsto trasferimento in un centro di accoglienza di Messina in attesa delle destinazioni successive, in base alle disponibilità ottenute dal governo: una ventina in Albania, altrettanti in Irlanda, un centinaio preso in carico dalla Conferenza episcopale italiana, in base all’accordo con il Viminale.

Tanto rumore per una nave e intanto sbarcano altri 277. La vicenda Diciotti trasformata in simbolo. Spegnendo i riflettori sui tanti barconi arrivati in soli dieci giorni, scrive Lodovica Bulian, Domenica 26/08/2018, su "Il Giornale". La nave Diciotti è da dieci giorni un caso internazionale, il megafono del rigore anti immigrazione del nuovo governo. Un'operazione di salvataggio trattata con un'intransigenza tale dal ministro dell'Interno Matteo Salvini, sostenuto dall'altro vicepremier Luigi Di Maio, da far pensare che quell'imbarcazione ora bloccata sul molo di Catania fosse la sola, l'unica, magari l'ultima, carica di migranti diretti in Italia. Invece nel silenzio generale e con i riflettori accesi su quei 177 salvati dalla Guardia costiera in acque maltesi, dal 15 agosto, secondo i dati del ministero dell'Interno aggiornati al 23, sono arrivati sulle nostre coste altri 277 migranti. Insomma, da quando la Diciotti ha salvato quel barcone in avaria nella zona Sar di Malta innescando una guerra con l'Europa sulla redistribuzione dei salvati, molti più naufraghi sono stati sbarcati nei porti italiani di Sicilia, Calabria, Puglia e Sardegna da motovedette della Guardia costiera. Tutti sono arrivati a bordo di velieri e barchini fantasma, a piccoli gruppi, intercettati e portati in salvo senza clamore. Il 23 agosto per esempio, mentre la nave militare era già ferma al molo di Catania, 34 persone di nazionalità iraniana e irachena sono state trovate al largo di Santa Maria di Leuca, in Puglia. Erano a bordo di un veliero di dieci metri battente bandiera statunitense: i soccorsi della capitaneria sono scattati dopo un razzo partito dalla stessa imbarcazione. A quelle stesse coordinate un mese fa altri 70 stranieri erano stati rintracciati a bordo di uno yacht guidato da presunti scafisti turchi, e poi sbarcati sulla terraferma. Non solo. Mentre il 20 agosto la Diciotti attraccava in porto, altri 56 migranti venivano intercettati su un veliero incagliato sugli scogli sulle coste di Crotone: trasbordati su una motovedetta della Guardia Costiera sono stati portati in salvo in porto e presi in carico dalla rete di accoglienza. L'imbarcazione era guidata da due presunti scafisti di origine lettone, e sarebbe salpata dalle coste turche. Le stesse da cui era partita anche un'altra nave che a inizio luglio aveva raggiunto sempre Crotone con altri 73 curdi e iracheni. Proprio il Paese a cui l'Europa versa 6 miliardi per gestire i rifugiati, è infatti sempre più spesso la base di partenza delle rotte alternative a quelle dalla Libia, considerate minori ma ormai sempre più battute dai trafficanti. Come del resto quella dalla Tunisia alla Sicilia, tanto che i tunisini sono i primi nella classifica delle nazionalità dichiarate allo sbarco, e quella dall'Algeria alla Sardegna, che ha portato sull'isola 500 persone da inizio anno. Il 15 agosto, nell'isola sono approdati 25 algerini arrivati autonomamente su un barchino. Il 16 agosto era toccato ancora al Salento: due imbarcazioni, un natante e un veliero, entrambe guidate da presunti scafisti georgiani erano state rintracciate dai mezzi della Finanza impegnati nella missione europea Themis di Frontex, contro i trafficanti. A bordo, stipati sotto coperta, in tutto c'erano 24 migranti, iracheni, iraniani e curdi, sbarcati al porto di Leuca. Il tutto mentre il titolare del Viminale non arretra e rivendica come la linea dura abbia portato a un calo degli arrivi, ridotti complessivamente dell'81 per cento rispetto al 2017. Un crollo iniziato con gli accordi con la Libia dell'ex ministro Marco Minniti, e proseguito con il nuovo corso inaugurato da Salvini. I flussi però non si azzerano. Da giugno ad agosto sono arrivati 6.096 migranti. Erano stati 38mila nell'estate del 2017. Anche quelli delle ultime due settimane sono numeri risibili rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso: se allora sbarcarono 800 migranti, tra il 15 e il 23 agosto ne sono arrivati 277. Che si sommano ai 177, meno fortunati, della nave Diciotti.

Lo strano gioco della Guardia costiera. Ora per colpa di Salvini il giocattolo si è rotto, ma loro, evidentemente, non hanno alcuna intenzione di rassegnarsi, scrive Gian Micalessin, Lunedì 20/08/2018, su "Il Giornale".  «Una volta è un caso, due volte una coincidenza, tre volte è un'azione del nemico». Matteo Salvini e il ministro delle infrastrutture Matteo Toninelli farebbero bene a rileggersi Ian Fleming. Le azioni della nave Diciotti, il pattugliatore della Guardia Costiera, per la terza volta al centro di uno scontro con il Governo in meno di due mesi e mezzo, sembrano infatti più delle mosse studiate che non delle semplici coincidenze. La cronaca della sorda diatriba tra la Guardia Costiera, da una parte, e il Ministero delle Infrastrutture, da cui in teoria dipende, e il Viminale dall'altra inizia verso il 10 di giugno. Mentre Salvini raccomanda la fine delle operazioni di soccorso davanti alla Libia e la nave Aquarius di Sos Mediterranee viene tenuta alla larga dai porti italiani, il pattugliatore Diciotti compie ben sette interventi in prossimità delle coste di Tripoli caricando 937 migranti. Migranti che Salvini e Toninelli si vedono costretti obtorto collo a far sbarcare a Catania. Ma le incursioni della Diciotti non finiscono lì. Il 9 luglio il pattugliatore accosta il rimorchiatore Vos Thalassa e carica 67 migranti che stando ad una versione mai chiarita - minacciavano il personale di bordo colpevole di volerli sbarcare in Libia anziché in Italia. La versione convince poco Matteo Salvini che fa capire di considerarla un pretesto per giustificare l'intervento dell'unità della Guardia Costiera. Ma la mossa fatale capace di portare allo scoperto lo scontro con la Guardia Costiera arriva mercoledì. Quel giorno il pattugliatore Diciotti interviene in soccorso di un barcone con 177 migranti proprio mentre il governo preme su Malta perché lo accolga in un suo porto. Un intervento assolutamente immotivato visto che il barcone non è in pericolo immediato e viene effettuato, come nota Matteo Salvini, all'insaputa del Viminale. «I maltesi ieri avevano assunto la responsabilità di un intervento in aiuto di un barcone con 170 immigrati a bordo spiega il Ministro degli Interni - e una nave della Capitaneria di Porto italiana, senza che al Viminale ne fossimo informati, ha imbarcato gli immigrati mentre ancora si trovavano in acque maltesi, per dirigersi verso l'Italia». Ancora una volta, a dar retta a Salvini, la Guardia Costiera avrebbe approfittato di una situazione perlomeno lacunosa per contravvenire alle disposizioni del governo e metterlo in difficoltà. Ed infatti l'esecutivo si ritrova, una volta di più, nell'imbarazzante posizione di negare l'accesso ai porti italiani ad una propria nave militare. Ma quali sono i motivi della sorda lotta? Per capirlo bisogna andare indietro fin ai tempi di Mare Nostrum quando le operazioni di soccorso vengono inizialmente affidate soltanto alla Marina Militare, escludendo proprio la Guardia Costiera. Un'esclusione durata solo pochi mesi visto che il governo Renzi nel 2014 allarga ben presto le operazioni ad una Guardia Costiera entusiasta di farne la propria bandiera. Talmente entusiasta da diventare successivamente la principale referente delle Ong con cui concorda decine di operazioni di soccorso fino al limite delle acque territoriali libiche. Non a caso nel luglio di un anno fa l'allora Comandante generale delle Capitanerie di Porto Ammiraglio Vincenzo Melone - chiamato a deporre dalla Commissione Difesa del Senato sulle attività delle navi delle Ong già indagate dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro - non esita a difenderle a spada tratta. Una difesa scontata e obbligata visto che le missioni di soccorso ai migranti erano diventate la vera ragion d'essere della nostra Guardia Costiera e dei suoi vertici. Ora per colpa di Salvini il giocattolo si è rotto, ma loro, evidentemente, non hanno alcuna intenzione di rassegnarsi. Né tantomeno di rinunciarvi.

Sgarbi asfalta i buonisti: ​"Altro che migranti. Ecco i veri profughi". Sgarbi: "I veri profughi sono questi finti paladini della solidarietà", scrive Luisa De Montis, Sabato 25/08/2018, su "Il Giornale".  "La nave Diciotti come una giostra. Tutti in fila per un giro a bordo. Con foto di gruppo sul ponte. In cerca di visibilità tra disperati. I veri profughi sono questi finti paladini della solidarietà". Così su Facebook Vittorio Sgarbi, deputato di Forza Italia, interviene sul caso dei migranti bloccati sulla nave Diciotti. Il critico d'arte intanto ha annunciato che le sue dimissioni da sindaco di Sutri "sono irrevocabili, per la piena consapevolezza della impossibilità di potere governare democraticamente in un paese dominato da infiltrazioni fasciste con arroganza e in mancanza di visione, subordinata a interessi particolari. Per questo Vittorio Sgarbi ha già scelto di candidarsi sindaco di Sirmione, città che ha bellezze non inferiori a Sutri, ma una reale propensione allo sviluppo culturale e turistico. Sgarbi ha già preso contatto con gli esponenti politici della città, fra i quali l'ex sindaco, ora consigliere regionale, Alessandro Martinzoli, e l'assessore alla cultura della Regione Lombardia, Stefano Bruno Galli, che gli hanno manifestato solidarietà per l'aggressione di Sutri e disponibilità per il nuovo progetto".

Chi se ne frega dei migranti sulla nave Diciotti: la politica si concentri a risolvere i problemi degli italiani non a perdere tempo per risolvere quelli dei migranti, scrive Andrea Pasini il 24 agosto 2018 su "Il Giornale". Sono veramente stufo come penso altri milioni di italiani di sentire e vedere tutti i giorni che le istituzioni del nostro paese siano costantemente impegnate a gestire, litigare, spendere denaro pubblico e perdere molto tempo per tutte le questioni legate ai migranti e di fatto distoglierlo ai molteplici problemi da risolvere che interessano e sono strategici per il nostro paese e per gli italiani. Per capire una buona volta per tutte il problema del fenomeno migratorio e bene documentare e attestare la follia dei flussi migratori che stanno da qualche anno invadendo l’Europa e soprattutto l’Italia. Bisogna avere il coraggio di smontare le impalcature ideologiche fasulle della sinistra e fare emergere la nuda realtà. I flussi immigratori si basano su due fondamentali menzogne che la sinistra e chi su questo problema ci specula cerca di farci credere: ossia che quelli che arrivano in Italia siano profughi, che scappano dalla guerra e che la loro sia una migrazione forzata. Tutto questo NON E’ ASSOLUTAMENTE VERO. Dati alla mano, esaminati anno per anno, viene fuori che, su 100 migranti che arrivano in Italia, solo a 4 si dovrebbe riconoscere lo status di profugo o rifugiato di guerra. Gli altri 96 sono sostanzialmente migranti economici “se così possiamo definirli”. Altra titanica menzogna è che quelli che arrivano sono le persone più povere degli Stati dai quali partono. Non è per nulla vero neppure questo. Sono invece persone provenienti da paesi stabili spesso con governi con democrazie imperfette, fragili, giovani, ma pur sempre democrazie e persone che sono state in grado di raccogliere i non pochi soldi perché si parla di cifre tra i 5 a i 10 mila dollari a testa necessari a pagare le organizzazioni criminali che lucrano su questo traffico di esseri umani. Gli immigrati, partono soprattutto dall’Africa subsahariana, in particolare dall’Africa Occidentale. Nigeria in testa, seguita da Senegal, Ghana, Camerun e Gambia. Africa a parte, un numero consistente viene da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan. Siriani e iracheni in fuga dalla guerra sono una minoranza. Quasi il 90% sono maschi, hanno perlopiù dai 17 ai 34 anni, con una percentuale importante di minorenni questo stando almeno alle dichiarazioni al momento dell’arrivo. Viaggiano quasi tutti da soli. Pochissime sono le famiglie. La molla che spinge questi giovani africani è quella che si basa sull’evidenza, diffusa dagli smartphone, che tutto l’Occidente sia ricco e a disposizione del primo che arriva. In Africa c’è una percentuale di popolazione giovane convinta che l’Occidente è talmente ricco che basta arrivarci per fare fortuna. C’è poi un altro fattore importante da considerare, ossia l’immagine che le ONG danno dell’Europa ricca e disponibile. Le ONG scavano pozzi e costruiscono (ottimi) ospedali. Tutto gratis. Questo contribuisce all’idea di una prosperità senza limiti dell’Occidente. Poi c’è il ruolo dei trafficanti, che per alimentare il loro business hanno tutto l’interesse ad illudere le persone sul futuro roseo che troveranno in Europa. La strategia del Ministro dell’Interno Matteo Salvini di impedire o quanto meno scoraggiare gli arrivi indiscriminati sulle nostre coste è cosa buona e giusta. L’Italia fa bene a chiudere i porti perché i giovani migranti che partono dalle coste africane vengono ingannati e derubati dai trafficanti. L’emigrazione va scoraggiata in ogni modo, e l’Italia dovrebbe a parer mio proprio chiudere definitivamente le frontiere e non consentire più a nessuno che non abbia titolo di poterle passare. Per cui l’emergenza profughi è solo un grande inganno, una era e propria menzogna. È stata la copertura sotto cui nascondere uno dei tanti grandi fallimenti come ad esempio l’operazione “Mare Nostrum”, e più in generale tutta la gestione dei flussi migratori da parte dell’ex Governo Renzi. I circa 200.000 arrivi del 2014 non sono figli di nuove guerre, ma semplicemente del lassismo con cui il governo probabilmente imponeva alle autorità competenti di controllare le nostre frontiere, a tutto vantaggio di scafisti, organizzazioni criminali e tutta la catena di organizzazioni e personaggi che, chi dentro e chi fuori la legalità, traggono vantaggio da questo fenomeno dei migranti. I media russi ricordo che tempo fa fecero delle valutazioni analizzando dei fatti proprio riguardo il fenomeno dei migranti che sbarcavano in Italia. Nelle loro parole i migranti venivano dipinti come “vigliacchi” che anziché restare nel loro paese e combattere per difenderlo scappano. Venivano definiti degli impostori perché illecitamente pur di ottenere lo status di rifugiati sono sempre stati pronti a mentire sulla loro provenienza e sulle loro condizioni. Il fatto che soggiornino per lunghi periodi senza poter lavorare viene concepito come “parassitismo”. I media del Presidente Putin accusano i migranti di voler anche islamizzare l’Europa. Ora a prescindere che personalmente e non mi vergogno di certo nel dirlo ma anzi ne sono orgoglioso: io stimo molto il Presidente Wladimir Putin sia come uomo e soprattutto per come gestisce la linea politica in Russia ed in questo specifico caso proprio per quanto riguarda il fenomeno dell’immigrazione mi ritrovo ancora di più in linea con la linea di pensiero dei media russi. Se vogliamo salvare la storia, le radici, le usanze, le tradizioni e la sicurezza del popolo italiani dobbiamo immediatamente bloccare con tutti i mezzi a nostra disposizione anche con l’uso della forza questa vera e propria invasione programmata perché altrimenti per la nostra nazione e per il popolo italiano non ci sarà scampo e diventeremo schiavi a casa nostra. 

Bruno Vespa, la tragica verità sui migranti: "Mezzo milione in giro senza far nulla", scrive il 25 Agosto 2018 Libero Quotidiano". Il dramma dell'Italia in una telefonata. È Bruno Vespa, sul Quotidiano nazionale, a rivelare la conversazione privata con un ammiraglio della Guardia costiera andato da poco a riposo. "Come facciamo a non salvare chi sta in mare? - è lo sfogo dell'ammiraglio - Al di là degli aspetti umanitari, abbiamo l'obbligo giuridico di farlo. E una volta che abbiamo salvato questi migranti, dove li portiamo?". La risposta del conduttore di Porta a porta è raggelante, per quanto veritiera: "Avere mezzo milione di migranti che girano per le strade senza far nulla (quando va bene) ha portato soprattutto le fasce meno protette della popolazione a una crisi di rigetto". Da qui, dunque, la necessità di Matteo Salvini e del governo di usare le maniere forti sul caso Diciotti. Anche perché, continua Vespa, "l'Europa ci sta prendendo in giro" a cominciare della Germania, che a parole promette di prendersi i migranti sbarcati in Italia, ad esempio i 50 sui 447 di Pozzallo, e poi non ne accetta neanche uno. Idem la Spagna, l'Irlanda, Malta, il Portogallo. "Come in precedenza - nonostante una raccomandazione europea del 2015 - Danimarca, Polonia, Slovacchia, Repubblica ceca, Ungheria. Niente. Solo la Francia ne ha presi 47 su 50. Su 447 dovevamo tenercene soltanto 270 e invece 400 sono ancora qui". L'allarme è evidente: "L'anno scorso - conclude Vespa - su 119mila arrivi sono stati rimpatriate 6500 persone. Che ne sarà dei nostri pronipoti?".

Diciotti, la lezione del Colonnello ai buonisti: "Ecco dove finiranno i migranti". La nave Diciotti è ancora a Catania. Il pm di Agrigento interrogherà oggi i funzionari del Viminale. Ma l'ex ufficiale dei Carabinieri, il colonnello Paternò, sferza i pm, scrive Claudio Cartaldo, Sabato 25/08/2018, su "Il Giornale". Il Colonnello Savino Paternò, ex ufficiale CC, non le manda a dire. Non le manda a dire al procuratore di Agrigento, il pm che è salito sulla nave Diciotti della Guardia costiera dopo aver aperto un fascicolo per "sequestro di persona" contro ignoti. Oggi Luigi Patronaggio è atteso a Roma per ascoltare alcuni funzionari del Viminale. Legittimo, per carità. Ma c'è chi, come il colonnello, non approva il suo modo di gestire la questione Diciotti. Il pm quando salì a bordo non mancò poi di raccontare ai cronisti la "realtà devastante" che aveva trovato sulla nave della Guardia costiera italiana. "A cominciare dai cattivi odori che ti restano addosso - disse - Mi ha accompagnato un appuntato che non era mai stato a contatto con questa realtà. Sconvolto."'Dottore dal vivo cambia tutto, non è come si legge sui giornali...". Ha ragione". Ma il colonnello Paternò gli fa notare che "se lei e il suo appuntato (che evidentemente passa troppo tempo nei tribunali e poco alla territoriale) avesse accompagnato le forze dell'ordine nelle perquisizioni e negli arresti eseguiti quotidianamente all'interno di campi nomadi, tendopoli e barac che, dove frotte di clandestini trovano rifugio addossati gli uni sugli altri, in assenza di alcuna noma igienica, quel 'cattivo odore' che tanto l'ha turbata, lo conoscerebbe già". E un motivo c'è. Perché secondo il colonnello, che ha affidato i suoi pensieri ad un articolo sul Tempo, "quello sarà il destino della quasi totalità di quelle 177 persone quando e se sbarcheranno nella terraferma. Ah si, verranno accolti, anzi contesi dalle varie cooperative che lucreranno su di loro (ma il denaro, come si sa, quello non puzza). Ma nel momento in cui non gli verrà riconosciuto lo status di rifugiato, allora saranno abbandonati in strada come cani randagi. E a quel punto puzzeranno come prima, peggio di prima, però del loro fetore non interesserà più niente a nessuno". L'invettiva di Paternò è un lucido schiaffo ai buonisti. "Vede, procuratore - conclude il colonnello - ogni "sbirro" quella puzza la conosce bene, fa parte del proprio lavoro ma non rimane sconvolto come lei e sa perché? Perché sono meglio quelli con puzza sotto le ascelle che quelli...con la puzza sotto il naso".

Pd, alla Festa de l'Unità il servizio d'ascolto per i militanti depressi, scrive Salvatore Dama il 25 Agosto 2018 su Libero Quotidiano". L' elettore del Partito democratico è depresso. Ma niente paura. Alla Festa dell'Unità arriva lo "sportello di ascolto". Ogni sera, da ieri fino al 10 settembre, due deputati dem saranno a disposizione dei militanti ansiosi. Per la terapia. Il modello è involontariamente (?) ispirato a Lucy dei Peanuts. Che, nella striscia di Charles M. Schulz, dal suo banchetto smerciava aiuti psichiatrici per cinque centesimi a un Charlie Brown sempre sotto botta. Il supporto democratico, invece, è gratuito. Poi, siccome il disagio è diffuso, se non dovesse bastare, c' è sempre il chiosco dei panini, con la pinta di birra in monouso a 3 euro. Oppure la farmacia di turno. E lo Xanax. Ravenna. La Festa nazionale dell'Unità è già un pianto. Il malessere del Pd è profondo. E non c' è Autan per lenire il dolore, come per le punture di zanzare. In quattro anni il partito è collassato, passando dai fasti delle Europee 2014, quando la sinistra renziana sfondò quota 40 per cento, alla polvere del marzo scorso: un misero 18 alle elezioni politiche. La parabola negativa è poi proseguita con una scia di sconfitte alle elezioni amministrative e la perdita di alcune roccaforti simboliche come Pisa e Siena. La terapia - Bene la terapia dell'ascolto, allora. Per «risintonizzare il Pd con il Paese», spiega il comunicato della kermesse. Sfileranno tutti i big. Ma separatamente, onde evitare incidenti diplomatici: Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Walter Veltroni. Tornerà anche Pier Luigi Bersani, che ha guidato un pezzo di partito in una scissione che non ha portato benefici a nessuno. È una festa che avviene «in un momento particolare per il Pd», ammette il responsabile dell'organizzazione Andrea De Maria. Chiamalo particolare. La depre democratica prende le fattezze di Maurizio Martina, segretario che non scalda il cuore dei vecchi e non incuriosisce i giovani. Prevalentemente gira a vuoto. Ha preso i fischi a Genova, si è ritrovato sulla banchina di Catania tra gente che brandiva arancini di riso. Pretende il corpo a corpo con Matteo Salvini, ma il ministro dell'Interno non se lo fila. Resta nell' ombra del suo ingombrante predecessore. «Su quello che sta succedendo riguardo la nave Diciotti», ha detto ieri Martina aprendo la Festa dell'Unità, «gli esponenti del Governo fanno i post su Fb perché non hanno il coraggio di andare a Catania. Il premier esca dai social network, gestisca la situazione se è capace di farlo o se no vada a casa perché l'Italia rischia di essere umiliata. Il governo sta tradendo il proprio Paese». Frasi pesanti. Ma nessuno lo ha degnato di una risposta. I giubbotti - Tempi duri. Anche economicamente. Una volta le Feste dell'Unità si sostenevano con le vendite militanti. L' incasso del bar e della tavola calda. Non funziona più così. Nel 2017 il Pd Camera ha versato 129mila euro per finanziare l'evento. E anche quest' anno una importante mano economica arriverà dal gruppo parlamentare, ultimo canale di finanziamento pubblico ai quali possano accedere i partiti. Stavolta, oltre alla consueta distribuzione di materiale informativo, il presidente Graziano Delrio ha voluto fare le cose in grande, allestendo una installazione: una ventina di giubbotti di salvataggio che galleggiano alla deriva in mezzo al mare: «Tienimi le mani, non annegherai» è il titolo. I Cinquestelle hanno snobbato l'invito. Di Maio ha declinato spiegando che aveva altro da fare, ci sarà Roberto Fico per dovere istituzionale. Niente dialogo, i grillini emiliano-romagnoli attaccano i dem. Silvia Piccinini ha presentato un'interrogazione per segnalare alla Giunta regionale «il mancato pagamento, in occasione della Festa nazionale dell' Unità tenutasi nel 2017 a Imola, del servizio obbligatorio di assistenza sanitaria garantito dall' Ausl locale, per il quale il Pd nazionale, organizzatore dell' evento, avrebbe dovuto corrispondere la cifra di 24mila 706 euro».

Il sociologo Maurizio Barbagli: "La sinistra sottovaluta le paure della gente, la sicurezza non è nel suo dna", scrive il 25 Agosto 2018 Libero Quotidiano". "Il tema della sicurezza? Non è nel dna della sinistra". A dirlo non è Matteo Salvini. E nemmeno Giorgia Meloni. Ma il grande sociologo Maurizio Barbagli, 80 anni, la gran parte dei quali trascorsi anche come militante o elettore dei partiti di sinistra. "Voto ancora per il Pd, ohimè, anche se sottovaluta le paure della gente" dice in una lunga intervista al Corriere della Sera. "Eppure - continua - i dati solidi parlano chiaro: nelle violenze carnali i clandestini sono il 62% del totale degli stranieri denunciati, nello spaccio di droga addirittura il 90%". Eppure, la sinistra nega il fenomeno. "Perchè pensa che parlarne aumenti l'ostilità verso gli stranieri, che sono visti come il nuovo proletariato. Ma così facendo, risulta poco credibile e perde le elezioni. La Lega non è che si inventa i problemi, i problemi ci sono anche se poi non sempre le soluzioni sono quelle giuste. Ma - prosegue - la sinistra è incapace di fare questi calcoli". E l'Italia? "E' poco organizzata a gestire flussi immigratori che sono difficili da controllare. Le commissioni che devono distinguere i richiedenti asilo dagli immigrati economici ci impiegano un anno e mezzo prima di dare una risposta e intanto nelle nostre città abbondano gli africani in giro a far niente".

I porti chiusi sono necessari. Ecco i pericoli dal Nord Africa, scrive il 25 agosto 2018 Giovanni Giacalone su Gli Occhi della Guerra su "Il Giornale". Il caso della nave Diciotti ha portato a una sfida a “braccio di ferro” tra governo e Ue per la ridistribuzione dei migranti. Mentre si accende lo scontro politico, emergono contraddizioni e cambi di versione sulle reali condizioni a bordo della nave. Il rischio di strumentalizzazione è insomma alto. Quello che sembra però sfuggire a molti è la problematica legata al rischio sicurezza proveniente dall’Africa. Non a caso il ministro dell’Interno Matteo Salvini starebbe valutando la possibilità di mettere in atto procedure di identificazione e riconoscimento per individuare profughi veri, che sono la minoranza, dai “finti profughi” prima ancora che le persone sbarchino.

Cresce la presenza di Al Qaeda e Isis in Nord Africa. Il “filtro” ponderato da Salvini è di importanza fondamentale e si inserisce in un momento delicatissimo in cui numerose segnalazioni indicano che una parte dello zoccolo duro dell’Isis si sarebbe spostato dai territori siriano-iracheni al nord Africa, in particolare nelle aree desertiche della Libia e in un’area a cavallo tra Tunisia e Algeria. Un rapporto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu datato 27 luglio 2018 parla chiaro e mette in evidenza alcuni aspetti di estrema importanza per quanto riguarda la presenza dei jihadisti in Nord Africa. L’Isis sta infatti sfruttando la caotica situazione libica per insediarsi nell’area e organizzare le proprie reti. Nonostante la sconfitta di Sirte, cellule dell’Isis continuano ad essere presenti sia nella zona costiera che al sud del Paese, con un numero di uomini che viene stimato tra le 3mila e le 4mila unità. Tra le varie zone indicate vi sono Ghat, Al Uwainat, Ajdabiyah, Darnah, nonché il triangolo tra Bani Walid, Jufrah e la parte sud di Sirte. Il rapporto Onu cita poi la zona orientale della Tunisia dove viene segnalata la presenza di gruppi jihadisti legati a Isis e Al Qaeda, oltre che il pericolo di jihadisti africani di rientro da Siria e Iraq pronti a destabilizzare i propri Paesi d’origine. Vengono citati in particolare due gruppi: Jund al-Khilafa e Al-Mourabitun, presenti tra Algeria e Tunisia. Nel medesimo rapporto viene inoltre indicata la presenza di gruppi jihadisti come Isgs (Stato islamico nel Grande Sahara) e Jamaat al-Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim), attivi rispettivamente al confine tra Mali e Niger e nel Sahel. Nel rapporto Onu si legge chiaramente che questi due gruppi condividono il comune obiettivo di destabilizzare il Sahel e qualsiasi tipo di normalizzazione della vita in modo da mantenere la libertà di movimento nel nord e l’accesso alle rotte dei trafficanti.

La Libia come rampa di lancio verso l’Europa. Il fatto che la Libia sia diventata la rampa di lancio per il traffico di immigrati è ormai noto e sotto gli occhi di tutti; gran parte del traffico di esseri umani proveniente dall’area sub-sahariana punta lì a causa della facilità con la quale i barconi riescono a salpare dalle coste libiche alla volta dell’Italia. La Libia è però diventata anche un hub dei jihadisti, a causa dell’anarchia nella quale il Paese imperversa da anni, dopo il rovesciamento del regime di Gheddafi causato dai bombardamenti francesi e anglo-americani. Il jihad prospera dove lo Stato è assente e la Libia è il contesto perfetto, specialmente dopo la pesante sconfitta subita dall’Isis in Siria. Recentemente, in Libia sono stati registrati campi di addestramento mobili e una serie di reti clandestine insurrezionali prive di base fissa proprio per evitare di essere bersagliate da raid aerei. Altrettanto nota è la collusione tra Isis e trafficanti, con i jihadisti che sfruttano i flussi migratori come pool di reclutamento per rafforzare le proprie katiba africane. Non si può inoltre escludere che jihadisti legati a gruppi come quelli precedentemente citati possano cercare di infiltrarsi in Europa a bordo di barche, sfruttando il flusso migratorio, con l’obiettivo di mettere in atto attacchi. I precedenti ci sono, basta pensare al caso di Anis Amri(l’attentatore del mercatino di Natale a Berlino) o a quello di Sillah Osman, gambiano arrestato lo scorso 25 giugno a Napoli mentre stava organizzando in attentato in Europa; Osman aveva partecipato a un addestramento dell’Isis in una zona desertica della Libia. Lasciar dunque entrare indiscriminatamente barconi provenienti dall’Africa, senza alcun controllo e lasciando che i migranti girino liberamente in Italia pone un rischio altissimo per la sicurezza nazionale. Ben vengano dunque identificazioni rapide e messe in atto prima che i migranti giungano in suolo italiano e immediati respingimenti per chi non ha diritto all’ingresso. In gioco c’è la sicurezza del Paese.

Germania, ecco le bambole col burqa per radicalizzare i bambini. Le autorità tedesche indagano sul commercio online di bambole con il burqa da parte di esponenti della comunità musulmana salafita di Colonia. Alcune di esse rappresentano un esponente di punta dello Stato Islamico, Abu Waheeb, scrive Gianni Carotenuto, Sabato 25/08/2018, su "Il Giornale". Bambole con il burqa per radicalizzare i bambini. È quanto riferisce l'Ufficio federale tedesco per la difesa della Costituzione, secondo il quale esponenti della comunità musulmana salafita di Colonia hanno messo in vendita su internet dei pupazzetti ispirati all'Isis e alla dottrina islamica. Due sono i tipi di bambola che fanno maggiormente discutere: la bambina con il burqa e l'uomo con un abbigliamento che ricorda molto da vicino quello di uno storico esponente dello Stato Islamico, Abu Waheeb. Come insegnare l'integralismo islamico ai bambini? Semplice, con le bambole. È quanto hanno pensato alcuni esponenti della comunità islamica salafita di Colonia, Nord Reno-Westfalia, che hanno messo in vendita su internet dei pupazzetti denominati "soldati di Dio". Il nome non è casuale, dal momento che la loro finalità è di fare il lavaggio del cervello ai bambini facendoli giocare con degli oggetti che riproducono le fattezze delle donne con il burqa e dei soldati dello Stato Islamico, come Abu Waheeb. Un nome che potrebbe non dire niente, a meno di non ripensare alla strage di Orlando del giugno 2016 - rivendicata dall'Isis - dove diverse decine di persone furono ammazzate in un locale gay da Omar Mateen, soggetto radicalizzato che con quella carneficina volle vendicare proprio la morte di Waheeb, ucciso un mese prima in Iraq da un bombardamento americano. Come riporta il Mirror, foto di questi bambolotti sono caricate sui social media accompagnate da storie sulla poligamia o reclusi nelle carceri tedesche descritti come vittime e martiri. Una donna, identificata come la mente dietro a questo oscuro commercio e nota come J.D., ha scritto che "Un altro aspetto di queste bambole è che i nostri leoni e le nostre leonesse - i nostri figli, nda - imparano l'innata generosità durante i loro giochi". I pupazzetti hanno il nome di "Jundullah", che significa soldati di Dio. Oltre alle bambole con il burqa, ad accorgersi della somiglianza di alcune di esse con Omar Waheeb è stata Elhakam Sukhni, esperta di studi islamici all'Università di Colonia. Da tempo, nella città del Nord Reno-Westfalia, è attivo un programma di prevenzione contro l'integralismo islamico della dottrina salafita che rischia di radicalizzare il 75% dei bimbi.

L’Isis ha rapito 16 bambini in Siria, uno è stato decapitato. Sono stati rapiti con altri 14 civili rapiti nel sud del Paese il 25 luglio. Per Human Rights Watch vengono usati «merce di scambio» nei negoziati, scrive il 25/08/2018 Giordano Stabile su La Stampa. Un bambino decapitato e altri quindici che rischiano di fare la stessa fine se l’esercito di Bashar al-Assad non sospenderà l’offensiva contro l’ultima sacca dell’Isis. La notizia dell’ultimo orrore dei seguaci del califfo Abu Bakr al-Baghdadi è stata data dai famigliari a una ong occidentale, Human Rights Watch. I jihadisti usano i minori sequestrati, assieme a 15 adulti, come «merce di scambio» nei negoziati con il governo siriano e la Russia, un «crimine di guerra». I bambini hanno fra i 7 e i 15 anni e sono stati rapiti il 25 luglio scorso durante un attacco a sorpresa contro la città a maggioranza drusa di Sweida, nella Siria meridionale, fino ad allora rimasta fuori dalla guerra civile. Autobombe e kamikaze avevano fatto oltre 250 vittime in un mercato nel centro e ad alcuni check-point controllati dall’esercito e da milizie alleate. In un villaggio vicino invece gli islamisti avevano catturato decine di civili. Alcuni erano stati liberati dalla controffensiva delle forze armate ma altri erano stati portati con sé dai combattenti dell’Isis in ritirata verso il Jabal Durus, la Montagna Drusa che sovrasta Sweida e si estende nel deserto siriano vicino al confine con la Giordania. 

La minoranza drusa. Damasco ha dovuto allora cambiare i suoi piani e organizzare una campagna estiva contro le ultime sacche dell’Isis. C’è anche un motivo politico: i drusi sono rimasti neutrali durante la guerra civile e hanno evitato di farsi tirare in mezzo. L’attacco dell’Isis aveva come scopo anche dimostrare che il governo non era in grado di difenderli e che non si curava della loro sicurezza. Per questo è importante per il regime liquidare i jihadisti e mettere al riparo la comunità drusa, per evitare malcontento. Ma la presenza degli ostaggi ostacola l’operazione. Secondo le informazioni raccolte da Hrw, una donna è morta subito il sequestro, altre due sono riuscite a fuggire, ma poi i terroristi hanno decapitato uno dei bambini, come monito. 

Le ultime decapitazioni. I famigliari hanno creato un comitato per le trattative, per cercare di sbloccare la situazione prima che sia troppo tardi. L’offensiva governativa ha infatti chiuso i jihadisti in un’area ristretta, attorno a un antico vulcano spento, un territorio impervio che l’Isis ha fortificato con tunnel e trincee. I terroristi chiedono di poter ritirarsi verso Est, nella provincia di Deir ez-Zour, dove controllano ancora alcune frange di territorio. La notizia della decapitazione ha però aggiunto orrore all’orrore e richiamato alla mente il 2015, quando a Raqqa, capitale del Califfato allora all’apice della potenza, gli ostaggi occidentali venivano sgozzati uno dopo l’altro dalla banda dei Beatles, quattro jihadisti di origine britannica. Il ritmo delle esecuzioni si è poi rallentato per mancanza di ostaggi e perché l’Isis è stato costretto sulla difensiva, poi sconfitto a Mosul e nella stessa Raqqa. Ma quest’anno è tornato a colpire con sempre maggior frequenza, in Siria e in Iraq. A febbraio scorso tre miliziani sciiti delle Hashd al-Shaabi sono stati catturati e poi decapitati nella zona tra la province di Kirkuk e Diyala. A giugno altri otto militari sono stati sequestrati e uccisi, alcuni sgozzati. Il governo di Baghdad ha reagito con l’esecuzione di 12 detenuti islamisti già condannati a morte. L’Isis, oltre a ucciderli, ha usato i bambini anche come carnefici. L’ultimo video di decapitazioni, diffuso un anno fa, mostrava quattro minori che uccidevano presunte “spie russe e turche”, nel Nord dell’Iraq. 

Migranti, governo: “Nel 2018 spesa per l’accoglienza salirà a 4,7-5 miliardi di euro nonostante il calo degli sbarchi”. Nel Documento programmatico di bilancio con le linee guida della manovra, appena inviato a Bruxelles, si legge che i minori arrivi "non si riflettono in una proporzionale riduzione della permanenza di persone con necessità di accoglienza, anche per i limitati esiti dei piani Ue di ricollocamento", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 17 ottobre 2017. Dai 3,3 miliardi del 2016 ai 4,3 di quest’anno. Mentre nel 2018 le spese per l’accoglienza dei migranti in Italia saliranno a 4,7-5 miliardi. A riportare la stima è il Documento programmatico di bilancio con le linee guida della manovra per il prossimo triennio che il governo ha inviato a Bruxelles lunedì sera. La cifra è in ulteriore aumento, si legge nel documento del Tesoro, perché “nonostante il rallentamento dei flussi le presenze nelle strutture vedono un andamento crescente, dalle 176mila unità a fine 2016 a oltre 193mila a settembre 2017″. La maggior parte dei rifugiati “è ospitata in strutture provvisorie, poiché i servizi convenzionali a livello centrale e locale hanno capienza limitata”, ricorda il documento. Dal grafico riportato nel capitolo risulta che quasi 157mila sono appunto in strutture temporanee, 12.103 nei Cara e centri accoglienza per richiedenti asilo, 23mila nel sistema Sprar. Il contenimento degli sbarchi, che “nel terzo trimestre 2017 sono diminuiti del 65 per cento rispetto a quelli dello stesso periodo 2016”, viene legato all’attivazione di diversi hotspot per l’identificazione (in collaborazione con i funzionari di Easo, Frontex ed Europol), al codice di condotta per le organizzazioni non governative e all’affiancamento delle navi italiane a quelle della guardia costiera libica. Ma “non si riflette in una proporzionale riduzione della permanenza di persone con necessità di accoglienza, anche per i limitati esiti dei piani Ue di ricollocamento”, prosegue il Dpb. Che rivendica come “in attesa che si concretizzi una politica europea comune, l’Italia continuerà quindi a sostenere un onere di oltre lo 0,25 per cento del Pil per la gestione della frontiera esterna dell’Unione”. Complessivamente dal 2014, primo anno dell’emergenza, “sono state salvate in mare oltre 600mila persone grazie all’impegno italiano”. Molte “sono minori non accompagnati e il numero dei richiedenti asilo è in crescita”. Il Dpb ricorda anche che i dati definitivi sulla base dei quali Bruxelles verificherà che i costi effettivamente sostenuti siano in linea con la flessibilità concessa dalla Commissione per questi anni saranno disponibili a inizio 2018.

Immigrati, pagare chi lavora con i profughi ci costa un miliardo all'anno, scrive l'11 Luglio 2018 Alessandro Gonzato su "Libero Quotidiano". Chissà cosa ne pensano i paladini della sinistra, i paperoni che protestano in maglietta rossa contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini, degli oltre 976milioni - soldi pubblici ovviamente - che l’Italia spende per pagare il personale che lavora nei centri d’accoglienza. Probabilmente reputano la cifra troppo bassa. E dunque ci aspettiamo, visto il loro buon cuore, che scuciano altri soldi in prima persona. E che li tirino fuori con ancor maggior convinzione dopo aver letto il rapporto realizzato da “InMigrazione” secondo cui le gare d’appalto indette dalle 106 prefetture per l’apertura dei Centri d’accoglienza straordinaria (Cas) sono molto spesso farraginose, carenti, contraddistinte da ritardi su ritardi provocati dalla burocrazia che si traducono a loro volta in esborsi sempre maggiori. Insomma: è del tutto evidente che l’aver aperto le porte del nostro Paese a chicchessia ha prodotto un effetto domino devastante. Ma per i milioni in t-shirt rossa il problema è chi siede al Viminale da poche settimane e sta tentando di rimediare all’irrimediabile. Il dossier ha preso in esame i bandi di gara per l’assegnazione di 178mila 338 posti per ospitare i richiedenti asilo nei centri d’accoglienza straordinaria sparsi da Nord a Sud, e che nel 2017 hanno rappresentato più del 90 per cento della capacità complessiva della cosiddetta prima accoglienza. Ci sono anche esempi positivi, certo, come i bandi indetti dalle prefetture di Rieti, Siena e Ravenna, ma le situazioni dei fanalini di coda Cosenza, Crotone e Firenze (toh, la città di Matteo Renzi) gridano vendetta. Ma torniamo ai costi dell’accoglienza. Per i pasti, compresi quelli che i richiedenti asilo rifiutano perché dicono che sono poco vari e non rispecchiano la cucina della loro terra, spendiamo 733 milioni. Per i vestiti, le coperte e le lenzuola se ne vanno altri 269. Sotto la voce «pulizia e igiene ambientale» e «altro» (mediatori culturali, corsi e attività varie) ne partono più o meno 300. Questa montagna di soldi deriva dai famigerati 35 euro al giorno che lo Stato spende per l’accoglienza di ciascun profugo, vero o presunto che sia. Ed è proprio su questo esborso giornaliero che si concentra parte dell’analisi di Simone Andreotti, presidente di “In Migrazione”. «Se ci si propone di aprire una struttura più grande» dice «il finanziamento deve essere inferiore ai 35 euro. Se invece si vuole creare un progetto d’accoglienza diffusa in appartamenti, deve essere superiore. Quando si spendono fondi pubblici bisognerebbe porre la massima attenzione alla qualità dei servizi erogati e ridurre gli sprechi». In totale per il 2018 sono stati impegnati oltre 2 miliardi per l’apertura e la gestione dei centri d’accoglienza straordinaria, anche se ormai di straordinario non c’è più nulla, tutto è diventato ordinario ma mal gestito. Ci sono strutture sovraffollate e altre mezze vuote perle quali però i privati incassano comunque un sacco di soldi. E ora aspettiamo il commento delle magliette rosse.

Hotspot Lampedusa, tunisini discriminati per richieste d’asilo, scrive Damiano Aliprandi il 10 luglio 2018 su "Il Dubbio". Lo denunciano in una nota Cild, Asgi, IndieWatch e ActionAid, alla luce delle attività di monitoraggio del progetto pilota “In Limine”. «I migranti ospitati nell’hotspot di Lampedusa, in particolare i cittadini tunisini, continuano a subire una limitazione arbitraria della libertà personale, restando confinati nel centro o sull’isola, anche in assenza di norme specifiche». Lo denunciano in una nota Cild, Asgi, IndieWatch e ActionAid, alla luce delle attività di monitoraggio del progetto pilota “In Limine”. Il progetto ha l’obiettivo di realizzare indagini sulle dinamiche di arrivo, sull’accoglienza e sull’accesso alla protezione internazionale dei migranti che si trovano nell’hotspot di Lampedusa. Prevede, inoltre, l’utilizzo dello strumento del contenzioso strategico per contrastare le violazioni dei diritti umani. Ricordiamo che La Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la Sentenza Khlaifia e altri contro Italia del 15 dicembre 2016, si è espressa riscontrando diverse violazioni da parte dell’Italia (la privazione di libertà personale e la mancanza di mezzi effettivi per ricorrere contro le condizioni di accoglienza, tra le altre). Il governo italiano l’11 settembre 2017 e il 12 gennaio 2018 ha inviato al Comitato dei ministri due comunicazioni, indicando le misure adottate per prevenire il ripetersi delle violazioni rilevate dalla Corte. Entrambe le comunicazioni non sono state ritenute sufficienti dal Comitato dei ministri che ha richiesto ulteriori informazioni entro il 30 giugno 2018. In attesa di leggere le motivazioni, il progetto “In Limine” ha prodotto le considerazioni sopracitate e le ha inviate al Comitato dei ministri attraverso un’articolata controrelazione che evidenzia come, appunto, nell’hotspot di Lampedusa continuino a verificarsi violazioni significative. Secondo le testimonianze raccolte dal progetto In Limine, «i cittadini tunisini subirebbero prassi discriminanti: mentre per i cittadini provenienti dai Paesi dell’Africa Subsahariana sembrerebbe essere quasi automatico l’avvio delle procedure per la richiesta di asilo, ai cittadini tunisini verrebbero posti ostacoli all’accesso a tale procedura e non riceverebbero adeguate informazioni». Le associazioni spiegano che «queste procedure, spesso attuate soltanto in ragione del paese di provenienza, sono propedeutiche al rimpatrio forzato in Tunisia». Conclude la nota che «tali rimpatri avverrebbero in violazione della normativa vigente e sarebbero di natura collettiva». A tal proposito è bene ricordare l’ultima relazione presentata al Parlamento da Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private delle libertà. Si evidenzia la necessità di strutture di detenzione differenti, di minore capienza, ma soprattutto rispettose dei diritti delle persone “ristrette”, non assimilabili al carcere. Il Garante ha posto l’accento soprattutto sul nodo hotspot che nascono dalla natura giuridica incerta di questi posti, che rispondono a funzioni diverse che ne modificano continuamente il carattere e la disciplina. «Se da un lato, infatti, – ha spiegato Palma – appaiono come luoghi a vocazione umanitaria per le attività di primo soccorso, assistenza, informazione e di prima accoglienza per chi ha manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale, dall’altro sono luoghi di svolgimento delle procedure di identificazione/ foto- segnalamento e di avvio delle operazioni di rimpatrio forzato. Procedure che impongono agli ospiti il divieto di allontanarsi dal centro fino alla loro conclusione e il ricorso alla coercizione nell’esecuzione dei provvedimenti di respingimento differito».

Toni Capuozzo, immigrazione: "Basta balle, ecco chi sono quelli che prendono i barconi", scrive l'11 Luglio 2018 su "Libero Quotidiano". Un'analisi lucida. Uno schiaffo ai teorici dell'accoglienza a tutti i costi. A parlare, a In Onda, è Toni Capuozzo. Si parla della vicenda della Diciotti e dei due migranti che hanno minacciato il capitano e l'equipaggio della nave. "La cosa che mi colpisce di più è che ci sia stato una sorta di ammutinamento a bordo - premette Capuozzo -. È la prima volta che sento di naufraghi salvati dall'ammutinamento che si rivoltano. Mi chiedo quali persone siano a bordo di quella nave". "Credo sia un episodio illuminante: continuiamo a subire queste migrazioni, non siamo in alcun modo in grado di gestirle. Chiunque conosca l'Africa - sottolinea Capuozzo - sa benissimo che non si tratta dei più poveri e dei bisognosi. L'unica guerra oggi in corso in Africa è nel sud Sudan, dove più di 1 milione di profughi si sposta verso l'Uganda: non ce n'è uno che sale sui gommoni degli scafisti". Capuozzo, insomma, ripete quello che la sinistra proprio non vuole accettare: "La stragrande maggioranza degli immigrati non sta fuggendo dalla guerra. Togliamoci dalla mente l'illusione che stiamo aiutando i più poveri e i più diseredati. Una madre vedova con quattro figlie non partirà mai: non avrebbe i soldi per affrontare quel viaggio. Chiunque ha i soldi per pagare gli scafisti ha il diritto di venire in Italia". Dunque, il giornalista conclude: "Io credo che un Paese serio in qualche modo debba provare a governare fenomeni come questo".

Spataro: basta odio, i profughi si accolgono Salvini: devi candidarti. Scoppia la polemica per la direttiva emanata dal capo dei pm torinesi Armando Spataro, rivolta sia ai suoi sostituti che alle forze di polizia, scrive Errico Novi il 10 luglio 2018 su "Il Dubbio". A un magistrato non compete «fare analisi dei fatti sociali». Ma se quei fatti costituiscono un fenomeno «odioso e insopportabile», che si materializza in «minacce, aggressioni, scritte e manifesti» contro gli stranieri, è doveroso anche per gli uffici giudiziari «dare risposta». È l’idea piuttosto lineare enunciata ieri in un incontro con i giornalisti dal procuratore di Torino Armando Spataro e dal procuratore generale Francesco Saluzzo. Discorso che è anche alla base di una direttiva emanata dal capo dei pm torinesi e rivolta sia ai suoi sostituti che alle forze di polizia. Indiscutibile che si tratti di un’iniziativa nata a partire da un clima, che procuratore e pg di Torino avvertono sia a livello locale, con il perpetuarsi degli episodi a sfondo razziale, sia sul piano più generale, con la tensione che, sul tema dell’accoglienza, si registra a livello governativo ed europeo. Non a caso nella circolare illustrata ieri sono previste anche misure per «accelerare la trattazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale» e quelli che relativi al contrasto «dell’immigrazione clandestina». Ma l’approccio globale a un tema ormai stabilmente in cima all’agenda politica non scongiura il deflagrare delle polemiche. È vero che lo stesso Spataro non si rifugia in perifrasi ed entra anche nel merito delle decisioni annunciate dal ministro dell’Interno Matteo Salvini sull’approdo delle navi con migranti: «Non si può respingere in mare gli immigrati e non vagliare la loro richiesta di status di rifugiato politico. Se per assurdo un barcone di immigrati attraccasse ai Murazzi sul Po, nessuno potrebbe vietare alle persone a bordo di scendere. Se accadesse, tale comportamento sarebbe oggetto di una nostra indagine», dice Spataro. Arriva in tempi rapidissimi la replica di Salvini, che scrive su twitrer: «Forse il procuratore capo di Torino pensa che l’intera Africa possa essere ospitata in Italia? Idea bizzarra». Poi in conferenza stampa rincara la dose: «Bloccare i porti ai trafficanti di esseri umani non è un diritto ma un dovere. Chi la pensa diversamente può presentarsi alle elezioni e chiedere che cosa ne pensano gli italiani». Tra chi controreplica a Salvini c’è l’ex guardasigilli Andrea Orlando: «Il procuratore di Torino spiega che c’è una norma derivante dai trattati internazionali che impedisce di chiudere i porti alle persone che necessitano di soccorso. Alle elezioni si è candidato Salvini e malauguratamente le ha vinte», aggiunge Orlando, «quindi o smentisce Spataro in punto di diritto dicendo che quella norma non esiste o la cambia. Ma penso che Salvini lo sappia e tenti di intimidire i magistrati: per fortuna la nostra Costituzione prevede una rigida separazione dei poteri», chiosa l’ex guardasigilli. Nel dettaglio, nella parte della direttiva di Spataro destinata agli episodi di intolleranza si prevede che «reati commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso saranno trattatati come prioritari». A occuparsene ci sarà «un pool di magistrati che eviteranno di richiedere l’archiviazione per particolare tenuità del fatto». I sostituti potranno inoltre «promuovere l’azione penale» e «svolgeranno personalmente le funzioni di pm in dibattimento». C’è quindi l’invito a Questura, Carabinieri, Gdf e Polizia municipale affinchè i dirigenti dei diversi Corpi valutino «misure organizzative idonee» al più efficace contrasto di quei reati. L’iniziativa, nota il pg Saluzzo, nasce in seguito a «comportamenti odiosi che si sono manifestati in quest’ultimo periodo, e che incitano all’odio razziale nei confronti di soggetti stranieri provenienti soprattutto dall’Africa e dal Medio Oriente. Come se si dovesse comunicare alla gente che è arrivato il momento di passare al contrattacco», osserva il pg, «ma questi comportamenti sono reati che devono essere perseguiti». E nella circolare Spataro, appunto, si rivolge così ai suoi sostituti: «Non tocca a noi magistrati intervenire nelle analisi di tipo sociale e politico, mentre è vostro compito dare risposta a questo tipo di reati, odiosi e insopportabili». Tutto nasce, spiega il procuratore di Torino nell’incontro con la stampa, «dall’aver constatato che negli ultimi tempi vi è stata una crescita di questi reati, spesso accompagnati dalla passività delle persone presenti». A questo, è il discorso di Spataro, si aggiunge la necessità di rispettare il diritto nazionale e internazionale sulla protezione dei rifugiati: «L’immigrazione è una questione che riguarda tutto il mondo: esiste il divieto di respingere un rifugiato verso luoghi in cui la sua vita possa risultare minacciata. Non si può respingere in mare gli immigrati e non vagliare la loro richiesta di status di rifugiato politico».

Antonio Tajani: «Chi fugge, va accolto». Intervista ad Antonio Tajani, neo vicepresidente di Forza Italia e presidente del Parlamento europeo, sulle vicende della politica italiana ed europea, scrive Paola Sacchi il 10 luglio 2018 su "Il Dubbio". Lo intercettiamo a Roma nel fine settimana, prima che riprenda l’ennesimo aereo per Bruxelles. Come disse un collega di Forza Italia, in tutti questi anni ne avrà presi più lui di uno steward dell’Alitalia. È sabato 7 luglio, Antonio Tajani sta cercando, in uno dei pochi giorni che trascorre nella sua casa nella Capitale, con un occhio di guardare una partita del Mondiale e con l’altro di controllare il diluvio di mail e sms che gli mandano dirigenti e militanti di Fi. E’ tutto un “forza Antonio”, il cofondatore («Eravamo in 5 nel ‘94» ) dopo la sua nomina a vicepresidente del partito. Ovvero, a numero due di “Silvio”, l’Highlander. «Sto lavorando anche oggi», dice Tajani. Pur da presidente del Parlamento europeo e ora anche vice di Berlusconi, sottolinea la sua cifra di “militante”. Quella di uno che ha eseguito sempre gli ordini come un soldato, anche perché proveniente da una famiglia di militari. «Presidente Tajani, oltre che ex collega del “Giornale” di Indro Montanelli, come dobbiamo chiamarla ora? Presidente e vicepresidente?». «Antonio, come altro mi dovrebbe chiamare? (Dice alla cronista che lo conosce dal 1994, da quando era il primo portavoce di Berlusconi in quel breve e travagliato primo governo del Cav,ndr). Guardi che io sono rimasto quello di sempre». Uno che come tutti i portavoce non diceva granché ai giornalisti, ma, educato alla scuola del “portasilenzi” per eccellenza Gianni Letta, anche solo con un sospiro una chiave la dava, pure ai giornali dell’opposizione che in genere richiamava per primi. E quelli erano tempi in cui Tajani si trovava a dribblare spesso problemi interni, come certe uscite geniali ma effervescenti dell’altro portavoce del governo, l’allora ministro Giuliano Ferrara. Tajani, a dispetto del suo alto incarico istituzionale, ha conservato una vena di lieve e pragmatica romanità. Unendola alla competenza, alla capacità di mediazione ma anche di saper battere i pugni sul tavolo contro le burocrazie, si è fatto molto apprezzare da Angela Merkel, per cui è stato il vero tessitore della pax con il Cavaliere.

Come rilancerà Forza Italia?

«Sto avviando, insieme con Adriano Galliani (senatore, ex ad del Milan, ndr) e tante altre persone un lavoro per un processo di rinnovamento e rilancio, che Berlusconi ha presentato sere fa. È quindi un progetto ampio che arriva fino alle elezioni europee, attraverso i congressi provinciali, che dobbiamo organizzare, attraverso un’azione politica sempre più efficace alla Camera, al Senato e al Parlamento europeo per difendere i nostri temi e combattere alcune battaglie politiche che ci facciano essere interlocutori di una parte importante dell’opinione pubblica. E poi naturalmente dobbiamo lavorare per preparare le elezioni in Basilicata e in Sardegna, dove già la scorsa settimana sono stato. Io sono sempre un militante. Non è che con il grado sono cambiato».

Questo suo atteggiamento low profile, nonostante l’importante carica istituzionale europea che ricopre (presidente dell’unica istituzione elettiva della Ue, “ndr”), il suo stare sempre un passo indietro sul piano politico, senza partecipare a diatribe interne, pensa che l’abbia premiata?

«Ma io non ho mai avuto una visione lottizzatoria della politica. Credo nelle idee. Se non ci credessi, se per me la politica fosse diventata un mestiere non avrei neppure accettato l’incarico che Berlusconi mi affidò nel ’ 94. Io ci credo come allora. Mi sto battendo per quel modello di società, per dare una prospettiva ai nostri figli, a tutti i giovani».

Le scatta l’orgoglio azzurro dei valori di libertà dell’individuo soprattutto, per i quali Berlusconi discese in campo?

«Ma certo: libertà, centralità della persona, solidarietà, sussidiarietà, economia sociale di mercato, valori liberali, cristiani. Io mi sento un militante di Forza Italia. Oggi sono vicepresidente ma domani posso non fare niente, non esser più eletto. Non è una questione di gradi. È una questione di dover combattere per le proprie idee».

Lei ha detto che Forza Italia non è una candela che si sta spegnendo. Affermazione coraggiosa di questi tempi.

«Forza Italia, ribadisco, non è una candela che si sta spegnendo, perché sono le idee che non si spengono. Le idee non le spegne nessuno. Sono i discorsi di Berlusconi alla Fiera di Roma nel ’ 94, ero lì, da suo portavoce. È cambiata la società, è cambiato il mondo, ma le idee e i valori sono sempre gli stessi. Berlusconi ne è sempre il grande paladino, in nome di questi ha fondato Forza Italia. I valori vanno al di là dei partiti. E noi a chi crede a quel modello di società dobbiamo rivolgerci».

Sono 5 milioni di elettori quelli azzurri. E non sembrano tutti disponibili però all’Opa leghista. O no?

«Io non sono un anti- leghista. Ma sono di Forza Italia e credo nei valori che l’hanno ispirata. Non sto in Fi perché dovevo avere qualche cosa, ho lasciato la mia professione per combattere una battaglia volta a impedire che i comunisti prendessero in mano il Paese. E in quelle idee io credo ancora oggi, mi muovo con lo stesso spirito, lo stesso entusiasmo di allora. Ci credo, poi, ripeto, posso vincere, perdere, però combatto. Ora mi è stata affidata questa responsabilità e io lavorerò giorno e notte per portarla a termine».

Lo fa per passione?

«Esatto. Potrei essere già soddisfatto di essere presidente del Parlamento europeo, ma questo non toglie che io lavori per il grande progetto che mi è stato affidato per arrivare a quell’ampliamento necessario alla società civile, dalla quale mi sono già arrivati complimenti e incoraggiamenti come dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, da tanti sindaci che mi hanno chiamato entusiasti, che hanno voglia di incominciare a fare. Mi ha telefonato anche gente non di area nostra».

Qualche telefonata che non si sarebbe aspettato?

«Hanno chiamato anche parlamentari di altri partiti, che anche se sono avversari politici pensano sia giusto che ci sia una forza come la nostra che abbia un rilancio».

La sua nomina e questo progetto è un segnale di risposta al sovranismo e al protagonismo di Matteo Salvini e della sua Lega che vi ha sorpassato? Insomma, è una reazione moderata e liberale a toni più estremisti dei vostri e anche una risposta al progetto della Lega europea sovranista?

«Noi siamo diversi. Salvini è il leader della Lega, fa gli interessi del suo partito, è giusto che faccia così. Io non devo fare la guerra a Salvini, devo fare ottenere più voti a Forza Italia. Salvini fa gli interessi della Lega. Ma il centrodestra non vince solo con la Lega. Per ottenere la maggioranza serve Forza Italia. Che vada oltre il 15 per cento, quindi dobbiamo lavorare per ottenere un risultato migliore delle ultime politiche. Se noi alle prossime elezioni europee ricandidiamo Berlusconi e apriamo una battaglia per riconquistare la presidenza del Parlamento europeo, per contare come Italia non con le chiacchiere ma con le cose che abbiamo ottenuto, allora possiamo avere un risultato lusinghiero».

Lei, presidente, sull’immigrazione ha liquidato come “dilettanti allo sbaraglio” i governanti giallo- verdi, a proposito dell’ultimo vertice di Bruxelles. Ha ribadito che l’alleanza con il gruppo di Visegrad (faro guida di Salvini, ndr) ci porta a difendere le loro frontiere ma non le nostre.

«Certo, perché il gruppo di Visegrad vuole difen dere i propri territori. Fa gli interessi dell’Ungheria, della Polonia ecc. Quindi, sono pronti a chiudere le frontiere e non vogliono la redistribuzione. Non basta dire: sono contro l’immigrazione clandestina per perseguire lo stesso interesse italiano. Se tutti gli immigrati che vengono dall’Africa li deve prendere l’Italia, l’interesse di Visegrad non è il nostro. Anzi, è in contrasto. Loro vogliono chiudere le frontiere interne, ma noi vogliamo chiudere quelle esterne. Questo è l’interesse italiano. Se noi chiudiamo le frontiere interne, rimangono tutti qui. Arrivano qui e poi vogliono tutti salire, se poi ce li rimandano indietro da chi li rimandiamo?»

Salvini si è vantato di non aver trovato la maglietta rossa per ricordare i bambini morti in mare. Lei se la sarebbe messa?

«Be’, il rosso si sa che non è il mio colore preferito (sorride, ndr). Il problema è avere una politica migratoria che garantisca la tutela dei rifugiati. Noi ci ispiriamo ai valori cristiani. Se viene il cristiano che rischia a causa del fondamentalismo islamico, noi lo dobbiamo accogliere. Io ho visto i ragazzi che scappavano da Mosul e dicevano di non avere scelta: o divento fondamentalista o mi tagliano la testa. Ho parlato ai ragazzi di Mosul alla frontiera tra la Macedonia e la Grecia. Chi fugge, chi rischia la vita, va accolto. Altra cosa è il trafficante di droga, il delinquente».

Uniti con la Lega nella coalizione ma divisi sul governo, con Fi e anche FdI all’opposizione. Questo schema quanto può reggere?

«Ma io farei un’altra domanda: quanto può reggere il governo? Per me, non molto. Ho detto che è un matrimonio contro natura. Che hanno a che vedere le idee dei Cinque Stelle con quelle della Lega? Secondo me, ben poco. I fatti lo stanno dimostrando».

Anche in Europa i partiti del Ppe, di cui Fi è parte integrante, i conservatori e liberali sono in sofferenza. Pensa che per arginare populismo e sovranismo occorra fare un’alleanza tra centrodestra e centrosinistra anche su scala europea?

«Noi siamo alternativi alla sinistra. Io sono diventato di Forza Italia per fermare la vittoria dei comunisti. Sono entrato nel parlamento Ue, diventandone presidente, sconfiggendo il candidato della sinistra. Non ho problemi a confrontarmi con chicchessia. Ma siamo di centrodestra e tali rimaniamo».

Giovanni Toti, il governatore azzurro della Liguria, ritenuto il capo dei cosiddetti filoleghisti di Fi, non è parso entusiasta della sua nomina. Lei è d’accordo con il partito unico di centrodestra di cui Toti è fautore?

«Io sono contro il partito unico. La somma non fa il totale e senza il totale non si vince. Ciò non toglie che Toti sia persona che stimo. È capace e deve essere assolutamente coinvolto, sarà uno dei protagonisti sicuramente di Forza Italia».

A Salvini che consiglio darebbe lei che ha sempre lottato contro le burocrazie europee?

«Io ho vinto contro le burocrazie europee quando i tecnocrati della Vigilanza della Banca centrale europea cercarono di imporre sulla vicenda dei crediti deteriorati una norma che bloccai. A me piace parlare di cose fatte. Solo con le azioni concrete abbattiamo il muro della burocrazia, io lo ho abbattuto. Ci vogliono mediazione, pazienza ma anche forza. Sono per una politica di fatti concreti».

Come commenta l’uscita dal carcere di Marcello Dell’Utri per curarsi ai domiciliari?

«La legge è eguale per tutti. Era suo diritto, per motivi di salute, come previsto dalla legge. Non voglio strumentalizzare questa vicenda né in un senso né in un altro».

Non crede che ci sia in questo Paese dal ’ 92 ancora un rapporto irrisolto tra politica e giustizia? Come anche le ultime vicende della Lega dimostrano. Lei, tra l’altro, è la carica istituzionale più alta che ha reso omaggio alla tomba di Bettino Craxi a Hammamet, insieme alla figlia Stefania.

«Craxi è stato un grande protagonista della storia italiana, così come anche Andreotti. Prima di Berlusconi, Craxi dette un gran peso all’Italia nella politica estera. Ha pagato un prezzo altissimo. Gli è stato messo sulle spalle un fardello tale per cui Craxi ha pagato per tutti. Non meritava l’esilio perché ha pagato per colpe non sue. Come pagò per colpe non sue Umberto II…»

Lei era un giovane monarchico, che ricordi conserva del Liceo Tasso di Roma dove studiò con il suo collega di Fi Maurizio Gasparri, ma anche con esponenti e personaggi di sinistra come Paolo Gentiloni e Lucrezia Reichlin?

«Mi è rimasto lo stesso entusiasmo di allora. Con loro si poteva parlare, discutere. Non erano certo i personaggi più pericolosi per me. Lì c’era Alvaro Lojacono che poi diventò un esponente delle Br. Pensi un po’!»

Berlusconi che ruolo continuerà ad avere?

«Il leader è lui, non ce ne sono altri».

Lei è il suo successore?

«Ma no! Io non credo ai delfini, i delfini stanno al mare. Sono una persona alla quale lui ha chiesto di dare una mano».

Che farà da “grande”?

«Il presidente del Parlamento europeo, se dovessi rivincere».

La pagliacciata dei pro-immigrati. Si incatenano in favore degli sbarchi. La protesta degli attivisti di "Restiamo umani" contro la chiusura dei porti italiani alle navi con i migranti soccorsi in mare, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 11/07/2018, su "Il Giornale". Svegliarsi all'alba per protestare contro la chiusura dei porti alle navi che traghettano gli immigrati dalla Libia all'Italia. Il blitz mattutino al ministero dei Trasporti porta la firma, fiera, degli attivisti della rete #RestiamoUmani. Si sono incatenati, con tanto di salvagenti e cartelloni, per criticare "le politiche dell'attuale governo che, con la connivenza dell'Ue, stanno causando l'aumento esponenziale del numero di persone che muoiono in mare nel tentativo di raggiungere le coste europee". Un inno all'immigrazione. La pagliacciata buonista ha un titolo esaustivo: "Naufragi di Stato". Uno slogan che sembra accusare Salvini e colleghi di portare sulla coscienza il peso dei migranti affogati in questi giorni. Eppure basterebbe ragionare con buonsenso per capire che se qualcuno non vedrà il Paradiso, questi saranno gli scafisti che caricano i disperati sulle carrette del mare e non chi cerca di bloccare il traffico di carne umana. Ma tant'è. Per gli attivisti "il Mediterraneo è ogni giorno di più teatro di stragi, con centinaia di persone annegate". Vero. Ma siam sicuri che la colpa sia del leghista che chiude i porti? Già, perché a dire il vero gli immigrati annegavano anche quando a pattugliare il mare nostrum veleggiavano decine di navi umanitarie. Lo dicono i dati. Ma per gli attivisti "lo Stato italiano e l'Unione europea" sono "responsabili di queste morti, che si possono evitare con la presenza di assetti preposti al soccorso". La colpa della "istituzionalizzazione dell'omissione di soccorso e del reato di solidarietà" i manifestanti la danno alle scelte del ministro Minniti, agli accordi con la Libia per il "contenimento della migrazione e sull'esternalizzazione delle frontiere" e all'"attacco politico e mediatico alle Ong che prestano soccorso in mare". La rete #restiamoumani rigetta, infine, la pratica di lasciare i clandestini nelle mani della Guardia costiera libica, un "respingimento per procura" che - dicono - "supporta un ciclo di abusi per cui le persone intercettate in mare, una volta rimandate sulle coste libiche, sono soggette a un regime di detenzione arbitraria e illimitata e condotte in centri di detenzione governativi, quando non vendute a gruppi criminali". Non poteva mancare, ovviamente, un riferimento a Salvini che continua "nel solco di una linea già ben tracciata dai governi precedenti" per una "stretta sempre più forte al margine d'azione delle navi civili in mare che soccorrono, testimoniano e denunciano". Loro ne fanno una colpa, il ministro (credo) un vanto.

Con le magliette rosse a scuola: bufera sui prof alla maturità. Polemiche in Sicilia per la decisione di alcuni prof: in commissione d'esame alla maturità hanno aderito all'iniziativa di don Ciotti, scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 09/07/2018, su "Il Giornale". Esami di Stato, insegnanti, migranti e magliette rosse. La polemica politica irrompe a scuola, come (forse) non dovrebbe mai accadere. Partinico, piccolo centro in provincia di Palermo. Una professoressa del liceo scientifico Santi Savarino mostra sulla propria pagina Facebook la fotografia di alcuni colleghi "che indossano la maglietta rossa durante gli esami di maturità". Il motivo di tanto abbigliamento, pare evidente, è la partecipazione all'appello lanciato da don Luigi Ciotti in favore dei migranti morti in mare. E il caso, nato sui social, diventa immediatamente di dominio pubblico. Con molti che si chiedono se sia giusto o meno che i professori, nel loro ruolo educativo e ufficiale, espongano così esplicitamente la loro adesione ad un'iniziativa dal forte eco politico. Partiamo dai fatti. "Bravissimi i colleghi che indossano la maglietta rossa durante gli esami di maturità! - ha scritto la prof del liceo su Fb a margine delle foto - Siete davvero un bell'esempio di una scuola che ha il compito di educare e trasmettere grandi valori ed ideali. Restiamo umani". Contattato dal Giornale.it, dal Liceo fanno sapere che il fatto contestato non riguarda alcuna commissione d'esame all'interno della scuola. Ma la collaboratrice della preside al telefono conferma che si tratta di alcuni "docenti della nostra scuola nominati in commissione esterna presso altre istituzioni scolastiche". Il fatto, dunque, appare confermato. In soccorso dei professori è arrivato il messaggio, pubblicato su Facebook, della preside dell'istituto coinvolto nella bufera politica. "Siamo delusi rispetto ad una gogna mediatica nei confronti dei docenti del Liceo S.Savarino di Partinico che ho l'onore di dirigere - ha scritto Chiara Gibilaro - dei quali conosco l'alta professionalità e l'autentica tensione etica e con i quali in questi anni ho condiviso il Piano dell'offerta formativa". C'era da aspettarselo, visto che la stessa dirigente nei giorni scorsi aveva rivendicato in un messaggio pubblico che "oggi indosso una maglietta rossa". La preside, che risulta tra i membri dell'assemblea nazionale del Pd, in questi giorni è impegnata come presidente di commissione agli esami di maturità in un'altra scuola: "È una gogna mediatica inutile - risponde al telefono al Giornale.it - non è stata espressa una adesione politica, si tratta di polemiche strumentali". In un commento sotto le fotografie incriminate, la stessa Gibilaro scriveva che "anche la nostra commissione a Termini Imerese ha dedicato una riflessione all'evento". Per poi aggiungere che "ne abbiamo fatto oggetto di colloquio". "Non è stato oggetto di discussione - precisa al telefono la preside - è stato un momento, in apertura di giornata, per parlare di un problema di attualità che era stato segnalato da don Ciotti a proposito dei bambini che muoiono ingiustamente nel Mediterraneo". In molti, soprattutto tra i partiti, hanno puntato il dito contro i docenti "schierati" al fianco di una iniziativa che è stata letta in opposizione alle decisioni del ministro Salvini. "Ma quale strumentalizzazione? - ribatte Gibilaro - In tutte le istituzioni ci sono stati rappresentanti che hanno indossato la maglietta rossa solo per ricordare il colore di Aylan e del sangue. Non hanno espresso adesioni politiche, assolutamente. Hanno semplicemente detto che in quel momento si ricordavano i morti nel Mediterraneo" come indicato da don Luigi Ciotti "grande portatore di pace". Il caso però è già arrivato in Parlamento. Il sottosegretario per i Beni e le attività Culturali e il turismo, Lucia Borgonzoni, ha denunciato questa "vergogna della scuola italiana", definendo l'atto dei docenti "intimidatorio". "Chiunque ha libertà di indossare ciò che vuole in democrazia - attacca la leghista - ma è grave che degli insegnanti in servizio utilizzino il proprio ruolo per fare propaganda. Deplorevole anche il fatto che l’argomento sembra sia stato utilizzato come discussione di commissione, diventando così una forma di intimidazione verso chi, tra gli studenti, non la pensa come loro. Forse hanno sbagliato mestiere. Se questi professori desiderano fare politica, non la facciano nelle aule di scuola e non coinvolgano i ragazzi". E mentre la Borgonzoni chiede vengano presi provvedimenti nei confronti delle persone coinvolte, i documenti sono già nelle mani del ministro dell'Istruzione, Marco Bussetti, che sta valutando se inviare una commissione d'ispezione per verificare quanto accaduto. Voci di protesta si sono levate da tutto il centrodestra. Il deputato di Forza Italia, Galeazzo Bignami, ha presentato un'interrogazione parlamentare per stigmatizzare l'adesione dei docenti a "una iniziativa che, a parere di chi scrive, è volta solo a strumentalizzare in maniera ideologica le politiche varate dall'attuale Governo in tema di accoglienza". "Tale gesto - attacca l'azzurro - appare altamente inopportuno nonché fazioso e strumentale, soprattutto perché messo in atto all'interno di un Istituto scolastico, luogo deputato a trasmettere conoscenza e non certo a manifestare ideologie, con il rischio tra l'altro di condizionare le giovani menti e alimentare la polemica rispetto all'azione governativa sul fronte della gestione del fenomeno migratorio". Anche Giorgia Meloni, ieri, aveva rilanciato la fotografia incriminata parlando di "strumentalizzazione politica della scuola pubblica". "Chi vi autorizza a pensare di poter imporre ai nostri figli le vostre idee? - si è chiesta la leader di FdI - Gli alunni che non credono nell’utilità dell’immigrazione incontrollata li bocciate?".

I cattivi maestri in maglia rossa: pessima lezione, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 10/07/2018, su "Il Giornale". Da bandiera rossa a maglietta rossa. Nessun problema se qualcuno, in questi giorni, ha risposto all'appello di don Luigi Ciotti: indossare una t-shirt di colore rosso per «fermare l'emorragia di umanità», una frase a favore dell'accoglienza che significa nulla ma offre un bel hashtag nei social network: #restiamoumani. Chi si oppone all'immigrazione senza regole non può certo essere definito disumano. Al contrario, le regole sono necessarie proprio per tutelare i migranti, alla mercé di trafficanti di uomini che li caricano su carrette del mare con benzina sufficiente solo per uscire dalle acque territoriali libiche. Gommoni sgonfi caricano centocinquanta persone, e vanno subito in pezzi, con il risultato tragico che conosciamo. I malfattori ormai neppure salgono sulle imbarcazioni della morte. Mettono in mano ai clienti un telefono satellitare con i numeri impostati per ricevere soccorso, e tanti saluti. Se poi c'è da salvare chi rischia concretamente di affogare, gli italiani non si sono mai tirati indietro, per fortuna. Molti di quelli che ce la fanno, e sbarcano sulle nostre coste, finiscono ad alimentare il lavoro nero, scatenando la guerra tra poveri. Ma questo non interessa ai paladini dell'accoglienza. Sandro Veronesi, ad esempio, sul Corriere della Sera di ieri, lancia un appello ai colleghi scrittori, Roberto Saviano soprattutto: saliamo sulle navi delle Ong per proteggere i migranti con il nostro corpo. Che vogliano sperimentare il brivido irrazionale di sentirsi profughi per un giorno? Risposta di Matteo Salvini: «Ottima idea, buon viaggio». Detto questo, se un cittadino ha voglia di mettersi la maglietta rossa, affari suoi. Ciascuno faccia i conti con la propria coscienza come meglio crede. La questione è differente se a indossare la maglietta rossa sono pubblici ufficiali come i docenti. I maturandi di un liceo nel palermitano, si sono trovati davanti a una commissione d'esame di rosso vestita, come denuncia Galeazzo Bignami, deputato di Forza Italia. Al di là dell'intento dei professori, che possiamo immaginare in buona fede, il risultato è disastroso. I professori sono in una posizione di forza. Volendolo o no, le magliette rosse intimidiscono gli allievi, che capiscono subito quali opinioni è meglio non esibire. Tutto ciò nella scuola che dovrebbe essere imparziale e attraverso il dialogo stimolare la libera opinione degli studenti. Gli alunni si sono seduti davanti allo Stato e l'hanno trovato in camicia rossa. Dunque schierato, perché, senza ipocrisie, chi ha vestito il rosso è orientato verso sinistra. Che brutta lezione... Pare che quello segnalato non sia stato un caso isolato. Se chi insegna è così partigiano, sul ponte della scuola sventola bandiera bianca: si è arresa al politicamente corretto.

La Meloni veste d’azzurro per gli italiani in povertà: "Lo Stato si occupi prima di loro". Il leader di Fratelli d’Italia lancia la campagna di solidarietà contro le "magliette rosse", scrive Franco Grilli, Lunedì 09/07/2018, su "Il Giornale". Dopo aver sbertucciato la campagna #maglietterosse – "La maglia rossa ce l'ho! Ora mi mancano solo un Rolex e un attico a New York e posso pontificare anch'io sull'immigrazione come i radical chic" – Giorgia Meloni passa al contrattacco, e lancia la sua solidale iniziativa delle magliette azzurre.

Per gli italiani in povertà. In un video pubblicato sui suoi canali social, il leader di Fratelli d’Italia esordisce pungente: "Laura Boldrini, Gad Lerner, Roberto Saviano e una serie di altri personaggi hanno lanciato una campagna nella quale indossano una maglietta rossa per chiedere più accoglienza. Io ho un sacco di magliette rosse, però mi mancano il Rolex e l’attico a New York e quindi non mi metto a pontificare sull’immigrazione come fanno questi radical chic".

L'affondo della Meloni. Dunque, arriva alla sostanza delle cose, in aperta polemica con l'iniziativa pro migranti del 7 luglio: "Quello che voglio fare, invece, è indossare una maglietta azzurra, e chiedere a voi di farlo, in solidarietà con i 5 milioni di italiani che vivono sotto la soglia di povertà, perché è di loro che noi chiediamo che si occupi lo stato italiano".

Magliette rosse: la politica del look e del contraffatto. Dopo Salvini, la polemica sulla sinistra radical chic arriva anche a Perugia, scrive Massimo Sbardella il 09 luglio 2018 su Tuttoggi. Il primo è stato, manco a dirlo, il ministro Matteo Salvini, che ha puntato l’indice contro il giornalista Gad Lerner, perché insieme alla maglietta rossa indossata per solidarietà ai migranti vittime del mare (secondo l’iniziativa lanciata da Libera, Legambiente, Arci e Anpi), aveva in bella mostra sul braccio il Rolex. Una puntualizzazione sul look che ovviamente non potevano lasciarsi sfuggire alcuni politici umbri. E così dal Trasimeno, ecco “catturare” in una foto in corso Vannucci a Perugia due storici esponenti della sinistra umbra che indossano la maglietta rossa. Su cui (come ben evidenzia un cerchietto), compaiono il coccodrillo ed il giocatore di polo, loghi utilizzati da due celebri marche di moda. “A Perugia compagni in maglietta rossa … si ma con quella di lusso”, è il commento sul post che accompagna la fotografia. E giù commenti vari di ogni natura. Sino a quando non compare quello di uno dei “compagni” interessati, che svela: 27 euro al mercatino di Senigallia. Però non ditelo a Salvini. Perché altrimenti, dall’ironia per la sinistra radical chic, che al di là del censo ha a cuore le sorti dei disperati, si passa alla denuncia per aver acquistato merce contraffatta da venditori abusivi.

L’ipocrisia dei politici che definiscono “comunisti col Rolex” le magliette rosse di don Ciotti, scrive Giovanni Drogo il 10 luglio 2018 su Next Quotidiano. Le magliette rosse chiamate a raccolta da don Luigi Ciotti di Libera hanno tormentato il riposo di molti deputati, senatori ed ex parlamentari che se la sono presa con i radical chic col Rolex e l’attico a New York che pontificano sulla povertà dei migranti, sull’apertura dei porti e sull’accoglienza. La maggior parte dei manifestanti non ha né un Rolex né un attico a New York (e di sicuro non li ha il promotore dell’iniziativa), ma per i politici di Lega, MoVimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia le “magliette rosse” sono tutti comunisti col Rolex. Obiettivi preferiti delle critiche Gad Lerner (colpevole del reato di Rolex) e Roberto Saviano (colpevole del crimine di attico a New York). Il senatore della Lega Stefano Borghesi ha imbracciato Twitter per stigmatizzare chi veste firmato e al polso ha un orologio da qualche migliaio di euro: la tipica vita del radical chic, chiosa, che predica bene e razzola male. Naturalmente non c’è alcun nesso tra l’avere un orologio costoso e difendere i diritti dei migranti, uno su tutti quello di non morire annegati in mare da bambini o di non essere picchiati o violentate nei centri di detenzione in Libia. Poi per curiosità si va a guardare l’ultima dichiarazione dei redditi di Borghesi e si scopre che, come quasi tutti i deputati (la scorsa legislatura venne eletto alla Camera), ha dichiarato un reddito complessivo di 100 mila euro (96 mila euro di imponibile). Niente male rispetto ai 70 mila euro di imponibile dichiarati nel 2013, al suo arrivo a Montecitorio. L’ex sindaco di Padova e di Cittadella, già senatore della Repubblica e ora sottosegretario al Ministero dell’Economia Massimo Bitonci (anche lui della Lega) ha proposto di schedare tutti i partecipanti alla manifestazione delle magliette rosse di Padova inviando i loro nominativi al ministro dell’Interno Salvini in modo da trasferire i migranti ospitati nei centri d’accoglienza della zona direttamente a casa dei buonisti #RadicalChic. Poco importa che quelle persone paghino le tasse anche affinché lo Stato si faccia carico dell’accoglienza. Con quelle stesse tasse viene anche pagato lo stipendio del sottosegretario che nel 2014, quando era senatore, aveva dichiarato un reddito imponibile pari a 131.855 euro. Ma ad aver sfruttato maggiormente la storia dei radical chic con le magliette rosse è stata Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia ha costruito sulla battaglia contro i radical chic la comunicazione politica di diversi giorni, con cambi d’abito, magliette rosse, azzurre, orologi e appelli a pensare prima agli italiani. La Meloni ha proposto di indossare una maglietta azzurra per i 5 milioni di italiani sotto la soglia di povertà. Chissà magari un giorno vorrà ospitarne a casa un paio. Ma nessuno glielo chiederà. Perché il doppio standard non si applica ai sovranisti. Loro possono accusare i buonisti di non voler accogliere i rifugiati a casa loro (incredibilmente c’è chi l’ha fatto); nessuno di loro però è in prima linea ad aiutare gli italiani poveri. Anzi, la Meloni (che è alla quarta legislatura parlamentare) è stata fotografata spesso in Aula quando era ministra mentre sfoggiava una borsa di Louis Vuitton (che non costa meno del Rolex) salvo poi proporre un boicottaggio proprio verso la maison francese quando la Francia decise di imporre l’embargo su alcuni prodotti agricoli pugliesi a causa della Xylella. All’ultima dichiarazione dei redditi disponibile sul sito della Camera (quella relativa all’anno 2017) la Meloni ha dichiarato un reddito imponibile pari a 98.421 euro. Si dirà: non sono certo guadagni milionari (anche se in lire sarebbero poco meno di 190 milioni all’anno). Ed è vero, sicuramente non sono gli stipendi di un calciatore. Ma bisogna mettere le cose in prospettiva. Nel 2017 il reddito medio degli italiani è stato pari a 20.940 euro, quasi cinque volte di meno quello dichiarato dai politici che oggi fanno la morale su un Rolex. Il 45% degli italiani, durante lo stesso periodo in cui la Meloni ha guadagnato 98 mila euro ha dichiarato meno di 15 mila euro. Alcuni di loro probabilmente erano in piazza con la maglietta rossa, ma senza Rolex. Dal momento che solo il 5,3% dei contribuenti ha dichiarato più di 50.000 euro è evidente che i politici sono tra i pochi privilegiati, proprio come i radical chic. Giusto per mettere in prospettiva le cose, le persone che hanno dichiarato più di 300 mila euro sono state circa 35.000 (ovvero 0,1% del totale dei contribuenti). Nella rassegna di chi si oppone al pensiero unico buonista non poteva mancare l’ex deputato M5S Alessandro Di Battista attualmente impegnato in una lunga vacanza per ritemprarsi dalle fatiche (e dalle privazioni) della vita parlamentare. Il turista della democrazia, attualmente in Messico, fa un lungo elenco delle colpe delle magliette rosse. Tutti, nessuno escluso, sono colpevoli di aver approvato la decisione di Napolitano di bombardare la Libia (anche se la decisione fu del governo Berlusconi, con dentro la Lega) e che dopo hanno fatto soldi sui migranti. L’elenco continua. Quelli con la maglietta rossa sono colpevoli di vestirsi elegantemente (non come il descamisados Dibba quando andava nei salotti buoni della TV) che con il mignolino alzato si scandalizzano ma che rimangono carnefici. Le magliette rosse organizzano festini tra lussuose mura domestiche (ad esempio la villa di Grillo che viene affittata a 15 mila euro a settimana?) addirittura alimentando il mercato della droga che – dalle parti dove è ora – è una delle ragioni della fuga della povera gente. Poco importa che magari non ci sia nessuno tra le magliette rosse a pippare bamba dalle chiappe di una stripper; Di Battista ha costruito il nemico perfetto. Poi uno si ferma a riflettere e si ricorda che Di Battista è lo stesso che quello che voleva Gino Strada presidente della Repubblica, che magari ha votato contro il reato di clandestinità (ma Salvini dice che per i clandestini la pacchia è strafinita). Quello che nel 2017 ha dichiarato un reddito pari 113.471 euro e che spendeva quasi duemila euro al mese tra pranzi e spesa al supermercato (ma si faceva fotografare mentre mangiava la focaccia seduto sui gradini del Palazzo). Di Battista se la prende con i buonisti che non dicono nulla contro Israele (ma che ne sa lui?) e nel frattempo il suo partito sta al governo con uno che approva le azioni israeliane. Già, è proprio quel Di Battista, quello che aveva promesso di abbandonare il MoVimento 5 Stelle se si fosse alleato con la Lega, a fare la morale agli altri.

FdI in aula con le magliette blu, Fico: "Mettete le giacche o sospendo l'aula", scrive Agenzia Vista Martedì 10/07/2018. Nell'aula della Camera dei Deputati, il gruppo di Fratelli d'Italia ha messo in atto una protesta: i deputati hanno indossato delle magliette azzurre, simbolo dell'iniziativa lanciata nei giorni scorsi da Giorgia Meloni a sostegno degli italiani poveri, in contrapposizione con le magliette rosse di Don Ciotti a sostegno dei migranti. Fico insorge: "Mettete le giacche o sospendo l'Aula".

"Invece di difendere gli ebrei caro pietista coi soldi, perché non pensi ai poveri italiani?". Scrive Mauro Munafò Espresso il 9 luglio 2018 su "L'Espresso". L'iniziativa delle magliette rosse di qualche giorno fa ha portato diversi politici di destra e 5 Stelle a una replica a cui ormai siamo abituati. Qualcosa che possiamo riassumere più o meno così: "Voi buonisti o radical chic coi soldi siete sempre in prima fila per difendere gli immigrati e non vi interessate mai degli italiani". Mmmm ma dove è che avevo già letto questo esatto tipo di replica, solo con qualche parolina diversa? Ah ecco, nei giornali del 1938, quando l'Italia fascista introduceva le leggi razziali contro gli ebrei. Vi riporto, testualmente, un articolo de La Stampa del 1938, rintracciato grazie all'ottimo archivio digitale del quotidiano torinese. La storia è questa: un magistrato svizzero scrive a un giornale locale una lettera in cui chiede di usare un linguaggio più gentile nei confronti dei cittadini ebrei esiliati e perseguitati. La lettera del magistrato fornisce al giornale l'assist perfetto per dimostrare quanto esso sia vicino al popolo (e al potente di turno) e lontano da questi buonisti e radical chic coi soldi. Solo che, al tempo, i buonisti li chiamavano "pietisti". Per il resto cambia poco. Leggete pure qui: Un magistrato ticinese ha inviato una lettera a «L'Idea Nazionale» di Lugano, pregando di non essere ingenerosi, di non esagerare nel linguaggio, di avere, insomma, pietà del poveri ebrei perseguitati ed esiliati. Il giornale, riferisce l'«Italpress», risponde cosi: «Apprezziamo il buon cuore, il senso umanitario e la generosità che ha mosso indubbiamente il nostro magistrato: pietà per gli ebrei sta bene, ma chi ha pietà per le vittime degli ebrei? Chi ha pietà per le nostre povere operaie, alle quali ditte ebraiche pagano 55 centesimi per una camicia da uomo, 15 centesimi per un grembiule, 1.20 franchi per un paio di pantaloni da uomo, 6 franchi per un vestito completo di imballaggio, porto di ritorno a carico dell'operaia a domicilio? Chi ha pietà per i nostri commercianti rovinati dai magazzini giudaici con una concorrenza accanita e sleale? Non facciamo del razzismo. La politica razzista, l'orgoglio di razza, l'esclusivismo protezionista ad oltranza, sono proprio caratteristiche degli ebrei, anche se per fare un affare diventano piccini, striscianti e complimentosi. La questione ebraica esiste. Oggi non si può ignorarla. Per il bene stesso degli ebrei, non si può tollerare una Invadenza ulteriore nel Ticino, Spiritualmente siamo troppo lontani dalla mentalità, dal costumi e dalle idee semitiche, e commercialmente non siamo disposti a fare da schiavi e da battistrada al capitalismo, all'egoismo e allo strozzinaggio tradizionale del trafficanti giudaici». Come vedete, ci sono tutti gli elementi delle becere risposte che oggi vengono avanzate a chiunque critichi la politica in tema di immigrazione dell'attuale esecutivo:

1) Chi solleva una critica viene subito messo alla berlina per il suo status economico (Nel 1938: è un magistrato, quindi è ricco. Oggi: "È un comunista col Rolex");

2) Anche quando la richiesta è puramente simbolica la replica è feroce (1938: "Usare un linguaggio non esagerato", Oggi: indossare una maglietta colorata);

3) Mettere in contrapposizione cose che non c'entrano nulla per alimentare l'odio di classe: (1938: la persecuzione degli ebrei vs lo sfruttamento delle operaie italiane. Oggi: giovani italiani che emigrano vs immigrati che ci rubano il lavoro);

4) La replica: "Non è razzismo, ma esiste un vero problema" (1938 uguale a oggi);

5) Ci stanno invadendo (1938: "invadenza ulteriore nel Ticino". Oggi si parla di invasione dall'Africa);

6) Riferimenti generici al cattivo capitalismo. Di cui poi, la storia insegna, il fascismo si rivelò il miglior cane da guardia.

Meno di un anno dopo la pubblicazione di questo articolo, iniziò la Seconda Guerra Mondiale. Ora, riterrei un po' patetico dire che ci troviamo di fronte a uno scenario simile o suggerire che stiamo per scendere in guerra. Ma la sempre maggiore aggressività del linguaggio nei confronti delle voci critiche rispetto agli attuali governanti non promette mai niente di buono, questo è sicuro.

Se l’iniziativa #magliettarossa rischia l’autogol social, scrive Marco lo Conte su "Il Sole 24 ore" il 9 luglio 2018. L’iniziativa era stata lanciata dal fondatore di Libera, don Luigi Ciotti e raccolta da molti esponenti della sinistra, tra cui Laura Boldrini: indossare una maglietta rossa come quella che avevano i tre bambini che nelle ultime settimane sono stati ritrovati ormai privi di vita sulle spiagge del Mediterraneo, nel tentativo di raggiungere l’Europa. Indossarla e - nell’èra social - pubblicare sui proprio account una foto a testimonianza della propria solidarietà nei confronti dei migranti e contro quella “perdita di umanità” la cui responsabilità è, secondo gli organizzatori, da attribuire al Ministro degli Interni Matteo Salvini e al suo annuncio di chiudere i porti italiani alle navi con migranti a bordo. L’iniziativa ha tinteggiato di rosso Facebook, Instagram e Twitter negli ultimi giorni, coinvolgendo un numero cospicuo di manifestanti social: in termini di engagement sono stati coinvolti oltre 460mila utenti di Twitter, con circa 68mila persone hanno postato solo sul proprio account l’hashtag #magliettarossa. Ma è rilevante registrare la reazione a questa campagna.

Com’è evidente dal grafico, dopo un’iniziale prevalenza di connotazioni positive alla campagna #magliettarossa, nelle ore successive hanno prevalso i post critici con l’iniziativa. Secondo le rilevazioni di Datamediahub (think tank su editoria e digitale guidato da Pier Luca Santoro), i post da account registrati in italiano con l’hashtag #rolex sono 25mila circa, per un engagement complessivo di 320mila utenti social (assumendoli come pertinenti al dibattito e non rifereriti al marchio di orologi); hashtag utilizzato dai sostenitori delle forze politiche al Governo, come simbolo di una sinistra radical chic (anche citata come #radicalchic in molti post). Il post che ha registrato il maggior engagement è quello di Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia: 46mila citazioni, anche se con una portata inferiore a quella ottenuta da Matteo Salvini, secondo per citazioni. D’altra parte, c’è da registrare un numero nettamente superiore di visualizzazioni del tweet di Medici senza Frontiere (1,1 milioni di visualizzazioni), seppur con un engagement inferiore. Ma al di là dei profili “ufficiali” il post che ha ottenuto il maggior successo social è questo:

Luisa Iannelli@LuisaIannelli. Ho deciso di indossare oggi, #7luglio, non una #MagliettaRossa dalla terrazza della mia stanza in affitto che riesco a stento a pagare col mio stipendio da precaria perché i precedenti governi hanno distrutto la mia generazione #emorragiadiumanità @matteosalvinimi 10:31 AM - Jul 7, 2018

Insomma, la reattività della controffensiva social alla campagna #magliettarossa è stata molto rilevante: non solo dal punto di vista della quantità numerica ma anche per la preponderanza in fase di reazione. Tanto che nonostante gli sforzi dei proponenti, l'attenzione generale è stata spostata abilmente proprio su di loro, oscurando il messaggio di solidarietà che inizialmente aveva ispirato la campagna. Il che conferma come sui social il mainstream sia rappresentato proprio dalla narrazione “populista” filogovernativa: la stessa, per cifra linguistica e semantica, che ha caratterizzato la campagna elettorale di Donald Trump. Più pancia che ragione o, per dirla con gli antichi greci, più ethos che logos. La controaccusa, diffusa in moti post, è quella di usare la solidarietà come paravento - colpevole e non colposo - per coprire il traffico degli scafisti e il “business delle Ong”. Da notare che nella stragrande maggioranza delle accusa non si considera l’involontarietà (la “colposità”) di questo comportamento giudicato criminale ma, con un salto logico interessante, direttamente colpevole. Come se il sillogismo possa diventare assioma o teorema per una campagna politica: “Difendi l’accoglienza? Di conseguenza sei complice degli scafisti”. Da notare come nei commenti con hashgat #rolex non manchino spunti goliardici, ma anche molti eccessi verbali, che hanno prodotto l’intervento della Polizia postale. Il che rimette in discussione uno degli assunti di base della narrazione politica attuale: chi è il mainstream? Le forze politiche al governo o quelle di sinistra che lo erano solo pochi mesi fa? La risposta alla prossima campagna social.

"Sparate a Salvini": minacce shock al ministro. La scritta apparsa su un muro a Parma vicino ad un complesso universitario. Salvini: "Non ho paura", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 11/07/2018, su "Il Giornale". Una scritta, chiara, diretta e semplice. Una sorta di ordine vergato a caratteri cubitali su un muro di Parma. Nel mirino c'è il ministro dell'Interno: "Non sparate a salve, sparate a Salvini". A rendere note le minacce choc apparse sulle strade della città emiliana è stato lo stesso leader della Lega, che ha condiviso lo scatto sulla sua pagina Facebook. "Mi fanno pena. Io non ho paura, andiamo avanti!", ha commentato sui social il ministro dell'Interno.

“Non sparate a salve, sparate a #Salvini”. Scritta comparsa a #Parma.

Mi fanno pena. Io non ho paura, andiamo avanti! #primagliitalianipic.twitter.com/hHxn4J9dor— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) 11 luglio 2018 

Anche la deputata ed esponente locale della Lega, Laura Cavandoli, ha rilanciato l'immagine denunciando l'accaduto. "Parma, la città delle scritte contro il Ministro dell'Interno Matteo Salvini - ha scritto su Facebook - La cultura non abita qui e nemmeno l'educazione". Subito è arrivata la solidarietà dal gruppo del Pd alla Camera. Per voce di Emanuele Fiano, i dem hanno fatto sapere che "da parte nostra nessuna violenza, nessuna minaccia troverà mai appoggio. Combattiamo la politica di Salvini con la forza delle nostre idee. No alla violenza".

Migranti in mare, Strada ci fa la morale: "Vergogna, parlate solo dei bimbi thailandesi". Nuova rampogna del fondatore di Emergency in tv: "Ma in che mondo viviamo?". E se la prende coi media perché parlano "solo" dei ragazzini thailandesi, scrive Sergio Rame, Mercoledì 11/07/2018, su "Il Giornale". "Vergogna". È ancora Gino Strada a salire sul pulpito per farci la morale. A In onda su La7 entra a gamba tesa sia contro il governo, che ha usato il pugno duro contro i 67 immigrati clandestini che, dopo aver tentato l'ammutinamento sull'incrociatore Vos Thalassa, sono stati caricati dalla nave della Guardia costiera "Diciotti", sia contro gli italiani perché si interessano soltanto dei ragazzini thailandesi che ieri, dopo giorni di paure e apprensioni, sono stati tirati fuori (sani e salvi) dalle grotte piene d'acqua. "Ma in che mondo siamo?", tuona il fondatore di Emergency (guarda il video). Durante la trasmissione In Onda, Strada se la prende con la scarsa attenzione mediatica per i 67 immigrati, alcuni anche minorenni, bloccati a largo delle nostre coste. In realtà la copertura c'è stata eccome. Tanto che il caso della nave "Diciotti" sta dominando ormai da ore il dibattito politico sia in televisione sia sui quotidiani nazionali. Eppure il fondatore di Emergency non perde l'occasione per fare l'ennesima sparata a favore degli immigrati (e contro Matteo Salvini) e si lancia in una rampogna senza seno. "In che mondo siamo? - si chiede - Da giorni ci sono i giornali pieni, giustamente, di articoli sul salvataggio di quattordici bambini che in Thailandia si sono infilati in una grotta... Si sono mobilitati i miliardari... Hanno usato tecnologie nuove... E c'è una nave con su dei migranti, anche dei bambini, in mezzo al mare mentre i politici discutono... Vergogna".

Strada e il business dei soccorsi "Il Moas voleva 400mila euro". Il fondatore di Emergency: la Ong ci ha scaricati perché la Croce Rossa offriva di più per operare sulle loro navi, scrive Lodovica Bulian, Venerdì 13/07/2018, su "Il Giornale". È sobbalzato sulla sedia, il giornalista Toni Capuozzo, quando l'altra sera, ospite a In onda su La7 con Gino Strada, ascoltava il fondatore di Emergency raccontare perché la sua organizzazione non sia più presente nel Mediterraneo a soccorrere i migranti. Salvini non c'entra, anzi «se potessimo saremmo in mare domani mattina e li porteremmo nei porti italiani». Il punto è che «non abbiamo i soldi per farlo - ha spiegato Strada -. Noi lavoravamo su una barca che era di proprietà di Moas, contribuivamo con il nostro personale sanitario che pagavamo noi: delle spese logistiche noi pagavamo 150mila euro al mese. Dopodiché - ha svelato - ci hanno chiesto di dare di più, 180mila o 230mila, noi abbiamo discusso tra di noi e abbiamo accettato. Poi ci hanno detto: vogliamo che sbarchiate domani perché la Croce Rossa ci dà 400mila euro e noi che dovevamo fare? È come quando il padrone di casa ti dà lo sfratto». Un retroscena che accende i riflettori sui criteri che animano le scelte dell'organizzazione non governativa che ha la sua sede principale a Malta. La fondatrice, insieme, al marito Chris Catambrone, con le sue due navi umanitarie era già finita nel mirino del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che aveva acceso un faro sulle attività delle ong, e la loro è stata una delle prime ad apparire nel 2014 nel Mediterraneo. Da cui ora si tiene invece lontana, avendo spostato le sue operazioni nel Sud-est asiatico per fornire aiuti umanitari ai Rohingya perseguitati in Bangladesh. Sul sito di Moas, tra i donatori compaiono proprio Emergency e Croce Rossa. Quest'ultima però, ha avuto la meglio quando ha offerto un contributo maggiore per coprire i costi logistici delle missioni. La dinamica del benservito dato a Strada è ricostruita nel bilancio della stessa Emergency: la collaborazione con la ong per garantire cure mediche e prima assistenza a bordo della nave Responder (una delle due imbarcazioni di Moas), è iniziata a giugno 2016. In due mesi «è stato possibile portare assistenza sanitaria a quasi cinquemila persone» a un costo complessivo pari a 300mila euro, comprese «le quote di compartecipazione mensile ai costi per la gestione della nave». Il progetto «è terminato all'inizio di agosto per scelta di Moas, che ha comunicato la decisione di concludere la collaborazione con Emergency, avendo individuato un ente disposto a coprire interamente le spese del progetto, oltre che a fornire assistenza sanitaria». L'ente è la Croce Rossa, appunto. Che per la partnership con Moas ha sborsato due milioni di euro, come si evince dal rendiconto del bilancio 2016, per svolgere attività su entrambe le imbarcazioni. Ieri dal blog dell'Huffington Post, la stessa Catrambrone è intervenuta per criticare i «leader politici che continuano a negoziare in nome dell'egoismo e dell'interesse nazionale» e ha attaccato la chiusura dei porti alle ong: «La guerra alle navi umanitarie non ha come risultato un calo nelle partenze, ma solo un aumento di chi perde la vita in mare».

Saviano insulta (ancora) Salvini: "Ha delirio di onnipotenza". L'autore di Gomorra, Roberto Saviano, di nuovo contro Salvini. Poi l'attacco a Bonafede, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 11/07/2018, su "Il Giornale". Saviano torna a battere sulla tastiera dei social network per attaccare, di nuovo, Matteo Salvini. E questa volta lo fa condividendo una fotografia del ministro dell'Interno (non proprio in posa) con il collega Bonafede, ministro della Giustizia. Motivo del contendere è l'annuncio fatto poco fa da Salvini sullo sbarco della nave Diciotti: per il leghista i migranti violenti che hanno dato vita all'ammutinamento sulla Vos Thalassa devono "scendere in manette dalla nave". Altrimenti il Viminale non darà l'autorizzazione all'approdo in porto. Bene. Cosa ha scritto l'autore di Gomorra? Questa volta se l'è presa sia con Salvini, che continua a chiamare "ministro della Mala Vita", e con Bonafede. Reo di non aver rimesso al suo posto il leader del Carroccio che chiede manette per i presunti profughi. "Il Ministro della Mala Vita - attacca Saviano - dice che i 67 migranti a bordo della Diciotti non sbarcheranno a Trapani se non avrà garanzie che verranno arrestati. Salvini preso da delirio di onnipotenza bypassa anche la magistratura. Bonafede ha capito cosa sta accadendo? Qualcuno glielo spiega?". Nella fotografia il Guardiasigilli appare addormentato tra i banchi del Parlamento. Intanto la nave Diciotti è in viaggio verso Trapani, dove è attesa stasera per lo sbarco. Nel governo le frizioni tra M5S e Lega hanno portato, ieri, ad uno scontro sulla decisione di permettere il trasbordo dalla Vol Thalessa alla imbarcazione della Guardia costiera italiana. I vicepremier glissano, ma mentre Salvini vorrebbe chiudere i porti anche alle imbarcazioni italiane che recuperano immigrati, Di Maio ha fatto sapere di ritenere questa eventualità "inimmaginabile".

Roberto Saviano @robertosaviano. Il Ministro della Mala Vita dice che i 67 migranti a bordo della Diciotti non sbarcheranno a Trapani se non avrà garanzie che verranno arrestati. Salvini preso da delirio di onnipotenza bypassa anche la magistratura. Bonafede ha capito cosa sta accadendo? Qualcuno glielo spiega? 13:41 - 11 luglio 2018

Milano, le minacce ai cronisti. Poi la rissa shock tra immigrati. Le minacce ai cronisti che si avvicinano per documentare il degrado. A Porta Venezia le violenze degli immigrati, scrivono Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Giovedì 12/07/2018, su "Il Giornale". "Ti conviene andare via. Loro non vogliono parlare. Vai via". Con lo sguardo torvo lo straniero scende le scale dei giardinetti. Vicino a lui bivaccano da giorni profughi, clandestini e famiglie di migranti. Non vuole, chissà, che si documenti il degrado che avvolge Milano. Alcuni immigrati si coprono il volto, altri si allontanano. Lui, invece, preferisce le minacce. Porta Venezia. Sono passate da poco le otto di sera di martedì quando i volontari del progetto Arca arrivano per portare il cibo a chi ha trasformato il parco in un campo profughi all'aperto. Ci avviciniamo per raccontare la situazione dei clandestini accampati sul prato, tra gli alberi trasformati in armadi di fortuna e i pacchi di vestiti appesi sui rami. Nessuno (o quasi) sembra voler parlare. Dall'alto scende un uomo sulla cinquantina, si avvicina alla telecamera, urla, bestemmia. Poi passa alle minacce: "Forse non hai capito. Ti conviene andare via o te la strappo quella telecamera", grida avanzando. Siamo costretti a indietreggiare (guarda il video). A Porta Venezia per due giorni di fila polizia e carabinieri, dopo le segnalazioni dei residenti, hanno realizzato blitz ripetuti per alleggerire il peso dei bivacchi ai giardinetti. Il primo martedì, con 7 clandestini segnalati in questura. Il secondo ieri, visto che - come una ruota che gira - i migranti erano tornati ad accamparsi sotto gli alberi di viale Vittorio Veneto. E forse succederà di nuovo se il Comune continuerà a scaricare sul governo tutte responsabilità, senza trovare una soluzione. La maggior parte di chi arriva per occupare Porta Venezia è irregolare: sono i cosiddetti transitanti provenienti da diversi paesi dell'Africa. Sono sbarcati sulle coste siciliane, hanno attraversato tutta l'Italia per arrivare a Milano nella speranza di proseguire il viaggio verso il Nord Europa. La città meneghina dovrebbe accoglierli solo pochi giorni prima di raggiungere la Svizzera e la Germania. E invece finisce col trasformarsi nella loro casa (a cielo aperto). Come naturale che sia, il bivacco diventa così motivo di forti tensioni. La situazione può degenerare da un momento all'altro, i residenti lo sanno. Martedì sera tutto appariva tranquillo, poi all'improvviso è scoppiata una violenta rissa: due immigrati discutono per futili motivi, altri si frappongono tra loro. La lite si trasforma in breve tempo in colluttazione: volano urla, calci, pugni. Qualcuno muove una transenna nella mischia. Due gruppi di stranieri si fronteggiano di fronte ai bambini indifesi. "Smettetela, basta", grida un cittadino dal bar lì di fronte. Una madre prende il suo piccolo in braccio mentre gli altri corrono a salvare il poco che gli è rimasto. È la babele di Porta Venezia. Una scena all'ordine del giorno, raccontano i passanti, che scaturisce dal degrado in cui si trovano gli stranieri (guarda il video). Solo ieri l'intervento delle forze dell'ordine ha riportato un po' di serenità. "Questi blitz sono importantissimi, soprattutto se ripetuti", fa notare Silvia Sardone. "Se accompagnati da relative espulsioni possono essere un adeguato deterrente per chi pensa di usare le aiuole della città come area per dormire e fare i propri bisogni. L'importante è continuare così, con allontanamenti e rimpatri". Altrimenti domani tutto sarà come prima.

Lo spaccio dei richiedenti asilo all’ombra del Colosseo. Da alcuni mesi ormai il Parco del Colle Oppio è in mano ad un gruppo di richiedenti asilo dediti allo spaccio. Gli affari vanno avanti alla luce del sole e la villa è diventata anche un punto di riferimento per i turisti in cerca di "sballo", scrivono Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Mercoledì 11/07/2018, su "Il Giornale". Colle Oppio è ormai irriconoscibile, sfregiato, sfigurato. Nel parco archeologico che affaccia sul Colosseo la bruttezza dilaga. La vegetazione è incolta, sono sempre di più gli sbandati che trovano ricovero nei suoi meandri e che, da qualche mese, hanno anche avviato un business fiorente: quello dello spaccio. A gestirlo è un gruppo di richiedenti asilo che si è stabilito nei pressi di ciò che rimane del vecchio roseto: una giungla di rovi e sterpaglia. Giulia, residente sulla trentina, non usa mezzi termini: “È veramente grave quello che sta capitando, in tanti anni una cosa del genere non si era mai vista”. Le fanno eco dal municipio. A parlare è il consigliere Stefano Tozzi. Ripercorre gli anni più bui del parco, i Novanta: “Quando lo spaccio era all’ordine del giorno”. Oggi, quell’epoca sembra riaffacciarsi. Le forze dell’ordine non sono all’oscuro dei traffici che si svolgono da queste parti, tant’è che, qualche giorno fa, hanno dissotterrato ben 1.300 dosi di hashish e marijuana pronte per essere smistate ai turisti che ormai, raccontano i residenti, hanno preso il parco all’ombra del Colosseo come punto di riferimento per lo sballo. Con l’aiuto dei cani antidroga, gli agenti del commissariato Esquilino hanno passato al setaccio ogni anfratto della villa, scovando un vero e proprio arsenale di sostanze stupefacenti, nascosto in delle buche ricoperte dalla vegetazione. E sono scattate le manette per ben cinque pusher. Ma il blitz non sembra aver scoraggiato il resto del gruppo, anzi. Ce ne rendiamo conto di sabato pomeriggio. Entrando nella villa li individuiamo subito. Sono in cinque, appollaiati attorno alla fontana per cercare riparo dal sole. Ci avviciniamo e senza perdere tempo gli domandiamo subito “qualcosa da fumare”. Hashish e marijuana costano 10 euro al grammo e qui non sono disposti a fare sconti. La trattativa dura una manciata di secondi e in men che non si dica ci ritroviamo la nostra dose di erba in tasca. Mentre avviene lo scambio il parco brulica di turisti, residenti e anche di mamme con bambini piccoli. Decidiamo di restare ancora un po’ in compagnia dei migranti. Gli domandiamo da dove vengono e perché sono finiti a vendere droga per strada. A parlare è un giovane maliano. “Veniamo tutti dal Mali e dal Niger, stiamo aspettando che arrivino i documenti e poi ce ne andremo dall’Italia”, assicura. Sognano un futuro in Francia, oppure in Belgio, ma, nel frattempo, ammettono candidamente di spacciare “per mangiare”. Molti al parco del Colle Oppio ci dormono anche, testimoniano i giovani africani. Sulle panchine con vista sull’Anfiteatro Flavio c’è un altro gruppo di ragazzi. Con loro proviamo a rilanciare: “Avete anche la cocaina?”. La risposta, ovviamente, è “sì”. Ma per le droghe pesanti la consegna è su ordinazione. “Ce l’hanno degli amici”, ci spiegano. E a recapitarla sul posto, poi, ci pensano i corrieri. Ne vediamo uno inforcare la bici e sfrecciare in direzione della stazione Termini. Non è un segreto che per acquistare la famigerata polvere bianca basta raggiungere il primo snodo ferroviario della Capitale. È da lì che si ramifica lo spaccio: passa da via Marsala e dal ballatoio di via Giolitti e arriva fino a piazza Vittorio. E ora anche al Colle Oppio.

Ma il parco archeologico che, ogni giorno, viene battuto da centinaia di turisti per raggiungere il monumento simbolo della città, non è solo una delle tante piazze di spaccio nel cuore della Capitale. C’è chi sceglie questa villa anche per iniettarsi l’eroina. E così, di sabato pomeriggio, può anche capitare di imbattersi nei soccorritori di villa Maraini alle prese con le ricerche di un ragazzo in overdose. Lo cercano disperatamente. “È giovane”, ci dicono, “italiano e con dei tatuaggi sul corpo”. Vanno su e giù, setacciano il parco da cima a fondo. Non lo trovano. Si sarà salvato? Ma per uno che ce la fa, ce ne sono altri che non sopravvivono. È di qualche giorno fa la notizia dell’ennesima morte. Quella di un uomo, fotografato da un residente mentre è riverso a terra, con una siringa infilata nel braccio. La sua vita si è interrotta vicino alla stazione Termini, a due passi dalla “grande bellezza”.

Migranti, la Trenta sfida Salvini: ​"La parola accoglienza è bella". Il ministro della Difesa contro l'ala dura del governo: "La parola respingimenti è brutta". E sulle Ong: "Dico basta a una eccessiva demonizzazione", scrive Andrea Indini, Mercoledì 11/07/2018, su "Il Giornale". Ieri pomeriggio, dopo un fine settimana difficile segnato da un fortissimo attrito tra Matteo Salvini ed Elisabetta Trenta per lo stop imposto dal Viminale alle navi militari, fonti della Difesa sono intervenute con un comunicato stampa per chiarire che "non c'è alcun caso" tra i due ministri e, soprattutto, che "il governo rema unito e compatto verso la stessa direzione". Il patto di non belligeranza tra i due è però durato poche ore. In una intervista rilasciata ieri ad Avvenire, la Trenta è tornata ad avvertire Salvini e l'ala dura del governo: "Ho guardato cento volte le foto di migranti e ho pensato sempre una cosa: una famiglia che mette un figlio su un barcone sperando di regalargli la vita va solo aiutata". In queste ore Salvini sta preparando il dossier che porterà alla riunione dei ministri dell'Interno dell'Unione europea, in programma a Innsbruck oggi e domani. E qui inconterà gli omologhi di Germania (Hors Seehofer) e Austria (Heinz-Christian Strache). "Se vogliamo aiutare la Libia a ricostruire democrazia e diritti, lo facciamo con i soldi - anticipa - chiederò ai colleghi europei soldi veri, non soldi finti o chiacchiere". Il suo obiettivo è far in modo che le missioni navali siano "di tutti e non solo dell'Italia". "La missione Themis - fa notare - è una missione europea che, su 32 navi, ha trenta navi italiane. Quindi, ditemi voi che missione europea è. Di farmi prendere in giro a nome degli italiani non ho più voglia - conclude - cominceremo una trattativa che sarà lunga. Il mio obiettivo è che quest'estate abbiamo meno sbarchi e meno morti". A Innsbruck Il titolare del Viminale chiederà anche mani più libere e collaborazione per sorvegliare le frontiere esterne. Se non è una "chiusura", è comunque qualcosa che gli si avvicina parecchio. Ma non tutti sono d'accordo. A partire dalla Trenta che ieri sera è stata ricevuta dal premier Giuseppe Conte insieme ai ministri Danilo Toninelli ed Enzo Moavero Milanesi. Un vertice a sorpresa per "contenere" la linea del leader leghista. All'indomani dello scontro con Toninelli per la chiusura dei porti italiani alla nave "Diciotti", che aveva imbarcato i 66 immigrati salvati dalla Vos Thalassa, rischia di aprirsi un nuovo fronte per Salvini. E ad aprirlo è, ancora una volta, la Trenta. "La strada è regolamentare, non chiudere - spiega il ministro della Difesa - la parola accoglienza è bella, la parola respingimenti è brutta. Poi accogliere si può declinare in mille maniere. E si può, anzi si deve, legare accoglienza a legalità". Nell'intervista ad Avvenire non solo manda un messaggio netto all'ala dura del governo ("C'è il diritto di assicurare un asilo a chi fugge dalla guerra. E il diritto di arrivare e trovare un lavoro"), ma si lancia anche in una difesa a spada tratta delle Ong ("Dico basta a una eccessiva demonizzazione che non mi convince e non mi piace"). Una posizione che difficilmente potrà essere coniugata con quella del Viminale.

Meloni contro i radical chic: "Predicano l’accoglienza, ma solo nelle periferie..." L'affondo del leader di Fratelli d'Italia, scrive Franco Grilli, Mercoledì 11/07/2018, su "Il Giornale". Giorgia Meloni sbertuccia il buonismo di una certa sinistra in tema di immigrazione e accoglienza. Infatti, il capo politico di Fratelli d'Italia ha pubblicato sui suoi canali social un video - intitolato "Il problema dei radical chic non è il Rolex o l’attico a New York, il problema è che pretendono accoglienza sulle spalle degli altri" - in cui non le manda a dire. Dopo aver già preso in giro la campagna delle #maglietterosse, replicando con la controiniziativa delle maglie azzurre. "I radical chic se la sono presa perché abbiamo sorriso della loro iniziativa di indossare le magliette rosse – tra un Rolex, un attico a New York e una vacanza a Capalbio – per chiedere più accoglienza. Hanno detto: “Non si può essere ricchi e solidarizzare con i poveri?” Certo che si può, ma quello che non si può fare è essere ricchi e pretendere che l’accoglienza la facciano le periferie delle grandi città metropolitane e i poveri, che non hanno né Rolex né vacanze a Capalbio né attici New York, ma che hanno magari una casa popolare a Tor Sapienza".

Il vescovo Nogaro: "Moschee al posto di chiese per salvare le vite". Il vescovo Nogaro, riletto da padre Zanotelli, si è detto pronto a sostituire le chiese con lo moschee in caso servisse a salvare la vita delle persone. Chiaro, anche se non esplicitato, il riferimento ai migranti, scrive Giuseppe Aloisi, Mercoledì 11/07/2018, su "Il Giornale". Monsignor Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta, è uno di quelli che ha firmato l'appello per il "digiuno a staffetta". L'iniziativa che, stando a quanto comunicato dagli stessi aderenti, si prolungherà per dieci giorni e che mira a contestare le politiche messe in campo dal governo e dall'Ue in materia di gestione dei fenomeni migratori. Ieri si è tenuta la prima manifestazione. Una vera e propria protesta inscenata tra piazza San Pietro e quella antistante Montecitorio. A fare da "front man" c'era padre Zanotelli, che ha richiamato gli ammonimenti del pontefice argentino: "Siamo qui davanti a San Pietro - ha scandito, come riportato da Repubblica - non tanto per la Basilica quanto per la vicinanza a Papa Francesco, che incoraggiamo a dire le parole forti che sta dicendo a favore dei migranti, e siamo qui con questa lampada per Francesco. Se c'era un uomo appassionato per i poveri era lui. Oggi - ha sottolineato - lo sentiamo presente con noi attraverso questa lampada che ci guiderà in questo cammino e in questo digiuno, perché davvero la voce di chi non ha più voce in Mediterraneo e in Libia abbia più voce domani". Il Papa, insomma, come riferimento valoriale delle rimostranze a favore degli immigrati. Un simbolo del "migrazionismo", direbbero i detrattori del pontefice, considerato dai digiunanti più importante della stessa "Basilica", quindi del Vaticano. Ma durante la manifestazione, oltre a Bergoglio e al santo di Assisi, è stato richiamato anche un altro uomo di Chiesa. Quel monsignor Nogaro che, come detto, fa parte dell'elenco dei sottoscrittori del documento di presentazione dell'iniziativa. Il vescovo, attraverso un'intervista rilasciata di recente, aveva fatto una riflessione che potrebbe essere considerata abbastanza choccante. Virgolettati che sono stati riportati ieri dallo stesso Zanotelli. Come a dire che sono condivisi. Tra le letture scelte, infatti, è stato selezionato questo passaggio: "Moralmente - aveva dichiarato Nogaro - e da uomo di fede sarei pronto a trasformare tutte le chiese in moschee se fosse utile alla causa e se consentisse di salvare la vita di uomini e donne, poveri e infelici, perché Cristo non è venuto sulla terra per costruire chiese ma per aiutare gli uomini indipendentemente dalla razza, dalla religione, dalla nazionalità. E invece ci sono politici che nei loro comizi continuano a predicare le espulsioni e la cosa peggiore è che lo fanno con la corona e il rosario in mano e nominando il nome di Dio invano, un peccato molto grave". Parole che magari potevano essere sfuggite, ma che dopo la giornata di ieri hanno iniziato a rimbalzare sui social. Moschee al posto di chiese, in caso fossero utili alla sopravvivenza dei migranti. Il riferimento appare chiaro. Anche se non viene esplicitato preferendo parlare di una generica categoria comprendente "uomini e donne" e "poveri e infelici" Poi la stoccata del vescovo a Matteo Salvini, che da un palco, durante la campagna elettorale, aveva giurato tenendo un rosario in mano. I cosiddetti "preti di strada" hanno già deciso da che parte stare.

L’Europa sarà africana. Lo vuole l’élite, scrive Giampaolo Rossi il 4 luglio 2018 su "Il Giornale".

NE STANNO ARRIVANDO 100 MILIONI. Nel 2050 l’Africa avrà 2,5 miliardi di abitanti, oltre 1 miliardo in più di oggi. L’Europa 450 milioni, 50 milioni in meno di oggi. E già ora, mentre parliamo, oltre il 40% degli africani ha meno di 15 anni. Siamo di fronte alla “più impressionante crescita demografica della storia umana”. Lo spiega Stephen Smith conoscitore profondo dell’Africa in una recente intervista: “nel giro di due generazioni saranno almeno 100 milioni i giovani africani pronti a venire in Europa”. Smith spiega che è essenziale capire che non sono i poveri a migrare, ma le classi più benestanti che possono permetterselo, coloro che ormai sono “emersi dalla sussistenza” e possono pagare per intraprendere un viaggio oltre il continente; coloro che godono di “reti di supporto”, cioè comunità di africani già residenti in Europa che facilitano la migrazione. Sono 100 milioni i giovani africani pronti a venire in Europa nel giro di due generazioni. I media occidentali “trasmettono cliché miserevoli” di “disperati in fuga dall’inferno – che sarebbe l’Africa – ma la maggior parte dei migranti oggi proviene da paesi in crescita come Senegal, Ghana, Costa D’Avorio o Nigeria”. Il processo è imminente perché “milioni di africani stanno per compiere questo passaggio” legato al processo di trasformazione demografica e economica della società africana: “quando famiglie numerose con alta mortalità” (tipiche delle società più povere) “si trasformano in famiglie più piccole con aspettative di vita più lunga la migrazione tende ad avvenire in maniera massiccia e l’Africa non farà eccezione”. Quindi non profughi che fuggono da guerre o persecuzioni (fattori circoscritti) ma migranti economici che appartengono alle classi più agiate (non i poveri) che si sposteranno a fronte di una pressione demografica senza precedenti e di un miglioramento delle proprie condizioni di vita che li spingerà a salire la scala sociale dell’Occidente. Ovviamente Smith esclude la possibilità che l’Europa possa chiudersi come una fortezza a questo processo ma avverte del rischio di non affrontarlo e non governarlo: “l’Europa deve essere parte della soluzione (…) ma non può essere la “soluzione”. Quindi avete capito bene? 100 milioni di essere umani, per lo più maschi di età compresa tra i 18 e i 35 anni, arriveranno in Europa entro il 2050; come si possa non aver paura di questo scenario è cosa incomprensibile che sfiora la follia. E non per un retroterra razzista o per odio nei confronti di questi uomini e di queste donne che cercano il loro futuro; ma perché questo esodo destabilizzerà le nostre società non solo da un punto di vista economico e sociale ma anche culturale, perché “l’integrazione è un processo lungo e il suo successo spesso è visibile solo dopo la seconda o terza generazione”; e a volte neppure dopo quelle se le culture di provenienza sono inconciliabili con quella d’arrivo. Come sia possibile che leader politici, intellettuali del mainstream, élite dei potenti circoli finanziari ed economici non si rendano conto di quello che sta per avvenire? Forse perché è proprio ciò che vogliono.

UN DISEGNO SEMPRE PIÙ CHIARO. Un anno fa spiegammo in questo articolo come l’immigrazione sia un fenomeno indotto dall’élite globalista che governa processi decisionali e immaginario mediatico, con lo scopo di garantirsi forza lavoro a basso costo in Europa e con l’obiettivo di disarticolare l’attuale ordine sociale. Lo scopo, scrivevamo, è “generare conflitti endemici (guerra tra poveri), imporre legislazioni più autoritarie, alterare l’equilibrio demografico e generare un appiattimento della stratificazione sociale per ridurre il peso di quella classe media, elemento da sempre in conflitto con le élite”. Questo disegno, per semplificare, l’abbiamo chiamato: “lo schema Soros”. Il calo demografico dell’Europa mette in crisi il meccanismo del debito/credito su cui si fonda l’intero sistema della finanza globale. Ma c’è un altro fenomeno che spiega le ragioni per cui l’élite favorisce l’immigrazione in Europa; un fenomeno che nessuno aveva previsto nei decenni passati e che ancora oggi non trova soluzione: il calo demografico dell’Occidente. L’Europa sta morendo per mancanza di figli; questo è il tratto caratteristico della nostra epoca non generato da guerre o povertà ma, al contrario, da pace e eccesso di ricchezza. Le società occidentali semplicemente non fanno più figli perché la cultura individualista e consumistica spinge a contrarre la dimensione del futuro.  Un recente articolo su Gefira analizza le conseguenze: “Tutte le teorie, tutti i modelli che conosciamo di economia, finanza e mercato sono stati sviluppati quando le popolazioni europee crescevano”. Meno popolazione significa riduzione di consumi e quindi di produzione; non minore qualità della vita, semmai meno circolazione di denaro e meno dipendenza dal meccanismo del debito su cui è costruita l’intera economia finanziaria che domina l’Occidente. Ecco perché l’élite ha bisogno di integrare la popolazione che sta scomparendo in Europa. Non solo per avere lavoratori a basso costo ma anche per mantenere in piedi gli ingranaggi del sistema debito-credito. Se il modello economico occidentale si alterasse ne risentirebbe l’intera struttura della finanza globale poiché ancora oggi l’economia mondiale dipende dal mondo industrializzato dell’Occidente (e dell’Asia Orientale occidentalizzata); se l’Europa collassasse il resto del mondo andrebbe dietro: “senza l’Europa, gli sceicchi di Dubai tornerebbero a vivere nelle tende”, spiegano gli esperti di Gefira; e ancora oggi “i paesi africani i dipendono dalle importazioni alimentari che acquistano con le esportazioni di materie prime” necessarie a mantenere il modello industriale occidentale. I milioni di giovani africani sono un dividendo demografico, un tesoro per la finanza globale da capitalizzare in Europa. Ecco perché le grandi istituzioni finanziarie e l’élite globalista spingono per l’immigrazione di massa in Europa; questi centinaia di milioni di giovani africani sono un “dividendo demografico” un vero e proprio “tesoro” per la finanza globale che dev’essere sfruttato. Se non possono essere “capitalizzati in Africa” perché ancora le condizioni socio-economiche non ci sono, “devono essere portati in Europa”. E poco importa se le conseguenze saranno devastanti per le società, i popoli e le nazioni del vecchio continente.

UN CAMBIO DI ROTTA RADICALE. La domanda è semplice: se l’Europa già ora non è in grado di assorbire poche centinaia di migliaia di migranti, come può pensare di resistere alla prossima onda d’urto di decine di milioni? Come è possibile continuare ad accettare checialtroni del mainstream sponsorizzino questa immigrazione di massa mentendo su dati, numeri e conseguenze? Come spiegano gli esperti di Gefira: “se il ritmo di questo processo rimarrà lo stesso, prima che questo secolo sia finito, il 50% della popolazione delle nazioni occidentali sarà sostituita da persone del Terzo Mondo”. Stephen Smith è chiaro in questo: “il principio secondo cui l’Europa decide chi entra e chi non entra nel suo spazio comunitario è fondamentale”. Non si può fermare l’immigrazione che peraltro, se governata e limitata, è una valore di crescita fondamentale per le società che accolgono; ma si può fermare la folle politica di apertura indiscriminata fino ad oggi adottata dall’Ue. L’Europa deve imporre:

Immediato blocco dei propri confini;

Adozioni di numeri d’ingresso rigorosamente chiusi e selezionati;

Imposizione ai governi africani del controllo del proprio territorio anche a costo di pressioni militari e atti di forza se occorre perché un confine è “uno spazio negoziale tra vicini che non possono ignorare i problemi dall’altra parte”;

Creazione di hotspot nei territori di partenza (come del resto previsto nel recente vertice Ue);

Fine delle politiche e dei messaggi di accoglienza e di falso umanitarismo che alimentano le masse in movimento;

Guerra totale alle organizzazioni criminali che prosperano sul nuovo mercato degli schiavi;

Cessazione delle politiche di aggressione criminale a nazioni sovrane (come Siria e Libia), guerre che destabilizzano il Medio Oriente trasformandolo in una terra di nessuno senza controllo né legalità;

Adozione di una forte politica d’investimenti nella parte di Africa emergente affinché quel continente diventi spazio di migrazione interna come lo è stata l’Europa dopo la caduta del muro di Berlino.

La barbarie di questa globalizzazione non lascia spazio a mediazioni: l’Europa africana che l’élite è disposta ad accettare per mantenere in vita il suo sistema di controllo e dominio va combattuta.

UPGRADE delle ore 15: mentre mettevamo online questo articolo, il Presidente dell’Inps Tito Boeri, nella relazione annuale al Parlamento italiano, ribadiva: “senza immigrati il sistema pensionistico italiano non reggerà”. È proprio vero, il saggio indica la luna e lo stolto guarda il dito. Il saggio spiega che entro due generazioni 100 milioni di africani potrebbero arrivare in Europa; lo stolto pensa che ci pagheranno le pensioni. La classe dirigente delle nazioni europee non comprende l’epoca in cui sta vivendo. Per questo è stata messa lì: stolti o utili idioti il risultato non cambia.

Le Ong sono come i pirati. Ecco il business del buonismo. Dietro i salvataggi la strana alleanza tra finanzieri e sinistra. Obiettivo: riempire l'Europa di nuovi schiavi, scrive Gian Micalessin, Domenica 1/07/2018 su "Il Giornale". Battono la facile bandiera dell'umanitarismo, ma in verità coprono interessi politici, economici e finanziari. La nave di Proactiva Open Arms ne è un chiaro esempio. Si mantiene grazie ai soldi di un grossa compagnia marittima, è condotta da una ciurma di attivisti vicini ad una sinistra radicale pronta combattere stati e confini, ma s'avvale del vasto supporto consensuale garantito da George Soros, da esponenti dello star system e dai grandi gruppi della finanza internazionale. Questa strana e variegata alleanza è spiegata dalla comune idiosincrasia per l'autorità degli stati nazionali e più in generali dall'allergia a leggi e regolamenti consolidati. Partiamo dall'elemento più evidente ovvero le donazioni garantite ad Open Arms dal Gruppo Ibazibal, una grande compagnia marittima spagnola. Per capirne i reconditi motivi basta riprendere un dato del 2014. In quell'anno ben 40mila dei 140mila migranti salvati nell'ambito della missione Mare Nostrum vennero recuperati non dalle navi della nostra Marina militare, ma da navi commerciali costrette a deviare dalla loro rotta per far fronte ai naufragi. Proprio questo inconveniente, i cui costi si misuravano in centinaia di migliaia di dollari al giorno, spinsero alcune compagnie come il Gruppo Ibazibal a finanziare le Ong. Ma l'aspetto più pericoloso è insidioso è quello garantito da fondazioni come la Open Society del cosiddetto «filantropo» George Soros. Su questo fronte il pretesto umanitario è utilizzato per scopi molto più sottili è reconditi. Il vero obiettivo di Soros e dei grandi gruppi finanziari pronti a sovvenzionare le imbarcazioni di presunte Org, sorte dall'oggi al domani, non è salvare vite, ma utilizzare i flussi migratori per incrinare il concetto di frontiera e di sovranità statuale. Attenzione questi obiettivi hanno poco a che fare con quella degli utili idioti della sinistra estrema a cui spesso finiscono intestate le imbarcazioni finanziate grazie alle elargizioni di gruppi industriali e alle donazioni dello star system. Gli esponenti della sinistra radicale in questo caso sono soltanto utili teste di legno. Il vero obiettivo coincide invece con quello di aziende e gruppi multinazionali interessati da una parte ad abbassare il costo del lavoro introducendo in Europa manodopera a basso costo (pensate a Foodora, la multinazionale che utilizza i cosiddetti riders in bicicletta) e dall'altra a garantire nuovi consumatori all'invecchiato e saturo mercato europeo. In parole povere più migranti arrivano e più riders-schiavi saranno disponibili. Più gente salveremo in mare e più acquirenti restituiremo all'ormai saturo mercato dei telefonini e di internet. Ma per ottenere tutto questo è necessario incrinare l'autorità dei vari stati convinti di dover ancora difendere le proprie frontiere e di poter assoggettare la navigazione e il salvataggio in mare alle regole del diritto internazionale. Per questo entrano in gioco le Ong, nuova forma di pirateria marittima. I corsari operavano originariamente per conto dei nascenti stati nazionali. Le navi delle Ong altro non sono se non i nuovi corsari. Al posto della bandiera con il teschio e la tibia inalberano quella dei buoni sentimenti, ma in verità rispondono al cinico gioco di chi le paga per trasportare in Europa i nuovi schiavi.

Quelle manovre in mare della Ong per caricare i migranti prima delle motovedette libiche. La Open Arms anticipa le motovedette libiche e carica 59 immigrati. Ma Salvini li avverte: "Non arriveranno mai in Italia", scrive Andrea Indini, Sabato 30/06/2018, su "Il Giornale". Nonostante ieri sera il ministro ai Trasporti Danilo Toninelli abbia disposto "il divieto di attracco nei porti italiani per la nave Open Arms", la Ong spagnola è tornata a sfidare le autorità italiane. Questa mattina si è, infatti, lanciata verso un barcone e, prima che potesse intervenire una delle motovedette libiche che stavano pattugliando la zona, ha imbarcato in tutta fretta una cinquantina di immigrati clandestini che si trovavano a bordo. "Si scordino di arrivare in un porto italiano", ha subito scritto il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, su Facebook. "Le navi straniere finanziate in maniera occulta da potenze straniere in Italia non toccano terra". Salvini non arretra di un millimetro. E a chi gli fa notare che il divieto imposto alle Ong arriva nel giorno in cui i corpi di tre bambini sono stati recuperati e un centinaio di immigrati sono dispersi dopo che un barcone è affondato a sei chilometri al largo dalle coste libiche, replica senza tentennamenti: "Meno persone partono, meno persone muoiono". Al centro dello scontro politico, all'indomani di un vertice europeo che non riesce a risolvere l'emergenza nel Mar Mediterraneo, resta insomma il nodo dell'immigrazione. "Gli unici centri che stiamo aprendo sono quelli per i rimpatri, almeno uno in ogni regione. Non faremo nuovi centri di accoglienza in Italia", punta i piedi il titolare del Viminale al lavoro, in questi giorni, per aprire centri in Lombardia, Toscana e Calabria. Ce ne sarà almeno uno in ogni Regione. "Ospiteranno per qualche tempo i clandestini in attesa di espulsione - continua Salvini - stiamo anche lavorando per tagliare i costi esosi e scendere dai famosi 35 euro al giorno su cui sta lucrando una quantità di finte cooperative impressionante". Nelle scorse ha firmato la sospensione dei lavori già previsti per le ristrutturazioni di centri come i Cara di Mineo e di Isola Capo Rizzuto. "Voglio vederci chiaro su ogni centesimo di euro del capitolo immigrazione e alcune decine di milioni di euro li sto bloccando". A breve Salvini conta di tornare in Libia per affrontare l'emergenza sbarchi e iniziare a ragionare su come blindare le frontiere a Sud, non solo quelle italiane ma anche quelle libiche. Per farlo il titolare del Viminale intende coinvolgere anche la Tunisia. "È il primo Paese per numero di sbarchi quest'anno - puntualizza - e, siccome non ci sono guerre, epidemie, pestilenze e carestie, voglio lavorare in concordia con le autorità per evitare altre partenze". Un altro discorso andrà, invece, fatto con le navi delle Ong che operano lungo le coste nordafricane. Nonostante i divieti dell'Italia e di Malta continuano a intervenire contravvenendo le leggi più basilari. Anche oggi, tagliando la strada alle motovedette libiche, la spagnola Open Arms ha recuperato 59 immigrati che si trovavano alla deriva. "Nonostante gli ostacoli - ha poi twittato la Ong - continuiamo a proteggere il diritto alla vita degli invisibili".

La nave, dopo ore di attesa, si è diretta verso la Spagna. Nel pomeriggio il capitano della Ong, Riccardo Gati, ha fatto sapere che spettava alla Spagna, in quanto Stato di bandiera della nave, trovare "un porto sicuro" in cui far sbarcare gli immigrati a bordo. In serata è arrivato il via libera del governo di Madrid. "Non arriveranno mai in Italia", aveva subito twittato Salvini facendo notare, piuttosto, che "la nave si trova in acque Sar della Libia" e che, quindi, il porto più vicino è Malta e innescando così un nuovo braccio di ferro con la Valletta. "La smetta di dare notizie false per cercare di coinvolgere Malta in una disputa senza una ragione valida", ha replicato l'omologo maltese, Michael Farrugia, pubblicando "una mappa" che mostra come l'imbarcazione sia più vicina a Lampedusa.

L'Open Arms ora accusa l'Italia: "Colpa vostra i migranti morti". L'accusa della Ong spagnola contro l'Italia e la Libia: "Open Arms avrebbe potuto salvare i 100 migranti morti, ma il suo appello è stato ignorato", scrive Giuseppe De Lorenzo, Sabato 30/06/2018, su "Il Giornale". L'accusa, dura e eccessiva, arriva dalla Ong Poactiva Open Arms. E carica sulla coscienza dell'Italia il peso dei 100 migranti morti ieri sera in un naufragio al largo delle coste libiche. Come se non fossero stati trafficanti, che li hanno stipati su una barca troppo piccola e con un motore malandato, a provocarne l'annegamento. In un video pubblicato dall'europarlamentare Javi Lopez, il fondatore dell'associazione, Oscar Camps, punta il dito contro il Beplaese, colpevole di non aver fatto affidamento sulle Organizzazioni non governative per salvare i disperati sul gommone. "Ieri 100 persone sono state uccise nel relitto di una barca al largo della costa libica - scrive l'eurodeputato nel tweet - Open Arms avrebbe potuto salvarli ma è stata ignorata dalle autorità libiche e italiane. Oscar Camps ci dice in questo video che non è stato loro permesso di agire". E le parole del fondatore sono durissime: "Tranquillo, Salvini, non erano italiani. Erano solo 'carne umana". E dalla Astral, l'altra imbarcazione di Proactiva, Riccardo Gatti è ancora più diretto: "Ieri abbiamo ricevuto la richiesta di soccorso da parte di una barca con cento persone a bordo, ma l'MRCC italiano ci ha detto che i libici si sarebbero occupati del soccorso, poi abbiamo letto dei cento dispersi". L'accusa è chiara: "Stanno togliendo di mezzo operativi di soccorso esperti come noi, che da anni salviamo le persone in mare. Nelle ultime due settimane, ci sono stati tantissimi naufragi ma non se ne parla perché siamo coperti da queste grida contro le Ong". Nel gommone naufragato erano presenti oltre 120 persone. Solo 16 sono sopravvissute e tra i morti ci sono almeno tre bambini. L'imbarcazione è entrata in difficoltà in area Sar libica. Spettava dunque a Tripoli, e non a Roma, coordinare le operazioni di salvataggio. Eppure per l'Ong spagnola la colpa è del governo giallo-verde. A ricostruire quanto accaduto è stato il quotidiano spagnolo eldiario.es, che ha inviato a bordo una reporter. Tutto inizia quando la Open Arms ascolta, sul canale 16 della radio, una comunicazione da parte di un aereo militare europeo indirizzata alla Guardia costiera libica. Il messaggio parla di un gommone in difficoltà nell'area di Al-Khums, vicino alla costa di Tripoli. L'Ong, in quel momento, si trova a circa 80 miglia dal luogo del naufragio. Sono tra le 9.00 e le 9.10 del mattino. Il capitano Marco Martínez Esteban annota tutto nel diario di bordo. Ma la Open Arms è tagliata fuori, non può intervenire. "È molto lontano e hanno avvertito i libici, siamo con il diesel al limite - ha detto Esteban al eldiario.es - Non possiamo accelerare per arrivare in orario". E così la palla passa alla guardia costiera libica. Intorno alle 10.30 arriva un avviso ufficiale da Malta: "Una zattera in pericolo con circa 100 persone a bordo, le navi nell'area inviano le posizioni e assistono se necessario". La Ong spagnola, nonostante il carburante al limite, chiama l'Mrcc di Roma per proporsi di andare a recuperare gli immigrati. Il gioco è semplice: se Roma avesse dato il via libera alla nave umanitaria, avrebbe assunto il comando dell'operazione. E così i migranti, una volta recuperati, sarebbero dovuti sbarcare in Sicilia. "Abbiamo ricevuto l'avviso - avrebbe detto, secondo il quotidiano spagnolo, il capo-missione Guillermo Cañardo all'Mrcc italiano - questa è la nostra posizione, hai bisogno che andiamo?". Ma la risposta è negativa: "Niente, quello che abbiamo immaginato, è già tardi, i libici sono già lì, li hanno raccolti". La smentita, ufficiale, arriva però dalla Marina di Tripoli. Il portavoce, l'ammiraglio Ayoub Qassem, ha escluso responsabilità italiane e ha spiegato all'Agi che "il naufragio è avvenuto in acque territoriali libiche e la Guardia costiera non poteva intervenire in alcun modo". E lo stesso ha fatto, in una nota, la nostra marina: "In merito all'evento SAR avvenuto nella giornata di ieri e per il quale risultano dispersi circa 100 migranti - si legge - si informa che lo stesso è accaduto in acque territoriali libiche e non ha visto in alcun modo il coinvolgimento della Centrale Operativa della Guardia Costiera di Roma". Tradotto: se l'Ong avesse voluto prestare il suo aiuto, avrebbe dovuto telefonare a Tripoli (non Roma) e collaborare con i guardiacoste per portare i migranti in Libia. Ma non l'ha fatto. Le posizioni delle Ong e del governo italiano sembrano in effetti inconciliabili. I natanti umanitari intendono rimanere veri protagonisti delle operazioni di soccorso nel mar Mediterraneo, ruolo che l'Italia intende invece affidare alla Libia (quando i naufragi - come sempre accade - avvengono in acque di competenza di Tripoli). Ed è per questo che oggi Oscar Camps e compagni si sono disinteressati dell'arrivo della marina libica e si sono "fiondati" sul posto per recuperare 59 clandestini prima che Tripoli potesse caricarli sulle navi e riportarli indietro. Il dramma di ieri, con oltre 100 migranti morti, è certo una disgrazia. "A indignarci - diceva ieri Oscar Camps in un video su Fb - non è solo la perdita di vite umane, ma anche il fatto che non abbiano fatto affidamento sulle imbarcazioni" umanitarie. "All'impriovviso si disinteressano di noi, ci ignorano, non ci chiamano e la gente continua a morire a poche miglia da dove ci troviamo". Ma eventi simili accadevano anche quando ben 13 imbarcazioni delle Ong pattugliavano in lungo e in largo il mare nostrum. Di chi era, allora, la colpa?

Migranti, Fico ribatte a Salvini: "Io, i porti, non li chiuderei". Salvini e Toninelli chiudono tutti i porti. I grillini vanno in cortocircuito. Fico visita l'hotspot di Pozzallo e incensa le Ong: "Fanno un lavoro straordinario", scrive Andrea Indini, Sabato 30/06/2018, su "Il Giornale". "Io, i porti, non li chiuderei...". Il presidente della Camera, Roberto Fico, lancia la bomba subito dopo aver fatto visita nell'hotspot di Pozzallo. Una dichiarazione di rottura con quanto deciso dal suo collega di partito, il ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli, che ieri sera, d'accordo con Matteo Salvini, ha disposto "il divieto di attracco nei porti italiani per la nave Open Arms". Che la terza carica dello Stato non sposasse la linea del governo Conte non era affatto un mistero. Ma l'uscita rischia di rinfocolare i mal di pancia della base grillina che ha sempre osteggiato la mano ferma dei leghisti. "Dell'immigrazione - commento Fico - si deve parlare con intelligenza e cuore". Sicuramente Fico non parla a titolo personale. Dietro di lui ci sono quelli grillini ortodossi che mal digeriscono Luigi Di Maio e l'alleanza gialloverde. La linea dura di Salvini non ha fatto altro che rendere più feroci i dissapori. E così la visita del presidente della Camera al centro di prima accoglienza di Pozzallo viene piazzata proprio all'indomani di un infuocato vertice europeo che ha visto il premier Giuseppe Conte puntare i piedi per ottenere il divieto di attracco nei porti italiani per le navi delle Ong, che operano nel Mar Mediterraneo, e la creazione di centri sorvegliati in cui vengono decisi i rimpatri degli immigrati. Una linea, ovviamente, condivisa sia dal Movimento 5 Stelle sia dalla Lega. Tanto che, al termine del summit, il grillino Toninelli ha chiuso tutti i porti alla nave spagnola Open Arms che aveva chiesto soltanto "l'accesso alle acque territoriali". Il governo ha, infatti, optato per chiudere non solo allo sbarco ma anche alle attività di rifornimento. "Le navi delle organizzazioni non governative in Italia sono indesiderate - ha chiarito Salvini - d'ora in poi la vedranno solamente in cartolina e non saremo gli unici a comportarci così". A Pozzallo Fico non si mette soltanto a criticare la decisione del governo di chiudere i porti, ma si lancia anche in una sperticata lode nei confronti delle organizzazioni non governative. "Quando si parla di Ong bisogna capire cosa si vuole intendere - dice - nel Mediterraneo salvano i migranti e fanno un lavoro straordinario". E, dopo aver ricordato che l'inchiesta del procuratore aggiunto di Palermo, Marzia Sabella, è stata archiviata e che le indagini del procuratore di Catania, Carlo Zuccaro, "da un anno non cavano un ragno dal buco", invita tutti a "capire bene di chi si parla e chi le finanzia", prima di parlare. "Se no - sottolinea - si fa cattiva informazione". Quindi, passa a bacchettare (con garbo) il premier Conte: "Noi dobbiamo essere solidali con chi emigra e dire alla Ue senza estremismi che la solidarietà si fa insieme. L'approdo è europeo ed è insieme che va gestita la situazione".

Diciamolo: i sovranisti hanno ragione e gli insulti non li fermeranno, scrive Marcello Foa il 27 giugno 2018 su "Il Giornale". E dire che fino a poco tempo fa, gli intellettuali mainstream tentavano di screditare i sovranisti come pericolosi neofascisti. Oggi possiamo dirlo: i sovranisti avevano ragione e non c’è insulto che riuscirà a fermarci, per una ragione tanto semplice quanto inaspettata: gli elettori stanno distruggendo scheda dopo scheda quel costrutto neoglobalista e transnazionale che anni di incessante propaganda hanno tentato di trasformare in un Destino ineludibile. Lo confesso: era difficile immaginarlo in queste proporzioni. La campagna mediatica (ma non solo) lanciata dall’establishment per fermare i populisti in ogni Paese (dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dall’Austria all’Italia) è stata di una virulenza senza precedenti ed è destinata a durare. Pensate solo alle ultime vergognose accuse di Repubblica che ha etichettato come “rosso-bruni” molti intellettuali rei di essere favorevoli al governo legastellato e che accusa Matteo Salvini di essere un nazista. Fango, spazzatura, nient’altro che spazzatura. Trump negli Stati Uniti ha subito lo stesso trattamento. Eppure la diffamazione non fa più presa, nemmeno se è strillata dal 90% dei media; anzi, produce l’effetto contrario. La popolarità del presidente degli Stati Uniti è altissima, la Lega passa di vittoria in vittoria e i 5 Stelle hanno schiantato a sinistra quel Pd per cui tifano quasi tutti i talk show. Tutto questo accade perché i cittadini sono stufi di non essere più padroni del proprio destino e non si fanno più incantare dalla narrativa, inzuppata di spin, volta a creare l’impressione che lo Stato sia una reliqua del passato e che il mondo sarà ineluttabilmente multiculturale, multietnico, governato da democrazie virtuali ma controllato di fatto da élite autonominatesi e prive di legittimità popolare. Altro che reliqua, lo Stato è più vivo che mai! Ecco perché un saggio di un pensatore raffinato come Giuseppe Valditara, “Sovranismo. Una speranza per la democrazia”, pubblicato da Book Time lo scorso mese di gennaio, con prefazione di Thomas D. Williams e postfazione del sottoscritto, oggi non solo è più che mai attuale ma risulta profetico. Valditara in appena 150 pagine condensa le ragioni per mantenere la sovranità nelle mani di un popolo ovvero di ribadire un concetto che in teoria è cardinale di ogni Costituzione ma che nel corso degli ultimi decenni è stato via via svuotato di significato. In fondo essere sovranisti vuol dire credere semplicemente nei principi fondanti delle nostre democrazie, il che non implica, contrariamente a quanto sostengono arbitrariamente i pensatori globalisti, favorire un ritorno del nazionalismo, questo sì veramente superato dalla storia. Significa, invece, credere che ogni Stato abbia la necessità di rappresentare un Popolo, un’Identità e una Cultura comuni e che solo difendendo quelli che sono bisogni insopprimibili e caratteristici di ogni vera comunità, sappia porsi in maniera cooperativa e costruttiva nei confronti degli altri Paesi. Significa riconoscere alcune verità basilari, non solo giuridiche, che con eloquenza e l’ausilio di una penna felice, Valditara espone nel suo saggio. Significa porre le premesse di un nuovo Mondo, meno destrutturato e destabilizzante di quello che i globalisti tentano di imporre, privandoci surrettiziamente dei nostri diritti e, a ben vedere, delle nostre radici e dei nostri valori.

Il fronte antisovranista, ultimo rifugio della sinistra delle élites, scrive Alessandro Catto il 27 giugno 2018 su "Il Giornale". Sono freschissime le dichiarazioni sull’esigenza di costruire al più presto una “alternativa antisovranista” al governo gialloverde e alla cultura politica da esso incarnata. Una esigenza che se non altro ha il merito di rispecchiare le mutate contingenze in epoca di globalizzazione: da una parte le élites cosmopolite, mercatiste, favorevoli al progressivo abbattimento delle frontiere, ad un mondo aperto, ad una società fortemente competitivista, cosmopolita, sostanzialmente liquida e all’insegna del libero mercato. Dall’altra gli ultimi della globalizzazione, il popolo minuto e i lavoratori, le masse rivendicanti, il residuo culturale delle destre sociali e delle sinistre nazionali, capaci di contrastare in maniera organica i voleri del nuovo Re del mondo. Un concetto di cui parlai chiaramente più di un anno fa, ben prima di qualsiasi formazione di governo gialloverde o di qualche sua naturale e opposta alternativa. Di fronte alla situazione e mettendosi nei panni del trafelato consigliere di una novella Maria Antonietta, tuttavia, viene da dire che ci sono modi e modi per creare una alternativa credibile alla rivolta delle masse e alla sua forma politica. Anche tra chi, come me, parteggerà sempre per i lavoratori e gli ultimi della globalizzazione, diventa difficile non notare quanto questa germinale ipotesi di opposizione lasci intravedere un livello di attrazione popolare già deficitario. Che senso ha, infatti, parlare di “fronte antisovranista”? Che senso ha non cercare una formula quantomeno più presentabile? Si rischia veramente di superare la protratta ridicolaggine dell’antifascismo in assenza di fascismo. Un antifascismo ormai borghese, sterile e conservativo ma che quantomeno, esclusa la totale insensatezza di una sua riproposizione nell’Italia odierna, poggia su di una tradizione storica e su di una ideologia reale e culturalmente tangibile. Una ideologia che in anni passati era pure stata degna di largo seguito, poggiante pure su di un nemico storico, quello in orbace, che a qualcuno fa ancora paura. Ma che senso ha definirsi fieramente antisovranisti? Messa in questi termini sembra quasi che si desideri lottare, fregiandosene elettoralmente, al fine di delegittimare ulteriormente le classi popolari non riconoscendo loro una forma di tutela e autodifesa, con una sovranità che è del resto elemento essenziale anche dell’attuale Carta Costituzionale nazionale. Se il “sovranismo”, come grammatica insegna, altro non è che il perseguimento ideale e politico del concetto di sovranità, non stiamo certo parlando, come nel caso precedente, di fascismo, bensì di mero buonsenso amministrativo e di quella che dovrebbe essere mera normalità per una normale nazione dotata di confini, di cittadini, di identità ed interessi da difendere. Manca proprio il concetto fondante di qualsiasi fronte; dall’altra parte infatti non c’è alcun spauracchio antidemocratico da attaccare, ma anzi vi è proprio il concetto di democrazia sovrana sul quale si fondano gli Stati e i patti contratti tra i loro cittadini. Così come ancor più ridicola sarebbe la riproposizione di un “fronte repubblicano”, anch’esso un nome papabile per l’ultimo rifugio dei progressisti nostrani, mentre i loro avversari tutto intendono costruire tranne un fronte monarchico o una restaurazione fuori tempo massimo della monarchia sabauda. Insomma, da un lato abbiamo la conferma di come una intera ala del progressismo nostrano, ben lungi dalle terze vie sovrane sperimentate negli anni ’50 e ’60 anche dal PCI e dal PSI, sia diventato l’ultimo rifugio di politiche fortemente elitarie. Dall’altro certifichiamo con efficacia non solo lo scarso appeal delle nuove “sinistre”, ma anche il fatto che Orwell, ad avere a che fare con le loro odierne intellighenzie, si sarebbe sicuramente divertito e ci avrebbe magari fatto dono di una nuova opera, chiamata “2018”.

Il dito medio dell'equipaggio della Lifeline. Al momento dello sbarco a La Valletta, due membri dell'equipaggio, rivolti verso il molo, mostrano il dito medio e tirano fuori la lingua, scrive Nico Di Giuseppe, Giovedì 28/06/2018, su "Il Giornale". Si è conclusa l'odissea della Lifeline. La nave con 234 migranti a bordo, gestita dall'omonima ong tedesca, è approdata ieri sera nel porto della Valletta dopo sei giorni in mare. Proprio al momento dell'arrivo due membri dell'equipaggio, rivolti verso il molo, hanno mostrato il dito medio (uno dei due ha anche tirato fuori la lingua). Non si conosce il motivo del gesto né a chi fosse rivolto. I migranti attorno a loro li hanno ignorati (guarda qui il video). Che sia un particolare ringraziamento a Malta? Non è dato sapere. Inoltre, come si vede in un altro filmato, alcuni manifestanti hanno applaudito e dall'imbarcazione l'equipaggio ha intonato "siamo tutti antifascisti". Intanto, come annunciato dal premier Muscat, ora per la nave della ong tedesca scatteranno i sigilli e verranno avviate indagini sulla sua regolarità. Il via libera all'attracco sull'isola è arrivato dopo l'accordo raggiunto fra nove Stati Ue: Malta, Francia, Italia, Lussemburgo, Irlanda, Portogallo, Belgio, Olanda e Norvegia. È in questi Paesi che verranno distribuiti i migranti: ma solo quelli che, dopo un esame allo sbarco, si valuterà che hanno le condizioni per presentare richiesta di asilo; gli altri invece verranno riportati nei Paesi di origine, ha chiarito il premier maltese Joseph Muscat. Spicca l'assenza della Germania dall'accordo: "Per come stanno attualmente le cose, non è necessaria un'azione della Germania", ha dichiarato il suo ministro dell'Interno, Horst Seehofer, promotore di una linea dura sull'immigrazione in aperto scontro con la cancelliera Angela Merkel. Esulta il governo italiano. "La nave fuorilegge Lifeline arriverà a Malta e lì verrà bloccata per accertamenti. Altro successo del governo italiano: dopo anni di parole, in un mese arrivano i fatti!", ha twittato il titolare del Viminale, Matteo Salvini. E il premier, Giuseppe Conte, ha dichiarato: "Io ho favorito questa soluzione, quindi la commento positivamente. Era questo lo sbocco che avevo auspicato per cui sto lavorando con i ministri. Ben venga questa soluzione". Conte ha inoltre ritwittato un post del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli, in cui si parlava di "una grande vittoria per l'Italia che può diventare una vittoria per tutta l'Europa".

Sequestro e indagine sulla Lifeline. Una volta completato lo sbarco, la Lifeline sarà sequestrata e verrà aperta un'indagine. I motivi li ha spiegati il premier maltese: perché "il capitano dell'imbarcazione ha disobbedito alle regole internazionali e ha ignorato gli ordini delle autorità italiane" e perché "lo Stato di cui l'imbarcazione batteva bandiera (l'Olanda ndr.) ha confermato che non è nei suoi registri". "Finché l'indagine non sarà finita resterà sotto sequestro", ha aggiunto Muscat. Il quale ha poi voluto sottolineare che quello fra gli otto Stati Ue è un accordo ad hoc raggiunto per "un caso particolare": insomma, per Malta non è un modello in base al quale gestire casi successivi. Alla Lifeline viene contestato di avere soccorso i migranti quando già stava intervenendo la guardia costiera libica e di essersi rifiutata di ubbidire all'ordine di consegnarle i migranti: è da lì che erano partiti i richiedenti asilo, soccorsi poi dalla ong tedesca il 21 giugno. La Lifeline, dal canto suo, sostiene di non avere eseguito l'ordine perché consegnare quelle persone alla Libia avrebbe violato il principio di non respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra. L'accordo fra alcuni Stati Ue per la distribuzione dei migranti della Lifeline sembrava avere sbloccato la situazione già martedì. Ma Malta aveva chiarito che aspettava la conferma di tutti gli Stati coinvolti per dare il via libera alla nave. Nella notte fra martedì e mercoledì Lifeline aveva ribadito la sua richiesta di approdare a Malta, comunicando che molte persone a bordo stavano soffrendo per il mal di mare. A quel punto La Valletta aveva dato l'autorizzazione a entrare in acque maltesi. Alla fine, è arrivato anche l'ok all'approdo.

Migranti, archiviata l'inchiesta sulla Ong: «Il soccorso in mare non è reato». Nessun processo per i volontari della Sea-Watch. Il Gip di Palermo accoglie la richiesta della Procura antimafia: l'assistenza a migranti in difficoltà è un obbligo previsto dalla legge, scrive Fabrizio Gatti il 20 giugno 2018 su "L'Espresso". I volontari della “Sea-Watch”, l'organizzazione non governativa tedesca accusata di associazione a delinquere e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, non hanno commesso nessun reato: il soccorso in mare di persone in difficoltà è infatti un obbligo previsto dalle norme nazionali e internazionali. Il giudice per le indagini preliminari di Palermo, Guglielmo Nicastro, accogliendo la richiesta dei magistrati della Direzione distrettuale antimafia, ha per questo ordinato l'archiviazione di una delle inchieste che nel 2017 avevano fornito argomenti giuridici alla campagna contro le Ong. La stessa sostenuta dall'attuale ministro dell'Interno, Matteo Salvini, e avviata dal suo predecessore, Marco Minniti. L'indagine della Procura antimafia di Palermo ha inizio con un'informativa della squadra mobile di Agrigento. La polizia segnala che l'8 maggio 2017 due motovedette della Guardia costiera hanno scaricato a Lampedusa 220 profughi soccorsi in mare dalla nave “Golfo azzurro” della Ong “Sea-Watch”. Sono le settimane successive all'intesa tra il premier Paolo Gentiloni e il primo ministro di Tripoli, Fayez al Serraj, che apre la strada al patto dell'allora ministro dell'Interno Minniti con le fazioni libiche: il finanziamento di milioni di euro perché i trafficanti fermino o limitino le partenze dei gommoni, come poi è avvenuto. Nello stesso periodo le motovedette libiche, coinvolte nelle operazioni di soccorso dalla sala operativa di Roma della Guardia costiera, si fanno notare per i loro interventi a colpi d'arma da fuoco sia contro le navi delle Ong, sia contro i profughi che tentano di raggiungerle. A volte, perfino a nuoto. Fino a quel periodo il governo italiano ha sempre difeso il contributo delle organizzazioni non governative che hanno colmato l'assenza nel Mediterraneo degli Stati dell'Unione Europea. Poco prima e subito dopo la stretta di mano di Minniti con i libici, però, il vento cambia all'improvviso. E molte questure, che dipendono direttamente dal ministero dell'Interno, si mettono al lavoro per non smentire la stretta ai soccorsi decisa dal capo del Viminale. In pochi giorni, da alleate della Guardia costiera tutte le Ong vengono presentate come la causa degli sbarchi: per questo le loro navi devono essere fermate e i soccorritori processati. Un orientamento che invece di favorire il Pd, come evidentemente speravano Gentiloni e Minniti, alle elezioni del 4 marzo ha portato voti alla Lega. Il procedimento ora archiviato è rimasto comunque contro ignoti. «Emergeva che durante la traversata i barconi con i migranti», è scritto negli atti, «venivano raggiunti da imbarcazioni con a bordo soggetti i quali, una volta intimato loro di fermarsi, recidevano mediante l'ausilio di un coltello i cavi di avviamento dei motori: tale operazione sarebbe stata ripetuta nei confronti di tutti i gommoni. Secondo le testimonianze raccolte, si sarebbe trattato di un piccolo gruppo di europei, tra i quali una donna». Con i motori spenti e il cavo di avviamento tagliato, i gommoni carichi di profughi rimangono ore in balia del mare: «Dopo poco tempo, giungeva un'imbarcazione con a bordo soggetti libici i quali, una volta recuperati i summenzionati motori, si allontanavano». Le indagini però non hanno mai dimostrato chi siano i complici dei trafficanti libici che, tagliando i cavi di avviamento, consentono loro di recuperare i costosi motori e mettono in grave pericolo le centinaia di persone a bordo. I magistrati antimafia di Palermo, Claudio Camilleri, Renza Cescon e Calogero Ferrara, nella loro richiesta di archiviazione spiegano tra l'altro che la nave della Ong ha soccorso i profughi alla deriva su segnalazione e richiesta di Mrcc di Roma, il “Maritime rescue coordination centre”, la centrale operativa della Guardia costiera italiana. «Argomenti decisivi e assorbenti...», sostengono i magistrati, «risultano essere allora da un lato, l'effettività del soccorso e, dall'altro, l'assoluta mancanza di cooperazione dello Stato di Malta nella gestione dei predetti eventi... ne consegue che il porto più vicino, allora, non dovrà individuarsi esclusivamente avuto riguardo alla posizione geografica, ma dovrà invece essere, necessariamente, quello che assicurerà il rispetto dei predetti diritti. Quindi, non deve stupire che la “Sea-Watch” abbia preferito effettuare lo sbarco verso le coste italiane: ciò anzi rappresenta conseguenza logica di quanto appena esposto e una corretta gestione delle operazioni di salvataggio».

Migranti, archiviate a Palermo indagini su ong: “Lecito sbarcare in Italia. Non è favoreggiamento a immigrazione”. L'approdo dove far sbarcare i migranti non deve essere necessariamente quello più vicino ma quello dove vengono maggiormente tutelati i diritti dei soccorsi. Per questo motivo la procura del capoluogo ha chiesto e ottenuto dal gip l’archiviazione di due procedimenti penali a carico delle ong Sea Watch e Golfo Azzurro, accusate di connivenze con i trafficanti libici.  Una decisione in netto contrasto con la linea seguita dai colleghi della procura di Catania, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 20 giugno 2018.  Se la nave di una ong non fa rotta su Malta ma prosegue la navigazione fino alle coste italiane non è colpevole di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il motivo? Il porto dove far sbarcare i migranti non deve essere necessariamente quello più vicino ma quello dove vengono maggiormente tutelati i diritti dei soccorsi. Per questo motivo la procura di Palermo che ha chiesto e ottenuto dal gip l’archiviazione di due procedimenti penali a carico delle ong Sea Watch e Golfo Azzurro, accusate di connivenze con i trafficanti libici.  Una decisione, quella degli inquirenti del capoluogo, che è in netto contrasto con la linea seguita dai colleghi della procura di Catania. L’ufficio inquirente di Carmelo Zuccaro, infatti, ha ipotizzato a carico della ong Open Arms il reato di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Di segno opposto, invece, l’inchiesta archiviata su richiesta del procuratore aggiunto Marzia Sabella e dei pm Gery Ferrara e Claudio Camilleri, che ha ad oggetto due diversi procedimenti penali: uno avviato a maggio del 2017 dopo lo sbarco, a Lampedusa, di 220 migranti salvati dalla ong Golfo Azzurro; l’altro aperto dopo una segnalazione della Guardia di Finanza che ipotizzava delle “incongruenze” nel comportamento della Sea Watch in occasione del soccorso portato a un’imbarcazione in avaria nell’aprile del 2017. Il primo “caso” scoppia quando, sentiti dalla polizia, i profughi raccontano di essere stati raggiunti, durante la traversata, da imbarcazioni con a bordo alcuni europei che avrebbero tranciato i cavi di avviamento dei motori. Successivamente sarebbe arrivati libici per recuperare i motori dei gommoni.  “Alla luce delle indagini svolte, non si ravvisano elementi concreti che portano a ritenere alcuna connessione tra i soggetti intervenuti nel corso delle operazioni di salvataggio a bordo delle navi delle ong e i trafficanti operanti sul territorio libico – scrivono i pm – Le indagini svolte, invero, non hanno permesso di appurare la commissione di condotte penalmente rilevanti da parte del personale ong. In particolare, non è emersa la prova che i soggetti che materialmente tranciarono i motori fuori dei gommoni con a bordo i migranti facevano parte della ong”. La seconda indagine, invece, parte quando la Finanza denuncia il sospetto che la Sea Watch avesse deciso di dirigersi verso le coste italiane piuttosto che verso quelle maltesi, teoricamente più vicine alla zona di salvataggio. Una scelta che, per le Fiamme Gialle, sarebbe stata in contrasto con le esigenze di sicurezza dei profughi. Per i pm palermitani, che nella richiesta di archiviazione accolta dal gip hanno analizzato la normativa internazionale in materia di soccorsi, non ci sarebbero profili di reato. “Secondo quanto previsto dalla Convenzione Sar siglata ad Amburgo nel 1979, le operazioni Sar di soccorso non si esauriscono nel mero recupero in mare dei migranti, ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in un luogo sicuro: secondo la risoluzione 1821 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa la nozione di luogo sicuro comprende necessariamente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse”, scrivono i magistrati.

Che sottolineano poi “l’assoluta mancanza di cooperazione dello Stato di Malta nella gestione degli eventi Sar”. Come dire: siccome nell’isola a Sud d’Europa non sarebbero rispettati i diritti fondamentali dei soccorsi, è perfettamente legale che le imbarcazioni proseguano fino alle nostre coste. “Il porto più vicino – aggiungono i pm – non dovrà individuarsi esclusivamente avuto riguardo alla posizione geografica, ma dovrà invece essere, necessariamente, quello che assicurerà il rispetto dei predetti diritti. Quindi, – concludono – non deve stupire che la Sea Watch abbia preferito effettuare lo sbarco verso le coste italiane: ciò anzi rappresenta conseguenza logica di quanto appena esposto e una corretta gestione delle operazioni di salvataggio”.

Ong, Carmelo Zuccaro: "Così le navi come la Aquarius hanno favorito i trafficanti di uomini", scrive il 19 Giugno 2018 "Libero Quotidiano". E' un articolo illuminante quello che il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, scrive di suo pugno sul Fatto Quotidiano di oggi. Zuccaro è il giudice che, in collaborazione con il ministro dell'Interno Minniti, nel corso del 2017 ha "smontato" il sistema delle Ong che nell'anno precedente (2016) avevano contribuito a portare in Italia il numero record di 181.436 migranti. Nell'articolo sul Fatto Zuccaro descrive minuziosamente in che modo le navi delle organizzazioni non governative siano state decisive per garantire la impunità dei trafficanti di uomini, i cosiddetti scafisti. Fino all'arrivo in massa delle Ong, infatti, gli scafisti erano obbligati a trasportare i migranti fin sulle coste italiane, o quantomeno ben dentro le acque internazionali o italiane. I comandi militari che gestivano le unità impiegate per il pattugliamento e il soccorso nel canale di Sicilia, infatti, si tenevano ben lontani dalle acque territoriali libiche ben sapendo che avrebbero avuto più possibilità di catturare gli scafisti sorprendendoli lontani dalle coste africane. Ma con l'arrivo delle Ong è cambiato tutto: queste imbarcazioni, infatti, si sono sempre più avvicinate alle coste libiche, perchè il loro scopo prioritario era non il salvataggio ma il vero e proprio trasbordo dei migranti dall'Africa all'Italia, attività per la quale ricevevano e ricevono finanziamenti dai privati che le sostengono. Gli scafisti, scrive Zuccaro, hanno così potuti godere di un duplice vantaggio: quello di poter usare gommoni, zattere o qualsivoglia natante sempre più precario e poco costoso, incrementando così o margini di guadagno perchè sapevano di dover traghettare i migranti al massimo per qualche decina di miglia; e l'impunità, perchè potendo "scaricare" i migranti non a unità delle marine militari o delle capitanerie di porto, sapevano di potersene tornare impunemente indietro a raccattare altri disperati. Il tutto sotto lo sguardo (o non sguardo) del ministro dell'Interno Angelino Alfano e di un governo Renzi che sui migranti ha fatto quanto di peggio (non nulla, peggio) fosse possibile fare.

Estratto dell’Articolo di Carmelo Zuccaro, Procuratore capo di Catania, pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” del 19 giugno 2018. La concentrazione e il consolidamento in Libia delle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico migratorio ha portato a una profonda trasformazione delle sue modalità operative. Per cogliere al meglio le possibilità […] era opportuno […] eliminare l'accompagnamento dei migranti da parte delle "navi madri", che in precedenza li trasportavano a ridosso delle acque territoriali italiane, lasciandoli poi sui barconi. […]

Il sempre maggiore numero delle unità navali nel Mediterraneo con funzioni di search and rescue poteva essere volto a loro favore dai trafficanti, che in questa seconda fase decisero di arretrare il raggio di azione delle loro imbarcazioni, facendo agire natanti più piccoli e più veloci nella fuga, da utilizzare non più per il trasporto ma solo per l'accompagnamento dei barconi dei migranti in funzione di ausilio per il rifornimento dei viveri e l' indicazione della rotta (i "facilitatori") sino al momento in cui i barconi dei migranti fossero stati soccorsi. Per aumentare l'impunità in modo da renderla assoluta restava un solo ulteriore piccolo passo: fare in modo che i natanti dei facilitatori non dovessero più entrare in acque internazionali, il che comportava che le navi dei soccorritori avanzassero il loro fronte di azione. Tale situazione era stata ben compresa dai comandi delle missioni navali che, infatti, si erano ben guardati dal farlo […] ma a partire dagli ultimi mesi del 2015 gli spazi delle acque internazionali lasciati liberi dalle unità navali militari è stato occupato dalle navi delle Ong che per intercettare il maggior numero di migranti si sono spinte sino a ridosso del confine tra le acque territoriali libiche e quelle internazionali. Le condizioni sempre più precarie dei mezzi utilizzati dai trafficanti per il trasporto dei migranti […] determina una situazione di pericolo che prescinde dalle condizioni del mare e, quindi, giustifica sempre l'intervento di soccorso […] In sintesi, le modifiche intervenute sulle modalità del traffico sono consistite nel costante arretramento del raggio di azione dei trafficanti e nel correlativo avanzamento delle navi private dei soccorritori. L'effetto del consolidamento del traffico organizzato in Libia lo si percepisce a partire dal 2014 […] Il nuovo record raggiunto nel 2016 di 181.436 migranti è da ascrivere quasi per intero alle organizzazioni dei trafficanti libici, record al quale si affianca quello tragico dei morti in mare accertati: ben 5.022. È questo l'anno del definitivo arretramento dei trafficanti al di qua delle loro acque territoriali. Cosa succede nel 2017? Nel primo semestre arrivano ben 83.000 migranti, pari al 18 per cento in più rispetto al semestre corrispondente dell'anno precedente, che era stato quello dei record; nel secondo semestre il numero degli arrivi scende a 36.000, il 34 per cento in meno rispetto al secondo semestre del 2016. […] le dimensioni del traffico organizzato dei migranti non sono una variabile dipendente esclusivamente dal volume della domanda e da quello dell'offerta ma è condizionato dalle risposte che a livello politico e, solo in minima parte, giudiziario vengono adottate dalla controparte che è più di tutte coinvolta, e cioè l'Italia. Anche i dati dei primi quatto mesi del 2018 confermano tali indicazioni: in tale periodo si è registrato un numero di arrivi di 9.418 migranti, inferiore del 75 per cento al numero record del primo quadrimestre del 2017 (37.235), ma gli arrivi di aprile sono in netto aumento rispetto ai tre mesi precedenti e tale tendenza sembra confermata dai dati di maggio e da quelli ancora provvisori di giugno.

Migranti, Zuccaro torna a parlare delle attività Ong. «Hanno occupato lo spazio lasciato dai trafficanti». Il procuratore di Catania è intervenuto in un convegno organizzato da Area democratica. Senza fare esplicito riferimento all'inchiesta su Proactiva, ma riproponendo le posizioni già assunte nel 2017. Posticipati, intanto, i controlli sui cellulari sequestrati alla organizzazione, scrive Simone Olivelli il 16 giugno 2018 su "Meridionews". Ventinove minuti di intervento davanti a una platea variegata, fatta di magistrati, autorità, agenzie internazionali e rappresentanti di quel governo giallo-verde che, con entrambe le anime, già l'anno scorso aveva dato sposato le sue posizioni, ben prima dell'alleanza post-elettorale e non senza scivolare nella strumentalizzazione politica. La partita di Carmelo Zuccaro con le Ong riparte dal Palazzo della Cultura di Catania, dove si sta svolgendo il convegno promosso da Area democratica per la giustizia dal titolo Le nuove frontiere dell'immigrazione. Il capo della procura etnea, questa mattina, ha parlato delle problematiche nel contrasto giudiziario al traffico organizzato dei migranti. Un tema su cui Zuccaro si è espresso negli ultimi quindici mesi più volte, con affermazioni che hanno attirato le attenzioni dei media nazionali e dello stesso Consiglio superiore della magistratura. Un periodo nel quale a piazza Verga si è registrata prima l'apertura di un fascicolo conoscitivo sulle attività delle Ong nel Mediterraneo e poi, a marzo di quest'anno, l'avvio dell'inchiesta a carico di una specifica organizzazione non governativa, la spagnola Proactiva Open Arms accusata di associazione a delinquere al fine di favorire l'immigrazione clandestina. Ipotesi di reato che non è stata presa in considerazione dal giudice chiamato a pronunciarsi sul sequestro della nave - poi rilasciata dall'omologo ragusano - ma su cui la procura etnea continua a indagare. Zuccaro, oggi, non ha fatto riferimenti espliciti all'inchiesta, anche se i riferimenti ai comportamenti messi in atto dalle organizzazioni non governative non sono mancati. «Per riuscire al meglio nel proprio business i trafficanti hanno cambiato modalità d'azione - ha detto il capo della procura -. Prima le navi madre viaggiavano fino al limite con le acque italiane. Poi, con l'aumento delle partenze e il miglioramento dei controlli, hanno scelto di accompagnare i migranti all'interno delle acque internazionali, indicando ai natanti su cui viaggiavano i migranti la rotta da seguire. Infine, per ottenere assoluta impunità, hanno optato per non entrare più nelle acque internazionali, spingendo i soccorritori ad arrivare al limite con le acque libiche». Un'esca a cui avrebbero abboccato solo le Ong. «Lo spazio lasciato libero giustamente dalle navi militari, il cui avanzamento non sarebbe auspicabile, è stato occupato dalle organizzazioni private», ha aggiunto Zuccaro, sottolineando la diretta proporzionalità tra l'arretramento dei trafficanti e lo spostamento in avanti della linea d'azione delle Ong. Il capo della procura ha anche ricordato come sulle navi delle Ong non ci siano ufficiali di polizia giudiziaria che possano documentare come avvengano i soccorsi, tema su cui già l'anno scorso si è acceso il dibattito con il netto rifiuto da parte delle organizzazioni umanitarie a trasformarsi in «uffici di polizia giudiziaria». Il procuratore ha poi tirato in ballo il governo maltese, già accusato nei giorni scorsi dal ministro degli Interni, Matteo Salvini, di lavarsi le mani in tema di accoglienza. «Il centro di coordinamento della guardia costiera italiana opera in un'area Sar più grande di quella che gli spetterebbe. Stando ai regolamenti sulle Sar - ha specificato Zuccaro - l'Italia dovrebbe occuparsi di una zona di 500mila chilometri quadrati, che non confina con le acque libiche, perché in mezzo c'è l'area di competenza di Malta che però si rifiuta di occuparsene». Spazio poi a un altro tema scottante: gli accordi stipulati dal passato governo Gentiloni, e nello specifico dall'allora capo del Viminale Marco Minniti, con le autorità nordafricane nel controllo delle partenze. «Nel secondo semestre del 2017 i flussi si sono contratti a dimostrazione di come le dimensioni del traffico non dipendono soltanto dalla domanda, ma anche dall'impegno politico, perché se le autorità rinunciano al controllo il fenomeno sarà governato solo dai gruppi di trafficanti», ha rimarcato. Riprendendo parte delle dichiarazioni rilasciate la scorsa primavera, quando aveva fatto riferimento esplicito all'esiguità dei mezzi a disposizione delle procure, Zuccaro anche stamani ha spiegato che per intercettare i trafficanti i costi al momento da sostenere sono improponibili, senza contare l'esistenza di difficoltà logistiche come il coinvolgimento degli operatori telefonici che gestiscono le comunicazioni in Libia. «L'Ue non può adagiarsi sul fatto che l'Italia sia stato l'unico paese europeo ad attuare misure di contrasto», ha concluso Zuccaro, guadagnandosi l'applauso della maggior parte dei presenti, tra i quali i neo-sottosegretari Stefano Candiani (Lega) e Vito Crimi (M5s). Intanto, sul fronte dell'inchiesta su Proactiva, ieri il perito nominato dalla procura di Catania per analizzare i cellulari sequestrati al comandante Marc Reig Creus e alla capa missione Ana Isabel Montes Mier ha preso in mano per la prima volta i due apparecchi. I controlli, però, sono stati posticipati, per un motivo semplice: i telefoni avevano inseriti i rispettivi codici Pin. «I nostri assistiti hanno già fatto sapere che li forniranno. Non hanno nulla da temere», hanno chiosato i legali Rosa Emanuela Lo Faro e Alessandro Gamberini, entrambi presenti in sala mentre Zuccaro parlava. 

Migranti, procuratore capo di Catania accusa le Ong: favoriscono i trafficanti, scrive il 19 Giugno 2018 la Redazione di Tempi. Secondo Carmelo Zuccaro, le navi delle Ong come l’Aquarius non solo aumentano la tratta degli esseri umani ma mettono ancora più a rischio la vita dei migranti. Le navi delle Ong che si spingono fino al confine, se non all’interno delle acque territoriali libiche, hanno favorito i trafficanti di esseri umani accrescendo il business della tratta. A sostenerlo non è un cattivissimo come Matteo Salvini ma il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, che dal 2017 indaga su Ong e traffico di migranti e che il 16 giugno ha tenuto una relazione al convegno “Le nuove frontiere dell’immigrazione”, organizzato da Area Democratica, associazione di magistrati di sinistra.

STRATEGIE DEI TRAFFICANTI. Nel suo intervento, ripreso dal Fatto Quotidiano, un giornale che per quanto governativo non può essere certo ritenuto vicino alle istanze della Lega, Zuccaro sostiene che «a fronte di una domanda inesauribile proveniente dagli aspiranti migranti», i trafficanti di esseri umani hanno negli anni modificato le loro «modalità operative». Se prima accompagnavano i barconi «a ridosso delle acque territoriali italiane», «con il crescere del numero dei trasporti e con il maggiore presidio che le varie missioni navali nazionali e internazionali stavano realizzando nel Mediterraneo, sarebbe assai cresciuto il rischio che le navi dei trafficanti venissero intercettate, con conseguente arresto dei rei e sequestro delle navi».

ARRIVANO LE ONG. Per questo è stato «arretrato il raggio di azione delle imbarcazioni, facendo agire natanti più piccoli e più veloci nella fuga da utilizzare solo per l’accompagnamento dei barconi dei migranti. Per aumentare l’impunità in modo da renderla assoluta restava un solo ulteriore piccolo passo: fare in modo che i natanti dei “facilitatori” non dovessero più entrare in acque internazionali, il che comportava che le navi dei soccorritori avanzassero il loro fronte di azione». Se i comandi delle missioni navali, comprendendo il gioco dei trafficanti, si sono «ben guardati dal farlo», a partire dagli ultimi mesi del 2015 «gli spazi delle acque internazionali lasciati liberi dalle unità navali militari è stato occupato dalle navi delle Ong», come l’Aquarius, «che per intercettare il maggior numero di migranti si sono spinte sino a ridosso del confine tra le acque territoriali libiche e quelle internazionali».

PIÙ SBARCHI, PIÙ MORTI. In questo modo, non solo le Ong hanno aumentato il rischio per la vita dei migranti, visto che i trafficanti hanno utilizzato «mezzi sempre più precari» per il trasporto, ma hanno costretto l’Italia a fare interventi di soccorso ancora più numerosi. Il procuratore di Catania accusa anche Malta di non presidiare la sua area di competenza (Sar, Search and Rescue), costringendo l’Italia a presidiare anche il tratto di mare che dovrebbero coprire i maltesi. La conseguenza di tutto questo si può spiegare con due dati: nel 2016 («anno del definitivo arretramento dei trafficanti al di qua delle loro acque territoriali») si è raggiunto un nuovo record di sbarchi in Italia (181.436 migranti) e di vittime nel Mediterraneo (5.022).

SERVONO AZIONI POLITICHE. Conclude Zuccaro: «Le dimensioni del traffico organizzato dei migranti non sono una variabile dipendente esclusivamente dal volume della domanda e da quello dell’offerta ma è condizionato dalle risposte che a livello politico e, solo in minima parte, giudiziario vengono adottate dalla controparte che è più di tutte coinvolta, e cioè l’Italia».

Migranti, De Raho: “Assenza della pg sulle navi ostacola indagini”. Zuccaro: “Ong sono parte di un sistema sbagliato”. Per il procuratore nazionale antimafia torna a chiedere la presenza della polizia giudiziaria a bordo delle imbarcazioni. Orfini e Civati contro il procuratore di Catania: "Sconcertante prendersela con chi salva vite", "Parli con i fatti invece di fare l'opinionista", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 16 giugno 2018. I magistrati entrano nel dibattito sull’accoglienza dei migranti e il contrasto ai trafficanti. Nelle ore in cui il ministro dell’Interno Matteo Salvini chiude i porti ad altre due navi, il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro rivolge pesanti accuse alle ong: “Fanno parte di un sistema profondamente sbagliato, che affida la porta d’accesso all’Europa a trafficanti che sono criminali senza scrupolo. Questo non risponde né a senso di umanità né di solidarietà”, ha detto Zuccaro. E poco dopo su questo tema è intervenuto anche il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho: “Quello che rende difficile il contrasto alle organizzazioni che gestiscono il traffico di migranti è il disordine negli interventi”, che secondo il magistrato rende impossibile “avere appartenenti alla polizia giudiziaria sulle nave che vanno a recuperare i migranti”. Entrambi i magistrati erano ospiti di un convegno a Catania. Tutto ciò, aggiunge De Raho, impedisce “di svolgere immediate acquisizioni investigative, così come era sempre avvenuto. Questo è un ostacolo enorme allo sviluppo di indagini soprattutto nell’individuazione di soggetti che appartengono alle organizzazioni nord africane di gruppi criminali legati tra di loro in una rete per l’immigrazione che determina anche situazioni di schiavitù di migranti vittime di violenze e anche di omicidi”. Il procuratore nazionale ha poi puntualizzato che “l’esperienza acquisita nel contrasto al traffico umano è vasta e le Procure siciliane e del sud Italia sono state in grado di portare avanti indagini particolarmente significative”. Dal canto suo Zuccaro ha sottolineato anche la posizione anomala, secondo lui, di Malta e delle ong. Secondo il pg, il centro di soccorso italiano in mare “interviene in un’area Sar che è stata estesa a 1,5 milioni di chilometri quadrati circa, a causa del disimpegno delle autorità maltesi che pure dovrebbero presidiare un’area Sar di non modesta estensione lungo la rotta del mare Mediterraneo centrale, ma che, sistematicamente, rifiutano l’utilizzo dei loro porti per l’approdo”. “Dagli atti ufficiali – ha precisato Zuccaro – l’aera Sar italiana è di 500mila chilometri quadrati, e non è direttamente confinante con le acque territoriali libiche. Tra le due aree si interpone la Sar maltese, che è di 250mila chilometri quadrati, dove l’autorità di soccorso di Malta si rifiuta sistematicamente di intervenire alle richieste di soccorso”. Quanto alle Ong, secondo Zuccaro “fanno parte di un sistema profondamente sbagliato, che affida la porta d’accesso all’Europa a trafficanti che sono criminali senza scrupolo. Questo è l’aspetto sbagliato delle cose che non risponde né a senso di umanità né di solidarietà. E non parlo di inchieste in corso, non lo farei con i giornalisti, ma di un fenomeno generale”. Zuccaro è andato oltre, sostenendo che “le dimensioni del traffico organizzato dei migranti non sono una variabile dipendente soltanto dal volume della domanda, che potenzialmente è inesauribile, e da quello dell’offerta. Ma sono in buona misura condizionate dalle risposte a livello politico, e in minima parte giudiziario, che vengono adottate dalla controparte che più di tutte è coinvolta, e cioè l’Italia”. Più in particolare “se le autorità italiane rinunciano al controllo del flusso migratorio – aggiunge il procuratore – se le misure adottate non vengono coerentemente applicate da tutte le componenti del sistema Italia, allora il fenomeno sarà esclusivamente governato dalle organizzazioni criminali che operano in Libia in un regime di monopolio”. Le frasi di Zuccaro hanno scatenato le polemiche di alcuni esponenti del centrosinistra. Il primo a rispondere è stato il presidente del Partito democratico Matteo Orfini: “Trovo sconcertanti le parole di Zuccaro sulle ong. Si sceglie di criminalizzare chi ha la sola responsabilità di provare a salvare vite umane, sopperendo spesso all’assenza degli Stati e delle istituzioni”. Sulla stessa linea anche Giuseppe Civati e Andrea Maestri di Possibile, che hanno invitato Zuccaro “a parlare con fatti concreti, non diventare un opinionista improvvisato. Le sue tesi sulle Ong sono sorprendenti e gravi, oltre che obiettivamente infondate. Il sistema profondamente sbagliato è quello ispirato al proibizionismo migratorio della Bossi-Fini che, come il giurista certamente sa, è il muro giuridico che per essere varcato dai disperati richiede l’intermediazione illecita dei trafficanti di esseri umani”.

Ong, il dossier della Guardia costiera: tutti i trucchi illegali con cui riempiono l'Italia di clandestini, scrive il 20 Giugno 2018 Libero Quotidiano". Un dossier di 300 pagine della Guardia costiera italiana. Una fonte diretta, dunque. Molto affidabile. Un dossier che mette nel mirino le Ong, svelandone trucchi (illegali) e magagne sul trasporto di clandestini in Italia. Ne dà conto Il Giornale, dove si legge che nel faldone si parla di ordini della Guardia costiera non rispettati, soccorsi che avvengono anche all'interno delle acque territoriali libiche, ovvero laddove non sarebbe consentito. E ancora, battaglie navali sul recupero dei migranti con le unità di Tripoli donate dall'Italia; gommoni avvistati da droni e "appuntamenti" in mezzo al mare fissati per recuperare i clandestini. Nel dossier vengono raccolte tutte le operazioni delle Ong davanti alle coste libiche dallo scorso luglio a maggio: pagine dalle quali emergono le furberie, i modi in cui aggirano codici e divieti. Queste carte, per inciso, sono sul tavolo del procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che da tempo indaga sulle Ong. Dalle carte - anticipate da Panorama - si scopre, per esempio, che in marzo la nave Open arms è stata prima sequestrata e poi lasciata andare a Pozzallo per aver portato in Italia centinaia di migranti, i quali dovevano essere soccorsi e poi portati indietro in Libia. E - toh che caso - la nave era partita da Malta con una rotta precisissima verso il luogo fissato, al largo di Khoms, dove poi i clandestini sono stati recuperati: la nave, si apprende, era in quel punto ancor prima che i clandestini salpassero dalla Libia. E ancora, nel mirino ci finisce anche la Sea Watch di cui molto si è parlato negli ultimi giorni. I fatti risalgono al 24 maggio scorso, quando la motovedetta Zwarasalpò da Khoms per intercettare un gommone. Tripoli, in un fax pubblicato da Panorama, si assunse la "responsabilità dell'operazione di soccorso", invitando "tutti gli altri assetti nell'area a rimanere ad una distanza di 5 miglia dall'evento". Anche Roma ribadì che il comando era di Tripoli. Eppure la nave della Ong Sea Watch andò ugualmente a recuperare i 157 migranti, raccogliendone altri 295 il giorno dopo. E ovviamente sono stati tutti poi portati in Italia. Ultimo trucco, le telefonate effettuate direttamente dai trafficanti a Roma con cellulari libici: si spacciano per parenti dei clandestini appena salpati e danno informazioni utili per recuperarli. Sempre nelle carte si legge della telefonata del "signor Mohammed", il quale informò del fatto che in acqua c'era "un barchino con 40 clandestini". Prontamente recuperati dalla Sea Fuchs, dunque trasbordati su altre navi e infine portati sempre in Italia.

Ecco tutti i trucchi (illegali) delle Ong: così i clandestini vengono portati in Italia. In 300 pagine i legami con gli scafisti e gli sconfinamenti nelle acque libiche, scrive Mercoledì 20/06/2018, "Il Giornale". Ordini della Guardia costiera italiana non rispettati, soccorsi anche all'interno delle acque territoriali libiche, battaglie navali sul recupero dei migranti con le unità di Tripoli donate dall'Italia, gommoni avvistati addirittura da droni e «appuntamenti» in mezzo al mare per recuperare i clandestini. Da quando è stato applicato il codice delle Ong dal precedente ministro dell'Interno, Marco Minniti, le Organizzazioni non governative hanno continuano a fare quello che volevano pur di recuperare migranti e sbarcarli in Italia. Un dossier di 300 pagine su tutte le operazioni delle Ong davanti alla Libia dal luglio scorso a maggio di quest'anno dimostra le furberie dei talebani dell'accoglienza, che aggirano codici e divieti. Le stesse carte, con maggiori dettagli, sono sul tavolo del procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro che indaga sulle Ong. Il settimanale Panorama è stato il primo a pubblicare i dati cominciando dai 17.178 migranti, in gran parte clandestini, arrivati da luglio 2017 a maggio nel nostro paese grazie alle Ong. Il numero più alto di recuperi, 44, spetta proprio a nave Aquarius protagonista del braccio di ferro con il Viminale degli ultimi giorni, che ha dovuto portare i migranti in Spagna. E spesso le segnalazioni sono a dir poco ambigue. Panorama rivela che il 28 gennaio nave Aquarius grazie ad una telefonata a Roma da «utenza sconosciuta» soccorre un «gommone con 87 clandestini», ma nelle acque territoriali libiche a 10 miglia dalla costa. Solo nei primi quattro mesi dell'anno le Ong sono intervenute ben 14 volte nelle cosiddette acque contigue, non internazionali, entro le 24 miglia dalla Libia. E tutti i recuperi in mare dal codice Minniti in poi sono avvenuti nelle 80 miglia dichiarate da Tripoli zona di ricerca e soccorso della guardia costiera libica. Oggi la flotta umanitaria conta su sei navi e due aerei che decollano da Malta oltre ai droni a bordo. Il 17 settembre il velivolo senza pilota Moonbird della tedesca Sea watch individua un gommone «con 120 clandestini soccorsi da motonave Astral» si legge nel dossier. In marzo nave Open arms è stata prima sequestrata e poi lasciata andare a Pozzallo per aver portato in Italia centinaia di migranti, che dovevano venir soccorsi e fatti tornare indietro dai libici. La nave era stranamente partita da Malta con una rotta dritta come un fuso sul luogo dell'«appuntamento» al largo di Khoms ancora prima che i gommoni con i clandestini salpassero dalla Libia. L'ultima battaglia navale delle Ong è del 24 maggio quando la motovedetta Zwara salpa da Khoms per intercettare un gommone. Panorama ha pubblicato i fax dell'assunzione da parte di Tripoli di «responsabilità dell'operazione di ricerca e soccorso» che invita espressamente «tutti gli altri assetti nell'area a rimanere ad una distanza di 5 miglia dall'evento». Il centro di soccorso della Guardia costiera a Roma ribadisce che il comando è di Tripoli. L'equipaggio della nave dell'Ong tedesca Sea watch se ne frega e recupera 157 migranti raccogliendone altri 295 il giorno dopo. Tutti sbarcati in Italia. Il grosso delle segnalazioni dei gommoni avvengono attraverso chiamate dirette al Centro di Roma. Però subito dopo sono ben 47 le segnalazioni partite direttamente dalle navi o velivoli delle Ong, che fanno scattare il «soccorso». L'assurdo è che talvolta chiamano direttamente i trafficanti a Roma con dei cellulari libici spacciandosi per parenti dei clandestini appena salpati. Panorama rivela che nel dossier un sospetto trafficante si presenta come «sig. Mohammed» per informare dell'arrivo di un «barchino con 40 clandestini». Tutti presi dalla Sea Fuchs, che poi vengono trasbordati su tre navi diverse, contravvenendo al codice Minniti, prima di arrivare in Italia.

La prova che Malta ha mentito: "Sos, fate sbarcare la Aquarius". La Valletta ha sempre sostenuto di non aver ricevuto allerte sulla nave. Ecco il documento che li smentisce, scrive Fausto Biloslavo, Mercoledì 20/06/2018, su "Il Giornale". «Per fornire il prima possibile assistenza ai migranti e per la loro sicurezza vi chiediamo di sbarcarli a Malta garantendo l'ingresso della motonave Aquarius nel vostro porto». La comunicazione urgente su carta intestata del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti spedita dal Centro di soccorso della Guardia costiera di Roma ai maltesi dimostra che il governo de La Valletta ha fatto come sempre orecchie da mercante rifiutando lo sbarco dei migranti. Lo stesso premier Joseph Muscat ha mentito dichiarando che «non risulta» una richiesta di approdo italiana. Il documento in mano al Giornale dimostra il contrario. Il 10 giugno l'Mrcc, il centro di soccorso della Guardia costiera, invia il fax urgente alla controparte maltese. «Cari signori, vi informiamo che la motonave Aquarius ora all'interno delle acque di ricerca e soccorso di Malta è stata coinvolta il 9 giugno in sei casi di soccorso e ha a bordo circa 700 persone», si legge nelle prime righe. Roma fornisce l'esatta posizione dell'unità con tanto di latitudine e longitudine. E poi aggiunge, per sottolineare che La Valletta è il porto sicuro più vicino, che la nave delle Ong Sos Mediterranee ed Msf dista «64 miglia da Malta, 99 da Lampedusa e 121 dalle coste meridionali siciliane». Gli italiani fanno presente ai maltesi che a bordo ci sono migranti in «cattive condizioni di salute oltre a donne e bambini». E «per la loro sicurezza» l'Italia chiede secondo «il capitolo 3 della convenzione di Amburgo» che impone la collaborazione fra Stati nel soccorso in mare di «sbarcarli a Malta». Da La Valletta fanno i furbetti e neppure rispondono lasciando che l'ondata buonista si scagli contro il «fascista» Salvini, ministro dell'Interno che dice no all'attracco dell'Aquarius in Italia. E nessuno critica Malta. Il bello è che pure l'Ong che ha i suoi medici a bordo della nave in un comunicato del 12 giugno scrive: «Per Msf l'opzione migliore è sbarcare al più presto le persone soccorse nel porto sicuro più vicino, a Malta o in Italia». Nel 2017 sono arrivati sull'isola europea appena 23 migranti e nei porti italiani 171mila. L'anno prima erano due in più. Muscat ha chiuso il porto de La Valletta, come sta facendo Salvini, dopo che nel 2008 erano sbarcati oltre duemila migranti su 460mila abitanti. E negli ultimi giorni sono arrivati in Italia altri 1495, che in realtà erano stati soccorsi in acque di competenza libica e maltese. Gli ultimi sono i 519 sbarcati la scorsa notte da nave Diciotti della Guardia costiera italiana. La settimana scorsa il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, titolare di un'ampia inchiesta sulle Ong ha spiegato: «Il centro di soccorso italiano in mare interviene in un'area Sar che è stata estesa a 1,5 milioni di chilometri quadrati, circa, a causa del disimpegno delle autorità maltesi () lungo la rotta del mare Mediterraneo centrale, che, sistematicamente, rifiutano l'utilizzo dei loro porti per l'approdo». La nostra effettiva zona Sar, di mezzo milione di chilometri quadrati «non è direttamente confinante con le acque territoriali libiche - ha sottolineato Zuccaro -. Tra le due aree si interpone la Sar maltese, che è di 250mila chilometri quadrati, dove Malta si rifiuta di intervenire alle richieste di soccorso». Non a caso il governo di centro sinistra, amico del Pd, al potere a La Valletta ospita furbescamente la flotta rimasta delle Ong. Sei navi più due aerei di un gruppo di volontari francesi, che partono sempre da Malta, ma non sbarcano mai un solo migrante sull'isola.

I poliziotti spagnoli vogliono mettere fuorilegge le ong che portano i migranti. L'appello di un sindacato della polizia spagnola: "Perché processare gli scafisti che portano i migranti in Europa e non le associazioni non governative?" Scrive Ivan Francese, Mercoledì 20/06/2018, su "Il Giornale". Non è ancora passata una settimana dallo sbarco dei migranti della nave "Aquarius" nel porto iberico di Valencia che già uno dei più importanti sindacati della polizia spagnola chiede al governo di Madrid di mettere fuori legge le ong che portano in Europa gli immigrati irregolari. La proposta parte dall'Alternativa Sindical de Policia, secondo cui per il codice penale le associazioni non governative che portano gli immigrati nel Vecchio continente dovrebbero essere processati alla stregua degli scafisti. Inoltre l'Asp contesta l'utilizzo del termine "salvare" i migranti in mare, contestando che si tratta piuttosto di un trasporto e guardando con preoccupazione al milione di persone che sarebbe pronto a salpare dalle coste del Nordafrica. I sindacalisti delle Forze dell'ordine chiedono invece che le operazioni di pattugliamento in mare siano affidate esclusivamente alle navi della marina militare, della polizia o della guardia costiera. Per gli equipaggi e per i responsabili delle ong, invece, esigono l'introduzione di pene severe, appellandosi all'articolo 318 bis del codice penale spagnolo, secondo cui, sia pur con l'eccezione per gli interventi umanitari, "tutte le persone o le organizzazioni che aiutano persone provenienti da Paesi terzi a entrare nel territorio dell'UE violando la legislazione di ingresso saranno gli autori di un reato contro i cittadini stranieri". Quest'anno in Spagna si teme l'arrivo di un'ondata di migranti, che potrebbe essere favorito da una concatenazione di circostanze favorevoli: la chiusura dei porti da parte dell'Italia, l'adozione di una linea più morbida da parte del nuovo governo socialista recentemente insediatosi a Madrid e la conseguente pressione da parte del Marocco, interessato a garantirsi l'amicizia del nuovo esecutivo. Rispetto agli anni scorsi gli arrivi nella penisola iberica si sono moltiplicati e ora anche la polizia teme che molte delle ong potrebbero dirottare la propria attività verso il Mediterraneo occidentale. E per questo chiedono al governo di giocare d'anticipo.

«Basta far soffrire bambini innocenti»: gli Usa contro la tolleranza zero di Trump sui migranti. Chiusi in grandi gabbie di ferro e lasciati soli per giorni e giorni: la politica adottata dall'amministrazione americana nei confronti dei figli degli immigrati che hanno superato illegalmente il confine con il Messico indigna e fa scatenare la rivolta dei grandi quotidiani nazionali, scrive Nicolò Canonico il 19 giugno 2018 su "L'Espresso". «Guardare il presidente Trump accusare i Democratici per la pratica disumana della sua amministrazione di strappare al confine i bambini immigrati ai propri genitori, è come quel marito violento che incolpa la moglie per le botte che le rifila». Con questa immagine si apre l'editoriale del New York Times che condanna la politica di “tolleranza zero” voluta dal presidente americano. Chi supera illegalmente la frontiera tra Stati Uniti e Messico va fermato e respinto. Ma a questo si aggiunge una pratica ritenuta crudele da molti: gli adulti vengono messi in cella, senza i loro figli, che vengono portati in centri detentivi appositi, in attesa di sapere se verranno rimandati nel loro Paese d'origine. Nelle ultime settimane sono stati almeno duemila i minori stranieri costretti a stare lontani per diversi giorni dai loro cari. I giornalisti dell'Associated Press, ammessi a visitare uno di questi centri nel sud del Texas, hanno parlato di «gabbie fatte di reti di metallo» al cui interno si trovano decine di bambini tra «bottiglie d'acqua, coperte termiche e patatine fritte». In questo estratto dall'audio originale di circa 7 minuti, ottenuto dall'agenzia di notizie non profit ProPublica, il pianto di un gruppo di bambini - circa 10 in tutto - provenienti dall'America Centrale e separati dai loro genitori dalle autorità che sorvegliano il confine con gli Stati Uniti. Una dei piccoli chiede agli agenti di chiamare sua zia, residente negli Stati Uniti: "Voglio che mia zia mi venga a prendere per portarmi a casa sua". La bambina di El Salvador, 6 anni, aveva imparato il numero della parente a memoria proprio in preparazione al viaggio, nell'eventualità di una separazione dalla madre. Da maggio scorso l'amministrazione Trump ha smesso di tollerare l'arrivo di immigrati clandestini accompagnati dai loro figli. In precedenza le "unità familiari" venivano dirottate verso i tribunali per l'immigrazione, e spesso tutti i loro membri venivano rilasciati dopo tre settimane di detenzione in base a una legge che limita la permanenza in cella di minori senza documenti. Ora invece i migranti irregolari vengono perseguiti penalmente, anche se questo vuol dire separarli dalla famiglia al loro seguito. La rivista The Atlantic scomoda addirittura una tragedia dell'Antica Grecia, l'Antigone di Sofocle, per commentare ciò che sta accadendo: Creonte, re di Tebe, fa rinchiudere la nipote in una grotta perché aveva tentato di seppellire il corpo di suo fratello Polinice, nonostante il tiranno avesse ordinato che il cadavere fosse abbandonato fuori dalle mura della città per motivi di sicurezza e come monito per la popolazione. «L'amministrazione Trump – scrive Quinta Jurecic – non ha ideato nulla di così crudele. Ma quando giustifica l'allontanamento dei genitori migranti dai loro figli, sta parlando il linguaggio di Creonte». Quella del presidente «non è una scelta tra ordine e disordine, ma una decisione tra misericordia e crudeltà. Tra le molte lezioni di Antigone – ricorda The Atlantic – è che la legge applicata troppo duramente diventa crudeltà». E le voci negative nei confronti della tolleranza zero si stanno alzando anche dal fronte conservatore. Bill O'Reilly, giornalista ex Fox News e commentatore politico spesso allineato con le posizioni di Trump, ha scritto che «l'Amministrazione questa volta non vincerà e dovrebbe cambiare subito rotta» facendo notare che «il governo dovrebbe sapere quanto sia brutto questo aspetto e quanto i bambini innocenti stiano realmente soffrendo». Un argomento che sta a cuore anche alle tre ex first lady, Laura Bush, Hillary Clinton e Michelle Obama, che in varie interventi hanno criticato apertamente la linea dura portata avanti dall'attuale presidente. Il Washington Post racconta invece la storia di John Moore, il fotografo che ha scattato una delle immagini simbolo di questa vicenda. Una bambina di due anni che piange mentre un'agente di frontiera blocca e perquisisce la madre nel sud del Texas. «Avrei solo voluto farla smettere di piangere» racconta il fotografo, uno dei pochi testimoni oculari che possono realmente raccontare le sofferenze patite da queste persone. Moore da anni lavora al confine tra Usa e Messico per descrivere attraverso le immagini le storie di chi tenta di entrare in modo illegale negli Stati Uniti. Poco prima del fermo, il fotografo era riuscito a scambiare qualche parola in spagnolo con la madre della bambina: «Mi ha raccontato che hanno viaggiato per un mese e che provenivano dall'Honduras. Posso solo immaginare quali pericoli abbia dovuto affrontare, da sola con la bambina». Subito dopo gli agenti le hanno fatte salire su un van insieme a tante altre persone: «Non so come sia andata a finire, temo le abbiano separate di nuovo».

Stati Uniti, ecco la verità sulla foto del bimbo in gabbia, scrive il 20 giugno 2018 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra su "Il Giornale". È uno scatto che in poche ore è diventato virale, condiviso sui social network di tutto il mondo. È la foto di un bimbo intrappolato in una gabbia che molti negli Stati Uniti hanno condiviso per rappresentare la crudeltà della strategia dell’amministrazione Trump contro l’immigrazione illegale proveniente dal Messico e di come questa politica stia separando i bambini dalle loro famiglie. La “tolleranza zero” di Trump nei confronti degli irregolari che raggiungono la frontiera sud nel tentativo di entrare in territorio americano infiamma il dibattito politico in tutto l’Occidente e la fotografia del bimbo in gabbia ne è diventata simbolo. Ma dietro quella straziante fotografia c’è ben altro.

Cosa si nasconde dietro la foto del bimbo in gabbia. Come racconta Breitbart, la foto è stata diffusa su Twitter la scorsa settimana dopo che il giornalista e regista Jose Antonio Vargas l’ha twittata con tanto di didascalia: “Questo è quello che succede quando un governo crede che le persone siano “illegali”. I bambini in gabbia”. In poche ora, migliaia di persone hanno diffuso il post contro le politiche sull’immigrazione dell’amministrazione Trump e incoraggiato altri a condividerlo per sensibilizzare l’opinione pubblica. Il bimbo però non era stato intrappolato in una gabbia dalle autorità americane, né si trovava al confine con il Messico: la foto in realtà proviene da una protesta del 10 giugno organizzata fuori dal municipio di Dallas, secondo il sito web Snopes. Gli attivisti hanno organizzato quest’iniziativa proprio per protestare contro la pratica dell’amministrazione Trump di prendere in custodia le famiglie di immigrati irregolari e separare i bambini dagli adulti. Il Texas chapter of the Brown Berets de Cemanahuac – il gruppo che ha organizzato la manifestazione – ha postato diverse fotografie dell’evento sui social network, alla quale era presente lo stesso bimbo ritratto nella foto. “È stato lì dentro soltanto 30 secondi” ha ammesso Leroy Pena, leader dei manifestanti.

Cosa succede al confine tra Messico e Stati Uniti. Nonostante la fotografia, il problema è certamente serio, anche se non dipende tutto dal presidente Donald Trump. Come spiega Panorama, dal 19 al 31 maggio circa 2.000 minori sono stati allontanati dai genitori. Mentre questi ultimi sono accusati di un reato (immigrazione clandestina) nei confronti dei bambini non vi è alcuna accusa, per questo non possono essere arrestati. Vengono dunque collocati in strutture governative in attesa che i tribunali si pronuncino sui singoli casi dei genitori. Il problema, però, risale a prima. Come riporta Fox News, benché l’amministrazione Trump venga criticata per separare i bambini dagli adulti che entrano illegalmente nel paese, la questione non è affatto nuova. L’amministrazione Obama ha in realtà inasprito il sistema di detenzione delle famiglie a seguito dell’imponente ondata migratoria del 2014. La politica ha portato molti minori a essere detenuti in varie località, in condizioni spesso critiche, sia con le loro famiglie che da soli.  Le condizioni di queste persone e dei bambini sono state documentate in molti resoconti e relazioni di organizzazioni per i diritti umani. All’epoca, i funzionari dell’amministrazione Obama sostenevano di non avere altra scelta che attuare politiche intese a dissuadere le famiglie dall’entrare illegalmente negli Stati Uniti.

Cos’è cambiato con Trump. La differenza è che l’amministrazione Trump sta ora separando i bambini dai genitori che vengono perseguiti penalmente per il reato di immigrazione clandestina. I bambini non vengono accusati di crimini e vengono messi sotto la custodia delle autorità. Come sottolineato dal procuratore generale Jeff Session, prima che Trump diventasse presidente si era sparsa la voce che chiunque avesse tentato di attraversare il confine con un minorenne avrebbe quasi certamente avrebbe ricevuto “l’immunità da ogni accusa”. I risultati sono drammatici. “Il numero degli immigrati irregolari con bambini al seguito è passato da 14.000 a 75.000 negli ultimi quattro anni” ha osservato Sessions, che ha aggiunto: “Non possiamo e non vogliamo incoraggiare le persone a portare i figli dando loro l’immunità”. Verso la fine di maggio, l’American Civil Liberties Union ha annunciato di aver ottenuto migliaia di documenti governativi che hanno dimostrato “l’abuso e l’abbandono dei minori immigrati non accompagnati detenuti dall’autorità doganale degli Stati Uniti” durante la presidenza di Obama, dal 2009 al 2014. Amministrazione Obama che, come ricorda Abc, citando fonti governative, ha deportato più persone di qualsiasi altra amministrazione nella storia. Da parte dei liberal e dei dem americani c’è evidentemente molta ipocrisia, visti i recenti trascorsi. 

Soros, Bannon e la nuova centralità dell’Italia, scrive Giampaolo Rossi l'11 giugno 2018 su "Il Giornale".

IL DIAVOLO E L’ACQUASANTA. Steve Bannon e George Soros sono come il diavolo e l’acquasanta. Rappresentano simbolicamente i due fronti contrapposti della nuova guerra che sta ridisegnando la politica in Occidente. Entrambi, nei giorni scorsi, si sono schierati dentro la “questione italiana” appoggiando o attaccando il nuovo Governo Lega/M5S a dimostrazione di come oggi il nostro Paese abbia recuperato un ruolo fondamentale nel complesso sistema di equilibri internazionali. Steve Bannon è un curioso intellettuale eclettico eretico e reazionario disprezzato dall’intellighenzia radical-chic; è stato l’uomo che ha costruito la campagna elettorale di Donald Trump, l’inventore della “alt/right” la destra alternativa made in Usa, il nemico giurato dell’élite globalista; in questi anni Bannon dal suo sito Breitbart ha lanciato strali contro le tecnocrazie internazionali e la grande finanza che vogliono distruggere nazioni e sovranità popolari. Trump ha dovuto allontanarlo dalla Casa Bianca (dove lui stesso l’aveva nominato Consigliere strategico) sotto le pressioni del Deep State ma Bannon è rimasto centrale; oggi è in pratica la voce del trumpismo nel mondo. Bannon è il nemico giurato dell’élite globalista come Soros ne è l’espressione: due diversi giudizi sulla nuova Italia. George Soros invece è l’ideologo dell’élite globalista; il teorico e costruttore della Società Aperta cara alla tecnocrazia apolide. Lo speculatore privo di scrupoli che nel 1992 mise in ginocchio la nostra economia con un attacco finanziario che fece bruciare alla Banca d’Italia 48 miliardi di dollari; un disastro che le famiglie italiane pagarono con una manovra finanziaria di 93 miliardi di lire per evitare il tracollo della nostra economia. Nonostante questo Soros è di casa in Italia dove invece di essere cacciato con ignominia, viene invitato ai dibattiti e ascoltato come un guru. Con la sua Open Society (la fondazione ragnatela di Ong e Istituti internazionali) finanzia tutto ciò che è finanziabile dell’agenda politica della sinistra mondiale: dalle campagne elettorali dei leader liberal (da Obama e Hillary alla Bonino), alla politiche internazionali per aborto, diritti gay, liberalizzazioni droghe, multiculturalismo. È in prima fila a favore dell’accoglienza dei migranti e le sue Ong sono il paspartout per l’immigrazione clandestina in Europa. Con i suoi miliardi ha generato le Rivoluzioni colorate che hanno insanguinato e destabilizzato aree intere dell’Europa orientale: l’ultima quella in Ucraina che lui stesso si vanta di aver alimentato dal 2009. I suoi nemici principali sono Putin, Trump e Orbán, i leader di tre nazioni che non ne vogliono sperare di lasciare pezzi di sovranità alla tecno-finanza di cui lui è espressione.

ENTUSIASMO E TIMORE. Steve Bannon è entusiasta del nuovo governo italiano. George Soros lo teme. Nei giorni scorsi Bannon ha girato l’Italia tra Roma e Milano incontrandosi più volte con Salvini; ha analizzato il progetto di Flat Tax del leghista Armando Siri (“sarà un successo”, ha detto); ha parlato con diversi esponenti dei 5Stelle. Ora in Europa “hanno paura dell’Italia” ha dichiarato; per lui siamo tornati ad essere una nazione sovrana che può farla finita con i “diktat di Bruxelles e il fascismo dello spread”. Noi sovranisti “siamo dalla parte giusta della storia”, ha ammonito in maniera apocalittica. Tutti a prenderlo in giro. Fatto sta che al G7 di Charlevoix, Donald Trump ha fatto un’apertura di credito al neo-premier italiano Conte inaspettata e amichevole ben sopra le previsioni, invitandolo alla Casa Bianca con tutti gli onori. Entrambi, spiazzando i leader della Ue, hanno aperto al ritorno del G8 con la Russia. Anche Soros è venuto in Italia, invitato a Trento al Festival dell’Economia; e ha spiegato di essere molto preoccupato dal nuovo governo di Roma per la sua apertura alla Russia e per la volontà di spingere per togliere le sanzioni, arrivando ad affermare che l’opinione pubblica italiana deve sapere se Putin finanzia Salvini (qui dal min. 47:35); tralasciando il fatto che l’opinione pubblica italiana è più interessata a sapere se lui finanzia l’immigrazione clandestina con le sue Ong. Il sovranismo non è auto-isolamento ma è recupero del ruolo internazionale di una nazione. L’Italia lo sta dimostrando.

SOVRANISMO NON È ISOLAMENTO. I soloni dei grandi media e gli esperti del nulla cosmico che abbondano sul mainstream ci hanno sempre spiegato che nell’epoca della globalizzazione il richiamo al sovranismo è una sorta di malattia di auto-isolamento; ci hanno raccontato che l’Italia (che per loro è un po’ come Calimero) non può rivendicare sovranità ma deve cederla se non vuole essere annullata; ennesima fake news dei loro neuroni. Oggi la nuova Italia sovranista non è un Paese più isolato; al contrario sta recuperando centralità e ruolo internazionale come non l’aveva dai tempi di Berlusconi. Il nuovo governo di Roma piace a Washington e piace a Mosca; è temuto da Berlino e da Bruxelles e questo è un bene perché ora lassù, iniziano ad ascoltarci e non solo ad impartirci ordini. Per Trump l’Italia può aiutare a ridisegnare l’Europa facendo abbassare la testa alla prepotenza tedesca e all’arroganza della Merkel. Per Putin, l’Italia può essere l’anello di congiunzione di un nuovo dialogo tra Russia e Occidente. Bannon (e Trump), Soros (e la Merkel), dimostrano una cosa: l’Italia sta tornando al centro della scena internazionale facendo sentire le proprie ragioni. Comunque la si legga, è la prima vittoria del sovranismo.

Bugiardi senza vergogna, scrive Cristiano Puglisi il 12 giugno 2018 su "Il Giornale". “I flussi migratori sono un fenomeno inarrestabile”, dicevano. “E’ colpa del clima, delle guerre, della povertà, delle carestie”, dicevano. “Ne arriveranno sempre di più, dobbiamo abituarci all’idea”, dicevano. Quante cose dicevano. Burocrati, politici, preti e giornalisti, tutti insieme. Anni di dibattiti, di discussioni. Miliardi di Euro l’anno investiti, tolti agli italiani più poveri, alla sanità, alla ricerca, alla scuola, alla cultura. Miliardi per ospitare ragazzotti africani negli alberghi, nelle villette private, gestite dalle solite cooperative. E poi richieste d’asilo, per la maggior parte rigettate, corsi e ricorsi lunghi decine e decine di mesi. Avvocati, giudici, tribunali, prefetti. Eppure nel giro di neanche 24 ore si è scoperto che il fenomeno dell’immigrazione irregolare si poteva risolvere in un modo molto semplice. Il più semplice possibile: dicendo di no. Proprio così. Bastava far capire al mondo intero che violare i confini d’Italia non è una passeggiata. Ma, evidentemente, prima d’ora, nessuno ne aveva avuto il coraggio. O forse… già, com’è che era quella storia? Flessibilità sui conti in cambio di accoglienza? Ecco, la solita Europa, cui bisogna chinarsi supinamente, ma che è anche una scusa provvidenziale. “Servono gli accordi tra Stati, è complicato”, dicevano. “Ci sono gli accordi di Dublino, è complicato”, dicevano. “E’ l’Europa che ce lo chiede, è complicato”, dicevano. Già, quante cose dicevano. Burocrati, politici, preti e giornalisti. Sì, sempre tutti insieme. “Non siamo noi che li vogliamo. Non è colpa nostra, è una congiuntura, c’è il canale di Sicilia, è complicato”. Sì, soprattutto questo dicevano, per giustificarsi di fronte a milioni di italiani arrabbiati, quando hanno capito che la misura era colma. E ora? “Fateli sbarcare!”, implorano. Bugiardi senza vergogna. Questo sono. Questo e nient’altro.

"Da oggi l'Italia inizia a dire no". Così Salvini ha chiuso i porti. Per il ministro dell'Interno la nave Ong sarebbe dovuta attraccare sull'isola-Stato. Di Maio con lui. Il premier maltese: "Roma vìola le leggi internazionali". Poi l'ordine: si fermi in mare, scrive Federico Malerba, Lunedì 11/06/2018, su "Il Giornale".  Dopo le parole, i fatti. Sabato Matteo Salvini aveva promesso che questa non sarebbe stata un'altra estate di sbarchi e aveva puntato l'indice contro Malta: «Non dà disponibilità all'attracco nei suoi porti e arrivano tutti da noi. Ma qui o si seguono le regole o si cambiano, non starò a guardare perché gli italiani ne hanno le scatole piene». E così, al terzo giorno di emergenza, lo scontro con l'isola-Stato è arrivato al culmine. Motivo del contendere sono altri 629 migranti, salvati nella notte e poi presi a bordo dalla nave Aquarius della Ong «Sos Méditerranée», che batte bandiera di Gibilterra e ha a bordo personale di Medici Senza Frontiere. Con una lettera urgente spedita nel primo pomeriggio di ieri il ministro dell'Interno ha sollecitato le autorità maltesi chiedendo di far approdare il natante - che in quel momento si trovava a circa 43 miglia da Malta - «nel porto più sicuro», ossia quello di La Valletta. L'Italia stavolta non offrirà approdi, hanno deciso di comune intesa Salvini e il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. I maltesi però come al solito fanno orecchie da mercante. «Siamo troppo piccoli per poter sostenere i costi degli sbarchi», dicono, perciò si riservano di non ritenere vincolanti le linee guida dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni e non hanno ratificato gli emendamenti alle Convenzioni Sar e Solas del 2014. Ancora venerdì avevano offerto assistenza in mare ma non l'ingresso in porto alla nave Seefuchs, che trasportava 126 migranti ed era in difficoltà per il mare grosso: alla fine era intervenuta la Guardia costiera italiana scortandola fino a Pozzallo. In questo caso, comunque, il governo di La Valletta si è attaccato a un ulteriore cavillo: «Il salvataggio della Aquarius è avvenuto nell'area libica ed è stato coordinato dal centro di coordinamento di soccorso a Roma e quindi Malta non è né l'autorità coordinatrice né è competente per questo caso». Lo ha spiegato un portavoce intorno alle 17.30 e un'ora più tardi ha addirittura smentito di aver ricevuto la lettera di cui sopra, che però risulta inviata dal centro di coordinamento della guardia costiera di Roma. A quel punto Salvini ha replicato. Prima sui social, preceduto dalla parola d'ordine #chiudiamoiporti in forma di hashtag: «Da oggi anche l'Italia comincia a dire NO al traffico di esseri umani, NO al business dell'immigrazione clandestina. Il mio obiettivo è garantire una vita serena a questi ragazzi in Africa e ai nostri figli in Italia». Poi in un duro comunicato congiunto con Toninelli: «Malta non può continuare a voltarsi dall'altra parte quando si tratta di rispettare precise convenzioni internazionali. Il Mediterraneo è il mare di tutti i Paesi che vi si affacciano e non si può immaginare che l'Italia continui ad affrontare questo fenomeno gigantesco in solitudine». Linea ribadita anche dal vicepremier Luigi Di Maio: «Siamo stati lasciati soli, l'Ue non è solidale». L'ultima parola? Macché. In serata ha controreplicato il premier maltese Jospeh Muscat: «L'Italia va contro le leggi internazionali. Non accoglieremo la nave nei nostri porti». Si tratta insomma di uno scontro frontale il cui esito rischia di creare un punto di svolta in tema di accoglienza. Si gioca sulla pelle di 629 persone mentre l'Europa tace, l'Onu si limita a dire che «salvarli è la priorità» e Sos Méditerranée prova a tirare dritto: «Aquarius si dirige verso nord seguendo le istruzioni ricevute dopo i soccorsi sotto il coordinamento di Roma. Siamo in attesa di istruzioni definitive per quanto riguarda il porto di sbarco». In nottata un altro stop. Dal Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma arriva il nuovo ordine: Aquarius deve restare in stand-by a 35 miglia dall'Italia e 27 miglia da Malta.

L'Europa alle prese con i porti chiusi di Salvini. La rassegna della stampa internazionale sui principali fatti che riguardano da vicino il nostro paese. Oggi articoli di Sueddeutsche Zeitung, Bloomberg Business Week, El Mundo, Der Spiegel, Figaro e The Telegraph, scrive il 12 Giugno 2018 “Il Foglio". Dopo l’ “Aquarius”, la prossima nave bloccata dalle autorità italiane sarà la “Sea Watch 3”? A chiederselo è il settimanale tedesco "Der Spiegel", che riferisce come il ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, abbia bloccato in alto mare un’altra nave delle Ong impegnate nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo. In un post su Facebook, Salvini ha scritto lunedì che la nave “Sea Watch 3”, al largo della costa libica, è in attesa di portare “l’ennesimo carico di immigrati in Italia”. L'Italia, ha avvertito però il ministro, “ha smesso di chinare il capo e obbedire”. Attualmente la nave tedesca, battente bandiera olandese, non ha immigrati a bordo, ma potrebbe presto prestare soccorso ai barconi in partenza dalle coste libiche, ha dichiarato un portavoce di Sea Watch a Berlino. “Ciò potrebbe accadere in qualsiasi momento, e quindi il porto di sbarco naturale sarebbe la Sicilia. Il che metterebbe la “Sea Watch 3” probabilmente nella stessa situazione attuale di “quarius”, ha dichiarato. L’equipaggio di quest’ultima aspetta di sapere cosa fare: “La situazione a bordo è calma e ci aspettiamo istruzioni del Centro di soccorso marittimo italiano nelle prossime ore”, ha detto una portavoce di Msf a “Der Spiegel”. Nel frattempo, diversi sindaci italiani stanno solidarizzando con i profughi in segno di polemica con il ministro dell'Interno. La stampa tedesca cita il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, che su Twitter ha scritto: “Non ci fermeremo, Salvini infrange la legge internazionale”. Analoga la posizione dei primi cittadini di Napoli e Messina.

C'è stata una prevedibile ondata di indignazione, in Europa, come reazione alla decisione del nuovo ministro dell'Interno dell'Italia, il populista Matteo Salvini, di chiudere i porti della Penisola alle navi delle Ong (organizzazioni non-governative) che raccolgono nel Mar Mediterraneo i migranti africani a bordo dei barconi salpati dalle coste della Libia. Ma, ad onore del vero, nessuno a Bruxelles, a Berlino oppure a Parigi dovrebbe affatto sorprendersi se le cose sono arrivate a questo punto: è da questa constatazione che oggi martedì 12 giugno parte il quotidiano conservatore britannico "The Telegraph" per un'analisi, firmata dal capo della sua redazione affari europei Peter Foster, sulle ragioni che hanno portato il nuovo governo populista ed euroscettico dell'Italia a sfidare l'ortodossia "buonista" prevalente in Europa in materia di immigrazione e sulle possibili conseguenze del braccio di ferro ingaggiato da Salvini con le Ong e con i loro protettori di centro-sinistra. Per molti anni infatti, ricorda l'autore, l'Unione Europea ha preferito ignorare la crescente rabbia dell'Italia, lasciata sola a fronteggiare l'enorme afflusso di immigrati illegali provenienti dall'Africa: negli ultimi anni nei porti italiani è sbarcato quasi un milione di disperati; che sono andati ad intasare le città della Penisola, rimanendo a carico della collettività in un paese afflitto da un altissimo livello di disoccupazione interna. Gli immigrati sono rimasti bloccati in Italia, accusa Foster, respinti ai confini terrestri dai paesi vicini che accompagnavano i loro appelli al dovere dell'accoglienza con la reintroduzione di rigidi controlli di frontiera; e magari anche con etici rimproveri all'Italia per le sue manchevolezze organizzative e con accuse di razzismo agli italiani che si sentono minacciati nella loro vita quotidiana da questa vera e propria invasione di stranieri. L'Europa ha ignorato le richieste di aiuto dell'Italia anche quando esse provenivano da figure più politicamente "accettabili", come l'ex premier di centrosinistra Matteo Renzi: finché il disagio degli elettori italiani non si è rivelato in tutta la sua drammatica ampiezza nelle elezioni del 4 marzo scorso, che hanno spazzato via tutti i partiti tradizionali e portato al potere la coalizione populista ed euroscettica tra il partito anti-sistema Movimento 5 stelle (M5s) e la Lega di estrema destra; da quel momento è stato chiaro che con il leader della Lega Matteo Salvini al governo a Roma, l'Europa non avrebbe più potuto girare la testa dall'altra parte. Dopotutto, scrive il "Telegraph", la vicenda della nave "Aquarius" potrebbe non essere una cattiva cosa. La scommessa fatta da Salvini, vietando l'attracco nei porti italiani alle navi delle Ong che agiscono come "taxi" per conto delle gang criminali di trafficanti di esseri umani, può essere considerata brutale, giudicata contraria alle regole dell'Ue ed alle leggi marittime internazionali; e percepita persino come un'offesa al comune senso di decenza. Ma almeno, conclude il giornalista inglese, ha il merito di iniettare una dose di realismo "trumpiano" nell'ipocrita dibattito europeo sull'immigrazione: e la verità è che l'accettazione supina degli arrivi in massa di migranti illegali, con le navi "umanitarie" che li vanno a raccogliere subito dopo la partenza a pochi chilometri dalla Libia, finora ha costituito un potente magnete per ulteriori arrivi, un incentivo all'attività criminale dei mercanti d esseri umani; ed alla fin fine una forma di complicità con l'infernale meccanismo che mette a rischio la vita di migliaia di disperati africani.

"Bloomberg" sottolinea come la maggioranza degli italiani sembri sostenere con convinzione la decisione senza precedenti del nuovo ministro dell'Interno e leader della Lega, Matteo Salvini, di chiudere i porti del paese alla nave "Aquarius", che ha raccolto oltre 600 migranti africani nel Mediterraneo. "Bloomberg" sottolinea come la priorità assegnata da Salvini al tema dell'immigrazione abbia decretato un ulteriore successo del suo partito di destra alle elezioni locali dello scorso fine settimana, che invece hanno segnato una flessione del partner di governo, il Movimento 5 stelle. 

Il centrodestra ha trionfato nelle elezioni locali che si sono svolte domenica in 700 comuni italiani. Lo riferisce il quotidiano “El Mundo” che sottolinea come invece il Movimento 5 stelle non abbia conquistato nessuna città e si prepara al secondo turno solo in tre comuni. I risultati sono stati migliori del previsto per il Partito democratico (Pd) , il grande perdente delle elezioni generali del 4 marzo, che è riuscito ad accedere a un secondo turno in alcune delle sue roccaforti storiche come le città toscane di Siena e Pisa.

Il cancelliere tedesco, la cristiano democratica Angela Merkel, ha preso una posizione chiara nel dibattito sul respingimento dei rifugiati alle frontiere: “Voglio che il diritto dell’Unione europea prevalga sulle leggi nazionali”, ha detto durante il programma della rete “Ard” “Anne Will”. Il Primo ministro bavarese, il cristiano sociale Markus Soeder, si oppone a tale posizione richiedendo, in un’intervista rilasciata alla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” il rispetto degli accordi politici assunti in precedenza. “Una cosa è chiara: se i cosiddetti centri di ancoraggio funzioneranno solo in Baviera, il respingimento al confine diverrà l’unica opzione definitiva”, ha dichiarato. Anche il collega di partito, il ministro dell'Interno tedesco Horst Seehofer è in linea con questa posizione, e a giorni dovrebbe presentare il suo piano generale sulla politica di asilo. Merkel, d’altra parte, preferisce concentrarsi sulla riforma delle norme comunitarie, inclusi i trattati di Dublino, una migliore protezione delle frontiere esterne della Ue e un sistema comune di asilo dell’Unione europea. Nel frattempo il commissario al bilancio della Ue, il cristiano democratico Guenther Oettinger rivolgendosi a Seehofer ha dichiarato: “Sarebbe bello se la Germania, prima di agire unilateralmente, aspettasse di vedere cosa avverrà circa la riforma delle regole di Dublino a Bruxelles”. 

 Il culto dell’Islam in Francia è un argomento che “imbarazza” il presidente Emmanuel Macron. È quanto afferma “Le Figaro”, dopo che il capo dello Stato francese ha posticipato gli annunci in merito alle misure decise dal governo su questo dossier sensibile. Macron vuole riformare l’Islam in Francia e per riuscire a portare a termine questa missione ha incontrato diversi intellettuali e figure religiose. Tra questi, anche i rappresentanti del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm), che però non sembrano aver fornito un contributo significativo. Il presidente avanza con prudenza in questo campo, senza mai sbilanciarsi. Nel corso della campagna elettorale si era limitato nelle sue proposte, teorizzando la creazione di un’università per la formazione di imam e la chiusura delle moschee che professano “l’apologia del terrorismo”.

Salvini: «Da luglio meno soldi per chi chiede asilo. Ricucire con l’Egitto». Il ministro dell’Interno: pronti a fornire navi ai Paesi del Nordafrica, scrive Marco Cremonesi il 13 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera".

Ministro, e adesso? Qual è il piano per la gestione degli immigrati? 

«Il piano è che finalmente l’Unione europea si occupi davvero della difesa dei suoi confini. Che poi sono anche i nostri». 

Matteo Salvini, vicepremier e ministro dell’Interno, dopo aver chiuso domenica scorsa i porti italiani alla nave Aquarius carica di centinaia di immigrati, spiega come si sta muovendo il governo in vista dei nuovi flussi. 

L’iniziativa di domenica è stata duramente criticata. È sempre convinto che il blocco dei porti sia stata la mossa giusta?

«Guardi, io sono ministro da soli undici giorni, eppure credo che un risultato importante per tutti gli italiani sia stato portato a casa: a differenza delle chiacchiere che abbiamo ascoltato negli ultimi sette anni, abbiamo risvegliato l’Europa. Io oggi ho parlato con il ministro tedesco Horst Seehofer e posso dire che credo stia nascendo un asse italo-tedesco basato su una parola d’ordine fondamentale: difendere le frontiere esterne. Che significa difendere il Mediterraneo e dunque anche noi italiani». 

Eppure, nelle cancellerie la linea italiana non pare avere entusiasmato.

«Io ho anche parlato con il ministro francese e ungherese e la settimana prossima chiamerò i ministri olandese e austriaco. E credo che l’Italia, al contrario, sia diventata centrale. Non a parole, ma nei fatti. Quindi, non vedo perché dovremmo cambiare la nostra linea». 

Vale a dire?

«Sulle navi delle Organizzazioni non governative non si cambia. Navi di organizzazioni straniere battenti bandiere straniere non possono gestire l’immigrazione in Italia». 

I francesi hanno accusato il governo di «cinismo e irresponsabilità».

Come risponde?

«I francesi fanno i fenomeni ma hanno respinto più di diecimila persone alle frontiere con l’Italia. Tra cui numerosissime donne e bambini. Tra parentesi, mi lasci ricordare che la regione italiana che più ha accolto è la Lombardia. Giusto per sottolineare che ogni accusa di razzismo è ridicola. Aggiungo che riguardo al nord Africa tutti noi, ahimè, paghiamo l’instabilità portata dai francesi in Libia e a sud della Libia». 

Malta ha detto che non ha accolto l’Aquarius perché i soccorsi erano coordinati dal nostro Centro nazionale di soccorso marittimo. Ha torto?

«Noi mettiamo le navi, mettiamo gli uomini, mettiamo i porti e i soldi e abbiamo il coordinamento. Ma se altri possono fare meglio, ben venga: rivediamo le competenze, lo faccia l’Unione europea. Quanto a Malta, si è presa le molte competenze ma non controlla. Prende le risorse, ma non gli immigrati». 

Perché noi sì e loro no?

Rinnoverete gli accordi con la Libia per frenare le partenze dai loro porti?

«Per quanto riguarda il nord Africa, il mio desiderio è quello di essere nelle prossime settimane in Libia e in Tunisia per migliorare ancora i nostri rapporti. Per ovvi motivi non posso dire molto di più, ma certamente se questi Paesi avessero, per esempio, bisogno di nuove imbarcazioni per presidiare le acque, noi saremmo disponibili a fornirle. Ho anche appreso che belgi, austriaci e tedeschi hanno finalmente parlato di punti di raccolta e identificazione nel nord Africa, che è il nostro primo obiettivo. Centri gestiti in modo umano e solidale che possano prevenire partenze e magari morti in mare. Peraltro, ci sono anche altri Paesi che per noi sono molto significativi». 

Parla dell’Egitto?

«Sì, vogliamo ricostruire buoni rapporti con l’Egitto. Io comprendo bene la richiesta di giustizia della famiglia di Giulio Regeni. Ma per noi, per l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto». 

Lei ha detto di voler rivedere i costi per l’accoglienza. Può dire qualcosa di più specifico?

«Qualcosa sì. Da luglio, con un decreto del ministro, ridurremo il contributo per chi chiede asilo. La prevengo e le dico che non è un fatto di ostilità, mi sono fatto dare alcuni numeri. Per ogni richiedente asilo, noi paghiamo 35 euro al giorno attraverso varie voci. La Germania garantisce 26 euro al giorno, l’Austria 23, la Polonia 20, la Francia 25. Significa che tagliare i costi è possibile. E occorre anche tagliare i tempi di esame delle domande. Aggiungo anche che in Italia c’è una lobby che si sta arricchendo in modo che non ritengo opportuno». 

A che cosa si riferisce?

«Alla lobby degli avvocati d’ufficio. Non credo si possa passare per fessi. Nel 2018 le domande di asilo respinte sono state il 58%. Il problema è che il 99% dei respinti fa ricorso pressoché in automatico, perché lo Stato garantisce un avvocato d’ufficio che paghiamo tutti noi. Per giunta, si intasano i tribunali: lavorerò con il collega alla Giustizia per intervenire anche su questo». 

Le prime iniziative del governo non hanno in qualche modo scosso la stabilità europea?

«La verità è che il nostro è l’ultimo appello per salvare un’Europa che sta morendo di ipocrisia e di silenzio. Se i nostri no e la nostra voce serviranno a suonare la sveglia, per ironia della sorte un giorno potremmo scoprire che a salvare l’Europa saremo stati proprio noi».

Andrea Mascherin: “Caro ministro Salvini, c’è chi è morto per la difesa d’ufficio”. La replica del presidente del CNF al titolare del Viminale che ha attaccato la “lobby degli avvocati d’ufficio”, scrive Andrea Mascherin il 13 giugno 2018 su "Il Dubbio". Di seguito la replica del presidente del Cnf, Andrea Mascherin, al ministro dell’Interno Matteo Salvini che in un’intervista al Corriere delle Sera ha attaccato la “lobby degli avvocati d’ufficio” i quali, a suo dire “si stanno arricchendo in modo inopportuno” sull’emergenza migranti.

Caro Ministro Salvini, lette le sue dichiarazioni sul Corriere della Sera in materia di richiedenti asilo e di lobby dei difensori d’ufficio, per spirito collaborativo, amor di precisione, applicazione del principio di competenza, intesa come conoscenza della materia, credo di fare cosa utile fornendoLe alcuni chiarimenti.

Difesa d’ufficio. L’istituto della difesa d’ufficio da Lei richiamato non c’entra nulla con la materia della migrazione e delle richieste d’asilo. La difesa d’ufficio, strumento di democrazia avanzata, e’ garantita da tutte le carte dei diritti fondamentali nazionali e internazionali ed è riconosciuta come strumento a tutela di una difesa effettiva. La difesa d’ufficio, ad. es., è stata ritenuta necessaria dalla Corte Costituzionale in occasione del processo alle brigate rosse, che la rifiutarono disconoscendo così lo Stato di diritto, processo in cui trovò la morte per assassinio nel 1977 Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, che volle difendere così la nostra democrazia e il diritto alla difesa richiamato dall’art. 24 della nostra Costituzione. Dunque è istituto che non va né banalizzato né volgarizzato, se non altro per rispetto di chi ha dimostrato così tanto amore per il proprio Paese offrendo la propria vita in luogo di una meno rischiosa retorica. E comunque e in ogni caso è istituto proprio del processo penale e non è a carico dello Stato.

Materia migrazione. Il tema a cui Lei fa riferimento, quello della materia migrazione, segue invece una procedura di natura amministrativa in una prima fase, dove neppure è prevista la presenza dell’avvocato, e una civilistica in sede di eventuale impugnazione di fronte a sezioni specializzate, dove interviene l’avvocato e dove il migrante può chiedere di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, istituto espressamente previsto dalla nostra Costituzione e, fra l’altro, dalla CEDU. La nostra Costituzione lo prevede al fine di scongiurare l’applicazione del “diritto di diseguaglianza” fissato dal regime fascista attraverso le leggi razziali e i tribunali speciali. Va detto che il patrocinio a spese dello Stato non viene riconosciuto automaticamente, ma risponde a rigorosi criteri, compresi quelli legati ad una non infondatezza della impugnazione. Sempre per un contributo di competenza, ricordo come la legge Orlando-Minniti del 2017 ha eliminato un grado di giudizio in questa materia, ha eliminato il diritto a comparire davanti al giudice dell’interessato, ha ridotto le sedi giudiziarie competenti a solo 26 (su 140 Tribunali) in tutta Italia. E’ a sua disposizione, ma sopratutto a disposizione del Ministro della Giustizia, che dovrebbe essere quello competente per materia, il protocollo che il Consiglio Nazionale Forense ha sottoscritto con il Consiglio Superiore della Magistratura, per disciplinare al meglio queste procedure comprese le modalità di liquidazione del patrocinio a spese dello Stato.

Percentuali. Infine le percentuali di rigetto da Lei indicate nella misura del 58% attesterebbero una percentuale di accoglimento del 42%, che è percentuale assai elevata e non sacrificabile. Diversamente sarebbe come dire che se in un naufragio non si riuscisse a salvare 58 vite su cento, bisognerebbe fare annegare anche le restanti 42. Ma certo Lei non pensa ciò e neppure la Costituzione della Repubblica italiana.

Migranti, pugno duro di Salvini "Adesso la Francia chieda scusa". Salvini riferisce al Senato sulla Aquarius: "Spero che qualche esponente del Governo francese dia le sue scuse prima possibile", scrive Franco Grilli, Mercoledì 13/06/2018, su "Il Giornale". "Spero che qualche esponente del Governo francese dia le sue scuse prima possibile". Matteo Salvini esordisce così al Senato nel suo intervento riferendo sulla vicenda Aquarius e la chiusura dei porti italiani. Il ministro degli Interni ha risposto per le rime alle accuse di Parigi delle ultime ore che con il presidente Macron ha definito "vomitevole" la condotta del governo italiano sulla vicenda Aquarius: "Chiedo a Macron di accogliere da domattina i 9mila migranti che si era impegnato ad accogliere. Non è un derby tra Italia e Francia, non è neppure il mondiale a cui per altro non parteciperemo. La nostra azione di volontariato non merita di essere apostrofata in quel modo da un rappresentante del Governo francese". Poi il titolare del Viminale ha sottolineato la sua posizione e ha spiegato quali sono i motivi per cui il governo ha deciso di dare una stretta agli sbarchi sulle nostre coste: "Non accetto, avendo due figli, che si dica che al governo c'è chi vuole male ai bambini. Non voglio che i bambini siano messi su un gommone in condizioni di morire nel Mediterraneo, sono stufo che i bambini muoiano perchè qualcuno li illude che in Italia c'è casa e lavoro per tutti". In queste ore, dopo la decisione da parte della Spagna si accogliere i migranti della Aquarius, l'Italia ha ricevuto attacchi dagli altri Paesi europei e qualcuno ha parlato di un possibile isolamento di Roma: "L'Italia è isolata? Penso che non siamo mai stati così ascoltati come in questo momento. Ho parlato, tra gli altri, con il collega tedesco. Sull’immigrazione è tempo che gli Stati tornino a essere Stati. Non è possibile che siano associazioni private finanziate da chissà chi a imporre temi e modi dell’immigrazione". L'intervento del ministro è stato accompagnato da diversi applausi in Aula e anche da qualche contestazione dai banchi delle opposizioni. Poi la stoccata finale a Macron: "Senza scuse ufficiali Conte fa bene a non andare in Francia. Certo, é totalmente legittimato e noi lo sosterremo. Un atteggiamento così infondato e volgare meriti delle scuse".

«Italia vomitevole»: tra Roma e Parigi è rottura. La zuffa internazionale è accesa: per la ministra spagnola della Giustizia, Dolores Delgado, «ci possono essere responsabilità penali internazionali», scrive Rocco Vazzana il 13 giugno 2018 su "Il Dubbio". L’Italia «non può accettare lezioni ipocrite da Paesi che in tema di immigrazione hanno sempre preferito voltare la testa dall’altra parte». Conte replica alle accuse arrivate al suo governo d’Oltralpe mentre i 629 migranti a bordo della nave Aquarius vengono trasbordati sulle imbarcazioni italiane che li porteranno a Valencia. La zuffa internazionale è accesa: per la ministra spagnola della Giustizia, Dolores Delgado, «ci possono essere responsabilità penali internazionali» e Macron parla di «cinismo» e «irresponsabilità» dell’esecutivo italiano, dopo che il portavoce di En Marche aveva definito «vomitevole» la linea giallo- verde. Ma in questa crisi per la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan, «ha perso tutta l’Europa». L’Italia «non può accettare lezioni ipocrite da Paesi che in tema di immigrazione hanno sempre preferito voltare la testa dall’altra parte». La replica del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, alle accuse arrivate al suo governo d’Oltralpe arriva solo nel tardo pomeriggio, mentre i 629 migranti a bordo della nave Aquarius vengono trasbordati sulle imbarcazioni della Guardia costiera che li porterà, tra quattro giorni, a Valencia. La zuffa internazionale è in corso già dal mattino, con Francia e Spagna schierate contro l’esecutivo giallo- verde, colpevole, a loro dire, di irresponsabilità. Ad aprire le danze è la neo ministra spagnola della Giustizia, Dolores Delgado, che riferisce alla stampa: «Non è questione di buonismo o generosità, ma di diritto umanitario. Ci possono essere responsabilità penali internazionali per la violazione dei trattati sui diritti umani». È solo la miccia. Le parole più pesanti arrivano da Parigi, con il presidente Emmanuel Macron che denuncia «cinismo» e «l’irresponsabilità» dell’esecutivo guidato da Conte, ricordando i dettami del diritto marittimo, secondo cui «in caso di problemi, è la costa più vicina, che si assume la responsabilità dell’accoglienza». L’incidente diplomatico è ormai innescato, per farlo esplodere basta attendere pochi minuti, quando Gabriel Attal, portavoce En Marche, il partito del presidente, definisce «vomitevole» la linea politica italiana. “L’avvocato del popolo” si inalbera e fornisce la sua versione dei fatti. «Le dichiarazioni intorno alla vicenda Aquarius che arrivano dalla Francia sono sorprendenti e denunciano una grave mancanza di informazioni su ciò che sta realmente accadendo. Il governo italiano non ha mai abbandonato o lasciato sole le quasi 700 persone a bordo dell’Aquarius», si legge in una nota diffusa da Palazzo Chigi, secondo cui a bordo della nave «non era in corso alcuna emergenza». La prova? Conte la presenta così: «L’Italia ha anche offerto la possibilità di far scendere dalla nave le donne in stato di gravidanza, i bambini e chiunque avesse bisogno di cure, ma da Aquarius è arrivato un rifiuto». Il premier non ci sta a recitare la parte del cinico e mette nel mirino Parigi, che «ha più volte adottato politiche ben più rigide e ciniche in materia di accoglienza». È questa la controaccusa con cui già da ore molti ministri replicavano ai francesi e agli spagnoli. A cominciare da Luigi Di Maio, che coglie la palla al balzo per ricordare al presidente Macron i recenti sconfinamenti a Bardonecchia dei gendarmi transaplini. «Parlano proprio loro», dice il vice premier, «Francia e Spagna hanno chiuso i loro porti da tempo. La Spagna ha praticato addirittura i respingimenti a caldo che sono stati anche condannati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La Francia respinge quotidianamente i migranti a Ventimiglia e tutti ci ricordiamo cosa è successo qualche mese fa a Bardonecchia». Invece di sprecare fiato, suggerisce Di Maio ai governi alleati, bisogna adoperarsi per «modificare il prima possibile il Regolamento di Dublino. In Italia c’è un nuovo governo e niente sarà più come prima». Mai prima d’ora, infatti, si era giunti a una crisi internazionale di queste proporzioni. I grillini hanno sposato la linea leghista della fermezza e non intendono fare retromarcia. Il ministro dell’Interno lo sa e si gode la sua vittoria politica. Lo slogan “prima gli italiani” si è trasformato nella priorità assoluta della maggioranza giallo- verde e Salvini twitta soddisfatto: «La Spagna ci vuole denunciare, la Francia dice che sono “vomitevole”. Io voglio lavorare serenamente con tutti, ma con un principio: prima gli italiani». Il trionfo del sovranismo in salsa italiana non passa inosservato all’estrema destra europea alleata del Carroccio. «Dietro la vernice umanitaria, le Ong hanno un ruolo oggettivo come complici delle mafie dei trafficanti. La reazione di Salvini è salutare», scrive su Twitter Marine Le Pen, leader di Rassemblement National (ex Front National). A benedire la svolta intransigente sull’accoglienza interviene anche Beppe Grillo, con un post sul suo blog intitolato: La politica di governo come sintesi. «La sfida che stiamo vivendo è esattamente l’opposto di ciò che viene propagandato dalla sinistra frou frou; quella che si è dimostrata tanto cinica da costruire il caos per poi criticare le mosse di chi cerca di disinnescarlo con ipocriti appelli alla parola solidarietà», scrive il comico. «La stessa che definisce “ospitalità” l’ammasso di anime, poi lasciate cinicamente nelle mani del caporalato; triste frutto di accordi balordi con gli altri paesi europei, che ha finito per far male a tutti nel nostro paese». Invece Lega e 5Stelle saranno in grado di operare le scelte migliori per l’Italia, racconta il “garante”, che senza rendersene conto si appropria del vocabolario utilizzato da Matteo Renzi negli anni del suo successo. «Nessuno ha mai negato l’esistenza di caratteri distintivi, spesso definiti “anime incompatibili”, da chi gufa il governo e lo rappresenta come una sorta di match continuo con Salvini». Se anche i grillini vedono gufi dappertutto significa che qualcosa è cambiato davvero.

"Da Salvini politiche vomitevoli". Ma anche Macron nega lo sbarco ai migranti dell'Aquarius. Corsica pronta ad accogliere l'Aquarius. Ma Parigi la blocca subito. E Macron tuona contro Salvini: "Politica nauseante", scrive Eugenia Fiore, Martedì 12/06/2018, su "Il Giornale". Parigi ha già bloccato il proposito della Corsica di aprire i porti agli immigrati a bordo della Aquarius. "Perché non apre i porti?". Come già a Ventimiglia e a Bardonecchia, la linea francese resta quella di difendere i propri confini da un'invasione che va avanti ormai da troppi anni. Eppure il presidente Emmanuel Macron si è accodato alla sinistra europea nell'attaccare l'Italia. Dapprima il suo partito ha definito le politiche del governo Conte "vomitevoli", poi lui ha messo il carico da novanta denunciando "il cinismo e l'irresponsabilità" dell'Italia sulle politiche adottate per gli immigrati. Peccato che la Francia sia la prima, appunto, respingere i clandestini nel nostro Paese. Il presidente del consiglio esecutivo dell'isola francese, Gille Simeoni, infatti, ha dichiarato di essere disponibile ad accogliere la Aquarius durante un'intervista rilasciata a Libération. "Di fronte all'urgenza il consiglio esecutivo di Corsica propone a Sos Mediterranee d'accogliere l'Aquarius in un porto corso", ha detto Simeoni. La sua proposta, però, stona con la volontà delle autorità nazionali. Parigi, infatti, non ha perso tempo a bocciare l'apertura all'accoglienza di Ajaccio. "Assumono una posizione senza avere alcuna responsabilità, il che è facile", ha detto il sottosegretario francese agli Affari europei, Jean-Baptiste Lemoyne. "La legge internazionale dice che devono dirigersi verso il porto più sicuro e più vicino, e la Corsica non è né più vicina né più sicura, data la posizione della nave, è tra l'Italia e Malta", ha aggiunto. Insomma, la Francia non si è resa disponibile a fare sbarcare le 629 persone, tra cui 11 bambini e 7 donne in gravidanza, che si trovano a bordo della Aquarius dopo che Italia e Malta hanno chiuso i porti. Eppure un portavoce di En Marche, il partito di Macron, non ha risparmiato commenti pochi carini sulla condotta del ministro dell'Interno, Matteo Salvini, parlando di politica "nauseante". "È inaccettabile fare politica con le vite umane, che è ciò che sta accadendo in questo momento", ha detto Gabriel Attal. "Proprio loro parlano...", ha chiosato Luigi Di Maio. "Sull'immigrazione - ha fatto eco la capo delegazione della Lega al Parlamento europeo, Mara Bizzotto - vomitevole è la posizione della Francia di Macron, non quella del ministro Salvini". In Francia non tutti i partiti sono d'accordo con Macron. Per la leader del Rassemblement National, Marine Le Pen, per esempio, Salvini ha fatto bene perché la soluzione da mettere in campo è una sola: "Le navi devono tornare da dove sono venute". E sulle organizzazioni di beneficenza che salvano gli immigrati nel Mar Mediterraneo non ha alcuna ombra di dubbio: "Sono complici della mafia del traffico di persone".

La memoria corta di Macron. Porti chiusi e pugno duro della Gendarmerie Nationale: a Ventimiglia ricacciati in Italia 45mila migranti nel 2017. Ecco le "buone maniere" di Parigi sull'accoglienza, scrive il 12/06/2018 Claudio Paudice, Giornalista politico, su L'HuffPost. La lingua lunga e la memoria corta del presidente francese Emmanuel Macron hanno aperto una crisi diplomatica tra Francia e Italia sui migranti. E hanno al tempo stesso svelato tutta l'ipocrisia che si cela in Europa dietro quella solidarietà tanto predicata a parole dai membri dell'Ue ma che nella pratica assume le sembianze del volto duro della fermezza privo di sussulti d'umanità. La decisione del Governo Conte di chiudere i porti alla nave Aquarius di Sos Mediterranée con a bordo 629 migranti ha provocato la dura reazione di Parigi che, prima attraverso il portavoce del partito di maggioranza francese ha definito "vomitevole" la posizione di Roma; e poi, attraverso il portavoce del governo Benjamin Griveaux, ha accusato l'Italia di "cinismo e irresponsabilità". La Francia, com'è noto, si è macchiata negli ultimi anni di politiche d'accoglienza (sic) finite all'indice di tutte le associazioni umanitarie francesi e internazionali. Il Governo Macron non si è distinto dal suo predecessore guidato da Francois Hollande e anzi ha incrementato le misure restrittive nei confronti dei migranti che cercavano di arrivare in territorio francese passando dall'Italia. D'altronde la linea dell'enfant prodige è sempre stata improntata alla ferma distinzione tra migranti economici, che sono la larga parte, e richiedenti asilo; chiudendo ai primi e aprendo ai secondi. Il piano Asilo e Immigrazione approvato dall'Assemblea Nazionale ad aprile scorso, molto contestato da Amnesty International, ha nei fatti prodotto un giro di vite nei confronti degli ingressi, nonostante il numero di espulsioni da parte della polizia francese già alto, arrivando a punire anche il "delitto di solidarietà" commesso da chi aiuta i migranti. A Ventimiglia lo sanno bene. Dal giugno del 2015 il confine è stato interessato da un notevole aumento di riammissioni. La polizia frontaliera rimpatria tutti i migranti che non hanno titolo a restare sul suolo francese. E la Gendarmerie Nationale non usa certo i guanti per rispedire in Italia chi in Francia non potrebbe entrare. Molti migranti hanno denunciato violenze e vessazioni da parte degli agenti transalpini, per nulla restii a mostrare agli africani les bonnes manières francesi. Le immagini di una donna incinta di colore trascinata giù a forza da un treno che portava a Mentone il 16 febbraio scorso hanno fatto il giro del mondo. Il ministro dell'Interno Gerard Collomb è d'altronde fautore della linea dura e, come hanno riportato ripetutamente organi di stampa, ha chiesto alla polizia "risultati" concreti. Il risultato concreto è stato che nel comune imperiese la situazione è diventata esplosiva e ha visto nel tempo anche proteste eclatanti di decine di persone che ricacciate in Italia, si tuffavano in mare per raggiungere la costa francese a nuoto.

La polizia francese ha trascinato giù da un treno una donna incinta e la sua famiglia. Nel 2016 secondo la polizia di frontiera i respingimenti verso il suolo italiano sono stati 37mila, l'anno scorso sono cresciuti fino a circa 45mila. Sono stati calcolati, in media, circa millle espulsioni alla settimana, il 27 giugno dell'anno scorso 200 in un giorno solo. Il 22 aprile scorso, per la prima volta, il Tribunale di Nizza ha condannato l'espulsione di un minorenne di origine africana in barba a ogni norma o principio umanitario e a tutela dei diritti dell'infanzia. La legge prevede che i minori non accompagnati vengano affidati ai servizi sociali, ma un rapporto dell'Autorità di controllo generale dei luoghi di privazione della libertà (CGLPL) che ha fatto ispezione a sorpresa nel centro di Mentone ha evidenziato che ciò è avvenuto solo nello 0,3% dei casi. Come ha calcolato il prefetto di Nizza Leclerc a dicembre 2017, il tasso di riammissioni verso la Liguria di migranti che non avevano titolo a entrare sul suolo francese è stato del 98% circa: "Noi li respingiamo in Italia", ha dichiarato con nonchalance. Non proprio, quindi, lezioni di umanità da parte di Parigi. La vicenda dell'Aquarius, peraltro, ha fatto emergere anche le divisioni interne al Paese. Il presidente dell'Assemblea della Corsica, l'indipendentista Jean-Guy Talamoni, aveva proposto di fornire all'Aquarius l'accoglienza di uno dei suoi porti. Ma il sottosegretario francese agli Affari europei Lemoyne li ha subito messi a tacere: "La legge internazionale dice che devono dirigersi verso il porto più sicuro e più vicino, e la Corsica non è né più vicina né più sicura, data la posizione della nave, è tra l'Italia e Malta". Insomma, la Francia è indisponibile, a differenza della Spagna. A corredo possono tornare utili le parole del deputato repubblicano (non del Front National) Eric Ciotti: "Vogliamo che Nizza diventi Lampedusa? Nessuna nave arrivi nei nostri porti, l'Aquarius ritorni in Libia". La linea di Parigi (e fino a ieri anche di Madrid) è stata sempre quella dei "porti chiusi". Lo si capì l'anno scorso subito dopo il vertice di luglio tra i ministri dell'Interno di Italia, Francia e Germania. Se a parole era stata sventolata "una accelerazione" nelle politiche comuni per fronteggiare l'emergenza immigrazione, diverse fonti dei governi nazionali avevano ammesso off the records che i porti erano chiusi e tali restavano. Illuminanti le parole del vicesindaco di Marsiglia Dominique Tian: "No all'apertura del nostro porto alle navi umanitarie che soccorrono i migranti nel Mediterraneo, se ogni settimana facessimo entrare navi con centinaia se non migliaia di migranti saremmo nell'incapacità totale di alloggiare queste persone. Perché una volta sbarcate, queste persone bisogna alloggiarle". Il caso diplomatico a colpi di insulti tra Roma e Parigi segue di poco quello scoppiato a marzo scorso dopo l'irruzione senza permesso della polizia parigina in un centro d'accoglienza italiano a Bardonecchia: la Gendarmerie è entrata scortando un migrante prelevato da un treno e costringendolo a sottoporsi a un esame delle urine. Tutto questo mentre gli agenti su suolo italiano intimavano ai volontari della ong Rainbow4Africa di attenersi alle loro disposizioni. Poche settimane prima una migrante nigeriana è morta all'ospedale Sant'Anna di Torino dopo aver partorito: quando era incinta di poche settimane, e già affetta da un linfoma, era stata respinta dalla Francia, sempre a Bardonecchia. Una lunga serie di comportamenti, per nulla isolati ma frutto di una determinata politica di respingimenti portata avanti calpestando norme e principi internazionali. Qualcuno potrebbe forse essere tratto in inganno e pensare che l'Eliseo sia finito nelle mani del partito xenofobo di Marine Le Pen. E invece a guidare la Francia è il "sincero democratico" Emmanuel Macron.

Si sciolgono i ghiacci e spuntano i corpi dei migranti. Dopo la donna ritrovata in Francia presso Briançon lo scorso mese, un altro cadavere di un rifugiato sul versante italiano delle Alpi, scrive Alessandro Fioroni l'8 giugno 2018 su "Il Dubbio". Il 9 maggio scorso una giovane donna africana è stata trovata morta all’altezza della diga di Prelles, nella Durance, il fiume che scorre attraverso Briançon, a pochi chilometri dal confine tra Italia e Francia. Non se ne conosceva il nome, nè da dove venisse. Un fatto di cronaca legato forse all’immigrazione. Da più di un anno, le Hautes-Alpes hanno visto un afflusso di migranti provenienti principalmente dall’Africa occidentale. Nel 2016, sono state 315 le persone bloccate alla frontiera e riportate in Italia.  Nel 2017 la cifra è notevolmente aumentata raggiungendo quota 1900. Secondo i dati della Prefettura dall’inizio dell’anno i migranti che hanno tentato il passaggio sono già 500.Ora con l’arrivo dell’estate la zona sta mostrando una tragica realtà. Solo due settimane fa sul versante italiano delle Alpi, non lontano da Bardonecchia, punto di partenza dei migranti che tentano di raggiunge la Francia, è stato trovato un altro cadavere. Anche quest’uomo è senza nome, forse solo le impronte digitali potranno rivelarlo ma la sua famiglia potrebbe non saperlo mai. Sul lato francese la situazione non sembra differente, infatti il caldo ha portato alla luce altri corpi come quelli del senegalese Mamadou-Alpha Diallo e del nigeriano Blessing Matthew. I migranti prendono la via della montagna con grande rischio perché, data la mancanza di documenti, non possono prendere gli autobus sicuri. Mancanza di informazioni sulla strada, abiti e scarpe inadatte alla traversata in montagna provocano le tragedie. A fronte di questa situazione, come denunciano gli attivisti che assistono i migranti, si è assistito ad una progressiva militarizzazione della zona di confine. Sono infatti molte le persone ricoverate in ospedale per le ferite procurate durante la fuga dai controlli di polizia. Dalle testimonianze di chi è respinto si apprende che una volta passata la linea di confine, si devono precorrere 17 chilometri per raggiungere la cittadina più vicina e lì che la gendarmeria attende per respingere. Anche il New York Times si è occupato di quello che sta succedendo. A febbraio un’intervista a Vincent Gasquet, un uomo che insieme ad altri perlustra i boschi in montagna per recuperare i migranti che si perdono e metterli sulla strada giusta, rivelò i contorni del dramma in atto. «Se le Alpi diventassero un cimitero, mi vergognerei per il resto dei miei giorni» dichiarò Gasquet. Una reazione umana ma che mette a rischio l’opera dei volontari, infatti per le leggi francesi aiutare chi è senza documenti può in alcuni casi configurarsi come un reato. Un episodio avvenuto il 31 marzo scorso a Bardonecchia suscito molto clamore mediatico. Quattro gendarmi francesi fecero irruzione nella sede della ong Raimbow for Africa per controllare un migrante nigeriano, cercavano droga, motivazione che poi si rivelò infondata.

Migranti, le due facce della Spagna. Ecco perché non può fare la morale all'Italia. Dall'Ue e dalla sinistra elogi per la decisione del governo spagnolo. Ma l'accoglienza iberica è a due facce: ecco le falle, scrive Domenico Ferrara, Martedì 12/06/2018, su "Il Giornale". Olè Madrid. Viva la España. Si spendono elogi per il governo iberico dopo la decisione di permettere alla nave Aquarius di sbarcare a Valencia. Per il commissario europeo Dimitris Avramopoulos "questa è la vera solidarietà messa in pratica, sia verso questo queste persone disperate e vulnerabili, che verso Stati membri partner". Il presidente socialista della Regione di Valencia, Ximo Puig, punta il dito contro Salvini: "Le sue parole forse portano un pugno di voti, ma non sono degne di nessuno che pretenda di difendere l’umanesimo cristiano". Il capogruppo del Pd alla Camera, Graziano Delrio, dice grazie alla Spagna per "averci dato una lezione di umanità". Sulla stessa onda il dem Fassino: "Anziché cantare vittoria, Salvini dovrebbe ringraziare l'umanità del nuovo governo socialista di Madrid. Se in Spagna governasse Orban, l'amico di Salvini, l'Aquarius sarebbe stata abbandonata a sé stessa". Benvenuti nel gioco delle parti. Un teatrino politico con i suoi attori. Che hanno un copione preciso da seguire. Perché non ci si può esimere dal pensare che la decisione del premier spagnolo Sanchez sia stato più politica che umanitaria. Una scelta in controtendenza per marcare la differenza con il suo predecessore. E, soprattutto, questa scelta non può relegare nell'oblio il passato. Un passato fatto di un'accoglienza quantomeno deficitaria e altalenante. Ora si celebra l'accoglienza della Spagna, ma nessuno ricorda quando nel 2012 scoppiò la bufera e migliaia di persone scesero in piazza contro Rajoy a seguito del provvedimento del governo che aboliva l'assistenza sanitaria gratuita per oltre 910mila, clandestini, che non versavano contributi alla previdenza sociale. Nel 2015, la Spagna si disse pronta ad accettare la quota Ue per i rifugiati e ad accoglierne 14.931, salvo poi anni dopo ricontrattare al ribasso le cifre. E alla fine dell'anno scorso, la quota reale di persone accolte nel paese era di 1.279, il 13,7% di quanto inizialmente previsto. Tanto che l'ong Oxfam Intermon presentò un esposto all'ufficio di Madrid della Commissione Ue contro la Spagna per il mancato rispetto della quota di 9.323 migranti che si era impegnata ad accogliere nell'accordo di redistribuzione fra paesi comunitari concluso l'anno prima. Nel 2017, quando l'Italia chiese di aprire altri porti europei ai migranti salvati, il ministro dell'Interno spagnolo Juan Ignacio Zoido oppose il fatto che "i porti della Spagna sono sottoposti ad una pressione importante nel Mediterraneo occidentale". A febbraio 2018, la quota continuava poi a non essere rispettata: erano arrivate 2.782 delle 17.337 persone previste, secondo le cifre del ministero dell'Interno. Alla fine del 2017, poi, nonostante gli impegni presi, la Spagna versò solo tre milioni di euro al Fondo Ue per l'Africa. La Germania era il secondo contributore con 13 milioni di euro. Sapete chi era la prima? Naturalmente l'Italia, che aveva versato 82 milioni di euro. Qualche mese prima, il problema della scarsità di contributi economici era già stato sollevato dalla Commissione Ue che rilevava come a rimpinguare le casse del Fondo fiduciario d'emergenza dell'Unione europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione fossero stati solo Italia e Germania e Olanda. Dagli altri paesi solo il silenzio. La solidarietà poi si scontra con un muro: quello di Ceuta e Melilla. Barriere di oltre 20 chilometri che segnano il confine tra le enclavi spagnole e il territorio del Marocco. In mezzo un filo spinato a cui spesso è rimasto aggrovigliato il sangue di qualche disperato. Per coloro che invece riescono a superarlo, sono pronti i fucili della Guarda Civil o il centro di identificazione. L'’alto commissario del Parlamento spagnolo più volte ha evidenziato "l’assoluta opposizione alle pratiche di respingimento automatico alla frontiera che si sono verificate in territorio spagnolo attraverso i perimetri di confine di Ceuta e Melilla e ha denunciato "le condizioni disumane in cui sono tenuti i migranti nei centri di permanenza temporanea di immigrati”. Insomma, l'accoglienza a parole è sempre diversa da quella reale.

Aquarius, i volontari di Valencia: "Qui non c'è posto". Il premier Sanchez quando ha annunciato lo sbarco dei migranti della Aquarius in Spagna ha indicato in Valencia la destinazione finale del percorso dell'imbarcazione della Ong, scrive Luca Romano, Mercoledì 13/06/2018, su "Il Giornale". Il premier Sanchez quando ha annunciato lo sbarco dei migranti della Aquarius in Spagna ha indicato in Valencia la destinazione finale del percorso dell'imbarcazione della Ong. Ma a quanto pare, secondo quanto riporta il Corriere, proprio nella città spagnola non ci sarebbe spazio per accoglierli tutti. E a dirlo è stato un volontario che lavora nel centro d'accoglienza: "Abbiamo fatto i conti proprio questa mattina. Al massimo ne possiamo accogliere otto". Ne resterebbero altri 621 da collocare. La struttura che dovrebbe accoglierli, un palazzone ex ostello per studenti, è già pieno. Per il momento però i piani del governo spagnolo non cambiano. La nave dovrebbe attraccare nella notte tra venerdì e sabato sempre nel porto di Valencia. La nave approderà al Marina Real, il molo che viene destinato alle navi da crociera. In seguito i 629 migranti verranno trasportati nella base dove Alinghi preparava la sua Coppa America di vela nel 2007. La Comunitat valenciana con la presidente Monica Oltra ha fatto sapere di voler rispettare gli impegni presi con l'Aquarius: "Abbiamo preso un impegno, abbiamo fatto una promessa, e li rispetteremo fino in fondo". Infine va ricordato che nel piano del governo spagnolo c'è anche la possibilità di requisire alcune camere di hotel proprio per ospitare i migranti. Ma di fatto a giugno, con l'estate alle porte sarebbe un duro colpo per il turismo low cost che spesso ha come meta preferita la città spagnola.

Spagna, il generoso premier Sanchez? Toccava i migranti e si puliva le mani. Un video mostrava l'allora segretario socialista impegnato in una passeggiata elettorale in vista delle elezioni politiche mentre stringeva la mano ad alcuni immigrati di colore, scrive Luca Romano, Mercoledì 13/06/2018, su "Il Giornale". Per la sinistra il premier spagnolo Pedro Sanchez ha fatto un'opera di solidarietà nel decidere di accogliere la nave Aquarius. Gli elogi però si scontrano con un episodio che all'epoca, era il 2016, aveva fatto molto discutere in Spagna. Un video mostrava l'allora segretario socialista impegnato in una passeggiata elettorale in vista delle elezioni politiche mentre stringeva la mano ad alcuni bambini immigrati di colore. Le immagini immortalavano Sanchez che, pochi metri dopo, si strofinava le mani come se volesse pulirle. Le immagini si erano diffuse a macchia d'olio sui social, in particolare su Twitter, riprese anche dal sito dei giovani del Pp di Madrid con il titolo ironico "Pedro Sanchez, il pulito".

Aquarius, da Napoli a Palermo i sindaci contro Salvini: “I nostri porti sono aperti. È senza cuore e viola le norme”. Luigi De Magistris e Leoluca Orlando danno la loro disponibilità ad accogliere la nave Aquarius con a bordo gli oltre 600 migranti. Il sindaco di Messina: "La nave è diretta qui, no a diktat: il porto è aperto". Falcomatà (Reggio Calabria): "Disponibili come sempre". Melucci (Taranto): "Pronti ad abbracciare ogni vita in pericolo". Pd: "Rischi umanitari, parli Conte". Boldrini: "Il ministro dell'Interno riporta il Paese ai tempi di sua nonna". Forza Italia sta con il governo, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 10 giugno 2018. L’annuncio di Matteo Salvini sbandierato su Twitter con l’hashtag #chiudiamoiporti e la sua foto che per il leader di Leu, Pietro Grasso, è “olio di ricino su tela 2018”. I “gravi rischi umanitari” che si corrono con la decisione di rifiutare l’attracco della Aquarius sui quali insiste il segretario reggente del Pd, Maurizio Martina, che invita il premier Giuseppe Conte ad assumere “un’iniziativa di fronte a quello che sta accadendo dopo le scelte di Salvini”. E poi l’apertura (almeno simbolica) dei propri porti da parte dei sindaci di Napoli, Palermo, Messina e Reggio Calabria. Perché il ministro dell’Interno è “senza cuore”, dice Luigi De Magistris, mentre per Leoluca Orlando, dando “dimostrazione della natura culturale dell’estrema destra leghista”, il segretario del Carroccio “viola legge internazionale”. Le opposizioni insorgono dopo la decisione dei ministri dell’Interno e delle Infrastrutture di respingere la nave Aquarius con oltre 600 migranti a bordo e intimare a Malta di “non voltarsi dall’altra parte” e “rispettare le precise convenzioni internazionali”. Non Forza Italia, però, che, almeno in questa occasione, sta accanto al governo Lega-M5s. “Museo della memoria futura. Come è iniziata?”. Olio di ricino su tela 2018″, ha scritto Grasso, ritwittando con questa didascalia la foto di Salvini, unita al post dove diceva di chiudere i porti. Per De Magistris, invece, “se un ministro senza cuore lascia morire in mare donne incinte, bambini, anziani, esseri umani, il porto di Napoli è pronto ad accoglierli“. Napoli, ha scritto su Twitter, “è pronta, senza soldi, per salvare vite umane”. Sulla stessa linea anche il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando: “Palermo, la città che a partire dal proprio nome è "tutta un porto", è stata e sarà sempre pronta ad accogliere le navi, civili o militari che siano, impegnate nel salvataggio di vite umane nel Mediterraneo”.  Salvini, ha aggiunto il sindaco del capoluogo siciliano “viola la legge internazionale, quella che impone come priorità assoluta il salvataggio delle vite umane. Ha dato ulteriore dimostrazione della natura culturale dell’estrema destra leghista”. Sulla stessa linea anche Giuseppe Falcomatà, sindaco di Reggio Calabria: “Siamo disponibili come sempre di fronte a donne, uomini e bambini che hanno bisogno di cure. Il nostro cuore è grande. Più grande di chi vuole speculare senza un briciolo di umanità”. Contro Salvini si schiera anche il primo cittadino uscente di Messina, Renato Accorinti che si dice “esterefatto” sia sotto il profilo umanitario che delle “leggi del mare”. Il sindaco della città dove l’Aquarius potrebbe attraccare dice che “non si può pensare di prescindere dai diritti universali dell’uomo e dal diritto della navigazione nei quali l’essere umano è sacro a prescindere dal colore della sua pelle e del suo paese d’origine. È dovere primario accogliere e ad una politica disumanizzante ci contrapponiamo con una politica fatta di diritti e di valore delle persone”. Per questo, “a dispetto del diktat del ministro Salvini, l’amministrazione Accorinti dichiara la sua disponibilità immediata perché la nave “Aquarius” possa attraccare presso il porto cittadino. A poche ore dalle prese di posizione dei primi cittadini, si unisce anche quella del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, che si dice disposto ad accogliere la nave Aquarius: “Taranto – ha detto all’Agi – è pronta ad abbracciare ogni vita in pericolo, senza se e senza ma. In questi casi bisogna distinguere il giudizio politico dalle questioni tecniche. Come è noto secondo queste ultime, dopo la riforma del sistema portuale del ’94, i sindaci non hanno più alcuna competenza diretta sulla gestione di banchine e operatività degli scali. Motivo per cui attendiamo di comprendere quali provvedimenti il governo trasmetterà alle Authority italiane sulla materia delle immigrazioni. D’altronde in mare vigono leggi e consuetudini internazionali che non si possono cancellare con una semplice circolare”. Il segretario reggente dei dem, Martina, ricorda invece come “il nostro Paese sino a qui ha saputo unire sicurezza e accoglienza”. Gli sbarchi, spiega, “si sono ridotti dell’80% dall’anno scorso, non c’è nessuna emergenza ora”. E seppur “l’Italia non va lasciata sola”, per il deputato “oggi più che mai non servono drammatici braccio di ferro tra Paesi ma soluzioni coordinate”, perché “chiudere i porti in questo modo può portare solo a gravi rischi umanitari”. Da qui l’invito al presidente Conte affinché “assuma un’iniziativa di fronte a quello che sta accadendo”. Il capogruppo alla Camera dei dem, Graziano Delrio, si rivolge direttamente al suo successore alle Infrastrutture: “Il ministro Toninelli, che è il ministro del mare e dei porti, difenda la priorità del rispetto della vita e dell’umanità e non prenda ordini da Salvini. È sua competenza e responsabilità. Intervenga il presidente Conte che può finalmente mostrare di essere a capo del governo”. Nel Pd, sono forti le reazioni anche del presidente del partito, Matteo Orfini, per il quale “in questa sfida assurda non so chi vincerà, ma di certo a perdere sarà la civiltà”, e del deputato Walter Verini che sostiene come “in questi anni il nostro Paese ha cercato di dare risposte al governo dei flussi migratori, ma lo ha fatto rispettando valori umani e civili. E salvando migliaia di vite. Il comportamento del Ministro dell’Interno Salvini e del Governo è semplicemente al di fuori di questi valori”. Per l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, ora “Salvini chiude i porti. Poi chiuderà le strade. Poi ci chiuderà in casa. Dopodichè, quando non avrà più nulla da chiudere se non i suoi vergognosi profili social – scrive la deputata di Leu su Twitter – avrà raggiunto il suo obiettivo: un Paese isolato, riportato ai tempi di sua nonna. Incompetenza al potere”. Dura anche la presidente dell’Arci, Francesca Chiavacci, per la quale “il primo atto di questo Governo in materia di immigrazione supera di gran lunga ciò che era stato annunciato, dimostrando disprezzo e noncuranza per centinaia di vite umane. Ci auguriamo che nelle prossime ore il Governo riveda questa decisione”. Per la numero uno dell’Arci, appena riconfermata, quella di vietare l’approdo della Aquarius è “una decisione che non ha precedenti e che segna una ferita profonda nella storia del nostro Paese, che si è sempre contraddistinto per il soccorso e la solidarietà. Ci auguriamo che non sia questo il cambiamento tanto sbandierato”.

Chi gioca sulla pelle dei migranti, scrive Sebastiano Caputo il 12 giugno 2018 su "Il Giornale". Chiudere i porti è un atto politico che mira a fermare questa orrenda tratta di essere umani, ma soprattutto lancia un messaggio forte all’Europa che dal 2011 ad oggi, oltre ad aver ordinato attraverso Francia e Inghilterra la destabilizzazione della Libia di Gheddafi, è rimasta a guardare la Guardia Costiera Italiana, sola nel Mediterraneo, tirare fuori dall’acqua un’infinità di vite umane. Il razzismo imputato al governo Conte è privo di senso, perché paradossalmente a orientarlo è proprio un buon senso mescolato ad un sano pragmatismo. Il portavoce della Guardia costiera libica Ayoub Qassem lo ha detto chiaramente: “la chiusura dei porti farà diminuire partenze”. E’ pura logica: se da un lato dunque si ostacolano i trafficanti, veri businessman della morte, dall’altro si lotta contro l’annegamento dei migranti. Ma c’è chi non vuol vedere e continua ad attaccare sul piano ideologico-emotivo la decisione del ministro degli Interni Matteo Salvini – presa in accordo con il pentastellato Danilo Toninelli – che in realtà sta proseguendo la stessa “guerra asimmetrica” del suo predecessore Marco Minniti con altri mezzi (e toni).  Perché di una “guerra asimmetrica” si tratta. A spiegare questa tesi è un libro dal titolo Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (pagine 482, euro 20, LEG Edizioni, prefazione di Sergio Romano) scritto da Kelly M. Greenhill, studiosa e ricercatrice americana, in cui spiega perfettamente – con numeri, dati e fatti storici – come il fenomeno delle migrazioni si è trasformato in un’arma di coercizione per indebolire uno Stato o demonizzarne un governo. E che lo vogliano o meno, le ONG, dietro alle argomentazioni lacrimevoli, stanno combattendo in prima linea, anche loro, sulla pelle dei migranti. Il recente caso della nave Aquarius, rientra perfettamente nello schema tracciato dalla Greenhill che lei stessa definisce Coercive engineered migration (dall’inglese “migrazione coercitiva progettata”), proprio perché queste imbarcazioni private non svolgono solo attività di soccorso bensì si recano direttamente nelle acque libiche per prelevare i migranti e portarli in Europa. Nel libro questa sorta di organizzazioni non governative sembrano rientrare nella categoria degli “agenti provocatori” ovvero quei soggetti terzi rispetto agli Stati, che in qualche modo possono trasformare una crisi limitata in una crisi di ampie proporzioni, facendo pressione, orientando l’opinione pubblica e le azioni umanitarie, al punto di sovvertire un’intera struttura statuale. “Molti agents provocateurs si considerano impegnati in una sorta di altruistico machiavellismo in cui il fine giustifica l’impiego di mezzi poco convenzionali – scrive l’autrice americana – troppo deboli per raggiungere i loro scopi in maniera autonoma, questi attori possono mirare a coltivare un supporto internazionale di carattere politico, economico e militare per la propria causa”. E conclude: “Secondo studiosi ed esperti, quanto più essi sono considerati vittime e quanto più possono suscitare indignazione morale nell’interesse del loro gruppo, tanto maggiori sono le probabilità che ottengano aiuto al livello internazionale”. La decisione del governo Conte di chiudere i porti dunque – che rafforza il Codice di Condotta sulle ONG approvato in passato – è l’atto politico più legittimo ed efficace per contrastare questa forma di coercizione asimmetrica. Oltre a mantenere questa linea di fronte alle critiche, occorre però andare fino in fondo e pronunciare la stessa identica fermezza quando i vertici della NATO chiederanno di utilizzare le nostre basi militari per bombardare Paesi sovrani e appoggiare nuove guerre “umanitarie” nel Mediterraneo che alimentano quella stessa orrenda tratta di essere umani. E a proposito di toni, lo slogan non deve essere “aiutiamoli a casa a loro” ma “aiutiamoli a casa loro, perché quella è casa loro”. Perché il futuro non è qui ma in quelle terre piene di fierezza, dignità, orgoglio, e con le quali è necessario avviare progetti di cooperazione - laddove i governi sono indesiderati o incapaci di agire – con rispetto, lealtà e profonda amicizia. Oltre ad essere giusta è l’unica via percorribile per resistere simbolicamente ai coercitori che ora sfruttano i migranti, una seconda volta, con fini politici. Sarà un’estate lunga, e non bisognerà fare nemmeno un passo indietro.

Salvini ci indica la strada, a Gino Strada indichiamo la porta, scrive Andrea Pasini il 12 giugno 2018 su "Il Giornale". Meglio vivere un giorno in piedi da sbirri e razzisti che una vita in ginocchio da ipocriti e comunisti. “Io ho 70 anni e sono sconcertato. Non mi aspettavo di vedere ministri dell’Interno razzisti o sbirri in Italia. La politica di Minniti era pagare degli assassini per dire assassinatevi pure ma non a casa nostra. C’è continuità di intenti con il suo successore Salvini. Non hanno considerazione delle vite umane”. Pietà Gino Strada, pietà. Ma non per noi, uomini e donne con le spalle larghe, ma per lei. I deliri di un quasi ottuagenario obnubilato dalla rabbia e dal rancore. Gli stessi che attanagliano Eugenio Scalfari. Il fondatore de L’Espresso su La Repubblica tuona: “Svegliamoci e salviamo il Paese dai razzismi”. Buonsenso dove sei? Tremendamente colpiti dalle parole di personalità completamente scollegate con il mondo reale. Parlassero di razzismo ai disoccupati, ai pensionati che percepiscono la minima e ai giovani senza avvenire. Le star dell’accoglienza si riempiono la bocca di pietismo perorando la causa della Grande Sostituzione. Proprio come viene raccontata da Renaud Camus. Una guerra di religioni, di salari e razziale dove, però, siamo noi a boccheggiare. I radical chic dai loro salotti sputano pregiudizio e discriminazione contro le nostre genti, per questo motivo dobbiamo tenere alta la guardia e continuare la nostra strenua difesa. Razzisti e sbirri. Lo sprezzo di Gino Strada, mandato in onda dalle frequenze di Lucia Annunziata, è vomitevole. Siamo orgogliosi di essere sbirri come ci definisce il fondatore di Emergency. Perché siamo orgogliosi di rappresentare i meglio figli di questa Nazione, figli diligenti che amano la Patria e sono pronti a tutti, questa volta veramente a tutto, pur di difendere i nostri sacri confini. Confini bagnati, esattamente 100 anni fa, da martiri patrioti avi eroi del nostro tricolore. Con il loro sangue hanno bagnato queste montagne, queste pianure e questo mare. Oggi tocca a noi difenderlo in ogni modo, con ogni mezzo. “Sono stanco. Vorrei andare via dall’Italia”, dice Strada. Bene noi siamo pronti ad accompagnarlo, non senza sua figlia, in capo al mondo. Bramiamo di non averlo più d’intralcio. Bramiamo di non vedere più moralizzatori privi di morale catechizzarci senza sapere cosa realmente succede nelle città italiane. Il vento è iniziato a cambiare e dovrà mutare definitivamente per tappare la bocca a chi avversa questo lembo di terra. Perché la battaglia del domani è tra chi ama l’Italia e chi la odia. Bisogna scegliere e noi non abbiamo dubbi. Non abbiamo dubbi perché le radici profonde, custodite gelosamente dentro di noi, riconoscono il sangue caldo e italiano che scorre nelle nostre vene. Quindi vi starete chiedendo. Quindi non abbiamo bisogno di questi salottieri sinistroidi dalle pulsioni centrafricane. L’Unione Europea ci ha sfidato, ci ha fatto, letteralmente, invadere ed ora dobbiamo rispondere. Chiusura dei porti adesso e per sempre. Ma non dobbiamo gioire del fatto che gli immigrati sbarchino in Spagna. Dobbiamo creare, partendo dal trionfo populista avvenuto in Italia, una sottile, ma inscalfibile, linea di resistenza contro il turbocapitale che ci vuole schiavi delle logiche antirazziste. Non saremo mai brodaglia senza identità, se ne facciano una ragione gli avversatori del popolo alla Soros o alla Bonino. Siamo pronti ad aiutare chi scappa dalla guerra, siamo uomini d’onore, ma siamo stanchi di vedere spacciati per profughi africani erculei pronti ad attraversare il Mar Mediterraneo per una vita migliore. Quest’ultimi sono immigrati economici, cercano una nuova esistenza che però l’Italia non può garantire ai suoi figli. La vostra retorica intrisa di umanitario apprezzamento solo per gli “altri” ha i giorni contati. Preparate le valigie, ora tocca a noi. E comunque Signor Strada le ribadisco che è meglio vivere un giorno in piedi da Sbirri e Razzisti che una vita in ginocchio da Ipocriti E Comunisti. 

Jacopo Fo molla l'M5S sui migranti: "Porti chiusi? Tornerò a non votare". L'amarezza del figlio del premio Nobel Dario: "Mi sono dato un tempo per giudicare il governo. Certo con porti chiusi e flat tax a favore dei ricchi...", scrive Ivan Francese, Mercoledì 13/06/2018, su "Il Giornale". Sul tema dei migranti, la base del MoVimento Cinque Stelle è tutto meno compatta, questo lo sapevamo da tempo. Chi aderisce a una linea immigrazionista e terzomondista "alla Fico" e chi invece non esita a schierarsi con Luigi Di Maio che a suo tempo aveva definito le ong "taxi del mare", suscitando dure polemiche fra i militanti. Oggi però i grillini perdono un grande elettore proprio sulla nuova linea dura adottata in merito alla questione della nave Aquarius: Jacopo Fo, figlio del premio Nobel Dario. Intervistato da Repubblica, l'attore ed attivista di sinistra esterna tutta la propria amarezza. "Sono allarmato dalle posizioni sull'immigrazione, è una situazione molto pericolosa, c'è il rischio che l'Italia sia complice di nuovi massacri in Libia - protesta - Io come tanti ho votato il M5S sperando in un vero cambiamento. Mi sono dato un tempo per giudicare questo governo. Aspetto i fatti, mi sono detto. Certo se i fatti sono chiudere i porti a donne bambini e disperati o la flat tax a favore dei ricchi tornerò a non votare come ho fatto per molti anni. " "Ho molti amici nei cinquestelle - prosegue Fo - Il disagio c'è, inutile negarlo. Il nostro problema non è l'Europa né l'immigrato come Salvini continua a sostenere. Il problema è la burocrazia che è una tassa del 10% su tutti e lo spreco di soldi pubblici. Ma la narrazione della Lega sull'immigrazione ha vinto. Gli italiani vogliono questo. E non da oggi." Tuttavia il figlio del premio Nobel non vede molte alternative: "L'alternativa quale sarebbe? La politica fatta da Minniti? E prima di lui da Berlusconi e Monti?". Insomma, per gli ultimi dei comunisti le speranze sembrano proprio perdute.

Aquarius, la sparata di Orlando: "Verremo processati per genocidio". Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, vuole aggiungere i fatti della Aquarius all'esposto fatto alla Corte dell'Aia nel 2017: "Verremo processati per genocidio", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 13/06/2018, su "Il Giornale". Le parole hanno un peso. E Leoluca Orlando lo sa bene. Tanto che stamattina, ospite a Coffee Break su La7, parlando delle vicende della Aquarius non ha temuto a usare espressioni molto dure. "Si farà un secondo processo di Norimberga - ha detto in studio - e noi verremo processati per genocidio. E a differenza dei nostri nonni non potremo dire che non lo sapevamo". "È vero o non è vero che i migranti sono persone?", si chiede il sindaco di Palermo. E ancora: " vero o non è vero che il diritto internazionale stabilisce che bisogna salvare in mare a qualunque costo? Quando questo non si fa, a mio avviso, si violano i diritti umani". Poi Orlando racconta di aver già presentato alla Procura della Repubblica di Roma, al presidente della Commissione Ue, a quello del parlamento europeo e alla Corte dell'Aia nel dicembre del 2017 un esposto contro le istituzioni europee perché "ritengo che l'attuale normativa europea è criminogena e produce crimini, alcuni commessi dagli Stati". Il sindaco di Palermo racconta di aver ricevuto una risposta "imbarazzata" da parte di Avramopulos e di essere in attesa delle decisioni dell'Aia. Ma promette che aggiungerà "a quello che ho già esposto quello che sta succedendo in questi giorni". E il riferimento, ovviamente, è alla questione Aquarius e alla chiusura dei porti ordinata da Salvini e Toninelli. "Si farà un secondo processo di Norimberga - assicura Orlando - e noi verremo processati per genocidio. E a differenza dei nostri nonni non potremo dire che non lo sapevamo".

Ecco perchè l’Italia non può chiudere i porti. Lo stabiliscono le regole internazionali, scrive Damiano Aliprandi il 12 giugno 2018 su "Il Dubbio". L’Italia, con la decisione di chiudere i porti, ha violato il diritto internazionale. Perché? Sono tre le norme, sottoscritte dal nostro Paese, che non possono essere oggetto di deroga da parte degli Stati. Il primo è l’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che costituisce l’applicazione del principio fondamentale ed elementare della solidarietà. «Ogni Stato – si legge – impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi: a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento; c) presti soccorso, in caso di collisione, all’altra nave, al suo equipaggio ed ai passeggeri e, nella misura del possibile, indichi all’altra nave il nome ed il porto d’iscrizione e il primo porto del suo approdo». Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali. Ma sono due le convenzioni che obbligano l’Italia a farsi carico dei migranti soccorsi: convenzione di Amburgo del 1979 e la Convenzione Solas che prevedono che lo sbarco avvenga nel paese che ha coordinato i soccorsi. Chi ha stabilito le regole per i soccorsi? La convenzione Sar (acronimo che corrisponde all’inglese search and rescue” ovvero “ricerca e soccorso”) impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare, senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un «porto sicuro». Per quanto riguarda la nave Aquarius, è stata l’Italia a coordinare le operazioni di salvataggio e quindi non può chiudere il porto considerato “sicuro”.

Quando la sinistra chiuse i porti (e Repubblica batteva le mani). Oggi la sinistra attacca Salvini. Ma nel 1997 mise in campo un blocco navale ben più rigido di quello odierno. E Repubblica plaudeva alla linea dura contro gli "immigrati non in regola", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 12/06/2018, su "Il Giornale". Il tempo non cura solo le ferite, annebbia pure la memoria. Lo sanno, o dovrebbero saperlo, dalle parti della sinistra italiana (sia essa politica o dei media). Oggi Veltroni, Pd, Repubblica e compagnia bella criticano aspramente la chiusura dei porti italiani attuata da Salvini (e Toninelli). Eppure ieri, quando l'Ulivo governava con Romano Prodi, mettevano in campo le stesse politiche (se non peggiori) e le lodavano apertamente sulle pagine dei giornali. Era il marzo del 1997. Prodi aveva vinto le elezioni solo da un anno e non aveva ancora fatto in tempo ad abituarsi alla comoda poltrona di Palazzo Chigi che l'Albania si trasformò nell'Africa che conosciamo oggi. Una polveriera in preda ad una crisi politica impressionante (chiamata anche "anarchia albanese"), col Paese spezzato in due, vittima della crisi economica e con bande armate a gestire ampie zone di territorio in barba al governo ufficiale. In quell'anno di crisi degli anni Novanta, la squadra di governo poteva schierare ministri di prim'ordine. Agli Esteri comandava Lamberto Dini, alla Difesa Beniamino Andreatta e all'Interno Giorgio Napolitano. Con loro pure il ministro dei Trasporti e della Navigazione (responsabile sui porti), Claudio Burlando. Ebbene. Cosa fece il governo della sinistra quando migliaia di immigrati albanesi tentarono di lasciare i Balcani via mare e approdare sulle coste della Puglia? Aprirono i porti? Misero in mare imbarcazioni umanitarie? Macché. Se da una parte offrirono "protezione temporanea" (temporanea!) ai profughi e sostennero economicamente l'Albania, dall'altra attuarono un vero e proprio blocco navale (ben più duro di quanto non abbia fatto oggi Salvini). Non solo. Perché chi non aveva diritto d'accoglienza, veniva immediatamente ri-accompagnato da Re Giorgio a casa. "Il ministro Napolitano - spiegava Prodi alla Camera - si è adoperato senza risparmio per impartire direttive e formulare proposte legislative che (...) hanno consentito un'attenta vigilanza intesa a garantire che chi ha bisogno di aiuti e di accoglienza dal nostro paese la abbia, come è giusto che sia, ma chi invece appartiene alla delinquenza organizzata sia tempestivamente e doverosamente espulso o respinto". E tanti saluti (buonisti). Certo, Prodi di fronte ai deputati (era il 2 aprile 1997) provò a spiegare che "blocco navale" non era proprio il nome esatto con cui avrebbe chiamato l'operazione, da lui invece definita "attività volta soprattutto a stroncare la malavita organizzata che gestisce gli espatri". Ma si trattava di masturbazione semantica. Già, perché per capire quanto la sinistra appoggiasse lo stop all'arrivo dei migranti albanesi basta andare a rileggere un vecchio pezzo di cronaca pubblicato da Repubblica. Titolo: "Blocco navale per fermare gli albanesi". Incipit: "Da ieri è scattata la linea dura. Non sono più profughi, ma immigrati non in regola. E quindi vanno respinti". Si faccia attenzione alle parole, che pesano come un macigno. "Immigrati non in regola" sta per "clandestini". E allora ci si chiede: perché se a fermare gli stranieri era il Professore, tutto bene (anzi: da lodare) e se invece il blocco navale porta la firma della Lega, allora gli africani diventano "ostaggi" del ministro? Come mai venti anni fa era possibile che sullo stesso barcone convivessero profughi e migranti economici (o criminali), mentre oggi tutti sono definiti (per principio) "rifugiati in fuga dalla guerra"? Il sottosegretario agli Interni, Giannicola Sinisi, nel '97 spiegava: "Sulle nostre coste non stanno arrivando più profughi, gente spaventata, ma uomini e donne che vengono da zone dove la rivolta non è neppure arrivata. Cercano una vita migliore, un lavoro più redditizio, sono, insomma, immigrati". Sarà stato leghista pure lui? No, ovviamente. Era buonsenso. Buonsenso che allora la sinistra riconosceva ai suoi governanti e che oggi nega a Salvini&Co. Veltroni, per citarne uno, adesso critica il governo perché i 626 migranti della Aquarius "sono esseri umani, non oggetti, e scappano dalla guerra e dalla fame", ma in quel lontano 1997 era vicepremier. Non proprio l'ultimo degli arrivati. Perché non si oppose anche allora? E pensare che le politiche dell'odierno ministro dell'Interno sono molto meno dure di quelle messe in campo da Prodi e Napolitano. Salvini si è infatti limitato a tenere in stallo la Aquarius, garantendo medici, soccorsi e viveri. Con l'accordo firmato allora col premier albanese, invece, l'Italia si impegnò a bloccare con mezzi navali l'emigrazione in massa dell'Albania. Le fregate italiane dovevano realizzare "manovre di allontanamento" in mare per intimidire i barconi carichi di immigrati e costringerli a fare marcia indietro. Solo due giorni dopo la firma, la motovedetta albanese Katër i Radës venne speronata da una nave della Marina italiana Sibilla. Fu una strage: 81 morti e 27 dispersi.

Graziano Delrio: “Dissi io a Minniti: i porti non si chiudono”. Di Wanda Marra – Il Fatto Quotidiano 12 giugno 2018) – È passato un anno esatto da quando in Italia si è cominciata a ventilare l’ipotesi di chiudere i porti alle navi dei migranti. Era giugno dell’anno scorso quando Marco Minniti, diretto a Washington, dopo uno scalo in Islanda tornava indietro per fronteggiare l’emergenza. Erano le settimane in cui al Viminale si studiava il codice di condotta per i salvataggi da sottoporre alle Ong e si prendevano in considerazione misure estreme per ridurre gli sbarchi. Ieri l’ex ministro dell’Interno ha dichiarato a Repubblica: “Io i porti non li ho chiusi neanche quando in Italia arrivarono in 36 ore 26 navi con 13.500 migranti. Umanità e sicurezza si devono poter conciliare”. Il punto, però, è che la chiusura dei porti dipende dal ministero delle Infrastrutture. E il codice di navigazione lo permette solo in presenza di gravi problemi di ordine pubblico. L’anno scorso l’allora ministro, Graziano Delrio, era fermamente contrario a questa misura. Una posizione portata avanti per tutta l’estate. “Dissi a Minniti: non c’è bisogno di chiudere i porti, l’ordine pubblico lo preserviamo distribuendo i migranti. Glielo chiarii: io questa cosa non la faccio”, racconta oggi, confermando che la questione era oggetto di discussione e di valutazione. La diversità di approccio alla questione tra Delrio e Minniti, allora, andò avanti per tutta l’estate. Il titolare delle Infrastrutture, ad agosto, quando la Guardia costiera soccorse una nave di Medici senza Frontiere, fece valere le convenzioni internazionali che impongono il salvataggio in mare di chi rischia di morire e il fatto che, appunto, la sala operativa della Guardia costiera deve far intervenire la nave più vicina. Delrio, che sulla questione ha un intero dossier, nota come, rispetto ad allora, gli sbarchi siano nettamente diminuiti: “Una cosa era sostenere la tesi che ci fosse un problema di ordine pubblico con 180mila sbarchi, una cosa è farlo adesso che sono diminuiti. Ma a parte questo ricordo che abbiamo abbattuto già gli sbarchi con un’azione seria, congiunta con la guardia costiera libica, gli accordi internazionali”. E ancora: “Se si vuole evitare che sbarchino i migranti in Italia non bisogna lasciare in mare 700 persone, questo è contrario a tutti i codici umanitari e di diritto internazionale”. Sulla situazione di queste ore non è secondario il fatto “che i sindaci si stanno offrendo di accoglierli i migranti”. Per sbarrarli occorre un problema di ordine pubblico, ma anche allora potevamo sempre distribuire chi sbarcava da noi. E poi, c’è un altro punto: “Per chiuderli i porti ci vuole un provvedimento. Per adesso, Salvini lo ha minacciato, ma non lo ha fatto. Certo, può sempre proporre una modifica alla legge come governo, ma per adesso di atto formale, di un testo non c’è traccia”. La parola che tiene banco nel Pd (che ha anche chiesto al governo di riferire in Parlamento sulla questione) è “propaganda”. Il capogruppo Pd alla Camera prova anche a smontarla: “La grande vittoria di Salvini consiste nel farci isolare sempre di più dagli altri grandi Paesi europei, dalla Tunisia, da Malta e dalla soluzione stabile del problema migratorio. Non è una grande strategia quella per cui la Spagna deve intervenire per evitare una grande catastrofe umanitaria”.

Ci dispiace, Salvini: tutti i disastri su immigrazione e profughi sono firmati Lega. Il Trattato di Dublino, la Bossi-Fini, gli emendamenti ai trattati Sar e Solas: se oggi ci troviamo nei pasticci con la gestione degli sbarchi e dei richiedenti asilo è tutta colpa di tre leggi ratificate dal governo Berlusconi in carica dal 2001 al 2006. Di cui la Lega era fedele alleata, scrive Francesco Cancellato il 12 Giugno 2018 su "L'Inkiesta". Trattato di Dublino, legge Bossi-Fini, emendamenti alla convenzione Sar e Solas. Segnatevi queste tre norme, perché sono loro all’origine di tutto ciò che non funziona nell’attuale gestione dei richiedenti asilo in arrivo dall’Africa, e più nello specifico nella tragica vicenda della nave Aquarius, bloccata nella crisi diplomatica tra Italia e Malta e ora, pare, diretta in Spagna. Tre norme che, curiosamente, sono state tutte approvate tra il 2001 e il 2004. Anni in cui al governo c’era Silvio Berlusconi, insieme ad Alleanza Nazionale e - udite udite! - alla Lega Nord. E insomma, è curioso che siamo proprio loro, gli incendiari di allora, a essere stati chiamati a gran voce dall’elettorato italiano per spegnere il fuoco. È curioso, ad esempio, che Salvini sbraiti contro la Convenzione di Dublino, ratificata nel 2003, secondo cui il primo Stato membro in cui vengono memorizzate le impronte digitali o viene registrata una richiesta di asilo è responsabile della richiesta d'asilo di un rifugiato. Già allora non ci voleva un genio per capire che un simile regolamento sarebbe stato un problema per i Paesi di confine, soprattutto quelli che affacciano sul Mediterraneo, in caso di crisi umanitarie. Tant’è, i nostri eroi l’hanno ratificata lo stesso. Quel che si recupera in prossimità delle coste maltesi - come i naufraghi salvati sull'Aquarius - sbarca comunque in Italia, e sbarca col foglio di richiesta di asilo politico, perché solo così si può entrare, e tocca all’Italia occuparsene, perché così hanno deciso Berlusconi, Bossi e Fini. O se preferite, Forza Italia, la Lega e Alleanza Nazionale. Nessuno, in effetti, l’aveva pensato. Ma i nostri prodi governanti di allora avrebbero dovuto immaginarlo. Il 30 luglio 2002, pochi mesi prima, era infatti entrata in vigore la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, la quale vincolava il permesso di soggiorno in Italia con un lavoro effettivo. Tradotto: se non ti chiamava qualcuno, in Italia non ci potevi entrare. A meno che. A meno che non ti definicsi, per qualche motivo, richiedente asilo politico. Risultato? Il numero dei rifugiati cresce di anno in anno, soprattutto negli ultimi tre, e il motivo è piuttosto semplice: se vuoi sperare di arrivare ovunque in Europa l’unico modo che hai per non farti rimandare a casa è fare richiesta di asilo umanitario. Del resto, se la porta d’accesso è una sola, la macchina si ingolfa e possono passare anni prima che una richiesta sia accettata o meno, e i richiedenti asilo si accumulano, di anno in anno. E sapete perché si accumulano? Perché l’anno dopo ancora i nostri eroi forza-leghisti si inventano un altro capolavoro e nel 2004 ratificano due emendamenti alle convenzioni Sar e Solas secondo i quali l’obbligo di fornire un luogo d’approdo sicuro per i naufraghi "ricade sul Governo contraente responsabile per la regione Sar in cui i sopravvissuti sono stati recuperati”. Ratificano, e probabilmente nessuno spiega loro che il fatto che la piccola isola di Malta non ratifichi sia in realtà un problema enorme, perché la sua area di search & rescue (cerca e salva) è immensa, rispetto alla sua superficie. Tradotto: quel che si recupera in prossimità delle coste maltesi - come i naufraghi salvati sull'Aquarius - sbarca comunque in Italia, e sbarca col foglio di richiesta di asilo politico, perché solo così si può entrare, e tocca all’Italia occuparsene, perché così hanno deciso Berlusconi, Bossi e Fini. O se preferite, Forza Italia, la Lega e Alleanza Nazionale. Sì, gli stessi che oggi si stringono a coorte col titolare del Viminale, nella sua strenua battaglia contro la nave Aquarius, le sue 629 anime, le organizzazioni non governative battenti bandiera di Gibilterra, i buonisti di sinistra, gli editorialisti radical chic. Non diteglielo, a Matteo Salvini, che il vero nemico, la causa di tutti i suoi crucci, ce l’ha davanti. Allo specchio.

Da Open Arms ad Aquarius, le crisi dei migranti nel Mediterraneo, scrive l'11 giugno 2018 "Lettera43.it". La nave Open Arms rimase due giorni in mare, la Cap Anamur addirittura tre settimane. La scorsa estate Minniti minacciò la chiusura dei porti. Delrio: «Erano sbarcate 12 mila persone in pochi giorni ma decidemmo comunque di tenerli aperti».  Il caso della nave Aquarius, bloccata nel Mediterraneo per la decisione del governo italiano di chiudere i porti e ora diretta verso la Spagna, che si è offerta di accogliere i profughi, non è la prima crisi dei migranti che si verifica nelle acque al largo della Libia coinvolgendo diversi Paesi.

PER OPEN ARMS DUE GIORNI IN MARE. Il precedente più recente è quello della nave della ong spagnola Proactiva Open Arms: tra il 15 ed il 16 marzo l'imbarcazione salvò 216 migranti in acque internazionali dopo un braccio di ferro con una motovedetta della Guardia Costiera libica che reclamava il carico umano. L'equipaggio della nave umanitaria parlò anche di minacce e mitragliatori puntati da parte dei libici. L'Italia non autorizzò in un un primo momento l'attracco in un porto siciliano: «Spetta alla Libia che ha coordinato il soccorso», spiegò Roma, che sottolineò anche la vicinanza a Malta. Ma la ong si rifiutò di consegnare i migranti salvati ai libici e le autorità maltesi, come di consueto, non intervennero. Dopo 24 ore a bagnomaria, la Open Arms ricevette l'ok a sbarcare a Pozzallo, in provincia di Catania.

IL CASO DELLA CAP ANAMUR. Durò invece addirittura tre settimane l'odissea in mezzo al mare della Cap Anamur, nave tedesca che il 20 giugno del 2004 salvò 37 migranti a bordo di un barcone alla deriva in acque internazionali. Il Governo italiano vietò alla nave di sbarcare sostenendo che sarebbe dovuta approdare a Malta visto che era entrata in acque maltesi oppure, data la proprietà dell'imbarcazione, la Germania avrebbe dovuto occuparsi dei profughi salvati. Lo scaricabarile durò a lungo e solo il 21 luglio il caso, che alimentò polemiche internazionali, si risolse con l'autorizzazione di Roma a sbarcare a Porto Empedocle, in provincia di Agrigento. Sul caso Aquarius si è parlato molto del fatto che anche l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti, nel luglio scorso, aveva minacciato di chiudere i porti. Il suo collega di governo, l'ex ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, intervenendo a Sky tg 24 ha raccontato come andarono le cose: «Con il ministro Minniti discutemmo di chiudere i porti in presenza di una gravissima emergenza: erano arrivati 12mila migranti in due giorni. Siccome i porti si possono chiudere solamente in presenza di gravi motivi di ordine pubblico, questo stabilisce il codice della navigazione, nonostante ci fossero problemi di accoglienza e ovviamente di sicurezza si valutò e io dissi che le condizioni dei nostri porti erano sufficientemente adeguate per poter permettere l'attracco. Poi abbiamo lavorato per evitare che queste cose si ripetessero, tanto è vero che gli sbarchi sono calati dell'85%».

GLI ACCORDI LA GUARDIA COSTIERA LIBICA. Secondo l'attuale capogruppo del Pd alla Camera non si può parlare di emergenza: «Assolutamente no, parliamo di 600 persone, 8mila chilometri di costa italiana. Ma a parte questo ricordo che abbiamo abbattuto già gli sbarchi con un'azione seria, congiunta con la guardia costiera libica, gli accordi internazionali: se si vuole evitare che sbarchino i migranti in Italia non bisogna lasciare in mare 700 persone, questo è contrario a tutti i codici umanitari e di diritto internazionale. Bisogna semplicemente lavorare con fatica e senza clamore facendo gli accordi, non isolandoci dall'Europa».

DELRIO: SBAGLIATO ALLEARSI CON ORBAN. Delrio ha poi criticato la posizione di Salvini e le sue alleanze internazionali: «Quelli che non hanno voluto i profughi arrivati sulle coste italiane sono i paesi dell'est, come l'Ungheria, con cui mi pare che il Ministro degli Interni voglia fare accordi. Mi pare che sia la strada sbagliata. Il Ministro Toninelli ha tutti gli strumenti per decidere, mi fa piacere che abbia detto che la guardia costiera svolge un ottimo lavoro, noi abbiamo difeso l'onore dell'Europa non solo dell'Italia con orgoglio, salvando vite umane. Spero che Toninelli continui su questa strada e non si faccia condizionare da questa confusione che sta cercando di creare Salvini per un po' di sua visibilità».

Quando c’era lui…Da Scelba a Kossiga: storia di sceriffi! Loro prima di Salvini, scrive Paolo Delgado il 13 giugno 2018 su "Il Dubbio". Piano con le visioni in tinta orbace e con gli appelli agli Arditi del Popolo per una rapida ricostituzione. Matteo Salvini, ringhioso per professione, non è affatto il primo a calarsi nei panni solitamente redditizi dell’uomo forte nella storia repubblicana. Ci hanno provato in molti, qualcuno ci è anche riuscito.

Il modello resta Mario Scelba, da un po’ di anni molto in voga nella sinistra antifa’ per via della legge che porta il suo nome e punisce l’apologia di fascismo. Capricci della storia, e della mancata conoscenza della stessa. Mai e poi mai il ministro degli Interni più duro nella repressione anti- operaia che ci sia mai stato avrebbe immaginato di vedersi esaltato da quelli ai quali abitualmente faceva sparare addosso senza pensarci su due volte. Per Scelba il pericolo era quello rosso, non quello nero. La legge che viene citata a sproposito ogni volta che si chiacchiera d’antifascismo era calibrata per non coinvolgere il Msi Segretario di don Sturzo, amico di De Gasperi che lo nominò ministro degli Interni nel 1947, Scelba restò in carica fino al 1955, con un breve intermezzo tra il luglio 1953 e il febbraio 1954. Anche quando si ritrovò per pochi mesi presidente del Consiglio mantenne l’interim del Viminale. Contrariamente alla vulgata, però, non fu lui a creare la famigerata Celere: ci aveva già pensato il predecessore, un socialista, Romita. Scelba si occupò però di trasformarli in reparti molto più aggressivi, con tanto di mitragliatrici e mortai in dotazione, che potevano muoversi solo su mandato del ministero. Per Scelba la guerra civile era davvero un’eventualità in agguato dietro l’angolo. Pertanto appena insediato al Viminale mise alla porta tutti gli agenti sospetti di simpatie sinistrorse e aumentò gli effettivi di 30mila unità: la polizia disponeva così di 70mila agenti affiancati da 75mila Carabinieri, non alle dipendenze del Viminale, e 45mila finanzieri. L’imponente armata si rivelò utile anche quando lo spettro della guerra civile fu fugato, dopo le elezioni del 1948. Pur se certamente disarmati, i rossi erano sempre rossi e Scelba non faceva mistero di considerarli l’avamposto di una potenza straniera. Nelle riunioni del governo era puntualmente il primo a spingere per adottare le misure discriminatorie nei confronti dei comunisti, cacciandoli ove possibile dalla Pubblica amministrazione. Il problema è che i comunisti manifestavano spesso in piazza. L’idolo dei centri sociali antifascisti del XXI secolo sapeva come trattare i sovversivi: pugno di ferro e niente guanto di velluto. Con lui al Viminale i morti durante manifestazioni furono un centinaio e passa, i feriti si contarono a migliaia. Non ci andò leggero neppure con gli arresti: 148.269 in sette anni. Non furono tutti condannati, ma il numero di quelli che in galera ci finirono non solo qualche notte è di tutto rispetto: 61.243 condannati per un totale di 20.426 anni di carcere. Al confronto quel Salvini resterà comunque e per sempre un pivello.

Anche il successore dell’impareggiabile Scelba se la tirava da uomo forte. Ma se il ministro di ferro era un combattente che credeva in quel che faceva, il nuovo inquilino del Viminale, Fernando Tambroni, era un furbo avventuriero pronto a civettare a turno con la sinistra o con la destra pur di arrivare al potere. A differenza di democristiani tosti e anticomunisti che erano stati però convinti oppositori del regime, come il ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani o lo stesso Scelba, Tambroni era stato fascista e doveva l’improvvisa ascesa in una Dc che non lo stimava affatto all’amicizia con il presidente della Repubblica Gronchi. Anche Tambroni, nei suoi cinque anni al Viminale, si atteggiò a ‘ uomo forte’. Più che i manganelli però adoperava i dossier e le intercettazioni. Fu il primo a capire e sfruttare quell’impareggiabile strumento di potere: «Io a quello gli leggo la vita» era una delle sue frasi preferite e Sergio Lepri, non ancora direttore dell’Ansa, ricevette una telefonata dal ministro in persona che lo rimproverava per cose dette in privato la sera prima. Quando Scelba fu tentato dall’idea di una scissione nella Dc, il ministro lo stroncò con la minaccia di divulgare una relazione extraconiugale. Certo dopo essersi peritato di far sparire il dossier che denunciava la sua relazione con l’attrice Sylva Koscina. Però, quando dopo aver flirtato a lungo con la sinistra (anche su mandato di Gronchi), Tambroni finì al guidare lui governo grazie ai voti del Msi e le piazze si ribellarono, l’ex ministro mise da parte i dossier e nel luglio ‘ 60 ordinò di aprire il fuoco come Scelba e più di Scelba.

Ci volle parecchio perché dalle file della Dc emergesse un altro ‘ uomo forte’. Toccò a Francesco Cossiga, ministro degli Interni nel 1976. A Cossiga il ruolo piaceva e un po’ anche lo adoperava a scopo di deterrenza. Quando, nel marzo 1977, Bologna esplose dopo l’uccisione da parte della polizia dello studente Francesco Lo Russo, “Kossiga” mandò le autoblindo a occupare la città. Una mossa in schietto stile Salvini, ma decisa nella consapevolezza che a pesare sarebbe stato il segnale simbolico non le mitragliette. Allo stesso tempo, quando il 12 marzo una manifestazione nazionale a Roma finì con una serie di attacchi contro la polizia a colpi di pistola, il ministro con la K tenne la testa a posto e contenne la reazione degli agenti, evitando probabilmente una mezza strage. Cossiga non era Scelba e neppure Tambroni. Le cose gli sfuggirono però di mano quando, dopo aver vietato ogni manifestazione a Roma in seguito all’uccisione di un agente, il partito radicale decise di festeggiare l’anniversario del referendum sul divorzio violando il divieto. Il ministro s’impuntò. La polizia si scatenò probabilmente oltre le previsioni dello stesso ministro: Giorgiana Masi fu uccisa il 12 maggio. Ma Cossiga, in quegli anni, lavorò sempre a strettissimo contatto di gomito con un altro ‘ uomo forte’, Ugo Pecchioli, anche lui a modo suo ‘ ministro degli Interni’, anche se del Pci e non del governo. Quasi sì però. La stretta emergenziale di quegli anni porta la sua firma a pari merito con quella di Kossiga. Per quanto strano sembri nella seconda Repubblica, quella con leghisti ed ex fascisti spesso al governo, gli ‘ uomini forti’ hanno sempre latitato. Come premier Berlusconi cercava casomai di andare quanto più possibile d’accordo con tutti, anche per questioni di carattere: niente a che spartire con Bettino Craxi, per i nemici ‘ Bokassa’, epitome della grinta a palazzo Chigi. Ma i suoi ministri degli Interni non erano da meno: anche Beppe Pisanu veniva della Dc ma tra lui e Scelba era più o meno il solo elemento somigliante. Qualcuno ci ha provato, Maroni, a modo suo, e lo stesso Fini, ma per fortuna non erano tagliati.

A raccogliere la fiamma è stato Marco Minniti, tanto rigido nel fronteggiare l’eterna emergenza sbarchi da meritarsi i complimenti dello stesso Salvini: «Ha fatto un discreto lavoro. Non lo cambieremo». Del resto, appena un anno fa, a minacciare la chiusura dei porti per sbarrare la strada ai profughi era stato proprio lui. Un precursore…

A LAMPEDUSA, PERSONE PER BENE.

«A Lampedusa non ci sono eroi: solo molte persone per bene». L'antropologo Marco Aime ha trascorso alcuni anni tra chi accoglie i migranti. Ne ha registrato i ricordi, le emozioni. E li ha riportati in "L'isola del non arrivo". Una lezione profonda su responsabilità e umanità, scrive Sabina Minardi il 20 marzo 2018 su "L'Espresso". Frontiera, approdo, fine e porta dell’Europa, linea di demarcazione tra vita e morte, Shangri-la della disperazione, ultima Thule della speranza. E soprattutto terra nella quale vengono al pettine, e si sciolgono, i nodi più intricati della contemporaneità: la paura dell’altro, per cominciare. I tanti razzismi, i pregiudizi religiosi, la minaccia di masse di clandestini, che si addensano lungo i confini mettendo in pericolo la sicurezza delle nazioni. «Ma come mai al Nord moltissima gente protesta contro i continui sbarchi di migranti, e rifiuta di accogliere gente fuggita dalla guerra, e da chi sta sulla prima linea della più tragica emergenza internazionale, tutti i giorni e da quasi trent’anni, non si è mai udita una lamentela?». È partito da questa domanda l’antropologo torinese Marco Aime. Per capire perché ha trascorso quasi tre anni a Lampedusa. Ha parlato con la gente dell’isola, ha registrato le loro storie. Ha scavato ben oltre quella solidarietà tipica della gente di mare. E ha riunito il risultato nel saggio “L’isola del non arrivo. Voci da Lampedusa” (Bollati Boringhieri), un collage di memorie, ricordi, impressioni. Come un diario di bordo dal centro del Mediterraneo.

«Escludendo che questa gente sia migliore di altra geneticamente, e non volendo proporre una lettura univoca e retorica dei “lampedusani tutti buoni”, l’unica strada per capire come mai quest’isola abbia dimostrato, in tutti questi anni, più propensione ad accogliere che a respingere, era ascoltare. La mia ricerca ha scelto perciò il linguaggio narrativo. Attraverso le diverse voci degli abitanti ho cercato di restituire la pluralità dell’isola».

Una terra lunga appena sei chilometri, abitata da 5.500 abitanti, soprattutto pescatori, di colpo balzata all’attenzione mondiale. A partire dalla tragedia della Tabaccara.

«Sì. Lo spartiacque è stato proprio il 3 ottobre 2013: la tragedia del barcone che, a poche centinaia di metri dalla spiaggia, si rovesciò lasciando in mare 368 morti accertati. Quel giorno è diventato un punto fisso nella memoria della gente dell’isola. Basta evocarlo, non serve aggiungere l’anno. Dire 3 ottobre è diventato come dire Natale, Pasqua, Capodanno: fa parte del calendario dell’isola e dell’esperienza di ognuno. Contemporaneamente, un fazzoletto di terra dimenticata, assente - come mi ha fatto notare il parroco - persino dalla cartina geografica del meteo in tv, diventò di colpo noto in tutto il mondo come la frontiera estrema dell’Europa. E da quel momento Lampedusa si ritrovò investita di una responsabilità fin troppo grande».

Il via vai di politici. I funerali di Stato, con le polemiche di una cerimonia ad Agrigento, senza sopravvissuti. Le televisioni di tutto il mondo puntate sullo spettacolo dell’isola. Lei sostiene che proprio questi arrivi hanno finito per tratteggiare l’identità dell’isola.

«Di sicuro l’identità di Lampedusa è legata fortemente alle migrazioni, che l’hanno fatta conoscere dappertutto. Persino il turismo ha avuto un boom, dopo questi fatti. Che piaccia o meno, l’immagine di Lampedusa non può essere disgiunta da quella di chi arriva dal mare. I migranti sono diventati uno specchio nel quale guardarsi e, anche se non per tutti, riconoscersi. Del resto, quando una piccola comunità, per un tempo tanto lungo, è sottoposta ad eventi simili, è inevitabile che si definisca su quella base. Credo anche che quando un giorno tutto ciò sarà finito, quando i riflettori saranno spenti, e gli operatori umanitari, gli osservatori, gli studiosi richiamati dal fenomeno dell’immigrazione andranno via, l’isola dovrà ricominciare a definirsi».

In realtà, tutta la storia di Lampedusa, a leggere il suo libro, è scandita dagli arrivi.

«Da sempre. Fino al 1843 l’isola era stata proprietà privata dei principi Tomasi, gli antenati dell’autore del Gattopardo. Trattarono la vendita con gli inglesi, che ne avevano intuito la posizione strategica per i commerci, ma il re di Napoli si oppose e decise di acquistarla per farne una colonia agricola nel Regno delle due Sicilie. Emanò un editto e invitò allora gli abitanti della Sicilia e di Pantelleria a popolarla. Arrivarono un centinaio di persone, e così nacque la prima comunità di Lampedusa. Qui tutti vengono da fuori. Persino oggi: nessuno nasce sull’isola. Anche perché non c’è neppure il reparto di maternità. Per partorire le donne devono trasferirsi in Sicilia».

Persino i santi qui sono stranieri, si sottolinea: san Calogero, ad esempio, era tunisino. E san Gerlando veniva da Besançon.

«In un’epoca in cui l’idea, assurda, di purezza sembra tornare di moda in tutta Europa, mi sembra che un’identità forgiata sulla mescolanza sia una lezione di civiltà altissima. Tutti, del resto, veniamo da un viaggio. Spostarsi, migrare è la cifra della nostra storia. La ricerca di risorse per sopravvivere, il bisogno di nuovi spazi, la necessità di fuggire da qualcosa o da qualcuno, la curiosità hanno sempre indotto l’uomo a muoversi da un posto all’altro».

Il suo saggio suggerisce di ripensare ai migranti a partire dalla terminologia. Qui la gente arriva, approda, naufraga, sottolinea: non sbarca.

«Emergenza, invasione. Tutti termini che inducono ansia. Poi se vai a vedere le cifre, quelle vere, si scopre che è solo una minoranza a raggiungere l’Italia dal Mediterraneo. La gente da qui passa. Arriva perché è il primo approdo. Ma vorrebbe andar via, subito, altrove. Invece, se Lampedusa a sud è confine da superare per entrare, a nord lo è per uscire. Gli abitanti di qui lo sanno. Quei pochi giorni in cui gli immigrati dovrebbero trattenersi a volte diventano settimane, mesi. E i lampedusani si sono sempre prodigati per dar loro una mano».

Ha intervistato molti pescatori, i ragazzi della Guardia costiera, i volontari del collettivo Askavusa, l’instancabile dottor Bartolo col suo ambulatorio sul mare. E gente comune, pronta ad aprire le porte di casa; a cercare di capire da Internet da cosa fuggano queste persone. Di recente, sono stati i lampedusani stessi a denunciare le vergognose condizioni nelle quali sono costretti a vivere un centinaio di tunisini, a hotspot chiuso. Mai una protesta?

«Non sto dicendo che Lampedusa sia il paradiso. Ma se opposizione c’è non è mai contro i migranti ma contro le istituzioni, quando sono incapaci di gestire i numeri e dare un’assistenza adeguata. Ci sono stati momenti di tensione: contro i media, ad esempio, per aver dato un’immagine dell’isola distorta, pericolosa per il turismo. O nel 2011, in occasione della cosiddetta “invasione dei tunisini”, ma sempre per motivi molto specifici: anche in quel caso la maggior parte dei pasti ai migranti fu fornita dalla gente. La verità è che se ti ritrovi lì, sul molo Favaloro; se vedi con i tuoi occhi chi è sfuggito alla morte, non esistono teorie, statistiche, clandestini. La priorità ti è chiara: salvare vite. Sa cosa mi hanno detto tutti i pescatori? “Prima di tutto io li salvo, poi a terra si vedrà”. A Lampedusa non ci sono eroi. Ci sono solo molte persone per bene».

ED ANCORA IL SOLITO FASCISMO. I SOLITI RAZZISTI. I SOLITI SCIACALLI.

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.

Matteo Salvini, per Marco Travaglio sta con il folle che ha sparato a Macerata, scrive "Libero Quotidiano" il 4 Febbraio 2018. Non basta la netta condanna del gesto di Luca Traini, l'uomo che ha aperto il fuoco contro gli immigrati a Macerata. Non basta a Laura Boldrini ma neppure a Marco Travaglio, che sul suo Fatto Quotidiano, in prima pagina, si cimenta in un titolo vergognoso sulla vicenda. Nel mirino c'è Matteo Salvini. Dunque, il titolo: "Fascio-leghista spara sui migranti: Salvini e Forza Nuova con lui". Insomma, secondo il Fatto di Travaglio il leader del Carroccio starebbe con Luca Trani. Una totale falsità. Discorso differente per Forza Nuova che è apertamente scesa in campo al fianco dello squilibrato affermando di volerne pagare le spese legali.

Il razzista e gli sciacalli. Raid a Macerata: un folle spara, ferisce 6 stranieri e grida «Viva l'Italia» Era candidato per la Lega. E la sinistra attacca: «Salvini è il mandante» L'omicidio di Pamela ultima scintilla. L'Italia rischia il collasso sociale, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 04/02/2018, su "Il Giornale". Tanto tuonò che piovve. Una tempesta si è abbattuta ieri sulla campagna elettorale seminando lo scompiglio. Un segno profondo che ha la faccia poco rassicurante di un ragazzo di Macerata che ieri ha scorrazzato in auto per la città sparando a tutti gli immigrati che gli si presentavano a tiro. Si chiama Luca Traini, ha 28 anni, è in cura psichiatrica. Quando lo hanno fermato aveva già ferito sei persone. Non ha opposto resistenza, si è avvolto le spalle con un tricolore e ha fatto il saluto romano davanti a un monumento dei caduti. Questa è una storia di follia mixata a odio e violenza, dello sfregio alla nostra bandiera che mai potrà sventolare come paravento di un assassino, per di più razzista. Ma in questa storia tragica c'è di più, cioè non aver voluto ascoltare i tuoni che da anni rimbombano nelle nostre città esasperate da una criminalità d'importazione impunita e che negli ultimi giorni scuotevano proprio l'aria di Macerata. Città nella quale un immigrato nigeriano, pregiudicato e spacciatore - da tempo doveva essere espulso - ha prima ucciso e tagliato a pezzi una giovane, Pamela, poi occultato i resti dentro due valigie. Un pazzo italiano che si vendica di un pazzo clandestino nigeriano. Parlare del primo più che del secondo è pericoloso, soddisfa le esigenze elettorali della Boldrini ma non porta alla soluzione del problema. Se, come le sinistre sostengono in queste ore (io non ci credo) Luca Traini è la prova che stiamo diventando un Paese razzista, allora gli stessi devono ammettere che il nigeriano di Macerata che ha fatto a pezzi Pamela è la prova che l'immigrazione, così come la politica e la magistratura l'hanno permessa e gestita, è un fenomeno criminale da combattere e stroncare. Luca Traini passerà giustamente tanti anni in carcere, e la società non ne sentirà la mancanza. Ma proprio per questo pretendiamo che altrettanto rigore a norma di legge venga messo in atto con chiunque si trovi sul suolo nazionale. E il nigeriano assassino di Pamela non avrebbe dovuto trovarsi a Macerata, ma in galera o a casa sua. Il fatto che ciò non sia avvenuto non giustifica nulla, tanto meno un raid razzista. Ma adesso basta giocare col fuoco, perché - matti o non matti - era evidente che prima o poi ci si sarebbe scottati. E ai piromani bisogna togliere il combustibile, altrimenti rischiamo l'incendio.

Traini, il fascista perfetto, scrive Luigi Iannone il 4 febbraio su "Il Giornale". Luca Traini è il fascista perfetto. L’uomo che ha terrorizzato la città di Macerata, esplodendo colpi da un’auto in corsa verso tutte le persone di colore, nella stessa zona dove abitava quel nigeriano che ha seviziato la giovane Pamela per poi farla a pezzi e riporla in due valigie, è il fascista perfetto. È il fascista perfetto perché pare avesse alle spalle una candidatura alle comunali per la Lega di Salvini e dunque ha le stimmate per essere considerato tale. Quando poi è stato preso dalle forze dell’ordine, si è tolto il giubbotto, si è messo sulle spalle una bandiera italiana e ha ostentato il saluto romano dai gradini del monumento collocato nella piazza del paese. Cosa volete di più? Sì, Luca Traini è il fascista perfetto nella basica e fanciullesca suddivisione del mondo e degli uomini da parte delle Boldrine e dei Fiano. Fanciullesca ma non ingenua. Quale infatti migliore sintesi del male, della propaganda razzista, del nostalgismo imperante, della figura reale di uno che spara all’impazzata contro gli africani? Quale migliore simbologia per testimoniare la ‘bontà’ di quanto va dicendo il deputato Emanuele Fiano sui rigurgiti neofascisti? Quale liturgia sarebbe stata superiore e più accattivante per ridestare certa estetica? Quale miglior fantoccio da apporre nella cosmogonia democratico-progressista che sempre si fonda su fratture di tipo manicheo. Un bianco che spara ai neri, già candidato con la Lega e che, nel momento dell’arresto, si avvolge col tricolore e fa il saluto romano, è il compendio visivo di tutto quanto detto in questi ultimi mesi. È la chiusura del cerchio; la dimostrazione che punire apologia e propaganda è solo il minimo che si possa fare, la premessa per un impianto legislativo ancora tutto da costruire e quindi ai primordi. Da questo punto di vista (dal loro punto di vista) la questione è risolta. La tipologia del nero (il ‘fascista’, non il ‘nigeriano’) collima ampiamente con quella che frulla nella testa dei progressisti nostrani e fornisce prove che i problemi sociali siano alimentati da uno schieramento politico-culturale che artatamente alimenta la fiammella dell’intolleranza. Non esistono problematiche di tali dimensioni e pervasività sociale, oppure esistono ma in misura circoscritta, mentre sarebbero esclusiva colpa dei deliranti strepitii delle varie destre e il rivoltante livello demagogico ad alzare l’asticella. E perciò Luca Traini, oltre al fatto criminale in sé, all’idea folle e insulsa di punire una intera etnia, all’aver messo in pericolo la vita di decine di innocenti e aver spaventato a morte una intera comunità, ha completato l’opera con una liturgia simbolica che, nei prossimi giorni, diventerà solluchero per molti subdoli opinionisti i quali non vedevano l’ora di farci ripiombare al clima degli anni Settanta mediante la solita caccia alle streghe generalizzata. E allora, non più solo il fascista ipotetico o reale, ma il leghista, il destrista, il conservatore e anche tutti coloro che hanno una visione ed una idea dell’immigrazione molto lontana da quella ecumenica e fondata sull’accoglienza deregolamentata, saranno messi all’indice e intimati al silenzio. Pena l’accusa di istigazione al crimine. Nel nostro Paese, il dibattito sul fenomeno migratorio è penoso di per sé e si connota di schematismi a volte reali, quasi sempre invece pretestuosi e utili alla propaganda dell’una e dell’altra parte. Mai duramente articolato e complesso rispetto ad una realtà contemporanea che è, invece, complicata e satura di contraddizioni. Ora che si è però materializzato il fascista perfetto nella figura di questo Luca Traini, nelle menti dei progressisti nostrani scatterà la libido del trofeo da mostrare; il giocattolo da esibire ogni qual volta un interlocutore mostrerà con la dovuta asprezza le sue posizioni nette sul tema dell’immigrazione.

Macerata, la sinistra strumentalizza. Ma gli italiani sono davvero fascisti? Scrive Marcello Foa il 4 febbraio 2018 su "Il Giornale". Questa mattina ho partecipato alla puntata di Omnibus su La 7, condotta da Frediano Finucci, e dedicata ai fatti di Macerata. Puntata vivacissima durante la quale ho contestato le tesi di alcuni ospiti, in particolare dell’esponente della lista Più Europa della Bonino Piercamillo Falasca e dello scrittore Fulvio Abbate. In particolare disapprovo il tentativo di criminalizzare chiunque abbia delle riserve sull’immigrazione incontrollata, perché è questo discorso che sta emergendo a sinistra e sostenuto dalla narrativa di molti media, a dispetto del fatto che l’immigrazione sia considerata una minaccia dal 60% degli italiani, come emerso dai sondaggi spiegati in studio da Elena Melchioni. Lo scopo del mondo “progressista” è di cambiare il giudizio collettivo, facendo leva sul senso di colpa e lasciando intendere che il gesto di Luca Traini non sia quello di un disadattato squilibrato, come io ritengo, bensì il sintomo di un rinascente fascismo in Italia. In studio si sono sentite affermazioni come quelle secondo cui l’animo dell’80% degli italiani è fascista (parola di Abbate), che io ho contestato duramente: grazie al cielo dal 1945 l’animo degli italiani è profondamente democratico e la presenza di liste politiche così variegate lo dimostra. Catalogare come fascisti la stragrande maggioranza degli italiani è grave e inaccettabile. Falasca ha persino proposto l’equazione, presentandola come un dato di fatto, che chi è sovranista (e dunque è contro l’Unione europea e per l’uscita dall’euro) è razzista e fascista. Un’altra operazione, vergognosa, di manipolazione semantica.

Ho l’impressione che queste scomposte reazioni della sinistra ai fatti di Macerata finiranno per ritorcersi contro chi li promuove, per una ragione molto semplice. Tutti gli italiani di buon senso, e sono la quasi totalità, inorridiscono di fronte ai folli tentativi di vendetta di Traini, ma molti di loro – a mio giudizio la maggioranza – si ribella alle strumentalizzazioni di chi, in seguito a un singolo episodio, pretende di spalancare le porte dell’Italia ai migranti e, soprattutto, di mettere a tacere chi dice basta a un’immigrazione incontrollata. Più la sinistra darà voce ai Saviano, agli Abbate e ai Falasca e più Matteo Salvini guadagnerà consensi, anziché perderne. Ricordatevelo.

Nicola Porro: Macerata e gli Sciacalli contro Salvini, scrive il 3 febbraio 2018 Imola Oggi. Il delinquente di Macerata e i commenti di Saviano, Boldrini e Grasso che come prima cosa attaccano Salvini. Ecco perchè li metto allo stesso livello degli haters dei social network…“Quanto accaduto oggi a Macerata dimostra che incitare all’odio e sdoganare il fascismo, come fa Salvini, ha delle conseguenze: può provocare azioni violente e trasforma le nostre città in un far west seminando panico tra i cittadini. Basta odio, Salvini chieda scusa per tutto quello che sta accadendo”. Lo ha scritto la finta nemica dell’odio, Laura Boldrini, su Facebook. “Le notizie che arrivano da Macerata mi lasciano attonito e inorridito. Chi, come Salvini, strumentalizza fatti di cronaca e tragedie per scopi elettorali è tra i responsabili di questa spirale di odio e di violenza che dobbiamo fermare al più presto. Odio e violenza che oggi hanno rischiato di trasformarsi in una strage razziale”. Lo afferma l’altro finto nemico dell’odio, Pietro Grasso, leader di Liberi e uguali, su facebook. “Il nostro paese – prosegue – ha già conosciuto il fascismo e le sue leggi razziali. Non possiamo più voltarci dall’altra parte, non possiamo più minimizzare”. A poche ore dai fatti, Roberto Saviano scrive un post su Facebook in cui punta il dito contro Matteo Salvini: “ll mandante morale dei fatti di Macerata è Matteo Salvini. Lui e le sue parole sconsiderate sono oramai un pericolo mortale per la tenuta democratica. Chi oggi, soprattutto ai massimi livelli istituzionali, non se ne rende conto, sta ipotecando il nostro futuro”. Poco dopo lo scrittore partenopeo scrive un tweet, sempre in merito alla vicenda, rivolto però ai media: “Invito gli organi di informazione a definire i fatti di Macerata per quello che sono: un atto terroristico di matrice fascista. Ogni tentativo di edulcorare o rendere neutra la notizia è connivenza”.

Due miliardi per le espulsioni. Ma l'accoglienza ne costa dieci. In Italia 600mila clandestini, fra i 3 e i 4mila euro per ogni rimpatrio. In tre anni abbiamo speso cinque volte di più, scrive Antonella Aldrighetti, Giovedì 08/02/2018, su "Il Giornale". Il piano per il rimpatrio degli immigrati irregolari che il presidente Silvio Berlusconi vuole attuare per riportare nel paese d'origine i 600 mila stranieri, che non hanno diritto all'asilo e alla protezione internazionale e che costerebbe attorno ai 2 miliardi di euro, si dimostra addirittura a buon mercato rispetto a quanto l'Italia ha impegnato per l'accoglienza negli ultimi tre anni: ben 10 miliardi. Le risorse del piano rimpatri servirebbero essenzialmente a far funzionare il meccanismo a partire dall'abolizione dei permessi umanitari, alla velocizzazione delle pratiche burocratiche in capo alle prefetture fino a destinare, una piccola parte dei soldi impiegati oggi per l'accoglienza, ai percorsi di accompagnamento nella terra d'origine dei singoli stranieri. Vale a dire che se ne spenderebbero 2 a fronte di 10. Diversamente l'Italia potrà essere costretta a sborsare annualmente la medesima quantità di risorse per quella che di fatto non è mera accoglienza piuttosto una completa presa in carico dell'immigrato. Già perché nei 10 miliardi di euro impegnati tra il 2015 e il 2017 è compreso l'intero pacchetto di servizi che i faccendieri della solidarietà (cooperative sociali, ong e onlus), ossia attori economicamente forti in fatto di numeri e capacità gestionali, offrono alle prefetture da nord a sud dividendosi e subappaltando efficacemente fette omogenee di mercato. Sono loro infatti che si assicurano i contratti per l'ospitalità, organizzano la gestione dei centri d'accoglienza straordinari, quelli dei minori non accompagnati, i servizi per i richiedenti asilo e non ultimo, curano l'interpretariato e la mediazione culturale. La quota giornaliera per ogni immigrato assistito è di 45 euro lordi (35 euro più iva) e comprende alloggio, vitto, abbigliamento, assistenza sociale, linguistica e psicologica e sanitaria. Nell'intero calmiere del dispendio non possono mancare i servizi di supporto alla commissione territoriale durante i colloqui di chi richiede l'asilo. Parcelle orarie, per traduttori di lingue sconosciute ai più, dialetti e idiomi quasi estinti, che partono dai 20 euro fino a 27. Oltre alla quota parte, dell'ordine delle centinaia di migliaia di euro, destinata al trasporto degli stranieri, nonché i contributi per i progetti cosiddetti Sprar (Servizi protezione richiedenti asilo e rifugiati) destinati direttamente ai singoli comuni. Voci di spesa aggiuntive sono quelle riferite ai programmi di rimpatrio volontario assistito: un flop in piena regola che per il biennio corrente sta costando 8 milioni di euro e avrebbe lo scopo di reintegrare a casa propria un centinaio di migranti economici. E non è finita qui. Non è da trascurare anche la spesa extra per le manutenzioni ordinarie e straordinarie dei centri hotspot. Per quello di Lampedusa ad esempio sono a disposizione 980 mila euro per la prossima ristrutturazione del complesso. Soldi erogati direttamente dal ministero dell'Interno alla prefettura, stazione appaltante Invitalia. Negli ultimi due anni la presa in carico dei migranti è stata arricchita e affiancata da programmi aggiuntivi in sinergia tra istituzioni e terzo settore. Pubblicazioni patinate dispendiose, firmate da autorevoli figure istituzionali dei vari dipartimenti del Viminale. Molto spesso sono le stesse coop e onlus che gestiscono i servizi primari a ingegnarsi per stilare progetti dai titoli e dalle apposizioni ridondanti e ipocritamente accorate che sottendono concetti di integrazione e inclusione sociale. Spesso solo chiacchiere che denotano il fardello dell'approccio italiano alla gestione della migrazione e il perché di una quantità di denaro impressionante.

"Sull'accoglienza troppi sprechi. Da 35 euro al giorno si arriva a 168". I giudici contabili: "Sistema costoso, inefficiente e sommario", scrive Antonella Aldrighetti, Mercoledì 21/03/2018, su "Il Giornale". Costoso, inefficace e sommario. Il sistema di gestione dell'accoglienza agli immigrati finito sotto la lente della Corte dei conti ha messo in luce, in un compendio di 150 pagine, tutte le evidenti criticità del fenomeno. Il documento tecnico contabile ha analizzato, specificatamente per il triennio 2013/2016, la prima accoglienza ossia i servizi resi agli stranieri dallo sbarco fino alla sistemazione nei Cas e successivamente nei Cara. Sono emersi costi elevati a fronte di servizi scarsi, assenza di controlli fiscali adeguati, tempi lunghi per identificazione e domande di asilo, governance territoriale carente da parte del Viminale nei centri di raccolta. Oltre a osservazioni esplicite che i magistrati hanno espressamente valutato come poco attente nel riconoscere la cosiddetta protezione umanitaria: «Si dovrebbe evitare di riconoscere un diritto di permanenza indistinto a tutti coloro che sbarcano» hanno scritto. Tuttavia quando si vanno a esaminare i costi per le suddette disamine dei documenti per le richieste di asilo viene fuori che nel 2016 sono stati impegnati ben 13,4 milioni di euro mentre, dal 2000 a oggi ben 54,5 milioni. Vale a dire che in media per valutare l'ipotesi di protezione di ogni immigrato, tra il 2008 e il 2016, si è speso 203,95 euro. Troppo a fronte del fatto che meno del 10 per cento viene classificato di fatto un rifugiato. I magistrati contabili inoltre dopo aver puntato l'indice hanno anche comminato la dovuta sanzione sulle inadempienze contabili di alcune prefetture che accertavano le spese avvalendosi di autocertificazioni a firma di coop e onlus che si occupavano del servizio di accoglienza. L'indagine puntuale è stata svolta in 4 prefetture campione: Treviso, Prato, Avellino e Reggio Calabria. Nella struttura di Avellino il costo di un migrante è arrivato a toccare i 50,39 euro al giorno + iva ovviamente (a fronte dei 35 + iva); quanto presso il Cas di Reggio Calabria sono emersi una serie di affidamenti diretti troppo agevoli rispetto alle modalità consuete che prevedono invece appositi bandi di gara. Un'attenzione ulteriore ha riguardato il Cie di Modena (Centro identificazione ed espulsione): il costo quotidiano per ogni immigrato detenuto è stato valutato da 56,16 euro fino a 167,81.

L'Ue tradisce l'Italia sugli immigrati: agli altri Stati miliardi, a noi pochi milioni. Così Bruxelles ha abbandonato il nostro Paese, da sempre in prima fila nel gestire l'accoglienza degli immigrati: pochi fondi e leggi ingiuste, scrive Ivan Francese, Martedì 20/03/2018, su "Il Giornale". Si dice spesso che l'Italia dà all'Europa più di quanto riceva: sicuramente è vero per quanto riguarda la prima accoglienza degli immigrati. Questo dato emerge chiaramente se si guardano le cifre degli stanziamenti degli ultimi anni. Dal 2015 al 2017, scrive Il Messaggero, Bruxelles ha messo a disposizione dei 28 Stati membri 7,6 miliardi di euro per la prima accoglienza, oltre ai 3 destinati alla Turchia per bloccare i flussi di migranti lungo la rotta balcanica in seguito all'accordo stipulato con Ankara nei primi mesi del 2016. Di questa mole immensa di denaro però, ricorda il quotidiano capitolino, solo pochi milioni sono finiti all'Italia, che pure è anche fisicamente in prima linea nella gestione della crisi. Si pensi che al nostro Paese l'accoglienza è costata 1,7 miliardi di euro nel solo 2015, di cui 1,29 per la prima accoglienza, 266 milioni per la seconda accoglienza e 111,5 milioni per assistere i minori stranieri non accompagnati. Dalla Ue sono arrivati 8,1 milioni attraverso Frontex e 38,7 dal fondo comunitario per asilo, migrazione e integrazione: praticamente briciole.

I mancati ricollocamenti. Inoltre i nostri governi hanno dovuto anche fare i conti con i costi derivanti da un'altra deficienza della Ue: i mancati ricollocamenti degli immigrati già presenti sul suolo nazionale verso gli altri Stati membri. A fine ottobre i ricollocamenti dall'Italia erano circa 10mila ma dovendo condividere la quota con la Grecia ne mancano ancora quasi 30mila. Al 15 ottobre dello scorso anno la Corte dei Conti calcolava che l'Italia aveva sborsato ben 762,5 milioni di euro per le mancate ricollocazioni verso gli altri Paesi, come è attestato dalla Relazione sulla gestione del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo 2013-2016 appena licenziata dai giudici contabili. E anche il Viminale nella direttiva del 2018 chiarisce che "nonostante la virtuosa pianificazione di rientro di situazione pregresse, l'assenza del necessario e cospicuo aumento delle risorse destinate alla gestione del sistema di accoglienza, comporterà continue richieste di integrazione fondi, in assenza delle quali verrebbero a generarsi debiti fuori bilancio". Insomma: i soldi a disposizione non bastano. E per una volta sarebbe un bene che si muovesse anche la Ue.

I conti delle coop sui migranti nascosti dai siti del governo. Sui siti delle prefetture lacune sulle rendicontazioni dei costi dell'accoglienza ai migranti: dati mancanti o presentati in confusione, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 02/11/2017, su "Il Giornale". La parola magica è “Amministrazione trasparente”. O almeno dovrebbe esserlo. In tanti l’hanno invocata, ma in pochi sembrano praticarla. Soprattutto in tema di immigrazione. Già, perché per quanto nel lontano 2014 Matteo Renzi avesse promesso di mettere online “ogni singolo centesimo di spesa pubblica”, in realtà i buoni intenti sono rimasti lettera morta. E dove servirebbe chiarezza, come nella gestione delle ingenti risorse destinate ai migranti, in realtà regna il grigiore. Ad aprile (dati del Ministero dell'Interno) sui 177.505 stranieri presenti sul territorio nazionale, ben 137.599 vivevano nelle strutture temporanee (Cas) gestiti dalle Prefetture e solo 23.867 nei posti "d'eccellenza" Sprar coordinati dai Comuni. Poi ci sono altri 2.204 migranti sistemati negli Hotspot e 13.835 negli hub di primo soccorso. Tradotto in percentuali, significa che l'80% degli stranieri (e delle risorse economiche) finisce nelle mani di imprenditori che hanno fatto dell'immigrazione una nuova attività economica. Un po' di chiarezza su come vengono spesi i soldi sarebbe necessaria, no?

Speranza vana. I dati dei pagamenti risultano occultati, presentati in confusione o nascosti nei luoghi più improbabili dei siti internet delle Prefetture. Il risultato? Per un normale cittadino diventa impossibile sapere quanti milioni di euro delle sue tasse finiscono a questa o a quell’altra cooperativa. Un governo “trasparente” dovrebbe fornire in maniera semplice e rapida alcune delucidazioni ai contribuenti: quali sono i centri di accoglienza in ogni provincia, quali le associazioni impegnate coi profughi e quanto incassano ogni anno. Ma nessuno di questi dati è facilmente accessibile online. E pensare che la legge sull’anti corruzione prevede che le “stazioni appaltanti” siano tenute a pubblicare nei loro siti web istituzionali le informazioni base sulle procedure di tutte le gare, comprese quelle sull’accoglienza. Una tabella ordinata dovrebbe indicare la struttura proponente, l’oggetto del bando, l’elenco degli operatori invitati a presentare le offerte, l’aggiudicatario, l’importo complessivo e pure le somme liquidate alle singole coop. Le prefetture in effetti mettono a disposizione un’apposita sezione chiamata - appunto - “Amministrazione trasparente”. All’interno ci si aspetta di trovare l’Eldorado dei documenti, ma spesso si rimane delusi. La prefettura di Ragusa ha la pubblicazione delle gare (secondo la L. 190/2012) ferma al 2013. Un po’ in ritardo, non pensate? Roma fa un po’ meglio, ma non va oltre il 2015. Siena? Idem. Salerno invece ha rendicontato 720 euro per la manutenzione dell'impianto elettrico della Polstrada, ma non le spese per i migranti. Vibo Valentia lo stesso, eppure l’appalto l’anno scorso è stato vinto da qualcuno: l’associazione “Da donna a donna” qualche somma l’avrà pure incassata, no? Frosinone invece fornisce solo il dato aggregato: accordo quadro da oltre 28 milioni di euro e poi giù una sfilza di vincitori. Ma le singole coop, quanto si beccano?

Per carità: ci sono anche esempi lodevoli, amministrazioni che divulgano l’elenco completo delle procedure d’appalto. Ma in generale regna il caos. Soprattutto quando si cerca di ricostruire il processo di assegnazione dei milionari bandi dell’accoglienza. Dei contratti dettagliati tra Stato e cooperative, neppure a parlarne. La lista delle strutture con il numero di immigrati presenti? Solo Napoli, Aosta, Cosenza e poche altre. La maggioranza delle prefetture non la fornisce. Latitano pure i verbali delle commissioni, gli avvisi di post-informazione e le aggiudicazioni definitive. E pensare che la legge parla chiaro: “La trasparenza è intesa come accessibilità totale alle informazioni” della Pa, così da permettere il controllo “sull'utilizzo delle risorse pubbliche” da parte del cittadino. Solo parole: fatta la legge, trovato il cavillo. Quando a fine 2015 la campagna “InCAStrati” fece ufficiale istanza di accesso civico per conoscere il numero complessivo dei centri profughi, la loro ubicazione e chi fossero gli enti gestori, Ministero e prefetture risposero picche. Affermando che le “informazioni richieste non sono soggette ad obbligo di pubblicazione”. Viene da chiedersi allora per quale motivo alcuni enti territoriali del governo abbiano i documenti completi e visibili (per esempio: Torino e Firenze), mentre molti preferiscano divulgare dati incompleti o del tutto inutili. A Udine l’albo dei fornitori è fermo al 2014. A Oristano se si cercano dettagli sui “contratti” si trova solo una cartella vuota. A Cesena la sezione degli “avvisi di aggiudicazione” è “in corso di aggiornamento”. E chissà da quanto. Una cosa è certa: tutta questa confusione, se non è serve ad occultare i costi dell’accoglienza, di certo non aiuta a sollevare il velo di mistero che li avvolge. Alla faccia della trasparenza.

Milena Gabanelli: "Sparatoria contro gli immigrati solo un orrendo fatto di cronaca nera", scrive il 7 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Una lezione a tutta la sinistra e ai suoi toni apocalittici sul "ritorno del fascismo". E' quella che Milena Gabanelli, ex anima storica di Report e oggi giornalista per il Corriere della Sera, ha impartito stamattina parlando del caso di Macerata ai microfoni di Radio Cusano Campus. "Penso che di questi fatti più ne parliamo più si innesca un effetto detonatore. Preferirei circoscriverlo ad un orrendo fatto di delinquenza. L'effetto che si produce rischia di essere quello di aizzare gli animi torbidi. Bisogna riferire il fatto di cronaca in sé e basta. Il pericolo che ci siano tanti Traini in giro per l'Italia? In ognuno di noi c'è un potenziale animale, quindi penso che il problema sia un altro. Invece di continuare ad analizzare un animo umano disagiato penserei a come risolvere un disagio reale che sta fuori. Vale a dire, come gestiamo questa accoglienza? Il problema da risolvere è quello. Il resto sono patologie che devono essere prese in cura da un altro tipo di professionisti".

Pamela Mastropietro, lo strazio della mamma in piazza a Macerata: incontra un nigeriano, la sua reazione, scrive il 7 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano". Un gesto a sorpresa, che ha spiazzato Macerata e ridato sollievo e speranza a una comunità distrutta dal dolore. Alessandra Verni, mamma della povera Pamela Mastropietro, la 18enne romana morta e fatta a pezzi dopo essere scappata da una comunità di recupero di Corridonia, è scesa in piazza nella cittadina marchigiana per una fiaccolata insieme al padre e allo zio della ragazza. Tra le 200 persone che hanno partecipato alla manifestazione si è fatto avanti un ragazzo nigeriano, connazionale dei due spacciatori finora accusati di vilipendio e soppressione di cadavere (non di omicidio, perché il sospetto è che Pamela possa essere morta per overdose). "Voglio chiedere scusa per tutto quello che le è stato fatto - ha detto alla signora Verni -, non so se può servire, ma chiedo scusa a nome di tutta la mia comunità. Prego Dio che le violenze finiscano qua, che non ci sia altro sangue, dobbiamo unirci per la pace". La mamma di Pamela, commossa, l'ha abbracciato: "Non sei tu che hai fatto a pezzi mia figlia". Una straordinaria lezione di umanità dopo le polemiche suscitate da un'altra dichiarazione della Verni, che ringraziava Luca Traini (l'uomo che ha cercato di fare strage di africani dopo la morte di Pamela) per aver acceso un cero nel luogo in cui sono stati trovati i poveri resti della figlia.

Macerata, quelle dichiarazioni e quel business che non ci piacciono…scrive Nicola Porro il 7 febbraio 2018. Sui fatti di Macerata si continua a parlare. E quasi sempre a vanvera. Sentite cosa dice Giancarlo Borgani, avvocato del nigeriano accusato di essere il complice di Innocent Oseghale. Roba da non credere! E non finisce qui. Nella seconda parte di questo breve video, insieme al giornalista Carlo Cambi, tratto di un business che a Macerata è fiorito… 

Gli affari d’oro dei profughi di Macerata, su "La Verità (direttore Maurizio Belpietro) del 7 febbraio 2017. L’accoglienza è la prima industria della città. La Onlus che ospitò il nigeriano accusato del massacro di Pamela ha oltre 400 dipendenti e bilanci milionari, in continua crescita, che però non certifica. E nei quali spuntano misteriose donazioni.

Gus, dai profughi al terremoto: bilancio di 20 milioni di euro. L’intervista, Bernabucci: lavoriamo bene ed è tutto controllato, scrive Paola Pagnanelli il 23 luglio 2017 su “Il Resto del Carlino”. Partito da Macerata nel 1993 in seguito all’emergenza umanitaria nei Balcani, il Gruppo umana solidarietà «Guido Puletti» ha chiuso il 2016 con un bilancio di 20 milioni di euro: una cifra impressionante, che infatti ha attirato l’attenzione della stampa nazionale. Come si legge dal bilancio pubblicato sul sito della onlus, tra le entrate del Gus ci sono nove milioni di euro di crediti dalle prefetture e altri sette milioni di crediti dal sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Il bilancio è cresciuto progressivamente negli anni, man mano che l’associazione vinceva bandi pubblici, soprattutto per l’accoglienza agli immigrati che segue per 24 Comuni italiani, ma anche per la gestione delle emergenze dall’Emilia all’Abruzzo per il terremoto, e i progetti di sostegno al disagio: tante iniziative, che hanno portato la onlus guidata Paolo Bernabucci anche all’estero, in Nepal, in Sri Lanka e poi altrove. Ma questo, assicura il presidente, non è un business, e non ci sono polemiche da montare: «La verità è che la nostra è una realtà che funziona: diamo lavoro a quasi 500 persone, e chi ci sceglie lo fa perché vede come lavoriamo».

«Il nostro bilancio è pubblico, come ogni anno lo abbiamo messo sul sito e tutti possono vedere da cosa è composto e come sono utilizzati i soldi». Il presidente del Gus Paolo Bernabucci non vuole sentire parlare di polemiche sul business degli immigrati, sebbene la sua onlus abbia un bilancio annuale di venti milioni di euro. 

Ma come si arriva a una cifra così elevata? 

«Noi lavoriamo molto e in tante città. Non è volontariato: ci sono poco meno di 500 persone che abbiamo assunto regolarmente in tutta Italia, psicologi, assistenti sociali, commercialisti, gli appartamenti e gli alberghi e altro, che vanno pagati. C’è un’organizzazione che nasce a Macerata e poi ha iniziato a lavorare anche fuori di qui. Non capisco dove sia il problema, forse siamo troppo grossi per Macerata».

Il problema nasce perché tutti questi soldi fanno pensare a un grosso affare. 

«Se ci sono organizzazioni truffaldine, che sfruttano i progetti sugli immigrati, non vuol dire che siano tutte così, o che il Gus sia così. Anche il Filo d’oro o Emergency hanno bilanci importanti. Noi lavoriamo per le prefetture e i Comuni, con i bandi pubblici, non prendiamo soldi dopo trattative private, e quello che facciamo viene continuamente controllato dalle prefetture e dal ministero. I soldi che riceviamo servono per erogare servizi, e dal bilancio si vede: siamo trasparenti».

Molti si lamentano, perché dicono che in città ci sono moltissimi immigrati che ciondolano in giro senza far nulla. 

«Macerata città ospita meno richiedenti asilo di Ancona o Ascoli, e il dato provinciale invece è nella media. I ragazzi che seguiamo noi fanno corsi di italiano e molte altre attività, come di recente i mondiali antirazzisti. Poi bisogna dire due cose: in primo luogo non tutti i richiedenti asilo in città sono seguiti dal Gus, e poi ci sarà anche qualcuno che va a spasso, ma se dà fastidio che ci siano persone di colore in giro, è un’altra questione. Ma non credo ci siano tante lamentele su questo, qualcuno sta cercando di montare una polemica che non esiste». 

Le proteste ci sono, sia sul giro di soldi che sul numero di richiedenti asilo in città.

«Ma non hanno senso. Il nostro lavoro è soggetto a continue verifiche e ispezioni, e aggiungo anche che siamo valutati tra i migliori in Italia nel nostro campo. Per questo lavoriamo molto e il bilancio aumenta. Pensi solo che per l’emergenza sisma il Gus ha raccolto quasi 500mila euro di donazioni, arrivate da realtà come la Fondazione La Stampa di Torino o il gruppo De Agostini: se hanno scelto noi per le donazioni, è perché evidentemente si fidano di come usiamo questi fondi».

E come li avete usati?

«Sull’emergenza sisma siamo al lavoro dal 24 agosto senza interruzioni. Abbiamo risolto moltissimi problemi pratici dei terremotati di Abruzzo e Marche, dal modulo per l’allevatore che deve rimanere vicino alla sua azienda al generatore di corrente, arrivando prima dello Stato. Dieci persone di media lavorano gratuitamente per fronteggiare le necessità di questo ultimo terremoto, come fatto in passato. Ma di questo si preferisce non parlare». 

FdI: «Macerata non è razzista, il problema sono droga e accoglienza opaca».  LE REAZIONI - I rappresentanti di Fratelli d'Italia sulla morte di Pamela e l'attacco di Traini. Renna: «Finalmente il sindaco ammette la situazione». Ciccioli: «Le associazioni che gestiscono gli arrivi hanno rovinato la città» e aggiunge «lotta senza quartiere alla malavita per cui gli immigrati che escono dai progetti sono manodopera gratis». Domani nel capoluogo manifestano Forza Nuova e Movimento nazionale, scrive lunedì 5 febbraio 2018 Federica Nardi su "Cronache Maceratesi". «A Macerata gira troppa droga. Togliamoci i tappi dagli occhi e combattiamola. Pretendo dal prefetto la lotta alla droga e al degrado», dice Paolo Renna. Carlo Ciccioli, a domanda diretta risponde: «lotta senza quartiere alla malavita, alla Camorra, che sono soddisfattissimi di questo esercito di disperati (gli immigrati, ndr) che per loro è manovalanza a costo zero». Al centro Carlo Ciccioli regionale, Stefano Benvenuti Gostoli, altro candidato e Andrea Blarasin, coordinatore comunale, a tracciare un filo rosso tra il mercato della droga in mano alla malavita, la morte di Pamela Mastropietro per cui è accusato il nigeriano Innocent Oseghale e la follia stragista di Luca Traini, 29enne dell’ultradestra che sabato ha seminato il panico in città puntando la sua Glock contro persone a caso, colpevoli solo di avere il colore della pelle nero, perché, come ha riferito agli inquirenti, ha “sbroccato dopo l’omicidio di Pamela”. «Un borderline – dice Ciccioli, che è psichiatra – che per fortuna non ha ucciso nessuno. Ma il suo brutto gesto è inquadrabile nella patologia. Traini è in cura al centro di salute mentale. I borderline si scompensano con eventi emotivi stressanti. In questi giorni si è creata la miscela doc per creare l'”acting out”. Ha preso di mira chi per lui è motivo di fattore stressante. In questo caso la sua fissazione era politica, il gesto legato alla sua percezione della realtà. Il suo è stato un rodeo, con finale istrionico. Questo lo scenario e vi parlo da psichiatra». Anche su chi ha presumibilmente ucciso Pamela (le indagini sono in corso per capire la causa della morte) e poi l’ha fatta a pezzi (accusato Oseghale), Ciccioli parla di «un matto. Pamela – ha aggiunto – è morta per le leggi che si è data l’Italia, dove non c’è una norma per vietare a chi è in cura in una comunità di uscire. Al suo corpo manca il cuore e altri pezzi di cadavere (ipotesi fermamente smentita dagli inquirenti, ndr). La sensazione è chi ha eseguito questo rito fosse fuori di testa». Da sinistra Luca Traini e Innocent Oseghale C’è l’orrore per la morte di Pamela, per l’attacco di Traini. Ma il fattore comune per FdI è la droga e la malavita che ne gestisce lo smercio. Oseghale era uno spacciatore. «E’ un caso che arriva tutto a Macerata? E’ un caso l’Hotel House? – chiede Ciccioli -. Là c’è il nucleo della criminalità non controllata e autorizzata». Dall’altro lato le Ong. «A Macerata – dice Ciccioli – c’è il Vadano a portare organizzazione in Africa invece di far venire qui gli immigrati. Queste persone pagano un prezzo altissimo per andarsene e poi fuori dai progetti finiscono preda della criminalità organizzata. Queste associazioni di accoglienza stanno massacrando Macerata, che prima era un’isola felice. Hanno creato il terreno per il gesto di Traini, un brutto gesto. Bisogna liberare l’Italia dalle finanziarie dell’accoglienza, che con tutte le buone intenzioni fanno solo male». In carcere, conclude il coordinatore regionale, «il 45 percento dei detenuti sono stranieri. A Montacuto ci sono 101 stranieri e 179 italiani, e questi ultimi sono quasi tutti non marchigiani. Considerando che gli stranieri regolari in Italia sono il 9 percento della popolazione, il tasso di criminalità è altissimo». Da sinistra Paolo Renna e Andrea Blarasin Renna torna poi sul “caso Macerata”, diventata terreno di scontro nazionale della battaglia politica in vista delle elezioni. «Finalmente – dice il consigliere – il sindaco Romano Carancini ha ammesso che il problema esiste, noi siamo a disposizione. Ma diciamo no alla speculazione politica. Macerata non è razzista, è sempre stata multiculturale e ora merita un po’ di pace. A chi fa accoglienza chiedo più trasparenza. Perché l’ignoranza nasce dalla non conoscenza. Abbiamo fatto domande precise al Gus e deve darci risposte. Ci dovrebbero essere 139 migranti e invece ce ne sono 372 e ne sono previsti 250 in più. Sospendiamo l’accoglienza». Andrea Blarasin aggiunge che rispetto ai due fatti drammatici «c’è stata una reazione incontrollata sui social. Riportiamo un po’ i fatti sul piano della realtà: due eventi criminosi che nulla hanno a che vedere con responsabilità di destra o sinistra. Bisogna riportare i maceratesi a un’unità – continua –. Ed essere più efficaci nella prevenzione, sottovalutata negli ultimi anni. La politica tenga piedi saldi a terra e torni a dare risposte». Elena Leonardi aggiunge che «va data solidarietà alla famiglia di Pamela, che ha trovato la morte in modo così crudele. Così come alle persone ferita dalla mano del folle Traini. Credo che sia importante che la politica si interroghi anche fuori dai confini della regione. Bisogna affrontare il problema della droga e dell’accoglienza a livello nazionale. Innocent era già stato fermato per spaccio a minorenni. Chi pone un problema del genere non è razzista. Si rischiano focolai sociali nella parte più debole della società. Mi sarebbe piaciuto – aggiunge Leonardi – che la presenza dello Stato fosse stata solerte anche subito dopo l’omicidio di Pamela. Un crimine che si lega al problema della droga. Lo Stato deve essere più forte anche nei confronti di quelle che saranno le pene. Questi episodi fanno male anche alle comunità di immigrati che si sono integrate e che vanno distinte nettamente da chi entra in Italia con altre finalità e da chi vive di criminalità. Le scelte politiche sull’accoglienza non stanno facendo il bene del Paese». Anche per Stefano Benvenuti Gostoli «non si tratta di episodi sporadici ma di un reale problema sociale. Per troppi anni la destra che ha sollevato i problemi dell’immigrazione fuori controllo e della criminalità è stata bollata come xenofoba. Purtroppo si è arrivati all’esasperazione del problema e c’è stato il gesto del folle e anche il crimine efferato». Dalla destra sono arrivati anche altri annunci. Forza Nuova sfilerà domani in piazza della Libertà con il coordinatore nazionale Roberto Fiore. Sempre domani Movimento nazionale di Alemanno ha in programma una fiaccolata che dovrebbe partire alle 21 dai cancelli di accesso al centro storico.

Immigrazione a Macerata, il consigliere Marchiori: "Il grande inganno dell'accoglienza", scrive "Picchio News" il 2/11/2017. Un bilancio della situazione accoglienza a Macerata, attraverso i dati ufficiali di Prefettura e Comune, raccolti grazie all'interrogazione fatta dal consigliere comunale di Forza Italia Andrea Marchiori, il quale ha illustrato il punto della situazione sino ad oggi. "Il grande inganno dell’accoglienza. Così potrebbe essere il titolo del progetto ministeriale che in questi anni ha coinvolti gli enti locali e le associazioni nella gestione del fenomeno migratorio. La stragrande maggioranza degli individui coinvolti nella selezione per beneficiare del percorso di integrazione, non ha diritto di accesso ai medesimi progetti con la conseguenza che dopo pochi mesi, nelle migliori occasioni, o pochi giorni, vengono estromessi dalle tutele. Facciamo un esempio: il progetto Sprar “Macerata Accoglie”, che vede il Comune di Macerata quale ente affidatario ed il Gus quale ente gestore, prevede un numero complessivo di 110 richiedenti asilo da inserire in un programma triennale di accoglienza. Il percorso prevede una serie di attività volte sia all’assistenza alla persona che all’integrazione (assistenza sanitaria, alfabetizzazione, inserimento abitativo, inserimento lavorativo, ecc.) che richiede evidentemente un tempo di prolungata permanenza; purtroppo i dati dicono che troppo spesso i richiedenti asilo non posseggono i requisiti per il riconoscimento dello status sicché vengono esclusi e subito avvicendati con altri aspiranti al fine di non far perdere all’ente gestore il contributo ministeriale. Ma che fine fanno coloro che vengono allontanati? Diventano vagabondi con in tasca un documento di identità e con l’amarezza di aver perso all’improvviso quella forma artificiosa di sostentamento che, evidentemente, poco ha a che fare con l’umana solidarietà. Il fenomeno non è di poco conto se si considera che nella nostra città gli immigrati accolti nei vari progetti sono attualmente 373 di cui 101 del solo Sprar del Comune. A tale ultimo riguardo un argomento di esame molto significativo è rappresentato dall’esiguo numero di donne che attualmente è solo di quattro; facile comprendere come non vi sia alcuna possibilità di una prospettiva di integrazione familiare e come dai paesi afflitti dalle guerre riescano a fuggire solo i maschi giovani, lasciando indifesi i bambini, le donne e gli anziani. Viene, poi, naturale domandarsi perché a Macerata, che non è centro di prima accoglienza, giungono immigrati nei cui confronti non è stato ancora accertato lo status e che, ciononostante, riescono ad inserirsi nei progetti ministeriali di accoglienza. In tale contesto vi è senz’altro un grande inganno che mina fortemente la credibilità del progetto nazionale il quale, a luglio 2017, contava 31.313 posti finanziati dislocati in oltre 1.100 comuni. Altro aspetto critico della questione è il rapporto tra popolazione residente e numero di migranti. Il piano c.d. Morcone, che prende il nome dal prefetto Mario Morcone, capo dipartimento immigrazione del Viminale, a seguito dell’accordo siglato tra Ministero ed Anci, prevede l’inserimento nei comuni di un numero pari 2,5 immigrati per ogni 1.000 abitanti. La scheda ministeriale indica per la nostra città un numero massimo di 139 destinatari da inserire in progetti di accoglienza. Il citato Prefetto, lo scorso anno, ebbe a dichiarare: “I sindaci non possono decidere quello che gli pare sui migranti. Dobbiamo avere sì rispetto per chi è stato eletto, ma si presta giuramento alla Repubblica italiana e non si può interpretare questo giuramento a seconda della convenienza politica”; un monito evidentemente rivolto ai Sindaci che non favorivano l’inserimento dei progetti di accoglienza nei propri comuni nel rispetto delle quota suindicata. Ebbene nel nostro Comune il rimprovero al Sindaco dovrebbe essere mosso a contrario dato che il numero ufficiale censito è di 373, ovvero di quasi il triplo oltre il limite suggerito. Se, poi, a questi si aggiungono le centinaia di persone che non risultano ufficialmente risiedere nel comune ma che, tuttavia, vi dimorano, si comprende bene come il problema diventi rilevante anche in termini di convivenza e controllo. Proprio sul controllo va fatta l’ultima osservazione. Anzitutto si deve considerare che tutti i migranti che vengono inseriti nei vari progetti di accoglienza hanno diritto ad ottenere immediatamente il documento di identità, sebbene vi sono stati numerosi casi in cui i dati anagrafici rivelati non hanno trovato coincidenza con quelli reali. Successivamente al rilascio dei documenti il Comune procede all’accertamento dell’effettiva permanenza della residenza nel luogo indicato ed in molte occasione si è appurato che ciò non corrispondeva più in quanto il soggetto aveva, di fatto, abbandonato il progetto di integrazione e con esso la residenza a cui era stato destinato. Un notevole sacrificio di energie da parte del personale dell’Ente e del corpo dei Vigili Urbani, spesso vanificato dalla situazione reale che diventa ingovernabile. A questo punto, tenuto conto dell’evidente presenza sul territorio di immigrati senza meta, che vivono di espedienti, si innesca un enorme lavoro di prevenzione e repressione di crimini da parte di tutte le Forze dell’Ordine che da molti mesi stanno presidiando in modo encomiabile le zone della città più sensibili. Ma la gestione del fenomeno migratorio ed il corretto funzionamento dei progetti di accoglienza non può essere rimesso al controllo sulle strade da parte delle FF.OO. perché il problema di fondo rimane quello di migliaia di immigrati abbandonati a se stessi. Ad oggi vi sono ben 112 soggetti a cui è stato negato lo status i quali hanno presentato ricorso amministrativo ancora pendente ed altri 105 la cui domanda è in fase di esame: quanti di questi potranno inserirsi nei progetti e raggiungere l’obiettivo di una vera integrazione che gli possa garantire un futuro dignitoso nel nostro Paese? Qui sta il concetto del grande inganno che, peraltro, costa milioni di euro e diventa veramente un business incomprensibile."

Profughi, l’accoglienza vale oro: bilancio da 20 milioni per il Gus “Ma i cittadini sono all’oscuro”, scrive Giovanni De Franceschi su cronachemaceratesi.it il 21.7. 2017. Da una parte ci sono uomini, donne e bambini che scappano da guerre e persecuzioni. Viaggi della speranza che diventano troppo spesso disperati tentativi di sopravvivenza. Con cadaveri che galleggiano nelle acque del Mediterraneo. Dall’altra c’è un fiume carsico di soldi pubblici gestiti da una onlus che ha raggiunto il bilancio di un’azienda degna di Piazza Affari. In mezzo scorre implacabile quello che inevitabilmente è diventato un vero e proprio business: l’accoglienza dei profughi. Milioni di euro che Comuni, Prefetture e governo spendono ogni giorno per cercare di regalare una nuova vita a chi ha perso tutto. Ma il punto non è se sia giusto o meno spendere quei soldi, piuttosto capire come realmente vengono gestiti. Una questione di trasparenza, insomma. Ed è proprio quella che sembra mancare qui a Macerata. Veniamo ai numeri. Il Comune di Macerata, con due delibere di giunta dell’ottobre scorso, si è fatto carico di proseguire per il triennio 2017-2019 due progetti Sprar (Sistema di protezione per profughi e richiedenti asilo) già avviati negli anni precedenti: “MaceratAccoglie” e “Mosaico”. Il primo è prettamente comunale e riguarda l’accoglienza di 65 profughi (50+15 posti aggiuntivi). Sul piatto ci sono poco più di 2,9 milioni di euro in tutto: 2,7 a carico del ministero e 150mila euro scarsi del Comune. L’altro invece era il progetto gestito dalla Provincia che ha deciso di non rinnovarlo a fine 2016. Ha chiesto di farsene carico sempre il comune di Macerata: prevede l’accoglienza di altri 45 profughi. Un totale di 110 persone da ospitare: il Ministero ha accolto entrambe le richieste e per la seconda sono disponibili 674.662 euro all’anno, più 33mila euro di cofinanziamento comunale. Per un totale di altri 2 milioni di euro e rotti.

I responsabili del Gus. Ma chi è gestisce questa mole considerevole di soldi pubblici? Fino adesso è stata la onlus Gruppo Umano Solidarietà. Per i nuovi due progetti bisognerà rifare una gara d’appalto, ma nel frattempo il Comune ha chiesto che sia concessa una proroga per la gestione del Gus, e ha ottenuto l’autorizzazione. E finché non sarà fatta la gara al Gus andranno 56.221 euro al mese. Il bilancio 2016 del Gus è di 20milioni di euro, con crediti vantati verso gli enti pubblici di tutta Italia per 17milioni circa (9,3 milioni dalle prefetture e 7,2 per i progetti Sprar). L’avanzo di esercizio ammonta a circa 195mila euro. Di questo giro d’affari se n’era occupato anche Il Giornale. E per capire quanto sia aumentato, basti pensare che nel 2013 il Gus aveva un bilancio di 8,2 milioni. In tre anni è più che raddoppiato. Tutto legittimo, per carità, ma i cittadini avrebbero almeno il diritto di sapere nel dettaglio come vengono spesi i circa 40 euro al giorno per ogni profugo che la onlus riceve e gestisce, visto che si tratta di soldi pubblici. Ed è qui che entra in gioco il Comune. Ne sa qualcosa il consigliere d’opposizione di Forza Italia Andrea Marchiori che, a suon di mozioni, ordini del giorno e interrogazioni, sta cercando di rendere più trasparente possibile la vicenda.

Andrea Marchiori. “Quello che a me interessa – spiega il consigliere – non sono tanto i conti interni del Gus, quanto i rendiconti del progetto “MaceratAccoglie”. Il ministero infatti impone al Comune di presentare ogni anno un rendiconto dettagliato delle spese sostenute per l’accoglienza. L’associazione lo redige, lo gira al Comune che a sua volta informa il ministero. Sostanzialmente si tratta dell’atto principale che va a giustificare tutto il progetto. Ora, non si capisce perché la giunta ha sempre evitato di discutere di questo rendiconto in Consiglio, opponendosi alla mia richiesta di renderlo pubblico. Hanno detto che è una questione di privacy, renderlo pubblico, secondo loro, violerebbe i diritti di ogni singolo immigrato. A parte che basterebbe oscurare i nomi e lasciare solo le voci di spesa così come viene fatto in molte altre delibere, ma non si capisce perché, trattandosi di soldi pubblici, c’è tutta questa ritrosia ad essere trasparenti. Non sto criticando il progetto in sé, o i soldi spesi, perché è giusto accogliere chi scappa dalla guerra, non sono certo loro i privilegiati. E’ la mancanza di trasparenza che non è accettabile, la giunta tende a tenere tutto nascosto, in Consiglio non se ne discute. Al contrario, far conoscere come vengono gestiti i soldi pubblici, oltre ad essere un dovere, darebbe modo al Gus di dimostrare che è tutto in regola e eviterebbe di alimentare sospetti e polemiche inutili”. Tra l’altro i consiglieri hanno accesso a questo famoso rendiconto delle spese, ma non possono renderlo pubblico. Come se fosse un atto che riguarderebbe solo pochi e non tutta la cittadinanza.

Dossier sul Gus: “Su 26 milioni di euro nel bilancio non tutto è chiaro e trasparente”, scrive Gabriele Censi su cronachemaceratesi.it il 6.10.2017. Obiettivo trasparenza sulla gestione di 26 milioni di euro di fondi pubblici che compaiono nel bilancio della onlus maceratese che si occupa di accoglienza, il Gus. E’ l’iniziativa del capogruppo di Forza Italia Riccardo Sacchi affiancato da altri rappresentanti dell’opposizione comunale consiliare e non (Francesco Luciani di Idea Macerata, Paolo Renna di Fdi, l’ex consigliera di Macerata nel Cuore Francesca D’Alessandro, Mattia Orioli del Cdu, Anna Menghi e Stefano Migliorelli della Lega). “Rilanciamo dopo le dichiarazioni del presidente del Gruppo Umana Solidarietà, Paolo Bernabucci che ha parlato di trasparenza dell’associazione con i dati pubblicati sul loro sito – spiega Sacchi -. Ho chiesto così a due tecnici di analizzarli e ne è scaturita una relazione che ha invece molte mancanze di trasparenza. Speriamo che siano chiarite, altrimenti andremo avanti in questa iniziativa. Perchè in un momento di grave crisi che viviamo vogliamo saper come vengono gestiti imponenti fondi pubblici, fermo restando la meritoria attività di chi fa accoglienza. Non per aprire una sterile e banale polemica sui tema dell’immigrazione. Tale tematica o problematica è, infatti, di dimensioni epocali e talmente complessa da richiedere un approccio transnazionale più che locale”.

Il dossier è stato elaborato da Massimo Raparo, analista finanziario e Raffaele Pallotto, commercialista, e si concentra su statuto e numeri trovati sul sito del Gus. “L’ultimo bilancio integrale pubblicato è quello del 2015. Il bilancio 2016 non contiene proventi ed oneri. Ad oggi – spiegano i due tecnici – non appare sul sito nessuna delibera assembleare dei soci dell’associazione in riferimento all’approvazione dei bilanci. L’unica certificazione è quella relativa al 2013. Lo statuto recita: “Per l’attuazione dei propri fini statutari l’associazione si avvale in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali volontarie e gratuite dei propri associati salvo i casi di particolare necessità in cui può assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo…”.  Ciò sembra in apparente contrasto con il numero di dipendenti che risulta al 31 dicembre 2016 di 407 unità”. Gli analisti si chiedono se alla luce di ciò la struttura si configuri ancora come attività a carattere volontario come da statuto o abbia una natura diversa: “Non è specificato il numero degli associati”. Altro punto evidenziato: “Non sono previsti organi di controllo di gestione, chi lo effettua?”.  Poi si chiedono chiarimenti anche su immobili esposti nel 2013 in bilancio per 600mila euro senza un fondo di ammortamento. Nel 2014 compare un fabbricato e un terreno per 482mila euro con relativo fondo di ammortamento di un terzo. Evidenziata anche la voce Marchex, società privata che gestisce un circuito di scambi commerciali facente parte del gruppo Sardex. “30mila euro nel 2014 e 190mila nel 2015 riferiti rispettivamente a crediti e proventi. Perchè il Gus partecipa ad attività prettamente commerciali?”. Altro punto su cui si soffermano i tecnici sono le disponibilità liquide: “455mila euro nel 2015 senza dettaglio, 1,724 milioni nel 2016 comprensive di 75mila in cassa. Le norme sul limite al contante fissano in 3mila euro il valore massimo”.

Il dossier prosegue sulle poste di proventi e oneri: “Oneri accessori e oneri di supporto senza nessuna specifica per 120mila euro e 250mila euro nel 2012 e 2013. Nel 2014 1,5 milioni per vitto e abbigliamento, 100mila per ‘altre spese’, un milione per altre spese non identificabili come consulenze, rimborsi spese, donazioni in uscita, contributi straordinari, incontri, corsi e convegni. Nel 2015 scompare la specifica relativa alle spese, i ricavi salgono a 18 milioni, gli oneri per assistenza sono 6,5 milioni, i costi del personale 4,5 milioni e la gestione degli immobili a 2,8 milioni. 150mila euro per oneri diversi”. Nel 2016 ci sono 950mila euro per crediti diversi: “Non si trova alcune specifica su una così rilevante voce”. Attendiamo i chiarimenti e approfondimenti del Gus – conclude Sacchi – per un’ampia condivisione con i cittadini e contribuenti maceratesi”. Intanto sempre sul fronte rifugiati il consigliere Prenna annuncia una interrogazione comunale in merito alla gestione di chi esce dal programma di accoglienza e seppure con un teorico foglio di via resta “abbandonato per la città”. “Ce ne sono ora una ventina e aumenteranno ad un centinaio, come vuole intervenire l’amministrazione?”

Caccia rossa a Salvini. Grasso e Saviano accusano: il leader leghista è responsabile dell’odio. Ma sono loro a odiare il centrodestra, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale".  Forse non odieranno i neri, ma sicuramente Roberto Saviano, Pietro Grasso, Laura Boldrini e compagnia odiano i bianchi. Uno in particolare: Matteo Salvini. Contro il quale hanno aperto, dopo i fatti di Macerata, una campagna violenta e razzista, quella contro la «razza leghista». Saviano è arrivato a scrivere che Salvini (ma con lui tutto il centrodestra) è il mandante politico e morale del pazzo, quello sì razzista, che a Macerata ha aperto il fuoco contro i passanti di colore. Quando superbia, odio e ignoranza si mischiano tra loro - e in Saviano accade spesso - la miscela è esplosiva. Ci dicano questi signori, che per raccogliere due voti in più dei quattro che hanno sono pronti a tutto, un solo atto ufficiale o politico in cui Salvini e il centrodestra abbiano teorizzato l’uccisione di immigrati, regolari o clandestini che siano. Che io sappia, la Lega e i suoi alleati sono più che favorevoli all’unica immigrazione possibile in un Paese civile, ovvero quella controllata e compatibile con un’accoglienza dignitosa. Che a me risulti, Salvini si sgola da anni, come Berlusconi, contro l’illegalità in cui si muovono migliaia di immigrati e contro il lassismo dello Stato che la permette. Salvini, non Saviano, da tempo mette in guardia che, andando avanti così, prima o poi ci sarebbe scappato il morto, perché il matto è sempre in agguato. Cattivi maestri sono semmai Boldrini, Grasso e Saviano, che con la loro politica e i loro scritti hanno fatto credere al nigeriano di Macerata che fosse un suo diritto stare in Italia, nonostante già condannato, a spacciare droga e a fare a pezzi ragazze. Il bello è che quelli che parlano di «cattivi maestri» per il caso di Macerata sono gli stessi che ne negano l’esistenza nel caso dei terroristi islamici, declassati a «cani sciolti». Quando invece lo sterminio degli occidentali è, quello sì, teorizzato dal cattivo maestro Allah, nel Corano, e da centinaia di imam nelle moschee, oltre che da alcuni leader di Stati islamici. Quelli che, per esempio, negano il diritto di esistere di Israele o che pianificano - come il turco Erdogan, che oggi sarà in Italia, ricevuto con tutti gli onori - lo sterminio dei curdi e il carcere o la pena di morte per gli oppositori, politici o giornalisti che siano. La verità è che la salvezza degli immigrati sta proprio nella ricetta di Salvini e Berlusconi. Al contrario, la loro fine razzista, mascherata da buonismo, è di continuare a dare credito a Saviano e Grasso, che evidentemente, fin da piccoli, hanno avuto cattivi maestri. Tornate a scuola, studiate e smettetela di seminare odio tra gli italiani. Il fatto che non utilizziate la pistola non vi rende migliori di chi la impugna.

Meloni: "Per la sinistra immigrato ​vince su donna stuprata". Giorgia Meloni prosegue nella sua corsa per la campagna elettorale di Fratelli d'Italia in vista del voto del prossimo 4 marzo: al centro l'immigrazione, scrive Franco Grilli, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". Giorgia Meloni prosegue nella sua corsa per la campagna elettorale di Fratelli d'Italia in vista del voto del prossimo 4 marzo. La leader di Fratelli d'Italia durante un'iniziativa elettorale a Firenze ha parlato del tema dell'immigrazione. E su questo punto la Meloni sottolinea le differenze tra il centrodestra e la sinistra: "Va bene tutelare le donne, ma nella gerarchia della sinistra immigrato vince su donna violentata e questa non è la mia Italia: la mia Italia è un Paese in cui si rispettano le regole". Inevitabile un commento anche sulla vicenda di Pamela Mastropietro, la ragazza fatta a pezzi da un nigeriano e ritrovata dentro due trolley: "Purtroppo dal Pd, da Renzi, dalle istituzioni non mi aspettavo un atteggiamento omertoso verso alcuni fatti di cronaca, come il caso della povera Pamela, perché significa riconoscere che la politica ha sbagliato qualcosa. C'è un nesso, dimostrato dai dati del Viminale, tra l'aumento dell'immigrazione incontrollata e l'aumento dei reati. Siccome la politica questo non lo può riconoscere fa finta che questi fatti non esistano. Io sono stata la prima a chiamare la mamma di Pamela, e mi fa specie che ci siano file di ministri che sono andati a Macerata all'indomani della sparatoria di quel pazzo ma il giorno prima, quando c'era una madre che piangeva sua figlia, non abbiano sentito il bisogno di farsi vedere o sentire la madre", ha affermato la Meloni. Infine riassume il suo programma così: "Nella nostra Italia chi rispetta le regole verrà aiutato, chi non le rispetta no".

Roma, le tre figlie di Giacobbo aggredite per strada a Trastevere. Le tre figlie di Roberto Giacobbo, cronista Rai e conduttore di "Voyager" sono state aggredite a Roma nella zona di Trastevere, scrive Luca Romano, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". Le tre figlie di Roberto Giacobbo, cronista Rai e conduttore di "Voyager" sono state aggredite a Roma nella zona di Trastevere. Le tre sorelle stavano facendo una passeggiata in uno dei quartieri più turistici della Capitale. Un marocchino di 29 anni, Abdel Jebar El Karafli, le avrebbe minacciate con una bottiglia in mano. L'obiettivo del malvivente erano i loro telefonini. Una delle figlie del conduttore ha inziato ad urlare e ha chiesto aiuto. A questo punto, come riporta il Corriere, il marocchino ha provato a colpirla alla testa con la bottiglia. L'uomo poi è fuggito ma è stato fermato da una pattuglia della polizia. Immediatamente è scattato l'arresto e adesso l'uomo si trova nel carcere romano di Regina Coeli. Di fatto gli investigatori adesso pensano che dietro ad altri furti e rapine possa esserci lo stesso marocchino. I colpi sarebbero stati messi a segno sempre a Trastevere e a Borgo Pio. Le figlie di Giocobbo sono state poi soccorse dagli stessi agenti della polizia e dal 118.

Il nigeriano e il buonista, scrive Giampaolo Rossi il 3 febbraio 2018 su "Il Giornale". PRIMO E SECONDO

Il primo è un nigeriano. Il secondo è un buonista.

Il primo è un criminale. Il secondo è un idiota.

Il primo fa lo spacciatore, a volte il ladro e forse anche l’assassino e il macellaio sui corpi di povere ragazze. Il secondo fa il politico di sinistra, l’intellettuale impegnato, il volontario delle Ong con i soldi di Soros, il fighetto radical-chic con il culo degli altri.

Il primo è un nigeriano, il secondo è un buonista. Il primo è un criminale, il secondo è un idiota.

Il primo è un immigrato irregolare con precedenti penali che gira libero per le nostre città a spacciare e a delinquere come se niente fosse. Il secondo è un italiano regolare a cui dell’Italia non frega nulla ma grazie alle sue idee sballate, alla sua ipocrisia pelosa, ci sta riempiendo di rifiuti umani che vengono a distruggere la nostra già difficile convivenza civile.

Il primo, il nigeriano, è scappato dal suo Paese a causa della guerra, ci dicono. Ma da che mondo è mondo dalle guerre scappano le donne e i bambini mentre lui è un uomo di 28 anni. E francamente è strana questa immigrazione che porta in Europa masse di giovani sani di corpo e di mente e lascia sotto le bombe e le persecuzioni i più indifesi. Il secondo, il buonista, vive da sempre qui, gode della libertà e della sicurezza che gli sono garantiti ed è così stupido da convincersi che facendo entrare tutti, lui faccia il bene di queste persone e di se stesso, mentre fa solo il bene dell’élite globalista che pilota questo esodo di nuovi schiavi.

Il nigeriano, quello che si traveste da profugo, da povero, da diseredato, è solo uno schifoso delinquente che si approfitta della possibilità che noi diamo a lui per farsi manovalanza delle organizzazioni criminali, in cambio di facili guadagni.

Il buonista, quello che si veste di solidarietà, è solo uno schifoso schiavista, uno di quelli che è convinto che gli immigrati ci pagheranno le pensioni o che è meglio farli entrare tutti così li mettiamo a raccogliere i pomodori come dice Emma Bonino (e questo solo perché in Italia non coltiviamo cotone come nella Virginia del XIX secolo).

NON SOLO…

Il nigeriano non è solo il nigeriano; è anche il tunisino, il marocchino, il bosniaco insomma è tutti quelli che chiamiamo clandestini e che una volta in Italia si mettono a rubare, stuprare, spacciare, assassinare, rafforzando la già folta fauna di delinquenti nativi.

Il buonista non è solo il buonista; è anche l’antirazzista, il progressista, il catto-comunista, l’umanitarista, il prete arcobaleno, la femminista, insomma tutta quella poltiglia di retorica ed ipocrisia che alimenta una sottocultura che sta mandando in malora la nostra Nazione.

Sia chiara una cosa: il nigeriano e quelli come lui non hanno nulla da spartire con gli stranieri che in Italia vengono a lavorare, che rispettano le leggi e che magari sognano un giorno di diventare cittadini di questo Paese. A loro va il nostro aiuto e la nostra vera amicizia. Mentre al contrario, il nigeriano e il buonista, l’irregolare e il suo complice italiano, il criminale che abusa della nostra libertà e l’idiota che lo legittima e lo fa entrare, rappresentano la feccia di questo Paese. Entrambi vanno messi nella condizione di non nuocere: il primo, il nigeriano, ficcandolo in galera il tempo che occorre e poi rispedendolo a casa sua a calci nel sedere. Il secondo, il buonista, impedendogli democraticamente di continuare a governare questo Paese e a perpetrare i danni fin qui fatti.

Gli immigrati stanno sostituendo gli italiani,  Andrea Pasini, scrive il 6 febbraio 2018 su "Il Giornale". Un Paese senza ​natalità è uguale ad un paese destinato all’estinzione. ​Gli immigrati intanto sostituiscono gli italiani. Ma la vergogna più assolta e che ​nessun partito politico in corsa per queste elezioni è capace di proporre ​una soluzione concreta per ​porre un argine a ​questa tragica problematica. Sono Andrea Pasini un giovane imprenditore di Trezzano Sul Naviglio e non mi vergogno di dire che grazie all’incompetenza della classe politica italiana il nostro paese tra non molti anni diventare patria di nessuno e il popolo italiano si estinguerà. Il futuro di una Nazione sono i suoi figli, ma in Italia si è smesso di procreare. I dati sono impietosi, per non dire vergognosi. Al primo gennaio 2017 l’Istat parlava chiaro, sì è passati dai 486mila neonati dal 2015 (minimo storico dal 1861 ad oggi) a 474mila nuove nascite. Negli astri delle culle l’oblio della scomparsa. La fecondità per ogni singola donna è di 1,34 figli, portato verso l’alto dalle straniere che toccano punte di 1,95, mentre le italiani si attestano, dati del 2015, a 1,27 figli. La fotografia sulla situazione attuale è molto facile da tratteggiare. I dati sul processo di invecchiamento della popolazione in Italia sono a due poco catastrofici. Al primo gennaio 2017 l’età media dei residenti, secondo l’istituto di statistica, è di 44,9 anni, due decimi in più rispetto al 2016 (corrispondenti a circa due mesi e mezzo) e due anni esatti in più rispetto al 2007. Gli individui di 65 anni e più superano i 13,5 milioni e rappresentano il 22,3% della popolazione totale (11,7 milioni nel 2007, pari al 20,1%). Ma sono soprattutto gli ultranovantenni a registrare un aumento sensibile: al 1 gennaio 2017 sono 727 mila, un numero superiore a quello dei residenti in una grande città come Palermo”. L’Italia, spiace constatarlo, non è un Paese per giovani. Più morti che vivi. Uno scenario alla zombie di Romero, dove la Grande Sostituzione, tema centrale negli scritti di Renaud Camus, diventa una realtà allarmante che i nostri governanti non sanno (o non vogliono) vedere. Una diaspora. Centomila persone in meno nel 2014 nel computo tra nati e deceduti, come se Udine o Piacenza scomparissero in una notte, in un amen. La nostra è una preghiera che però rimane inascoltata. Nascosta in un cassetto, laddove nessuno può sentire il lamento sordo di un popolo caduto nel precipizio della storia. Una guerra combattuta senza armi materiali, ma a colpi di decreti, a colpi di disoccupazione, a colpi di lavoro che non c’è. Questi sono concetti che devono far riflettere. Detto questo come è possibile biasimare le giovani famiglie, impossibilitate a mettere al mondo figli perché altrimenti non riuscirebbero a mantenerli? Uno stipendio da 1000 euro non basta per due persone, figuriamoci se il nucleo familiare si allarga a tre. L’Italia muore, ma non per volontà degli italiani. Il governo, la politica ci uccide giorno dopo giorno, un passo alla volta, con nuove tasse, con nuove leggi che ci distraggono dal nostro presente e annullano il futuro dei nostri figli. Ormai da troppo tempo i soldi degli italiani non vengono investiti e nemmeno redistribuiti ai cittadini. Le politiche sociali stanno conoscendo un’agonia irreversibile. Dove vanno, vi starete chiedendo, tutti questi miliardi di euro? Finiscono per alimentare il sistema clientelare, marcio ed appestato, che mantiene in vita una manciata di politicanti da strapazzo. Colate laviche di danaro sugli stranieri e nulla per chi da millenni occupa questo lembo di terra. Difficile a credersi, ma è così. 1050 euro al mese per ogni immigrato, 480 euro al mese per una pensione sociale e 40 euro al mese per un neonato. Questo è quanto spende lo Stato in termini di Welfare State. Dunque quando parlo di sostituzione di popolo non racconto una favola populista, ma racconto una realtà agghiacciante. Un Paese non può crescere senza soldi. Una coppia non può mettere al mondo dei figli quando non ha abbastanza danaro per fare la spesa. Viviamo in un Paese che garantisce maggiori diritti agli stranieri rispetto ai suoi cittadini. I nostri avversari sono un gruppo di politici che cercano di accaparrarsi voti millantando doti caritatevoli. L’Italia muore e chi la uccide ha lo sguardo fisso verso il mare. Mi viene da sorridere pensando alle dichiarazioni di Boldrini&Co. in campagna elettorale. Prima promotori di un coro unanime a favore degli immigrati, ora redarguiscono Salvini. Perché non si occupano abbastanza degli italiani. Pazzia. Tremenda pazzia. Mentre rischiamo di scomparire nel volgere di qualche generazione. A nessuno sembra importare nulla dell’avvenire italiano. Le proposte dei leader dei partiti, in campo in questa campagna elettorale, sono molteplici, ma non ho ancora sentito proporre un piano preciso e dettagliato che incentivi concretamente la natalità. I nascituri sono la linfa vitale di un Paese sano, incapace di arrendersi ad un destino nefasto, ma che soprattutto non vuole estinguersi. Eppure la politica 2.0 sembra non interessarsene. Ed i parlamentari, capaci solamente di blaterare, devono pensare al domani di un’Italia appesa ad un filo. Tutto questo risulta vergognoso.

Vittorio Feltri il 4 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano": chiudiamo le frontiere, o sarà soltanto l'inizio. A forza di condannare il razzismo che non c’era, il razzismo è arrivato, come nel nostro piccolo avevamo previsto. L’accoglienza indiscriminata e continuativa di immigrati, specialmente neri, ha provocato il rigetto. Era ovvio che prima o poi qualcuno si sarebbe ribellato all’invasione degli africani. Gli imbecilli che hanno spalancato le porte agli stranieri sono stati pregati da noi di non esagerare, nel timore che nel breve il casino sarebbe scoppiato. Non ci hanno dato retta, anzi si sono abbandonati a una serie di attacchi nei nostri confronti come se auspicassimo l’esplosione di episodi di violenza contro la gente di colore, verso la quale non nutriamo alcun sentimento negativo. Anzi, facciamo di tutto affinché riceva l’assistenza che merita. Il problema, che abbiamo sempre fatto presente ai fessi del governo e in generale della sinistra acefala di stampo boldriniano, è un altro: l’aumento degli ingressi nel nostro Paese, se non controllato, era fatale che avrebbe acceso la miccia del razzismo. Ciò in effetti è avvenuto nelle Marche come dimostra l’ultimo fatto di cronaca: un cittadino di Macerata, arbitrariamente interprete di una esasperazione diffusa, ha premuto il grilletto a casaccio contro poveri nigeriani incolpevoli, simbolicamente responsabili di aver ridotto l’Italia a ricettacolo di spacciatori di droga e di assassini capaci di uccidere e di fare a pezzi una ragazza indigena di 18 anni. Non possiamo non condannare una simile azione disgustosa; è altrettanto vero che per giudicarla occorre comprenderne il movente. Che è esattamente quello che abbiamo indicato: il sovraffollamento di extracomunitari non viene sopportato dalla massa, che pertanto si ribella anche in forme violente. Nessuno in linea di principio ce l’ha coi signori dalla pelle scura, ma se costoro si impadroniscono delle città e incrementano attività delinquenziali, fatalmente vanno incontro a reazioni da parte di nostri connazionali privi di scrupoli. Non c’è da stupirsi se i neri dilaganti nel ramo della delinquenza incrementano il razzismo, poiché i nostri concittadini si sentono assediati da uomini sconosciuti e pronti a delinquere. I quali non hanno altri mezzi che non siano criminali per sopravvivere in una società che proclama di accogliere chiunque senza poterlo fare. Chiudere le frontiere significa evitare guai, però la nostra politica non è in grado di farlo per mancanza di coraggio e dignità. La fabbrica del razzismo ormai è aperta e tra un po’ ci azzanneremo per le strade: sarà battaglia tra bianchi e neri che non saranno razze, ma sono diversi. Basta guardarli in faccia. Vittorio Feltri

Vuoi una frase da duro? Leggi Plutarco. Nei suoi "Detti memorabili" trionfa l'etica militare degli spartani, scrive Matteo Sacchi, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale". Gli antichi greci li chiamavano apoftegmi, li consideravano il sale della politica e della retorica e amavano raccoglierli. Cosa sono? La parola viene dal verbo apophtheggomai, «enunciare una cosa in forma definitiva», e indica una massima, spesso pronunciata da un personaggio importante e ritenuta così brillante da meritare di essere tramandata e riutilizzata alla bisogna. Erano davvero così efficaci? Winston Churchill ha modellato molti dei suoi discorsi più noti pescando dai repertori della letteratura classica greca e latina. Ora arriva in libreria il meglio del frasario raccolto dal più grande biografo dell'antichità, Plutarco (48 - 127 d.C.). L'autore delle Vite parallele nella sua opera principale aveva sciolto molti di questi memorabilia linguistici nella narrazione delle esistenze dei grandi, da Licurgo ad Antonio. Ma già allora si era accorto che il suo pubblico ne era troppo ghiotto e decise di raccoglierle. Ecco allora spiegata la genesi del volume che ora arriva in libreria, a cura di Carlo Carena: Detti memorabili. Di re e generali, di spartani, di spartane (Einaudi, pagg. 234, euro 28). Mancava sino ad ora un'edizione italiana che separasse e rendesse comodamente fruibili e confrontabili queste schegge raccolte o inventate da Plutarco (del resto solo dall'anno scorso esiste una valida edizione dell'insieme dei Moralia fatta da Bompiani). La prima delle tre raccolte lo storico greco la dedicò direttamente all'imperatore Traiano, in modo che potesse farsi consigliare dai suoi pari, i monarchi precedenti. Ma che si tratti di questa o delle altre due, ciò che aleggia attraverso tutti i testi è il mito di Sparta. I lacedemoni, maschi e femmine, titolati e non, la fanno da padroni. Con accenti e toni non lontanissimi, se ci consentite un paragone molto pop, da quelli di un fumetto fantastorico come 300 (o dell'omonimo film). Plutarco fa della durezza spartana (che pur sapeva eccessiva) strumento didattico, la parte di cultura greca più facilmente cucinabile in salsa romana. Del resto a quale centurione non starebbe simpatico lo spartano Agide? «Gli spartani non vogliono sapere quanti sono i nemici, ma dove sono». E Cleomene? A chi voleva vendergli dei galli pronti a morire combattendo: «No davvero, dammi di quelli che combattono e uccidono». Ad Agesilao (444 - 360 a.C.) poi vengono attribuite frasi che farebbero la fortuna di ogni sceneggiatore hollywoodiano del genere Swords and sandals. Alla domanda fino a dove si estendevano i confini della Laconia rispode, brandendo la lancia: «Fino a dove giunge questa». Il consiglio a uno spartano zoppo che vuole un cavallo per la battaglia? «Non capisci che in guerra non serve chi fugge ma chi resiste». Ma se Plutarco è l'inventore della Sparta che piace al cinema, leggendolo vi accorgerete che molte delle metafore care agli umanisti, compreso il celebre binomio «Golpe et lione» di machiavelliana memoria, sono in realtà farina degli apoftegmi dello storico greco.

Ma gli italiani sono razzisti? Un saggio di Manconi e Resta, scrive il 4 Febbraio 2018 Oscar Iarussi su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha firmato il decreto di conferimento a Luigi Manconi dell’incarico di Coordinatore dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), nell’ambito del Dipartimento per le pari opportunità. Lo ha reso noto Palazzo Chigi. Il professor Manconi è docente di Sociologia dei fenomeni politici. Nel corso della XVII Legislatura ha ricoperto il ruolo di presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. L’incarico presso l’UNAR, che il professor Manconi svolgerà a titolo gratuito, avrà inizio a decorrere dal 24 marzo 2018.

Ridotte al rango di una «breve», le tragedie dei migranti nel Mediterraneo non fanno quasi più notizia. Vige la cinica regola del giornalismo: ciò che diventa consueto non merita grandi titoli. Peccato che sia in gioco la nozione stessa di umanità, come non smette di ammonire papa Francesco. Ieri l’ennesimo naufragio di un barcone carico di pachistani al largo delle coste libiche, costato novanta vite, ha aggiornato il macabro calcolo degli esuli deceduti in mare, che beffardamente chiamiamo ancora mare nostrum. Sono duecentoquarantasei nell’ultimo mese, il peggiore dal giugno scorso, il che smentirebbe l’efficacia del «codice di condotta» per le Ong varato dall’Italia nell’agosto 2017 fra aspre polemiche. E sono dodicimila i morti dal 2014 a oggi, stando all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di Ginevra. È una strage che può evocare la Shoah. Identica la tentazione di «girare la testa dall’altra parte», ha ricordato la neo-senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz. Che fine hanno fatto gli «italiani brava gente» di un celebre film?

Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura è il titolo di un recente saggio di Luigi Manconi e Federica Resta (Feltrinelli ed., pagg. 150, euro 15,00). L’impegno politico di Manconi viene da lontano, dal ‘68, e giunge fino al Senato, dove nella legislatura agli sgoccioli è stato presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani. Un impegno coltivato di pari passo con gli studi sociologici (insegna all’Università IULM di Milano). Federica Resta, di origini pugliesi, è un giovane avvocato, dottore di ricerca in Diritto penale e funzionario del Garante per la protezione dei dati personali, autrice di ricerche sull’11 settembre e le Vecchie e nuove schiavitù (Giuffrè, 2008).

L’Italia è dunque un paese razzista? Manconi e Resta rifuggono dalle semplificazioni, tracciando una rotta innanzitutto linguistica e perciò politica. Difatti la posizione perentoria o l’appello tranchant rispondono a «quel fondamento costitutivo di ogni razzismo che è lo stigma generalizzante». Gli Autori se ne tengono alla larga e invitano piuttosto a percorrere e a scandagliare la linea d’ombra, di volta in volta più scura, tra le nostre auto-rappresentazioni o proiezioni freudiane e il dato di realtà che prende pur sempre le mosse dal lessico. Sicché quell’espressione ricorrente in certi talk show, «Non sono razzista, ma», fa emergere proprio nell’avversativa l’autentica opinione di chi parla: l’ostilità verso l’altro o quanto meno l’ipocrisia.

Certo, gli italiani non possono considerarsi razzisti tout court, scrivono Manconi e Resta. Tuttavia, in nome della guasconata «cattivista» alla Calderoli, va scemando rapidamente il «tabù del razzismo». Le responsabilità sono numerose e sfaccettate, per esempio il venir meno delle «grandi agenzie di formazione del senso comune, dalla chiesa cattolica ai partiti politici». Eppure lo scenario della globalizzazione riguarda, volenti o nolenti, i popoli quanto e più delle merci. E i dati sconsigliano le invettive e fanno riflettere: gli stranieri regolari in Italia sono l’8,2 per cento della popolazione e producono 8 punti di Pil (circa 100 miliardi di euro l’anno). Altro che il presunto «buonismo» attaccato dalla Lega di Salvini! Alla luce del calo demografico, avremmo necessità di più stranieri per garantire la produttività del sistema e il pagamento delle pensioni, come dice Tito Boeri, il presidente dell’Inps.

La proposta del libro? Sovvertire il paradigma: «In ciascuno di noi - dichiarate o censurate - covano forme di intolleranza e pulsioni xenofobe. Negarle è vano e controproducente. Forse vale la pena adottare, per contrastarle, una strategia minimale e, per così dire, di riduzione del danno... Rovesciamo quella frase e iniziamo a pensare e a dire: “Io sono (un po’) razzista, ma...”. E quel “ma” significa: voglio capire, voglio sapere». In tal modo, sostengono Manconi e Resta, riusciremo forse a evitare o a contenere la guerra tra gli ultimi (gli immigrati) e i penultimi (gli italiani poveri). Essa infiamma i quartieri più degradati delle nostre città, nell’impotenza della politica e delle élite, in primis della sinistra accusata di essere accogliente perché «se lo può permettere». L’«ideologia del guscio» segnalata dallo storico Aldo Schiavone, cova in nuce, appunto, «nuove» manifestazioni di fascismo e un timor panico incontrollabile che è fra i motivi profondi del declino europeo. Non si può fermare un flusso di umanità, mentre ogni frontiera è una formidabile occasione di rigenerare visioni e caratteri collettivi, mette in gioco chi è al sicuro non meno di chi rischia la vita in mare per attraversarla. È una «metafora dell’esistenza» perché il naufragio coinvolge «lo spettatore» sulla terra ferma, secondo il filosofo tedesco Hans Blumenberg, che prende le mosse dal De rerum natura di Lucrezio in un saggio edito in Italia dal Mulino. D’altronde è arduo concepire una società aperta senza un afflato di generosità. Soprattutto, a proposito di minoranze (le comunità rom e sinti tra le altre), vale il principio per cui «la violazione di un diritto si ripercuote sull’intero sistema dei diritti». Discernere, dare il nome alle cose e alle persone, e alle vittime del mare oltraggiate dall’anonimato... Ecco un impegno contro l’indifferenza, ecco la Politica di ogni giorno.

NICOLAS SARKOZY E LA LIBYAN CONNECTION.

Tutta l'arroganza di Macron nell'ennesimo sgarbo all'Italia. Dai migranti ai cantieri fino a Libia e Niger: quanti sgambetti dall'Eliseo. Pure per la nostra arrendevolezza, scrive Gian Micalessin, Domenica 01/04/2018, su "Il Giornale". Se vi punge vaghezza che l'irruzione di due gendarmi francesi in una sala della stazione di Bardonecchia utilizzata da una organizzazione non governativa italiana sia frutto di un errore, d'una svista o d'un ordine mal interpretato disilludetevi. Nessuna delle controversie che negli ultimi dieci mesi hanno reso sempre più i conflittuali i rapporti tra Roma e Parigi sono frutto del caso. Rispondono semplicemente alle politiche di quell'Emmanuel Macron la cui elezione lo scorso maggio riempie di gioia e speranze i vertici di un partito Democratico e di un governo Gentiloni unanimi nell'intravvedere in quel presidente il salvatore della Francia, dell'Europa e dell'Italia. La miope cantonata si delinea in tutta la sua ampiezza solo pochi giorni dopo. A fine maggio uno dei primi atti del nuovo presidente è il blocco dell'intesa siglata dal suo predecessore François Hollande per il passaggio dei cantieri di Saint-Nazaire sotto il controllo di Fincantieri titolare, assieme alla Fondazione Crt Trieste, del 54,7% del capitale. Per Macron il passaggio dei cantieri culla e arsenale della Marina militare francese è uno smacco da bloccare a tutti i costi. E così il presidente, salutato come Messia dell'Europa, non esita a minacciare la nazionalizzazione dei cantieri pur di tener alla porta i detestati italiens. Lo sgambetto, parzialmente evitato nei mesi successivi solo grazie a una difficile, e per molti versi mortificante, trattativa dal governo Gentiloni è solo l'inizio. A luglio Macron non si fa problemi ad invitare all'Eliseo Khalifa Haftar. La legittimazione del controverso generale libico e la sua trasformazione in un interlocutore di primo piano nell'ambito delle trattative per la riunificazione del Paese è una mossa che va esattamente nel senso opposto rispetto alla linea concordata dalla comunità internazionale con un'Italia considerata Paese di riferimento per la definizione delle politiche libiche. Macron interessato non solo al petrolio della nostra ex colonia, ma anche al ruolo di primattore dell'Africa Nord Occidentale - non si fa problemi a calpestare tutti gli accordi precedenti pur di boicottare le politiche di Roma. E quando il nostro Marco Minniti, titolare del dossier libico e delle azioni di contenimento della migrazione irregolare, gli risponde per le rime allargando il raggio della nostra politica a Paesi come Niger, Mali e Ciad, tradizionalmente legati a Parigi, la risposta va ben al di là dei paletti diplomatici. A settembre, pur di sabotare le iniziative italiane in Libia, Parigi mobilita tre suoi «consiglieri militari». Ai tre viene affidato il compito di coordinare l'offensiva delle milizie vicine ad Haftar intente a strappare la cittadina di Sabratha al controllo di quei gruppi armati con cui i nostri servizi segreti hanno stipulato un'intesa per bloccare i migranti. Non pago Macron lavora anche per far saltare il progetto di missione militare italiana in Niger annunciata a dicembre dal governo Gentiloni e approvata a gennaio dal nostro Parlamento. La missione rivolta a fermare il traffico di uomini verso la Libia è una diretta conseguenza delle politiche allargate di Minniti. Anche perché per anni quel traffico è transitato sotto gli occhi indifferenti delle forze speciali francesi in Niger. Lo sgambetto di Parigi anche questa volta non si fa attendere. Subito dopo il voto del nostro Parlamento fonti dell'Eliseo rilanciate dalla radio pubblica Rfi (Radio France Internationale) fanno sapere che il governo del Niger «nega di essere stato consultato e di essere d'accordo con l'iniziativa». Pochi giorni dopo le «voci» francesi vengono confermate dal ministro dell'Interno del Niger, Mohamed Bazoum decisissimo nel smentire che il suo governo abbia mai chiesto l'intervento dei nostri militari nel suo Paese. Bardonecchia insomma non è solo una bega di confine. È, invece, la conferma di come la sfacciataggine e l'arroganza politica della Francia di Macron nei confronti di un'Italia, troppe volte in passato incerta o arrendevole, sia assolutamente priva di limiti e frontiere.

BARDONECCHIA, BLITZ POLIZIA FRANCESE. I regali a Parigi di Berlusconi, Prodi, Letta, Renzi. La politica estera italiana da diverso tempo sembra essere non molto incisiva, indipendentemente dal colore dei governi. Come dimostra il caso di Bardonecchia, scrive Augusto Lodolini l'1 aprile 2018 su "Il Sussidiario". Da molto tempo la politica estera italiana non brilla per la sua rilevanza, anzi si presenta come incerta e prona a seguire gli eventi, piuttosto che prevederli e gestirli. Come in altri settori, l'Italia sembra più disposta a seguire il leader del momento anziché assumere un qualche ruolo direttivo. Diverse ultime notizie di cronaca rafforzano purtroppo questa impressione, a partire dal caso del blitz della polizia francese a Bardonecchia fino al rinvio a giudizio di Sarkozy per la questione libica. A differenza di Sarkozy, Cameron e Obama, Berlusconi è ancora attivo in politica, ma ciò non cancella il suo comportamento incoerente, per non dire peggio, in occasione dell'attacco alla Libia del 2011. Questo comportamento non è neppure servito a salvare il suo governo, caduto nel novembre dello stesso anno a causa di quello che molti considerano una sorta di golpe, tra i cui artefici si ritrova anche Sarkozy. La deludente politica estera non è una prerogativa di Berlusconi, anzi, come dimostra il trattato ancora con la Francia sui confini marittimi. Il trattato è stato firmato a Caen nel marzo 2015 da Gentiloni, ministro degli Esteri del governo Renzi allora in carica, dopo colloqui tra i due governi che risalgono al 2006 e che coinvolgono governi guidati da Berlusconi, Prodi, Monti, Letta e, appunto, Renzi. Il trattato è tornato recentemente alla ribalta per le critiche di diversi esponenti del centrodestra, che hanno accusato il governo di aver svenduto una parte del territorio marittimo italiano alla Francia. I danni sarebbero gravi, sia per i limiti imposti ai nostri pescatori che per la cessione dei diritti di sfruttamento di giacimenti di idrocarburi nelle zone passate ai francesi. I critici sono stati accusati di sovranismo e le critiche definite "bufale", dato che "il trattato non è in vigore, perché mai ratificato" dal nostro Parlamento, a differenza di quanto fatto dalla Francia. Osservazione formalmente ineccepibile, ma che dire di un Parlamento che a distanza di tre anni non ha ancora firmato un trattato internazionale già ratificato dalla controparte? Nel 2016 i francesi sequestrarono un nostro peschereccio, applicando così il trattato, incidente poi rientrato con le scuse francesi. Il fatto diede luogo a interrogazioni parlamentari, non solo "sovraniste" ma anche delle sinistre, e la risposta del governo ammise che alcuni aspetti del trattato, pur firmato, dovevano essere approfonditi. E' seguito il silenzio, interrotto dalle recenti polemiche, scatenate anche dal fatto che in Francia si è tenuta una consultazione pubblica sull'assetto del Mediterraneo e il suo termine, il 25 marzo, è stato preso dai suddetti politici come data dell'applicazione unilaterale del trattato da parte dei francesi. Cosa smentita dalla Farnesina e dall'ambasciata francese in Italia, che ha dovuto però ammettere che nel materiale soggetto alla consultazione erano incluse mappe che riproducevano quanto previsto dal trattato di Caen. L'ambasciata ha assicurato che le mappe, inserite per "errore", verranno quanto prima corrette. Tutto a posto, quindi? Non si direbbe proprio. La promessa di correggere gli errori nelle mappe è arrivata solo il 18 marzo, a pochi giorni dalla fine di una consultazione iniziata il 26 gennaio. Inevitabile pensare che senza le polemiche "sovraniste", le mappe sarebbero rimaste quelle del trattato di Caen, implicita conferma dell'intenzione francese di applicare il trattato. Forse rassicurato dal fatto che il governo italiano non ha avuto nulla da ridire per circa due mesi dalla pubblicazione delle mappe. Tanto più che l'attuale governo è presieduto da quello stesso Gentiloni firmatario a suo tempo del discusso trattato. Criticabile appare anche la decisione di questi ultimi giorni di espellere due diplomatici russi, che è stata presa da un governo dimissionario. Non si tratta solo di un aspetto formale: questa decisione crea comunque indebiti condizionamenti al governo che andrà ad insediarsi. Siamo al limite dell'abuso di potere in una materia decisamente delicata come la politica estera. Né sembrano esistere urgenti ragioni di sostanza, anzi. Come ha sottolineato Andrew Spannaus nella sua intervista al Sussidiario, all'Italia non conviene inventarsi nuove soluzioni, ma questo non significa seguire gli errori degli altri. Soprattutto quando questi sono particolarmente dannosi per il Paese, come nel caso delle sanzioni alla Russia. Come se non bastasse, si è ora aggiunto il caso di Bardonecchia, con cinque doganieri armati francesi che hanno fatto irruzione nella stazione per sottoporre un nigeriano a un test antidroga. La Farnesina ha convocato l'ambasciatore francese per chiedere spiegazioni, ma il ministro dei Conti pubblici francese, responsabile dei doganieri, ha affermato che l'intervento è del tutto legittimo in base a un accordo firmato con l'Italia nel 1990. Se è vero, siamo al ridicolo. A questo punto verrebbe da concludere che per l'Italia sono pericolosi, più che i "sovranisti", i tanti che sono disposti a cedere (o che hanno già ceduto) pezzi di sovranità, anche senza un piatto di lenticchie.

Sarkozy, “5 milioni in 3 valigie da Tripoli”: l’inchiesta partita nel 2013 tra soldi libici, intercettazioni e false identità telefoniche. Nell'autunno 2016 il faccendiere franco-libanese Ziad Takieddine aveva raccontato ai magistrati di aver trasportato il denaro in banconote da 200 e 500 euro in tre viaggi fra il 2006 e il 2007, anno in cui l'ex leader dell'Ump salì per la prima volta all'Eliseo. L'inchiesta era partita nel 2013, dopo mesi di indagini su tre diversi filoni che si incrociavano nella persona dell'ex presidente: lo scandalo Bettencourt, i finanziamenti illeciti dalla Libia dell'ex amico Gheddafi e il ruolo del governo nella disputa fra Bernard Tapie e il Credit Lyonnais, scrive Marco Pasciuti il 20 marzo 2018 su "La Repubblica". Cinque milioni in contanti in tre valigette. Trasportati in aereo da Tripoli a Parigi in tagli da 200 e 500 euro con i saluti affettuosi di Muammar Gheddafi, erano destinati a finanziare la campagna elettorale coronata dal trionfo alle presidenziali del 2007 contro la socialista Segolène Royal. Nicolas Sarkozy ne risponde da questa mattina ai magistrati negli uffici della polizia giudiziaria di Nanterre. Solo una tranche dei presunti finanziamenti occulti per 50 milioni di cui il sito d’inchiesta Mediapart aveva cominciato a parlare nel 2012. Era stato Ziad Takieddine a far crollare il mondo addosso all’ex uomo più potente di Francia nell’autunno 2016, a 5 giorni dalle primarie della destra in cui il leader de Les Republicains cercava il rilancio in vista delle presidenziali dell’anno successivo. Il 15 novembre (il giorno prima dell’annuncio della candidatura dell’uomo che poi quella tornata elettorale l’avrebbe vinta, Emmanuel Macron) il faccendiere franco-libanese aveva raccontato ai magistrati in una video-testimonianza di aver “trasportato un totale di 5 milioni di euro” in alcune valigie nel corso di tre viaggi fra il novembre 2006 e inizio 2007. Avrebbero avuto al loro interno banconote da 200 e 500 euro, ognuna per un totale fra 1,5 e 2 milioni. Le prime due le avrebbe lasciate direttamente nell’ufficio di Claude Guèant, fedelissimo di Sarkò, allora direttore di campagna e poi promosso segretario generale dell’Eliseo; la terza “consegna” si sarebbe verificata in un appartamento di Sarkozy, allora ancora ministro dell’Interno. Di finanziamenti libici, scrive Le Monde, all’allora aspirante capo dell’Eliseo aveva già parlato il 20 settembre 2012 l’ex direttore dell’intelligence militare libica, Abdallah Senoussi, davanti alla procura generale del Consiglio nazionale di transizione libico. E anche i documenti recuperati dalla giustizia francese dell’ex ministro libico del Petrolio, Choukri Ghanem, morto nel 2012 in circostanze misteriose, fanno riferimento all’esistenza di versamenti di denaro verso Sarkozy. Lo stesso Bechir Saleh, ex finanziere di Gheddafi e uomo incaricato dal raìs di curare le relazioni con la Francia, aveva rivelato al quotidiano conservatore che “Gheddafi aveva ammesso di aver finanziato Sarkozy. Sarkozy nega, ma io credo di più a Gheddafi”. L’ultima puntata della saga era andata in scena lo scorso 7 gennaio, quando Alexandre Djouhri, uomo d’affari francese anche lui al centro dei sospetti finanziamenti libici alla campagna presidenziale del 2007, era stato fermato dalla polizia di Londra su richiesta dei giudici di Parigi all’aeroporto di Heathrow nel quadro di un mandato d’arresto per “frode” e “riciclaggio”. Tra soldi dei libici, intercettazioni e false identità telefoniche, quella sui soldi libici si è intrecciata in passato con altre due indagini che hanno coinvolto l’ex presidente. Le tre inchieste si erano incrociate il 1° luglio 2014, giorno in cui, colletto sbottonato e barba incolta, Sarkozy si era infilato di buon mattino nei corridoi degli uffici di polizia giudiziaria di Nanterre. Quel giorno l’ex capo dello Stato era stato fermato e interrogato: la prima volta di un ex presidente nella storia della Repubblica. Patricia Simon e Claire Thepaut, le due magistrate del pool finanziario parigino, erano arrivate dove nessuno aveva mai osato prima: intercettare un ex presidente, poi intercettare anche Paul Bismuth. Che era sempre Sarkozy, ma sotto il fittizio nome con il quale aveva comprato un’altra carta sim e un altro telefono cellulare. Loro l’avevano capito e non hanno esitato ad andare a sentire anche i colloqui dell’inesistente Bismuth con Thierry Herzog, avvocato storico e amico da 25 anni di Sarkozy. Colloqui per i quali Sarko è indagato per corruzione e abuso d’ufficio. La scintilla era scoccata nel dicembre 2013, dopo mesi di indagini su tre diversi filoni che si incrociavano nella persona dell’ex presidente: lo scandalo Bettencourt (le bustarelle con i bigliettoni dell’ereditiera dell’impero L’Oreal per la campagna elettorale vittoriosa del 2007) e, appunto, i finanziamenti illeciti piovuti anche dalla Libia dell’ex amico poi diventato nemico Gheddafi. E infine anche il ruolo avuto dal governo, sotto la presidenza Sarkozy, nell’arbitrare la disputa fra il miliardario Bernard Tapie e la banca Credit Lyonnais, finita con la decisione di risarcire il primo con oltre 400 milioni di euro. In quelle telefonate, Sarkozy-Bismuth e Herzog parlavano molto e sempre degli stessi argomenti: le agende, soprattutto quelle agendine, con i segreti di tre inchieste che bruciavano, anche se in quella Bettencourt per il presidente era arrivata nel frattempo l’archiviazione. Sarkozy voleva sapere ogni giorno, più volte al giorno, cosa stava decidendo la Cassazione, alla quale si era rivolto per farle secretare. E in Cassazione “l’amico” era Gilbert Azibert, che lo informava. E che sognava di prendere “l’ascensore”, cioè di farsi spedire – grazie agli amici dell’ex presidente – nel Principato di Monaco. Ad informare Sarkozy ed Herzog di come andavano le cose, compresa la decisione di mettere sotto intercettazione i telefoni di entrambi, erano Azibert e il collega togato Patrick Sassoust.

Morti sospette e confessioni dietro quei 5 milioni occulti. Dichiarazioni di ex gerarchi e documenti proverebbero il finanziamento: che secondo alcuni fu di 50 milioni, scrive Fausto Biloslavo, Mercoledì 21/03/2018, su "Il Giornale". Morti sospette, registrazioni segrete, documenti compromettenti, confessioni di ex gerarchi libici e la tragica fine di Gheddafi sono i tasselli che portano ai 5 milioni di euro che il colonnello avrebbe versato a François Sarkozy per aiutarlo a diventare presidente. La pista dei soldi comincia a emergere sei anni fa con la pubblicazione sul sito francese Mediapart di un documento libico, che proverebbe il passaggio di denaro da Tripoli a Sarkozy. Il finanziamento segreto sarebbe servito per la campagna elettorale del 2007, che portò il politico francese all'Eliseo. In realtà un anno prima della pubblicazione del documento, durante la rivolta che ha abbattuto il regime di Gheddafi, il figlio intelligente del colonnello Seif el Islam parlò dei finanziamenti libici a Sarkozy, alla vigilia dei bombardamenti della Nato fortemente voluti dalla Francia. E il 25 ottobre 2011 l'ex premier libico, Baghdad al Mahmoudi, fuggito e arrestato in Tunisia, ammetteva durante un interrogatorio: «Ho supervisionato personalmente il dossier del finanziamento di Tripoli alla campagna di Sarkozy». L'anno dopo, l'ex capo dei servizi segreti interni di Gheddafi e suo cognato, Abdallah Senoussi, rinchiuso ancora oggi nel carcere di Tripoli, confermava, dietro le sbarre, che Sarkozy aveva preso milioni di euro dal colonnello. Secondo alcune fonti, il finanziamento segreto non era di 5, ma 50 milioni di euro. Nel 2013 la magistratura d'Oltralpe aprì un'inchiesta e i media francesi, come Le Monde, cominciarono a scavare delineando i dettagli. L'innominabile accordo sarebbe stato finalizzato il 6 ottobre 2006 e della parte operativa si occupò Bashir Saleh, il capo di gabinetto di Gheddafi. L'accordo era riportato in un documento firmato da Mussa Kussa, allora capo degli onnipresenti servizi segreti libici all'estero e oggi riparato in Qatar. A Vienna, nel 2012, venne trovato a galleggiare sul Danubio il cadavere dell'ex ministro del petrolio del regime Choukri Ghanem. Sulla sua agenda alla data 29 aprile 2007 descriveva nei dettagli un pranzo di lavoro con l'allora premier Al Baghdadi che «dice di aver inviato 1,5 milioni di euro a Sarkozy mentre Seif el Islam (figlio di Gheddafi) ne aveva donati 3». E altri 3 milioni di euro sarebbero arrivati da Senoussi, il temuto capo dei servizi, si legge sull'agenda del morto eccellente. Nel novembre 2016, durante le primarie repubblicane per l'Eliseo, il faccendiere Ziad Takieddine dichiarava di aver trasportato 5 milioni di euro in contanti da Tripoli a Parigi tra fine 2006 e inizio 2007 per consegnarli a Claude Gueant, fedelissimo di Sarkozy. L'ex presidente continua a smentire con stizza, ma lo stesso Saleh riparato in Sud Africa ha confermato a Le Monde che «Gheddafi aveva ammesso di aver finanziato Sarkozy». Di recente il testimone chiave è stato ferito da colpi di arma da fuoco a Johannesburg. Il cerchio attorno a Sarkozy si sta stringendo e sono saltate fuori nuove figure chiave, come l'intermediario francese Alexandre Djouhri, amico di Saleh e vicino all'ex presidente, che attualmente è dietro le sbarre a Londra, ma potrebbe venire estradato in Francia. Oltre alla pista dei soldi, dopo la caduta del regime, si è scatenata la caccia dei servizi segreti alle registrazioni audio e video girate di nascosto degli incontri di Gheddafi con i dignitari di mezzo mondo. Fra questi c'è Sarkozy, che accogliendo il colonnello a Parigi lo definì «il fratello leader». I settanta scatoloni con l'archivio segreto di Gheddafi in possesso di un gruppo di ribelli di Bengasi ad un certo punto sono spariti, dopo l'interessamento dei francesi. Il caso era stato gestito da Bernard Squarcini, uomo di Sarkozy nell'intelligence. E ancora oggi aleggia il mistero su chi abbia sparato il colpo di grazia a bruciapelo, che ha ucciso Gheddafi dopo la sua cattura. I ribelli che lo avevano preso, volevano tenere in vita il prigioniero eccellente per processarlo. Mesi dopo, Mahmoud Jibril, che è stato primo ministro ad interim, dopo la caduta del regime, confermava alla tv egiziana: «Un agente straniero mescolato ai rivoluzionari ha ucciso Gheddafi».

Napolitano e i raid in Libia Il silenzio del complice rosso. Su pressione di Sarkozy spinse per l'intervento italiano insieme alla Francia. Un danno a Cavaliere e aziende, scrive Gian Maria De Francesco, Mercoledì 21/03/2018, su "Il Giornale".  Ora che una parola sarebbe necessaria ancor più che gradita il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, tace. Eppure in questi mesi e in questi giorni lui, che dopodomani presiederà il nuovo Senato in quanto componente anziano, ha favellato dispensando suggerimenti al suo successore. Ora che Nicolas Sarkozy è gardé à vue lui, che con l'Eliseo ebbe molto più di un abboccamento in quel tragico 2011, non lascia spirare nemmeno un fiato. Eppure Giorgio Napolitano ebbe un ruolo preponderante nella decisione italiana di supportare la coalizione Nato che eliminò Muhammar Gheddafi sette anni fa facendo piombare l'intera Libia nel caos. Quella stessa Libia che finanziò la campagna presidenziale di Sarkozy. Sui social ieri molti chiedevano all'ex presidente di spiegare, di motivare o, per lo meno, di fornire un dettaglio. Tra questi Francesco Storace che su Twitter ha scritto: «Nessuno che chieda scusa per i bombardamenti in Libia. Tangenti e guerra contro la sovranità nazionale». Nella biografia del Cavaliere scritta da Alan Friedman è lo stesso Berlusconi a evidenziare che Napolitano «continuava a insistere che dovessimo allinearci con gli altri in Europa», e che quindi la decisione era già presa, facendo pesare il suo ruolo di capo delle Forze armate. Interpretazione confermata al Giornale dall'ex presidente del Senato, Renato Schifani, che sottolineò come a marzo 2011, Napolitano convocò un vertice riservato durante l'intervallo del Nabucco all'Opera di Roma, in cui rappresentò l'ultimatum di Sarkozy sulla partecipazione all'intervento in Libia sotto l'egida della Nato. «L'Italia non può rimanere fuori», disse Napolitano secondo Schifani. Nel 2016 il presidente Usa, Barack Obama, dichiarò di essersi pentito di quell'operazione cui lo spinsero tanto il segretario di Stato, Hillary Clinton, quanto gli alleati Sarkozy e Cameron (ex premier britannico). Sarkozy «voleva vantarsi di tutti gli aerei abbattuti, nonostante il fatto che avessimo distrutto noi tutte le difese aeree», affermò Obama. Il riluttante Berlusconi, che aveva firmato un trattato di amicizia con la Libia con il quale si poneva un argine all'immigrazione clandestina, fu costretto a venir meno alla parola e a concedere le basi per i bombardamenti. Napolitano ancor oggi non spiega. Eppure la crisi libica rappresentò il secondo tassello decisivo per completare il puzzle della demolizione del Cavaliere. Il primo fu la scissione di Gianfranco Fini, «sponsorizzata» dal Quirinale per indebolire l'ampia maggioranza del Pdl. Il secondo fu l'utilizzo del ruolo di capo supremo delle Forze armate per costringere il presidente del Consiglio a cambiare, su pressione di Sarkozy, la politica estera sulla Libia danneggiando anche gli interessi delle aziende italiane lì impegnate. Il terzo e decisivo è noto: durante la speculazione anti-italiana sullo spread, l'allora capo dello Stato si accordò all'asse Sarkozy-Merkel per defenestrare il premier e insediare il governo Monti, cioè il «maresciallo Petain» targato Bruxelles. È notorio, infatti, che il Cav fosse restio ad assecondare i diktat di Berlino e di Parigi. Il silenzio di oggi, forse, vale più di tante parole.

"Che errore quell'attacco contro Tripoli. Solo Berlusconi aveva previsto la débâcle". L'ex sottosegretario Guido Crosetto: "La nostra influenza in Africa cresceva e dava fastidio", scrive Fabrizio de Feo, Mercoledì 21/03/2018, su "Il Giornale". 

Onorevole Guido Crosetto, lei nel 2011 da sottosegretario alla Difesa del governo Berlusconi si batté strenuamente contro l'intervento in Libia. Cosa ricorda di quei giorni?

«Io ero fortemente contrario ma il resto del mondo era favorevole. Prima la Francia e la Gran Bretagna e a seguire gli Stati Uniti, ma anche in Italia si adeguarono in molti, non solo il Capo dello Stato che non nascose mai la sua posizione, ma quasi tutte le forze politiche, compresa la presidenza della Camera e gli Esteri. Pochissimi erano contrari, tra questi Berlusconi che era però nel suo momento di massima debolezza».

Perché lei si schierò contro?

«Solo Gheddafi poteva tenere insieme le centinaia di tribù, un Paese che oltretutto allora aveva il più alto reddito pro capite dell'Africa. E poi era evidente che si trattava di un intervento contro di noi, contro i nostri interessi, contro l'Eni. Allora il 25% del nostro fabbisogno energetico veniva coperto dalla Libia, oggi solo il 7%. A quei tempi, inoltre, già si sussurrava che ci fosse qualcosa di strano nella determinazione di Sarkozy contro Gheddafi, ma erano semplici dicerie di sottobosco».

Come riuscì Sarkozy a convincere gli alleati?

«Trovò la sponda britannica e poi quella di Hillary Clinton. Berlusconi si ritrovò solo contro tutti, probabilmente non riuscimmo a fare sponda con la Germania in quel frangente».

Cosa accadde al Teatro dell'Opera di Roma?

«Erano in corso i festeggiamenti per il 150esimo dell'Unità d'Italia. Si tenne una consultazione di emergenza. Erano presenti Giorgio Napolitano, Silvio Berlusconi, Franco Frattini, Ignazio La Russa. Non mi fu concesso di partecipare».

Fu il presidente Napolitano a non volerla?

«La mia presenza non era gradita, forse avevo espresso in maniera troppo colorita la mia contrarietà».

La sinistra italiana si schierò per l'intervento.

«Sì, e fece di tutto per far passare Berlusconi come l'amico del feroce e sanguinario dittatore, senza considerare il nostro interesse nazionale».

La Francia come si relazionò con l'Italia?

«Ricordo un particolare: mentre Berlusconi era all'Eliseo a discutere dell'intervento si alzarono in volo aerei francesi che sorvolarono lo spazio aereo italiano senza comunicarcelo. Una cosa gravissima».

Perché l'Italia finì nel mirino?

«L'influenza italiana su tutto il Nord Africa stava crescendo, eravamo l'unico serio interlocutore della Libia, avevamo anche completato il gasdotto Greenstream. Ci stavamo allargando troppo».

Macron sta cercando di ricostruire l'influenza francese sulla Libia.

«Ciò che mi colpisce è che non ho mai visto Macron parlare di interesse europeo. Ragiona solo in termini di interesse francese. E così dovrebbero fare tutti i Capi di Stato. Di certo il rapporto Francia-Italia è estremamente belligerante, noi sembriamo un Paese di conquista con interventi duri sulle acque territoriali, su Fincantieri, Mediaset, Generali, Mediobanca».

Lei si è schierato anche contro l'intervento in Niger.

«Mi impressionano le difficoltà logistiche e poi l'interesse da difendere è soprattutto francese. Non credo che la Difesa e l'Esercito abbiano avallato con entusiasmo l'intervento».

Pensa che il governo che sta per nascere sarà in grado di mettere in campo un progetto per Libia e Mediterraneo?

«Sarebbero necessarie scelte strategiche che guardino ai prossimi 10, 20 anni, ma la vedo difficile».

Sarkozy e i soldi di Gheddafi, le tappe e l'inchiesta. L'ex presidente francese in stato di fermo per presunti finanziamenti illeciti dalla Libia alla campagna elettorale del 2007, scrive il 20 marzo 2018 "Quotidiano.net".

Tutto è cominciato nell'aprile del 2012 con un'inchiesta della testata Mediapart. Quasi sei anni dopo arriva la svolta nell'indagine sui presunti finanziamenti a Nicolas Sarkozy da parte di Gheddafi: l'ex presidente francese è in stato di fermo, a Nanterre, interrogato dalla polizia giudiziaria. Le Monde, che per primo ha diffuso la notizia, ipotizza che dietro a questo provvedimento ci siano nuove prove portate dalle rivelazioni di ex dignitari libici. Il presunto passaggio di fondi risale alla fine del 2006, inizio del 2007, periodo della campagna elettorale che Sarko vinse, salendo all'Eliseo. Cosa è successo da quella data a oggi? Ripercorriamo le tappe dalla sua elezione al fermo.  

Il 16 maggio 2007 Nicolas Sarkozy viene eletto Presidente della Repubblica dopo essere stato prima ministro delle finanze e poi ministro dell'Interno. Da quest'ultima carica si è dimesso il 27 marzo, in ragione della campagna elettorale per l'Eliseo. Per quella stessa campagna ha investito circa 20 milioni in più rispetto al tetto dei 22,5 milioni consentiti per legge. Per questo sarà rinviato a giudizio. 

Nel 2011 la Francia di Nicolas Sarkozy spinge per l'attacco alla Libia che avrebbe poi accelerato il rovesciamento del regime di Gheddafi. 

Il 22 aprile 2012 Sarkozy esce sconfitto dal primo turno nelle elezioni francesi per la corsa verso la presidenza. Negli stessi giorni Mediapartpubblica dei documenti che per la prima volta parlano di finanziamenti del leader libico Muammar Gheddafi alla corsa all'Eliseo di Sarkozy. 

Il 20 settembre 2012 Abdallah Senoussi, ex direttore dell'intelligence militare libica parla al procuratore generale del Consiglio nazionale transitorio, raccontando di fondi transitati da Tripoli a Parigi tra fine 2006 e inizio 2007. 

Nell'aprile del 2013 l'Anticorruzione di Nanterre apre un'inchiesta su una presunta linea di finanziamenti illeciti provenienti dalla Libia che sarebbero serviti a supportare la campagna alle presidenziali del 2007. 

Il 2 luglio 2014 Sarkozy viene messo in stato d'accusa per corruzione, traffico di influenze e violazione del segreto istruttorio e rilasciato dopo 15 ore d'interrogatorio, senza provvedimenti restrittivi. Tramite il suo avvocato, Sarkozy avrebbe cercato di ottenere informazioni dal magistrato Gilbert Azibert in merito all'inchiesta sul possibile finanziamento libico della campagna, promettendo in cambio un incarico di prestigio a Monte Carlo.

Nel maggio 2016 la corte di appello di Parigi cancella alcuni atti dell'inchiesta per corruzione, ritardando la prospettiva di un processo per Sarkozy, il suo avvocato e Azibert. 

Nel novembre del 2016, mentre in Francia sono in corso le primarie dei Repubblicani, il faccendiere Ziad Takieddine afferma di avere trasportato 5 milioni di euro in contanti da Tripoli a Parigi tra la fine del 2006 e l'inizio del 2007 per consegnarli a Claude Gueant (ex segretario generale dell'Eliseo) e poi a Nicolas Sarkozy, allora ministro dell'Interno. Conferma sostanzialmente la versione di Abdallah Senoussi. Ad aumentare i sospetti, secondo Le Monde, ci sarebbero anche i libri dell'ex ministro del Petrolio libico Shoukri Ghanem, morto nel 2012 in circostanze ancora dubbie, che menzionano l'esistenza di pagamenti a Nicolas Sarkozy.

Nel febbraio 2017 Sarkozy è stato rinviato a giudizio per per aver consapevolmente sforato il tetto delle spese per la campagna del 2007. La vicenda coinvolge altre 13 personalità ed è nota come "affaire Bygmalion", dal nome della società di comunicazione Bygmalion, che ha emesso fatture false a carico del partito di Sarkozy, l'Ump (Unione per un movimento popolare).

Il 20 marzo 2018 lo stato di fermo per presunti finanziamenti illeciti da parte della Libia di Gheddafi.  Il fermo può durare fino a un massimo di 48 ore, al termine dei quali l'ex presidente della Repubblica potrebbe essere costretto a presentarsi davanti ai magistrati per essere incriminato.

IL RITRATTO DELL’EX PRESIDENTE FRANCESE. Sarkozy, la parabola è stata lenta e crudele. Era la grande promessa della destra europea, poi il declino. L’ultima accusa: i soldi da Gheddafi. «La politica? È come una droga. L’ago va estratto poco per volta», disse. Ha tentato ritorni impossibili, tutti falliti. L’unica italiana che continua ad amarlo è Carla Bruni, scrive Aldo Cazzullo il 20 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Nicolas Sarkozy era stato la grande promessa della destra francese ed europea. Basta con l’egualitarismo e il pauperismo, con l’eredità del Sessantotto, con il politicamente corretto, con il buonismo: chi lavora di più guadagni di più; merito, opportunità, e delinquenti in galera. Ora in stato di fermo è finito lui, con l’accusa infamante di aver preso soldi da Gheddafi per la campagna elettorale del 2007 – che avrebbe vinto comunque, un po’ come gli scudetti della Juve di Moggi – e di averlo poi bombardato, per cancellare le tracce. La destra italiana l’ha adorato; poi quando rise del suo padrone di allora lo abbandonò. La sinistra l’ha detestato fin dall’inizio. L’unica italiana che continua ad amarlo è Carla Bruni. La parabola di Sarkozy è stata lenta e crudele. Nel gennaio 2012, presagendo la sconfitta contro Hollande che disprezzava profondamente, in un momento di confidenza con i giornalisti al seguito nel suo viaggio in Guyana annunciò il ritiro: «La politica è come una droga. L’ago va estratto poco per volta» disse mimando un’iniezione. Poi tentò di buttarla sul ridere: «Farò conferenze, viaggi, e un sacco di soldi». Non è stato di parola. Ha tentato ritorni impossibili. Si è ripreso il partito, gli ha cambiato il nome – Les Républicains, come in America - ma è stato sconfitto alle primarie da Fillon, che poi non ha neppure passato il primo turno delle presidenziali. A quel punto si è ritrovato nudo di fronte alla magistratura, che l’ha accusato pure di aver subornato l’anziana Liliane Bettencourt, l’ereditiera dell’Oréal, sempre per avere denari per la campagna elettorale. In realtà sono altre le cose che Sarkozy non perdona a se stesso: non lasciare un monumento che lo ricordi, come il museo dei Quai Branly per Chirac, la piramide del Louvre e la Très Grande Bibliotéque per Mitterrand, o il Centre Pompidou (inaugurato da Giscard); e aver perso il duello televisivo con Hollande (“la sera dopo non ho chiuso occhio. Ho rifatto il dibattito parola per parola. Avrei dovuto parlare dei successi in politica estera. Avrei dovuto rinfacciare a Hollande che il debito della sua regione, la Corrèze, è aumentato del 45%. Avrei dovuto…”). Il disinnamoramento dei francesi è stata per Nicolas una prova durissima, quasi come l’abbandono della donna della sua vita, Cécilia. Per riconquistarla aveva organizzato la festa da Fouquet’s - il ristorante dei miliardari - nella notte della vittoria, e poi la fuga a Malta sullo yacht di Bolloré, che l’hanno reso inviso all’opinione pubblica sin dall’inizio. Oggi la parabola tocca il punto più basso. Ora più che mai valgano per lui le parole che Kavafis scrisse ispirandosi proprio al passo di Plutarco: «Quando i macedoni lo abbandonarono dimostrando di preferirgli Pirro il re Demetrio non si comportò affatto - così dissero – come un re. Si tolse le vesti d’oro e gettò via i calzari di porpora. Indossò rapidamente abiti semplici, e si dileguò. Proprio come un attore che, finita la rappresentazione, si cambia d’abito, e se ne va».

Sarkozy e la giustizia tante inchieste nessuna condanna, scrive Daniele Zaccaria il 21 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Dall’assoluzione nel caso Betancourt alle intercettazioni illegali del suo avvocato… Tutti i guai di Nicolas con la giustizia. E dire che nelle ultime settimane aveva moltiplicato le apparizioni pubbliche, spuntava come un fungo nei talk show, occhieggiava in tv in una campagna contro i tumori dell’infanzia di cui è il principale testimonial: «Sta tornando» giuravano nel suo entourage tradendo una certa eccitazione. Sconfitto dal socialista Hollande alle presidenziali del 2012, sconfitto da Fillon alle primarie della destra del 2016, Nicolas Sarkozy confidava in un ennesimo ritorno sulla scena politica. Sarebbe nel suo stile. Da ieri è invece ricaduto nel gorgo delle inchieste che lo inseguono da almeno un ventennio. Un’odissea giudiziaria che nel corso degli anni si è arricchita di nuovi successivi capitoli anche nessun tribunale ha mai emesso una condanna nei suoi confronti. «Sono un perseguitato», giura Sarko, parlando di gogne mediatiche e di malafede da parte dei magistrati. Magari persecuzione è una parola grossa, di sicuro però l’ex inquilino dell’Eliseo è stato oggetto di attenzioni particolari e di metodi a dir poco teppistici da parte della magistratura. L’episodio più grave fu l’intercettazione avvenuta nel 2014 del suo avvocato Thierry Herzog, una violazione flagrante della legge francese che vieta in modo assoluto di intercettare il legale di un imputato salvo in casi di terrorismo e di sicurezza nazionale e che getta una luce sinistra su tutta la vicenda. Fu in quell’occasione che Sarko subì il suo primo fermo giudiziario (non era mai accaduto a un ex presidente), torchiato dai mastini della procura di Parigi per 15 ore prima di venire rilasciato e rinviato a giudizio per corruzione attiva, traffico d’influenza attivo e violazione del segreto professionale. D’altra parte l’inchiesta, oltre ad essere viziata dall’uso illegale degli ascolti telefonici, seguiva un teorema accusatorio molto fragile. Sarkozy era sospettato di aver ottenuto tramite l’intercessione di Herzog informazioni riservate da Gilbert Azibert un giudice della Corte di cassazione che stava indagando sull’affaire Bettencourt (un altro caso giudiziario in cui venne scagionato dall’accusa di “circonvenzione di incapace” nei confronti di Liliane Betencout, 90enne proprietaria dell’azienda di cosmetici L’Oréal), in cambio avrebbe promesso a Azibert un posto di prestigio alla procura di Monaco. Il problema è che Azibert non ha mai ottenuto quella promozione e alla fine l’ipotesi dei giudici si è sgonfiata come un soufflé e nel 2016 la Corte di appello di Parigi ha stralciato decine di atti dell’inchiesta. Nel febbraio 2017 è stato invece rinviato a giudizio per finanziamenti illegali alla campagna elettorale del 2012, quella che perse rovinosamente contro il poco carismatico Hollande, per aver sforato il tetto delle spese: 42 milioni di euro contro i 22,5 consentiti dalla legge. L’inchiesta che coinvolge altre 13 personalità è nota come «affaire Bygmalion», dal nome della società di comunicazione Bygmalion, che avrebbe emesso fatture false a carico del partito post- gollista di Sarkozy, l’Ump (Unione per un movimento popolare) che oggi ha cambiato nome in Les Républicain. Ritornando ancora sulla sventurata campagna presidenziale di sei anni fa un’ulteriore indagine dei giudici ha messo in evidenza come l’Eliseo avesse commissionato sondaggi senza gara d’appalto, un reato che ha portato il rinvio a giudizio del suo ex consigliere Patrick Buisson, che avrebbe tratto personalmente vantaggio economico dalla vendita dei sondaggi, l’ex capo di gabinetto Emmanuelle Mignon e l’ex ministro dell’Interno il fedelissimo Claude Guèant, coinvolto anche nell’inchiesta sui fondi libici per la quale Sarzozy è attualmente in stato di fermo giudiziario. C’è poi la vicenda dei voli su jet privati fatturati alla società Lov Group di Stèphane Courbit, un amico personale di Sarko. Voli per viaggi di piacere a Doha, negli Stati Uniti e a Abu Dhabi, costati circa 300 mila euro. Anche in questo caso, dopo l’iniziale clamore mediatico e i titoloni sui giornali, i magistrati sono stati costretti a prosciogliere l’ex presidente, stabilendo il non luogo a procedere. L’ex presidente è inguaiato anche per una sentenza di arbitrato giuridico che avrebbe favorito l’imprenditore Bertrand Tapie nel 2008, il quale ha ottenuto circa 400 milioni di euro dalla banca Crédit Lyonnais in un contenzioso che riguardava la vendita dell’Adidas: Sarkozy che all’epoca era Capo di Stato è sospettato dai magistrati di aver favorito l’amico Tapie in cambio di sostegno politico. Anche se l’accusa non fu mai provata (peraltro Tapie è storicamente vicino ai socialisti per i quali è stato anche eurodeputato), l’arbitrato venne annullato e l’ex ministra dell’economia e attuale presidente del Fmi Christine Lagarde rinviata a giudizio per «negligenza». In quel caso Sarko non fu ascoltato nemmeno come testimone. Infine, anche se si tratta della prima inchiesta in ordine cronologico, bisogna ricordare il caso Karachi, che riguarda contratti firmati dal governo di Edouard Balladur con Arabia Saudita e Pakistan nel 1995 per la fornitura di fregate e sommergibili militari. All’epoca Sarkozy era ministro del Bilancio del governo Balladur, e venne ascoltato dai giudici come “testimone assistito”. Balladur e l’ex ministro della Difesa François Léotard sono stati rinviati a giudizio nel maggio 2017. Nei confronti di Sarkozy non è invece venuta fuori nessuna responsabilità diretta. Come sempre fino ad oggi.

Le lacrime di coccodrillo di Sarkozy. E il suo ultimo sogno si infrange, scrive il 22 marzo 2018 Eugenia Fiore su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". Nicolas Sarkozy, un bulimico della politica, come l’ha definito Libération. E lo è rimasto anche dopo le sconfitte politiche e i processi giudiziari. Lo era anche in queste ore, in gabbia negli uffici della polizia giudiziaria di Nanterre, interrogato circa i sospetti del finanziamento libico nella campagna presidenziale del 2007. La bulimia del 63enne – ex presidente della Repubblica francese, ex ministro de n’importe quoi ed ex sindaco – è rimasta irrinunciabile, fino ad oggi. Sì, perché – come riportano diversi media francesi – prima di finire in stato di fermo su ordine dei magistrati anti-corruzione, Sarkò stava preparando il suo ritorno. “Perdere è sempre difficile, ma pensare che gli lasciamo gestire questo merdaio ha qualcosa di delizioso”, disse a fronte della sconfitta con François Hollande nel 2012. Ed eccolo di nuovo provare a salire alla ribalta. Almeno fino a qualche giorno fa. Negli ultimi mesi, infatti, l’ex président bling bling  aveva moltiplicato le sue apparizioni: un discorso al Senato sulla sua revisione costituzionale del 2008, interventi sui media a sostegno di una campagna contro il cancro infantile e persino sui suoi gusti letterari o la sua passione per lo sport. “Non male per un pensionato”, aveva commentato in questi giorni un’altra fonte del suo partito, evocando la strategia usata dopo il 2012 dall’ex capo di Stato che aveva riconquistato la guida dell’allora Ump (ribattezzato Les Républicains) per cercare la sua rivincita, mai avvenuta, con Hollande. Perché Sarkozy, in fondo – nonostante l’impeccabile sobrietà dei suoi discorsi di sconfitta, sia nel 2012 che nel novembre 2016 – non aveva mai pensato di andarsene davvero dalla scena politica. E nemmeno ora con il giovane président de la République Emmanuel Macron all’Eliseo è riuscito a farsi da parte: “Macron? È un po’ uomo e un po’ donna, com’è di moda ora. Androgino”, aveva scherzato mesi fa. Dotato di grande entusiasmo comunicativo, di un ardore dialettico legato alla sua gestualità a scatti – indimenticabile (purtroppo) il suo Casse-toi, pauv’con (sparisci, povero coglione NdR) rivolto a un ragazzo che si era rifiutato di stringergli la mano – Sarkozy ha avuto durante tutta la sua carriera politica (sindaco, deputato, ministro, presidente del partito, capo di Stato) il dono di farsi amare e odiare allo stesso tempo dall’opinione pubblica. La Francia era rimasta già delusa da subito quando, dopo averlo eletto presidente della Repubblica, Sarkò ha snobbato i cittadini in piazza della Concorde per correre a festeggiare tra i banchieri al Fouquet’s. Dopo ventisei ore di interrogatorio è arrivata l’incriminazione: Nicolas Sarkozy è formalmente indagato per corruzione passiva, finanziamento illegale della campagna elettorale e occultamento di fondi pubblici libici. L’ex numero uno dell’Eliseo dal 2007 al 2012 avrebbe ricevuto cinque milioni di euro in denaro contante da Gheddafi per il finanziamento della sua campagna elettorale. Prima di tornare – sotto controllo giudiziario – nella sua casa nel sedicesimo arrondissement, Sarkò ha provato a difendersi, parlando di “calunnie” e “mancanza di prove”. “Come si può affermare che ho favorito gli interessi dello stato libico?”, afferma Sarkozy tra lacrime di coccodrillo. E poi continua, fiero del suo operato: “Sono stato io a ottenere il mandato dell’Onu per colpire lo stato libico di Gheddafi. Senza il mio impegno politico, questo regime probabilmente sarebbe ancora presente”. Ma il “piccolo mezzosangue francese” dopo essere stato rinviato a giudizio nel 2017 per finanziamento illecito durante la compagna elettorale del 2012, dopo essere stato accusato in un’inchiesta aperta sui sondaggi commissionati senza gara durante la sua presidenza e dopo essere finito – ora – incriminato per presunti finanziamenti dalla Libia è definitivamente con le spalle al muro. E questa volta nemmeno la sua bulimia politica riuscirà a salvarlo.

Sarkozy rischia 10 anni di cella "Solo odio, bassezze e bugie". L'ex presidente adesso è indagato per le tangenti libiche: «Vivo l'inferno della calunnia, i giudici sono senza prove», scrive Francesco De Remigis, Venerdì 23/03/2018, su "Il Giornale".  «Non mi sono mai sottratto alla giustizia, non sono al di sopra delle leggi, ma farò trionfare il mio onore». Rischia fino a dieci anni di carcere, Nicolas Sarkozy. Formalmente iscritto nel registro degli indagati per corruzione passiva, finanziamento illecito di campagna elettorale e occultamento di fondi libici, è ormai sottoposto a «controllo giudiziario». Una misura cautelare simile alla libertà vigilata. Sceglie la tv per passare al contrattacco: «Contro di me solo odio, bassezze e menzogne, nulla di concreto». Da ieri però gli è stato vietato di recarsi Egitto, Tunisia, Sudafrica e Libia. Ha l'obbligo di informare il giudice sui movimenti, oltre al divieto di contattare o incontrare soggetti come il suo ex braccio destro Claude Guéant e l'altrettanto vicinissimo Brice Hortefeux. Entrambi coinvolti. Il padre dei Républicains, 63 anni, è fuori dalla politica attiva dall'autunno 2016 dopo la sconfitta alle primarie a cui contribuirono anche le voci sulle presunte valige con i 5 milioni in contanti che avrebbe ricevuto dai libici. All'epoca erano soltanto voci. Ora rischia un tentacolare processo. Ai gollisti lascia in eredità lo spettro di un gravissimo affare di Stato. «I fatti di cui sono sospettato sono seri, ne sono consapevole ha ammesso ai magistrati ma se continuo a proclamarlo con la massima costanza e la più grande energia è evidente che si tratta di una manipolazione del dittatore Gheddafi o della sua cerchia di fedelissimi». «Vivo l'inferno della calunnia in assenza di prove materiali, per questo chiedo ai magistrati di misurare la profondità, la gravità, la violenza dell'ingiustizia che mi viene fatta». Tutte «menzogne», quelle libiche? L'incubo che l'inchiesta sia invece un vaso di Pandora cresce nell'opinione pubblica. Sarkozy ne è consapevole. Un vaso individuato e non ancora aperto. Cosa c'è dietro le accuse? Dove si nasconde la verità? La destra non è più tanto solida attorno al vincitore degli ultimi dieci anni. Sarkò si stringe attorno agli avvocati. Prepara il ricorso. E in tv nega ogni imputazione. Perfino gli appuntamenti che gli attribuisce il tuttofare libico Takieddine. L'uomo d'affari franco-libanese con «caratteristiche altamente sospette e dal passato pesantemente oscuro», dice Sarkò. Ma teste chiave. Sarkò aveva già negato ogni accusa all'anticorruzione, che giudica «sufficienti» gli elementi per indagarlo. Ieri sera, ha insistito in tv, davanti a una Francia consapevole di ogni suo vizio, vezzo e abituata a scandali minori; ma forse impreparata a vivere la bufera di un ex capo di Stato coinvolto in quella che si prefigurerebbe come una guerra privata.

«Non ho mai tradito la fiducia dei francesi», vittimizza su Tf1. Durissima la reazione della presidente del Front National, Marine Le Pen: il caso supera ampiamente la questione dei fondi illeciti ad una campagna presidenziale, «qui si parla della decisione di una guerra (in Libia, ndr), dell'eliminazione di un capo dello Stato (Gheddafi), della destabilizzazione di un Paese e della massiccia ondata migratoria che ha scatenato». «Penso che la giustizia debba andare fino in fondo insiste senza lasciarsi strumentalizzare, perché possono esserci conseguenze pesanti in particolare sul piano internazionale». L'ombra di una guerra personale per cancellare prove scomode, dietro l'operazione militare in Libia del 2011, si ingigantisce. Lui ribatte: «Come si può affermare che ho favorito gli interessi dello Stato libico? Sono stato io a ottenere il mandato dell'Onu per colpire. Senza il mio impegno politico il regime probabilmente sarebbe ancora presente». Possibile. Ma il defunto Colonnello avrebbe forse qualcosa da dire su quella luna di miele finita in uccisione. L'uccisione di «un pazzo». Era tale, dice Sarkò di Gheddafi.

"Gheddafi ucciso da infiltrati dei francesi". Il 20 ottobre 2011 a Sirte il Raìs fu liquidato da un gruppo inviato apposta, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 23/03/2018, su "Il Giornale". Chi ha veramente ammazzato Muammar Gheddafi? Ancora oggi non si conosce il nome del giustiziere del Colonnello, che gli ha sparato a bruciapelo in mezzo al caos dei ribelli eccitati dalla cattura. L'unica certezza è che il cerchio attorno a Gheddafi si è chiuso grazie all'intervento di droni, elicotteri e caccia della Nato. E probabilmente di una squadra di infiltrati sul terreno. La fine del Colonnello inizia con una telefonata satellitare che fa a Damasco, forse per garantirsi un rifugio in Siria, intercettata dagli alleati. Così la Nato ha la certezza che il Raìs in fuga è asserragliato nell'ultima ridotta di Sirte, la sua città natale. Il 20 ottobre 2011 Gheddafi e i resti dei suoi fedelissimi decidono l'ultima disperata sortita per sfuggire all'assedio. «Nei giorni precedenti c'erano state diverse missioni tattiche di almeno 9 elicotteri su Sirte - ha raccontato al Giornale una fonte Nato -. Uno inglese e gli altri francesi, che colpivano obiettivi mirati». Non sono certo bombardamenti a casaccio. Quando la colonna si mette in marcia è composta da 75 mezzi zeppi di guardie del corpo e con gli ultimi gerarchi del regime. Un velivolo in ricognizione della Raf individua il convoglio, ma subito dopo un drone Predator pilotato da Las Vegas e decollato dalla base americana di Sigonella lancia il primo missile Hellfire sul convoglio. Sulla scena interviene una coppia di caccia francesi Rafale, già in volo, che martellano la colonna fino a «esaurire il munizionamento». I raid probabilmente condotti anche con elicotteri mettono fuori uso un terzo del convoglio e una dozzina di mezzi scappano verso sud. Gheddafi è costretto a fermarsi trovando riparo in uno scolo di cemento sotto la strada. I piloti dei velivoli Nato e il Predator forniscono continue informazioni alla base Nato di Napoli e Poggio Renatico, che gestisce le operazioni aeree. Parte di queste informazioni vengono girate ai corpi speciali e all'intelligence alleata, al fianco dei ribelli a Sirte. Quando i ribelli tirano fuori il Colonnello dal suo rifugio scoppia il caos e l'eccitazione per la cattura del nemico numero 1. Gheddafi viene pestato, sodomizzato ed è ferito, ma vivo. Qualcuno grida «ammazziamolo» e altri che bisogna portarlo a Misurata. L'idea è di processarlo ed esibirlo come un trofeo. «L'impressione è che dopo il primo gruppo di insorti che catturano Gheddafi vivo ne sia arrivato un secondo, che sapeva esattamente cosa fare e aveva ordini precisi di eliminare i prigionieri» ha spiegato una fonte riservata del Giornale allora in prima linea. Gheddafi è sanguinante e stremato, ma respira ancora fino a quando arriva il secondo gruppo e lo sbattono su un fuoristrada. Poi le immagini si confondono, le urla aumentano e si sentono dei colpi d'arma da fuoco. Il Colonnello è morto. Non si capisce e non si è mai saputo chi abbia sparato. L'autopsia rivela che è stato ucciso da un proiettile all'addome e da un altro in testa. Un'esecuzione eseguita da qualcuno «infiltrato» fra i ribelli e arrivato con il secondo gruppo. Tempo dopo Mahmoud Jibril, primo ministro alla caduta del regime, si è detto convinto che «un agente straniero mescolato ai rivoluzionari ha ucciso Gheddafi». In tanti in Libia sono convinti che sia stata un'operazione pilotata dalla Francia per tappare la bocca al Colonnello per sempre, ma la verità non si saprà mai.

 E Carla Bruni difende Sarkozy: "Sono fiera di te, quanto fango". Dopo il fermo e soprattutto dopo le accuse a carico dell'ex presidente francese, la Bruni rompe il silenzio, scrive Franco Grilli, Venerdì 23/03/2018, su "Il Giornale". Carla Bruni difende suo marito, Nicolas Sarkozy. Dopo il fermo e soprattutto dopo le accuse a carico dell'ex presidente francese, la Bruni rompe il silenzio. E lo fa con un post su Instagram che ha fatto in pochi minuti il giro del web. La cantante ha postato una foto di Sarkò con il figlio. "Sono fiera di te amore mio. Della tua trasparenza, della tua correttezza, della tua forza e di come sai resistere a tutto e nonostante tutto questo fango", ha scritto sui social la cantante. "Sei giusto, chiaro e forte", ha affermato la moglie. Solo ieri l'ex Capo dello Stato francesce si era sfogato dopo il fermo: "Sono indignato per l'l'odio, il fango, la malafede e le calunnie contro di lui" in mancanza di prove". Adesso sono arrivate le parole della moglie che con un post chiaro l'ha difeso sul web. Intanto proprio oggi l'avvocato dell'ex presidente della Repubblica ha presentato il ricorso contro la decisione della magistratura di sottoporre Sarkozy alla libertà vigilata. Lo scandalo che riguarda l'ex capo di Stato francese potrebbe essere solo all'inizio e di certo le vicende giudiziarie stanno avendo anche delle conseguenze sulla sua vita privata.

Finanziamenti libici a Sarkozy, l’affare ha anche un aspetto politico, scrive su Sputnik Ekaterina Chesnokova il 26.03.2018. L’affare dei finanziamenti libici alla campagna dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, oltre all’aspetto legale, ha anche un aspetto politico. Lo ha dichiarato a Sputnik il giornalista tunisino Yassen Zenati.

"Questa storia ha due lati. Da un lato, c'è la corruzione, l'uso illegale di fondi per la campagna elettorale e l'appropriazione indebita di fondi pubblici. Ma c'è anche un aspetto politico", sostiene Zenati.

Questo aspetto è legato alla possibilità che Sarkozy abbia potuto scatenare la guerra in Libia per evitare che l'opinione pubblica venisse a conoscenza dei finanziamenti libici.

"Per ora non ci sono prove che l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy abbia iniziato la guerra in Libia solo per insabbiare la questione del finanziamento della sua campagna elettorale. Ma se questa ipotesi sarà confermata, vorrebbe dire che Sarkozy ha usato l'esercito francese, ha innescato un conflitto solo per interessi personali", pensa il giornalista.

Zenati ha spiegato che oggi sono noti molti dettagli che mettono all'angolo l'ex inquilino dell'Eliseo. Dalle dichiarazioni del presunto mediatore, Ziad Takieddine, che sostiene di aver portato dalla Libia tre valigie piene di soldi e le ha consegnate a persone dell'entourage di Sarkozy; alle affermazioni dell'ex direttore dei servizi segreti libici, Abdallah al Senoussi, che sostiene di essere a conoscenza del fatto che Gheddafi abbia trasferito denaro a Sarkozy. Senza dimenticare Béchir Salah, direttore del gabinetto di Gheddafi, attualmente in Sud Africa, che sostiene di essere pure lui conoscenza della transazione.

Il giornalista ha ricordato pure la prova fornita dall'ex ministro del petrolio ed ex primo ministro libico, Choukri Ghanem, che nel suo taccuino ha registrato tutti gli importi, tutte le conversazioni, ecc. Ghanem è morto in circostanze misteriose.

"Rimane una testimonianza molto importante per essere messa in discussione: quella di Alexandre Djouhri, un altro mediatore tra la Francia e Gheddafi. Djouhri è stato arrestato a Londra su richiesta della Francia, e la Francia chiede ora la sua estradizione. Quando sarà decisa la sua estradizione ed egli arriverà in Francia sapremo se ci sono nuovi elementi in questo caso estremamente difficile e complicato", ha concluso Zenati.

Nicolas Sarkozy, quelle bombe sui milioni di Gheddafi. La guerra contro la Libia fu la mossa di un pazzo, come disse il colonnello a Panorama? E quella "pazzia", se l'inchiesta si dimostrasse fondata, può essere stata un tentativo di seppellire l'artefice di un finanziamento "sporco"? Foto: L'allora presidente francese Nicolas Sarkozy (a sinistra) dà il benvenuto al leader libico Muammar Gheddafi al Palais Elysee, Parigi, Francia, 12 dicembre 2007, scrive Fausto Biloslavo il 26 marzo 2018 su "Panorama". Nel marzo 2011 in piena rivolta targata primavera araba, alla vigilia dei bombardamenti della Nato, incontrai Muammar Gheddafi sotto la famosa tenda verde da beduino nel centro di Bab al Azizya, la sua roccaforte a Tripoli. L'ultima intervista concessa a un giornalista italiano prima della sua tragica fine pochi mesi dopo. Alla domanda su cosa pensasse del presidente francese Nicolas Sarkozy, che scalpitava per bombardare Tripoli, rispose secco e provocatorio: "Ha un problema di disordine mentale". E per ribadire il concetto cominciò a battere il dito indice sulla tempia, come si fa per indicare un picchiatello.

I dubbi sulla scalata all'Eliseo di Sarkozy. Quattro giorni dopo i caccia francesi iniziarono a bombardare, senza neanche aspettare il via libera dell'Onu, trascinando anche l'Italia, malvolentieri, in guerra. Sul primo momento catalogai il gesto del picchiatello di Gheddafi come una delle sue solite stravaganze. Invece molto probabilmente pensava che Sarkozy fosse un pazzo a volerlo attaccare. Se le accuse si dimostrassero fondate, si capisce perché Gheddafi considerava il presidente francese in debito con lui. E oggi verrebbe da chiedersi: i segreti inconfessabili sui fondi libici hanno spinto il capo di stato francese a cavalcare l'azzardo della primavera araba per far fuori un testimone scomodo? Il fermo e l'interrogatorio a Parigi di Sarkozy sui milioni di euro che avrebbe ricevuto dal colonnello per la sua vittoriosa scalata all'Eliseo nel 2007 potrebbe scoperchiare questo innominabile vaso di Pandora. Fino a condanna definitiva è giusto rimanere garantisti in nome della presunzione d'innocenza, ma se la magistratura francese, che porta avanti l'inchiesta dal 2013, avesse prove inoppugnabili andrebbe riscritta la storia della guerra in Libia. Le conseguenze della guerra in Libia. L'allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, venne tirato per la giacchetta in una guerra che non voleva. Attori pesanti come il capo dello Stato Giorgio Napolitano e interventisti della prima ora costrinsero il premier a bombardare controvoglia il colonnello. Se lo scalpitare francese riguardava anche gli interessi personali di Sarkozy il quadro sarebbe anche ancora più grave. Soprattutto tenendo conto che la caduta del regime di Gheddafi ha provocato il caos in Libia. Ancora oggi, sette anni dopo, non possiamo che elencare gli stessi disastri evocati dal colonello nella sua ultima intervista. Dal punto di vista dei nostri interessi nazionali, abbiamo perso il Bengodi energetico libico e ci siamo ritrovati con le bandiere nere del Califfato sul Mediterraneo. Per non parlare della bomba umana dei migranti e della Libia condannata a una deriva somala in mano a mille milizie e governi contrapposti.

Le morti eccellenti e le testimonianze clamorose. La pista dei soldi libici a Sarkozy è costellata di morti eccellenti e testimonianze clamorose, finora rimaste in sordina. Seif el Islam, il figlio prediletto di Gheddafi tornato in libertà, era stato il primo a parlare dei fondi per la campagna elettorale di Sarkozy. Ex capi dell'intelligence libica come Abdallah Senoussi, in carcere a Tripoli, e primi ministri decaduti hanno confermato. E su questa sporca vicenda aleggiano i dubbi sulla fine di Gheddafi. I caccia francesi colpirono la sua colonna in fuga dall'ultima ridotta di Sirte. I ribelli volevano tenere in vita il prigioniero eccellente per esibirlo come un trofeo. Una manina, mai identificata con certezza ma che non si esclude fosse un agente infiltrato della Francia, gli ha sparato il colpo di grazia chiudendogli la bocca per sempre. Se così fosse, il colonnello sta servendo la sua vendetta postuma. (Articolo pubblicato sul n° 14 di Panorama in edicola dal 22 marzo 2018 con il titolo di "Quelle bombe sui milioni di Gheddafi")

"Io a quell'incontro c'ero. Gheddafi gli pagò 20 milioni". L'interprete del Colonnello: "Il faccia a faccia nel 2005. Sarkozy chiese aiuto. E ho visto la bozza dell'intesa", scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 22/03/2018, su "Il Giornale".  Moftah Missouri è stato ambasciatore, responsabile del dossier Francia, consigliere di Gheddafi, poliglotta e interprete negli incontri più delicati. A cominciare da quello fra il Colonnello e l'allora ministro dell'Interno francese Nicolas Sarkozy durante la visita a Tripoli del 6 ottobre 2005.

Perché hanno ucciso Gheddafi?

Le foto dell'epoca lo ritraggano in mezzo ai due leader intento a tradurre ogni parola. Professore, uomo elegante e di cultura, alto funzionario del regime libico, che non ha le mani sporche di sangue, Missouri è un testimone chiave del finanziamento alla campagna elettorale di Sarkozy. Oggi l'ex ambasciatore è a Tunisi dove il Giornale l'ha raggiunto via Whatsapp. Il testimone non si è tirato indietro raccontando tutto quello che ha visto, sentito e letto. Una conferma del finanziamento libico alla campagna presidenziale di Sarkozy con nomi e cognomi dei protagonisti dell'accordo. Quando è stata la prima volta che ha sentito parlare di questa storia?

«Sono stato ambasciatore e responsabile del desk Francia. Nel 2005 quando Sarkozy era ministro dell'Interno ho tradotto l'incontro con Gheddafi a Tripoli».

Cosa si dissero?

«Fu Sarkozy a introdurre il discorso dicendo che era sua intenzione candidarsi alle presidenziali francesi. Gheddafi rispose che come amico non avrebbe esitato ad aiutarlo. Non parlarono di soldi, ma il concetto era chiaro. Gheddafi disse è un bene avere un amico come presidente francese. E sottolineò: Ti incoraggio e sono pronto ad aiutarti».

Come si è arrivati ai soldi?

«Dopo qualche tempo ho visto la bozza della lettera d'accordo per finanziare la campagna elettorale di Sarkozy sulla scrivania di Gheddafi. Non ricordo il giorno esatto, ma il mese sì. La data del documento era dicembre 2006. In calce aveva firmato Moussa Kussa (il potente capo dei servizi segreti libici per l'estero riparato in Qatar, nda) e la lettera era indirizzata a Gheddafi».

Cosa c'era scritto?

«Ricordo bene di aver letto che la cifra proposta era di 50 milioni di euro, ma poi Gheddafi decise di versare 20 milioni di dollari. I personaggi indicati da parte francese per la finalizzazione dell'accordo erano Brice Hortefeux (ex ministro, alleato politico e amico personale di Sarkozy anche lui interrogato due giorni fa, nda) e l'intermediario franco-libanese Ziad Takieddine (che ha ammesso di aver portato delle valigette con 5 milioni di euro a Sarkozy ed il suo entourage fra fine 2006 ed il 2007, dopo la lettera di Moussa Kussa, nda). Da parte libica si indicava Bashir Saleh (capo di gabinetto di Gheddafi, nda) e se non sbaglio Abdallah Senoussi (cognato del colonnello e capo dei servizi interni, nda). Non so come i soldi siano stati versati, ma queste persone dovevano occuparsene».

Come ha saputo che Gheddafi stanziò solo 20 milioni di dollari?

«Durante un'intervista alla vigilia dei bombardamenti della Nato nel marzo 2011, Gheddafi disse a una giornalista francese che aveva aiutato la campagna elettorale di Sarkozy. Alla domanda su quanti soldi avesse versato rispose che non si ricordava la cifra. Qualche giorno dopo Gheddafi mi rivelò che il contributo libico a Sarkozy era stato di 20 milioni di dollari».

Gheddafi non le confidò cosa pensava del cambio di fronte radicale di Sarkozy da amico a nemico?

«No, a parte qualche dichiarazione alla stampa sul fatto che aveva problemi mentali. Probabilmente, ma è una mia analisi, Sarkozy era rimasto sbalordito della mancata realizzazione di diversi contratti con la Libia (anche in campo energetico, nda) firmati durante la visita di Gheddafi a Parigi (nel dicembre 2007 dopo l'elezione all'Eliseo, nda), dove fu accolto con tutti gli onori».

I ribelli volevano il colonnello vivo, ma fa ucciso durante la cattura. Cosa ne pensa?

«Non ho informazioni dirette, ma molti in Libia pensano che sia stato un agente dei francesi infiltrato a premere il grilletto. Così non avrebbe potuto raccontare tante cose».

Così Sarkozy fregò Gheddafi (e l'Italia). Le Monde: Nicolas trascinò l'Europa in guerra per nascondere gli aiuti del Colonnello. Ora cerca di cancellare le prove, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 07/06/2013, su "Il Giornale". I servizi segreti sono alla caccia di settanta scatoloni pieni di cassette audio e video che contengono le registrazioni degli incontri e delle telefonate fra il defunto colonnello Gheddafi ed i dignitari di mezzo mondo, quando veniva trattato con i guanti bianchi. Il primo a doversi preoccupare degli scottanti contenuti delle registrazioni è l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy, come sostiene il quotidiano le Monde che è tornato sul finanziamento libico alla campagna elettorale di Sarkozy nel 2007. Nel marzo 2011, poche ore prima dei bombardamenti della Nato sulla Libia, Muammar Gheddafi rilasciava a il Giornale l'ultima intervista della sua vita ad una testata italiana. Alla domanda sull'interventismo francese che ha spinto in guerra mezza Europa, compreso il nostro Paese, rispondeva: «Penso che Sarkozy ha un problema di disordine mentale. Ha detto delle cose che possono saltar fuori solo da un pazzo». E per ribadire il concetto si sporgeva verso chi scrive battendosi il dito indice sulla tempia, come si fa per indicare i picchiatelli. Il Colonnello non riusciva a comprendere come l'ex amico francese, che aveva aiutato con un cospicuo finanziamento (forse 50 milioni di euro) per conquistare l'Eliseo fosse così deciso a pugnalarlo alle spalle. Dell'affaire Sarkozy erano al corrente tre fedelissimi di Gheddafi: il responsabile del suo gabinetto, Bashir Saleh, Abdallah Mansour consigliere del Colonnello e Sabri Shadi, capo dell'aviazione libica. Saleh, il testimone chiave, vive in Sudafrica, ma nel 2011 era apparso in Francia e poi sparito nonostante un mandato cattura dell'Interpol. Il caso era stato gestito da Bernard Squarcini, uomo di Sarkozy, ancora oggi a capo del controspionaggio. E sempre Squarcini è coinvolto nella caccia alle cassette scottanti di Gheddafi, che potrebbero contenere gli incontri con altri leader europei. Silvio Berlusconi non ha mai nascosto l'amicizia con il colonnello, mentre Romano Prodi e Massimo D'Alema, che pure avevano frequentato la tenda di Gheddafi cercano sempre di farlo dimenticare. Lo sorso anno un politico francese di sinistra, Michel Scarbonchi, viene avvicinato da Mohammed Albichari, il figlio di un capo dei servizi di Gheddafi morto nel 1997 in uno strano incidente stradale. Albichari sostiene che un gruppo di ribelli di Bengasi ha sequestrato «70 cartoni di cassette» di Gheddafi. Scarbonchi si rivolge al capo del controspionaggio, che incontra il contatto libico. «Avevano recuperato la videoteca di Gheddafi con i suoi incontri e le conversazioni segrete con i leader stranieri» conferma Squarcini a Le Monde. I ribelli vogliono soldi e consegnano come esca una sola cassetta, di poca importanza, che riguarda il presidente della Cosa d'Avorio. Il materiale è nascosto in un luogo segreto. Pochi mesi dopo Albichari sostiene di essere «stato tradito» e muore per una crisi diabetica a soli 37 anni. Non solo: il corpo di Choukri Ghanem, ex ministro del Petrolio libico, custode di ulteriori informazioni sensibili, viene trovato a galleggiare nel Danubio a Vienna. La caccia alle registrazioni del Colonnello deve essere iniziata nell'ottobre 2011, quando la colonna di Gheddafi è stata individuata e bombardata da due caccia Rafale francesi. Il rais libico era stato preso vivo, ma poi gli hanno sparato il colpo di grazia. «L'impressione è che dopo il primo gruppo di ribelli sia arrivato un secondo, che sapesse esattamente cosa fare e avesse ordini precisi di eliminare i prigionieri» spiega una fonte riservata de il Giornale che era impegnata nel conflitto. L'ombra dei servizi francesi sulla fine di Gheddafi è pesante. Sarkozy non poteva permettersi che il colonnello, magari in un'aula di tribunale, rivelasse i rapporti molto stretti con Parigi. La Francia ci aveva tirato per i capelli nella guerra in Libia stuzzicando Berlusconi sui rapporti con Gheddafi. Peccato che Sarkozy ne avesse di ben più imbarazzanti. Delle cassette di Gheddafi non si sa più nulla. L'unico che potrebbe far luce sul suo contenuto è Seif al Islam, il figlio del colonnello fatto prigioniero, che i libici vogliono processare e condannare a morte.

 [L’analisi] La Libyan Connection di Sarkozy: i soldi di Gheddafi e l’Italia nel mirino. L’inchiesta su Sarkozy non riguarda soltanto un leader in pensione ma le motivazioni di un conflitto che ha frantumato un intero Paese e messo l’Italia alle corde, costretta a bombardare Gheddafi altrimenti la Nato avrebbe colpito i terminali dell’Eni. Un materia che scotta in mano ai giudici, scrive Alberto Negri, editorialista e inviato di guerra, il 20 marzo 2018 su "Tiscali notizie". Coincidenze che forse non sono coincidenze. Due giorni fa il figlio di Gheddafi Seif Islam - colpito da mandato di cattura internazionale - annunciava la sua intenzione di volersi candidare alla presidenziali in Libia previste quest’anno e ora l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy viene messo in stato di fermo a Nanterre per i finanziamenti alla sua campagna elettorale del 2007 con il sospetto che sia stata foraggiata da fondi libici. Il premier francese Edouard Philippe raccomanda “prudenza e rispetto” nel trattare questa vicenda non tanto per solidarietà con l’ex presidente ma perché stanno per venire a galla i veri motivi che spinsero Sarkozy ad attaccare Gheddafi nel 2011 trascinando Gran Bretagna e Stati Uniti nella disgregazione del maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo. La peggiore sconfitta italiana dal secondo dopoguerra che è costata miliardi, centinaia di migliaia di profughi e rivoluzionato con l’argomento immigrazione e sicurezza, dominante in campagna elettorale, il quadro politico interno. In realtà sono anni che si parla dei finanziamenti libici del consorte della celeberrima Carla Bruni. La vicenda ruota intorno a due personaggi nel mirino da tempo degli inquirenti francesi.  Uno è l’intermediario franco-algerino Alexandre Djouhri, attualmente sotto custodia inglese, che è stato in affari con il Lybian Africa Investment Portfolio (Lap), un fondo sovrano libico da cui sarebbero stati stornati fondi a favore di Sarkozy. Il secondo protagonista è un uomo depositario di molti segreti libici: Bechir Saleh, che oltre a dirigere il fondo Lap, era anche capo di gabinetto di Gheddafi. Con la guerra lanciata dai francesi nel 2011 Bechir Saleh viene esfiltrato dalla Libia, passa dall’ambasciata francese a Tunisi e quindi spedito in Sudafrica. Saleh, interrogato a Johannesburg dagli inquirenti francesi, sarebbe l’uomo chiave nella vicenda dei soldi libici a Sarkozy. Bechir Saleh si difende affermando di essere soltanto un patriota, in realtà si muove con molta prudenza e non abbandona l’esilio sudafricano forse perché non vuole fare la fine del suo amico Choukry Ghanim, l’ex ministro del petrolio libico trovato cadavere nel 2012 sul fondo del Danubio a Vienna. Ma veniamo al contesto della vicenda, la guerra in Libia, la vera ragione per cui il caso Sarkozy può dare molto fastidio alla Francia di Emmanuel Macron. La Francia di Sarkozy, come del resto la Gran Bretagna di Blair, avevano puntato a rafforzare i legami economici e strategici con Gheddafi. Seif Islam aveva un ruolo di primo piano: veniva ricevuto a Buckingam Palace, a Parigi, a Washington e finanziava persino la London School of Economics, oltre ovviamente a gestire i fondi libici sulle piazze internazionali.  La Francia, pur di ingraziarsi i leader libico, aveva persino offerto a Tripoli la vendita di centrali nucleari, argomento molto sensibile per Gheddafi che aveva rinunciato alle armi di distruzione di massa nel 2004 per non fare la fine di Saddam Hussein in Iraq. L’obiettivo principale dei francesi era soppiantare l’Italia e l’Eni che aveva circa due terzi delle concessioni sul petrolio libico. I mesi che precedono la rivolta anti-Gheddafi di Bengasi nel febbraio 2011 _ dove andrà a fare la sua sfilata l’intellettuale dell’establishment Bernard Henry Levy _ sono molto importanti per capire le manovre della Francia.  Sarkozy vede sfumare l’obiettivo di portare Gheddafi dalla sua parte quando il 30 agosto 2010 Gheddafi viene ricevuto a Roma in pompa magna: in pratica il suggello a contratti per 50 miliardi di dollari, il blocco dell’immigrazione clandestina e un ruolo di primo piano nel Paese per l’Italia. Sarkozy, già allora preoccupato per voci sui finanziamenti libici alla sua campagna elettorale, decide di giocare fino in fondo la partita libica. In autunno va a Parigi il ministro degli Esteri libico, Mussa Koussa, che poi defezionerà dagli inglesi, poi arriva nella capitale francese Nouri Mesmari, capo del protocollo del colonnello Gheddafi, che il 16 novembre all’`Hotel Concorde Lafayette di Parigi incontra alcuni stretti collaboratori del presidente francese Sarkozy. Poco dopo una delegazione commerciale francese parte per Bengasi, rafforzata da uomini dei servizi. I1 23 dicembre arrivano altri libici a Parigi, sono Farj Charrant, Fathi Boukhris e Ounes Mansouri che il 17 febbraio saranno tra i leader della rivolta di Bengasi contro i miliziani del colonnello. Una mail inviata il 2 aprile 2001 dal funzionario americano Sidney Blumenthal all’allora segretario di stato Hillary Clinton, dall’eloquente titolo “France’s client & Qaddafi’s gold”, racconta i retroscena dell’intervento franco-britannico. Il governo francese, scrive Blumenthal, ha organizzato le fazioni anti-Gheddafi alimentando inizialmente i capi golpisti con armi, denaro, addestratori delle milizie (anche quelle sospette di legami con Al-Qaeda), intelligence e forze speciali al suolo. Le motivazioni dell’azione di Sarkozy sono soprattutto economiche e geopolitiche e il funzionario americano le riassume in 5 punti: 

1 Il desiderio di Sarkozy di ottenere una quota maggiore di petrolio della Libia a danno dell’Italia;

2.Aumentare l’influenza della Francia in Nord Africa;

3.Migliorare la posizione politica interna di Sarkozy;

4.Dare ai militari un’opportunità per riasserire la posizione di potenza mondiale della Francia;

5.Rispondere alla preoccupazione dei suoi consiglieri circa i piani di Gheddafi per soppiantare la Francia come potenza. Le riserve di Gheddafi, stimate in “143 tonnellate d’oro e una quantità simile di argento”, ponevano una seria minaccia al Franco francese CFA, la principale valuta africana adotta da 14 Paesi che versano l’80% delle loro riserve al Tesoro di Parigi. L’oro accumulato dalla Libia poteva essere usato per stabilire una valuta pan-africana basata sul dinaro libico. A queste motivazione geopolitiche ed economiche se ne aggiunge una personale. Eliminare Gheddafi per Sarkozy significava far fuori il leader arabo che poteva incastrarlo per i finanziamenti elettorali. Ecco perché oggi l’inchiesta su Sarkozy non riguarda soltanto un leader in pensione ma le motivazioni di un conflitto che ha frantumato un intero Paese e messo l’Italia alle corde, costretta a bombardare Gheddafi altrimenti la Nato avrebbe colpito i terminali dell’Eni. Un materia che scotta in mano ai giudici e va ben al di là del caso personale dell’ex presidente.

Guerra e verità. Macron-Libia: la Rothschild Connection. Parigi attribuisce la caotica situazione del paese unicamente ai movimenti terroristi. Capovolge i fatti. Artefice della destabilizzazione è stata proprio la Francia, con Nato e altri, scrive l'1 agosto 2017 Manlio Dinucci su "Il Manifesto". «Ciò che avviene oggi in Libia è il nodo di una destabilizzazione dai molteplici aspetti»: lo ha dichiarato il presidente Emmanuel Macron celebrando all’Eliseo l’accordo che «traccia la via per la pace e la riconciliazione nazionale». Macron attribuisce la caotica situazione del paese unicamente ai movimenti terroristi, i quali «approfittano della destabilizzazione politica e della ricchezza economica e finanziaria che può esistere in Libia per prosperare». Per questo – conclude – la Francia aiuta la Libia a bloccare i terroristi. Macron capovolge, in tal modo, i fatti. Artefice della destabilizzazione della Libia è stata proprio la Francia, unitamente agli Stati uniti, alla Nato e alle monarchie del Golfo. Nel 2010, documentava la Banca mondiale, la Libia registrava in Africa i più alti indicatori di sviluppo umano, con un reddito pro capite medio-alto, l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e del 46% alla terziaria. Vi trovavano lavoro circa 2 milioni di immigrati africani. La Libia favoriva con i suoi investimenti la formazione di organismi economici indipendenti dell’Unione africana. Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – si accordarono per bloccare il piano di Gheddafi di creare una moneta africana, in alternativa al dollaro e al franco Cfa (moneta che la Francia impone a 14 sue ex colonie africane). Fu la Clinton – documenta il New York Times – a far firmare al presidente Obama «un documento che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino ad allora classificati come terroristi. Poco dopo, nel 2011, la Nato sotto comando statunitense demolisce con la guerra (aperta dalla Francia) lo Stato libico, attaccandolo anche dall’interno con forze speciali. Da qui il disastro sociale, che farà più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti. Una storia che Macron ben conosce: dal 2008 al 2012 fa una folgorante (quanto sospetta) carriera alla Banca Rothschild, l’impero finanziario che controlla le banche centrali di quasi tutti i paesi del mondo. In Libia la Rothschild sbarca nel 2011, mentre la guerra è ancora in corso. Le grandi banche statunitensi ed europee effettuano allo stesso tempo la più grande rapina del secolo, confiscando 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici. Nei quattro anni di formazione alla Rothschild, Macron viene introdotto nel gotha della finanza mondiale, dove si decidono le grandi operazioni come quella della demolizione dello Stato libico. Passa quindi alla politica, facendo una folgorante (quanto sospetta) carriera, prima quale vice-segretario generale dell’Eliseo, poi quale ministro dell’economia. Nel 2016 crea in pochi mesi un suo partito, En Marche!, un «instant party» sostenuto e finanziato da potenti gruppi multinazionali, finanziari e mediatici, che gli spianano la strada alla presidenza. Dietro il protagonismo di Macron non ci sono quindi solo gli interessi nazionali francesi. Il bottino da spartire in Libia è enorme: le maggiori riserve petrolifere africane e grosse riserve di gas naturale; l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, l’oro bianco in prospettiva più prezioso dell’oro nero; lo stesso territorio libico di primaria importanza geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medioriente. C’è «il rischio che la Francia eserciti una forte egemonia sulla nostra ex colonia», avverte Analisi Difesa, sottolineando l’importanza dell’imminente spedizione navale italiana in Libia. Un richiamo all’«orgoglio nazionale» di un’Italia che reclama la sua fetta nella spartizione neocoloniale della sua ex colonia.

IMMIGRAZIONE O INVASIONE? SOROS ED I COMUNISTI.

Spread, la rivelazione di Monti: "Soros mi chiamò nel 2011..." L'ex premier critica la manovra del governo: "Nuoce agli italiani". E ricorda: "Soros mi consigliò di chiedere aiuto all'Ue", scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 08/10/2018, su Il Giornale". Squilla il telefono di Mario Monti e dall'altra parte della cornetta c'è George Soros. Uno è a capo del governo italiano, l'altro è un finanziere (e speculatore) conosciuto ai più per le sue iniziative pro-immigrazione. Sono gli anni dello spread alto e il senatore a vita è da poco succeduto al governo Berlusconi. "Soros mi chiamò suggerendomi di chiedere aiuto all'Europa - rivela l'ex premier - ma noi volevamo evitare di far entrare la troika e non seguimmo quel consiglio. Ma Soros era molto preoccupato per situazione italiana". Altro, di quella insolita chiamata, non è dato sapere. Monti si è limitato a questi pochi dettagli nel raccontare a Lili Gruber quanto successo ormai sette anni fa. Il senatore, ospite a Otto e mezzo, ha parlato di manovra e conti, deficit e mosse del governo. E non ha risparmiato colpi contro la gestione della cosa pubblica messa in campo da Salvini, Conte e Di Maio. "Questo modo irresponsabile di gestire la politica economica giova moltissimo anzitutto agli speculatori", ha detto Monti rispondendo, forse, anche a quanto affermato oggi dal vicepremier leghista. Per Salvini, infatti, l'aumento dello spread (oggi sopra quota 300) sarebbe dovuto all'attacco di "speculatori alla Soros" che mettono nel mirino l'Italia "perché non siamo pronti a svendere le nostre aziende". Certo, per Monti non siamo ancora "nella stessa situazione del 2011", ma è evidente che qualche analogia con quel periodo sembra trovarla. Tanto che, mentre Savona si dice certo che "i mercati hanno retto bene" alle notizie sul Def e sulla manovra, per l'ex premier invece "la valutazione" della finanza "mi sembra molto negativa". E questo perché "oggi l'Italia aveva lo spread a 306 punti, contro i 106 della Spagna, i 143 del Portogallo, i 34 della Francia". I responsabili sono da trovare nei leader politici dei due movimenti al potere il cui interesse sarebbe quello di "non perdere, ma anzi prendere altri voti" invece di pensare alla stabilità economica. "Dal loro punto di vista - ha concluso il senatore a vita - aizzare il popolo contro l'Unione Europea può essere efficace per aumentare il proprio consenso". Non resta dunque che chiedersi cosa ne pensa Soros e se anche oggi è preoccupato come allora. Una cosa è certa: non chiamerà Salvini per dargli consigli.

Bono Vox: incontro con George Soros a Davos, scrive il 22 ottobre 2018 Viagginews. Riappare in Rete un vecchio video di Bono Vox durante un incontro con George Soros a Davos, la polemica a distanza con Matteo Salvini. In queste ore, circola in Rete un video che mostra il leader degli U2, Bono Vox, in un colloquio a Davos col tycoon George Soros, personaggio controverso e molto criticato. L’incontro – che probabilmente è quello avvenuto nel mese di gennaio – è stato ricondiviso nuovamente anche in Italia, dalla pagina Dama Sovranista, gestita dalla blogger Francesca Totolo. Questa mette in evidenza: “L’incontro tra Bono degli U2 e Soros al Forum Economico mondiale di Davos. Capite ora gli appelli d’amore alla Unione Europea e gli attacchi al ‘diavolo’ Matteo Salvini? P.S. Ovviamente Open Society Foundations finanzia la ONE Foundation di Bono”. Il riferimento è alle affermazioni fatte da Bono Vox durante un concerto a Milano, quando ha spiegato che “i partiti politici che criticano la migrazione di massa provengono da Satana”. Il cantante degli U2 è stato recentemente impegnato in una campagna contro i partiti politici europei che sono critici nei confronti delle migrazioni di massa, il suo ultimo obiettivo è stato il ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini. Nel concerto, Bono Vox ha indossato la maschera del suo alter ego malvagio MacPhisto, affermando: “In Italia, c’è scelta tra opzioni negative, il mio consiglio è Matteo Salvini”. Il vicepremier gli ha replicato: “Anche il miliardario Bono mi attacca? Caspita, non ci sono limiti ormai! Peccato per lui che ignora, non sa e parla a vanvera, io continuo ad ascoltare le canzoni degli U2 e tiro dritto!”.

Usa, le mail trafugate a George Soros finiscono online: “È architetto di ogni colpo di Stato degli ultimi 25 anni”. Dc Leaks pubblica i file rubati dai database della Open Society Foundation dell'imprenditore ungherese americano: "A causa sua e dei suoi burattini gli Stati Uniti sono considerati come una sanguisuga e non un faro di libertà e democrazia", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 17 agosto 2016. Ci sono i dossier sulle elezioni Europee del 2014 ma anche quelli sul voto nei singoli Stati, i fascicoli sui finanziamenti elargiti alle organizzazioni non governative di tutto il mondo e persino i rapporti sul dibattito politico in Italia ai tempi della crisi dell’Ucraina. Sono solo alcuni dei documenti rubati dai database della Open Society Foundation di George Soros. Appena pochi giorni fa Bloomberg aveva raccontato che, oltre ad aver violato i server del partito Democratico, avrebbero anche trafugato le mail dell’imprenditore americano. E adesso Dc Leaks ha varato soros,dcleaks.com, un portale interamente dedicato ai documenti trafugati dalle caselle mail del magnate statunitense. Nove categorie – Usa, Europa, Eurasia, Asia, America Latina, Africa, World bank, President’s office, Souk – migliaia di documenti consultabili online o da scaricare in pdf. Dentro c’è un po’ di tutto: commenti sulle elezioni nei Paesi di mezzo mondo, rapporti sui “somali nelle città europee” e sul bilancio di previsione statunitense, ma anche dossier sulla crisi tra Russia e Ucraina con una serie di allegati che spiegano la posizione dei vari stati Europei sulla vicenda. In homepage, poi, c’è un post che spiega il motivo della pubblicazione dei file. “George Soros – scrivono gli hacker – è un magnate ungherese- americano, investitore, filantropo, attivista politico e autore che, di origine ebraica. Guida più di 50 fondazioni sia globali che regionali. È considerato l’architetto di ogni rivoluzione e colpo di Stato di tutto il mondo negli ultimi 25 anni. A causa sua e dei suoi burattini gli Stati Uniti sono considerati come una sanguisuga e non un faro di libertà e democrazia. I suoi servi hanno succhiato sangue a milioni e milioni di persone solo per farlo arricchire sempre di più. Soros è un oligarca che sponsorizza il partito Democratico, Hillary Clinton, centinaia di uomini politici di tutto il mondo. Questo sito è stato progettato per permettere a chiunque di visionare dall’interno l’Open Society Foundation di George Soros e le organizzazioni correlate. Vi presentiamo i piani di lavoro, le strategie, le priorità e le altre attività di Soros. Questi documenti fanno luce su uno dei network più influenti che opera in tutto il mondo”.

Chi è George Soros e perché lo si associa alle teorie complottiste. Il miliardario ungherese è da molti considerato un burattino dei Rotschild, oltre che un avido speculatore. È uno dei maggiori bersagli delle teorie complottiste, scrive il 23 Ottobre 2018 TPI. George Soros, investitore miliardario la cui fortuna è stimata in 25 miliardi di dollari, è stato uno dei maggiori critici del neoeletto presidente Trump durante la scorsa campagna elettorale. Soros è diventato famoso durante il cosiddetto “black wednesday” del 16 settembre 1992, con un’operazione di speculazione finanziare che costrinse la Banca d’Inghilterra a svalutare la sterlina, ricavando un guadagno netto di circa un miliardo di dollari. Nello stesso anno, il mercoledì nero colpì anche l’Italia. Vendendo lire allo scoperto, Soros contribuì una perdita valutaria pari a 48 miliardi di dollari, provocando l’uscita della penisola dal Sistema Monetario Europeo). Nato a Budapest nel 1930 da una famiglia di ebrei ungheresi, Soros fugge dai regimi fascisti prima in Germania e poi in Inghilterra, dove nel 1954 ottiene un lavoro dalla banca d’affari londinese Singer & Friedlander. Negli anni, Soros ha contribuito a finanziare il partito democratico statunitense con centinaia di milioni di dollari e ha contribuito al sostentamento di molte ong che si occupano di migranti e diritti umani. Nella lista delle sue donazioni figurano Amnesty International Ireland, Agebra Project, Center for Constitutional Rights, Human Rights Watch, American Civil liberties Union e molte altre. Allievo di Karl Popper alla London School of Economics, George Soros è stato spesso dipinto come burattino della famiglia Rotschild, oltre che come un avido speculatore. È tutt’ora uno dei maggiori bersagli delle principali teorie complottiste. George Soros negli anni è stato accusato di nefandezze di ogni tipo, dal traffico di esseri umani alle affiliazioni con gruppi sionisti del Nuovo Ordine Mondiale. Detestato dalla destra conservatrice statunitense, il magnate e filantropo ungherese è stato più volte accusato di speculazione finanziaria e inside trading. In Indonesia è stato condannato all’ergastolo e in Francia ha dovuto pagare una multa di 2,1 miliardi di dollari. Attaccato dai partiti di destra italiani, come durante il suo incontro del 4 maggio 2017 con Paolo Gentiloni, su George Soros è ricaduta anche l’accusa di finanziare le ong che importano illegalmente immigrati in Europa attraverso il Mediterraneo. Così Beppe Grillo in un tweet: Presidente Gentiloni, di cosa avete parlato con Soros? Il miliardario l’ha avvisata che è in vista un’altra speculazione? Vuole comprare a prezzi ridicoli qualche gioiello italiano che ancora non è passato in mani straniere? Si è lamentato per l’inchiesta del procuratore Zuccaro sulle ong che agirebbero come taxi del Mediterraneo e che sono finanziate con milioni di dollari ogni anno da Soros stesso? Le ha chiesto di intervenire per bloccare l’inchiesta? In seguito a un’operazione di hacking di qualche mese fa contro la sua fondazione Open Societies, migliaia di file sensibili sono stati trafugati e caricati in rete, relativi alle attività gestite o finanziate dal miliardario di origini ungheresi. Si tratta di campagne elettorali, fondazioni umanitarie, associazioni per i diritti, società di ricerca che hanno ricevuto fondi per operare o indirizzare il consenso verso temi cari a George, vicino al Partito Democratico americano. In diretta alla Cnn, George Soros ha dichiarato di aver finanziato la rivoluzione colorata in Ucraina di piazza Maidan per “favorire l’insediamento di una giunta amica degli Stati Uniti”. Ha inoltre affermato di aver operato in maniera simile durante le rivoluzioni in Georgia, Kirghizistan, Myanmar e Iran. La Soros Foundation è una delle principali promotrici della liberalizzazione della droga nel mondo.

Lo scontro tra Viktor Orban e George Soros. Viktor Orban, durante l’ultima campagna elettorale 2018, ha accusato Soros di un complotto per sopraffare l’Ungheria con migranti musulmani allo scopo di minare la sua eredità cristiana. Uno degli slogan della campagna elettorale del premier ungherese, riconfermato un mese fa alle elezioni di aprile, era “Stop Soros”. TPI ha chiesto alla fondazione Open Society, del magnate ungherese George Soros, di dare un spiegazione a questo. “Questa è una sciocchezza infondata. George Soros ha ripetutamente chiesto un trattamento equo e umano dei migranti e dei rifugiati, e ha chiesto politiche dell’Unione europea che non pongano uno stress sproporzionato sui singoli Stati membri come l’Italia o l’Ungheria. Insieme ad altri finanziatori internazionali, abbiamo sostenuto quattro organizzazioni in Ungheria che forniscono assistenza legale, medica e psicologica ai richiedenti asilo”, ha detto Laura Silber, direttrice comunicazione della Open Society Foundations.

L’opinione di George Soros sulla migrazione è questa. La Open Society di Soros a TPI: “Non abbiamo mai dato soldi alle Ong che salvano migranti, e in Italia investiamo poco”. "Non diamo soldi alle Ong, ma incoraggiamo gli sforzi umanitari nel Mediterraneo. In Italia? Investiamo molto poco, meno del 3% dei finanziamenti totali verso l’Europa. Non possiamo fare i nomi dei beneficiari individuali. Ma Soros si è occupato privatamente di finanziare la campagna di Hillary Clinton e la sua Open Society si è mossa per fermare le limitazioni in merito a diritti civili e politici imposti da Trump”. Parla Open Society, scrive il 26 Luglio 2018 Anna Ditta su TPI. ESCLUSIVO The Post Internazionale (TPI.it): “Non diamo soldi alle ong, ma incoraggiamo gli sforzi umanitari nel Mediterraneo”. La fondazione Open Society, del magnate ungherese George Soros, al centro di una serie di teorie del complotto, esclude categoricamente di aver finanziato operazioni di ricerca e soccorso dei migranti in mare. “In Italia? Investiamo molto poco, meno del 3 per cento dei finanziamenti totali verso l’Europa”, sostiene Laura Silber, direttrice comunicazione della Open Society Foundations, che ha risposto alle domande di TPI.it via email. E le teorie del complotto su Soros che sponsorizza il traffico di esseri umani in Europa? “Colpa dei troll internet filo-russi”, dice Silber. Chi finanzia allora la Open Society? “Abbiamo un elenco pubblico dei beneficiari, per lo più organizzazioni. Ma non possiamo fare i nomi dei beneficiari individuali, per ragioni di sicurezza”. E sull’antagonismo a Trump? “Soros si è occupato privatamente di finanziare la campagna di Hillary Clinton e Open Society si è mossa per fermare le limitazioni in merito a diritti civili e politici imposti dal presidente statunitense”.

Abbiamo rivolto alcune domande alla fondazione del magnate George Soros, Open Society. Loro ci hanno risposto:

Quali sono le attività principali della Open Society Foundations in Europa?

"L’Open Society Foundations ha lavorato in Europa da quando George Soros ha creato la prima fondazione in Ungheria nel 1984— all’inizio del suo lavoro per aiutare i paesi dell’Europa centrale e orientale nella transizione dal Comunismo. Oggi, il nostro lavoro di donazione è guidato dall’Open Society Initiative for Europe (OSIFE), con sede a Barcellona, mentre l’Open European Policy Institute (OSEPI) con sede a Bruxelles persegue attività di advocacy e politiche con le istituzioni dell’Unione Europea. Inoltre, gli uffici a Londra e Berlino ospitano programmi tematici globali, lavorando su temi come i diritti umani, l’istruzione e l’accesso all’assistenza sanitaria. Cinque fondazioni nazionali operano anche in Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia e Serbia. Il nostro lavoro è modellato dall’aderenza di Open Society all’idea che una democrazia fiorente necessiti di una partecipazione attiva dei cittadini, non solo nel momento delle elezioni, ma nella vita quotidiana delle decisioni locali e nazionali. Questo include la ricerca di risposte a problemi difficili e l’ascolto di persone che si trovano spinte ai margini della società".

Quante ong che salvano migranti nel Mediterraneo hanno ricevuto soldi dalla Open Society Foundations? Quanto hanno ricevuto? 

"Nessuna ne ha ricevuti. Open Society Foundations non fornisce sostegno finanziario per le operazioni di ricerca e soccorso condotte nel Mediterraneo da varie ong, anche se incoraggiamo questi sforzi umanitari. Si prega di consultare la nostra ultima dichiarazione stampa su questo argomento qui. [La dichiarazione è intitolata: “Open Society Foundations sollecita il ministro italiano Matteo Salvini a smettere di ripetere dichiarazioni false”. Al suo interno si chiarisce che la fondazione “ha lavorato in Italia per più di un decennio, fornendo borse di studio a gruppi locali coinvolti in una serie di problemi sociali, inclusa la migrazione”. “I nostri finanziamenti aiutano le organizzazioni in Italia a lavorare su tutti gli aspetti delle sfide poste dalla migrazione”, prosegue la nota. “Ciò va dall’assicurare che i rifugiati e i migranti siano trattati con dignità e umanità dalle autorità, all’esposizione e al contrasto dello sfruttamento dei migranti in alcuni settori dell’economia, al sostegno delle comunità locali di accoglienza e dei volontari che forniscono servizi come lezioni di lingua”.]"

Quali entità in Italia sono finanziate da Open Society?

"L’Open Society Foundations fornisce una modesta entità di finanziamenti in Italia (i nostri finanziamenti per il 2017 ammontano a poco meno del 3 per cento dei nostri finanziamenti in Europa)."

Quali sono le regole di trasparenza a cui aderisce Open Society?

"Ci battiamo per la massima trasparenza sulle nostre attività e le nostre attività finanziarie, oltre ciò che è richiesto dalle autorità di controllo. Usiamo il nostro sito come la principale piattaforma, disponibile pubblicamente, attraverso la quale ognuno può scoprire la nostra missione, i valori, le attività, i nostri budget e le spese. Tuttavia non pubblichiamo i nomi dei beneficiari individuali, anche per motivi di sicurezza personale o organizzativa."

Come scegliete le ong e le organizzazioni da finanziare? Ci sono requisiti specifici?

"L’Open Society Foundations garantisce finanziamenti a fondo perduto, borse di studio e fellowships nel corso dell’intero anno a organizzazioni e individui che condividono i valori dell’Open Society. Le strategie di concessione delle sovvenzioni delle nostre fondazioni nazionali e dei nostri programmi sono modellate dai contributi dei membri di oltre quaranta advisory boards che collaborano con loro, mettendo a disposizione del nostro personale competenze locali, regionali e tematiche. Cerchiamo beneficiari che hanno una vision e i cui sforzi porteranno a un cambiamento sociale positivo duraturo. Nella maggior parte dei casi non si finanzia più di un terzo del budget di qualsiasi organizzazione. La stragrande maggioranza delle nostre sovvenzioni viene assegnata a organizzazioni. Ci rivolgiamo direttamente alla maggior parte di queste organizzazioni, invitandole a presentare domande di sovvenzione o proposte. Tuttavia, un numero minore di sovvenzioni alle organizzazioni viene sollecitato dal pubblico attraverso chiamate aperte. È possibile trovare un elenco di queste concessioni qui."

Open Society chiede delle garanzie su come i suoi fondi devono essere spesi?

"Sì, monitoriamo le sovvenzioni, il loro utilizzo e le spese. Essendo un’entità senza scopo di lucro registrata negli Stati Uniti e come ente di beneficenza in Europa, i nostri finanziamenti non possono essere utilizzati per scopi politici di partito o per sostenere attività di lobbying politico su specifici atti legislativi."

È disponibile una lista completa delle entità finanziate da Open Society?

"Si prega di consultare l’elenco dei nostri beneficiari a questo link (prendendo atto della nota precedente relativa alla sicurezza dei beneficiari)."

Open Society ha mai finanziato gruppi ribelli e rivoluzionari?

"No. Sosteniamo una vasta gamma di gruppi per i diritti umani e gruppi di società civile, compresi quelli che promuovono un dibattito politico aperto nei loro paesi, in conformità con le norme internazionali sui diritti umani in materia di libertà di espressione."

Come risponde Open Society alle teorie del complotto che considerano George Soros uno “sponsor” del traffico di esseri umani in Europa?

"Questa è un’accusa assurda, senza alcuna base di fatto. Generalmente queste teorie del complotto sono avanzate da coloro che cercano di suscitare la paura del popolo per i propri scopi politici e da coloro che si oppongono alla più ampia missione della Open Society di promuovere la partecipazione democratica (inclusi i troll internet filo-russi)."

Open Society è stata espulsa nel 2015 dalla Russia. Alla recente conferenza stampa congiunta con Trump a Helsinki, Putin ha parlato in termini negativi di Soros. Perché Open Society è così disprezzata da Mosca?

"Sosteniamo valori a cui il presidente Putin sembra opporsi: un dibattito democratico creativo, un governo trasparente in grado di controllare la corruzione, media indipendenti e attivi, gruppi della società civile in grado di supportare la parità di accesso per tutti ai servizi statali e molto altro ancora. Dispiace che il Cremlino consideri tutto ciò una minaccia. Crediamo che molte persone in Russia continuino a sostenere i valori della democrazia, della libertà di espressione, della responsabilità nei confronti dei cittadini e dell’accesso ai diritti umani fondamentali, che hanno accolto con entusiasmo dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Si prega di vedere qui la nostra reazione alla decisione dell’Ufficio del Procuratore Generale della Russia di classificare le Open Society Foundations come un’organizzazione “indesiderabile”."

Il primo ministro ungherese, Viktor Orban, durante l’ultima campagna elettorale, ha accusato Soros di un complotto per sopraffare l’Ungheria con migranti musulmani allo scopo di minare la sua eredità cristiana. Come rispondete a questa accusa?

"Questa è una sciocchezza infondata. George Soros ha ripetutamente chiesto un trattamento equo e umano dei migranti e dei rifugiati, e ha chiesto politiche dell’Unione europea che non pongano uno stress sproporzionato sui singoli Stati membri come l’Italia o l’Ungheria. Insieme ad altri finanziatori internazionali, abbiamo sostenuto quattro organizzazioni in Ungheria che forniscono assistenza legale, medica e psicologica ai richiedenti asilo."

Durante la campagna elettorale per le presidenziali statunitensi nel 2016 George Soros è stato uno dei principali oppositori di Donald Trump. La Open Society Foundations ha preso qualche azione concreta contro la presidenza Trump negli Stati Uniti o all’estero dopo che lui è stato eletto?

"George Soros ha contribuito privatamente in maniera considerevole della campagna di Hillary Clinton. Le Open Society Foundations non hanno intrapreso alcuna azione “contro la presidenza Trump” dalle elezioni del 2016, ma abbiamo intrapreso azioni per rispondere alle mosse dell’amministrazione che limitano i diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione degli Stati Uniti. Ciò include la fornitura di fondi di emergenza per affrontare l’attuale crisi di separazione familiare sul confine meridionale degli Stati Uniti, tra cui il finanziamento dell’assistenza legale e la creazione di un database per aiutare a riunire famiglie separate. In altre iniziative, i nostri beneficiari sono stati attivi nelle sfide legali al travel ban dei musulmani del presidente e nella creazione di un database comune per monitorare gli aumenti dei crimini di odio negli Stati Uniti."

Se l'ex prefetto anti Salvini dirige onlus finanziata da Soros. Mario Morcone si candidò ne 2011 con il centrosinistra per diventare sindaco di Napoli e ora, da direttore del Cir-Rifugiati, punta il dito contro il dl sicurezza, scrive Franco Grilli, Mercoledì 26/09/2018, su "Il Giornale". Mario Morcone, ex prefetto e attuale direttore del Cir (Consiglio italiano per i rifugiati), onlus finanziata anche dalla Open Society di George Soros, è in prima linea contro Matteo Salvini e contro l’appena nato decreto legge sicurezza che porta il nome proprio del ministro dell’Interno. Lunedì ospite di Lilli Gruber su La7, per esempio, ha criticato il provvedimento in più punti, soprattutto in merito alla revoca della cittadinanza che lederebbe, a par suo, i diritti della persona. Degli immigrati, a tal proposito. E sempre il 24 settembre sul sito del Cir è apparso un comunicato – intitolato "Fortemente preoccupati dal decreto immigrazione" – che, come è facile intuire, boccia in tutto e per tutto il dl avallato (peraltro all’unanimità) dal consiglio dei ministri che contiene misure che - si legge - "andranno a deteriorare pesantemente il livello di protezione, il sistema di accoglienza e le possibilità di integrazione di quanti arrivano nel nostro Paese perché bisognosi di protezione". Poi, per esempio, in un estratto della nota si legge anche: "Preoccupa molto anche l’effetto che alcune misure, come l’abolizione della protezione umanitaria, avranno sulla gestione dei flussi migratori. È un Decreto che mira a creare irregolarità, non certo a gestire l’immigrazione". Dunque, Morcone rincara la dose: "Il decreto introduce una norma pericolosissima: la possibilità di trattenere ai fini dell’espulsione migranti fuori dai Cpr in strutture idonee e nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza. “Una previsione che, da un lato, fa venir meno tutte le garanzie procedurali del trattenimento delle persone e, dall’altro avvia una sorta di militarizzazione del tema dell’immigrazione contraria alla storia e alla cultura di questo Paese". Mario Morcone ha a curriculum vitae da prefetto e politico e anche e da aspirante sindaco di Napoli: da quest’estate è stato messo a capo del Cir, organizzazione umanitaria indipendente. Ma finanziata – come scrive Alessandro Rico per La Verità – dall'Open society foundations del miliardario e attivista (pro immigrazione) George Soros, che avrebbe sostenuto economicamente i progetti della onlus volti all’integrazione dei richiedenti asilo in Italia.

Foa: «Eurodeputati Pd finanziati da Soros». Scoppia la polemica, i dem querelano il presidente della Rai, scrive Venerdì 19 Ottobre 2018 Il Messaggero. «Non abbiate paura dei nuovi populisti d'Europa». Lo ha detto il presidente della Rai Marcello Foa in un'intervista al quotidiano liberal israeliano Haaretz in cui ha poi citato un rapporto in cui si sostiene che Soros abbia finanziato «un enorme numero» di parlamentari Ue, inclusa «l'intera delegazione del Pd». Dichiarazioni che hano immediatamente scatenato la polemica con diversi eurodeputati dem che hanno annunciato querela. «Non avrei mai immaginato di dover querelare e chiedere i danni al presidente della Rai», ha dichiarato David Sassoli (Pd) vicepresidente del parlamento europeo. «Il presidente dell'azienda di servizio pubblico italiana dovrà dimostrare quello che ha sostenuto, privo di ogni fondamento, in Tribunale davanti a un giudice», ha detto Sassoli. «Il presidente della Rai Marcello Foa, ricicla una vecchia balla su presunti rapporti tra gli eurodeputati Pd e George Soros, aggravandola con una diffamazione nei nostri confronti. Abbiamo deciso tutti insieme di portarlo davanti ad un tribunale della Repubblica. Foa dovrà rispondere in sede penale con relativo risarcimento danni», dichiara Patrizia Toia a nome dei 26 europarlamentari del Pd. «Assurdità, leggende metropolitane, menzogne. E questo sarebbe il nuovo volto della Rai tra l'altro pagato dai contribuenti italiani?». Lo dichiara l'eurodeputato del Pd Andrea Cozzolino. «Foa, di cui ricordiamo gli insulti al presidente Mattarella e i balbettii di una smentita a cui crede solo lui, farebbe bene - prosegue Cozzolino - a cercarsi un buon avvocato per difendersi dalla querela che presenterò insieme ad altri colleghi. Porti rispetto per i parlamentari del Pd e per i loro elettori. E la prossima volta taccia. Gli gioverà». «Querelerò il presidente Rai Foa per le sue dichiarazioni false sul gruppo dei deputati del Pd al Parlamento europeo, di cui sono vice capodelegazione. Foa dovrà rispondere in Tribunale di parole che non hanno alcun fondamento. Dal presidente della Rai ci aspettiamo un altro tipo di professionalità, serietà ed equilibrio». Lo afferma Isabella De Monte, eurodeputata Pd secondo la quale «è una bufala che circola da oltre un anno e contro la quale abbiamo scritto rettifiche e fornito risposte chiare, che evidentemente il presidente della Rai e giornalista Marcello Foa non ha ritenuto di verificare. La storia dei deputati foraggiati da Soros è del tutto priva di fondamento e non mi riguarda. Quindi, viste le parole diffamatorie di Foa, presenterò querela e richiesta di danni». «Leggo dalle agenzie di nuove polemiche. Chi mi accusa di razzismo e di xenofobia forse farebbe meglio a leggere tutto il testo del lungo colloquio avuto con Haaretz invece di affidarsi a sintesi di agenzia. Nell'intervista ho dichiarato esattamente l'opposto e ho preso nettamente le distanze da ogni forma di razzismo e di estremismo. Sono dunque accuse strumentali il cui intento politico è evidente», ha replicato Foa in un post su Facebook. «Quanto alla vicinanza di alcuni esponenti politici italiani alla Open Society di Soros - aggiunge Foa - non sono io a dirlo ma la stessa Open Society in un suo rapporto interno che, chi vuole, puòleggere qui. Non ho fatto che ribadire una notizia che avevo affrontato il 4 novembre 2017 sul blog che all'epoca tenevo su Il Giornale e su tutto ciò non ho nulla da aggiungere». 

"Eurodeputati Pd finanziati da Soros". E i dem querelano Foa. Gli europarlamentari democratici annunciano di voler querelare il presidente della Rai che li aveva accusati di esser finanziati da Soros, scrive Andrea Riva, Venerdì 19/10/2018 su "Il Giornale". Alcuni eurodeputati del Pd hanno annunciato di voler querelare Marcello Foa. La motivazione sarebbe da ricercare in una dichiarazione del presidente della Rai al quotidiano israeliano Haaretz in cui sostiene che George Soros, celebre magnate ungherese e grande sostenitore delle rivoluzioni colorate, avrebbe finanziato alcuni parlamentari europei del Partito democratico. Proprio su questo argomento, lo stesso Foa aveva scritto un post su Facebook in mattinata, affermando: "Quanto alla vicinanza di alcuni esponenti politici italiani alla Open Society di Soros, non sono io a dirlo ma la stessa Open Society in un suo rapporto interno che, chi vuole, può leggere qui. Non ho fatto che ribadire una notizia che avevo affrontato il 4 novembre 2017 sul blog che all’epoca tenevo su Il Giornale". E ora arriva la risposta dei dem, a firma Patrizia Toia: "Il presidente della Rai Marcello Foa, ricicla una vecchia balla su presunti rapporti tra gli eurodeputati Pd e George Soros, aggravandola con una diffamazione nei nostri confronti". L'eurodeputata aggiunge poi: "Abbiamo deciso tutti insieme di portarlo davanti ad un tribunale della Repubblica. Foa dovrà rispondere in sede penale con relativo risarcimento danni". David Sassoli, vicepresidente del Parlamento europeo, ha invece affermato: "Non avrei mai immaginato di dover querelare e chiedere i danni al presidente della Rai. Il presidente dell'azienda di servizio pubblico italiana dovrà dimostrare quello che ha sostenuto, privo di ogni fondamento, in Tribunale davanti a un giudice". Nell'articolo di Haaretz, però, il portavoce del Pd Roberto Cuillo faceva riferimento "a un rapporto di una società di consulenza che elencava membri del Parlamento europeo le cui posizioni erano ritenute vicine ai punti di vista di Soros e diffuse lo scorso anno nei media populisti ed euroscettici". Il documento, redatto da Kumquat Consult per Open Society, l'associazione di Soros, indicava i rappresentanti più affidabili per il magnate ungherese all'interno dell'Europarlamento.

Perché il Pd vuole suicidarsi con lo Ius Soli? Forse una ragione c’è, inconfessabile, scrive il 4 novembre 2017 Marcello Foa su "Il Giornale". Ci siamo: la Sicilia fra poche ore andrà alle urne per eleggere il governatore e il Consiglio regionale. Un dato, sin d’ora, è certo: il Pd non vincerà. Si tratta solo di sapere se perderà male, finendo terzo, o malissimo, addirittura quarto. Saranno gli esperti di politica siciliana a interpretare, ad urne chiuse, le dinamiche più profonde di questo insuccesso, che però ha anche, e forse soprattutto, una valenza nazionale. La maggior parte degli elettori non crede più nel Pd di Renzi e in una regione come la Sicilia il problema dei migranti ha contato, eccome se ha contato. Certo, gli elettori hanno la memoria corta – è noto – ma non cortissima. Sanno come il governo Gentiloni ha affrontato la questione del “servizio taxi” operato dalle navi delle Ong, dapprima negandolo, poi dissimulandolo, infine criminalizzando chi denunciava abusi e complicità con Organizzazioni non governative alcune delle quali chiaramente in combutta con gli scafisti e animate non solo da propositi umanitari quanto, soprattutto, da intenti politici per favorire un’irresponsabile e socialmente destabilizzante immigrazione di massa. Ora la verità sta venendo fuori, ora sappiamo chi aveva ragione. Sì, il Pd paga, elettoralmente, anche per questo. Ma anche per l’ostinazione con cui continua a proporre lo ius soli ovvero la concessione della cittadinanza agli stranieri che nascono in Italia. E come lo f: toni drammatici, scioperi della fame, più mediatici che di sostanza, certo ma inequivocabili nel loro significato: il Pd quel provvedimento lo vuole approvare e prima della fine della legislatura. Diciamolo pure: complimenti per la coerenza. Salvini e il centrodestra apprezzano e sentitamente ringraziano. Però qualcosa non torna. Perché i sondaggi sono inequivocabili: un numero crescente di elettori, ormai maggioritario, inclusi molti di sinistra, è contrario allo ius soli. E al Pd e a Renzi non mancano di certo gli esperti elettorali in grado di spiegare che intestardirsi su un tema impopolare significa urtare gli elettori moderati e dunque perdere le elezioni, domenica in Sicilia in marzo in Italia. Eppure Renzi, per una volta d’accordo con Gentiloni, va avanti. Persino un ministro competente e che quest’estate ha saputo prendere posizioni ferme in tema di immigrazione, come quello degli Interni Minniti, improvvisamente ha innescato la retromarcia.

Titoli come questi sono inequivocabili: E allora bisogna chiedersi cosa spinga il Pd al suicidio politico. Ci deve essere una ragione suprema, per cui l’approvazione di un provvedimento straordinariamente impopolare diventa più urgente delle più ovvie considerazioni di strategia elettorale. Perché anche se il Parlamento non lo approverà entro Natale, il Pd verrà attaccato su questo tema. E Salvini e la Meloni non molleranno la presa. Dunque, perché? Non ho risposte certe, solo ragionevoli dubbi, ad esempio apprendendo che Open Society di Soros può contare su 226 europarlamentari “affidabili” per promuovere i propri progetti di diffusione dei migranti in tutta Europa. Di questi, 14 sono italiani, quasi tutti del Pd (trattasi di Brando Maria Benifei, Sergio Cofferati, Cecilia Kyenge, Alessia Mosca, Andrea Cozzolino, Elena Gentile, Roberto Gualtieri, Isabella De Monte, Luigi Morgano, Pier Antonio Panzeri, Gianni Pittella, Elena Schlein, Daniele Viotti). Più Barbara Spinelli, della lista Tsipras, ex inviata speciale di Repubblica. Attenzione: non si tratta di complottismo ma di un dettagliato documento interno della Open Society, pescato e divulgato da DcLeaks. Quel Soros che lo scorso maggio fu ricevuto a Palazzo Chigi da un gaudente Paolo Gentiloni. Quel Soros che da anni tesse una meticolosa ed efficace rete di contatti negli ambienti progressisti italiani. Quel Soros che ha appena deciso di donare 18 miliardi del suo patrimonio a Open Society. E’ un uomo potente, influente, determinato, certo coerente con le sue convinzioni. E non è isolato. Fa parte di un mondo che persegue interessi che sono umanitari nelle motivazioni ufficiali ma dall’innegabile valenza politica pro immigrazione, contro la sovranità degli Stati, di aperta ostilità alle identità nazionali, ai valori e alle culture tradizionali. E allora viene da chiedersi: è a quel mondo che il Pd non può dire di no?

Razza di ipocriti. Fontana: "Difendere la razza bianca". La sinistra lo azzanna, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 16/01/2018, su "Il Giornale". Attilio Fontana, candidato per il centrodestra alle elezioni regionali della Lombardia, ieri è finito nella bufera per una frase detta durante una intervista radiofonica. Questa: «Basta immigrati, la razza bianca è a rischio». A fare indignare la sinistra e i politicamente corretti non è stato tanto il concetto ma la parola «razza», ritenuta di per sé razzista e quindi impronunciabile. Secondo questi signori che si dicono scioccati dall'uscita di Fontana - non esiste la «razza bianca», di più, non esistono le «razze», cioè le diversità tra gli abitanti delle varie aree della terra. Concetto che fa a pugni con la nostra Costituzione, che all'articolo 3 recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche». Tutte le «razze», quindi, pari sono anche per la legge, e questo è pacifico, ma esistono. Negarlo significherebbe dover mettere al rogo, oltre che la Carta, anche i dizionari e vocabolari che tutti riportano la voce «razza». Cito il Devoto-Oli, bibbia della cultura italiana: «Razza: gruppo di individui di una specie contraddistinti da comuni caratteri esteriori ed ereditari». Scioccante, quindi, non è la frase pronunciata da Attilio Fontana, sulla quale non è dovuta condivisione, ma la reazione basata su un falso (le razze non esistono) e impedire l'uso della lingua italiana, quella dei nostri avi, dei nostri vocabolari e della nostra Costituzione. Ci vogliono imporre il vocabolario di Laura Boldrini e soci: il boldrinese, lingua che vorrebbe, tra l'altro, declinare per legge al femminile parole come «sindaco» che in realtà esistono solo come sostantivi maschili. Davanti a Dio e alla legge tutti gli esseri umani sono uguali, e di questo ne sono profondamente convinto. Ma ciò non significa negare le diversità, che semmai sono una delle ricchezze del mondo, un patrimonio che il pensiero unico vorrebbe distruggere. Un uomo è diverso da una donna, un etero da un gay, un nero da un bianco, il nostro Dio da Allah. Ci sono i magri e gli obesi, i belli e i brutti, i sani e i matti. Per fortuna la pensiamo diversamente e per questo veniamo catalogati in categorie politiche e filosofiche. Razzismo non è «definire» ma «discriminare». Attilio Fontana ha usato la lingua italiana per esprimere un suo concetto in modo chiaro e comprensibile a tutti e fa ridere che politici dal congiuntivo incerto si mettano a fare i maestrini. Razza di ignoranti.

Filippo Facci, il rischio estinzione della razza bianca è reale: ecco i numeri che lo dimostrano, scrive il 16 Gennaio 2018 su "Libero Quotidiano". La frase «la razza bianca è a rischio» è sbagliata solo tecnicamente, nel senso che il concetto di «razza» non ha più un fondamento scientifico e si parla soltanto di differenze tra etnie umane e di diverse classificazioni antropologiche dell’Homo sapiens sapiens. Dopodiché Attilio Fontana, leghista e candidato governatore della Lombardia, può scegliere se ribadire, correggere o rettificare la frase che ha generato il vespaio: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate». Può scegliere per ragioni politiche o d’altro tipo, a noi interessa relativamente, ma su una cosa non c’è dubbio: sul merito ha ragione. Ha tecnicamente ragione, sia per l’Italia che per l’intera Europa. Si può discutere di tempi e proporzioni, ma che sia in atto una sostituzione lo dicono i numeri. Cominciamo dall’Italia. Dal 2008 al 2016 mezzo milione di italiani si sono trasferiti all’estero per lavoro, mentre molti più stranieri immigrati (regolari e non) li hanno frattanto sostituiti qui in Italia. Il primo dato è stato reso noto l’anno scorso dal rapporto “Il lavoro dove c’è” presentato a Roma dall’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro: gli italiani si sono spostati soprattutto in Germania (20mila nel solo 2015) e Gran Bretagna (19mila) ma anche Francia (oltre 12mila). A complicare il calcolo c’è che non sono stati solo gli italiani ad abbandonare la penisola: tra il 2008 e il 2016 anche 300mila cittadini dell’Est Europa sono tornati in patria, e questo perché trasferirsi da noi «non era più giustificato dai redditi da lavoro percepiti». C’è di che pensare. Ma passiamo al secondo dato, quello sul numero di immigrati presenti in Italia dal 2008, dato peraltro di non facile computazione: Istat, Eurostat, Ministero dell’Interno, Ismu e molte altre fonti hanno il loro daffare nel distinguere tra migranti regolari o irregolari, clandestini, rifugiati, richiedenti asilo, profughi, apolidi, sfollati o altre categorie. Però c’è una certezza: costoro sono molti di più dei 509mila italiani che hanno lasciato il Paese. La sostituzione è tutta qui, anche se non ha equivalenza per status lavorativo: le “occupazioni” degli italiani che vanno all’estero e quelle degli stranieri che vengono in Italia sono decisamente differenti tra loro. In Italia, infatti, è in atto non solo una sostituzione, ma anche una “proletarizzazione” fondata sui famosi mestieri che gli italiani non vogliono più fare, sia legali sia illegali. Insomma, gli occupati stranieri continuano a crescere e quelli italiani invece decrescono: +22.000 i primi rispetto al 2012, -501.000 i secondi nello stesso periodo. Un altro dato interessante sarebbe quello della scuola: gli alunni con cittadinanza non italiana sono in crescita e ora sono circa 9 per cento della totalità gli studenti.

I MORTI SUPERANO I VIVI. Se i dati del nostro Paese non bastassero (o risultassero troppo intossicati dalla campagna elettorale) si può tornare ai dati del 2015 secondo i quali, attenzione, i morti in Europa hanno superato i vivi: ed era la prima volta che succedeva da quando l’Eurostat nel 1961 si incaricò di contare gli uni e gli altri. Per farla breve: nel 2015 sono nate 5,1 milioni di persone e ne sono morte 5,2 milioni, eppure la popolazione europea è complessivamente aumentata, cioè è passata da 508,3 milioni a 510,1 milioni. Che cosa non quadra? Ovvio, gli immigrati. Sono aumentati (circa 2 milioni in un anno) mentre gli europei residenti lentamente diminuivano, o, per dirla male, alla Attilio Fontana, ci si rese conto per la prima volta che era in atto una sostituzione. Lenta finché volete, ma c’è. Forniamo qualche altro numero, così, anche solo per curiosità: l’Italia è notoriamente il Paese europeo in cui nascono meno bambini (tasso di natalità dell’8 per mille) mentre nel Nordeuropa ci danno dentro di più: Irlanda 14 per mille, Francia e Gran Bretagna 12, Portogallo 8,3, Grecia 8,5. In Italia l’anno scorso sono morte circa 650mila persone, ma il nostro tasso di mortalità (10,7) non è lontano dalla media europea che è di 10,3. Poi ci sono Paesi come la Bulgaria (15,3) e la Lettonia e la Lituania (14,4) dove si schiatta molto di più. La Germania ha 82 milioni di persone, la Francia 66, la Gran Bretagna 65, l’Italia 60. Non ci fosse la sostituzione di cui andiamo parlando, il caso europeo sarebbe un esempio quasi perfetto di controllo delle nascite: più morti che vivi sarebbe una buona notizia in un Pianeta brulicante e bisognoso di sempre nuove risorse. E gli immigrati, come detto, dovevano impiegarsi nei famosi lavori che gli europei non vogliono più fare: indirettamente ci avrebbero anche pagato le pensioni, quasi fossero una sorta di popolo di ricambio.

IL PREZZO DELL’ACCOGLIENZA. La realtà si è rivelata diversa. Molti immigrati (non stiamo enumerando quelli irregolari) mandano i soldi rigorosamente nel Paese d’origine e li sottraggono al ricircolo economico, programmando peraltro di andare a svernare nella terra dei loro natali quando l’età della pensione l’avranno raggiunta loro; alcuni - soprattutto orientali - tengono in piedi autentiche economie parallele che sono impermeabili o quasi alla nazione che li ospita, e soprattutto al fisco. Questo per quanto riguarda gli immigrati più fisiologici e maggiormente integrati, e lasciando da parte l'ampia parte che lavora in nero per una ragione o per un’altra. Poi c’è un’altra copiosa parte di immigrati (certo non solo profughi o rifugiati) che produce poco o nulla e si candida a impossessarsi dello status che tanti europei non possono più avere: quello degli assistiti, dei mantenuti, epicentro di un neo-welfare che in tutta Europa deve fronteggiare i bisogni e le emergenze di ondate ingestibili di migranti. C’è infine una terza categoria di immigrati, purtroppo: quelli che si muovono da un Paese all’altro con l’intento specifico di ingrossare attività criminali (sappiamo quali: molti europei non vogliono più fare neanche quelle) oppure che finiscono per caderci dentro per forza di cose, grazie a quelle autentiche scuole di formazione che le carceri rappresentano: gli immigrati, come è noto, sono in crescita anche lì, e di conseguenza anche i loro costi di mantenimento. Ecco, i numeri e le spiegazioni che Eurostat dovrebbe fornire - non che sia facile - sono anche queste: che cosa fanno questi due milioni di immigrati neo europei, sino a che punto rappresentano una risorsa e quanto invece un “costo” economico e sociale non affrontabile all’infinito. Quanti, poi, sono in galera, quanti dovrebbero starci, e quanto, ancora, potrà durare l’autoctona e demodé “popolazione europea” propriamente detta. È una buona domanda, ma durante una campagna elettorale italiane è proibito porsela. Filippo Facci

Razza bianca, l'antropologo: "Vi spiego la differenza tra noi e neri. Gli islamici, per esempio...", scrive il 16 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". "Le razze non esistono", ma "bianchi, neri e cinesi non saranno mai uguali". A parlare, al Giornale, è Franco La Cecla, antropologo e professore nelle prestigiose Università di Berkeley, Barcellona, San Raffaele e oggi alla Naba di Milano. Oggi il tema della "razza bianca" è oggetto di polemica politica, visto che a parlarne è stato il candidato governatore della Lombardia, il leghista Attilio Fontana. Generalizzare e semplificare è sbagliato, spiega il professore, ma il tema di fondo è innegabile: "Il bianco è diverso dal nero e i neri sono assai diversi fra di loro". Altro che bianco o nero, è un mondo a colori. "I caratteri fondamentali sono gli stessi. Dna e cromosomi non cambiano che tu sia banco o nero". Il guaio è che sinistra e politicamente corretti si fermano qua, senza fare un passo avanti verso la logica. Cioè, analizzare le "differenze culturali", che, spiega La Cecla, "hanno a che fare con l'ereditarietà, con l'ambiente, con la realtà in cui si cresce, con i caratteri secondari della biologia. E non sono facilmente superabili". Altro che integrazione obbligata. Un esempio? "Il musulmano ragiona per clan, per parentele, noi invece diamo più peso all'amicizia. Il migrante musulmano che arriva da noi non crea reti di rapporti, ma riproduce il suo habitat. Gli individui possono anche essere uguali - conclude l'antropologo -, ma le società spesso marcano, differenziano, dividono. L'integrazione è una storia lenta: gli italiani d'America ce l'hanno fatta, ma ci sono volute tre o quattro generazioni. E il lieto fine non è scontato".

Anna Bono, la verità della professoressa sugli africani: "Tra loro e noi Occidentali c'è l'abisso. Impossibile integrarli", scrive il 16 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". Anna Bono, già ricercatrice in Storia e istituzioni dell'Africa all'Università di Torino autrice del saggio controcorrente Migranti!? (Edizioni Segno), non usa giri di parole: "Il dibattito sull'esistenza di razze lo lascerei all'accademia, non è certo la sostituzione etnica il problema, ma la coesistenza di comunità diverse per cultura e tradizioni". L'esperta - si legge su Il Giornale - si esprime dopo la polemica per le parole di Attilio Fontana. "Non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano: dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate", ha detto il candidato del centrodestra come governatore della Lombardia dopo la rinuncia di Roberto Maroni. "Sarebbe utile, per capire, rileggere alcuni testi da tempo accantonati come politicamente scorretti, perché dimostrano la superiorità culturale dell'Occidente, di civiltà, non razziale", prosegue Anna Bono. Tra Europa e Terzo mondo c'è un abisso, dice. "È l'abisso tra la civiltà occidentale cristiana e il resto del mondo, non solo l'Africa - spiega la Bono -. I diritti dell'uomo, universali e inalienabili, le libertà personali, il valore di ogni vita, questa è la tradizione occidentale. Dall'altra parte invece c'è una tradizione di diritti legati agli status, a sua volta determinati principalmente da fattori quali il sesso e l'anzianità di nascita, quindi una tradizione di discriminazioni e limitazioni delle libertà personali: in Africa il tribalismo, in India le caste, dappertutto l'inferiorità e lo sfruttamento di donne e bambini". 

Il dato di fatto è una cosa, il razzismo è un'altra cosa.

Bingo, bongo, scimmie: i «lapsus» della Lega. Le frasi che i leghisti, da Bossi a Fontana, hanno pronunciato a proposito di migranti ed etnie, scrive Gian Antonio Stella il 16 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". «Hanno programmato un flusso di dieci o quindici milioni di immigrati nei prossimi dieci anni perché questa maledetta razza pura, razza padana, razza eletta, va tenuta nella colonia celtico congolese», dice l’allora segretario Umberto Bossi a un congresso padano al Palavobis. «C’è chi sostiene che per non esser razzisti bisognerebbe anche abbracciare le scimmie, ma questo atteggiamento non mi pare che in Italia abbia seguito. (...) L’universalismo antirazziale che vuole tutti uguali, dalla scimmia ad Einstein, è un’ideologia arrabbiata che non porterà mai da nessuna parte», sentenzia l’ideologo leghista Gianfranco Miglio. «L’Ulivo ha cessato di imbastardire il nostro sangue infettandolo con quello degli extracomunitari», barrisce Mario Borghezio, che pure non aveva avuto problemi a mischiarsi: «Le negre le ho provate quando sono stato in Africa, nello Zaire. Le katanghesi! Prodotto notevole. Mica come le bruttone nigeriane che battono da noi». «Rassista mi? Si figuri. Me la sono fatta con donne di tutti i colori. Anche con una gialla. E una nera. Quelli che non sopporto sono i delinquenti, i ladri, i travestiti, i finocchi, gli spacciatori. Già non li sopporto quando sono bianchi, si figuri negri». «Occorre usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto a un nostro cittadino», spiega in consiglio comunale il leghista trevisano Giorgio Bettio. «Gli immigrati annacquano la nostra civiltà, rovinano la razza Piave» dunque per rimpatriarli «sono disposto a tornare ai vagoni piombati», tuona il sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini. «Cosa fare degli immigrati? Peccato che il forno crematorio del cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto», ghigna l’allora senatore Piergiorgio Stiffoni, espulso poi dal Carroccio solo per ammanchi di cassa. «Amo gli animali, orsi e lupi, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di orango», ammicca Roberto Calderoli, che già aveva detto che «un paese civile non può fare votare dei bingo-bongo che fino a qualche anno fa stavano ancora sugli alberi» e auspicato che «gli immigrati tornino nel deserto a parlare con i cammelli o nella giungla con le scimmie». «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate», afferma il candidato leghista alla presidenza della Lombardia Attilio Fontana. Eccetera eccetera eccetera. Ma la Lega non è razzista...

Poi c’è il paradosso contrario.

L'Iliade? Un delirio epico Achille e Zeus sono neri. Arriva quest'anno la nuova serie tv Netflix-Bbc E a Troia sono di colore anche Enea e Patroclo, scrive Gilda Lyghounis, Mercoledì 17/01/2018, su "Il Giornale". Come vi immaginate Achille? Biondo, occhi azzurri, sguardo assassino e muscoli a tartaruga? Un po' come Brad Pitt nel Kolossal hollywodiano del regista Wolfgang Petersen del 2004? Dimenticate tutto questo. Anche se lo stesso Omero nell'Iliade afferma chiaramente che Achille è greco, quindi bianco, e xanthos (una sfumatura fra il biondo e il rosso), ora lo vedrete con la pelle nera e la capigliatura di pece. Così come di colore saranno Enea, l'amico-amante di Achille, Patroclo, e persino - o sacrilegio - il re degli dei dell'Olimpo, Zeus fulminatore. Ebbene sì: nella mega serie in otto puntate «Troy: Fall of a city» prodotta dalla BBC e da Netflix, di prossima uscita in tutto il mondo, a impersonare Achille sarà David Gyasi, attore britannico di origini ghanesi reduce dall'avere salvato l'umanità che rischiava di essere risucchiata da un buco nero nello spazio in «Interstellar». Il ruolo di Zeus è appannaggio di Kae-Kazim, anglo-nigeriano. Bianca come la neve rimane almeno la più bella delle donne, Elena, che però nel colossal sceneggiato da David Farr non sarà bionda, come nell'Iliade, ma castana: bella di nome e di fatto, a prestarle il volto sarà l'attrice Bella Dayne. Scandalizzati? Giulio Guidorizzi, docente di Letteratura greca all'Università di Torino e gran conoscitore di Omero, non lo è. «Anzi, questo ennesimo filmone tratto liberamente dall'Iliade dimostra che Omero, a 3000 anni di distanza, è un patrimonio universale». Anche se forse è diventato un'icona pop, visti gli svarioni a cui è regolarmente sottoposto. «L'importante è fare una netta distinzione: una cosa è l'Iliade, altra sono le sue riscritture come questa». Nella versione BBC-Netflix la guerra di Troia sarà talmente «riscritta» che sarà vista dal punto di vista dei perdenti, ossia dei Troiani. «E che c'è di male? Le riscritture fanno parte della libertà di ogni regista o scrittore: persino io sto scrivendo un romanzo dove vedo Ulisse dal punto di vista delle sue donne, poveretto...» sorride Guidorizzi. «Sarà un'Iliade come non ne avrete mai viste, una storia vecchia di tremila anni narrata in pompa magna» annuncia orgoglioso Piers Wenger, ai vertici della Bbc: le scene sono state già tutte girate a Cape Town, in Sudafrica, lontanissimo dall'Anatolia della vera Troia. Anche se nel 1987 apparve davvero un libro che suscitò scalpore e dibattito fra gli studiosi: «Atena nera» di Martin Bernal, in cui l'autore voleva dimostrare le «radici afroasiatiche della civiltà classica». In pratica, sosteneva che la cultura greca classica ha subito influssi determinanti e fondamentali da quella fenicia e ancora più da quella dell'antico Egitto. Certo, una cosa è l'Egitto, visitato anche da Platone ed Erodoto, altro è il Sud Africa. Ma consoliamoci. Secondo le teorie storiografiche più accreditate, i film storici o epici parlano molto di più della società che li ha prodotti, in questo caso l'anglosassone staff di Netflix, rispetto al periodo storico che vogliono raccontare... «Sono d'accordo - conclude il grecista -. Forse questo kolossal con Achille e Zeus neri si adegua a un certo conformismo politically correct dei nostri tempi, che vuole protestare contro il razzismo». Zeus come Obama per umiliare Trump?

Viviamo nell’età dell’invidia. Viviamo tempi di sentimenti estremi, dice il pensatore Gunnar Hindrichs. Divisi su tutto. E uniti solo dalla paura e dalla rabbia verso gli altri. Così oggi sono livore e tristezza ad alimentare i populismi, scrive Stefano Vastano il 29 dicembre 2017 su "L'Espresso". Viviamo incollati a i telefonini e alla Rete. Pratichiamo sport estremi, siamo ossessionati da cibi e diete sempre più radicali. E non crediamo a nessun ideale, non investiamo in associazioni né in partiti, corrotti per definizione. Quello che ci unisce è, da una parte, la livida, schiumante rabbia e l’acido dell’invidia verso tutti i potenti del pianeta, politici, manager o artisti che siano. Dall’altra, il panico per il prossimo attacco terroristico, strage di kamikaze solitari o sedicenti fanatici religiosi. «Siamo nell’era degli estremismi diffusi, nel regno dell’assoluta immanenza», esordisce Gunnar Hindrichs, accogliendoci nel suo studio a Basilea. Nel suo ultimo saggio, “Philosophie der Revolution” (“Filosofia della rivoluzione”, edito da Suhrkamp Verlag Ag., e non ancora tradotto in italiano), il giovane filosofo tedesco ha analizzato i motivi che nell’era moderna, dal 1789 al 1917, hanno spinto l’Occidente alle rivoluzioni. Per concludere che «oggi non c’è più alcuna rivoluzione all’orizzonte e manca ogni senso per la trascendenza. Per questo siamo in preda a una confusa spirale di diversi estremismi».

Per lo storico Eric Hobsbawm il ventesimo secolo è stato il Secolo degli Estremi, cioè delle ideologie radicali. Il ventunesimo sarà dunque quello degli Estremismi?

«L’idea di “estremismo” è difficile da definire, ma il ventunesimo secolo si annuncia come un pullulare di tendenze estremistiche che non seguono più, come è accaduto nelle rivoluzioni della modernità, progetti utopici o trascendenti, ma restano legate al piano della realtà immanente. L’era dell’Estremismo è una inversione rispetto a quella delle Rivoluzioni. Sì, viviamo in un diffuso neo-romanticismo, immersi in una pluralità di trend estremi e soggettivi: non a caso Camus, nell’“Uomo in rivolta”, definì i terroristi “i cuori estremi”».

Per Hegel il terrore giacobino era la furia della sparizione: il terrore non segue opere politiche, dice, solo un fare negativo. Il terrorismo islamico si basa sullo stesso nichilistico cupio dissolvi?

«Nella furia della Rivoluzione i giacobini praticano una doppia “sparizione”, sia delle istituzioni e norme che dell’individuo, ghigliottinato senza pietà. Hegel criticava nel Terrore l’idea soltanto negativa della libertà, ma nel terrorismo islamico non vediamo nessuna idea di libertà, né negativa né universale».

Il Rivoluzionario, scrive nel suo libro, non è guidato, come il Conte di Montecristo, da vendette personali: da Robespierre a Lenin al Che, qual è allora l’idea di fondo della rivoluzione?

«Dopo gli attentati dell’11 settembre, il filosofo Sloterdijk ha visto nel terrorista “una malignità senza scopi”, cioè una strumentalità perversa e fine a se stessa. La forza della rivoluzione sta nel creare invece non solo discontinuità rispetto alle norme tradizionali della politica, ma nel rifondare regole nuove per un nuovo contesto sociale. Rivoluzione è la magia dell’inizio e di una nuova praxis dell’agire sociale, così come abbiamo visto all’inizio della rivoluzione russa con i Consigli dei Soviet».

Insieme all’incubo del terrorismo, altro fortissimo estremismo è il potere di Internet nella nostra vita. L’avvento del regno virtuale ha spento l’ardore per una politica rivoluzionaria?

«Non sopravvalutiamo il potere di Internet. Come la stampa nell’era di Gutenberg anche il web sta modificando le nostre vite, ma computer e tastiere non sono certo l’avvio di una vera rivoluzione. Ha ragione Hannah Arendt che nella rivoluzione vedeva all’opera appunto la creazione di nuove regole, come dicevo, per una nuova praxis sociale. E non mi pare che l’uso dei computer produca creatività e trascendenza».

In Rete circolano intanto, ed è un’altra forma di estremismo, moltissime astruse teorie, complotti e congiure, ondate di fake news da far pensare a un nuovo oscurantismo…

«La sociologia americana ha coniato al riguardo l’espressione “Lunatic fringe”, una follia che parte dai margini del sapere e si espande verso il senso comune. Oggi queste zone oscure sono entrate con Donald Trump nel cuore della Casa Bianca e nel centro della società digitale e dell’informazione, cambiando il senso dell’opinione pubblica. L’estremismo oscurantista delle fake news e congiure, travestendosi da “fatti alternativi”, stravolge il pubblico discorso. E di questo trend sono gli estremisti della politica, i populisti, ad approfittarne».

In che modo?

«I nuovi movimenti populisti non sono solo un concentrato di antipolitica, ma “maligni” nel loro attaccare senza posa e vergogna i più deboli, i profughi e le altre minoranze. Il sentimento-guida che spinge oggi i populismi in Europa non è tanto la paura dello straniero o dei profughi e nemmeno l’acido del risentimento di cui parlava Nietzsche, ma l’occhio velenoso dell’invidia».

Può spiegare meglio questo punto?

«Nella grande tradizione di Tommaso d’Aquino l’invidia è la tristezza per l’essere. Da una triste radice velenosa sprizza l’invidia per la vita e per le risorse altrui. I populisti soffiano sull’invidia quando dicono che quelli al potere - la casta - fanno ciò che vogliono o i migranti incassano i nostri soldi. Nell’era degli estremismi il linguaggio della politica e dell’opinione pubblica è pervaso da tristezza e rabbia viscerali, l’opposto del “gaudium entis”, cioè della felicità per l’essere e per la vita propria e altrui».

Siamo diventati dei mesti Paperino nell’era dell’Estremismo, schiumanti di rabbia per le gioie altrui?

«L’invidioso confronta di continuo il suo essere con quello altrui, per questo la propria vita gli appare misera. È da questo humus accidioso che i populismi oggi traggono la loro forza. I movimenti rivoluzionari e operai erano spinti da una forte carica utopica e da una lucida prospettiva nel futuro, mentre la cupa tristezza è il marchio d’identità nell’era degli Estremismi».

«La nostra è un’epoca di estremismi», scriveva anche Susan Sontag: «Viviamo sotto la minaccia di due prospettive spaventose: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile»...

«Un’analisi perfetta questa della Sontag perché combina, nella loro immanenza, terrore e banalità, e ci consente di superare il luogo comune che nel terrorismo vede una forma, ancorché violenta, di trascendenza. No, l’estremismo terrorista è il gemello della più cruda banalità, l’apoteosi dell’arbitrarietà e della contingenza».

L’Estremismo è un ingrediente anche delle nostre abitudini alimentari: a tavola siamo tutti ossessionati da trend vegani o da diete sempre più spartane.

«Di recente sono stato invitato ad una conferenza per i 100 anni di “Stato e rivoluzione” di Lenin. A cena i più giovani sostenevano la tesi che con la rivoluzione non solo il menù, ma anche il nostro rapporto con gli animali, la carne e il cibo dovrebbe cambiare».

Hanno ragione questi ultra-rivoluzionari?

«No, credo che vi siano degli standard della società borghese dietro i quali non si possa regredire. Lo storico Karl Schlögel ci assicura che anche dopo la rivoluzione del 1917 nei ristoranti di San Pietroburgo menù e camerieri non erano affatto cambiati. Oggi persino tra giovani leninisti colpisce un certo estremismo dell’immanenza».

Una dose di estremismo fa parte della giovinezza: quando pensavano alla Rivoluzione francese i giovani Schelling, Hegel e Hölderlin osannavano una “Kunstreligion”, una Religione dell’arte in grado di spargere armonia nella società. Oggi l’industria della cultura ha riempito ogni città di musei, gallerie e biennali.

«Il mio maestro Rüdiger Bubner coniò la formula di “estetizzazione delle forme di vita” per caratterizzare la massima espansione di arte ed estetica nella nostra vita post-moderna. Anche le forme della protesta, sia nell’estrema destra che sinistra, hanno assunto ora la forma di pseudo feste rivoluzionarie o eventi estetici, come ad esempio al recente G-20 ad Amburgo. I giovani Hegel, Schelling ed Hölderlin sognavano una mitologia della Ragione, ma oggi del sogno rivoluzionario ci è rimasto solo un vago Estremismo estetico, come Negri e Hardt immaginavano nel loro “Impero”».

Ejzenstejn, invece, rivoluzionò il cinema e il montaggio. Majakowski e i poeti russi hanno ricostruito un linguaggio poetico…

«I futuristi russi si sentivano avanguardia di una nuova Bellezza che spingesse verso nuove forme di vita. Non è un caso se nel mio libro non parlo di Stalin: ho scritto un libro sulla filosofia della rivoluzione, non sul suo fallimento».

Anche Gramsci, nei “Quaderni del carcere”, sognava una politica oltre le paludi del senso comune, che spingesse verso il cosiddetto “Buon senso”.

«Il pensiero di Gramsci è essenziale per chiunque voglia articolare una filosofia della rivoluzione. Il “senso comune” a cui Gramsci si riferiva è il dominio dell’immanenza nelle forme estreme che abbiamo analizzato. Contro il quale si erge una prassi utopica, il “buon senso” di Gramsci appunto, che progetta nuove norme della prassi sociale. Oggi non vediamo da nessuna parte una esigenza rivoluzionaria di nuove forme di trascendenza».

A proposito di trascendenza, Robespierre inventò un culto dell’Essere Supremo. Ma il Dio del Rivoluzionario qual è?

«Il Dio della rivoluzione è quello che nella Bibbia (Esodo 3, 14) si presenta in latino come: “Ego sum qui sum”, e nella versione ebraica come “Ehye asher ehye”, e cioè “sarò colui che sarò”. È nella dimensione escatologica della Bibbia e del Dio d’Israele, come ha visto Michael Walzer, la matrice di ogni prassi rivoluzionaria».

L’era degli Estremismi segna il ritorno ad arcaici politeismi?

«I filosofi del postmoderno sentono il politeismo come più scettico, tollerante e pacifista del monoteismo. Ma più che scegliere tra politeismo o monoteismo, la questione è se l’era degli Estremismi abbia davvero un Dio o no».

E lei cosa dice?

«Che il Dio degli Estremismi è una variabile del tutto immanente e dai tratti antropomorfici: un Dio che non è un vero Dio, senza teologia né trascendenza, percepito come mera religione umana. Ma, come diceva Karl Barth, “la religione non è fede”».

Non per niente l’unico feticcio nell’era dell’Estremismo è il Nazionalismo, l’American First di Trump.

«La casa editrice della Nuova Destra tedesca si chiama “Antaios”, da Anteo, il gigante che come ogni nazionalismo trae la sua forza dalla madre Terra, dalle presunte radici o dai confini tellurici della società. Ma persino il cosiddetto “Movimento Identitario’”, la destra radicale, ha nelle sue bandiere una Lambda greca ispirata a un film sugli spartani di Hollywood, l’industria culturale più globale della storia. Un ennesimo segno dell’estremo mix di rabbia, invidia, tristezza e banalità quotidiana in cui siamo totalmente immersi».

L’analisi più suggestiva di Marx è “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”, la storia di una rivoluzione fallita, nel ’48, e della deriva autoritaria in Francia. Gli estremismi che circolano oggi in mezza Europa puntano verso nuovi Bonapartismi?

«Quel saggio di Marx è senza dubbio la chiave per capire gli Estremismi del presente. Bonapartismo è l’ambigua unione dei poteri forti con dubbiosi faccendieri e avventurieri, terroristi e criminali. Oggi persino la Faz, il quotidiano dei conservatori, scrive articoli a favore del movimento xenofobo di Pegida, e Afd fa proseliti tra i professori. Ai tempi di Marx la Repubblica francese implodeva nella forma totalitaria del bonapartismo, ed oggi populisti e l’estrema destra osannano Putin, il nuovo “Uomo forte”. A differenza dei tempi di Marx, però, non c’è più alcuna minaccia rivoluzionaria, ma i populisti rileggono il motto di Cicerone “res publica, res populi” in senso illiberale: nel loro estremismo, la Repubblica è proprietà del popolo e non delle sue libere norme ed istituzioni».

We are under a Mediaset. Generation Attack! Scrive Giuseppe Giusva Ricci venerdì 07 luglio 2017 su Next Quotidiano. La tragedia della situazione politica contemporanea (che travalica e fa apparire obsoleti i concetti di destra e sinistra) risiede nel fatto che individui appartenenti alla MediasetGeneration sono approdati a cariche istituzionali in modo naturale per scadenza biologica dei predecessori. Mezzi-adulti educati e cresciuti nel contesto culturale del berlusconismo carico di molteplici retaggi, di varie diramazioni, e di infiniti caratteri seduttivi, questi perenni adolescenti senza passato vivono secondo una coscienza deforme mossa da arrivismo, egoismo, edonismo, cialtronismo e disincanto nei confronti del Sociale, la dimensione imprescindibile del Bene Comune che una volta si poteva definire Società. In un paese culturalmente devastato dall’ognun-per-sé, dove la lotta di classe si è trasformata in invidia di classe – e che Pierpaolo Capovilla compendia così “Dai, vai, uno su mille ce la fa, stai a vedere, che sei proprio tu … sono accadute tante cose ma non è successo niente, che m’importa a me, che t’importa a te, che c’importa a noi … se tuo fratello resta al palo, mandalo affanculo, non aver pietà o rispetto per nessuno, parola d’ordine nutrire l’avvoltoio è dentro di te”** – data la loro formazione diretta o sublimata e la loro appartenenza a questa condizione ormai cristallizzata, gli attuali giovani leader non possono che essere intimamente e forse inconsapevolmente dediti a ways of life pop-nichilisti nei quali l’ambizione determina scelte e posizioni. È plausibile che siano la vanità e l’arrivismo a muoverli e a farli soccombere alle sirene del benessere privato, ossia quei valori che hanno vinto definitivamente con la resa di gran parte della precedente generazione politica contaminata dal berlusconismo perché già segnata irreparabilmente dalla caduta delle Idee e dal trionfo del privilegio e del profitto privato. Le dinamiche delle rottamazioni (in tutti gli apparati) evidentemente fallite, vista la riesumazione di figure quali Berlusconi e Prodi, furono prefigurate da Antonio Gramsci in Quaderni dal carcere [Vol. 4, 1929-1935] con queste parole: “Fare il deserto per emergere e distinguersi […] Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro, ma essi non l’hanno fatto e, quindi, noi non abbiamo fatto nulla di più.”  Con l’impostura del giovanilismo usato come paradigma di rinnovamento e basato sul concetto mistificatorio che approssima il vecchio al superato e allo sbagliato, all’interno degli apparati si sono attuate pseudo-rivoluzioni che hanno instaurato un regime della mediocrità. Questo regime supera l’appartenenza alle tradizioni e ai pensieri forti che non solo hanno mosso il Novecento, ma che paiono imprescindibili visto l’andazzo delle disparità economiche che investono oggi, come già prima delle lotte per i diritti, tutti gli ambiti della società reale. Da quando la principale agenzia di educazione-formazione è diventata la TV con le sue divizzazioni di giovani individui qualunque (o con l’enfatizzazione del ruolo dei professionisti dell’intrattenimento), le gioventù hanno assimilato la mistificazione del nuovo secolo, quella che ripone e misura il significato dell’esistenza quasi esclusivamente sulla base del successo pubblico e del relativo denaro ottenibile, sull’arrivismo e sull’individualismo. Nell’introduzione al suo Atlante illustrato della TV (2011), Massimo Coppola, senza definirla, la spiega così: “La generazione formata in quegli anni – quelli dell’affermazione della tv commerciale – non può che essere formata da anime scisse, indecise, forse incapaci di provare davvero piacere […] gente priva di uno straccio di passato cui attaccarsi senza provare rimorso, rabbia, sottile vergogna”. Questa dinamica nel tempo ha formato la MediasetGeneration, che per forza di cose sarebbe approdata, in parte, anche ai gruppi sociali dirigenti composti dagli attuali trentenni/quarantenni:

–Alessandro Di Battista, classe 1978, a 35 anni deputato e leader di Movimento, a 20-22 anni partecipò a provini per Amici di Maria De Filippi spinto da vocazione attoriale.

–Rocco Casalino, classe 1972, a 42 anni responsabile della comunicazione del M5S, a 28 anni partecipò alla prima edizione del Grande Fratello (poi ospite e opinionista di altre trasmissioni Mediaset: Buona Domenica, ecc.).

– Luigi Di Maio, classe 1986, a 27 anni Vicepresidente della Camera e leader di Movimento, con l’avvento della triade Mediaset del 1984 potrebbe avere assistito all’operazione culturale berlusconiana già dalla culla.

– Matteo Salvini, classe 1973, già a 36 anni europarlamentare, oggi leader della Lega, ancora giovanissimo partecipò a telequiz trasmessi dalle reti berlusconiane – nel 1985 (a dodici anni) a Doppio Slalom; nel 1993 (a vent’anni) a Il pranzo è servito.

– Matteo Renzi, classe 1975, a 29 anni Presidente della Provincia di Firenze, a 34 Sindaco di Firenze, a 38 segretario del PD, a 39 Presidente del Consiglio, nel 1994, diciannovenne, partecipò al telequiz di Canale5 La ruota della fortuna.

[A proposito: Hitler: a 36 anni leader del Partito Nazionalsocialista, a 44 Cancelliere del Reich. Stalin: a 43 anni Segretario Generale del Comitato Centrale, a 47 Capo dell’Urss. Mussolini: a 36 Capo del Partito Fascista, a 39 anni Presidente del Consiglio].

Ancora, il 18 ottobre 1975, dalle colonne del Corriere della Sera, Pier Paolo Pasolini scriveva: “Se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? È stata la televisione che ha praticamente concluso l’era della Pietà, e iniziato quella dell’Edonè. Era in cui dei giovani presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro, tendono inarrestabilmente a essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino all’infelicità”.

Gli esemplari umani recentemente consacrati mediaticamente come personaggi istituzionali e politici (Renzi, Boschi, Serracchiani, Salvini, Di Maio, Di Battista, Meloni, ecc.) sono, prima di tutto, leader mediatici abili nella spettacolarizzazione di se stessi, sono l’incarnazione dell’affermazione dell’Immagine sulla “Statura”, dello Spettacolo sulla Politica, del marketing sull’esperienza. Questi “giovani politici” sono stati graziati dalla logica da Grande Fratello della “nomination”, hanno partecipato al talent show della non-Politica moderna, e hanno vinto (forse). Se siano stati scelti e nominati da chissà quali alte sfere del Dominio, “cupole” anche diverse tra loro, non è dato sapere con certezza, ma i segnali che siano figure compiacenti e collaborative ci sono…

L’appartenenza alla MediasetGeneration in parte li scagiona, perché è mutazione genetica, poiché essi possono essere ritenuti innocenti delle strutture mentali alle quali obbediscono; ambizione e successo. Ma possono essere ritenuti inconsapevoli dell’arroganza generazionale, del modernismo scalpitante, e del superomismo che li descrive nel loro carrierismo data l’appartenenza alla società dell’opulenza?

Contro la folle sinistra che sceglie Di Maio, scrive il 28 dicembre 2017 Adriano Sofri su "Il Foglio". Discutiamo pure su chi sia il meno peggio, ma sia chiaro che il peggio è il M5s. Ogni tanto sento qualcuno dire che è stanco di votare “il meno peggio”: “Questa volta non lo farò più”. Me ne stupisco e preoccupo, perché sono persuaso che il voto al “meno peggio” sia la traduzione elettorale della definizione della democrazia come il peggior sistema di governo a parte tutti gli altri. Cioè un’idea, se non volete dire pessimistica, almeno misurata nelle aspettative investite nella pubblica amministrazione. L’assolutismo politico è affare tragico della rivoluzione o della controrivoluzione, e in subordine degli imbecilli. In altri ambiti, sia della vita privata che della partecipazione sociale, ci si può proporre di perseguire il bene, quello che si crede il bene. La preferenza per il “meno peggio” mette al riparo dalle delusioni troppo dolorose e dal loro risvolto, il disgusto per il voto. Per questo stato d’animo, che non è demoralizzato se non alla lettera, perché non pretende una moralizzazione assoluta della scelta di voto, il “meno peggio” non è una opzione contingente ma una specie di filosofia relativa e durevole. La contraddizione però sorge e scuote l’assicurazione fornita dal ragionevole scetticismo elettorale quando ci si scopre incerti perfino nel riconoscimento di che cos’è il “meno peggio”. E’ il caso attuale. Vi rientra la domandina: “Per chi voteresti fra Berlusconi e Di Maio?”, che ha fatto tanto rumore. L’ipotesi del ballottaggio fra la padella e la brace è tuttavia autorizzata: la novità è che nello schieramento, chiamiamolo così, che va dal centrosinistra alla sinistra, chiamiamole così, qualcuno ha fatto intendere, scopertamente, come nel caso per me sconcertante di Bersani, o più ambiguamente, di preferire Di Maio non a Berlusconi (e Salvini) ma al Pd. Io (che non conto niente, e sono privo del diritto di voto) metto nel peggio da sventare il Movimento 5 stelle. Penso, molto sommariamente, che quel movimento abbia degradato una delle esperienze più nobili dei movimenti popolari e operai, l’autodidattismo, che era un amore per il sapere dal quale i più erano esclusi per una discriminazione sociale, e lo perseguivano al costo di enormi sacrifici attraverso società di educazione, studi serali, partiti, sindacati, “università popolari”. Che erano allo stesso tempo occasioni preziose per chi avendo avuto il privilegio degli studi volesse metterli alla prova del sapere del lavoro e dell’intelligenza suscitata dall’amalgama sociale. L’autodidattismo dei 5 stelle, in questo esemplari di una delle due possibili evoluzioni del tempo presente, è viceversa pieno dell’arroganza che deriva dalla sostituzione del sapere con la rete, serbatoio di tesori e di scempiaggini. Nel loro caso, di scempiaggini e superficialità. Era la prima impressione dei 5 stelle, è stata confermata a dismisura dagli anni trascorsi e dalla prevalenza del cretino, pur combattuta, al loro interno. Forse solo per abitudine, o per vecchiaia, perché le persone del Pd e della sinistra sono ancora largamente quelle che ho conosciuto e di cui non di rado sono stato amico, benché ne veda un immeschinimento pubblico pressoché irresistito, continuo a cercare là il mio meno peggio. Lo cerco nella disposizione del Pd a proporsi una collaborazione, se non un’amicizia, con il grosso (parola grossa, lo so) dello schieramento alla sua sinistra, e viceversa, nella disposizione della sinistra a cercare una collaborazione col Pd. E nella disposizione della lista europeista di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova ad accordarsi col Pd, e viceversa. (Vorrei che facessero altrettanto i radicali dell’altra metà, convinti che non presentarsi alle elezioni sia un principio). Senza di che l’alternativa si riduce alla domanda truccata: “Chi sceglieresti fra Berlusconi e Di Maio?” Non credo di cedere a un pregiudizio o a un sentimento, un risentimento, senile: guardo ai governi degli ultimi anni con pieno disincanto, e tuttavia mi dico che i governi di altre maggioranze avrebbero fatto peggio, e probabilmente molto peggio. Ho una postilla all’argomento del meno peggio, e riguarda la professione politica. Non occorre che dichiari il mio rispetto per la professione politica, reso a sua volta rispettabile dal fatto che non le appartengo e non ho alcuna ambizione di appartenerle – la sola idea mi sembra buffa. Dunque mi sento privatamente disinteressato, benché personalmente interessatissimo. Quando Max Weberparlava del Beruf politico, che era insieme professione e vocazione, aveva a che fare con un mondo in cui i due concetti potevano tenersi. Le famigerate ideologie erano a loro volta capaci di richiedere (anche di esigere ferocemente) il disinteresse e l’abnegazione dei dirigenti e dei militanti politici. Oggi la professione politica ha visto ridursi fino a scomparire la parte della vocazione e crescere a dismisura quella riservata al mestiere: rango, lunario. Che si sia giovani e all’arrembaggio o provati e anche francamente vecchi, un interesse personale alla conservazione si aggiunge e molto spesso prevale sugli ideali politici, quando pure ci siano. (Nelle altre professioni, a partire dalle più ipocrite, il giornalismo o la magistratura, succede almeno altrettanto, ma quelle sono il retrobottega, e la politica è la bottega e la vetrina). Nei giorni scorsi ho letto titoli come: “Concorso per preside, verso le 35 mila domande per 2.425 posti: uno su 15 potrà coronare il sogno” (Repubblica), e “In 10 mila per il posto in Parlamento M5s, un iscritto su 13 tenta la corsa” (Corriere). Temo che, meccanismi di selezione a parte, qualcosa di simile si potrebbe leggere per tutto l’arco delle forze politiche, sinistra compresa. Il disinteresse è una virtù difficile da trovare, e in politica non è nemmeno detto che sia una virtù, quando diventi oltranzista: ma senza una dose di disinteresse la politica è fottuta e noi con lei. Il disinteresse è in realtà un interesse personale differito, nel tempo e nello spazio: sul nostro prossimo nel Niger e in Myanmar, sui nostri figli e nipoti. Infatti noi non facciamo più figli, direte, e ci vantiamo di non votare lo ius soli. Già. Infatti occorre una buona dose di idealismo per impegnarsi a votare, e votare il meno peggio.

UOMINI DI SOROS HANNO SCRITTO IL PROGRAMMA IMMIGRAZIONE DEL M5S, scrive il 2 gennaio 2018 Vox News. Inchiesta giornalistica potenzialmente devastante per il MoVimento. Il Primato Nazionale ha scoperto che il programma immigrazione dei grillini è stato scritto da persone direttamente legate alla Open Society di Soros. Inquietante e intollerabile, visto che non parliamo del PD. Il secondo punto del programma, infatti, titolato “Il ricollocamento dei richiedenti asilo”, è stato redatto da Maurizio Veglio, avvocato membro della famigerata ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione). Di ASGI abbiamo parlato nei giorni scorsi. Come sappiamo per gli innumerevoli articoli scritti da Vox, e come rimarcato dal PN, ASGI è tra i promotori del ricorso vinto contro l’INPS a proposito del “Bonus Mamma” che in origine non veniva assegnato alle straniere senza permesso di soggiorno di lungo periodo. Quindi, grazie all’associazione di Soros, tutte le straniere regolarmente soggiornanti in Italia ora hanno diritto all’assegno di 800 euro. Insomma, il M5S fa scrivere il proprio programma sull’immigrazione a chi vuole finanziare l’invasione. Tragico e inaspettato. E non è un caso il punto 2. Infatti, anche il punto 3 del programma immigrazione del M5S è stato scritto da un avvocato di ASGI, Guido Savio, e riguarda le “Commissioni Territoriali”, ovvero chi decide in merito all’esistenza dei requisiti per l’ottenimento dello status di profugo dei richiedenti asilo. Come affidare a Pacciani un asilo nido. È paradossale – scrive il PN – che Guido Savio abbia sviluppato un documento per ASGI “con il sostegno di Open Society Foundations”, che sviluppa le medesime tematiche e le medesime critiche all’attuale regolamentazione delle Commissioni Territoriali, riportate poi nel punto del programma immigrazione del Movimento 5 Stelle. Ancora più curiose sono le soluzioni sviluppate da Savio, con contenuti decisamente globalisti e di certo non “anti-establishment” che dovrebbero essere la nemesi dei pentastellati. Guido Savio propone di formare 15.000 nuovi commissari formati da enti e organizzazioni come la Croce Rossa, UNHCR e EASO (European Asylum Support Office, agenzia della Commissione Europea supportata da varie ONG, molte delle quali finanziate da Soros e tra le quali figura anche ASGI). Quindi, secondo l’avvocato di ASGI delle organizzazioni internazionali, governative e non, dovrebbero istruire chi dovrà decidere a proposito dello status di profugo, sul sovrano territorio italiano: nulla di più “establishment”. Inoltre, ASGI “al fine della promozione di azioni anti-discriminatorie, si è costituita in giudizio con ricorsi civili e penali nell’ambito di alcuni procedimenti di rilevanza nazionale e in diverse cause concernenti il diritto anti-discriminatorio e sta promuovendo una rete italiana di operatori e professionisti capaci di sollevare presso gli organismi amministrativi e giudiziari le questioni antidiscriminatorie”. Per tale motivazione, Guido Savio ha assistito un cittadino kosovaro, già pregiudicato (4 anni di carcere) presso il Tribunale di Milano, che aveva ricevuto un decreto di espulsione dall’Italia per pericolosità sociale (due rapine “violente” e un furto aggravato): il risultato è stato l’annullamento dell’allontanamento dal nostro Paese per “motivi familiari” (figlio minore residente in Italia). Quindi i punti 2, 3 e 4 (come potete leggere nell’articolo completo) del programma immigrazione del Movimento 5 Stelle sono legati da un filo rosso: l’Open Society Foundations di George Soros. Ma leggendo l’interessante pezzo di Francesca Totolo, anche gli altri punti sono legati a percorsi e associazioni immigrazioniste.

Perché il M5S fa scrivere il proprio programma a personaggi finanziati dallo speculatore finanziario Gerorge Soros? Di Maio deve rispondere.

Così gli uomini di Soros hanno scritto il programma immigrazione del M5S, scrive il 2 gennaio 2018 "Primato nazionale". Ci sono pochi capisaldi nella politica italiana e nei programmi dei vari partiti, eccezione fatta sui programmi di accoglienza e gestione dei flussi migratori: tutti i partiti dell’area della sinistra liberal, globalista, e radicale (PD, Liberi e Uguali di Grasso, Più Europa della Bonino) sono per un’accoglienza incondizionata e illimitata, mentre i partiti che si riconoscono nella destra, dalla più moderata a quella più estrema (Forza Italia, Lega, Fratelli di Italia, Movimento Nazionale per la Sovranità, CasaPound) anche se con differenti sfumature, sono per fermare il costante e incontrollato sbarco nei porti italiani e per un veloce rimpatrio dei non aventi diritto alla protezione internazionale. Qualche perplessità, invece, ha sempre destato il Movimento 5 Stelle, che a seconda dell’esponente, non si è mai espresso univocamente, passando dalle dichiarazioni di Luigi Di Maio che, dopo l’avvio delle indagini delle Procure siciliane e la divulgazione dei report di Frontex, si accorse del business che ruota intorno all’immigrazione e dei lati oscuri delle ONG, a quelle di Roberto Fico che si definì contrario al respingimento e dichiarò che non bisognava “mettere al centro il dibattito sulle ONG che oggi sembrano essere considerate quasi le responsabili dei flussi migratori”. Due correnti di pensiero molto differenti e difficilmente accostabili, visto che l’una esclude l’altra. Per questo motivo, abbiamo deciso di approfondire la questione analizzando i documenti e le pubblicazioni ufficiali del Movimento 5 Stelle, e nel concreto il Programma Immigrazione intitolato emblematicamente: “Immigrazione: Obiettivo sbarchi zero – L’Italia non è il campo profughi d’Europa”. Vi garantiamo che il titolo, che sembrerebbe partorito da Matteo Salvini, trae seriamente in inganno. Analizziamo i punti del programma immigrazione del Movimento di Grillo, fieramente votati proprio dal popolo pentastellato (“Hanno votato il programma immigrazione 80.085 iscritti certificati che hanno espresso 80.085 voti”): a volte, la “democrazia dal basso” può essere solo apparente se non supportata da una chiara informazione. Il secondo punto “Il ricollocamento dei richiedenti asilo” è stato redatto da Maurizio Veglio, noto avvocato tra i membri di ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione).

"Così uomini di Soros hanno scritto il piano migranti del M5S". Uomini di un'associazione finanziata da Soros avrebbero redatto una parte del programma grillino sui migranti. Ecco chi sono, scrive Giovanni Neve, Giovedì 04/01/2018, su "Il Giornale". Gli "uomini di George Soros" avrebbero contribuito a scrivere il programma di governo del Movimento 5 stelle riguardante i migranti: l' "accusa" proviene da Francesca Totolo che, su Il Primato Nazionale, ha scritto un articolo che dimostrerebbe i legami intercorsi tra la Open Society Foundations e la redazione di parti del documento grillino riguardante i fenomeni migratori. "Il secondo punto - ha sottolineato la giornalista - cioè "Il ricollocamento dei richiedenti asilo" è stato redatto da Maurizio Veglio, noto avvocato tra i membri di ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione)", ma questa associazione, sempre secondo quanto scritto in questo articolo, sarebbe stata fondata e finanziata dalla Open Society Foundations. "L'ASGI - ha continuato la Totolo - ha aderito a numerose campagne pro-immigrazione e pro-ius soli tra le quali "L’Italia sono anch’io, campagna per i diritti di cittadinanza", "Out of Limbo" per la promozione dei diritti dei rom apolidi o a rischio apolidia, "Ero straniero – L’umanità che fa bene", "Non aver paura. Apriti agli altri, apri ai diritti", e molte altre, in collaborazione con associazioni religiose (Caritas Italiana, Fondazione Migrantes, Centro Astalli, Comunità di Sant’Egidio), altre associazioni e organizzazioni sorosiane (A Buon Diritto, CIR, ARCI, Amnesty International, Antigone), Partito Radicale e diversi esponenti del Partito Democratico". L'ente in questione, insomma, sarebbe concretamente impegnato in una serie di iniziative volte a favorire l'accoglienza dei migranti. E fin qui, nulla di strano. Quello che pare emergere, però, è un collegamento diretto tra alcune parti del programma sui migranti del Movimento 5 stelle e l'ASGI, la stessa che associazione che, come si legge qui, non disdegnerebbe fare spesso causa ai sindaci di centrodestra. Il punto 3, ad esempio, cioè quello riguardante le "Commissioni territoriali", ovvero la competenza sulle decisioni di attribuzione dello status di profugo dei richiedenti asilo, sarebbe stato scritto da Guido Savio, un altro avvocato di ASGI. Le tesi di Savio sarebbero già contenute all'interno di un documento dell'associazione di cui fa parte e tenderebbero a muoversi su direttrici politiche "globaliste", quindi molto lontane dalla titolazione del programma pentastellato, che invece recita: "Immigrazione: Obiettivo sbarchi zero – L’Italia non è il campo profughi d’Europa". Una titolo, dunque, che nasconderebbe in realtà una sorta di "inganno". Il punto 4, ancora, è stato "redatto" da Nancy Porsia, che la Totolo definisce come una "giornalista esperta di Medio Oriente e Nord Africa e collaboratrice di diverse testate italiane e straniere molto mainstream media". Questi redattori del programma, secondo quanto appreso da alcune fonti de IlGiornale.it, sarebbero stati chiamati dai grillini in quanto esperti in materia d'immigrazione. Consulenti, forse, ma non direttamente esponenti politici del partito di Beppe Grillo. Quest'ultima redattrice, poi, non sarebbe direttamente riconducibile all'Open Society Foundations, ma avrebbe vinto un "working grant", "Priorità europee, realtà libiche", che sarebbe stato assegnato da Journalismfund, che sarebbe un'altra organizzazione finanziata da Soros, ai fini di "stimolare il giornalismo transfrontaliero in Europa". Per la Totolo, insomma, ci sono pochi dubbi: "Quindi i punti 2, 3 e 4 del programma immigrazione del Movimento 5 Stelle sono legati da un filo rosso: l’Open Society Foundations di George Soros", ha sottolineato la giornalista. Un programma di governo, in sintesi, dove sarebbe difficilmente riscontrabile l'intenzione paventata di far sì che l'Italia non continui ad essere "il campo profughi d'Europa".

Sotto le 5 stelle il rosso: sono uguali ai comunisti. Traditi dal programma di sinistra, dall'odio per i capitalisti al pauperismo, scrive Francesco Maria Del Vigo, Sabato 11/11/2017, su "Il Giornale". Cinque stelle rosse si agitano nel cielo della politica italiana. E non serviva un meteorologo di grande esperienza per prevederlo. Era naturale. Perché la congiunzione astrale tra i grillini e i compagni erranti (nel senso che vagano senza meta, ma pure che sbagliano) che hanno imboccato la strada alla sinistra del Pd era logica e naturale. Non tanto per una questione umana - Bersani e soci nell'immaginario pentastellato sono pur sempre parte della casta - quanto per una questione ideologica e programmatica. Chiunque si sia avventurato nella soporifera lettura del programma dei grillini non ha dubbi: sono di sinistra. E hanno tutti i tic politici e intellettuali di quei cespugli della sinistra radicale che ora non sanno dove attecchire. Volete qualche esempio? La loro storia politica è chiarissima, il loro programma ancor di più. Il movimento muove i primi passi, e raccoglie i primi consensi, a cavallo tra gli orfani dell'antiberlusconismo più violento, del popolo viola e del movimentismo da centro sociale: no global, no tav, no tap, no vax e chi più ne ha più ne metta. Sono quelli che ancora oggi si divertono a decapitare i fantocci di Renzi e lanciare sassate alla polizia, con lo scudo dei politici grillini che ne chiedono subito la scarcerazione (vedi G7 di Venaria). Dietro il completo blu di Di Maio si nascondono eskimo e kefiah. Il programma gestato e partorito in rete è ancora più chiaro e sembra la versione 2.0 di un vecchio manifesto marxista. Le multinazionali? Delle macchine di morte da imbrigliare e sconfiggere a ogni costo, poco importa che diano lavoro a migliaia di persone. Gli Stati Uniti? Il burattinaio cattivo che gestisce di nascosto i destini universali. Il liberismo? Beh, l'ossessione dei Cinque Stelle per il liberismo è quasi patologica. Ogni stortura, ogni giustizia, ogni cosa che non va al mondo - fosse la lampadina bruciata di una periferia di Roma o la crisi idrica in Burkina - è sempre colpa del neoliberismo, madre e padre di tutti i mali. Ne consegue che la ricchezza è una colpa, un difetto di fabbrica, un peccato originale. Emendabile solo con un bel bagno (di sangue) nel lavacro fiscale. Magari con una patrimoniale. Ma i destini di grillini e sinistra radicale si incontrano più di una volta: dal giustizialismo estremo all'ecologismo più spinto, dal mito del pauperismo e della decrescita felice all'odio per il mondo della finanza, senza alcuna distinzione. Esattamente come gli ex Pci preferiscono lo Stato al singolo cittadino, il pubblico al privato. E poi il pacifismo «onirico», quello che, senza fare i conti con la geopolitica, immagina un mondo nel quale le relazioni diplomatiche si possano fare solo con pacche sulle spalle e buffetti. E forse il punto di saldatura più evidente tra grillismo e comunismo è proprio questo: il fondamentalismo ideologico, l'idea che si possa far aderire la realtà ai propri ideali; il desiderio di cambiare e non la società in cui vive. Un delirio messianico che ha seminato solo danni. D'altronde Gianroberto Casaleggio, nel suo ultimo visionario libro Veni Vidi Web, profetizzava un mondo di downshifter (persone che decidono volontariamente di guadagnare di meno per vivere meglio), senza Tv che distrae e costa troppo, senza centri commerciali, con una proprietà privata limitata e le grandi aziende smantellate. Questo è il mondo che sognava il fondatore dei Cinque Stelle. A lui sembrava un paradiso, ma ha più i tratti un inferno sovietico. A lui pareva una nuova ricetta per cambiare il mondo, a noi sembra la solita brodaglia rancida in salsa marxista. È il comunismo digitale.

George Soros, l'uomo che paga ​l'invasione dell'Europa. Gli amici degli scafisti: il magnate investirà 500 milioni nelle ong per creare una flotta di navi per salvare i migranti, scrive Gian Micalessin, Lunedì 06/03/2017, su "Il Giornale".  Solo pochi giorni fa la Commissione Ue annunciava la necessità di espellere un milione di migranti illegali. Solo ieri in Sicilia ne sono sbarcati 1.500 recuperati grazie al solerte impegno delle navi soccorso gestite da organizzazioni umanitarie (Moas, Jugend Rettet, Stichting Bootvluchting, Médecins sans frontières, Save the children, Proactiva Open Arms, Sea-Watch.org, Sea-Eye, Life boat) che annoverano tra i propri finanziatori la Open Society e altri gruppi legati al milionario «filantropo» George Soros. Bruxelles, a questo punto, farebbe bene a spiegare che per fermare il traffico di uomini bisogna combattere non solo le organizzazioni criminali, ma anche la carità pelosa, e politicamente motivata, di Soros e della sua galassia buonista. Una galassia a cui l'ottuagenario filantropo ha promesso il 20 settembre scorso investimenti da 500 milioni di dollari per favorire «l'arrivo dei migranti». Investimenti destinati a contrastare le politiche europee sull'immigrazione e a mettere a rischio la sovranità dell'Italia e di altre nazioni. Il primo a capirlo è il capo di Frontex, Fabrice Leggeri intervenuto di recente per criticare la tendenza a soccorrere i migranti «sempre più vicino alle coste libiche» spiegando come questo incoraggi i trafficanti a stiparli «su barche inadatte al mare con rifornimenti di acqua e carburante sempre più scarsi rispetto al passato». Le parole di Leggeri rappresentano un'esplicita denuncia delle attività di soccorso marittimo finanziate da Soros. Dietro le operazioni di navi di grossa stazza come il Topaz Responder da 51 metri del Moas, il Bourbon Argos di Msf, o l'MS di Sea Eye ci sono infatti quasi sempre i finanziamenti del filantropo. Finanziamenti che garantiscono il trasferimento nei nostri porti di migliaia di migranti illegali. L'aspetto più inquietante di questa vicenda è però come questa flotta di navi fantasma, battenti bandiera panamense, (Golfo azzurro, della Boat Refugee Foundation olandese e Dignity 1, di Msf) del Belize (il Phoenix, di Moas) o delle isole Marshall (il Topaz 1, di Moas) punti a realizzare politiche dissonanti rispetto a quelle europee e italiane. Per capirlo basta spulciare i siti delle organizzazioni che gestiscono la flotta buonista. La tedesca Sea Watch armatrice di due navi soccorso battezzate con il proprio nome spiega di battersi per il «diritto alla libertà di movimento» e di non accettare «arbitrarie distinzioni tra profughi e migranti». Come dire che il rispetto di confini e sovranità nazionale non ha alcun senso. Come non lo ha distinguere tra chi fugge da guerre e dittature e chi invece cerca solo migliori condizioni di vita. Sea Eye, un'altra organizzazione tedesca conduttrice di una nave da 26 metri e di un barchino da soccorso spiega invece di volere contrastare tutti i futuri piani europei per il trasferimento dei migranti in campi di accoglienza situati in Libia e Tunisia. Un articolo pubblicato sul sito dell'organizzazione maltese Moas da un giornalista ospitato sulla nave Topaz Responder descrive invece un'operazione con tutti i crismi dell'illegalità. L'articolo racconta il soccorso di 650 migranti recuperati «nella notte tra il 21 e 22 novembre a venti chilometri dalle coste libiche» e poi portati in Italia. Un'esplicita ammissione di come la «flotta umanitaria» operi ampiamente dentro il limite di dodici miglia (22,2 chilometri) delle acque territoriali. Un limite entro il quale sarebbe obbligatorio riportare i naufraghi a terra anziché traghettarli fino alle ospitali coste italiane.

I talebani dell'accoglienza che fanno il tifo contro l'Italia. La Ue: sì al ricorso contro l'espulsione di cinque sudanesi. Ecco chi c'è dietro alle associazioni legali che li difendono, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 12/01/2018, su "Il Giornale". Gli avvocati talebani dell'accoglienza, amici della sinistra e che aiutano i grillini sul tema immigrazione, esultano per il primo passo verso una possibile condanna dell'Italia relativa all'espulsione di 5 sudanesi. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha dichiarato ammissibili i ricorsi degli espulsi presentata dagli avvocati dell'Asgi, l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione: un gruppo di esperti che fa di tutto per aprire le porte all'immigrazione, grazie ai soldi del discusso miliardario George Soros. Sul loro sito pubblicano il logo di Open society foundation, l'organizzazione del filantropo che li sponsorizza. Non è un caso che il vice presidente dell'Asgi sia Gianfranco Schiavone, ultrà dell'accoglienza, che gestisce una Onlus a Trieste. Il caso dei sudanesi è solo la punta dell'iceberg dell'attivismo legale pro «invasione», che punta a mettere i bastoni fra le ruote al governo italiano quando cerca di tamponare gli arrivi. Un altro cavallo di battaglia sono i ricorsi al Tar contro l'utilizzo del Fondo Africa della Cooperazione per rimettere a posto 4 motovedette consegnate ai libici con l'intento di fermare le partenze dei barconi. Gli avvocati dell'Asgi, Giulia Crescini e Cristina Laura Cecchini, hanno ribadito che è «necessario mettere in discussione le politiche attuate delle autorità italiane ed europee, le quali finanziano direttamente ed indirettamente le autorità libiche () rendendo la fuga dei migranti dalla Libia ancora più pericolosa anche grazie alla strumentazione che inevitabilmente è utilizzata per attaccare le navi delle Ong durante le operazioni di soccorso». Non a caso l'Asgi collabora con l'Arci, l'associazione di sinistra sempre più oltranzista. Assieme hanno seguito una delegazione di parlamentari della Sinistra europea a Khartoum per rintracciare i 5 sudanesi espulsi nel 2016 e poter presentare ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. E non poteva mancare una collaborazione dei legali, talebani dell'accoglienza, con Magistratura democratica nella realizzazione della rivista Diritto immigrazione e cittadinanza. La rete legale si scatena anche contro l'Inps, amministrazioni comunali, soprattutto di centro destra, addirittura il Conservatorio di Venezia, varie società pubbliche e pure privati per difendere a spada tratta gli stranieri. L'Asgi ha attivato pure un «servizio anti discriminazioni etnico-razziali e religiose» grazie ai finanziamenti dell'enigmatica Fondazione italiana Charlemagne, che dal 2017 si rifiuta di investire in progetti nel nord Italia, ma solo al centro e al sud. Dalle elezioni europee del 2014 la rete di legali ha aderito alla campagna per «contrastare e arginare il rigurgito razzista, l'ondata xenofoba» che portano ad «una progressiva marginalizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dall'agenda politica e dalla coscienza democratica collettiva». Ovviamente l'Asgi sostiene con fermezza le Organizzazioni non governative, che operano al largo della Libia sostenendo, nonostante video, foto, testimonianze ed inchieste, che «è priva di ogni riscontro fattuale l'idea stessa secondo la quale l'attività di ricerca e soccorso compiuta dalle Ong possa costituire un incentivo alle migrazioni irregolari o, addirittura, una forma di collusione con fenomeni criminali di traffico di persone». Francesca Totolo sul «Primato nazionale» ha rivelato che una parte del programma sull'immigrazione del Movimento 5 stelle è stato scritto da avvocati come Maurizio Veglio e Guido Savio legati all'Asgi. Nonostante l'obiettivo dei grillini sia «Immigrazione: Obiettivo sbarchi zero. L'Italia non è il campo profughi d'Europa».

Immigrati, la rete segreta degli ultrà dell'invasione: chi c'è dietro gli avvocati che annullano le espulsioni, scrive il 12 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". Immigrati, in Italia potete stare tranquilli. La rete degli ultrà dell'accoglienza è potente, radicata, ha amici con tanti soldi e nei posti giusti. È il Giornale a tracciare la mappa dell'Asgi, l'Associazione per gli studi giuridici sull'Immigrazione che ha sostenuto il ricorso (vinto) alla Corte europea dei diritti dell'uomo dei sudanesi espulsi dall'Italia. Innanzitutto, George Soros: sul sito dell'Asgi campeggia il logo di Open Society Foundation, l'organizzazione non governativa del magnate ungherese impegnata nella lotta a favore degli immigrati in tutto il mondo. La missione è chiara: via le barriere, dentro tutti. Un approccio giudicato dai più critici, a destra, come la base della "teoria dell'invasione" e della "sostituzione etnica". È Soros a sponsorizzare, sottolinea il Giornale, il vicepresidente Asgi Gianfranco Schiavone e gli avvocati Giulia Crescini e Cristina Laura Cecchini, sempre in prima linea a sabotare il (blando) rigore delle autorità italiane. Alleato politico è, ovviamente, l'Arci: insieme all'organizzazione di ultra-sinistra, continua il Giornale, sono andati fino in Sudan per rintracciare i 5 espulsi nel 2016 da cui è partita poi la causa a Strasburgo. A livello legale, è forte la collaborazione con Magistratura democratica sulla rivista Diritto immigrazione e cittadinanza. Il "braccio operativo" dell'Asgi sono poi le varie Ong che navigano il Mediterraneo per salvare i disperati sui barconi, roba già finita nelle Procure italiane per i rapporti opachi con gli scafisti. 

Immigrati, la rete segreta degli ultrà dell'invasione: chi c'è dietro gli avvocati che annullano le espulsioni, scrive il 12 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". Immigrati, in Italia potete stare tranquilli. La rete degli ultrà dell'accoglienza è potente, radicata, ha amici con tanti soldi e nei posti giusti. È il Giornale a tracciare la mappa dell'Asgi, l'Associazione per gli studi giuridici sull'Immigrazione che ha sostenuto il ricorso (vinto) alla Corte europea dei diritti dell'uomo dei sudanesi espulsi dall'Italia. Innanzitutto, George Soros: sul sito dell'Asgi campeggia il logo di Open Society Foundation, l'organizzazione non governativa del magnate ungherese impegnata nella lotta a favore degli immigrati in tutto il mondo. La missione è chiara: via le barriere, dentro tutti. Un approccio giudicato dai più critici, a destra, come la base della "teoria dell'invasione" e della "sostituzione etnica". È Soros a sponsorizzare, sottolinea il Giornale, il vicepresidente Asgi Gianfranco Schiavone e gli avvocati Giulia Crescini e Cristina Laura Cecchini, sempre in prima linea a sabotare il (blando) rigore delle autorità italiane. Alleato politico è, ovviamente, l'Arci: insieme all'organizzazione di ultra-sinistra, continua il Giornale, sono andati fino in Sudan per rintracciare i 5 espulsi nel 2016 da cui è partita poi la causa a Strasburgo. A livello legale, è forte la collaborazione con Magistratura democratica sulla rivista Diritto immigrazione e cittadinanza. Il "braccio operativo" dell'Asgi sono poi le varie Ong che navigano il Mediterraneo per salvare i disperati sui barconi, roba già finita nelle Procure italiane per i rapporti opachi con gli scafisti. 

“Non ci sono i soldi di Soros dietro a chi soccorre in mare. False le accuse ai volontari”. Jordi Vaquer, il co-direttore europeo della fondazione dell’imprenditore-filantropo: «Attacchi strumentali, non operiamo nel Canale di Sicilia», scrive il 26/04/2017 Francesca Paci su "La Stampa". Alla domanda dei detrattori delle Ong impegnate nel Mediterraneo su chi “manovri” il salvataggio dei migranti è spuntato a più riprese il nome di George Soros. Un grande classico quello dell’imprenditore e filantropo americano, che alle nuove accuse lascia replicare Jordi Vaquer, co-direttore della Open Society Iniziativa per l’Europa e grande esperto di umanitario. 

Da Di Maio al forzista Malan, si moltiplicano le voci che indicano Soros tra gli sponsor delle Ong nel mirino. Finanziate qualcuna di quelle sigle? 

«Premesso che riteniamo eroiche le Ong al lavoro nel Mediterraneo e che con alcune abbiamo cooperato in altri teatri di crisi, come per esempio in Grecia, non ne sosteniamo nessuna nel Canale di Sicilia, né Medici senza Frontiere, né Moas. La fondazione Soros non finanzia le operazioni di “Search and rescue”, il salvataggio in mare, e neppure il primo soccorso. Non che siamo contrari, anzi. Ma il nostro scopo è diverso: ci occupiamo dei migranti che sono già in Europa, della loro integrazione, del rispetto dei diritti umani, dell’accoglienza ricevuta». 

Quali sigle finanziate in Italia?  

«Siamo più presenti nell’Europa dell’est che in Italia, ma comunque lavoriamo con associazioni tipo “A buon diritto”, “Carta di Roma”, “Asgi”». 

Che budget “umanitario” ha la Soros Foundation?  

«Il bilancio è pubblico e si trova sul sito. Parliamo di circa 800 milioni di dollari all’anno a livello mondiale in progetti di integrazione, ricerca e borse di studio, molti dei quali sono qualificati alla voce “diritti umani”».  

L’ipotesi della Procura di Catania è che il business dei migranti non si limiti ai trafficanti ma coinvolga altri attori. Cosa ne pensa?  

«Conosco l’accusa, quella di incoraggiare la gente a venire in Europa. È folle. Chiunque conosca i Paesi da cui scappano queste persone sa che non hanno bisogno d’incoraggiamento. I profughi che assistiamo in Grecia non improvvisano, hanno dei piani e sanno dove vogliono andare, il loro movimento non dipende dalle Ong ma dai flussi migratori. Comunque alla base di queste accuse non ci siamo tanto noi quanto i volontari che ogni giorno encomiabilmente salvano vite in mare. Noi ci finiamo dentro nella logica complottista di chi cerca sempre trame destabilizzanti globali». 

Si è parlato di Soros anche come finanziatore del documentarista Gabriele Del Grande. Perché sempre voi?  

«Il nome di Soros è usato ciclicamente per delle battaglie politiche. I conservatori ci accusano di voler cancellare l’identità nazionale per un progetto di globalizzazione, la destra dice che ambiamo ad alterare l’elettorato in chiave multiculturale e di sinistra, la sinistra che importiamo manovalanza a basso costo a vantaggio della finanza globale e gli antisemiti infine evocano il complotto “cosmopolita e senza radici”. La Open Society Foundations dell’imprenditore e filantropo Soros sostiene da oltre 30 anni le società civili che vogliono costruire democrazie più forti. I nostri finanziamenti sono stati usati come pretesto per attaccare veri difensori della libertà in Cina, Russia, Uzbekistan, Egitto, Azerbaigian e ora nel cuore dell’Europa. La nuova storia dei migranti serve a distogliere l’attenzione dalla massiccia violazione dei diritti umani che per esempio è sistematica in Libia». 

L'uomo di Soros: "I migranti? Una ricchezza". Il direttore europeo di Open Society: "George non finanzia gli sbarchi. Ma bisogna creare passaggi sicuri per gli immigrati", scrivono Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto, Venerdì 02/06/2017, su "Il Giornale".  Nel centro di Barcellona, Open society, la discussa fondazione filantropica del miliardario americano George Soros, ha sede in un antico orfanotrofio delle suore che non esiste più. L’ebreo ungherese sopravvissuto al nazismo e al comunismo sovietico è diventato uno degli uomini più ricchi al mondo e spende quasi un miliardo di dollari l’anno in nome di libertà e diritti umani secondo i suoi fan. Per interferire negli affari interni di paesi stranieri che non gli vanno a genio come la Russia di Putin e favorire l’invasione dei migranti è il parere dei detrattori. Jordi Vaquer, il giovane direttore catalano di Open society foundation nel vecchio continente, è l’uomo di Soros in Europa. In un’intervista esclusiva al Giornale alza il velo sulla controversa filantropia del miliardario Usa.

Open society, società aperta. Come è nata? Cosa significa?

“Open society è il nome della fondazione di George Soros, un ebreo ungherese sopravvissuto all'occupazione nazista di Budapest e a quella dell'Unione sovietica. Quando è diventato miliardario ha creato questa fondazione sull'idea di società aperta di Karl Popper. Open society difende i diritti e le libertà, ma non siamo una fondazione caritatevole”.

Molti accusano Open Society e Soros di interferire negli affari interni degli Stati proprio con il grimaldello dei diritti umani e delle libertà…

“Quando Open society è stata cacciata da alcuni Paesi, come la Russia o non ha mai potuto operare in Cina, Arabia Saudita, Iran non si è mai avuta una società più aperta”.

Ma non pensa che a volte vi spingete troppo in là nell’interferenza?

“Siamo una fondazione globale, che opera in tutto il mondo. Abbiamo iniziato dall’Europa dell’Est dove in tanti che sono impegnati in politica hanno avuto rapporti con noi compreso Viktor Orban (il premier ungherese aspramente critico con Soros nda), che ha vinto una borsa di studio di Open society. Parlare (male) di Soros funziona molto bene per diversi gruppi, come gli antisemiti e gli ultra nazionalisti”.

Quanti soldi avete a disposizione?

“Il bilancio ogni anno è di circa 900 milioni di dollari. Tutti i nostri soldi vengono da Soros e un po' dalla sua famiglia”.

E come li spendete?

“Nel 2017, il Paese dove abbiamo investito di più sono gli Stati Uniti con circa 100 milioni di dollari. L'Africa è la prima regione dopo gli Usa, con 70 milioni e poi l'Europa con 55 circa. In Italia non spendiamo più di 2 milioni in un anno”.

Soros viene dipinto come una forza oscura...

“Chi vuole dipingerlo così? C'è una parte che lo accusa per il suo lavoro nei mercati internazionali, ma un’altra lo accusa di far politica. Io conosco solo la parte filantropica e non penso ci siano zone oscure. Ovviamente ha le sue idee che non piacciono a tutti. La sua è una visione del mondo molto liberale, dove contano i diritti ed il potere è limitato”.

Soros, Open Society e le sue società finanziano le Ong che salvano i migranti in mare?

“Noi non finanziamo le organizzazioni che fanno salvataggio in mare. Ci occupiamo dei diritti dei migranti una volta che sono arrivati (in Europa) oppure nei Paesi di transito. Comunque le Ong fanno un lavoro ammirevole perché le persone in mare vanno salvate”.

Però una ong, l’Avaaz, sostenuta fin dalla sua fondazione da Soros, ha donato mezzo milione di euro a Moas, che opera da Malta per recuperare i migranti in partenza dalla Libia e farli sbarcare in Italia…

“Il fatto che un'organizzazione abbia ricevuto soldi da Open Society non significa che la nostra fondazione l’appoggi in tutte le sue attività”.

Molti pensano che favorite una specie di invasione aiutando i migranti…

“Noi diciamo che l'opposto della morte delle persone in mare sono frontiere dove le persone non muoiono. Non significa aprire le frontiere, ma vogliamo un passaggio più sicuro”.

Volete far arrivare i migranti con i traghetti?

“Una volta stabilito quante persone accogliere, un passaggio sicuro significa visto umanitario”.

Vale anche per i migranti economici?

“Tutti i Paesi che fanno parte della convenzione di Ginevra hanno l'obbligo di aiutare chi fugge dalla guerra e dalla repressione. Nessun accordo obbliga alcun Paese ad accogliere i migranti economici. Questa è una scelta che viene fatta dalla società e dalla politica”.

Soros sostiene che i migranti economici sono una ricchezza. Bisogna accogliere tutti?

“In base alla sua esperienza lavorativa Soros pensa che ci sia la possibilità di arricchire i Paesi europei con i talenti e le capacità dei migranti. E vuole dimostrare che possono creare ricchezza”.

Le cosiddette primavere arabe sono state un fallimento?

“Siamo delusi dal fatto che queste rivolte non hanno favorito più diritti tranne, forse, in Tunisia. In generale le primavere arabe hanno portato a regimi come quelli che esistevano già oppure alla guerra civile. In Europa dell'Est e in America latina hanno avuto successo, ma ci siamo dimenticati che le transizioni democratiche a volte non funzionano”.

Con chi collaborate in Italia?

“Con organizzazioni che si impegnano nel campo dei diritti e delle libertà. In Italia abbiamo lavorato molto con la comunità Rom, gruppi di avvocati, l’Asgi, Antigone e altre realtà che aiutano i migranti, ma spendiamo comunque poco: il 10% di quello che investiamo in Giordania”.

Nel cuore dell’Europa cova il conflitto dimenticato in Ucraina. Soros è accusato di essere intervenuto pesantemente per appoggiare la rivolta di piazza Maidan e rovesciare il governo filo russo. Come replica?

“Per Soros, Maidan ha rappresentato la nascita di una nuova Ucraina. Dopo Maidan ci siamo impegnati per favorire un piano di riforme, ma siamo preoccupati (sul rispetto dei diritti nda). In Ucraina ci sono due parti: quella del governo di Kiev e quella in mano ai russi. A me non sembra utile identificarli come il polo delle libertà e quello della chiusura. Anche chi ha sostenuto Maidan deve ora combattere contro gruppi xenofobi e razzisti”.

Il presidente russo Vladimir Putin per voi è l’uomo nero?

“Putin fa parte di un movimento globale di leader che hanno scelto una via nazionalista per governare. Ci sono molti leader come lui in Africa e nelle ex repubbliche sovietiche”.

Siete sotto tiro anche in diversi Paesi dell’Europa orientale. Come mai?

“La vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti ha determinato una crescita degli attacchi soprattutto nei Paesi balcanici. È una valutazione che hanno fatto diversi leader politici dell’area, che hanno legami con Mosca: dato che a Trump non piaceva Soros, adesso all’amministrazione americana non dispiacerebbe che questi Paesi attacchino Soros. Trump ha aperto la porta a chi è contrario alla democrazia liberale”.

Ma l'Est Europa fa parte della Ue liberale...

“Uno dei problemi gravissimi dell’Unione è la gestione del cambiamento dei regimi politici in Europa orientale. La natura politica della Polonia o dell'Ungheria sta evolvendo verso una dimensione totalitaria. L'Unione europea non è ancora intervenuta dicendo che non va bene, che questi Stati hanno sì una sovranità, ma non è assoluta una volta membri della Ue”.

Fino a che punto vi spingerete?

“Abbiamo alle spalle 30 anni di esperienza in Ungheria e Polonia in difesa dei diritti e delle libertà. Noi continueremo ad appoggiare i gruppi che sostengono questi ideali”.

Ma avete tracciato una linea rossa di intervento invalicabile?

“È molto raro che ci impegniamo direttamente. Altre organizzazioni in loco agiscono e noi appoggiamo le loro attività finanziando il 30% del bilancio. I nostri limiti sono ovviamente la legalità e non mettere in pericolo gruppi o persone”.

In Ucraina non avete superato il limite?

“Quando sostieni organizzazioni che lavorano sui diritti umani e arriva il momento rivoluzionario, questi gruppi saranno l'avanguardia sia nelle strade che nel futuro governo. Così è molto facile dire che Soros ha fatto la rivoluzione, ma non possiamo sapere chi sarà l’avanguardia”.

Avete deciso di continuare a sostenerli pur con il rischio del conflitto armato?

“Per piazza Maidan abbiamo pagato la difesa legale di chi veniva preso dalla polizia”.

Cosa pensate del nuovo presidente americano?

“Soros ha versato molti soldi per le campagne di Kerry e Clinton, che però hanno perso. Ma la sua fondazione ha criticato sia Bush che Obama. Le nostre posizioni sull’immigrazione sono chiare e su questo ci siamo attivati contro il nuovo presidente americano. Non perché è Trump, ma perché le sue azioni vanno contro l'idea di società aperta”.

IMMIGRATI, GLI AVVOCATI DI SOROS VANNO FINO IN SUDAN PER RIPORTARLI IN ITALIA, scrive il 12 gennaio 2018 "Voxnews.info". Immigrati, in Italia potete stare tranquilli. La rete degli ultrà dell’accoglienza è potente, radicata, ha amici con tanti soldi e nei posti giusti. È il Giornale a tracciare la mappa dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione che ha sostenuto il ricorso (vinto) alla Corte europea dei diritti dell’uomo dei sudanesi espulsi dall’Italia. Innanzitutto, George Soros: sul sito dell’Asgi campeggia il logo di Open Society Foundation, l’organizzazione non governativa del magnate ungherese impegnata nella lotta a favore degli immigrati in tutto il mondo. La missione è chiara: via le barriere, dentro tutti. Un approccio giudicato dai più critici, a destra, come la base della “teoria dell’invasione” e della “sostituzione etnica”. È Soros a sponsorizzare, sottolinea il Giornale, il vicepresidente Asgi Gianfranco Schiavone e gli avvocati Giulia Crescini e Cristina Laura Cecchini, sempre in prima linea a sabotare il (blando) rigore delle autorità italiane. Alleato politico è, ovviamente, l’Arci: insieme all’organizzazione di ultra-sinistra sono andati fino in Sudan per rintracciare i 5 espulsi nel 2016 da cui è partita poi la causa a Strasburgo. A livello legale, è forte la collaborazione con Magistratura democratica sulla rivista Diritto immigrazione e cittadinanza. Il “braccio operativo” dell’Asgi sono poi le varie Ong che navigano il Mediterraneo per traghettare i clandestini, roba già finita nelle Procure italiane per i rapporti opachi con gli scafisti. Non basta, perché l’Asgi, attraverso i propri membri, ha purtroppo anche scritto i punti del M5S sull’immigrazione.

SOROS FINANZIA ASSOCIAZIONE CHE FA CAUSA AI SINDACI ANTI-CLANDESTINI: CONTATTI CON MAGISTRATI, scrive il 30 dicembre 2017 Vox News. Soprattutto quando si parla di immigrazione. L’ultimo collegamento tra Soros e i pro migranti di casa nostra sarebbe il filo rosso che collega la Open Society Foundation e l’Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. Avrete già sentito nominare questa associazione, forse. “Al fine della promozione di azioni anti discriminatorie – si legge nel loro sito – Asgi si è costituita in giudizio con ricorsi civili e penali nell’ambito di alcuni procedimenti di rilevanza nazionale e in diverse cause concernenti il diritto anti discriminatorio e sta promuovendo una rete italiana di operatori e professionisti capaci di sollevare presso gli organismi amministrativi e giudiziari le questioni antidiscriminatorie l’Asgi ha, nel tempo, contribuito con suoi documenti all’elaborazione dei testi normativi statali e comunitari in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza, promuovendo nel dibattito politico parlamentare e nell’operato dei pubblici poteri la tutela dei diritti nei confronti degli stranieri”. La sigla è rimbalzata agli onori delle cronache, come fa notare La Verità che oggi pubblica una inchiesta sull’Asgi, per via del sostegno legale offerto nei ricorsi presentati (e vinti) da parte di alcune donne immigrate escluse dall’Inps dal bonus mamma. E l’Asgi compare pure al fianco della coop Ruah di Bergamo nella causa intentata contro la decisione di alcuni Comuni di introdurre una norma che imponeva una multa per i cittadini che accolgono migranti senza comunicarlo prima all’amministrazione cittadina. I sindaci di centrodestra di Ardesio, Capizzone, Chiuduno, Pontida e Torre Boldone si sono così ritrovati una causa e una richiesta di risarcimento. Cosa collega Soros e l’Asgi? Secondo La Verità, “sul sito dell’associazione, si trovano alcuni comunicati stampa. Uno di questi presenta il rapporto chiamato ‘Lungo la rotta del Brennero'” sulla situazione dei migranti e che “è stato realizzato da Anten- ne migranti, Asgi e fondazione Alexander Langer, grazie al contributo di Open society foundation”. Non solo. Sempre sul sito si legge che “le attività e i servizi di ASGI nel settore del diritto antidiscriminatorio sono finanziati dalla Fondazione italiana a finalità umanitarie Charlemagne ONLUS, dalla Tavola Valdese e da Open Society Foundations”. In realtà è diversi anni che Vox descrive l’attività di questa associazione a ******** e che denuncia i finanziamenti della Open Society. Quindi siamo lieti che altri ne parlino.

Ancora più grave, però, è la triangolazione Asgi-Soros-Magistrati. Tanto da far pensare che questa associazione presenti ricorsi nei tribunali dove sa di potere avere – diciamola così – più chance di vincere. Il 16 maggio 2016 era Trieste, dove partecipava come relatrice a un convegno dal titolo «La protezione internazionale», organizzato dall’associazione Asgi, Associazione di studi giuridici sull’immigrazione. La stessa associazione protagonista del ricorso contro i manifesti leghisti che il giudice Martina Flamini ha accolto. Lo ha rivelato il sindaco leghista di Saronno, Alessandro Fagioli: «segnalo una cosa curiosa – aveva detto Fagioli – che la stessa associazione che ha fatto denuncia invita come relatore lo stesso giudice che ha fatto la sentenza». «Non voglio dire che sia sospetto – aveva aggiunto Fagioli – domando a me stesso se fosse opportuno». E dopo la denuncia, scatta l’indagine degli ispettori ministeriali. La partecipazione a convegni di studi relativi alla materia di cui si occupano è per i magistrati consueta. Nel caso di Trieste si trattava indubbiamente di un convegno di parte, organizzato da enti dichiaratamente schierati dalla parte dei migranti (oltre all’Asgi c’era l’Ics, Consorzio italiano di solidarietà – sezione rifugiati). Ma l’aspetto su cui verosimilmente si soffermeranno gli ispettori del ministro è quello dei rapporti precedenti e successivi tra Asgi e giudice. E magari anche quello più veniale del pagamento delle spese di viaggio e soggiorno. Non solo. Vox ha scoperto che la Flamini era una habitueé dei convegni di ASGI. Ma il problema è più ampio. ASGI non ‘conosce’ solo questo magistrato. Sono molti i magistrati diciamo così ‘vicini’ a questa ed altre associazioni pro-invasione. E’ un grave problema politico. Funziona così: sono un cuckold dell’invasione e devo denunciare qualche patriota? Mi scelgo il magistrato amico. E lui sentenzia. Ricordiamo un fatto analogo: quando ci fu il famigerato processo ai forumisti di Stormfront Italia, il magistrato di turno passava serate ad intrattenersi con chi aveva denunciato i forumisti. A quel tempo non ci furono ispezioni, perché gli accusati erano troppo ‘brutti e cattivi’. E non avevano protezioni politiche.

TRIBUNALE DI MILANO CONDANNA LEGA NORD: “SBAGLIATO USARE IL TERMINE CLANDESTINI” scrive Vox News il 23 febbraio 2017. Definire clandestini i richiedenti asilo, è una “espressione discriminatoria”. E’ la bizzarra sentenza del giudice della prima sezione civile di Milano che ha condannato la Lega di Saronno a risarcire con 5 mila euro ciascuna due associazioni che parassitano i contribuenti italiani (Naga e Asgi difese dagli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri) che avevano presentato ricorso. Per quale motivo poi si debba risarcire chi non è parte in causa è da ricondurre al solo fatto che i magistrati gozzovigliano con tali associazioni. Sono la stessa entità parassitaria. “La sentenza del giudice della prima sezione civile del tribunale ordinario di Milano, che ha condannato un manifesto a Saronno della Lega Nord ‘per il carattere discriminatorio e denigratorio dell’espressione clandestini’, è una sentenza che distorce la realtà”, dichiara l’on. Paolo Grimoldi, deputato della Lega Nord e segretario della Lega Lombarda-Lega Nord. “Dei 181 mila immigrati approdati in Italia nello scorso 2016, secondo i numeri forniti dal ministero degli Interni, appena un migliaio erano siriani in fuga dalla guerra e di questi 181 mila solo due terzi, circa 123mila, hanno presentato domanda di asilo, mentre quasi 60mila non l’hanno nemmeno presentata confermando nei fatti di essere irregolari. Delle 123 mila domande di asilo presentate ben il 56% sono state respinte, confermando lo status di irregolari e dunque di clandestini di circa 65mila immigrati cui si aggiungono i 60mila che non hanno presentato la domanda: in tutto 125mila clandestini su 181mila. Oltre due terzi. Non solo, delle 123 mila domande esaminate solo il 5% dei richiedenti asilo ha ottenuto il riconoscimento dello status di profugo mentre un altro 35% ha ottenuto una protezione sussidiaria, per ragioni umanitarie o di salute, pertanto non si tratta di profughi ma di immigrati temporaneamente accolti. Pertanto alla luce di questi numeri, con più di 125mila immigrati clandestini sui 181 mila arrivati in Italia nel 2016, e appena un 5% di loro riconosciuti come profughi, non comprendiamo dove si riscontri il carattere discriminatorio o denigratorio dell’utilizzo del termine clandestini quando due terzi di loro, come verificato dalle commissioni giudicanti, sono appunto dei clandestini. Pertanto noi andremo avanti a definirli tali”.

IL COMUNISMO E L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO: LE PROFEZIE.

Isis e l’ultimo segreto di Fatima: “Il Papa sarà ucciso nella città dei teschi”, scrive "Articolo 3". Il 3 gennaio 1917 suor Lucia scriveva “il sangue dei martiri cristiani non smetterà mai di sgorgare per irrorare la terra e far germogliare il seme del Vangelo”, era il terzo segreto di Fatima. E ancora “Qualcosa di simile a come si vedono le persone in uno specchio quando vi passano davanti” un Vescovo vestito di Bianco “abbiamo avuto il presentimento che fosse il Santo Padre”. Vari altri vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c’era una grande croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino; giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni. Sotto i due bracci della croce c’erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio”. La nuova interpretazione del terzo segreto di Fatima non contemplerebbe l’attentato a Papa Giovanni Paolo II, ma fa riferimento alla storia attuale, al massacro di centinaia di cristiani opera dei miliziani jihadisti dell’Isis e le minacce stesse al Pontefice e al Vaticano.

Terzo segreto di Fatima: l'Isis ucciderà Papa Francesco? Le rivelazioni dell'ultimo veggente, Bruno Cornacchiola, scrive l'1/4/2016 "Voce d’Italia. Bruno Cornacchiola, celebre per le sue profezie dovute a presunte rivelazioni ricevute dalla Madonna, è stato "rispolverato" in questi giorni dopo i terribili attentati di Bruxelles. Le apparizioni della Vergine della Rivelazione, avvenute secondo quanto raccontato da Cornacchiola nel luogo chiamato "Tre Fontane", non sono mai state riconosciute dalla Chiesa ma, nel 1956, papa Pio XII ha consentito la costruzione alle "Tre Fontane" di una cappella per il culto affidando la custodia ai "Francescani Minori Conventuali" per il servizio religioso. Nel 1997 papa Giovanni Paolo II ha approvato la denominazione del luogo come "Santa Maria del Terzo Millennio alle Tre Fontane". Bruno Cornacchiola, morto nel 2001, dichiarò di aver fatto durante tutta la sua vita strani sogni, di aver avuto visioni profetiche e di aver ricevuto rivelazioni dalla Madonna al punto da predire la tragedia di Superga (1949) la guerra del Kippur (1973), il rapimento di Aldo Moro (1978) l'attentato a Giovanni Paolo II (1981), il disastro di Cernobyl' (1986) e la caduta delle torri gemelle (2001). Venendo ai giorni nostri, nel terzo segreto di Fatima, Lucia dos Santos, la monaca portoghese nota per essere stata una dei tre "pastorelli" che avrebbero assistito alle apparizioni di Fatima, aveva raccontato che un vescovo vestito di bianco, sarebbe stato ucciso da un gruppo di soldati che gli sparavano vari colpi di arma da fuoco e frecce e, secondo i credenti, la sua profezia non aveva nulla a che vedere con l'attentato a Giovanni Paolo II. Anche Cornacchiola, nel 1999, dichiarò che la Madonna lo aveva avvisato che "dalla parte di Oriente, un popolo forte, ma lontano da Dio, avrebbe sferrato un attacco tremendo spezzando cose sante e sacre". La Madonna avrebbe anche preannunciato che San Pietro si sarebbe riempito di sangue e che molti fedeli, molti sacerdoti e molte suore sarebbero morti squartati. La Chiesa si sarebbe ridotta a un masso di rovine". Sempre la Vergine avrebbe annunciato anche la morte del Pontefice. E' vero che tanti altri profeti, tra i quali Nostradamus o San Malachia, hanno lasciato indicazioni su fatti futuri che secondo gli scettici sono così vaghi che potrebbero riferirsi a qualunque evento ma le profezie di Cornacchiola sono state sempre talmente precise che è difficile catalogarle come semplici coincidenze. Il rischio di un attacco dell’ISIS a Roma è concreto, così come lo è anche in altre città d’Italia e del mondo ma questo non significa che la profezia di Cornacchiola debba essere letta come l'avviso di qualcosa che sicuramente succederà. 

Baba Vanga, la profezia nerissima: Obama ultimo presidente. Cosa vuol dire, scrive il 9 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Secondo Baba Vanga, la mistica bulgara morta nel 1996 dopo 50 anni dedicati alla chiaroveggenza, Barack Obama sarebbe stato l'ultimo presidente degli Stati Uniti d'America: "Il 44° presidente degli Stati Uniti sarà afroamericano e sarà l'ultimo della loro storia". Cosa voleva dire la veggente? Che Donald Trump sarà un dittatore? Che sarà un fantoccio di Putin? O forse che durerà troppo poco? Difficile interpretare in questo momento le sue previsioni. Di certo Baba Vanga ha previsto molti eventi che poi si sono avverati come lo tsunami del 2004, l'attentato dell'11 settembre in America, il conflitto in Siria, il disastro di Chernobyl. Per il 2016 ha previsto poi la fine dell'Europa (Brexit?) e un'invasione dell'Europa da parte degli estremisti musulmani (la serie di attentati terroristici islamici in Francia e Germania). Per gli anni a venire, Baba Vanga ha previsto: 2018 la Cina diventerà una potenza mondiale, scioglimenti ghiacciai nel 2045, tra il 2170 e il 2256 una colonia su Marte vorrà rendersi indipendente dalla Terra; avremo una capsula del tempo entro il 2340, dal 4674 l'umanità e gli alieni saranno un unico popolo. L'Universo finirà nel 5079.

Nostradamus aveva previsto tutto: "Donald Trump presidente, poi la fine", scrive il 9 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Nostradamus, il veggente che ha anticipato nelle sue quartine la rivoluzione francese, Hitler, la bomba atomica e gli attentati dell'11 settembre, aveva previsto anche le vittoria di Donald Trump. Secondo i sostenitori dell'attendibilità delle visioni di Nostradamus, nella Prima centuria (Quartina 40) c'è scritto che il "false trumpet" (Trump, appunto) da presidente degli Stati Uniti "farà sì che Bisanzio (per molti la Grecia, Paese-chiave nella rotta dei migranti, ndr) cambi le sue leggi". Nella Quartina 57 si legge: sempre il false trumpet "provocherà grande discordia. Un accordo si spezzerà" e, con riferimento al "volto ricoperto di latte e miele giace a terra", molti hanno pensato a Israele che, secondo la Bibbia (Numeri 13, 27-29) e la Torah ebraica, è il "Paese dove scorre il latte e il miele". E ancora, la Quartina 50: "la Repubblica della grande città", intesa come Stati Uniti d'America, sarà portata "by trumpet" a impegnarsi in" costose operazioni militari. E se ne pentirà (the city will repent).

La profezia dei Simpson nel 2000: "Donald Trump sarà presidente degli Stati Uniti d'America". Donald Trump presidente degli Stati Uniti? Nel 2000 i Simpson lo avevano predetto. Nell'episodio intitolato "Bart to the Future", il maggiore dei fratelli Simpson ha l'opportunità di dare un'occhiata alla sua vita da adulto. Scopre di essere un perdente, come il padre, mentre la sorella Lisa è diventata la prima presidente Usa donna. "Come sapete, abbiamo ereditato una bella crisi di bilancio dal presidente Trump", si sente nella scena successiva.

NOSTRADAMUS: INVASIONE ISLAMICA DELL’EUROPA? Scrive Giuseppe Merlino. Riportiamo alcune quartine della Profezia di Nostradamus che si riferiscono ad una futura invasione islamica dell’Europa.

Centuria V – quartina 55: De la felice Arabe contrade naistra puissant de loy Mahométique, vexer l’Espaigne, conquister la Grenade, et plus par mer à la gent Lygustique.

Dalla felice nazione Araba nascerà potente la Legge Maomettana opprimerà la Spagna, conquisterà Grenada e più per mare alla gente Lygustique. (Lyguistique viene interpretato come “della Lingadoca”, regione francese sul Mar Mediterraneo, o come “della Liguria”)

Centuria I – quartina 18: Par la discorde negligence Gauloise, Sera passage à Mahommet ouuert: De sang trempé la terre e mer Senoyse Le port Phocen de voiles e nefs couvert.

Per la discorde negligenza Francese sarà aperto passaggio a Maometto: di sangue intriso la terra ed il mar Senoyse il porto di Marsiglia di vele e navi coperto.

Centuria I – quartina 9: De l’Orient viendrà le couer Punique Fascer Hadrie et les hoirs Romulides Accompagnè de la classe Lybique Temple Melites et proches Isles vuides.

Dall’Oriente verrà il Cuore Punico. Che ingannerà l’Adria e gli eredi di Romolo. Accompagnata dalla Flotta Libica. Tremare Malta e isole vicine vuotate.

Centuria II – quartina 29: L’Oriental sortira de son siege Passer les monts Apennin voir la Gaule Traspercer le ciel, les eaux et neige Et un chacun frappara de sa gaule

L’Orientale uscirà dalla sua sede, Passerà i monti Appennini e vedrà la Gallia: Attraverserà il cielo, le acque e le nevi, Ed ognuno colpirà con la sua verga.

Centuria III – 27: Prince Lybique puissant en Occident Francois d’Arabe viendra tant enflammer Scavant aux letters sera condescendent La langue Arabe en Francois translater

II Principe Libico iniquo potente in Occidente. II Franco d’Arabia verrà tanto infiammare. Sapiente in Lettere sarà condiscendente. La Lingua Araba in Francese tradurre.

Centuria V – quartina 25: Le Price Arabe, Mars, Sol, Venus, Lyon, Regne d’Eglise par mer succubera: Devers la Perse bien pred d’un million Bisance, Egypte, ver. sepr. invadera.

Il principe Arabo Marte Sole, Venere, Leone. Regno d’Inglese per mare soccomberà: Verso la Persia ben presso d’un milione, Bisanzio, Egitto ver. serp. invaderà.

Terza Guerra Mondiale: Nostradamus ci sta indovinando, scrive anonimo su “Noi toscani il 06/01/2011 Terza Guerra Mondiale: Nostradamus ci sta indovinando. Dal libro “Nostradamus - Le profezie”, di Carlo Patrian, ristampa del 1993 (1a edizione 1978), che ho ripreso in mano ieri sera dopo tanto tempo, ho raccolto tutte le interpretazioni dei diversi esegeti sulle profezie relative alla Terza Guerra Mondiale. Rileggere quelle che avevo sottolineato più di un anno fa e che non avevo più considerato, oggi mi ha molto impressionato. Provenienti da diverse quartine le profezie sono state raggruppate per tema, e numerate di conseguenza. Ho evitato di mettere a fianco di ognuna il nome dell'esegeta, in quanto ho ritenuto più importanti le coincidenze; quando con termini diversi viene espresso lo stesso concetto, significa che sono interpretazioni concordi, presenti in centurie diverse, di esegeti diversi. Da queste interpretazioni emergono sicuramente visioni che riflettono quella che è la situazione di oggi, e potenzialmente quella futura. Il piano di riscontro che dovremmo usare nella lettura di queste profezie, oltre a quello generale della crisi internazionale, è quello della volontà dell'estremismo islamico di islamizzare l'Occidente, la corsa all'atomica dell'Iran, la volontà di conquistare Roma, la volontà di distruggere Israele, la volontà di creare una superpotenza islamica, la guerra agli infedeli, l'incapacità dell'Europa di capire chi è e cosa fare, la crisi della religione Cristiana, la tendenza a favorire a tutti i costi l'Islam rinunciando alle nostre tradizioni, l'impossibilità continua di riuscire ad ottenere la pace perché uno dei due contendenti non la vuole, le due incognite Cina e Russia che continuano a porre veto alle risoluzioni dell'ONU contro l'Iran, l'incognita Turchia, che sono tutte realtà di cui oggi nessuno sembra accorgersi e preoccuparsi.

Oggi la Francia toglie i crocefissi dalle scuole, l'Italia inizia ad abolire S. Lucia dalle scuole e i canti di Natale, 'Islam' è sulla bocca di tutti e dappertutto. Secondo gli analisti, l'utilizzo delle armi di distruzione di massa, nucleari batteriologiche o chimiche, contro qualche città importante occidentale non è in dubbio, è solo in dubbio quando. Circa due mesi fa i servizi segreti russi sostenevano che l'Iran avrebbe avuto l'atomica entro 2 anni (io penso entro pochi mesi). A mio avviso quindi, superando la banalità del preconcetto del credere o non credere a priori, le coincidenze sono troppe, e c'è troppo oggi in ballo per non tenerle in considerazione, o almeno a monito. Ricordo, sono interpretazioni di profezie (di 500 anni fa), prese da una ristampa del 1993 (1a edizione 1978). Sono state raggruppate per tema, ma rimane un tema che è impossibile scindere dagli altri perché coinvolge tutto ed è sempre presente: invasione/attacco dell'Occidente da parte dell'Islam, causa della Terza Guerra Mondiale. Concausa, la sottovalutazione dell'Islam da parte dell'Europa, cioè quello che stiamo facendo oggi. Nota importante: parlando di invasione islamica, non è detto che si debba intendere per forza, da subito, come invasione armata. Perché l'invasione non-armata, oggi è già in corso, come l'affiancamento ideologico all'Islam.

TERZA GUERRA MONDIALE SECONDO NOSTRADAMUS: Iran determinante il conflitto. Nostradamus aveva previsto che l'Iran sarebbe stato la causa scatenante il conflitto mondiale terzo.

1) L'Iran quale eventuale nazione scatenante il Terzo Conflitto Mondiale andrebbe visto collegato a due quartine importanti: Nell'arabico golfo la grande flotta affonderà;

2) Fuoco ardente nel cielo... presso il Rodano (... carestia, spada...) La Persia (Iran) ad occupar la Macedonia tornerà. Sembra predire un conflitto nucleare, mentre l'Iran, divenuto presumibilmente satellite della Russia invasa dall'Afghanistan, invaderà i Balcani. (il futuro dei Balcani, è in Europa, dice oggi Prodi). Ricordando la grande difficoltà di datazione delle profezie, uno degli esegeti ha localizzato (il terzo conflitto mondiale) oltre l'anno 2000. Bin Laden, Ahmadinejad, oppure deve ancora arrivare qualcuno? 

3) Un personaggio islamico apparirà per conquistare la Terra e sterminare gli infedeli. (...) un futuro personaggio ermetico che, dopo aver conseguito l'Autorealizzazione (...) si recherà in Asia conquistando popoli e nazioni.

4) Futura venuta di un messia (del male) (...) che apparirà in Asia secondo i princìpi del grande maestro Ermete Trismegisto; i suoi poteri, la sua azione, la sua ideologia conquisteranno tutti i governi dell'Oriente. 11 Settembre? 

5) Dopo l'era del vapore e dell'elettricità ve ne sarà un'altra con un'energia rivoluzionaria, prima però dei proiettili aerei colpiranno l'umanità.

6) Un Re del terrore verrà con mezzi aerei dallo spazio esterno, da Marte (dio della guerra), che può anche essere simbolo di un conflitto. (...) La venuta dal cielo autorizza a pensare all'uso di aerei o di missili terrestri.

7) La città grande sull'oceano marittimo, da paludi di cristallo circondata: nel solstizio invernale ed in prima (vera), da spaventoso vento attaccata verrà. Scartato, solstizio invernale è a Dicembre. Comunisti al potere in Italia, invasione dell'Europa e dell'Italia da parte dei musulmani, pericolo di morte per il Papa.  Russia, Cina, errore della Francia, Italia, Inghilterra, Germania, USA, Israele, il pericolo della Turchia, il Grande Impero Arabo, Italia. 

8) Caos e anarchia negli stati mediterranei.

9) In Italia vi saranno comunisti o filo-arabi al potere. E' la realtà di oggi. 

10) Futuro conflitto: acclamazione per le vittorie dell'impero islamico che invade l'Europa, resistenze al Ticino, a Milano e Genova, verrà chiesto aiuto al gran Monarca.

11) Il comunismo al potere controllerà il sud, incontrando opposizione al nord, soccorsi verranno chiesti al gran Re.

12) Il comunismo al Governo a Roma, il nord in opposizione chiederà l'intervento di una grande potenza o di un gran Re.

13) I Romani sconfitti da armate turche chiederanno soccorsi a città del Nord che si rivolgeranno ad un gran Monarca.

14) In Italia ci sarà un dittatore che il veggente cita come l'uomo da capelli neri e ricciuti. (Prodi, o D'Alema?)

15) A Roma governerà un capo seguace delle vecchie filosofie inglesi.

16) In Italia lotte di comunisti.

17) Guerra civile scoppierà in Italia.

18) Si avrà la creazione di un grande Impero Europeo. In questo caso sarà necessaria conseguenza di quello che è l'opposto oggi, un'Europa frammentata e indecisa sul da farsi.

19) Guerre coloniali in Africa. E anche qui, ci sono tutti i presupposti.

20) Prime invasioni islamiche nell'Adriatico e in Europa. 

21) L'attacco all'Occidente non avverrà solo attraverso la Siberia, ma anche dall'Oriente e dal Mediterraneo.

22) In due quartine diverse Nostradamus parla di invasioni russo-musulmane durante il conflitto, sulle quali concordano molti esegeti.

23) Gravi pericoli di morte per il Pontefice mentre sarà in mare in un periodo di lotte e persecuzioni religiose.

24) Il Pontefice morirà per un attentato.

25) Anche il Papa sarà in grave pericolo per l'aggressione araba. Il Signore del Cristianesimo andrà in esilio, quando gli eserciti arabi si avvicineranno a Roma.

26) Nostradamus parla anche di guerra batterica.

27) Guerra fratricida atlantica. 

28) Secondo Nostradamus, ci sarà una pericolosa tensione tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Tale tensione sfocerà in una guerra fratricida atlantica e costituirà un disastro nazionale per la Francia che non prenderà sul serio l'aggressione araba.

13) I Romani sconfitti da armate turche chiederanno soccorsi a città del Nord che si rivolgeranno ad un gran Monarca.

29) La Turchia cadrà in mano agli arabi.

30) La Turchia attaccata.

31) Gravi conflitti nella zona russo-turca.

32) Al governo di Parigi ci sarà un partito filocomunista.

33) La Francia andrà incontro ad un suicidio nazionale aprendo le porte all'Islam. E' quello che sta facendo, sta anche abolendo i crocifissi. Stesso errore che sta facendo l'Italia.

34) La Francia non solo non farà una piega per l'aggressione araba nel Mediterraneo, ma anzi amerà alla follia tutto ciò che avrà a che fare con la cosa araba.

35) Un condottiero arabo di Libia indurrà i francesi a studiare l'arabo.

36) La Francia sarà attaccata dagli arabi in due punti.

37) Parigi sarà distrutta da un attacco atomico.

38) L'Inghilterra subirà gravi sconfitte ai confini dell'Unione Araba (Mediterraneo).

39) Il Grande Impero Arabo riunito si estenderà dall'Oceano Atlantico fino al Golfo Persico.

40) Nostradamus vede nello stato di Israele un punto nevralgico pericoloso nel vicino Oriente.

41) Lo stato di Israele percorrerà un lungo calvario.

42) Cento milioni di arabi costituiranno un pericolo non solo per Israele ma anche per l'Europa meridionale. I grandi dell'Asia e dell'Africa stringeranno un'alleanza contro l'Europa.

43) Gli arabi con l'aiuto dei cinesi conquisteranno l'Europa meridionale. Se non si riferisse a conquista armata, potrebbe essere economica e culturale, che è quella che si prospetta oggi.

44) I cinesi faranno tornare a loro vantaggio il nazionalismo e il fanatismo arabo, ad annienteranno la cultura cristiana europea (...) Quello che si prospetta oggi.

45) La Cina, inimicatasi con la Russia e con gli USA, userà la bomba atomica in una guerra contro gli USA.

46) Il cielo sarà percorso dai luminosi tracciati dei missili.

47) Esplosioni atomiche negli USA.

48) New York distrutta da missili termonucleari.

49) Un prodigioso fuoco celeste distruggerà la Città Nuova. (New York)

7) La città grande sull'oceano marittimo, da paludi di cristallo circondata: nel solstizio invernale ed in prima (vera), da spaventoso vento attaccata verrà.

50) Un cataclisma di fuoco distruggerà la più grande e moderna città del mondo.

51) La città distrutta è individuata a 45° di latitudine. Tra queste c'è anche New York.

52) Gli attaccanti, sconfitti, lanceranno testate atomiche su città portuali americane ed inglesi.

7) La città grande sull'oceano marittimo, da paludi di cristallo circondata: nel solstizio invernale ed in prima (vera), da spaventoso vento attaccata verrà.

53) Gli USA scacceranno i cinesi dal grande oceano con armi atomiche ancora più potenti. 

54) Nemico distrutto da bombe atomiche e carestia.

55) Le forze asiatiche saranno vinte dopo 7 presidenti USA.

56) Il Re di Francia porterà la pace nel mondo.

57) Il re di Europa intraprenderà un'ultima crociata contro gli arabi per risolvere con l'aiuto di truppe le divergenze israeliano-arabe. Tali truppe saranno formate con soldati della Germania unita. La Germania che avrà questo ruolo importante nella risoluzione del conflitto, a questo punto si rifarà dell'Olocausto perché aiuterà Israele? 

58) Dopodiché ci sarà la pace per 1000 anni.  Diverse profezie concordano su comunisti al potere in Italia. Asia e Africa, assolutamente prevedibile, stringono un'alleanza contro l'Europa. La Francia fa l'errore madornale di fare entrare l'Islam nella sua società. Lo sta facendo. 20 profezie, tra tutti gli esegeti, parlano di invasione araba dell'Europa (Italia compresa), dell'Occidente. Si parla anche di invasione cinese. I cinesi (oppure nordcoreani?) approfitteranno di questa invasione per attaccare gli USA. Etc.

«Nel 2043 Roma capitale del Califfato Isis», la profezia della veggente dei Balcani, scrive Ida Artiaco il Martedì 8 Dicembre 2015 su "Il Messaggero". «Nel 2016 si inasprirà la guerra dell’Occidente contro il mondo islamico cominciata con la primavera araba. La fine si avrà soltanto nel 2043, quando verrà istituito un nuovo califfato che avrà Roma come suo epicentro». A parlare non è Nostradamus, ma una anziana donna non vedente di origine bulgara, dal nome Baba Vanga, venuta a mancare nel 1996 a 85 anni dopo oltre 50 dedicati alla chiaroveggenza. Le sue parole non farebbero così paura se non si considerasse che nella sua vita abbia predetto una serie di eventi, tragicamente verificatisi qualche anno dopo la sua morte. Primi tra tutti, gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, che sconvolsero l’America e tutti i suoi alleati, e lo tsunami del 2004. Ripercorrendo tutte le profezie della donna, da molti conosciuta come la “Nostradamus dei Balcani”, ci si accorge che il suo margine di errore è piuttosto ridotto, circa il 15%. Baba Vanga, nata a Strumica, attuale Macedonia, nel 1911 da una famiglia di origini poverissime, perse la vista, secondo quanto riportato dai tabloid locali, dopo essere stata colpita da un tornado a soli 12 anni. Ben presto ebbe le prime apparizioni: si diffuse la credenza che la donna riuscisse a leggere nel pensiero e a prevedere il futuro. Addirittura i leader comunisti del Paese chiesero il suo aiuto paranormale per organizzare la loro agenda politica. Tra gli altri eventi da lei predetti ci sarebbero anche la tragedia del sottomarino Kursk, avvenuto nel 2000, l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti, sottolineando che sarebbe stato afroamericano e l’ultimo della storia, e la Primavera araba. Proprio da questi ultimi eventi, Baba Vanga avrebbe avvertito l’Europa di correre ai ripari contro la furia islamica, che stravolgerà il Vecchio Continente così come lo abbiamo conosciuto finora e ne sterminerà le popolazioni. Fino a che, come riportato dal sito News.co.au, nel 2043 l’economia europea sarà soggetta alla legge di un nuovo califfato che sorgerà a Roma. Addirittura, nel 2066 la Capitale italiana, sotto il nemico musulmano, sarà bombardata dagli Usa con un’arma climatica.

LA VEGGENTE: "IL 2016 VEDRÀ LA FINE DELL'EUROPA. NEL 2043 ROMA CAPITALE DEL CALIFFATO".  La notizia riportata da News.co.au, scrive Martedì 8 Dicembre 2015 Enrico Chillè su "Leggo". Il 2016 potrebbe essere l'anno della fine dell'Europa come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi. Gli euroscettici, però, non si affrettino ad esultare. Secondo le profezie di Baba Vanga, che a 19 anni dalla morte è ancora considerata la 'Nostradamus dei Balcani', il prossimo anno dovrebbe segnare l'inizio dell'occupazione del nostro continente da parte delle milizie jihadiste. Ripercorrendo tutte le profezie della sensitiva bulgara, ci si accorge che il margine d'errore è piuttosto ridotto (circa il 15%), e che rispetto ai 'colleghi' più illustri c'è anche un'esatta identificazione temporale degli avvenimenti. Baba Vanga, al secolo Vangelia Pandeva Dimitrova, nacque a Strumica (odierna Macedonia) nel 1911 da una famiglia poverissima, e a 12 anni avrebbe perso la vista dopo essere stata colpita da un tornado. Non potendo permettersi le cure necessarie, la donna rimase cieca per tutta la vita e avrebbe iniziato ad avere le prima visioni nei giorni seguenti. Secondo i suoi seguaci, Baba Vanga era in grado di leggere nel pensiero e di prevedere il futuro e la sua fama fu tale che anche i leader comunisti in Bulgari si servirono di lei per organizzare la loro agenda politica. In molti casi, le profezie di Baba Vanga si sono parzialmente avverate. Ecco cosa aveva previsto la sensitiva bulgara, anno per anno:

- Il riscaldamento globale e lo tsunami del 2004 (predetto negli anni '50): "Le regioni fredde diventeranno calde e i vulcani si sveglieranno. Un'onda gigantesca colpirà una grande costa e le città, gli edifici e le persone, saranno completamente sommersi dalle acque. Tutto si scioglierà come il ghiaccio";

- L'11 settembre (predetto nel 1989): "Orrore, orrore! La fratellanza americana cadrà dopo essere attaccata da uccelli d'acciaio. I lupi ululeranno nel cespuglio e scorrerà sangue innocente";

- La tragedia del sottomarino Kursk nel 2000 (predetta nel 1980): "Alla fine del secolo, nell'agosto 1999 o 2000, Kursk sarà sommersa dalle acque e tutto il mondo piangerà per lei".

- L'elezione di Obama: "Il 44° presidente degli Stati Uniti sarà afroamericano e sarà l'ultimo della loro storia".

- La Primavera Araba: "Ci sarà una grande guerra islamica, che inizierà nel 2010 e diventerà mondiale. In Siria gli arabi utilizzeranno armi chimiche contro gli europei". Quasi tutto è ovviamente relativo. Dobbiamo ancora attendere per sapere se davvero Barack Obama sarà l'ultimo uomo alla Casa Bianca, ma il resto della profezia è incredibilmente preciso. Quando invece Baba Vanga parlò di Kursk, tutti pensarono alla città russa che diede il nome al sottomarino, affondato poi nell'agosto del 2000, come previsto dalla sensitiva. Sull'11 settembre, poi, le interpretazioni appaiono più o meno forzate, da fratellanza ad indicare le Torri Gemelle agli uccelli d'acciaio per gli aerei, passando per quel cespuglio che tradotto in inglese diventa Bush. Per non parlare, poi, delle profezie che non si sono mai avverate, come quella, piuttosto nota, dell'uccisione dei quattro maggiori leader mondiali nel 2009. Veniamo ora alle profezie future. Partendo dalla Primavera Araba, la veggente prevedeva che da lì sarebbe iniziata una nuova guerra mondiale: "Nel 2016 l'Europa sarà occupata dai musulmani e cesserà di esistere come la conosciamo. L'invasione durerà lunghi anni, sterminando le popolazioni e lasciando il continente vuoto".

Se credete a Baba Vanga e vi sentite già parecchio allarmati, evitate di proseguire con la lettura delle altre profezie, tutte perfettamente datate (e alcune, come lo scioglimento dei ghiacciai, già in corso):

- 2023: l'orbita della terra cambierà.

- 2025: la popolazione dell'Europa toccherà lo zero.

- 2028: l'uomo arriverà su Venere, alla ricerca di possibili nuove risorse.

- 2033: i poli si scioglieranno e aumenterà notevolmente il livello delle acque.

- 2043: l'Europa diventerà un Califfato e la nuova capitale sarà Roma. L'economia mondiale sarà soggetta alla legge islamica.

- 2066: l'America utilizzerà un'arma capace di cambiare il clima per riprendere il controllo dell'Europa e della cristianità.

- 2076: il comunismo dominerà in tutto il mondo.

- 2084: la natura rinasce (ci sono molti dubbi e vaghe interpretazioni su questa affermazione, nda).

- 2100: la Terra sarà illuminata 24 ore al giorno grazie al sole artificiale progettato dall'uomo (sono in corso studi per realizzarlo grazie alla fusione nucleare).

- 2130: grazie all'aiuto degli alieni, le civiltà potranno vivere anche sott'acqua.

- 2170: siccità globale.

- 2187: due eruzioni vulcaniche distruttive bloccate in tempo.

- 2201: le temperature globali si abbassano in seguito al rallentamento dei processi termonucleari nel sole.

- 2262: tutti i pianeti cambieranno leggermente orbita e Marte sarà a rischio collisione con una cometa.

- 2354: grave siccità dovuta a un incidente nel sole artificiale.

- 2480: collisione tra due soli artificiali, torna la notte sulla Terra.

- 3005: una guerra su Marte provocherà il cambio di orbita.

- 3010: una cometa colpirà la Luna e la Terra sarà circondata da ceneri e frammenti rocciosi.

- 3797: fine della vita sulla Terra, ma l'uomo avrà già raggiunto nuovi sistemi solari per sopravvivere. Finisce così la lista completa delle profezie di Baba Vanga, riportata da News.co.au. Le profezie passate si sono in parte avverate, e gli avvenimenti degli ultimi due anni potrebbero in minima parte gettare i presupposti su quelle del futuro prossimo. Ma non allarmiamoci, perché tutto appare fantasioso e improbabile. Soprattutto il ritorno del comunismo: noi italiani, si sa, moriremo democristiani...

Falce, sesso libero e martello: così l'Urss distrusse la famiglia. Comuni, divorzio facile e mercificazione del corpo della donna. Così i rivoluzionari stravolsero la società russa, scrive Rino Cammilleri, Martedì 25/10/2016, su "Il Giornale". L'anno prossimo cadrà il centenario delle apparizioni di Fatima, nelle quali la Madonna aveva profetizzato l'avvento e le conseguenze - del comunismo in Russia (il golpe leninista avvenne di lì a poche settimane). Per l'occasione si è svolto in settembre a Fatima un congresso mariologico internazionale in cui, tra l'altro, è stato presentato il libro Fatima misteries. Mary's message to the modern age (I misteri di Fatima. Il messaggio di Maria per l'epoca moderna), di due polacchi, Grzegorz Gorny e Janusz Rosikon, uscito negli Stati Uniti per Ignatius Press, la prestigiosa editrice dei gesuiti. Il primo è un produttore cinematografico e televisivo, il secondo è un famoso fotogiornalista. Il libro è curioso perché è strutturato come una specie di anti-Decalogo, nel quale si dimostra, punto per punto, come il comunismo ha contraddetto, scientemente e in pieno, tutti i Dieci Comandamenti della religione ebraico-cristiana, costruendo una vera e propria religione atea, un dio artificiale anch'esso onnipotente e onniveggente, il cui unico attributo (volutamente) mancante è la misericordia. Particolarmente (e tristemente) significativo, per l'attuale contesto di guerra alla famiglia, è il punto riguardante il Sesto Comandamento («Non fornicare», col suo omologo «Non desiderare la donna altrui»). La cosa parte da lontano, perché fin dal Manifesto di Marx-Engels si sapeva che cosa pensavano i comunisti della famiglia, istituzione «borghese» quant'altre mai. Il documento uscì a Londra semiclandestino nel 1848 e fece il suo outing alla Comune di Parigi nel 1871. E nel 1904 Lenin proclamò senza mezzi termini che condizione per la vittoria del socialismo era la liberazione della sessualità dalle catene della famiglia. L'anno dopo, il proclama fu messo per iscritto al III Congresso del Partito socialdemocratico russo. Ci pensò la minoranza bolscevica, che affidò a Trotszkij il compito di sviluppare una nuova teoria dei rapporti sessuali, giacché il matrimonio era uno strumento di «sfruttamento» delle donne e la famiglia un istituto «capitalista». Nel 1917, preso il potere, i bolscevichi introdussero, dopo neanche tre mesi, due decreti, uno «Sullo scioglimento del matrimonio» e l'altro «Sulla registrazione del matrimonio civile e i figli». Con essi cadeva ogni differenza tra convivenze e nozze. Per divorziare bastava un avviso per posta all'autorità - non al coniuge! - previo pagamento di tre rubli. Aleksandra Kollontaj, primo commissario per le questioni sociali, lanciò nel contempo la campagna «L'amore è come un bicchier d'acqua», intendendo che copulare equivaleva a dissetarsi: se hai sete, che fai? bevi, e senza tante storie e fronzoli. Quasi subito nelle principali città vennero istituiti i Commissariati del Libero Amore. Questi non solo incoraggiavano a darci dentro, ma punivano a frustate (con la famosa nagajka) le donne che rifiutavano di concedersi agli uomini indicati dal Commissariato. A Saratov si arrivò al punto di obbligare tutte le cittadine dai diciassette ai trent'anni, anche sposate, a darsi ai cittadini su semplice richiesta. Ogni lavoratore era tenuto a versare il due per cento del suo guadagno a un fondo apposito per vedersi garantito il sesso trisettimanale con chi voleva (donne, però). Il nudismo venne incentivato e i parchi si riempirono di gente d'ogni età e sesso intenta a prendere il sole, quando c'era, coperta dal solo cappello. Le carceri, naturalmente, furono il luogo privilegiato per gli esperimenti. Nel 1924 il famigerato Dzerzinskij, capo della Ceka, fece ammassare nelle prigioni di Bolszewo un migliaio di condannati minorenni tra i dodici e i diciotto anni per avviarli al sesso di gruppo. Per ovviare al diffuso analfabetismo venne ideato un «alfabeto erotico» (ovviamente porno) ideato dal pittore Sergeij Mierkurow e insegnato anche tramite i cinegiornali. La sostituzione della «famiglia tradizionale» con la «comune komsomolsk» (una dozzina di componenti) fu proposta (e imposta) da Grigorij Batkis, direttore del moscovita Istituto Sociale e autore del libro La rivoluzione sessuale. Tale rivoluzione, però, già nel 1922 aveva creato ben sette milioni di meninhos de rua, figli di nessuno che vagavano per le strade bolsceviche. Non solo. Nel 1926 la regressione demografica era divenuta così allarmante che Stalin si vide costretto a revocare ogni sprone alla promiscuità sessuale. Figli alla Patria. Possibilmente con padre e madre certi e certificati. Anche l'Uomo Nuovo, ahimè, doveva fare i conti col Vecchio.

HEZBOLLAH. I GUERRIERI DI DIO.

«I guerrieri di Dio», il libro che spiega «Hezbollah: dalle origini al conflitto in Siria», scrive Viola Longo sabato 4 marzo 2017 su "Il Secolo D’Italia". Organizzazione terroristica o baluardo contro l’Isis? Partito politico o gruppo armato che si sostituisce all’esercito regolare? Movimento a vocazione sociale o Stato nello Stato, fino a diventare un anti-Stato? Cos’è Hezbollah, il “Partito di Dio”, che dal Libano ha allargato la propria sfera di influenza all’intero Medio Oriente? Nei suoi trent’anni di vita il movimento, che dà rappresentanza all’Islam sciita, è stato indicato in ognuno di questi modi. Senza che davvero, in Occidente, se ne cogliessero a fondo la natura e la missione. Ora un libro ci invita a conoscere Hezbollah e, insieme, a scoprire qualcosa in più dell’Islam religioso, politico e culturale, anche per capire quale ruolo abbia nella lotta al terrorismo.

Un libro racconta “I guerrieri di Dio”. I Guerrieri di Dio. Hezbollah: dalle origini al conflitto in Siria, edito da Mursia, è un libro scritto a quattro mani dal reporter e fotografo Fabio Polese, classe 1984, e dall’autore di saggi, Stefano Fabei, classe 1960. Ne è venuto fuori un approfondimento che unisce prospettiva storica e attualità, analisi e cronaca, lettura locale e visione geopolitica. Anche con l’ausilio delle immagini: il volume ha un inserto fotografico, frutto dei numerosi viaggi di Polese in Libano. «Pur essendoci diverse pubblicazioni che parlano di Hezbollah – ha spiegato il fotoreporter in una intervista – abbiamo pensato che fare un volume a quattro mani, sfruttando le conoscenze specifiche di ognuno di noi, ovvero quelle di uno storico e quelle di un giornalista fotoreporter andato più volte in Libano, avremmo potuto realizzare qualcosa di diverso − e forse meno di parte − rispetto a quello che era già stato scritto».

Hezbollah oltre la consueta narrazione. Ma non è solo colpa dell’Occidente “distratto” se Hezbollah resta una realtà da comprendere ancora a fondo. «In numerosi casi Hezbollah presenta a osservatori e analisti solo ciò che di se stesso, per la propria causa, ritiene utile», si legge nell’introduzione del libro I Guerrieri di Dio, che si propone proprio lo sforzo di andare oltre questa narrazione per restituire uno sguardo a tutto tondo sul Partito di Dio. «Per comprenderne la complessa storia, questo saggio – si legge nella presentazione del libro – parte dal contesto libanese e mediorientale in cui il Partito di Dio è nato e cresciuto, accompagnando il lettore nella conoscenza degli uomini, delle idee, delle azioni politiche e delle campagne militari di un soggetto che ha fatto del pragmatismo e della segretezza uno dei punti di forza». 

Hezbollah tra luci ed ombre, scrive il 9 marzo 2017 Matteo Carnialetto su “Gli Occhi della Guerra”. C’è una frase, pronunciata da un amico libanese a Beirut, che porto con me: “In Occidente non riuscite proprio a capire cosa sta accadendo qui. In Siria e in Libano”. Parole tremendamente vere. Che mi sono piovute addosso come macigni. Non basta – ed era questo il senso delle parole dell’amico libanese – leggere di Medio Oriente. Bisogna andarci, in Medio Oriente. Bisogna incontrare chi vive là, chi ha deciso di stare da una parte o dall’altra della barricata. Oppure chi ha deciso di stare in disparte, cercando solamente un po’ di quieto vivere mentre gli eserciti di una nazione o dell’altra si danno il cambio. E poi bisogna provare a raccontare tutto con onestà, come ha scritto Robert Fisk in Il martirio di una nazione. Il Libano in guerra: “Immagino che il giornalismo sia questo, o almeno dovrebbe essere questo: osservare ed essere testimoni della Storia e poi, malgrado i pericoli, i limiti e le nostre umane imperfezioni, riportarla il più onestamente possibile”. E mi sembra che questo abbiano fatto Stefano Fabei e Fabio Polese con I guerrieri di Dio. Hezbollah: dalle origini al conflitto in Siria (Mursia, 2017). Un libro corposo – quasi 400 pagine – che ripercorre la storia, completa, onesta e obiettiva, di questo organismo politico-militare. Tutto, come è giusto che sia, ruota attorno alle travagliate vicende del Libano, dalla sua fondazione, passando per l’occupazione siriana e le guerre eterne con Israele. In queste pagine c’è tutto Hezbollah: c’è il partito politico, ci sono le strutture assistenziali (gli ospedali, per esempio, e le moltissime scuole) e pure quelle militari. Ma ci sono pure i media. Il Partito di Dio, infatti, è stato uno dei primi gruppi mediorientali a comprendere l’importanza della tv e dei giornali, tanto da aprirne di suoi. C’è la storia, ma c’è anche la cronaca dei giorni nostri. Hassan Nasrallah, e quindi Hezbollah, che decide che il Partito si deve schierare al fianco di Bashar Al Assad in Siria (aprile 2013). Innanzitutto perché la rivoluzione ha preso fin da subito una brutta piega ed è stata sequestrata dagli uomini col fucile, ovvero le frange più estremiste dei sunniti. E poi per difendere la minoranza sciita e, secondo la visione di Hezbollah, il mondo intero dal terrorismo di matrice islamista. La storia del Partito di Dio è fatta di luci e ombre. C’è chi lo accusa di aver istigato Israele a radere al suolo il Libano nel 2006 e chi, invece, ha nei suoi confronti una fede incrollabile che spinge al martirio. Queste luci e ombre hanno un’intensità visiva nelle foto che Polese ha scattato durante i suoi reportage e che ha deciso di inserire nel libro. Luci e ombre che non sono solamente di Hezbollah. Ma che si riflettono anche sulla storia del Libano. Una nazione martoriata e testarda. Ma anche coraggiosa e carica di speranza. Si sarebbe potuto scrivere un altro (per non dire l’ennesimo) libro di storia. Ma I guerrieri di Dio non è un libro di storia (anche se al suo interno ne troverete parecchia). È un libro che sembra un reportage perché è fatto di incontri, di fotografie, di scarpe consumate sui marciapiedi di Beirut oppure sulla terra della Bekaa. È un libro che sa di sangue e di martirio. O, più semplicemente, un libro che val la pena di leggere.

Hezbollah e la guerra in Siria, scrive Giancarlo Elia Valori l'08 marzo 2017 su "Bergamo News".  La guerra in Siria contro gli alauiti di Assad e il suo stato post-baathista inizia con la rivolta popolare, non molto numerosa, peraltro, del Marzo-Aprile 2011. Manifestazioni di massa, nelle storiche aree sunnite di Hama e Homs, alle quali le organizzazioni filogovernative rispondono con rallies in favore di Bashar el Assad e del suo regime. È il canovaccio delle primavere arabe: rivolta civile, nonviolenta e di massa, alla quale il regime non può non reagire con violenza, il che genera successivamente una radicalizzazione nella quale si inserisce la “legione straniera” del jihad. Questo deve avvenire dopo che il vecchio Raìs se ne è andato e dopo che le organizzazioni internazionali certifichino che si tratta di una “lotta democratica”. La caduta di Gheddafi è stata innescata da una piccola rivolta, a Bengazi, dei familiari di alcuni carcerati. Successivamente, sono arrivati i militanti libici della “Lega dei Diritti dell’Uomo”, di cui prima non vi era traccia, e poco tempo dopo arriva un sottomarino della Royale, la marina militare francese, che porta armi e addestratori. In Piazza Tahrir, al Cairo, sempre nel 2011, manifestava anche la sorella di Al Zawahiri, il capo di Al Qaeda, mentre il servizio d’ordine delle manifestazioni, più o meno spontanee, era fornito dalla frazione armata dei Fratelli Musulmani. Uno dei testi consigliati da parte dell’Ikhwan, della Fratellanza Musulmana, allora, era proprio quello sulla “Politica della lotta nonviolenta” di Gene Sharp, fondatore della Albert Einstein Institution, un vero e proprio manuale per mettere in atto una sovversione non militare e nonviolenta. Testo e tecnica che avevamo già trovato nelle tecniche della rete OTPOR in Serbia, gruppo di opposizione al vecchio regime di Milosevic. OTPOR era formato da ragazzi addestrati nella Rappresentanza USA di Budapest. Dopo la crisi del regime siriano derivante dalle manifestazioni del 2011, infatti, vengono tolti i fili spinati dai confini sensibili e cominciano ad arrivare jihadisti sunniti dalla Giordania e dalla Turchia verso la Siria, elementi che si concentrano subito sul confine tra Siria e Libano, o meglio tra Al Qusayr e la regione di Ghouta, per chiudere immediatamente in una morsa Damasco. È bene ricordare, peraltro, che Bashar el Assad, anche prima di arrivare al potere, era il diretto titolare del dossier libanese e, quindi, dei rapporti stretti e diretti tra il regime siriano e Hezbollah. Il quadro cambia con il bombardamento della sede dei servizi segreti siriani a Rawda Square il 18 Luglio 2012, incidente nel quale periscono il ministro della difesa di Damasco, poi Asef Shawkat, cugino di Bashar e vice-ministro della Difesa, Hassan Turkmani, il vice-presidente della Repubblica e infine il capo dei Servizi Hafez Makhlouf. Non si sa ancora se si sia trattato di un terrorista suicida o di una rete di esplosivi fatta detonare a distanza. Saranno esplicitamente citati, come “fratelli” e “martiri”, dal capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, nel suo discorso del 25 maggio 2013 che rende noto il pieno sostegno militare e operativo del gruppo sciita libanese a favore di Assad. Hezbollah era già intervenuto, con le sue “armate ombra”, nella prima fase degli scontri tra l’Esercito Arabo Siriano del leader alawita e le forze sunnite e jihadiste, ma solo sulla stretta linea del confine tra Siria e Libano. Si costituisce quindi, e con le armi, l’ “asse della resistenza” tra Iran, Hezbollah e Siria degli Assad, un “asse” che la propaganda di Damasco e quella sciita libanese diffondevano da anni. La linea di Teheran, Damasco e Hezbollah si caratterizzava di contro ad un progetto sunnita ma, più esplicitamente saudita, di prendere la Siria, emarginare gli alawiti sulla sola costa mediterranea e, poi, arrivare ad uno scontro o a una regionalizzazione dell’Iran. I primi slogan dei manifestanti pro-Assad, nel 2011, erano soprattutto contro il sovrano saudita e, talvolta, contro quello giordano. Certamente, oggi, la presenza di Hezbollah nel conflitto si è siriano si è rivelata determinante per la sconfitta delle varie sigle del jihad sunnita e dell’Esercito Libero Siriano, nato da una scissione delle Forze Armate di Assad, sempre nel 2011 e, successivamente, strumento di proiezione della forza turca, soprattutto nel Nord della Siria. Le perdite del “partito di Dio” libanese dovrebbero essere di almeno 1500 militari, mentre Israele non ha ancora deciso come muoversi, a parte la difesa delle alture del Golan, nel quadrante siriano, attendendo che i suoi vari nemici si consumino tra di loro. Con una sola eccezione, esplicitata nel giugno 2013 proprio da Netanyahu: occorre valutare e reagire alla nuova e inquietante presenza nel quadrante siriano di Hezbollah. E all’ “asse della resistenza” tra Iran, Siria e “partito di Dio” libanese occorre poi aggiungere anche Hamas nella Striscia di Gaza, che ha ripreso le sue relazioni ufficiali con l’Iran nel luglio 2016; con Teheran che fornisce aiuto economico e sostegno militare mentre, come affermava in quei giorni l’ufficio politico di Hamas, “l’Arabia Saudita ha fatto svanire le nostre proposte”. È da notare che Hamas, braccio politico-militare della Fratellanza Musulmana sunnita, aveva preso le difese, nella guerra yemenita, del presidente Mansour Hadi contro gli Houthi, sciiti seguaci del Settimo e Ultimo Imam, sostenuti dall’Iran. Lo Yemen è chiaramente la testa di ponte per il controllo dell’Arabia Saudita e, inoltre, dell’accesso al Golfo Persico ma anche, indirettamente, di quello al Canale di Suez. È strano, peraltro, come la dipendenza della UE dal commercio internazionale non abbia fatto pensare, ai decisori europei, che chi controlla quell’area tiene tra le sue mani la giugulare del commercio marittimo di tutta la penisola eurasiatica. Ma, ormai, la cultura e la sensibilità strategica, nei decisori europei, è pari a zero. La presenza del “partito di Dio” in Siria, inoltre, permette una ampia dislocazione delle forze e una sorta di “colonizzazione” della Siria da parte dell’Iran, in cambio di un forte appoggio di Teheran a Hezbollah proprio all’interno del Libano. Hezbollah diventa egemone in Libano, e quindi può diventare una sorta di “armata del Medio Oriente” per tutto l’universo sciita che gravita intorno a Teheran. Tra l’Iran e il Libano, grazie al “Partito di Dio” sciita, è possibile creare, e già oggi questo sta accadendo, una serie di “vuoti demografici” tra la Siria e l’Iraq proprio verso il Libano. I poli di questa nuova demografia sciita iraniana sono le aree di Kefraya e Fua, da dove i residenti, in maggioranza sciiti, sono stati diretti verso la zona di Damasco Ovest, a maggioranza sunnita, mentre quest’ultima popolazione prenderà posto, se gli accordi internazionali sulle “Quattro città” valgono ancora, a Kefraya e Fuah, nelle zone lasciate libere dagli sciiti. L’Iran vuole dunque piena continuità con il Libano, e per questo ha intenzione di fare un vero e proprio scambio di popolazione tra il Nord e il Sud della Siria. Il che implica anche un controllo sciita del confine turco-siriano e, quindi, della NATO. Hezbollah, inoltre, si insedierà a Madaya e a Zabadani, le città che ha contribuito a difendere dai “takfiri” (apostati sunniti) e dai “terroristi”, per usare la terminologia della propaganda sciita libanese. A Daraa 300 famiglie sciite iraqene si già insediate nelle zone lasciate libere dalle forze sunnite dopo il “cessate il fuoco” dello scorso Settembre. È intuitivo pensare a cosa ciò significhi per la sicurezza dello stato ebraico. Una tenaglia tra Nord e Sud, tra il confine con il Libano meridionale dominato dal “partito di Dio” e il sud, con Hamas che viene armato e addestrato da Teheran, è uno dei peggiori scenari possibili per Gerusalemme. Solo un rapporto nuovo con l’Egitto e con la Giordania potrebbe creare un contrappeso strategico a questa minaccia. Gli USA, per bocca del Presidente Trump, oggi non vogliono necessariamente una Siria senza Assad, dato che “spetta al popolo siriano scegliere” e che comunque, dice il Presidente repubblicano, “Assad è meglio dei jihadisti”. Il Presidente siriano, peraltro, risponde alle avances di Trump ipotizzando che “Siria e Stati Uniti possano essere alleati naturali”. Assad vuole, detto più esplicitamente, far parte della nuova alleanza “contro il terrorismo” nella regione, ma il problema è che Washington non accetterà mai una continuità strategica da Teheran ai templi romani di Baalbek sulla costa libanese, né accetterà mai una chiusura strategica nei confronti di Israele. Una buona possibilità di risolvere la questione risiede nella presenza russa nell’area. Mosca ha tutto l’interesse a sostenere lo stato ebraico e una eguale necessità di rimanere a controllare Damasco, per evitare una pressione iraniana sulle sue basi militari a Tartus e il controllo delle sue linee di comunicazione interne al territorio siriano. Trump, certamente, non vuole l’Iran tra i piedi nella futura “lega antiterrorismo” del Medio Oriente; e certamente non vuole avere a che fare con Ansar Allah dei ribelli Houthi in Yemen, con la Divisione Fatemyoun delle Guardie della Rivoluzione iraniana, formata in Afghanistan da sciiti che hanno combattuto in Siria, con la brigata Zaynaboyoun degli oltre mille sciiti pakistani, e naturalmente con Hezbollah. La “autostrada sciita” va, nei progetti delle Guardie della Rivoluzione di Teheran, dall’Iran all’Iraq fino all’interno della Siria, entra a nord di Aleppo e arriva ad ovest della costa del Mediterraneo, per volgersi poi verso sud dentro il Libano fino al confine del Paese dei Cedri con Israele, a Naquora-Maron el Ras. La tensione tra Mosca e Teheran, che potrebbe favorire una nuova presenza degli USA nell’area, è già, comunque, visibile. Vladimir Putin vuole chiaramente che Hezbollah se ne vada presto da tutto il territorio siriano. L’Iran, ovviamente, non ha alcun interesse a premere sul “partito di Dio” per farlo ritornare nei ranghi libanesi, Hezbollah è essenziale al controllo di tutta la “autostrada sciita” sopra delineata. Peraltro, Bashar el Assad è troppo esperto per non capire che consegnare buona parte del suo Paese agli iraniani e agli sciiti libanesi lo mette politicamente con le spalle al muro e lo priva di un sostegno essenziale per la sua libertà di manovra con Teheran, quello della Federazione Russa. Il Congresso USA e sei paesi del Consiglio di Sicurezza del Golfo richiedono poi l’implementazione del suaccennato “Accordo delle Quattro Città”, Madaya, Al Fuah, Kafariya e Zabadani, le abbiamo già notate sopra, città “punite” sia dalle forze sciite che da quelle jihadiste sunnite. L’Accordo, contemporaneo al cessate il fuoco di Astana. Prevede che vengano evacuati i malati e le altre persone a rischio e possano arrivare medicinali e cibo ai residenti. Ma, come è prevedibile, svuotare una città vuol dire conquistarla. Peraltro, il modo migliore, come è stato affermato al Congresso USA, per debilitare Hezbollah è quello di bloccare le spedizioni di armi iraniane che arrivano, attraverso la Siria, in Libano. Un grosso blocco sunnita nell’area centrale della Siria eviterebbe la continuità strategica tra Hezbollah e Guardie della Rivoluzione iraniana e consentirebbe quindi allo stesso Bashar el Assad di governare un territorio sufficientemente grande per avere un potere credibile nella regione.

PROFUGHI. LA GRANDE FUGA DALLE GUERRE ISLAMISTE. BUGIE E RESPONSABILITA'.

Putin è davvero colpevole? Qualcosa proprio non torna nel caso Skripal, scrive il 27 marzo 2018 Marcello Foa su "Il Giornale". Siamo proprio sicuri che ad avvelenare l’ex spia Skripal e sua figlia siano stati i russi? Permettetemi di avanzare più di un dubbio esaminando con attenzione le notizie uscite finora. I punti che non tornano sono questi:

Primo. Qual è il movente? Quale l’interesse per Putin? Mi spiego: tutti riconoscono al presidente russo grande sagacia nel calibrare le sue mosse. Eccelle sia nella strategia che nella tattica. Da tempo sappiamo che gli Stati Uniti (i quali trainano l’Europa) sono impegnati in un’operazione di logoramento del Cremlino volto a ottenerne un rialliniamento su posizioni filoamericane, che potrà essere ottenuto con certezza solo attraverso un cambio di regime ovvero con l’uscita di scena di Putin. Siccome una rivolta colorata è inattuabile, lo scenario è quello di rendere insostenibile il peso delle sanzioni e dell’isolamento internazionale, inducendo le élite russe a ribellarsi al presidente appena rieletto. In questo contesto, ogni pretesto viene sfruttato per innervosire o indebolire Putin. Conoscendo l’obiettivo finale, bisogna chiedersi: ma che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del pollonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso. Diplomaticamente sarebbe stato un suicidio, perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata, fino all’ultimo atto, l’espulsione coordinata dei diplomatici, a cui l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata, benchè avrebbe potuto – e proceduralmente dovuto – astenersi. No, Putin non è leader da commettere questi errori.

E veniamo al secondo punto, che riguarda il rumore mediatico e il furore delle accuse.  Non dimentichiamolo, la comunicazione è uno strumento fondamentale nell’ambito delle guerre asimmetriche (tra l’altro è il tema che tratto nel mio ultimo saggio “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”). Quando il rumore mediatico è assordante, univoco, esasperato, le possibilità sono due: le prove sono incontrovertibili (ad esempio l’invasione irachena del Kuwait) o non lo sono ma chi accusa ha interesse a sfruttarle politicamente, il che può avvenire solo se le fonti supreme – ovvero i governi – affermano la stessa cosa e con toni talmente urlati e assoluti da inibire qualunque riflessione critica, pena il rischio di esporsi all’accusa di essere “amici del dittatore Putin”.

Se analizziamo attentamente le dichiarazioni del governo britannico, notiamo come la stessa premier May continui a dire che “è altamente probabile” che l’attentato sia stato sponsorizzato dal Cremlino. Altamente probabile non significa sicuro, perché per esserne certi bisognerebbe provare l’origine del gas, cosa che è impossibile in tempi brevi. E nel comunicato congiunto diffuso ieri da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si ribadisce che si tratta di «agente nervino di tipo militare sviluppato dalla Russia», che farebbe parte di un gruppo di gas noto come Novichok concepito dai sovietici negli anni Settanta. Ma sviluppato non significa prodotto in Russia. Se non è stato usato questo verbo – o un sinonimo, come fabbricato – significa che gli stessi esperti britannici non hanno prove concrete a sostegno della tesi della responsabilità russa, che pertanto andrebbe considerata come un’ipotesi investigativa. Non come un verdetto. Anche la semantica, in frammenti ad alta emotività come questi, è indicatrice e dovrebbe allertare la stampa, che invece non mostra esitazioni. Eppure di ragioni per mostrarsi più cauti ce ne sono molte. Vogliamo ricordare le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein? Ma esempi in tempi recenti non mancano.  L’isteria accusatoria di queste ore ricorda quella delle “prove incontrovertibili” del 2013, secondo cui Assad aveva sterminato col gas 1300 civili, fa cui molti bambini. Scoprimmo in seguito che a usare il gas furono i ribelli per provocare un intervento nella Nato. O, sempre in Siria, nel 2107 quando Amnesty e il Dipartimento di Stato denunciarono l’esistenza di un formo crematorio in cui venivano bruciati i ribelli, rivelazione che indignò giustamente il mondo ma che venne smentita dopo un paio di settimane dallo stesso governo americano. Sia chiaro: nessuno sa chi abbia attentato alla vita di Skipal e di sua figlia e nessuna ipotesi può essere esclusa. Ma la propaganda è davvero assordante e i precedenti, nonché l’esperienza, suggeriscono maggior cautela. E un sano scetticismo: perché Putin sarà, per la grande stampa, “cattivo” ma di certo stupido non è.

Come furono inventati i palestinesi, scrive di Robert Spencer il 19 agosto 2018 su l’Informale. Nel 1948, il nascente Stato di Israele sconfisse gli eserciti di Egitto, Iraq, Siria, Transgiordania, Libano, Arabia Saudita e Yemen che volevano distruggerlo completamente. Il jihad contro Israele proseguì, ma lo Stato ebraico tenne duro, sconfiggendo ancora Egitto, Iraq, Siria, Giordania e Libano nella guerra dei Sei Giorni nel 1967 e l’Egitto e la Siria ancora una volta nella guerra dello Yom Kippur del 1973. Nell’ottenere queste vittorie contro enormi difficoltà, Israele riscosse l’ammirazione del mondo libero, vittorie che comportarono l’attuazione più audace e su più ampia scala nella storia islamica del detto di Maometto: “La guerra è inganno”. Per distruggere l’impressione che il piccolo Stato ebraico stesse fronteggiando ingenti nemici arabi musulmani e che stesse prevalendo su di loro, il KGB sovietico (il Comitato sovietico per la sicurezza dello Stato) inventò un popolo ancora più piccolo, i “palestinesi”, minacciato da una ben funzionante e spietata macchina da guerra israeliana. Nel 134 d.C., i Romani avevano espulso gli ebrei dalla Giudea dopo la rivolta di Bar Kokhba e ribattezzarono la regione Palestina, un nome tratto dalla Bibbia, il nome degli antichi nemici degli Israeliti, i Filistei. Ma il termine palestinese era sempre stato riferito a una regione e non a un popolo o a una etnia. Negli anni Sessanta, tuttavia, il KGB e il nipote di Hajj Amin al-Husseini, Yasser Arafat, crearono tanto questo presunto popolo oppresso quanto lo strumento della sua libertà, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Ion Mihai Pacepa, già vicedirettore del servizio di spionaggio della Romania comunista durante la Guerra Fredda, in seguito rivelò che “l’OLP era stata una invenzione del KGB, che aveva un debole per le organizzazioni di ‘liberazione’. C’era l’Esercito di liberazione nazionale della Bolivia, creato dal KGB nel 1964 con l’aiuto di Ernesto ‘Che’ Guevara (…) inoltre, il KGB creò il Fronte democratico per la liberazione della Palestina, che perpetrò numerosi attacchi dinamitardi. (…) Nel 1964, il primo Consiglio dell’OLP, composto da 422 rappresentanti palestinesi scelti con cura dal KGB, approvò la Carta nazionale palestinese – un documento che era stato redatto a Mosca. Anche il Patto nazionale palestinese e la Costituzione palestinese nacquero a Mosca, con l’aiuto di Ahmed Shuqairy, un influente agente del KGB che divenne il primo presidente dell’OLP”. Affinché Arafat potesse dirigere l’OLP avrebbe dovuto essere un palestinese. Pacepa spiegò che “egli era un borghese egiziano trasformato in un devoto marxista dall’intelligence estera del KGB. Il KGB lo aveva formato nella sua scuola per operazioni speciali a Balashikha, cittadina a est di Mosca, e a metà degli anni Sessanta decise di prepararlo come futuro leader dell’OLP. Innanzitutto, il KGB distrusse i documenti ufficiali che certificavano la nascita di Arafat al Cairo, rimpiazzandoli con documenti falsi che lo facevano figurare nato a Gerusalemme e, pertanto, palestinese di nascita”. Arafat potrebbe essere stato marxista, almeno all’inizio, ma lui e i suoi referenti sovietici fecero un uso copioso dell’antisemitismo islamico. Il capo del KGB, Yuri Andropov, osservò che “il mondo islamico era una piastra di Petri in cui potevamo coltivare un ceppo virulento di odio antiamericano e antisraeliano, cresciuto dal batterio del pensiero marxista-leninista. L’antisemitismo islamico ha radici profonde… . Dovevamo solo continuare a ripetere i nostri argomenti – che gli Stati Uniti e Israele erano ‘paesi fascisti, imperial-sionisti’ finanziati da ricchi ebrei. L’Islam era ossessionato dall’idea di evitare l’occupazione del suo territorio da parte degli infedeli ed era assolutamente ricettivo al ritratto da noi fatto del Congresso americano come un rapace organismo sionista volto a trasformare il mondo in un feudo ebraico”. Il membro del Comitato esecutivo dell’OLP, Zahir Muhsein, spiegò in modo più esaustivo la strategia in una intervista del 1977 al quotidiano olandese Trouw: Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo stato di Israele per la nostra unità araba. In realtà, oggi non c’è alcuna differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solo per ragioni politiche e strategiche parliamo oggi dell’esistenza di un popolo palestinese, dal momento che gli interessi nazionali arabi esigono che noi postuliamo l’esistenza di un distinto “popolo palestinese” che si opponga al sionismo. Per ragioni strategiche, la Giordania, che è uno stato sovrano con confini definiti, non può avanzare pretese su Haifa e Jaffa mentre, come palestinese, posso indubbiamente rivendicare Haifa, Jaffa, Bee-Sheva e Gerusalemme. Tuttavia, nel momento in cui rivendicheremo il nostro diritto a tutta la Palestina, non aspetteremo neppure un minuto a unire Palestina e Giordania. Una volta che era stato creato il popolo, il loro desiderio di pace poteva essere facilmente inventato. Il dittatore romeno Nicolae Ceausescu insegnò ad Arafat come suonare l’Occidente come un violino. Pacepa raccontò: “Nel marzo del 1978 condussi in gran segreto Arafat a Bucarest per le istruzioni finali su come comportarsi a Washington. ‘Devi solo far finta di rompere con il terrorismo e riconoscere Israele, ancora, e ancora e ancora’, disse Ceausescu ad Arafat. (…) Ceausescu era euforico all’idea che Arafat e lui potessero riuscire ad accaparrarsi un Premio Nobel per la pace con la loro farsa del ramoscello d’ulivo. (…) Ceausescu non riuscì a ottenere il suo Premio Nobel per la pace. Ma nel 1994 Arafat lo ricevette, proprio perché continuò a interpretare alla perfezione il ruolo che gli avevano affidato. Aveva trasformato la sua OLP terrorista in un governo in esilio (l’Autorità palestinese), fingendo sempre di porre fine al terrorismo palestinese, pur continuando ad alimentarlo. Due anni dopo la firma degli accordi di Oslo, il numero degli israeliani uccisi dai terroristi palestinesi era aumentato del 73 per cento”. Questa strategia ha continuato a funzionare alla perfezione, attraverso i “processi di pace” negoziati dagli Stati Uniti, dagli accordi di Camp David del 1978 alla presidenza di Barack Obama e oltre, senza posa. Le autorità occidentali non sembrano mai riflettere sul perché siano tutti falliti così tanti tentativi di raggiungere una pace negoziata tra Israele e i “palestinesi”, la cui esistenza storica oramai tutti danno per scontata. La risposta, ovviamente, sta nella dottrina islamica del jihad. “Cacciateli da dove vi hanno cacciato” è un ordine che non contiene alcuna mitigazione e che non accetta nessuno.

Nota: Questo è un estratto esclusivo dal nuovo libro di Robert Spencer, The History of Jihad From Muhammad to ISIS. Tutte le citazioni sono contenute nel libro. Traduzione in italiano di Angelita La Spada 

Israele-Gaza: tutti i falsi miti da sfatare. Dall'onnipotenza del Mossad alla lobby ebraica e all'idea di "Due popoli due Stati". La complessità del conflitto israelo-palestinese negli anni ha generato una serie di convinzioni che non si basano sui fatti. Il dizionario del conflitto dalla A alla Z, scrivono Anna Mazzone e Paolo Papi su "Panorama". Israele ha avvertito i palestinesi della Striscia di Gaza di abbandonare le loro abitazioni. La pseudo-tregua è durata un batter di ciglia. I razzi di Hamas continuano a piovere in Israele e lo Stato ebraico ha ripreso i bombardamenti su Gaza e si prepara (forse) a un'operazione terrestre. Compresso tra i suoi falchi, Netanyahu sembra non avere chiara la rotta da seguire e intanto il numero dei morti aumenta di ora in ora. Si parla di più di 200 persone, tutti palestinesi e 1 israeliano. Il conflitto israelo-palestinese affonda la sua storia nella notte dei tempi. Difficile districarsi nelle fitte trame degli eventi, dei passi fatti in avanti e di quelli (tanti) fatti indietro. E, soprattutto, difficile non ascoltare le sirene dei "falsi miti". Idee preconcette, spesso frutto di propaganda da una parte e dall'altra, che a forza di essere ripetute sono diventate realtà. Abbiamo provato a smontarli uno per uno. 

Il mito dei Paesi arabi "fratelli". Non è vero, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, che i palestinesi siano vittime esclusivamente delle rappresaglie israeliane. I Paesi arabi che confinano con Israele, Gaza e Cisgiordania sono stati, nonostante la retorica antisionista dei governi arabi strumentalmente usata in chiave interna, tra i più feroci nemici degli oltre 5 milioni di profughi palestinesi della diaspora, considerati - ovunque siano stati ospitati - come dei paria senza diritti, degli inguaribili attaccabrighe da confinare in campi sovraffollati, senza servizi né diritti e controllati a vista dalle onnipotenti polizie locali. Dalla Giordania - dove durante il settembre nero del 1970 la polizia giordana lanciò una sanguinosa operazione contro i gruppi palestinesi nei campi - al Libano - dove i 500 mila profughi che vivono nei campi sono considerati tuttora senza diritti politici e sociali - fino al Kuwait - dove i lavoratori palestinesi furono espulsi durante la prima guerra del Golfo per il sostegno che l’Olp ricevette dal regime di Saddam - non c’è Paese arabo che - al di là delle magniloquenti dichiarazioni di solidarietà ai fratelli palestinesi  - abbia mai offerto un concreto aiuto ai palestinesi fuggiti dalle loro case. Sempre in Giordania (e anche in Libano) un palestinese non può studiare Legge o Medicina e non può essere proprietario di un immobile. Se questi sono "fratelli", allora forse è il caso di parlare di "parenti serpenti".

Il mito dei negoziati. Non è vero, o meglio: è estremamente improbabile, visto anche il disimpegno americano - che una soluzione al conflitto israelo-palestinese possa essere frutto di un negoziato tra i leader dei due campi, come dimostrano i fallimenti di tutti gli accordi di pace degli anni '90 e 2000. È assai più probabile che le tendenze demografiche di lungo periodo dei due gruppi etnici possano mutare, irrimediabilmente, nei prossimi decenni, la natura politica dello Stato di Israele. E questo per una ragione molto semplice: se guardiamo alle proiezioni statistiche scopriamo che al momento in Terra Santa vivono 6.1 milioni di ebrei e 5.8 milioni di arabi. La demografia dice che gli arabi fanno molti più figli degli ebrei. E' inevitabile pensare che nel giro dei prossimi dieci anni, qualora non si riuscisse a raggiungere una soluzione "Due popoli due Stati", Israele potrebbe perdere progressivamente il suo carattere di Stato ebraico. Insomma, quello che non si riesce a raggiungere da più di mezzo secolo al tavolo dei negoziati, potrebbe realizzarlo la Natura.

Il mito degli insediamenti congelati. Nonostante il governo israeliano abbia più volte dichiarato l'intenzione di congelare i nuovi piani di insediamento nella West Bank, questo non è accaduto. L'ultimo esempio è molto recente. Ai primi di giugno di quest'anno l'esecutivo israeliano ha annunciato uno stop nella costruzione di nuove abitazioni in Cisgiordania. In realtà, però, su un piano che prevedeva 1.800 nuovi insediamenti ne sono state costruite 381. Forte la pressione da parte di cinque Paesi dell'Unione europea affinché Israele congelasse i suoi piani sui nuovi insediamenti. Ma il governo Netanyahu ha fatto sapere che lo stop è arrivato per motivi "tecnici" e non in seguito alle pressioni europee. 

Il mito della lobby ebraica. E' sicuramente il mito più gettonato. Quello dell'esistenza di una lobby ebraica in grado di influenzare qualsiasi avvenimento socio-economico-politico nel mondo è il cavallo di battaglia dell'esercito dei complottisti. Il mito della lobby "giudaica" affonda le sue radici nell'antisemitismo e, come tutti i miti, si fonda su idee fantasiose ripetute a oltranza, nei secoli dei secoli, fino a diventare - almeno per alcuni - delle verità inviolabili. E' il mito che ha gettato le fondamenta dello sterminio nazista e che ha motivato nei secoli l'odio nei confronti degli ebrei, accusati - dopo la Seconda guerra mondiale - di fare "marketing dell'Olocausto" per poter mantenere una situazione di potere nel mondo. In realtà, basterebbe una sola domanda per smontare il mito della lobby ebraica: perché - se la lobby esiste sul serio - Israele non riesce a modificare l'immagine che passa sulla maggior parte dei media nel mondo e che assegna allo Stato ebraico la maglia nera del carnefice a fronte di una Palestina presentata largamente come vittima indiscussa?  Il vecchio adagio che la verità sta nel mezzo in realtà vale sia per Israele che per la Palestina, ed è troppo semplice e superficiale credere che esista una struttura monolitica e unica come la potente lobby ebraica, in grado di modificare i destini del mondo. 

Il mito di "Due popoli, due Stati". La soluzione "Due popoli due Stati" è l'idea di creare uno Stato palestinese indipendente, che possa esistere "assieme" a Israele. Negli anni è diventata una sorta di "mito", perché sarebbe sicuramente la soluzione migliore per risolvere un conflitto così complesso, ma è pur vero che al momento le parti in causa sono troppo distanti. La creazione di creare uno Stato binazionale non ottiene ugualmente supporto e i sondaggi dimostrano che sia gli israeliani che i palestinesi preferirebbero la "mitica" soluzione "Due popoli due Stati". E allora perché questa soluzione non viene raggiunta? La risposta affonda le sue radici in anni e anni di conflitto israelo-palestinese per la terra, la legittimazione, il potere. Un tema molto sentito dai palestinesi è il controllo delle frontiere e la libertà di movimento. Movimento che Israele restringe e controlla ai check-point e all'ingresso della città di Gerusalemme. E' molto difficile negoziare una soluzione "Due popoli due Stati" se non ci si riesce a mettere d'accordo sui confini come punto di partenza. Un ulteriore motivo di conflitto è la disputa sul controllo di Gerusalemme, casa di molti siti sacri per gli ebrei, ma anche per i palestinesi (e i cristiani). C'è poi la questione degli insediamenti israeliani nella West Bank, che fa parte dei territori palestinesi. L'espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank è vista da molti come il principale ostacolo alla costruzione di una pace stabile e duratura. Infine c'è Hamas, l'organizzazione terroristica che controlla Gaza, che non vuole l'esistenza di Israele e si batte per cancellare lo Stato ebraico dalla mappa mediorientale. Di fronte a queste considerazioni, è evidente come la soluzione "Due popoli due Stati", pur essendo la migliore da praticare, è anche un falso mito da sfatare. Almeno finché le parti non muoveranno passi in una direzione diversa da quella presa finora.

Il mito dell'estremismo "solo" arabo. Per chi crede che nel conflitto israelo-palestinese il "terrorismo" si esprima solo sul fronte islamico, questo è un altro mito da sfatare. In Terra Santa gli estremisti sono anche ebrei e rappresentano un serio problema per il governo israeliano. Ultra ortodossi, gli estremisti ebraici si sono spesso distinti per attacchi di gruppo a donne. Come nel caso della ragazza presa a sassate a Beit Shemesh (nei pressi di Gerusalemme) perché stava attaccando dei poster della lotteria nazionale per le strade del villaggio. In occasione della recente visita di Papa Francesco in Terra Santa, le autorità israeliane hanno vietato a cinque noti estremisti di mettere piede nella città di Gerusalemme. Considerano lo Stato israeliano "un nemico" e attaccano con bombe e attentati, esattamente come gli omologhi della controparte palestinese. Un nome su tutti è quello di Yigal Amir, il terrorista ultranazionalista che nel 1995 ha ucciso Yitzhak Rabin, perché non accettava l'iniziativa di pace sposata dal premier israeliano e la sua firma sugli accordi di Oslo.

Il mito dell'onnipotenza del Mossad. I servizi segreti israeliani vengono spesso portati a esempio di infallibilità, ma non è così. Anche perché è umanamente impossibile. Tuttavia, il mito dell'onnipotenza del Mossad è uno delle fondamenta su cui si articola il mito della lobby ebraica, e pertanto resiste tenacemente nel tempo. Eppure, i flop del Mossad (e dello Shin Bet, l'intelligence israeliana per gli affari interni) sono sotto gli occhi di tutti. Cominciano nell'ottobre del 1973, quando Aman, i servizi militari israeliani, giudica "Poco probabile" lo scoppio di una guerra con i Paesi arabi, Qualche giorno dopo l'esercito sirio-egiziano attacca Israele, cogliendo il Paese del tutto impreparato. Il capo di Aman fu costretto a dimettersi. Poco prima, a luglio dello stesso anno, gli agenti del Mossad danno la caccia ai leader di Settembre Nero, l'organizzazione terroristica islamica responsabile dell'uccisione di 11 atleti israeliani ai Giochi olimpici di Monaco del '72. Gli 007 israeliani credono di avere individuato Hassan Salamé (uno dei leader) in Norvegia. Lo colpiscono, ma poi scoprono di avere ucciso per sbaglio un cameriere di origine marocchina. In tempi più recenti, a gennaio del 2010 in un hotel di Dubai viene ucciso Mahmoud al Mabhouh, uno dei comandanti di Hamas. Le foto dei killer (agenti del Mossad) fanno il giro del mondo con i loro passaporti, su operazione della polizia locale. Infine, a giugno 2011 i siti dell'IDF, di Shin Bet e del Mossad vengono violati da un gruppo di hackers di Anonymous, che minaccia un attacco cibernetico contro Israele. Per due ore i siti non sono accessibili.

Violenti scontri a Gaza: 16 palestinesi uccisi dall'esercito israeliano. Oltre mille feriti. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale dopo la violentissima battaglia al confine con la Striscia dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” che commemora gli scontri del marzo 1976. La mobilitazione durerà fino al 15 maggio, giorno della Nakba. Fonti diplomatiche: all'Onu riunione d'urgenza a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza, scrive il 30 marzo 2018 "La Repubblica". Sedici morti e più di mille feriti nella Striscia, secondo il ministero della Sanità. Tra le vittime, la più giovane ha 16 anni. È il bilancio, ancora provvisorio secondo fonti mediche di Gaza, degli scontri tra palestinesi e forze della sicurezza israeliane scoppiati al confine tra il sud della Striscia e Israele, dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” convocata da Hamas nell'anniversario dell'esproprio delle terre arabe per creare lo Stato di Israele nel 1948. Da fonti diplomatiche si apprende che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, su richiesta del Kuwait, terrà una riunione d'urgenza sui tragici eventi di Gaza. La stessa fonte, coperta da anonimato, ha precisato che la riunione avverrà a porte chiuse a partire dalle 18.30 ora locale (le 00.30 in Italia). La Grande Marcia si è aperta nella Giornata della Terra che ricorda l'esproprio da parte del governo israeliano di terre di proprietà araba in Galilea, il 30 marzo 1976. Le proteste dureranno fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, per i palestinesi "Nakba", la "catastrofe", come la chiamano, perché molti furono costretti ad abbandonare per sempre case e villaggi. 

L'esercito ha aperto il fuoco in più occasioni con colpi di artiglieria, munizioni vere e proiettili di gomma vicino alla barriera di sicurezza davanti a cui hanno manifestato 17 mila palestinesi. Dalla folla sono stati lanciati sassi e bottiglie molotov verso i militari. Di primo mattino il colpo di artiglieria di un carro armato aveva ucciso Omar Samour, un agricoltore palestinese di 27 anni che era entrato nella fascia di sicurezza istituita dalle forze armate israeliane. Testimoni hanno raccontato che si trovava su terreni vicini alla frontiera e un portavoce dell'esercito ha spiegato l'episodio parlando di "due sospetti che si sono avvicinati alla barriera di sicurezza nel sud della Striscia di Gaza e hanno cominciato a comportarsi in maniera strana", e i carri armati hanno sparato contro di loro". Successivamente è stato ucciso con un colpo allo stomaco un 25enne a est di Jabaliya, nel nord del territorio costiero e altri due (fra cui un 38enne) in punti diversi della frontiera. La maggior parte dei feriti sono stati colpiti da proiettili di gomma e gas lacrimogeni.

L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale. Yusef al Mahmoud, portavoce dell'Anp a Ramallah, ha chiesto "un intervento internazionale immediato e urgente per fermare lo spargimento del sangue del nostro popolo palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane". L'esercito israeliano ha precisato di aver preso di mira "i principali istigatori" delle proteste violente e ha ribadito che non verrà permesso a nessuno di violare la sovranità di Israele superando la barriera di sicurezza e per questo ha anche schierato un centinaio di tiratori scelti. Secondo il generale israeliano Eyal Zamir, l'esercito è intervenuto perché ha "identificato alcuni terroristi che cercano di condurre attacchi, camuffandosi da manifestanti". Zamir ha chiesto ai residenti palestinesi di stare lontano dal confine e ha accusato Hamas di essere responsabile degli scontri in corso. Le manifestazioni sono partite da sei punti dell'arido confine tra Gaza e Israele, lungo una cinquantina di chilometri: in particolare Rafah e Khan Younis nel sud, el-Bureij e Gaza City al centro, Jabalya nel nord. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha arringato la folla assicurando che "è l'inizio del ritorno di tutti i palestinesi". Fonti dell'esercito di Tel Aviv hanno descritto gli scontri: "Fanno rotolare pneumatici incendiati e lanciano pietre verso la barriera di sicurezza, i soldati israeliani ricorrono a mezzi antisommossa e sparano in direzione dei principali responsabili e hanno imposto una zona militare chiusa attorno alla Striscia di Gaza, una zona dove ogni attività necessita di autorizzazione".

L'esercito israeliano ha detto che una ragazzina palestinese di 7 anni è stata "mandata verso Israele per superare la barriera difensiva". "Quando i soldati hanno realizzato che era una ragazzina - ha continuato l'esercito - l'hanno presa e si sono assicurati che tornasse in sicurezza dai genitori". Secondo l'esercito - citato dai media - la ragazzina è stata inviata da Hamas che "cinicamente usa le donne e i bambini, li manda verso la frontiera e mette in pericolo le loro vite". La protesta, che secondo gli organizzatori sarebbe dovuta essere pacifica, ha l'obiettivo di realizzare il "diritto al ritorno", la richiesta palestinese che i discendenti dei rifugiati privati delle case nel 1948 possano ritornare alle proprietà della loro famiglia nei territori che attualmente appartengono a Israele. Sono giorni che Israele fa intendere che avrebbe usato le maniere forti. Il ministro della Difesa, Avigdor Liberman, aveva avvertito che qualsiasi palestinese si fosse avvicinato a una barriera di sicurezza avrebbe messo a repentaglio la propria vita. Secondo i media israeliani, Liberman da stamane si trova presso il quartier generale dell'esercito per monitorare la situazione. L'esercito ha dichiarato la zona "area militare interdetta". Scontri sono in corso anche in Cisgiordania, nelle zone di Ramallah e di Hebron. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz la mobilitazione chiamata da Hamas è anche un modo per sviare l'attenzione dal pantano politico all'interno della Striscia: dove dopo la guerra del 2014 le infrastrutture sono in rovina e la gestione delle necessità quotidiane è sempre più complicato. "Condanniamo in modo forte l'uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i palestinesi durante le proteste pacifiche di oggi a Gaza", ha detto il ministro degli Esteri della Turchia. "È necessario che Israele ponga fine rapidamente all'uso della forza, che innalzerebbe ulteriormente le tensioni nella regione", afferma Ankara, lanciando un invito "alla comunità internazionale a rispettare la sua responsabilità di convincere Israele ad abbandonare il suo atteggiamento ostile".

Israele spara sulla marcia palestinese: 15 morti a Gaza. Striscia di Gaza. Uomini, donne e bambini per il ritorno e il Giorno della terra: i cecchini israeliani aprono il fuoco su 20mila persone al confine. Oltre mille i feriti, scrive Michele Giorgio il 30.3.2018 su "Il Manifesto". Manifesto Il video che gira su twitter mostra un ragazzo mentre corre ad aiutare un amico con ‎in mano un vecchio pneumatico da dare alle fiamme. Ad certo punto il ragazzo, ‎avrà forse 14 anni, cade, colpito da un tiro di precisione partito dalle postazioni ‎israeliane. Poi ci diranno che è stato “solo” ferito. Una sorte ben peggiore è toccata ‎ad altri 15 palestinesi di Gaza rimasti uccisi ieri in quello che non si può che ‎definire il tiro al piccione praticato per ore dai cecchini dell’esercito israeliano. ‎Una strage. I feriti sono stati un migliaio (1.500 anche 1.800 secondo altre fonti): ‎centinaia intossicati dai gas lacrimogeni, gli altri sono stati colpiti da proiettili veri ‎o ricoperti di gomma. È stato il bilancio di vittime a Gaza più alto in una sola ‎giornata dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014. ‎Gli ospedali già ‎in ginocchio da mesi hanno dovuto affrontare questa nuova emergenza con pochi ‎mezzi a disposizione. Hanno dovuto lanciare un appello a donare il sangue perché ‎quello disponibile non bastava ad aiutare i tanti colpiti alle gambe, all’addome, al ‎torace. ‎«I nostri ospedali da mesi non hanno più alcuni farmaci importanti, ‎lavorano in condizioni molto precarie e oggi (ieri) stanno lavorando in una doppia ‎emergenza, quella ordinaria e quella causata dal fuoco israeliano sul confine», ci ‎diceva Aziz Kahlout, un giornalista.

Gli ordini dei comandi militari israeliani e del ministro della difesa Avigdor ‎Lieberman erano tassativi: aprire il fuoco con munizioni vere su chiunque si fosse ‎spinto fino a pochi metri dalle barriere di confine. E così è andata. Per giorni le ‎autorità di governo e i vertici delle forze armate hanno descritto la Grande Marcia ‎del Ritorno come un piano del movimento islamico Hamas per invadere le ‎comunità ebraiche e i kibbutz a ridosso della Striscia di Gaza e per occupare ‎porzioni del sud di Israele. Per questo erano stati fatti affluire intorno a Gaza ‎rinforzi di truppe, carri armati, blindati, pezzi di artiglieria e un centinaio di ‎tiratori scelti. ‎

Pur considerando il ruolo da protagonista svolto da Hamas, che sicuramente ‎ieri ha dimostrato la sua capacità di mobilitare la popolazione, la Grande Marcia ‎del Ritorno non è stata solo una idea del movimento islamista. Tutte le formazioni ‎politiche palestinesi vi hanno preso parte, laiche, di sinistra e religiose. Anche ‎Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen che ieri ha proclamato il lutto ‎nazionale. E in ogni caso lungo il confine sono andati 20mila di civili disarmati, ‎famiglie intere, giovani, anziani, bambini e non dei guerriglieri ben addestrati. ‎Senza dubbio alcune centinaia si sono spinti fin sotto i reticolati, vicino alle ‎torrette militari, ma erano dei civili, spesso solo dei ragazzi. Israele ha denunciato ‎lanci di pietre e di molotov, ha parlato di ‎«manifestazioni di massa volte a coprire ‎attacchi terroristici» ma l’unico attacco armato vero e proprio è stato quello – ‎ripreso anche in un video diffuso dall’esercito – di due militanti del Jihad giunti ‎sulle barriere di confine dove hanno sparato contro le postazioni israeliane prima ‎di essere uccisi da una cannonata.‎

La Grande Marcia del Ritorno sulla fascia orientale di Gaza e in Cisgiordania è ‎coincisa con il “Yom al-Ard”, il “Giorno della Terra”. Ogni 30 marzo i palestinesi ‎ricordano le sei vittime del fuoco della polizia contro i manifestanti che in Galilea ‎si opponevano all’esproprio di altre terre arabe per costruire comunità ebraiche nel ‎nord di Israele. I suoi promotori, che hanno preparato cinque campi di tende lungo ‎il confine tra Gaza e Israele – simili a quelle in cui vivono i profughi di guerra -, ‎intendono portarla avanti nelle prossime settimane, fino al 15 maggio quando ‎Israele celebrerà i suoi 70 anni e i palestinesi commemoreranno la Nakba, la ‎catastrofe della perdita della terra e dell’esilio per centinaia di migliaia di profughi. ‎Naturalmente l’obiettivo è anche quello di dire con forza che la gente di Gaza non ‎sopporta più il blocco attuato da Israele ed Egitto e vuole vivere libera. Asmaa al ‎Katari, una studentessa universitaria, ha spiegato ieri di aver partecipato alla ‎marcia e che si unirà alle prossime proteste ‎«perché la vita è difficile a Gaza e non ‎abbiamo nulla da perdere‎». Ghanem Abdelal, 50 anni, spera che la protesta ‎‎«porterà a una svolta, a un miglioramento della nostra vita a Gaza‎».‎

Per Israele invece la Marcia è solo un piano di Hamas per compiere atti di ‎terrorismo. La risposta perciò è stata durissima. Il primo a morire è stato, ieri ‎all’alba, un contadino che, andando nel suo campo, si era avvicinato troppo al ‎confine. Poi la mattanza: due-tre, poi sei-sette, 10-12 morti. A fine giornata 15. E ‎il bilancio purtroppo potrebbe salire. Alcuni dei feriti sono gravissimi.‎

Si rischia la Pasqua di rappresaglia. In Israele si rischia una Pasqua di rappresaglia, scrive Fiamma Nirenstein, Sabato 31/03/2018 su "Il Giornale". C'è confusione sui numeri ma non sul significato della «Marcia del ritorno», come l'ha chiamata Hamas. 15 morti, 1.400 feriti e 20mila dimostranti sul confine di Israele con Gaza, in una manifestazione organizzata per essere solo la prima in direzione di una mobilitazione di massa che dovrebbe avere il suo apice il 15 di maggio, giorno della Nakba palestinese, il «disastro», festa dell'indipendenza di Israele, che coinciderà anche con il passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Un'escalation continua di eccitazione mentre cresceva l'incitamento ha visto per ben quattro volte unità di giovani armati di molotov, bombe a mano e coltelli, infiltrati dentro il confine. Un esempio limitato di quello che Hamas vorrebbe riprodurre su scala di massa, ovvero l'invasione di Israele, come nei loro discorsi ieri hanno ripetuto i leader massimi Ismail Hanyie e Yehyia Sinwar. Non a caso nei giorni della preparazione si sono svolte esercitazioni militari con lanci di razzi e incendi di finti carri armati, pretesi rapimenti e uccisioni che hanno persino fatto scattare i sistemi antimissile spedendo gli israeliani nei rifugi. Il messaggio di Hamas era chiaro: marciate, noi vi copriamo con le armi. Ma le intenzioni terroriste sono state incartate dentro lo scudo delle manifestazioni di massa e l'uso della popolazione civile, inclusi donne e bambini, è stato esaltato al massimo. Molti commentatori sottolineano che se Hamas decide di marciare, non ci sia molta scelta. E una marcia di civili risulta indiscutibile presso l'opinione pubblica occidentale, ma il messaggio sottinteso è stato spezzare il confine sovrano di Israele con la pressione della folla civile, utilizzare le strette regole di combattimento dell'esercito israeliano che mentre lo stato maggiore si arrovellava, si è trovato nel consueto dilemma delle guerre asimmetriche: tu usi soldati in divisa e il nemico soldati in abiti civili, donne, bambini, talora palesemente utilizzati come provocazione. L'esercito ha confermato che una piccola di sette anni per fortuna è stata individuata in tempo prima di venire travolta negli scontri. E in serata Israele ha bombardato con cannonate e raid aerei tre siti di Hamas a Gaza in risposta a un tentativo di attacco armato contro soldati. La protesta di Hamas - che arriva alla vigilia della festa di Pesach, la Pasqua ebraica - ha vari scopi: il primo è legato alla situazione interna di Gaza. L'uso militarista dei fondi internazionali e il blocco conseguente del progresso produttivo ha reso la vita della gente miserabile e i confini restano chiusi. È colpa della minaccia che l'ingresso da Gaza di uomini comandati da un'entità terrorista, comporta per chiunque, israeliani o egiziani. Hamas con la marcia incrementa la sua concorrenza mortale con l'Anp di Abu Mazen, cui ha cercato di uccidere pochi giorni fa il primo ministro Rami Hamdallah; minacciata di taglio di fondi urla più forte che può contro Israele, cosa su cui la folla araba, anche quella dei Paesi oggi vicini a Israele come l'Arabia Saudita e l'Egitto, la sostiene. Il titolo «Marcia del ritorno» significa che non può esserci nessun accordo sul fondamento di qualsiasi accordo di pace, ovvero sulla rinuncia all'ingresso distruttivo nello Stato ebraico dei milioni di nipoti dei profughi del '48, quando una parte dei palestinesi fu cacciata e una parte se ne andò volontariamente certa di tornare sulla punta della baionetta araba. Israele ha cercato invano di evitare che alle manifestazioni si facessero dei morti. Ma nessuno Stato sovrano accetterebbe da parte di migliaia di dimostranti guidati da un'organizzazione che si dedica solo alla sua morte una effrazione di confini. Hamas userà i nuovi shahid (povera gente) per propagandare la sua sete di morte in nome di Allah e contro Israele. Certo questo non crea in Israele maggiore fiducia verso una pace futura.

Il silenzio assordante sul massacro dei curdi, scrive Marco Rovelli il 29 marzo 2018 su Left. Fin dove arriva l’estensione dell’impunità? Fin dove ci si può spingere nel massacro e nel disprezzo del diritto? Fin dove si può farlo nella più totale indifferenza della comunità internazionale e dei media? Erdogan ci sta mostrando sul campo che questi confini sono assai estensibili. Quella porzione di Medio Oriente che dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano prese il nome di Siria, e che adesso si è dissolta a sua volta, è il luogo ideale per riplasmare i confini di ciò che è lecito. Ed è lecito tutto ciò che si può fare, come nello stato di natura di Hobbes e Spinoza. In quello stato di natura non esiste alcuno Stato civile: l’assoluta libertà di massacro di Erdogan, allora, ci mostra che non è collassata solo la sovranità statale siriana, ma pure qualsiasi simulacro di comunità internazionale. Erdogan ha di fatto invaso la Siria, e tutto accade come nulla fosse: perché, dal punto di vista di una comunità internazionale, che non esiste in quanto comunità normata da un diritto, nulla è, in effetti. Erdogan massacra i curdi, tanto combattenti quanto civili, e, ancora, nulla è. I curdi del resto sono da cent’anni l’assoluto rimosso del Medio Oriente, vittima silenziosa delle strategie delle sovranità statali. Negli ultimi quindici anni i curdi hanno provato a mettere in discussione il principio della sovranità dello Stato-nazione, attraverso la teoria del confederalismo democratico: e così adesso, quel Leviatano si abbatte su di loro, in forma di vendetta, lacerando ancora le carni di quel popolo ribelle. Mentre il sacrificio si compie, il mondo resta ammutolito. Ma non perché sgomento dalla terribile entità di quel massacro. Piuttosto, perché nulla sa, e, se sa qualcosa, preferisce non farne parola. Così appaiono del tutto naturali le immagini di Erdogan in visita in Italia senza che nessuno dei nostri governanti abbia osato far cenno dei suoi crimini. Un’infamia inemendabile. E allora, sia gratitudine a chi è penetrato nei cancelli della fabbrica Agusta, il luogo primo della nostra complicità nel massacro in corso. È con i nostri elicotteri Agusta Westland che il massacro viene compiuto. Le pale degli elicotteri fanno un rumore tale, e le bombe sganciate, che il silenzio dei media e dei governanti si fa sempre più assordante. Fanno bene al cuore le immagini della partecipazione alle manifestazioni per Afrin, certo: ma è sempre troppo poco quel che possiamo fare, perché il silenzio del discorso pubblico ci sopravanza. Ciò, ovviamente, non ci esime dal continuare a fare. Bisogna ricordare, senza posa, a fronte dell’obsolescenza programmata del discorso pubblico, dove i morti scompaiono dalla scena più velocemente di una qualsiasi canzone pop, di qualsiasi tormentone estivo, come si getta un bene di consumo qualsiasi nell’immondizia. Ricordiamo, invece. Ricordiamoci di Alan Kurdi, quel bambino curdo finito morto riverso sulla spiaggia, che il mondo ha guardato in faccia per un istante, commuovendosi come sempre per interposta persona, per poi assistere il giorno dopo a un nuovo spettacolo che cancella quello del giorno precedente. Ricordiamolo, che migliaia di piccoli Alan Kurdi sono uccisi, o costretti a un esodo immane, dalle nostre bombe. E ricordiamo che Erdogan sta provando a uccidere la speranza più luminosa di un Medio Oriente da troppo tempo disperato, la speranza costruita giorno dopo giorno da un movimento curdo che tenta di ridare forma e contenuti e pratiche nuovi a una parola da noi usurata e consunta e abusata: democrazia. Ricordiamolo, che è perché i curdi del Rojava sperimentano una democrazia radicale, che sono massacrati.

Le prove non ci sono, ma Trump spara lo stesso: orrore! Scrive Marcello Foa il 14 aprile 2018 su "Il Giornale". L’attacco di questa notte rappresenta un grave errore e una svolta nella politica estera americana. E’ un gesto di intimidazione nei confronti del regime di Assad, ma anche – e forse soprattutto – nei confronti della Russia e dell’Iran. Non ci sono prove sull’uso di armi chimiche alla Douma. Giovedì Macron assicurava di avere riscontri sulle responsabilità di Assad, riscontri che però non ha esibito. Infatti nelle stesse ore il segretario alla Difesa degli Usa James Mattis, in audizione al Congresso, dichiarava che non ci sono vere prove ma solamente indizi forniti da media e social media.  Ciò nonostante l’attacco è stato lanciato lo stesso. Il messaggio, pertanto, è chiaro e grave: l’America torna ad essere il gendarme del mondo. E Trump rinnega se stesso. L’ho già scritto e lo ribadisco: Il Trump di queste ore non ha più nulla a che vedere con quello che è stato eletto 18 mesi fa. La nomina di un supefalco come John Bolton a Consigliere della sicurezza nazionale, segna la conversione del presidente americano sulle posizioni che egli stesso condannava con forza. Lo dimostrano i suoi tweet, lo dimostra il suo discorso di insediamento, in cui disegnava un’altra America, meno interventista, più equilibrata, mèiù saggia. Il Trump di oggi è irriconoscibile. E’ diventato un neoconservatore ovvero ha fatto proprio lo spirito aberrante che ha guidato la mano di Bush, in buona parte quella di Obama, e che ispirava quella di Hillary Clinton. Bolton è alla Casa Bianca da poche settimane e gli effetti si vedono. Fino a pochi giorni fa l’America sembrava sul punto di ritirarsi dalla Siria, ora, a suon di missili, dice: noi ci siamo e continueremo a farci sentire. Questo nuovo corso della politica estera americana non promette nulla di buono. Esaspera ancor di più i rapporti con la Russia di Putin, ma questo non è nel nostro interesse di europei ed espone il mondo a crisi ancor più gravi e dalle conseguenze imprevedibili. Che errore, che orrore, Trump.

Siria: l’attacco chimico, tragico pretesto, scrive il 9 aprile 2018 Piccole note su “Il Giornale". Un altro attacco chimico in Siria scatena la reazione internazionale. “Ora l’America di Trump dovrà colpire. Dovrà rispondere alle immagini spaventose che giungono dalla Siria”, scrive Franco Venturini sul Corriere della Sera di oggi. Si potrebbe concordare. Ma difficilmente Washington bombarderà Ryad, che sostiene i jihadisti di Jaysh al-Islam, l’organizzazione jihadista che ha lanciato l’attacco. Perché, con ritornello ripetitivo quanto stantio, i politici e i media dell’Occidente accusano Damasco e Putin. E si preparano a colpire la Siria.

Un attacco chimico annunciato. Solo che stavolta Mosca non starà a guardare. Ha allertato le difese schierate in Siria, e sono tante. Sarà la terza guerra mondiale? Washington dovrebbe riflettere prima di compiere passi fatali. L’escalation è una possibilità, anche se ad oggi remota. Sull’attacco chimico è inutile spiegare che Assad non ha alcun interesse a usare i gas contro i suoi nemici, anzi, sui quali sta avendo la meglio usando armi convenzionali. Per un beffardo incrocio di destini, proprio oggi sembra si sia chiuso l’accordo con gli assassini di Jaish al islam che controllano Douma, il quartiere nel quale sono stati sganciati i gas. Dovrebbero andarsene altrove, liberando l’area dalla loro nefasta occupazione. Ma al di là, degli sviluppi, resta che non interessa a nessuno accertare i fatti. La responsabilità di Assad è dogma inderogabile. Come furono le armi di distruzione di massa di Saddam. E anche se gli interventisti palesano qualche dubbio, restano fermi nell’asserire che Assad va colpito. Come fa Venturini con quel cenno col quale abbiamo iniziato questa nota. Nel proseguo dell’articolo, infatti, ammette che la responsabilità del governo siriano è dubbia…A fine marzo avevamo riportato che “i ribelli siriani che combattono nel Ghouta avrebbero simulato un attacco chimico contro i civili come pretesto per un attacco americano”. Una constatazione non nostra, ma del sito Debkafile, collegato ai più che informati servizi segreti israeliani, che pure non hanno in grande simpatia Assad, anzi. E da giorni media russi e iraniani avevano allertato su un attacco chimico imminente ad opera dei cosiddetti ribelli per incolpare i siriani. Sempre Debkafile, oggi riporta: “Alcune fonti a Washington sospettano che alcuni gruppi dell’opposizione siriana stiano innescando l’escalation nella speranza di provocare un’azione militare USA in Siria, ribaltando l’intenzione annunciata dal presidente Trump di riportare a casa le truppe statunitensi”.

Trump e il ritiro dalla Siria. Trump, obnubilato dai fumi dell’incendio che ieri è divampato alla Trump Tower, (funesto presagio), si è scagliato lancia in resta per un’azione militare. La sua idea di ritirare le truppe dalla Siria sembra dunque appartenere al passato. Oggi le difese siriane danno notizia di aver abbattuto alcuni missili Tomahawk lanciati contro una loro base aerea, un attacco che Mosca attribuisce a Israele. Gli autori della strage di Douma sembrano dunque aver conseguito i risultati sperati. Resta la perplessità per un complesso mediatico unidirezionale, come riscontrato durante la guerra in Iraq e quella in Libia. L’Unione sovietica aveva la Pravda, parola russa che significa verità. Ai media occidentali è consentita certa libertà su temi secondari, ma, quando il sistema si compatta su una decisione che riguarda il suo stesso destino, hanno anche loro una Pravda alla quale attenersi, pena l’esclusione dal sistema stesso. Una Pravda più sofisticata, certo, ma non meno perniciosa. Pericolosa deriva. Totalitaria.

Attacco chimico a Douma: se gli jihadisti scagionano Assad, scrive il 9 aprile 2018 Piccole note su “Il Giornale". Strano strano: l’Osservatorio siriano per i diritti umani, totalmente consegnato alla causa del regime-change in Siria, quindi non certo uno strumento in mano ad Assad, non dà alcuna notizie dell’asserito attacco chimico che sarebbe avvenuto a Douma, presso Ghouta orientale. Attacco che l’Occidente attribuisce ad Assad. L’Osservatorio è dedito alla propaganda contro il governo siriano. I suoi oppositori lo accusano di Inventarsi o distorcere notizie alla bisogna; un po’ come quando si narrava che i comunisti mangiavano i bambini. Allo scopo si avvale di fonti sul campo, fonti jihadiste, ovvio, e terroriste. Ha quindi un rapporto diretto con gli attori presenti nel teatro di guerra. Nel caso specifico, la banda Jaysh al-Islam, finanziata e armata dall’Arabia Saudita, che controllava Douma.

Il resoconto dell’Osservatorio siriano dei diritti umani. Bene, l’Osservatorio dedica alle interna corporis di Douma tantissimi articoli, di cui cinque solo oggi (almeno fino al momento in cui abbiamo realizzato questa piccola nota), dettagliando cosa è successo nel quartiere assediato di Damasco. Note in cui si narra che ci sono stati pesanti bombardamenti da parte delle forze russo-siriane, e che in seguito a queste la popolazione civile si è ribellata agli jihadisti e gli ha chiesto di accettare l’accordo proposto dai loro nemici e di abbandonare il quartiere. Hanno persino manifestato sotto la casa del capo della milizia, per fargli capire che doveva sloggiare. Magnanimamente, i jihadisti alla fine hanno accettato, spiegando in un comunicato che lo facevano per il bene della popolazione civile. E ora pare che stiano andando via, sotto la “pressione popolare”, imbarcati su 26 autobus messi a disposizione da Damasco. Saranno destinati ad un’altra zona della Siria controllata da altri jihadisti. Bene, in nessuno di questi articoli si parla di gas tossico, attacco chimico o quanto altro. Solo in un articolo del 7 aprile si accenna a “11 persone, tra cui almeno 5 bambini, soffocate, dopo il bombardamento di un aereo da guerra”. Al di là della veridicità o meno della notizia (l’Osservatorio non è molto attendibile, per usare un eufemismo), resta che non parla di gas, ma di generici sintomi di soffocamento di 11 persone. Va da sé che se si lancia un attacco chimico i sintomi sono ben più gravi e le persone colpite risulterebbero in numero ben maggiore. Inoltre, di solito, le notizie riguardanti gli asseriti attacchi chimici del passato erano corredate con foto raccapriccianti. In questo caso di foto ne sono circolate pochine e tutte molto più che generiche: potrebbero essere state scattate ovunque. Quella che circola di più l’abbiamo messa in esergo al nostro articolo e inquadra un bambino con un respiratore, mentre la sua compagnetta non ha nulla, se non legittima paura. Foto che non provano nulla insomma, se non l’innocenza violata dei bambini in questa sporca guerra. Una sporca guerra che si alimenta di menzogne. I siti russi rilanciano le dichiarazioni della Croce rossa siriana, che dice di non aver trovato tracce di gas a Douma. E in realtà, non si capisce perché i jihadisti incistati nel quartiere non hanno denunciato quell’attacco nel comunicato rivolto ai cittadini di Douma che l’Osservatorio siriano per i diritti umani riporta tutto nel dettaglio: non una riga sull’asserito attacco chimico. Perché tacere? Si poteva ben denunciare che a seguito dell’attacco chimico avevano deciso di andar via… Si noti che questo articolo, e soprattutto il comunicato degli jihadisti, è successivo all’attacco in cui L’Osservatorio denuncia i presunti sintomi di soffocamento. Non una riga su gas e attacchi chimici. Nemmeno una… Vuoi vedere che si sono inventati tutto?

Ps. Ovvio che da oggi tutto può cambiare e magari anche sul sito dell’Osservatorio scorreranno fiumi di inchiostro su gas e quanto altro. Ma il dato rilevato resta. E conferma quanto scritto stamane: la storia dell’attacco chimico è una messinscena costruita ad arte per attaccare Assad.

Armi chimiche ad orologeria, scrive Sebastiano Caputo il 9 aprile 2018 su “Il Giornale”. Presunte armi chimiche, ancora. Il governo siriano è sotto inchiesta dal potere mediatico internazionale per aver colpito la città di Duma, dove è in corso una battaglia contro Jaish al Islam, con gas tossici. In poche ore i video dal campo diffusi sono diventati virali e senza alcuna verifica tutti i mezzi d’informazione occidentale gli hanno rilanciati sui loro siti web e ritrattati in forma cartacea sulle prime pagine. E’ evidente però che siamo di fronte ad un’evidente operazione di “spin” giornalistico, vale a dire di una notizia che è stata fabbricata, confezionata o per lo meno riadattata, per poi essere gettata in mondovisione in un contesto geopolitico, militare e diplomatico molto preciso. In Siria c’è la guerra da oltre sette anni e quando vengono organizzate queste campagne mediatiche così corali non è mai per caso per cui occorre inserirle in un quadro molto più ampio altrimenti diventa solo becera e lacrimevole propaganda. Per capire quanto siano davvero autorevoli tali accuse è necessario analizzare le fonti della notizia, poi la campagna mediatica che ne è seguita, e infine tracciare le conseguenze dirette. Il presunto uso di armi chimiche è stato diffuso da due organi. Prima dai canali informativi legati a Jaish al Islam, poi dai White Helmets, un’organizzazione che è stata più volte denunciata per connivenza con i gruppi terroristici in Siria e di fornire un racconto parziale e mai obiettivo del conflitto. Eppure nonostante questa mancanza di obiettività i media occidentali hanno riportato ciecamente la notizia facendosi portavoce di una fazione creata coi soldi sauditi nel settembre 2013 per intercessione della famiglia Allouche – che oggi vive comodamente a Londra facendo fare il lavoro sporco allo sceicco Isaam Buwaydani, detto “Abu Hamam”, succeduto a Zahrane Allouche ucciso da un raid siriano – e che per anni ha comandato Duma con metodi mafiosi, imponendo la propria legge ai commercianti della Ghouta e giustiziando pubblicamente, senza esitare, chi ne ha contestato il potere (per credere è sufficiente ascoltare le testimonianze dei civili fuggiti dai corridoi umanitari aperti dalla Mezzaluna Rossa in collaborazione con l’Esercito Arabo Siriano). La campagna mediatica che ha seguito questi fatti è stata perfettamente sincronizzata in un lasso di tempo cortissimo. Tutti i giornali e i telegiornali hanno aperto con le stesse fotografie, gli stessi titoli, gli stessi slogan, e così anche gli intellettuali, uno fra tutti Roberto Saviano, che sulla scia di quel monologo fazioso di qualche settimana fa su Rai 1 che avevo commentato con un video, si è accodato a questa narrativa a senso unico inventandosi persino un gesto virale – la mano che tappa bocca e naso – per denunciare, senza prove, il governo siriano. Questa traiettoria informativa con l’intento di trascinare emotivamente l’opinione pubblica, si iscrive come detto sopra in un contesto geopolitico molto preciso. Siamo di fronte ad una vittoria militare di Bashar Al Assad e dei suoi alleati russi, iraniani, e libanesi, allora a rigor di logica è quanto mai legittimo domandarsi che interessi avrebbe il presidente siriano, sapendo di avere gli occhi puntati della comunità internazionale e dei media, per lo più in una posizione di forza, di utilizzare le armi chimiche nella battaglia di Duma? Sarebbe un errore da principiante e Assad un principiante non lo è affatto per come ha condotto la guerra mediatica e militare. La verità è che questa campagna arriva una settimana dopo le dichiarazioni di Donald Trump sul ritiro delle truppe dal nord della Siria (circa 2mila soldati), mentre all’interno della sua amministrazione c’è una componente legata al complesso militare-industriale che vuole continuare a seguire un’agenda alternativa a quella della Casa Bianca, con degli obiettivi molto chiari: difendere i pozzi petroliferi, coordinare i curdi sempre più propensi ad un riavvicinamento con il governo di Damasco e controllare zone altamente strategiche nella parte settentrionale del Paese. Per ultimo e non meno importante, è da ricordare che pochi giorni fa Erdogan, Rohani e Putin si sono riuniti per dare seguito ai colloqui di pace, perseguendo il processo di Astana, dove gli americani non sono invitati a prendere parte, ed è evidente che tutto questo servirà a spostare l’attenzione diplomatica sulle Nazioni Unite dove gli Stati Uniti, insieme a Francia e Inghilterra, la fanno da padroni.

Cosa c'è da sapere sulla guerra in Siria. Assad punta a riconquistare i pozzi petroliferi dell'Est, la Turchia a controllare il Nord. Mentre la Russia gestisce la situazione e gli Stati Uniti vogliono rafforzare il ruolo regionale di Israele. Ecco cosa sta succedendo, scrive Alberto Negri il 16 aprile 2018 su "L'Espresso". Nel pieno di una nuova guerra fredda ci avviciniamo a grandi passi alla balcanizzazione della Siria. A Nord la Turchia punta a cacciare dai suoi confini i curdi siriani e gli Stati Uniti non sembrano impegnati a difendere coloro che hanno utilizzato per sconfiggere l’Isis nell’assedio di Raqqa, ex capitale del latitante “califfo” Al Baghdadi. L’eroismo dei curdi di Kobane contro i jihadisti dell’Isis, così esaltato in Occidente, è stato presto dimenticato di fronte alla realpolitik. Nei villaggi curdi che non cadranno in mano ai turchi e alle loro milizie arabe resteranno i ritratti dei martiri. Chi scrive ha visto morire i curdi iracheni nel 1988 ad Halabja, asfissiati dai gas di Saddam Hussein nella più completa indifferenza internazionale; li ha visti fuggire dall’Iraq nel 1991, quando Bush padre fece appello a loro e agli sciiti per insorgere contro Baghdad - e anche allora furono abbandonati al loro destino - poi li ha visti tornare nel 2003 dopo la caduta del raìs, quindi combattere a Kobane quando occupavano soltanto il 20 per cento della città e i jihadisti li attaccavano alle spalle con la complicità di Erdogan: pagano oggi l’ennesimo tradimento delle loro speranze, forse illusorie, di irredentismo. Al centro, lungo l’asse vitale della Siria “utile” Aleppo-Hama-Homs-Damasco, il regime sta consolidando le sue posizioni con il sostegno della Russia e dell’Iran. Bashar Al Assad sta espellendo le ultime sacche di resistenza intorno a Damasco, poi, con l’aiuto dei russi e dei pasdaran iraniani, punterà decisamente a Est verso i campi petroliferi di Deir ez Zhor, essenziali per ricostruire un paese i cui danni di guerra sono stimati almeno 400 miliardi di dollari. Per Assad - come per Erdogan al Nord - l’obiettivo è sostituire la popolazione ostile, in questo caso i sunniti e coloro che hanno appoggiato la rivolta, con quote di minoranze più fedeli al regime come i cristiani, gli sciiti e gli alauiti. In poche parole andiamo verso la pulizia etnica e settaria che ha caratterizzato molte epoche della storia del Medio Oriente. Anche il ritorno dei profughi siriani - tre milioni in Turchia dove rappresentano l’arma di ricatto di Erdogan nei confronti dell’Europa - verrà gestito in questa direzione: distribuire la popolazione non secondo le esigenze di un ritorno a casa ma in accordo con le nuove linee di separazione etnica e religiosa. Dal 2011 a oggi quasi otto milioni di siriani hanno dovuto cambiare indirizzo e molti di loro non lo ritroveranno. Idlib, al Nord, non lontano da Aleppo e dal confine con la Turchia, intanto sta diventando la “discarica” dei jihadisti sconfitti. Qui le donne sole, rimaste single o vedove, vengono radunate dagli islamisti in appositi campi di concentramento. Qui si spengono, in un’atmosfera cupa e carica di presagi inquietanti, le ultime speranze della rivoluzione siriana cominciata con la rivolta di Daraa nel 2011. Quale sarà il loro destino? È un interrogativo di non poco conto, tenendo presente che tra loro ci sono molti dei settemila combattenti con passaporto europeo che imboccarono anni fa l’“autostrada del Jihad” aperta da Erdogan con l’appoggio degli Stati Unti e delle monarchie del Golfo. Nella sedicente pax syriana è il Cremlino che taglia le fette di torta, bisogna quindi sapersi accontentare e inghiottire qualche boccone amaro. Con il vertice di Ankara tra Erdogan, Putin e Hassan Rohani si è definito il nuovo triangolo mediorientale, una sorta di Sikes-Picot dei nostri giorni: si tratta dell’evoluzione più paradossale della guerra di Siria. Un membro della Nato dagli anni Cinquanta, bastione dell’Alleanza contro Mosca, si è messo d’accordo con la Russia e con l’Iran, bestia nera degli Stati Uniti e di Israele. In sintesi un Paese dello schieramento atlantico è sceso a patti contro gli avversari, veri o presunti, dell’Occidente per spartire la Siria in zone di influenza. Non è neppure secondario che Erdogan, incline a presentarsi come paladino dei sunniti, abbia stretto intese con gli ayatollah sciiti, nemici dei jihadisti e del mondo islamico salafita. Se il progetto troverà riscontri nel prossimo futuro, significa che Russia e Iran hanno vinto la guerra di Siria due volte: la prima tenendo in piedi Assad, la seconda portando nel loro campo un pilastro della Nato. La Turchia ospita, oltre alle basi, anche i missili americani puntati contro Mosca e Teheran. Quale è il piano americano da contrapporre al triangolo Russia-Turchia-Iran? Pur mantenendo le basi in Turchia e nel Golfo, lasciare che se la sbrighino sul campo potenze esterne e regionali: in realtà gli Usa contano sulla disponibilità di Israele - che dal Golan siriano occupato nel 1967 scatta con i suoi raid aerei - a fare il poliziotto della regione. Ma la partita non è finita. L’Arabia Saudita, con le dichiarazioni del principe ereditario Mohammed bin Salman sul diritto di Israele ad avere un suo Stato, segnala che vuole trascinare le monarchie del Golfo dal lato di Tel Aviv pur di contenere la Mezzaluna sciita. Le prossime mosse ci daranno le sfaccettature di quello che sarà nei mesi a venire il prisma del conflitto mediorientale. Trump, sulla spinta dei neo-con della Casa Bianca, Mike Pompeo e Bolton, rispettivamente segretario di Stato e consigliere della sicurezza nazionale, intende cancellare l’accordo di Obama con Teheran sul nucleare. Si aspettano nuove sanzioni e ulteriori difficoltà per Paesi europei in affari con gli iraniani, tra cui anche l’Italia. Nonostante le indicazioni di un disimpegno americano, in realtà il Medio Oriente “allargato” resterà nel mirino Usa: la partita è strategica ma anche economica, dalle rotte del gas nel Mediterraneo orientale alle nuove “vie della Seta”, ferroviarie, autostradali, marittime e portuali, in mano agli investimenti cinesi. Da queste parti forse non sarà più America First, ma Israel First, che per altro tiene sempre aperta la linea rossa con il Cremlino. La guerra per procura contro l’Iran ha balcanizzato in un massacro infinito la Siria ma non è ancora finita.

Cara Botteri, sulla Siria sbagli e ti spiego perché, scrive il 17 aprile Marcello Foa su "Il Giornale". Il mio intervento di giovedì scorso a TG 3 Linea notte è diventato virale sui social media. Decine di migliaia di condivisioni per aver detto – in un estratto di due minuti – che, come dimostra la Siria e come già avvenuto in Iraq, i giornalisti abboccano troppo facilmente alla propaganda e non imparano dai propri errori. In collegamento, purtroppo solo nei minuti finali, c’era da New York Giovanna Botteri, corrispondente dalla Rai, che naturalmente, dalla mimica facciale, pareva non essere molto d’accordo con me. Diversi lettori mi hanno chiesto: ma com’è andata a finire? Cos’ha detto la Botteri? Potete giudicare voi stessi, seguendo la sequenza completa (sono appena cinque minuti). Io mi auguro di avere presto l’occasione di confrontarmi nuovamente con lei, però non posso rimanere indifferente riascoltando l’ultima affermazione della mia nota collega, secondo cui la differenza è che “nell’Iraq del 2003 i giornalisti erano sul campo e potevano testimoniare, mentre oggi in Siria non ci sono giornalisti sul posto”. Avrei voluto replicare subito ma purtroppo eravamo alla fine della trasmissione. Rimedio adesso. No, cara Giovanna, non ci siamo. Io non ho mai citato l’Iraq come esempio positivo per la stampa ma – e lo dimostro nel mio saggio, uscito da poco, Gli stregoni della notizia. Atto secondo – ma, al contrario, come precedente molto negativo, in cui proprio la grande stampa internazionale, a cominciare dal New York Times e dalla Cnn, fecero da volano a tutte le bufale istituzionali, appiattendosi totalmente sulla posizione del presidente Bush. Allora le poche voci critiche venivano intimidite ed emarginate, fino alla criminalizzazione morale. Avevano ragione ma dovevano sentirsi soli, dovevano discolparsi, fino a dubitare delle proprie isolate convinzioni. In Siria la grande stampa mainstream sta commettendo lo stesso errore, come spiego nel mio intervento a Tg3 Linea Notte, ma la Botteri non può sostenere che in Siria mancano i giornalisti sul campo. Ci sono stati eccome, pensiamo al giovane Sebastiano Caputo, a Gian Micalessin, a Fausto Biloslavo. Talvolta basterebbe ascoltare le testimonianze dei preti che vivono in Siria, anziché quelle, tuitt’altro che neutrali, di molte Ong. Le voci alternative non mancano, per chi vuole ascoltarle. Il problema, è che la maggior parte dei media le ignora, preferendo affidarsi ciecamente alla voce dei governi, senza mai dubitare, senza mai interrogarsi, senza mai cogliere le incongruenze e le contraddizioni, nemmeno quando sono palesi. Ovvero muovendosi come docili greggi al seguito del solito Pastore. Il giornalismo, cara Giovanna Botteri, è un’altra cosa: significa coraggio, significa indipendenza, significa capacità di critica e di sana autocritica. Significa riscoprire virtù che la stampa occidentale mainstream smarrisce di giorno in giorno.

Douma: non fu attacco chimico. Parola di Robert Fisk, scrive il 17 aprile 2018 Giampaolo Rossi su "Il Giornale".

IL PRIMO AD ENTRARE. “Questa è la storia di una città chiamata Douma, un luogo devastato e maleodorante di palazzi distrutti – e di una clinica sotterranea le cui immagini di sofferenza hanno permesso a tre delle nazioni più potenti del mondo occidentale di bombardare la Siria la scorsa settimana”. Inizia così, sul quotidiano britannico The Indipendent, il racconto di Robert Fisk, uno dei più famosi giornalisti al mondo, direttamente da Douma. Fisk, reporter di fama internazionale, è stato il primo ad entrare nei giorni scorsi nella città liberata dall’esercito siriano; ha visitato il famoso ospedale dove sono state girate le immagini dei bambini con le maschere di ossigeno, prova fondamentale che l’Occidente ha preteso per accusare Assad di aver usato armi chimiche e scatenare il bombardamento su Damasco e Homs. Fisk ha parlato con Assim Rahaibani, il medico che era presente quel giorno quando i feriti giunsero nell’ospedale. E ciò che viene raccontato è sconvolgente: il video è vero ma la verità è un’altra: “quei civili erano sopraffatti non dal gas ma dalla carenza di ossigeno dentro i tunnel e negli scantinati in cui vivevano, in una notte di vento e bombardamenti pesanti che hanno scatenato una tempesta di polvere”. Quella notte, continua il testimone, “ci furono molti bombardamenti [da parte delle forze governative]” ma c’era anche “molto vento e le nuvole di polvere cominciarono a invadere gli scantinati e le cantine dove vivevano le persone”. Il video di dei bambini di Douma con le maschere d’ossigeno è vero… ma la verità è un’altra. Quelle persone furono colpite da ipossia (cioè da mancanza di ossigeno) non da gas nervini. Ecco il perché delle immagini di quei bambini con le maschere sul volto; sarin e agenti nervini non c’entravano nulla. Poi, continua l’anziano medico siriano, “qualcuno alla porta, un «Casco bianco», gridò “Gas!”, ed è cominciato il panico. La gente ha iniziato a gettare acqua l’una sull’altra. Sì, il video che è stato girato qui, è autentico, ma quelle che vedi sono persone che soffrono di ipossia – non di intossicazione da gas“. Robert Fisk afferma anche che quella del dott. Rahaibani non è l’unica testimonianza. A Douma: “ci sono molte persone con cui ho parlato tra le rovine della città che hanno detto di non aver mai creduto a storie di gas, che di solito venivano messe in giro dai gruppi armati islamici”; quelli che l’Occidente chiama Ribelli e che gli abitanti di Douma chiamano jihadisti o “terroristi”, perché “il termine che usa il Regime è un termine usato da molte persone in tutta la Siria”. Fisk afferma nel suo reportage di aver “attraversato la città abbastanza liberamente ieri senza soldati, poliziotti o agenti di sicurezza a seguire i miei passi, solo due amici siriani, una macchina fotografica e un taccuino”. Eppure nessuna traccia di gas e nessuna testimonianza che ne comprovasse l’esistenza.

SMENTITI GOVERNI OCCIDENTALI. Il reportage di Fisk smentisce categoricamente la versione di Usa, Gran Bretagna e Francia, secondo i cui governi vi era “un alto grado di fiducia” (non la certezza) che il regime siriano avesse bombardato con armi chimiche. Secondo l’intelligence occidentale la fiducia proveniva da rapporti di “Organizzazioni mediche non governative attive nella regione come la Syrian American Medical Society” composta da medici americani di origine siriana che operano in Turchia e nei territori sotto il controllo dei ribelli, e poi da “testimonianze, foto e video apparsi spontaneamente su siti Web specializzati, sulla stampa e sui social media”. In altre parole i governi occidentali hanno deciso di sferrare un attacco contro la Siria sulla base di un’accusa provata da video su You Tube e dai “sentito dire” di profughi fuggiti da Douma con i ribelli e che lo avrebbero raccontato ad organizzazioni anti-Assad. Nessun prova confermata da esperti internazionali, dall’OPCW o da organismi preposti. Fisk si chiede: “com’è possibile che i profughi di Douma che avevano raggiunto campi in Turchia abbiano descritto un attacco di gas che nessuno oggi a Douma ricorda?” Bella domanda. Forse perché l’attacco chimico non c’è mai stato.

VERITÀ NASCOSTE. D’altronde lo stesso bombardamento occidentale presenta strane verità nascoste. Come abbiamo raccontato in questo articolo, il laboratorio di Barzah a Damasco, distrutto da ben 70 missili americani, non era un Centro di produzione di armi chimiche, e lo confermò un mese fa l’OPCW dopo aver effettuato due ispezioni senza riscontrare la benché minima attività illegale, né presenza di sostanza vietate. Fisk è stato il primo giornalista arrivato a Douma a testimoniare una possibile manipolazione della verità su ciò che è accaduto; ma non il solo. Il reporter Pearson Sherp ha documentato per il canale OAN (One American News Network, emittente conservatrice filo-Trump) che secondo le testimonianze raccolte nella città, sono stati i ribelli ad inscenare l’attacco chimico allo scopo di generare il caos necessario ad fuggire dalla città. Insomma, il caso Douma è l’ennesima messa in crisi della verità su cui si è costruita tutta la guerra in Siria. Rimane l’assurdità di un bombardamento occidentale al di fuori del Diritto internazionale, voluto per ragioni che non hanno nulla a che fare con i motivi umanitari e, se il reportage di Fisk fosse confermato, anche fondato su una colossale bugia. Se il reportage di Fisk fosse confermato ci troveremmo davanti ad una colossale fake news della quale i governi occidentali, i media e gli “intellettuali umanitari” potrebbero dover rispondere al mondo.

Siria 1957: False Flag e la storia che si ripete, scrive il 13 aprile 2018 Giampaolo Rossi su “Il Giornale”.

SIRIA: IL PRECEDENTE. È il 1957; il Presidente americano Eisenhower e il Primo Ministro britannico Mcmillan decidono che è arrivato il momento di un “regime change” in Siria. Shukri al-Quwatli il presidente siriano che aveva vinto le prime elezioni democratiche, l’eroe dell’indipendenza non era più affidabile; si stava avvicinando troppo all’Unione Sovietica e Washington e Londra non potevano correre il rischio di perdere il controllo del petrolio siriano, né che la Siria diventasse un caposaldo comunista in Medio Oriente. E così furono messi in campo Cia e Sis per studiare la soluzione migliore. E fu trovata: scatenare una serie di attentati terroristici a Damasco facendo finta che ci fosse una rivolta in corso; compiere alcuni omicidi mirati sulle figure più influenti del governo e una serie di provocazioni alle frontiere turca, irachena e giordana che spingesse quelle nazioni ad intervenire. CIA e SIS avrebbero dovuto usare “le loro capacità sia nel campo psicologico che in quello dell’azione”. Tra gli uomini del governo siriano da uccidere, il primo era Afif al-Bizri il capo di Stato Maggiore accusato di essere un uomo di Mosca.

Il piano per il “regime change” prevedeva il finanziamento ad un “Comitato Siriano Libero” e armi a “fazioni politiche paramilitari”; gli antesignani degli attuali “Ribelli moderati”. L’operazione, ormai approvata ed esecutiva, si arenò per la rinuncia di Iraq e Giordania a scatenare una guerra disastrosa in Medio Oriente. La storia del tentato golpe in Siria emerse qualche anno fa dai documenti privati di Duncan Sandys, Segretario alla Difesa del Premier britannico e pubblicati dal Guardian. È impressionante la similitudine con ciò che sta accadendo oggi; ma in fondo non c’è nulla di nuovo né in Siria né altrove.

FALSE FLAG: MANIPOLARE E DESTABILIZZARE. Quello che allora non si realizzò, si è realizzato molte altre volte. Si chiama False Flag ed è una delle tecniche con cui scatenare guerre, regime change o perseguire disegni geopolitici senza incorrere in apparenti violazioni del Diritto internazionale o in pressioni contrarie dell’opinione pubblica. I False Flag sono operazioni segrete attraverso le quali un Governo o un’Agenzia d’Intelligence commettono atti di terrorismo, assassinii mirati, destabilizzazioni per far ricadere la colpa sui nemici o avversari e così legittimare una propria azione aggressiva. Nel secolo scorso l’adottarono un po’ tutti: i giapponesi per annettere la Manciuria cinese, i sovietici per invadere la Finlandia), i nazisti per preparare l’invasione in Polonia. Ma da dopo la Seconda Guerra Mondiale sono state le potenze occidentali quelle che hanno fatto il maggior uso di False Flag. Britannici, israeliani e americani ne sono diventati i maestri. Dagli attentati nel 1946 del M16 contro le navi che trasportavano gli ebrei in Palestina, attribuendoli ad una fantomatica organizzazione palestinese; all’Operazione Susannah, con cui nel 1954 Israele compì una serie di attentati in Egitto per far ricadere la colpa sui Fratelli Mussulmani e bloccare l’avvicinamento americano a Nasser. Il colpo di Stato della Cia in Iran del 1953, per sostituire il Primo Ministro nazionalista Mossadeq con lo Scià, fu preceduto da una serie di attentati contro leader religiosi organizzati dagli americani e attribuiti a fazioni comuniste per destabilizzare il Paese. Molti piani approvati dai governi rimasero poi sulla carta, come il Piano Northwoods con cui nel 1962 gli Usa cercarono il casus belli per invadere Cuba progettando attentati contro esuli cubani da parte di finti terroristi castristi. Con la «Guerra preventiva» di Bush e Obama, i false flag sono diventati narrazione, storytelling, pura fiction ad uso del mainstream globale.

FALSE FLAG DI BUSH E OBAMA. Nel nuovo secolo, i False Flag sono diventati lo strumento preferito di Washington per manipolare l’opinione pubblica e legittimare false guerre umanitarie. Anzi di più. Con la teoria della “Guerra Preventiva” di Bush continuata da Obama, i False Flag si sono trasformati in narrazione, storytelling, pura fiction ad uso del mainstream globale. E così è bastato andare all’Onu a mostrare in mondovisione una fialetta di antrace preparata dalla Cia dicendo che era stata trovata in Iraq, per legittimare l’invasione di quel Paese. Oppure consegnare ai media finti report su presunti crimini di Gheddafi commessi (o addirittura da commettere) contro innocenti “ribelli moderati” finanziati dall’Occidente per creare lo sdegno internazionale affinché la Nato potesse radere al suolo la Libia ed eliminare lo scomodo dittatore che faceva affari con tutto l’Occidente. La Siria è oggi il teatro della grande manipolazione con cui l’Occidente e i suoi alleati sunniti cercano di abbattere un governo non allineato. E i leggendari “bombardamenti chimici” di Assad sono i più straordinari False Flag degli ultimi anni.

IL PRECEDENTE DI KHAN SHAYKHUN. Già a Khan Shaykhun un anno fa, la storia della armi chimiche di Assad fu utilizzata in un’operazione mediatica senza precedenti; un’operazione a cui l’Onu, alla fine, ha dato legittimità producendo un rapporto incredibile per incongruenze e inaffidabilità; un rapporto redatto dal JIM (il Joint Investigative Mechanism) nel quale si ammette per esempio che gli esperti “non hanno mai visitato il luogo dell’incidente avendo deciso di soppesare i rischi per la sicurezza contro i possibili vantaggi per l’inchiesta”. In cui si dichiara che l’intero documento è stato costruito sulla base di relazioni, immagini redatte da “fonti aperte” in un’area che ricordiamolo, era sotto il controllo dei ribelli di Al Nusra e dei miliziani di Al Qaeda. Un rapporto che riconosce (ma decide di non indagare) incongruenze come quella delle molte vittime ricoverate negli ospedali in orari precedenti a quello del presunto bombardamento (p. 28-29). Un rapporto che decide di non tenere conto di una serie di studi di esperti indipendenti che sono giunti a conclusioni completamente diverse come quello clamoroso di uno scienziato del Mit di Boston che abbiamo pubblicato qui. Un rapporto che si dice “sicuro” che la Siria sia responsabile di un attacco chimico ma che per esempio alla pagina 22, ammette che ad oggi il JIM “non ha trovato informazioni specifiche che confermino che un SAA Su-22 operante dalla base aerea di Al Shayrat (quella che poi bombardò Trump per rappresaglia) abbia lanciato un attacco aereo contro Khan Shaykhun il 4 aprile 2017″. Il bombardamento di Douma sembra far parte della stessa identica narrazione: ci sono alcuni video che girano in rete e sul mainstream terribili di bambini morti ma senza alcuna reale elemento di identificazione e per chi volesse approfondire la questione lasciamo l’articolo di Sebastiano Caputo che da quella regione è tornato pochi giorni fa. È curioso che in entrambi i casi, l’attacco chimico di Assad avvenga quando l’esercito siriano sta per vincere la battaglia contro i ribelli e quindi non avrebbe alcun motivo di utilizzare armi che in termini tattici sono del tutto inutili (un retaggio della Prima Guerra Mondiale) ed in termini mediatici disastrose per chi le usa (mentre al contrario utilissime per chi le subisce). Ed è curioso anche che ogni volta, l’attacco si materializzi subito dopo che Trump ha annunciato cambi di politica in Siria: un anno fa, 4 giorni dopo dopo aver dichiarato che Washington non era più interessato all’allontanamento di Assad e ora 6 giorni dopo aver annunciato il ritiro delle truppe dalla Siria. Ed ogni volta, puntualmente, un oscuro e inspiegabile attacco chimico del regime impone a Washington e all’Occidente di riaprire la crisi con Assad.

GIÙ LE MANI DALLA SIRIA. Assad sta vincendo la guerra, Putin sta scombussolando i piani del nuovo Medio Oriente progettato da Occidente, Arabia Saudita e Turchia. L’America rischia di uscire a pezzi dai 20 anni di errori, guerre criminali e arroganti tentativi di ridisegnare la regione compiuti da Bush e Obama su ordine dell’élite neo-con che ha dominato Washington in questi anni. Trump, nonostante i toni bellicosi da cowboy di frontiera, sta forse provando ad arginare la pressione dell’élite globalista e del Partito della guerra che imperversa nei media e dentro il Deep State. Ma non è detto che ce la faccia. Ed è proprio nella lotta interna alla democrazia Usa che si gioca la partita della Siria e il futuro equilibrio del mondo.

ALL’1% GLI UTILI IDIOTI DELL’UCCIDENTE. La Siria di Ghouta e la Ghouta di Amnesty, Palmira e Babilonia, i nazifascisti in agguato, il gender e i migranti: quando i “sinistri” condividono distruzioni e distrazioni di massa, scrive Fulvio Grimaldi sul suo blogspot, riportato da Davide il 10 marzo 2018 su ComeDonChisciotte.  

Quelli “del popolo”. Quelli che risultano più nauseabondi sono sempre gli ipocriti. A partire dal “manifesto” e da tutta la combriccola pseudosinistra dell’imperialismo di complemento, che volteggia nel vuoto dell’interesse e del consenso di un elettorato italiano che, per quanto disinformato o male informato sulle cose del mondo, ha dimostrato di badare più alla sostanza che alle formulette di palingenesi sociale incise sulle lapidi della sinistra che fu. E la sostanza ci dice che mettere tutti sullo stesso piano, 5Stelle e ologrammi nazifascisti, Putin e Trump, opposti imperialismi, migranti in fuga da bombe Nato e migranti attivati dalle Ong di Soros, jihadisti a Ghouta Est e truppe governative, a dispetto dell’immane e unanimistica potenza di fuoco mediatica, poi produce al massimo l’1 virgola qualcosina per cento. Brave persone, certo (esclusi i paraculi fessi dei GuE), ma fuori dal mondo, da chi è il nemico e da come si muove l’1% finanzcapitalista e tecno-bio-fascista nell’era del mondialismo e dell’high-tech. E, permettetemi una risatina, neanche bravi, ma di un narcisismo solipsista che rivela tratti patologici per quanto è dissociato dal reale, quelli della Lista del Popolo (Chiesa, Ingroia, bislacchi e farlocconi vari), trionfalmente giunti allo 0,02%. Ma si può!

Di Maio tra omaggi a San Gennaro e Mattarella e rifiuto degli F35. Sebbene questo unanimismo di fondo in fatto di geopolitica tra gli ambiguoni o catafratti della sinistra ausiliaria del sistema e del sistema i militanti in divisa, possa aver confuso le idee a molti sulla partita che si gioca in Medioriente, o nei trasferimenti via Ong di popolazioni, o a proposito dello “Zar Putin” e dei suoi maneggi per non far vincere Hillary, basta a volte una piccola crepa e la luce passa e illumina quanto si voleva restasse al buio. Possiamo dire tutto e il contrario di tutto su Di Maio, ma credo che siano davvero pochini gli italiani che condividono l’idea che spendere 80 milioni al giorno per muovere guerre a chi non si sogna di disturbarci e che quindi non abbiano apprezzato il voto 5 Stelle contro ogni missione militare e contro l’acquisto degli F35. Questo al netto delle promesse di “normalizzazione” profferite ora a tutto spiano dal leader 5Stelle e che lo fanno apparire come il pifferaio di Hamelin le cui liete marcette si trascinano dietro tutti i ratti della prima e seconda repubblica. Pensano di salire sul carro del vincitore, ma nella storia il pifferaio i ratti li porta a precipitare nell’abisso. Di Maio se lo ricorda?   Non vorremmo che si finisse come la fiaba: che poi quelli trascinati via sono i bambini.

La Siria si riprende anche Ghouta: pacifisti e diritto umanisti a stracciarsi le vesti. Prendiamo la Siria, insieme a tutte le altre guerre, una dopo l’altra, che con ripetitività parossistica ci vendono come difesa dei diritti umani di un popolo massacrato dal proprio governante. Ci hanno seppellito in un bunker di menzogne: i tondini li forniscono le Ong tipo Amnesty International, HRW, MSF, la malta che li tiene insieme sono i media. Date un’occhiata a questo osceno appello di Amnesty perché si costringa Damasco a levare l’assedio alla Ghouta. Ancora una volta questo sempre più lurido arnese del bellicismo imperiale si fa riconoscere. Non una parola sul golem terrorista che da 7 anni sbrana la Siria e tiene ostaggi, ogni tanto massacrandoli, gli abitanti delle zone occupate. Mille parole perfide e lacrimose su Aleppo in corso di liberazione, non una parola su Raqqa polverizzata dai bombardamenti Usa, con tutti i suoi abitanti, mentre elicotteri prelevavano quelli dell’Isis per reimpiegarli, insieme agli ascari curdi, in altri crimini contro il popolo siriano.

Bimbi a Damasco. Ma poi nel calcestruzzo si apre una crepa. Ed è la pigrizia degli stereotipi. C’è sempre un dittatore che bombarda il proprio popolo, una massa sterminata di bambini uccisi, come se, per esempio, Ghouta, fosse tutta una scuola materna, ci sono sempre gli Elmetti Bianchi e i Medici senza Frontiere, grazie ai soldi di Soros, che stanno inevitabilmente dalla parte dei “ribelli” e che poi vengono esaltati e premiati dagli strumenti di comunicazione di coloro che le guerre le promuovono. Non mancano mai le “armi chimiche di Assad”, linea rossa che poi regolarmente sfuma, cancellata da prove e testimonianze (grazie russi!), come sono insostituibili i sanguinari jihadisti di Al Qaida e Isis contro cui gli imperiali dicono di combattere, ma dopo averli addestrati, armati e poi salvati dalle offensive dell’esercito siriano e suoi alleati. Qualcuno rovistando nel web si accorge, a dispetto della furia anti-fake news della Boldrini, che l’attacco siriano alla provincia di Ghouta avviene dopo sei anni che da lì i terroristi hanno ininterrottamente bombardato con razzi e mortai i 7 milioni di civili della capitale Damasco; che le centinaia di vittime dell’offensiva governativa su Ghouta, “soprattutto bambini”, sono il dato inventato dall’Osservatorio che i servizi britannici e i jihadisti gestiscono a Londra; che, se il governo spedisce colonne di autobus a evacuare la gente di Ghouta, o la Croce Rossa siriana prova a creare corridoi umanitari per rifornire di cibo e medicinali, a bombardare queste colonne e questi corridoi, voluti dal governo, saranno difficilmente gli stessi governativi. Nel documentario “Armageddon sulla via di Damasco” ho illustrato alcuni effetti del martellamento su Damasco, fino a 90 missili in una settimana. Dal mercato Al Hamidiyya, il più antico e bello del Medioriente, colpito nel momento di maggiore affollamento, alla stazione di autobus disintegrata nell’ora di punta, con schizzi di sangue e parti di corpo spiaccicati fin sul cavalcavia alto 20 metri. Immagini mie e di canali siriani che nessuno in Occidente ha mai ripreso. E’ successo mille volte, come centinaia sono state le incursioni aeree dei pirati israeliani. Avete sentito qualche sussurro di disapprovazione da Amnesty e compari?

Il “manifesto”: tutti uguali ma uno più uguale. Così, un po’ per volta, si aprono crepe, delle quali la più grossa è il dubbio che il “manifesto” e affini, quelli che si precipitano a fornire palchi e ghirlande ad Amnesty, non te la raccontino giusta quando mettono sullo stesso piano chi spara da Ghouta e chi avanza da Damasco e, anzi, trovano che i più cattivi siano coloro che “assediano” il sobborgo della capitale per eliminare uno degli ultimi bubboni tumorali incistati nel proprio territorio dai gangster imperialsionisti e mica quelli, sicari e mandanti, che vogliono mantenere, ai costi più inenarrabili, un presidio che tenga sotto tiro Damasco e impedisca la pacificazione e la vittoria dei giusti. Che sono poi anche le forze popolari siriane precipitatesi in soccorso ai curdi sotto attacco turco ad Afrin, a dispetto delle pugnalate alle spalle che questo mercenariato di Usa, Israele e sauditi, ha inflitto a chi ne aveva accolto, con tanto di cittadinanza, le centinaia di migliaia di fuggitivi dalle persecuzioni di Ankara.

Quando parla il popolo, non gli gnomi da giardino, il re buonista resta nudo. Le ambiguità e distorsioni dei media, a qualsiasi obbedienza politica pretendano di rifarsi, hanno iniziato a frantumarsi contro il muro della realtà. Elezioni politiche che mozzano gli arti alla principale forza di dominio e relegano nell’irrilevanza chi gli opponeva formule di rito anni ‘50, del tutto avulse da quanto una chiara percezione dello stato di cose reale richiederebbe, dimostrano che il re è nudo e nudi sono anche principi, duchi, baroni, paggi, nani e ballerine. La menzogna ha esaurito la sua capacità mistificatrice. Da fuffa e nebbia, demagogia presidenziale e pontificale, sono scaturiti irresistibili gli abusi inflitti dai dominanti ai dominati sul piano sociale, economico, ambientale, di lavoro, scuola, salute. Ma forse anche i crimini dei quali ci hanno voluto partecipi, anche a spese nostre, compiuti contro altri popoli. Non sarà un caso che gli unici vincitori di questa contesa elettorale siano coloro che a spese e avventure guerresche, come alle sanzioni che a queste si accompagnano, si sono sempre opposti. E se questa barra la manterranno dritta, sarà già molto.

Al potere via decostruzione e migrazione. Che sono poi anche quelli che, in un modo o nell’altro, quale corretto ed equo, quale rozzo e falsamente motivato, hanno messo in dubbio la sacralità dei facilitatori delle migrazioni “per fame, guerra, persecuzioni”. Il che ci porta a un’altra considerazione. Invasori e terrorismo jihadista ha posto particolare accanimento nella distruzione delle vestigia storiche delle nazioni che sono stati mandati ad assaltare. Ong, umanitaristi, sinistre, Don Ciotti e missionari nelle colonie, Soros, briciole sinistre, sostengono l’accoglienza dei rifugiati senza se e senza ma. Ci sono punti di contatto, affinità di obiettivi, tra queste forze e le campagne che condividono? Non penso al semplicistico discorso che individua causa ed effetto nelle bombe e nelle conseguenti fughe. Lo stereotipo del “fuggono da guerre, fame e persecuzioni”. Penso a una manovra a tenaglia che cancella corpi e spirito di comunità formatesi nel sangue, nei progetti, nelle sconfitte e nelle rinascite, nella lingua e nei costumi, su una comune terra, in rapporto con lo stesso ambiente ed è così che ha acquisito conoscenza e coscienza di sé, identità, autostima, volontà di perpetuarsi e crescere. Un fiore nell’infinita ricchezza della varietà dei fiori. Prima di manipolazioni e ibridazioni. Se, io élite di infima minoranza, perseguo un progetto di dominio mondiale assoluto che solo a me e ai miei subalterni obbedienti convenga, delle forze così formatesi e così composte, altrettante negazioni al mio disegno, devo liberarmi. E’ conditio sine qua non per l’affermazione del progetto mondialista. La mia operazione a tenaglia consiste, primo, nel cancellarne i segni della storia, delle opere compiute, le fondamenta dell’edificio che una comunità, un popolo, una nazione, devono avere sempre in corso d’opera se intendono avere un futuro. Del resto, senza queste tessere del mosaico, l’umanità si estingue. L’élite regnerà sul deserto o su un altro pianeta. E, secondo, nello sradicarli, spostare quelli che non ho decimato con guerre militari o economiche, tagliare radici, staccare il fogliame dal tronco, disperderlo, alienarlo da se stesso, confondendolo in quello che chiamano “meticciato”. Erano le mie ultime ore nella Baghdad che ho illustrato in “IRAQ: un deserto chiamato pace”, aprile 2003. I carri Usa, penetrati in città avevano sparato i primi colpi contro l’Hotel Palestine, dove stavamo noi giornalisti che non avevamo seguito l’ordine di Bush di far parlare solo gli embedded al seguito degli invasori. Morirono un mio amico di Al Jazeera e un reporter spagnolo. Uscendo dalla città in taxi passai accanto al Museo Nazionale: Protetta da reparti angloamericani, manovalanza importata dal Kuweit stava già saccheggiando la più ricca testimonianza della storia araba e irachena, dai sumeri agli Abbassidi, anche a beneficio dei predatori dei caveau occidentali. Subito dopo avrebbero disperso e bruciato i testi, resi sacri dal tempo e dall’amore dei loro lettori, della Biblioteca Nazionale, dalle tavolette cuneiformi della prima scrittura, alla magnificenza letteraria delle Mille e una notte e ai traduttori arabi di Aristotele. Intanto i carri americani si preparavano a travolgere sotto i propri cingoli Babilonia, Ur, Niniveh, Samarra, Nimrud, Ctesifonte, Hatra. Quattromila anni di creatività umana, di civiltà, di culla della civiltà. Meticolosamente, sistematicamente polverizzati o predati. E poi stessa procedura in Siria, Aleppo, Palmira, Libia, Gaza, ovunque la pianta umana fosse più antica, robusta, rigogliosa, degli stenti arbusti, delle misere gramigne di chi a una cultura annegata nel sangue ha sostituito centri commerciali, tecnologie decerebranti e arsenali atomici.

Mosul. In parallelo i migranti, pezzi interi di popoli, 6 milioni di siriani spodestati, un milione a disposizione dei minijob di Angela Merkel. E, logicamente, afghani, iracheni, libici, pachistani e, soprattutto africani: basta seccare con una megadiga Impregilo un fiume come l’Omo in Etiopia e 60mila perdono l’acqua, i coltivi, la sussistenza, diventano foglie secche al vento che qualche Ong seduce a farsi schiavi “meticciati” in un bengodi di sfruttati europei. Come si vede in ogni sequenza che ci induce a impietosirci e a condividere “l’accoglienza”, sono in stragrande maggioranza giovani con i tempi e le forze capaci di futuro. Un futuro abbandonato alle multinazionali a casa propria, ma per il quale fornire braccia e saperi In Occidente. Sono giovani, in grado di affrontare i pericoli della filiera del traffico di carne umana, ma non procreeranno più per la continuità di una comunità arrivata fin ad oggi a dispetto di prove di ogni genere, procreeranno per il “meticciato”. A compensare ciò che da noi, nell’esaltazione dei generi e transgeneri della sterilità, non nasce più. E se crediamo che da tutto ciò noi siamo esenti, proviamo a gettare uno sguardo fuori dalla finestra, tra un asilo nido che non c’è e una famiglia che il precariato di sistema rinserra in sogni frustrati. Diamo un’occhiata ai territori terremotati, banco di prova e cartina di tornasole di un altro fronte della stessa guerra. Credete che, a quasi due anni dal sisma con migliaia ancora nei campeggi al mare, in alloggi di fortuna lontani, con attività produttive sparite per sempre, con la ricostruzione neanche di una stalla, si tratti solo di inefficienza, ritardi, risse per appalti? Ho girato per quelle terre palmo a palmo (“O la Troika o la vita – Non si uccidono così anche le nazioni”). Paesi con le radici nell’impero romano e le chiese del Medioevo, dove hanno lasciato segni Arnolfo da Cambio, Mantegna, Leopardi, Piero della Francesca: tesori inenarrabili. I terremotati li vogliono scoraggiati, esportati, migranti anche loro, i territori privati di una economia nativa, sorta dal genius loci, anacronisticamente non sovranazionale, ma legata ai bisogni locali, ai biotopi naturali e umani. Spopolare per nuove destinazioni d’uso. Sovranazionali. Come quando sradicano con gli ulivi l’anima della Puglia, per far posto a gasdotti e resort di Briatore. Rifugiati nostrani di cui nessuno tiene conto e né Soros, né alcuna Ong dei diritti umani reclamano un’accoglienza senza se e senza ma. Tutto questo Pippo non lo sa. Tutto questo quelli dell’1% “rosso”, PaP (Potere al Popolo), i PC (le scissioni dell’atomo), o LuE (i neoliberisti, NATOisti, Bruxellisti, insofferenti di Renzi), non lo sanno. Sepolti nell’altroieri, del progetto capitalista e della relativa strategia non studiano e non vedono neanche la più abbagliante evidenza. Nanetti da giardino occupati a strappare erbacce, mentre fuori cresce una giungla di piante carnivore. E non si accorgono che, ignorando quella strategia, ogni lotta contro il precariato di vite e lavoro è già persa, mentre sono del tutto compatibili quelle contro le molestie, per i matrimoni e le adozioni gay, per ogni più fantasiosa invenzione di genere come fieramente esibite in quelle manifestazioni d buongusto e di cultura popolare che sono i Gay Pride, contro la minaccia dell’Onda Nera nazifascista. Minaccia eroicamente combattuta, da Macerata a Milano a Roma a Palermo, con l’illusione di ricavarne dividendi boldriniani e poi spassosamente risultata pulviscolo littorio allo 0,9%, Casa Pound, e allo 0,37% Forza Nuova. Tocca scioglierli per salvarci dall’orrore di nuovi Farinacci e Himmler, era l’invocazione tonitruante della Boldrini, grande specialista di armi di distrazione di massa. Intanto, però, il mondo reale scioglieva lei e i suoi scioglitori. E senza neanche un sorso di olio di ricino. Ma più compatibile, anzi, più gradita di tutte, è la campagna per l’accoglienza dei migranti. Roba di sinistra, ca va sans dire.

I non detti di Ghouta, scrive Sebastiano Caputo il 22 febbraio 2018 su "Il Giornale". Tutto ciò che accade in queste ore nella periferia di Damasco, di preciso a Ghouta, è filtrato da una sconcertante quanto irresponsabile narrativa. In Siria c’è la guerra da oltre sette anni eppure i grandi e autorevoli mezzi d’informazione sembrano accorgersene solo ora perché gli ingredienti per la mistificazione della realtà non mancano affatto. La meccanica comunicativa è più o meno sempre la stessa: una produzione di notizie scollegate fra loro e confezionate dentro un frame, cioè la cornice giornalistica da cui è impossibile sfuggire, in questo caso “la mattanza di Ghouta perpetuata dall’aviazione del governo siriano”. Seguono immagini scioccanti – in larga parte riportate dai “White Helmets”, il braccio umanitario e mediatico dei gruppi terroristici- che mostrano le tragiche conseguenze “dell’offensiva”, intere abitazioni rase al suolo, cadaveri sulla strada, donne in lacrime, ambulanze, soccorritori in cerca di cadaveri tra le macerie. Le riprese sono di qualità, il logo con l’elmetto bianco appare di continuo, le fotografie vengono scattate con cura. Nell’album emerge un’istantanea che diventa il simbolo di un assedio: una bambina col pigiama rosa – la scelta del pigiama non è casuale e richiama di riflesso i campi di concentramento nazista – che viene tratta in salva da casa sua. Esattamente come ad Aleppo, quando il piccolo Omran Daqneesh fu immortalato coperto di sangue e polvere nell’ambulanza, peccato che poco tempo dopo il padre svelò la tecnica dei White Helmets i quali presero il bambino ancora sporco e scosso dai bombardamenti e lo gettarono in mondovisione sul loro profilo Twitter certi che le agenzie occidentali lo avrebbero alzato come trofeo. Alla sequenza di immagini trasmesse a ripetizione – peraltro sempre le stesse – seguono i dati. A contare i morti ci pensa il generatore di notizie diretto da un solo uomo che vive in Inghilterra: l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani. Ad accodarsi a questo macabro spettacolo del dolore sono le organizzazioni non governative occidentali – Unicef, Save The Children, Médecins Sans Frontières – che mentre mettono in primo piano i cadaveri putrefatti di donne e bambini raccolgono donazioni – tramite squallidi banner pubblicitari – dai lettori distratti e travolti da un flusso ininterrotto di lacrime.  Nessuno vuole negare le conseguenze immonde della guerra, il problema, ancora una volta, sono i non detti dell’offensiva di Ghouta.  Chi vive nel sobborgo di Damasco? Chi sono questi ribelli (che se ci fate caso non vengono più nemmeno definiti “moderati”)? Come agiscono? E come fa un’enclave, senza sbocchi autostradali, a fornirsi di armi e munizioni? Questo spazio geografico si è ritagliato nella contorta mappa militare nel lontano 2012 e si colloca sul lato nord-orientale, alle porte della capitale. Quasi 400mila civili sono tenuti praticamente in ostaggio da tre fazioni jihadiste legate a doppio filo con Al Qaeda - Faylaq al Rahman, Tahrir al Sham e Jaysh al Islam – che da anni attaccano i quartieri centrali di Damasco – non lontani dal Suk – a colpi di mortai. L’offensiva dell’esercito siriano è stata rafforzata per rispondere agli attacchi contro i damasceni che si sono intensificati proprio in questi giorni. Molti di loro hanno perso la vita ma se ne parla poco perché la narrativa occidentale è monodirezionale e classifica i civili siriani in due categorie: alcuni sono più vittime di altri. Ghouta è anche quel luogo in cui vengono fabbricate e utilizzate armi chimiche come dimostrò l’attacco del 21 giugno del 2013 in cui inizialmente furono lanciate accuse contro il governo di Bashar al Assad, poi smentite dal premio Pulitzer Seymour Hersh e rispedite al mittente fornendo le prove che invece incolparono proprio quei ribelli “angelizzati” dalla stampa occidentale, i quali le utilizzarono per trascinare l’amministrazione Obama in guerra. Ecco, fin quando i grandi esperti con i loro look confortevoli o i commentatori isterici non vi risponderanno a queste domande precise vorrà dire che sono alimentatori inconsapevoli di questa grande macchina della disinformazione, o furbetti che coprono per chissà quali interessi veri e propri gruppi terroristici complici dei peggior crimini che loro stessi denunciano. 

Erdogan tuona sui civili di Ghouta, ma quelli di Afrin sono “terroristi”, scrive il 27 febbraio 2018 Lorenzo Vita su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". In questa guerra di Siria tutto assume connotati incredibili, anche Erdogan che si erge a paladino del diritto internazionale e umanitario. Parlando della tragedia umanitaria della Ghouta orientale, il portavoce del presidente turco ha scritto che “il regime sta commettendo massacri” e che “il mondo dovrebbe dire stop a questo massacro insieme”. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, venerdì scorso ha invitato la Russia e l’Iran, alleati della Siria di Assad, a “fermare” le bombe su Ghouta Est, parlando del bombardamento del sobborgo damasceno come qualcosa che passerà alla storia come la “Srebrenica siriana”. Il presidente turco ha deciso di sposare, in questi giorni, una linea fortemente negativa nei confronti dell’avanzata di Damasco nel sobborgo della Ghouta orientale. Rompendo quasi definitivamente il patto di Astana con Putin e Rohani, Erdogan ha deciso di intraprendere una campagna assolutamente contraria al governo facendo tornare indietro le lancette dell’orologio ai tempi delle prime rivolte contro Assad, quando Ankara sosteneva il rovesciamento del leader siriano e le milizie che si ergevano in tutta la Siria. E ovviamente sfrutta la questione della Ghouta orientale per colpire il governo siriano e imporre la propria linea nello scacchiere settentrionale siriano. Erdogan è così: chi lo tutela ha la sua collaborazione e chi non lo tutela diventa nemico. E sono sempre i curdi dell’Ypg l’ago della bilancia. Quando gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere le milizie del Rojava e del nord dell Siria, il presidente turco ha abbandonato nella sostanza l’alleanza con Washington schierandosi con Mosca e sostenendo il piano delle de-escalation zones con l’Iran e la Russia. Adesso che ha intrapreso l’operazione “Ramoscello d’ulivo” e ha scatenato le forze armate contro i curdi di Siria, ottenendo il confronto diretto con la Siria, eccolo di nuovo andare contro il governo di Damasco e provare a riallacciare i rapporti con gli Usa. Nel frattempo, ha intrapreso contro i curdi una campagna militare cruenta, che sta tenendo sotto scacco intere città e dove ci sono già le prime accuse di uso di gas contro i villaggi. Soltanto che, secondo Ankara, c’è una differenza. Mentre per Erdogan la risoluzione Onu sulla tregua è giusta per fermare il massacro della Ghouta orientale, la stessa cosa non vale per Afrin, Manbij. La Turchia ha accolto positivamente l’approvazione della tregua umanitaria in Siria, ma ha subito messo le mani avanti, dicendo che questo non avrà alcuna conseguenza su Afrin e l’offensiva di terra nel nord della Siria perché “resterà risoluta nella battaglia contro le organizzazioni terroristiche che minacciano l’integrità territoriale e l’unità politica della Siria”. Non c’è discussione sul fatto che questa decisione” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu “non abbia alcun effetto sulla operazione che la Turchia sta portando avanti”, ha confermato il vice premier turco, Bekir Bozdag, mentre Erdogan ha sottolineato che l’offensiva “continuerà fino a che l’ultimo terrorista sarà distrutto”. “Sembra che sarà una estate dura e calda per i terroristi e per i loro sostenitori. Prima ripuliremo Manbij, poi tutta l’area a ovest dell’Eufrate”, così si è espresso Erdogan. Parole non troppo dissimili da quelle rivolte dal blocco a sostegno di Assad nei riguardi dell’offensiva contro Ghouta Est e altre sacche. Eppure, se per Erdogan questi sono massacri sui civili, quella che ha intrapreso la Turchia è solo un’offensiva contro il terrorismo. Un interessante punto di vista che fa riflettere su quanto sia importante l’uso del linguaggio in un conflitto che si svolge anche con le definizioni.

Ghouta Est: quando i ribelli mettevano i civili in gabbie, scrive "Piccole note" il 27 febbraio 2018 su "Il Giornale". La Russia ha stabilito che da oggi, ogni giorno, ci sarà una tregua umanitaria per Ghouta Est, dalle 9 alle 14 e chiesto l’apertura di vie di fuga per i civili che vi abitano. La pressione internazionale per fermare l’attacco dell’esercito siriano diretto all’enclave di Damasco controllata dai cosiddetti ribelli ha sortito un primo effetto. Vedremo gli sviluppi: anche la campagna per la riconquista di Aleppo Est fu uno stillicidio di stop and go, a causa da una pressione internazionale diretta a contrastare le operazioni dell’esercito siriano.

La Caritas siriana denuncia lo squilibrio dell’informazione. Esattamente quanto accade adesso, grazie una fortissima campagna mediatica che dipinge l’operazione contro Ghouta Est come brutale e i ribelli come eroi in lotta contro il sanguinario regime di Assad. La guerra è brutta, anche quelle giuste (quella di liberazione dal nazifascismo, ad esempio, conobbe ombre terribili: Dresda, Cassino, Hiroshima e Nagasaki…). Ma questa sembra più brutta di altre. E i ribelli che la combattono più umanitari di altri: ecco che foto e video li immortalano mentre, premurosi, soccorrono i feriti e altro e più stucchevole. Nessuna notizia di quanto da essi perpetrato a Damasco in questi giorni. Tanto che anche la Charitas siriana, in un raro comunicato, ha sbottato: «La maggior parte dei reportage giornalistici si concentra sui bombardamenti effettuati dalla Siria e dalla Russia su Ghouta Est». Nulla si dice invece di quanto avviene a Damasco, martellata ogni giorno «dall’inizio del 2018» da «colpi di mortaio» sparati da quel quartiere (vedi anche Piccolenote). Come anche nessuna notizia sul raid degli Stati Uniti a Deir Ezzor compiuto in questi stessi giorni: 25 i civili uccisi (Xinhua). D’altronde tale silenzio è in linea con quanto accaduto a Raqqa, città coventrizzata dagli Stati Uniti per scacciarne l’Isis (questa la narrazione ufficiale).

Le gabbie umanitarie degli eroi di Ghouta Est. Resta che se il quartiere di Ghouta Est non viene liberato, gli altri quartieri di Damasco resteranno preda dei bombardamenti dei ribelli cari ai circoli che stanno perpetrando il regime-change siriano. A meno che i loro sponsor internazionali non li fermino, cosa che non hanno alcuna intenzione di fare. Gli servono perché sono fonte di destabilizzazione permanente della capitale siriana. Così anche le campagne umanitarie servono a uno scopo prettamente bellico: a evitare che Ghouta Est cada ed essi perdano un tassello prezioso nella prospettiva di portare al collasso il governo di Damasco, logorandone la resistenza.

Ma chi sono gli eroi di Ghouta Est? Si tratta di alcune milizie jihadiste, subordinate ad al Nusra (al Qaeda), la più forte e organizzata. Istruttivo un report di Human Rights Watch, organizzazione non certo filo-Assad, del 2015: «I gruppi armati siriani mettono in pericolo i civili, incluse le donne» che espongono «in gabbie di metallo in tutta Ghouta orientale». Un crimine di guerra, spiega HRW, che i miliziani hanno usato per evitare gli attacchi del governo siriano. Importante quel cenno a «tutta Ghouta orientale» contenuto nel testo: indica che le gabbie dell’orrore sono state usate da tutte le milizie presenti a Ghouta, non dalla sola al Nusra. Nel report di HRW un cenno a un altro video che immortala «camion che trasportano gabbie, ciascuna contenente da quattro a otto uomini o donne». I «ribelli di Ghouta hanno distribuito 100 gabbie, ogni gabbia contiene circa sette persone e il piano è quello di produrre 1.000 gabbie da distribuire nella Ghouta orientale». Il bello è che lo sanno anche loro: anche la Cnn, infatti, aveva ripreso quel video (cliccare qui). Allora, quelle terribili immagini servivano per denunciare la brutalità dell’estremismo islamico. E così giustificare un intervento americano in loco. Oggi non servono più, anzi. Così sono semplicemente obliate. La guerra siriana, come anche altre (Yemen ad esempio), è «disumana», come ha detto papa Francesco all’Angelus di domenica. Quelle immagini lo documentano nella maniera più agghiacciante. Come disumana è la cortina fumogena che intossica le informazioni su quanto realmente sta avvenendo in quel martoriato Paese.

Stati Uniti, ecco la verità sulla foto del bimbo in gabbia, scrive il 20 giugno 2018 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra su "Il Giornale". È uno scatto che in poche ore è diventato virale, condiviso sui social network di tutto il mondo. È la foto di un bimbo intrappolato in una gabbia che molti negli Stati Uniti hanno condiviso per rappresentare la crudeltà della strategia dell’amministrazione Trump contro l’immigrazione illegale proveniente dal Messico e di come questa politica stia separando i bambini dalle loro famiglie. La “tolleranza zero” di Trump nei confronti degli irregolari che raggiungono la frontiera sud nel tentativo di entrare in territorio americano infiamma il dibattito politico in tutto l’Occidente e la fotografia del bimbo in gabbia ne è diventata simbolo. Ma dietro quella straziante fotografia c’è ben altro.

Cosa si nasconde dietro la foto del bimbo in gabbia. Come racconta Breitbart, la foto è stata diffusa su Twitter la scorsa settimana dopo che il giornalista e regista Jose Antonio Vargas l’ha twittata con tanto di didascalia: “Questo è quello che succede quando un governo crede che le persone siano “illegali”. I bambini in gabbia”. In poche ora, migliaia di persone hanno diffuso il post contro le politiche sull’immigrazione dell’amministrazione Trump e incoraggiato altri a condividerlo per sensibilizzare l’opinione pubblica. Il bimbo però non era stato intrappolato in una gabbia dalle autorità americane, né si trovava al confine con il Messico: la foto in realtà proviene da una protesta del 10 giugno organizzata fuori dal municipio di Dallas, secondo il sito web Snopes. Gli attivisti hanno organizzato quest’iniziativa proprio per protestare contro la pratica dell’amministrazione Trump di prendere in custodia le famiglie di immigrati irregolari e separare i bambini dagli adulti. Il Texas chapter of the Brown Berets de Cemanahuac – il gruppo che ha organizzato la manifestazione – ha postato diverse fotografie dell’evento sui social network, alla quale era presente lo stesso bimbo ritratto nella foto. “È stato lì dentro soltanto 30 secondi” ha ammesso Leroy Pena, leader dei manifestanti.

Cosa succede al confine tra Messico e Stati Uniti. Nonostante la fotografia, il problema è certamente serio, anche se non dipende tutto dal presidente Donald Trump. Come spiega Panorama, dal 19 al 31 maggio circa 2.000 minori sono stati allontanati dai genitori. Mentre questi ultimi sono accusati di un reato (immigrazione clandestina) nei confronti dei bambini non vi è alcuna accusa, per questo non possono essere arrestati. Vengono dunque collocati in strutture governative in attesa che i tribunali si pronuncino sui singoli casi dei genitori. Il problema, però, risale a prima. Come riporta Fox News, benché l’amministrazione Trump venga criticata per separare i bambini dagli adulti che entrano illegalmente nel paese, la questione non è affatto nuova. L’amministrazione Obama ha in realtà inasprito il sistema di detenzione delle famiglie a seguito dell’imponente ondata migratoria del 2014. La politica ha portato molti minori a essere detenuti in varie località, in condizioni spesso critiche, sia con le loro famiglie che da soli.  Le condizioni di queste persone e dei bambini sono state documentate in molti resoconti e relazioni di organizzazioni per i diritti umani. All’epoca, i funzionari dell’amministrazione Obama sostenevano di non avere altra scelta che attuare politiche intese a dissuadere le famiglie dall’entrare illegalmente negli Stati Uniti.

Cos’è cambiato con Trump. La differenza è che l’amministrazione Trump sta ora separando i bambini dai genitori che vengono perseguiti penalmente per il reato di immigrazione clandestina. I bambini non vengono accusati di crimini e vengono messi sotto la custodia delle autorità. Come sottolineato dal procuratore generale Jeff Session, prima che Trump diventasse presidente si era sparsa la voce che chiunque avesse tentato di attraversare il confine con un minorenne avrebbe quasi certamente avrebbe ricevuto “l’immunità da ogni accusa”. I risultati sono drammatici. “Il numero degli immigrati irregolari con bambini al seguito è passato da 14.000 a 75.000 negli ultimi quattro anni” ha osservato Sessions, che ha aggiunto: “Non possiamo e non vogliamo incoraggiare le persone a portare i figli dando loro l’immunità”. Verso la fine di maggio, l’American Civil Liberties Union ha annunciato di aver ottenuto migliaia di documenti governativi che hanno dimostrato “l’abuso e l’abbandono dei minori immigrati non accompagnati detenuti dall’autorità doganale degli Stati Uniti” durante la presidenza di Obama, dal 2009 al 2014. Amministrazione Obama che, come ricorda Abc, citando fonti governative, ha deportato più persone di qualsiasi altra amministrazione nella storia. Da parte dei liberal e dei dem americani c’è evidentemente molta ipocrisia, visti i recenti trascorsi.  

La storia della guerra in Siria spiegata in nove mappe, scrive l'1 luglio 2018 Alberto Bellotto su "Gli occhi della Guerra" su "Il Giornale". L’inizio del disastro siriano ha una data ben precisa, il 15 marzo del 2011. Anche la Siria, come molti altri Paesi, viene investita dall’ondata di proteste che passerà alla storia con il nome di Primavere arabe. Moti di piazza, in molti casi violenti, che hanno squassato la sponda sud del Mediterraneo. In Siria tutto parte dalla piazza di Daraa nel sud del Paese. La protesta poi dilaga anche in altri centri come Latakia e Samnin. Già ad aprile viene schierato l’esercito a sud e la città viene posta sotto osservazione. Nel frattempo, tra aprile e maggio, anche altre città scendono in piazza: Aleppo, Idlib, Raqqa, Damasco, Hama e Homs, solo per citarne alcune. Ma le proteste, violente e con decine di vittime, si trasformano presto in un conflitto aperto. Nel corso dell’estate nasce un primo nucleo di ribelli, l’Esercito siriano libero, composto da cittadini e alimentato progressivamente dalle diserzioni dell’esercito regolare. Tra ottobre e novembre la città di Homs cade nelle mani dei ribelli e il governo non riesce più a riprenderne il controllo (tornerà sotto Damasco solo l’8 maggio del 2014). Quanto avviene nel Paese attira molto presto anche le componenti islamiche più violente e, lentamente, le proteste si trasformano in una guerra per il controllo del territorio in cui acquistano sempre più potere le sigle jihadiste. Secondo Site, sito che monitora formazioni e gruppi terroristici, il 23 gennaio nasce ufficialmente Jabhat al Nusra. Inizialmente si tratta di una sigla responsabile di attentati a Damasco ed Aleppo. James Clapper, all’epoca capo dello United States Intelligence Community (l’entità del governo federale che supervisiona le attività di Intelligence) dichiara che al Qaeda è pronta a intervenire in Siria con attenti. È la conferma che anche la rete del terrore globale ha trovato uno sfogo nel quadrante siriano. Rispetto però ad altri conflitti, la Siria rappresenta quasi un unicum nel panorama delle guerre mediorientali. Negli anni più intensi del conflitto, tra il 2013 e 2015, nel Paese ci sono decine di gruppi diversi. Una galassia di formazioni che infiammano la guerra, sfidano il governo di Damasco e si contendono centimetri di territorio. È praticamente impossibile stabilire con certezza quante siano le formazioni che hanno combattuto nella guerra civile siriana. Alcune sono scomparse, altre si sono fuse sotto un’unica insegna mentre altre ancora hanno attraversato cambi di nome e rebranding, come la stessa Jabhat al-Nusra, rinominata Jabhat Fateh al-Sham nel 2016 e Hayat Tahrir al-Sham nel 2017. Tra il 2013 e 2014 è entrato nello scenario in modo molto prepotente anche lo Stato islamico con un’avanzata travolgente. Nata da una costola di al Qaeda e in rotta con la propria emanazione siriana di al-Nusra, l’organizzazione di Al Baghdadi è protagonista di un’ascesa inarrestabile. In Siria si scontra con tutti, il governo di Bashar al Assad, le altre sigle ribelli, cui ad esempio strappa Raqqa nel gennaio del 2014, e conquista quasi metà delle regioni orientali della Paese, questo fino almeno al suo crollo nel 2017. Attraverso i dati dell’Integrated Crisis Early Warning System (Icews) è stato possibile ricostruire almeno parzialmente quanto avvenuto in Siria nei lunghi anni del conflitto. Gli Occhi della Guerrahanno rielaborato la mole di dati dell’Icews ed estratto i dati dei maggiori gruppi attivi nel Paese. In generale, l’Isis è stata forse l’unica organizzazione a realizzare attacchi a 360 gradi in tutto il Paese, da Nord a Sud e da Est a Ovest. Tra i centri più colpiti ovviamente le città come Damasco e Aleppo. Diverse anche le sortite contro Kobane, Homs e Idlib. Discorso un po’ diverso per Al Qaeda e Al Nusra. Gli attacchi principali hanno coinvolto la fascia occidentale del Paese, con particolare Aleppo e Damasco. Da segnalare soprattutto la città di Idlib, dove ancora oggi la sua derivazione, il fonte Hts, controlla gran parte del territorio. Agli albori del conflitto già un’altra formazione islamista si era resa protagonista di attentati e attacchi, si tratta di Ahrar al-Sham (“Gli uomini della grande Siria”), un fronte salafita nato nel dicembre del 2011 che può contare su almeno 20mila uomini. I suoi attacchi sono stati concentrati, come quelli di al Nusra, lungo la costa, in particolare Aleppo e Idlib, ma anche nella provincia di Hama e nella città costiera di Latakia. Discorso diverso per le operazioni curde. In particolare nella furiosa battaglia di Kobane, avvenuta tra il settembre del 2014 e il gennaio dell’anno successivo, ma anche nella Rojava, nella provincia di Hasaka e a Raqqa dove entrarono vittoriosi nel giugno del 2017. Ma le milizie del popolo hanno combattuto anche in alcuni quartieri di Aleppo, con operazioni molto osteggiate dall’Fsa. L’Esercito siriano libero ha invece operato massicciamente su tre quadranti, Aleppo, Damasco e Idlib salvo poi venire ridimensionato dalla risposta del governo siriano e finendo col diventare una milizia nell’orbita della Turchia. Nel conflitto siriano ha trovato posto anche una galassia di milizie sciite riconducibili all’Iran e soprattutto ai libanesi Hezbollah, che sono state molto attive a Damasco, ma anche nella provincia di Idlib e ad Aleppo. 

Le tre grandi bugie sulla tragedia. Le responsabilità? A Washington. Per gli errori di Obama il Paese rischiava di finire all'Isis, scrive Gian Micalessin, Giovedì 15/12/2016, su "Il Giornale". Chi oggi a Washington, Londra, Parigi e anche qui da noi piange lacrime da coccodrillo per la sorte dei quartieri orientali di Aleppo strappati ai ribelli jihadisti e qaidisti farebbe meglio a recitare un doveroso «mea culpa». La tragedia di Aleppo e della Siria, non è figlia del cattivo Vladimir Putin, ma del mal orchestrato piano messo in piedi cinque anni fa dall'amministrazione Obama con la complicità di Inghilterra e Francia in Europa e di Turchia, Arabia Saudita e Qatar in Medio Oriente. Un piano che, al pari di quanto successo in Libia, rischiava di consegnare la Siria al caos e all'orrore jihadista. Un piano che da una parte ha generato l'Isis e dall'altra quei ribelli «moderati» che ad Aleppo si sono macchiati delle stesse atrocità di Jabat Al Nusra, la costola siriana di Al Qaida. Per capire veramente cosa succede in queste ore è necessario far piazza pulita di almeno tre grandi menzogne.

ALEPPO, UN ASSEDIO INIZIATO DAI RIBELLI. Da quando in Siria è scesa in campo la Russia di Putin la battaglia di Aleppo è diventata, per definizione, un assedio condotto dalle forze governative colpevoli di bombardare i ribelli e i civili arroccati nei quartieri orientali. La realtà è esattamente opposta. A iniziare e condurre l'assedio sono stati i ribelli scesi dal confine turco nell'estate del 2012. Da allora Aleppo non ha conosciuto pace. Per tre anni, fino all'intervento russo del settembre 2015, la maggioranza della popolazione fedele ad Assad - tra cui gli abitanti dei quartieri cristiani - sono sopravvissuti senza acqua ed elettricità subendo gli assalti e i bombardamenti, praticamente quotidiani, delle forze ribelli decise a trasformare la città nella capitale dei cosiddetti «territori liberati».

LE ATROCITÀ DEI «MODERATI». In queste ore le milizie governative sono accusate di aver eliminato un'ottantina di militanti jihadisti catturati dopo la resa. Nelle zone di Aleppo controllate dai ribelli atrocità ed esecuzioni sommarie erano all'ordine del giorno da quattro lunghi anni, ma nessuno s'è mai indignato troppo. A dar retta al rapporto di «Amnesty International» «Torture was my punishment» («La tortura è stata la mia punizione») dello scorso giugno torture, esecuzioni sommarie, rapimenti e violazioni dei diritti umani erano la regola sia nelle zone di Aleppo, sia in quelle della provincia di Idlib, controllate dai ribelli. E tra i crimini più odiosi venivano segnalate le uccisioni di decine di sventurati accusati di apostasia o di omosessualità. Crimini giustificati con l'osservanza della legge coranica e perpetrati non solo dai gruppi di matrice terroristica come Jabhat Al Nusra, ma anche formazioni come il Fronte del Levante, la Divisione 16 o il movimento Nouradin Al Zenki, inserite dalla Cia negli elenchi dei gruppi autorizzati a ricevere armi e appoggi dall'amministrazione Obama.

CIVILI USATI COME SCUDI UMANI DAI RIBELLI. Mosca e Damasco vengono accusati di bloccare l'evacuazione dei civili intrappolati nei quartieri orientali. Secondo un comunicato della commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite di Ginevra datato 14 dicembre 2016 (cioè ieri) i primi a bloccare la fuga della popolazione sono i gruppi ribelli che da mesi utilizzano i civili come scudi umani. «La commissione continua a ricevere segnalazioni secondo cui alcuni gruppi dell'opposizione, tra cui il gruppo terroristico di Jabhat Fatah al-Sham (ex Jabhat al Nusra) e Ahrar al-Sham impediscono ai civili di fuggire mentre i combattenti dell'opposizione si mescolano alla popolazione aumentando il rischio che dei civili vengano feriti o uccisi». Un comunicato estremamente chiaro, ma stranamente tenuto nascosto all'opinione pubblica internazionale.

Il piano per far dimettere il papa "comunista", scrive Antonio Socci il 28 febbraio 2017 su Libero Quotidiano”. Giorni fa Der Spiegel ha riferito le parole di papa Bergoglio ad alcuni fedelissimi: «Non è escluso che io passerò alla storia come colui che ha diviso la Chiesa Cattolica». È per questo che il suo amico Eugenio Scalfari lo considera il più grande «rivoluzionario». Tempo fa una copertina di Newsweek si chiedeva se il papa è cattolico («Is the pope catholic?»). E un'altra dello Spectator lo rappresentava su una ruspa demolitrice col titolo: «Pope vs Church» (il Papa contro la Chiesa). Coglievano un sentire diffuso. In effetti a quattro anni esatti dalla «rinuncia» di Benedetto XVI e dall' irrompere di Bergoglio, la situazione della Chiesa cattolica si è fatta esplosiva, forse davvero al limite di uno scisma, più catastrofico di quello del tempo di Lutero (che peraltro oggi viene riabilitato nella chiesa bergogliana). La confusione è enorme anche perché si susseguono le picconate pure dei suoi stretti collaboratori. Nei giorni scorsi ha suscitato sconcerto il nuovo Generale dei gesuiti (voluto da Bergoglio) per quello che ha detto sul Vangelo e su Gesù. Come pure il nuovo presidente della Pontificia Accademia per la vita, nominato dallo stesso Bergoglio, che ha fatto l'esaltazione incondizionata di Marco Pannella arrivando ad affermare: «Io mi auguro che lo spirito di Marco ci aiuti a vivere in quella stessa direzione». Nella Chiesa sta accadendo di tutto. I massimi esponenti dell'ideologia laicista sulla vita sono invitati con tutti gli onori al simposio vaticano, i cardinali che chiedono al papa di chiarire o correggere i punti erronei dell'Amoris laetitia vengono trattati malamente. Poi stanno per istituire le «donne diacono» e potrebbe addirittura venir manomessa la liturgia per andare verso una «messa ecumenica» con i protestanti che segnerebbe il punto di non ritorno. Giorni fa una vescova protestante del nord Europa - con l'intenzione di fargli un complimento - ha dichiarato che Bergoglio le sembra sempre di più un criptoprotestante («verklappter protestant»). Molti fedeli cattolici hanno proprio il timore che sia vero. Per questo gran parte dei cardinali che lo votarono è fortemente preoccupata e il partito curiale che organizzò la sua elezione e che lo ha affiancato fin qui, senza mai dissociarsi, sta coltivando l'idea (a mio avviso velleitaria) di una «moral suasion» per convincerlo alla pensione. Avrebbero già il nome di colui che dovrebbe rimpiazzarlo per «ricucire» la Chiesa in frantumi.

Ma per capire meglio quello che sta accadendo, è necessario ricostruire com' è che la Chiesa è finita in questa situazione, forse la più grave dei suoi 2000 anni di storia. Bisogna partire dal contesto geopolitico degli anni Novanta, quando gli Stati Uniti, ritenendo di essere rimasta l'unica grande potenza mondiale, cominciarono a elaborare il progetto di un mondo unipolare «per un nuovo secolo americano». Fukujama annunciò «la fine della storia» cioè un pianeta totalmente americanizzato. Una follia, l'ultima utopia ideologica del Novecento. Il presupposto era che - spazzato via il blocco sovietico - la Russia democratica, prostrata e umiliata da un'americanizzazione selvaggia sotto Eltsin, non riuscisse mai più a risollevarsi, restando una depressa provincia dell'impero. Poi è arrivata la grande crisi del 2007-2008, mentre in Russia un nuovo leader, Vladimir Putin, ha riportato il più vasto Paese del mondo a ritrovare la sua identità spirituale, una vera indipendenza nazionale (anche economica) e un ruolo internazionale. Così, dal 2010 al 2016 l'amministrazione Obama/Clinton (con annesso sistema di potere globale) ha sviluppato una pesante strategia planetaria che mirava a isolare la nuova Russia di Putin e neutralizzarla. I due pilastri geopolitici dell'impero Obama/Clinton erano - in Europa - il fedele vassallo tedesco guidato dalla Merkel; nell' area mediorentale l'Arabia Saudita. Dovendo anzitutto spazzar via la presenza russa nel Mediterraneo e in Medio Oriente, gli Usa si sono schierati per l'eliminazione dei due regimi di quest' area alleati della Russia, cioè Libia e Siria guidati da Gheddafi e Assad. L' idea americana prevedeva di lasciare questa regione sotto l'egemonia dell'Arabia Saudita, ma è anche strana la sottovalutazione obamiana del rischio rappresentato dai Fratelli musulmani protagonisti delle cosiddette «primavere arabe». Anche in Europa assistiamo ad altri sommovimenti. Nel 2011 il governo italiano guidato da Berlusconi si trova isolato nella Ue franco-tedesca di Merkel e Sarkozy, quindi finisce sotto attacco attraverso il cosiddetto spread ed è costretto alle dimissioni (peraltro Berlusconi a quel tempo era l'unico capo di governo europeo con cui Putin avesse un rapporto di amicizia). Poi assistiamo alla destabilizzazione diretta dell'area russa con l'incendio dell'Ucraina che fornisce alla Nato il pretesto per portare tutta l' Europa dell' Est, fino ai confini russi, sotto il suo protettorato. Addirittura iniziano pericolose manovre militari al confine che creano un clima da guerra fredda. Già da tempo del resto i media occidentali sono pesantemente all' attacco di Putin, una criminalizzazione curiosa, considerato quello che gli americani - con le loro «guerre umanitarie» - stavano facendo. Nel frattempo Obama - col secondo discorso d' insediamento - ha lanciato anche un’offensiva ideologica che mira a imporre al mondo una nuova antropologia liberal, cioè relativista (nozze gay, gender ecc). È un progetto globale che tenta di de-costruire (oltre alle identità sessuali) le identità nazionali, culturali e religiose anche attraverso il fenomeno migratorio. Lo stesso segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon esalta le migrazioni come nuova frontiere del progresso a cui nessuno deve opporsi. Il fenomeno esplode: dal 2010 al 2016 c' è un vertiginoso aumento delle masse di migranti che si riversano in Europa, anzitutto tramite Italia e Grecia. Nel frattempo cosa accade nella Chiesa? Dal 2010 si assiste a una pesantissima pressione, interna ed esterna, contro il pontificato di Benedetto XVI che, nel febbraio 2013, «rinuncia». Nei giorni scorsi alcuni intellettuali cattolici americani hanno chiesto pubblicamente a Trump di aprire un'indagine per appurare - considerati alcuni documenti usciti da Wikileaks - se vi siano state, fra 2012 e 2013, interferenze americane per un «cambio di regime» in Vaticano. Ma stiamo ai fatti pubblici. Nel 2013 viene eletto papa Bergoglio che accantona il magistero dei papi precedenti, troppo ostico per l'ideologia dominante (niente più principi non negoziabili, né radici cristiane dell'Europa, né confronto virile con l'Islam come il discorso di Ratisbona). Bergoglio aderisce all' Agenda Obama: viva l'emigrazione di massa, abbraccio con l'Islam ed ecologismo catastrofista. Ma aderisce pure all' Agenda tedesca che va verso una protestantizzazione della Chiesa Cattolica. In effetti due sono i «partiti» che lo hanno eletto: quello progressista guidato dai cardinali tedeschi (che si rifaceva al cardinal Martini e al gruppo di San Gallo) e il «partito della Curia» che ha mal sopportato Benedetto XVI e vuole riprendere il controllo della Chiesa. È quest' ultimo, che ha sostenuto tutto il pontificato di Bergoglio, quello che oggi punta a portare al papato l'attuale segretario di stato Pietro Parolin. La motivazione addotta è «per ricucire» la Chiesa e scongiurare una tragica spaccatura. C' è sicuramente una seria preoccupazione per la confusione e lo sbandamento di oggi. Ma molti ritengono che la bussola di questo partito sia sempre il potere ecclesiastico, che oggi è limitato dalla «curia parallela» creata a Santa Marta. Confidano nel fatto che lo stesso Bergoglio ha parlato in passato di sue possibili dimissioni e, nel 2015, disse: «Tutti i servizi nella Chiesa è conveniente che abbiano una scadenza, non ci sono leader a vita nella Chiesa. Questo avviene in alcuni Paesi dove esiste la dittatura». Dunque dimissioni? Probabilmente s' illudono. D Antonio Socci.

Andrea Indini e Matteo Carnieletto «Isis segreto»: come nascono e come operano i tagliagole dello Stato islamico, scrive Fabio Polese. Nato un anno fa, quando il 29 giugno del 2014 Abu Bakr Al-Baghdadi si è proclamato Califfo, lo Stato islamico sembra inarrestabile. «La loro avanzata è davvero singolare. L’Isis nasce, in parte, da un pasticcio dell’America. Lo racconta la Clinton in Scelte difficili. Si voleva abbattere Assad ad ogni costo e, così, si è deciso di armare i cosiddetti ribelli moderati. Il problema è che poi si è scoperto che i ribelli moderati non erano affatto moderati. Hanno abbandonato la guerra contro Assad e si sono affiancati allo Stato islamico. Se queste sono le basi, ovvero si riconosce apertamente che qualcosa è andato storto nel piano di destabilizzazione di un governo legittimo, si capisce anche perché l’Occidente non ha ancora attaccato l’Isis. Conviene, politicamente, a certe Nazioni, come gli Usa, la Turchia e il Qatar, avere una forza destabilizzante in Medio Oriente». A parlare ad Istituto di Politica, sono i due giornalisti de il Giornale, Andrea Indini e Matteo Carnieletto, autori del libro-inchiesta «Isis segreto». Un volume fondamentale per capire com’è nato, come agisce e come si espande lo Stato islamico. Isis e social network. Quello dei social è da sempre un regno di libertà. E gli uomini dello Stato Islamico, che lasciano libera iniziativa ai singoli, lo hanno capito bene. Internet è sicuramente lo strumento più facile da usare per arruolare nuovi adepti. Proprio partendo da questo, i due autori del libro-inchiesta, hanno creato un profilo Facebook falso e hanno cercato di addentrarsi dentro il mondo virtuale delle bandiere nere. «Abbiamo cominciato ad aggiungere tra i nostri amici alcune persone che abitavano in Siria e che, diciamo, avevano profili poco raccomandabili. In pochissimo tempo, meno di 12 ore, abbiamo trovato una fonte buona, disposta a parlare. Si chiamava Il servo ribelle al Mujahed. Ci ha invitato ad abbandonare l’Italia degli infedeli, per raggiungere la Siria e combattere con gli jihadisti». La promessa di beni materiali. Gli uomini del Califfo propongono quello che per loro è un mondo migliore, dove finalmente regnano Allah e la sharia. E, soprattutto, si propongono anche beni concreti. «Lo abbiamo visto proprio in questi giorni», spiegano i due giornalisti. «Maria Giulia Sergio, la 27enne italiana che ora si trova nella Siria meridionale a combattere con gli uomini di Al Baghdadi, in una delle conversazioni intercettate, dice a suo papà: “Qui potrai trovare una jeep a 3000 euro”. Il sogno di ogni uomo». Ma non è tutto: «Non dimentichiamo che lo Stato islamico sta arrivando là dove alcuni governi non sono riusciti ad arrivare: sta proponendo un sistema di welfare. Certo, islamico, ma sempre welfare. Si offre anche un ideale, quello del jihad, che fa leva sul vuoto in cui vivono i nostri giovani, disposti ormai a tutto pur di sentirsi vivi». Isis e l’impatto mediatico del terrore. Gli jihadisti dello Stato Islamico puntano anche sul terrore, soprattutto attraverso video che sembrano molto vicini ai film hollywoodiani. Con effetti speciali, ma con sangue vero. «Con questi video – puntualizzano Indini e Carnieletto – l’Isis si radica nelle nostre teste. È un po’ come quando si guarda un film dell’orrore: vorremmo chiudere gli occhi, ma non ce l’ha facciamo e continuiamo a guardare. La cosa tragica è che quelli dell’Isis non sono film. Sono la realtà. Sanno che con questi video possono terrorizzarci e, quindi, annichilirci». Come si finanzia l’Isis? Lo Stato islamico è ben organizzato e riesce a finanziarsi in vari modi. Con la vendita del petrolio. Con il commercio delle tante opere d’arte che vengono confiscate dagli uomini del Califfato e che poi vengono vendute nel mercato occidentale. Con il contrabbando di armi e con i riscatti. Ma non solo. «L’Isis – spiegano i due giornalisti – aumenta il proprio erario anche grazie a tutti quegli Stati che godono, più o meno apertamente, della sua presenza in Medio Oriente. L’Arabia Saudita, la Turchia e il Qatar». Pericolo Isis in Europa. «L’Isis può colpirci in ogni momento», spiegano i due autori. «Bisogna tenere a mente che lo Stato islamico non è Al Qaeda. Non ha una struttura solida e preferisce lasciar agire i cosiddetti lupi solitari. È da questi che dobbiamo innanzitutto guardarci». L’Isis, infatti, a differenza di Al Qaeda, è da una parte più organico, dall’altra lascia più libera iniziativa ai suoi miliziani. E, soprattutto, lo Stato islamico accetta chiunque sia disposto a combattere per lui. Gli errori dell’Occidente. Secondo i giornalisti de il Giornale, l’errore dell’Occidente è stato madornale ed è iniziato ben prima del tentativo di destabilizzare Assad. «Si è iniziato con le primavere arabe e i risultati sono stati disastrosi. Poi si è provato a far fuori un presidente legittimamente eletto e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Lo Stato islamico si estende in un territorio immenso. In Siria c’è Al Nusra, che è un gruppo qaedista a cui gli Usa strizzano l’occhio. Gli errori in Siria sono gli stessi della Libia: fatto fuori un governo forte, il potere viene preso dagli islamisti. E così gli Stati crollano». I migliori alleati sono gli sciiti. «L’Occidente dovrebbe tornare indietro sui suoi passi, riconoscesse di aver sbagliato e comprendere che i possibili alleati per sconfiggere lo Stato islamico, paradossalmente, sono Assad, Hezbollah e Iran». Un’altra alternativa, «più concreta è che si passi per un’operazione militare internazionale. Una scelta davvero pericolosa, che magari potrebbe sì annientare l’Isis, ma che potrebbe far aumentare ancora di più l’odio di una certa parte del mondo islamico nei confronti dell’Occidente». Se non lo avessimo capito, «stiamo ancora pagando le guerre, politicamente scellerate, in Afghanistan e in Iraq». «Isis segreto» è dunque un testo prezioso e completo per comprendere quello che sta succedendo in Medio Oriente. Ma non solo. Ci fa anche capire che, essere geograficamente lontani dall’orrore dei tagliagole, non può farci sentire più sicuri. Sarebbe solo una illusione, un pericolosissimo errore di prospettiva.

L’intervista. Isis segreto, l’inchiesta choc di Indini e Carnieletto: “Jihadisti in dodici ore”, scrive il 23 giugno 2015 Giovanni Vasso su "Barbadillo". Isis è nome che evoca immediatamente paura e indignazione. Soprattutto in Europa, specialmente in Italia, naturale “porta” del Mediterraneo, ponte tra il vecchio continente e l’area infuocata del Vicino Oriente. Cosa vogliono gli uomini del califfo ormai appare chiaro. Come si muovano e cosa rappresentino realmente, invece, ancora non del tutto. L’incubo è che i jihadisti, come nel celeberrimo film degli anni ’50, siano tra noi. Manco fossero gli Ultracorpi. Per capirne di più sugli uomini di Al Baghdadi, Andrea Indini e Matteo Carnieletto – firme di punta de Il Giornale – hanno portato avanti un’inchiesta sconvolgente, condensata nel libro “Isis Segreto”, con la prefazione del direttore Alessandro Sallusti. 

Quanto è facile diventare jihadisti al tempo dei social network?

Matteo: Avevamo notato quanto fossero abili, gli jihadisti dello stato islamico, a utilizzare sia Facebook che Viber per arruolare nuovi miliziani. Ci siamo chiesti se fosse davvero così e, perciò, abbiamo voluto verificare noi stessi se e quanto fosse facile attirare i ragazzi, soprattutto stranieri. Non ci dobbiamo scordare, infatti, che i foreign fighter al servizio del califfo sono circa 30mila. All’inizio sembrava difficile, le prime ore le abbiamo passate tutte a spulciare profili, scovare personaggi, cercare tracce.  Abbiamo cominciato il nostro percorso partendo dalle amicizie web di Greta Ramelli, la cooperante rapita e liberata qualche mese fa insieme all’amica Vanessa Marzullo. Abbiamo aggiunto al nostro profilo i suoi amici e, dopo cinque ore, eccoci con una pista interessante tra le mani. Era un ragazzo siriano che combatteva lì, che chiaramente era jihadista e io, che mi ero spacciato per un neo-convertito italiano all’Islam, gli ho detto che ero interessato e pronto a partire. Lui si è mostrato molto disponibile a spiegarmi la tratta per raggiungere gli altri jihadisti. Tratta che è tragicamente facile: viaggi in aereo fino a Istanbul e poi raggiungi i centri minori di Hatay e Gaziantep. Da lì, vicino al confine con la Siria, ci avrebbero presi e portati direttamente al fronte.

Praticamente una bazzecola. O quasi. Ma cosa promettono ai combattenti?

Matteo: Quanto abbiamo scoperto ci ha confermato l’estrema facilità di accesso alla Jihad. E questa è una grandissima differenza dell’Isis rispetto ad altre organizzazioni, su tutte Al Qaeda. Se Bin Laden era estremamente selettivo nel reclutamento, il califfo accoglie praticamente chiunque. Se poi la recluta si rivela una spia non ci pensano più di tanto a farti fuori in pochi minuti, filmandone l’esecuzione. A me, poi, han promesso solo la guerra. Nessun compenso finanziario. Però si sa che i miliziani vengono pagati, anche abbastanza bene. L’Isis sembra puntare alla creazione di un vero e proprio sistema assistenzialista, come dimostra addirittura il fatto che se un combattente si sposa, gli viene concessa una sorta di congedo nuziale.

Davvero l’Isis è così pericoloso?

Andrea: Sono anni che l’Occidente si interroga sul livello di pericolosità dell’Isis e più in generale del radicalismo islamico. Una soluzione “comune” e condivisa non sembra ancora esserci. Anzi ci si divide tra chi derubrica problema a fenomeno passeggero (come per esempio il generale Fabio Mini, che abbiamo intervistato, e che non considera l’Isis come un vero problema per l‘Occidente) e chi all’opposto considera la minaccia jihadista un pericolo per il mondo occidentale. Ciò che indubbiamente ha dimostrato l’avanzata “nera” è il fatto che dove c’è stato vuoto di potere governativo, lì l’Isis s’è inserito facilmente conquistando il sostegno della base popolare. E da lì è partito alla conquista di paesi come Iraq e la Siria. Si tratta delle stesse condizioni che stanno maturando adesso in Nord Africa dopo l’esperienza delle cosiddette primaverea arabe. Non ci vuole molto, poi, per capire come il fanatismo dell’Isis sia un effettivo pericolo, basta vedere cosa accade ai cristiani in Siria. Per comprendere se ci sia una vera criticità per noi occidentali, occorre leggere e analizzare la scia di sangue che è stata lasciata negli ultimi venti-trent’anni di terrore.

C’è continuità, dunque, nel fronte jihadista?

Andrea: Prima l’incubo si chiamava Al Qaeda oggi Isis, però la radice, più o meno, rimane la stessa. Tanto che molti combattenti sono passati agevolmente da una sigla del terrore all’altra. Basta considerare quanto è accaduto negli ultimi vent’anni in Europa, non troppo lontano da noi. Nei Balcani erano arrivati a combattere i mujaheddin afghani e lì sono rimasti tra Kosovo e Bosnia. Dove formano combattenti da mandare, oggi, al fronte dalla parte dello Stato Islamico oppure in giro per l’Europa ad arruolare nuovi combattente.

Negli ultimi tempi il dibattito s’è infuocato e radicalizzato. Il “male” è l’Islam in sè oppure il califfo ne rappresenta la degenerazione?

Matteo: senza dubbio dei passi del Corano incitano alla guerra santa. Lo dice senza nascondersi, tra gli altri, Bilal Bosnic che, intervistato da Repubblica afferma chiaramente che essere musulmano obbliga l’uomo a combattere il jihad, imbracciando le armi oppure sostenendo, economicamente e moralmente, chi è in guerra. Bosnic, vale la pena ricordarlo, è ritenuto uno degli esponenti più importanti dello jihadismo in Europa e, addirittura, responsabile di reclutamento e indottrinamento degli aspiranti “soldati” provenienti anche dall’Italia. Dall’altra parte, però, ci sono tantissime altre personalità che la pensano all’opposto. C’è l’imam di Roma, Pallavicini (che abbiamo intervistato nel libro), che si dimostra sinceramente preoccupato dal fenomeno del terrorismo. Ha ragione un intellettuale di “casa nostra”, Pietrangelo Buttafuoco quando scrive che quella che si gioca in questi anni è una partita tutta interna all’Islam. Buttafuoco, difatti, spiega come il pericolo incomba anche sui musulmani. In Siria e in Iraq vengono uccisi innanzitutto i cristiani, ma anche i musulmani sciiti, considerati infedeli dagli uomini del califfo.

L’area in cui si muove l’Isis è strategica e l’emergenza è diventata planetaria. Qual è lo scenario attuale e quelli plausibili?

Andrea: Di sicuro, nell’immediato futuro, si dovrà intervenire su quei problemi che dovevano essere risolti già da mesi. In Libia, l’Italia doveva intervenire, anche perchè questo è il Paese dove attualmente l’Isis attecchisce maggiormente. Necessario, sul fronte dell’immigrazione clandestina, che l’Occidente decida cosa fare con Tripoli. Oggi la Libia è divisa tra due governi, uno ufficiale e l’altro islamista. Tutto questo mentre la Libia brulica di una molteplicità di miliziani, tribù in armi e combattenti jihadisti.  Sicuramente l’Europa, dopo aver fatto danni clamorosi con la guerra a Gheddafi che ha fatto da prologo all’attuale caos in Libia, deve trovare il modo per riportare tutto sotto controllo. Solo così si potranno pattugliare le coste libiche e contrastare i barconi che attraccano sulle coste italiane. Un altro fronte è di sicuro quello della lotta all’Isis. E qui si chiamano in causa maggiormente gli Stati Uniti d’America che per mesi hanno ingaggiato una campagna violentissima contro Bashar al Assad, prima armando i ribelli e, adesso, ritrovandoseli armati contro. Situazione incresciosa dato che oggi l’alleanza Atlantica è costretta a scendere a patti proprio con Assad. Non è innocente l’Ue che ha assecondato fin troppo a lungo gli Usa nella campagna d’odio contro il governo siriano e che ora deve rivedere tutto. Tutte questioni che chiamano in causa, poi, la Russia di Vladimir Putin, rivelatasi l’unico vero baluardo contro il fondamentalismo islamico. Si pensi solo a quanto è stato fatto in Cecenia. Solo Putin, del resto, quando l’America attaccò Assad, si schierò con la Siria, insieme alla Cina. E nonostante ciò, Putin resta sempre osteggiato dagli Usa. In questo complicato e delicato scacchiere l’Europa diventa sempre più centrale non tanto perchè valga qualcosa sotto il punto di vista politico o diplomatico ma perchè i problemi vengono a bussare direttamente alla nostra porta. Il conflitto ucraino, per esempio, è la dimostrazione plastica di questo braccio di ferro (sbagliato) tra Usa e Russia. Il vero problema di oggi sta nei conflitti e nelle loro ripercussioni: le potenze si confrontano e misurano su un Paese come l’Ucraina e intanto chi ne fa le spese è tutta l’Europa. Tutti questi scenari di tensione, sebbene divisi e diversi tra loro, hanno una matrice unica. Per questo, occorre seguire attentamente quanto avverrà sullo scenario internazionale da qui a breve: dalle alleanze ai futuri rapporti, quale sarà la strada da percorrere in vista delle risoluzioni delle crisi tra Vicino Oriente ed Europa dell’Est.

Libri. L’Isis e la guerriglia partigiana: esce “Sangue Occidentale” di Indini e Carnieletto, scrive il 7 novembre 2016 Wim Kieft su "Barbadillo". Due anni di violenza, terrore e guerra. La paura che fa breccia nel cuore dell’Europa sconvolta dalle mire del Califfato che, da Charlie Hebdo fino all’eccidio degli italiani a Dacca passando per l’orrore di Nizza, fa scorrere “Sangue Occidentale”. Uscirà domattina con Il Giornale in edicola, il nuovo libro di Matteo Carnieletto e Andrea Indini che si intitola proprio “Sangue Occidentale” e vuole indagare sulle mire e nelle strategie del terrorismo islamico internazionale, del sedicente soldato di una visione sballata dell’Islam. La cui parabola, come scrivono gli autori, pare essere diventata quella del “partigiano”, quello descritto da Carl Schmitt e che nel terzo millennio si manifesta come: “Una mina vagante, l’antesignano del lone wolf, il lupo solitario di Al Baghdadi. Non conduce una guerra, ma una guerriglia. Per questo è più pericoloso”. Carnieletto e Indini partono dall’attuale situazione dello Stato Islamico che è (quasi) in rotta, costretto alla ritirata da gran parte dei territori occupati. Ma più si restringono i confini, più svanisce la chimera di farsi nazione dell’estremismo islamico, più l’Isis si fa pericolosa, radicale perché – abbracciando la logica della guerriglia – sembra voler disporre di decine e decine di disperati pronti a immolarsi diffondendo terrore per le strade d’Europa, agevolati da reti più o meno ramificate e dai buchi delle politiche sull’immigrazione adottate nel Vecchio Continente. Indini e Carnieletto, firme de Il Giornale, tornano a occuparsi di terrorismo dopo “Isis Segreto”, il libro-inchiesta in cui i due giornalisti svelarono (tra le altre cose) quanto fosse facile farsi arruolare dall’estremismo islamico.

Quei partigiani dell'orrore assetati di "Sangue occidentale". Nel libro di Carnieletto e Indini l'assalto jihadista alle nostre città e ai nostri valori. Che ha già fatto oltre 770 morti, scrivono Matteo Carnieletto ed Andrea Indini, Lunedì 07/11/2016, su "Il Giornale". La guerra dell'Occidente, il terrorismo islamico, gli anni orribili dell'Europa ma non solo. Si intitola Sangue occidentale ed è il nuovo libro dei nostri Matteo Carnieletto e Andrea Indini dopo il successo di Isis segreto. Sarà allegato domani al Giornale al prezzo di 8.50 euro, rientra nelle iniziative degli Occhi della guerra, spiega con fatti, analisi, cifre come l'Occidente sia nel mirino del terrorismo islamico. Ve ne anticipiamo uno stralcio. Perché conoscere serve a capire. Il 2015 ha rappresentato l'annus horribilis per l'Europa. Tutto è iniziato con la strage di Charlie Hebdo, il 7 gennaio, ed è proseguito con gli attacchi in Danimarca, in Tunisia, nel Sinai, per poi concludersi, quasi fosse un magico cerchio dell'orrore, ancora in Francia, il 13 novembre, con attacchi multipli culminati nella carneficina del teatro Bataclan. Tutti questi attentati nessuno escluso hanno un minimo comune denominatore: sono rivolti contro occidentali, anche quando vengono compiuti in Africa, e sono firmati dall'Isis, lo Stato islamico che pur battendo in ritirata in Iraq, Siria e Libia sta continuando a mietere vittime in tutto il mondo. Il 2016 sembra essere un anno ancora peggiore rispetto a quello precedente. Prima l'attacco all'aeroporto di Bruxelles avvenuto pochi giorni dopo l'arresto di Salah Abdeslam, uno degli attentatori di Parigi poi quelli in America, a San Bernardino e a Orlando. Si è proseguito quindi con gli attentati di Dacca, dove sono morti nove nostri connazionali; di Nizza, costati la vita a ottantaquattro persone, di cui molti bambini; e poi in Germania, a Heidingsfeld, dove un pakistano di diciassette anni ha ferito cinque persone con un'ascia, e ad Ansbach, dove un siriano si è fatto saltare in aria, ferendo quindici persone. Settecentosettanta morti falciati dall'odio islamista. Ci troviamo davanti a una precisa strategia del terrore. Gli attacchi contro l'Occidente continuano a moltiplicarsi. Lo vediamo purtroppo ogni giorno. Ma perché? Il motivo fondamentale è che l'Isis sta perdendo terreno. Lo Stato islamico ha dovuto abbandonare il 50% dei suoi territori in Iraq e il 20% in Siria. La battaglia di Mosul potrebbe dare la spallata definitiva al Califfato e l'Isis sparirebbe là dove è nato. Proprio a Mosul, Al Baghdadi aveva annunciato la creazione di uno Stato islamico e aveva lanciato la sua sfida al mondo intero. La situazione in Libia è ancora peggiore per i terroristi, che hanno perso l'85% delle zone in loro possesso. Almeno per il momento sembrerebbe essere quindi andata a monte l'idea di mantenere uno Stato vero e proprio e ciò avrebbe provocato un cambio di strategia da parte dei jihadisti. Non a caso, proprio davanti all'arretramento dell'Isis, Abu Muhammad al-Adnani, il portavoce dell'autoproclamato Califfo Abu Bakr Al Baghdadi, ha affermato: «Non combattiamo per difendere un territorio o per mantenerne il controllo». Una retromarcia clamorosa se si pensa che l'elemento che ha caratterizzato la propaganda dell'Isis rispetto a quella di Al Qaida e degli altri movimenti terroristici degli ultimi decenni è proprio il tentativo di creare uno Stato. A cosa ci troviamo di fronte oggi? Terroristi agguerriti che vanno e vengono dai territori controllati dallo Stato islamico fino al cuore dell'Europa. C'è chi si mischia tra i migranti e chi, invece, passa senza che nessuno osi dire «beh». Ci troviamo poi a dover combattere i «partigiani» dell'orrore. Il riferimento è a un libro di Carl Schmitt, Teoria del partigiano, appunto. Il partigiano non ha una divisa, non lo si riconosce. «Il partigiano combatte da irregolare». Combatte per un ideale, qualunque esso sia. «Il partigiano moderno non si aspetta dal nemico né diritto, né pietà. Egli si è posto al di fuori dell'inimicizia convenzionale della guerra controllata e circoscritta, trasferendosi in un'altra dimensione: quella della vera inimicizia, che attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento». È una mina vagante, l'antesignano del lone wolf, il lupo solitario di Al Baghdadi. Non conduce una guerra, ma una guerriglia. Per questo è più pericoloso. Ad un anno dai tragici fatti del Bataclan e degli attacchi multipli di Parigi che hanno portato alla morte più di centotrenta persone e al ferimento di più di trecentocinquanta innocenti, l'Europa e l'Occidente non sono ancora al sicuro. Le minacce si fanno ogni giorno più frequenti e la coordinazione tra lupi solitari e Stato islamico sempre più forte. Ed è per questo che, potenzialmente, siamo tutti nel mirino del terrorismo di matrice islamica.

Ecco il manuale dell'orrore che insegna la guerra santa. È un volume di oltre 5mila pagine che circola online da alcune settimane. Potrebbe essere stato utilizzato anche dagli attentatori del resort tunisino, scrive Fausto Biloslavo, Lunedì 29/06/2015, su "Il Giornale". Il «Libro del terrore» è un manuale dello Stato islamico per gli aspiranti tagliagole in Occidente, che vogliono colpirci a casa nostra in nome di Allah. Un volume in pdf di 5232 pagine, che ti spiega nei dettagli come far saltare una macchina minata stile Iraq, tecniche di spionaggio, pianificazione degli attentati e forma fisica per il perfetto terrorista. Il manuale ha cominciato a circolare nei forum jihadisti un paio di settimane prima del venerdì di sangue alla vigilia del Ramadan. Negli stessi giorni il portavoce del Califfato, Abu Mohammad al-Adnani, lanciava l'appello ad attaccare gli infedeli in Occidente durante il mese di digiuno islamico, che finirà a metà luglio. I recenti attacchi in Francia e Tunisia rispecchiano i «consigli» del libro del terrore. Sulla copertina spicca il simbolo nero e bianco del Califfato. Il manuale viene definito «una guida per scatenare il terrore nel cuore dei miscredenti dell'Occidente». L'autore è un mujahed inglese, che utilizza il nome di battaglia Abu Kitaab Al-Inkaltarra (Inghilterra). La prefazione è indirizzata a chi «vuole fare la guerra santa». E non lascia spazio a dubbi: «Cari fratelli e sorelle ho scritto questo libro per farvi capire come mettere in pratica piani ed operazioni senza destare sospetti». Un capitolo si intitola «macchina minata stile Iraq», un altro «norme per un omicidio urbano», ma non mancano sezioni di contro sorveglianza che spiegano «come restare anonimi con il tuo cellulare Android». Le parti più consistenti e letali riguardano l'utilizzo di armi da fuoco, la confezione di bombe artigianali ricavate con materiale in commercio come gli ordigni della maratona di Boston contenuti in pentole a pressione e un allarmante capitolo su avvelenamenti di massa e «guerra chimica». La sezione multimediale contiene i video di precedenti attentati come lo sgozzamento in strada del fuciliere britannico Lee Rigby a Londra e gli attacchi alle metropolitana della capitale inglese. L'obiettivo è proporre degli scenari evitando gli errori compiuti dai terroristi nel colpirci in casa. Un intero capitolo è dedicato ai «dispositivi di spionaggio». Il manuale ti spiega i sistemi per piratare un sistema wifi, inviare messaggi criptati, intercettare una linea telefonica, acquistare una penna che nasconde una telecamera nascosta o apparecchiature capaci di mandare in tilt i cellulari. Lo scopo è sempre uguale: «Colpire al cuore i nemici di Allah» attivando cellule in sonno o lupi solitari pronti ad immolarsi in mezzo agli occidentali. Il manuale viene propagandato non solo sui forum jihadisti, ma pure attraverso tweet in inglese per raggiungere gli aspiranti jihadisti che vivono nelle nostre città. Al Qaida aveva lanciato manuali fai da te attraverso In spire, la rivista online del terrore, che fornivano istruzioni sulla «confezione di una bomba nella cucina di casa». Lo Stato islamico ha pubblicato in rete alcuni testi come Hijrah, la «santa emigrazione», una specie di Lonely Planet jihadista per raggiungere il Califfato. O manuali per cecchini, trappole esplosive per far saltare i blindati e tattiche di guerriglia. Il libro del terrore è l'opera più completa dedicata nei dettagli agli attentati in Occidente. E per il perfetto terrorista propone anche una serie di esercizi fisici per tenersi in forma prima di colpire i kuffar, gli infedeli.

Il terrorismo dei coltelli gemello diverso dell'isis, scrive Fiamma Nirenstein, Venerdì 20/11/2015, su "Il Giornale". Ieri Israele ha avuto altri 4 uccisi per terrore. Uno stillicidio, un'ondata di terrorismo parallelo a quello di Parigi prosegue la continua tortura che nelle ultime settimane ha fatto 18 morti, 350 feriti e 1500 episodi di terrore nella strade di Gerusalemme e in tutta Israele fra accoltellamenti, spari, esplosioni, uso delle auto per travolgere i passanti. Oggi si aggiungono alla lista altre quattro persone, due pugnalate all'ingresso di una sinagoga nello scenario metropolitano di Tel Aviv, l'altro nel Gush Etzion, uno di 25 anni e uno di 50, 10 i feriti. L'assoluta casualità degli attacchi risulta lampante se si guarda all'immensa differenza fra gli obiettivi prescelti: gente di Tel Aviv che va alla sinagoga per la preghiera serale, e due automobilisti fermi in coda vicino a Alon Shvut, nei Territori del Gush Etzion. Agli attentatori non interessava affatto l'identità dei loro obiettivi, perchè questo è il terrorismo: basta che siano ebrei, come ai terroristi di Parigi bastava che fossero francesi. Ebrei, cristiani, imperialisti, oppressori, corrotti occidentali. Gli uccisi sono per il terrorista, esattamente come a Parigi, o a Londra, o a Madrid o a Tolosa e Bruxelles, segnali piantati nella terra del suo piano di dominazione che, nella prima fase, si esprime nella confusione che riesce a seminare, nella gente che perde fiducia nel potere costituito e resta a casa avvilito nella sua vita quotidiana, per poi sfociare nella seconda fase, quella della compiuta dominazione, nel caso di Israele nella cacciata del popolo ebraico; nel caso dell'Occidente intero in spazi sempre più vasti per il Califfato. Per l'uomo del Daesh, o Isis, gli attentati, dal Canada alla Francia, già delimitano i confini dello Stato islamico, così come per i palestinesi gli attentati sul territorio israeliano lo destinano a entrare alla fine a far parte del dominio islamico. Israele ha messo due giorni fa fuori legge il Movimento Islamico del nord dello sceicco Ra'ad Salah, ne ha tagliati i finanziamenti e chiuse le sedi, una mossa che Netanyahu ha accompagnato con rassicurazioni ai musulmani di rispetto e accettazione: ma la decisione del Gabinetto israeliano è quella di non consentire che un'organizzazione contigua al terrorismo sia libera di spargere il suo seme. Ultimamente l'Isis, in un video postato lunedì, ha lanciato una campagna in cui incita i palestinesi a attaccare ovunque gli israeliani mentre in ben sei video i loro predicatori invitano a uccidere gli infedeli sullo sfondo delle immagini degli attacchi coi coltelli. Un video intitolato «Restituite il terrorismo agli ebrei» rispecchia il tipico atteggiamento per cui qui Israele, là gli occidentali, vengono accusati delle «colpe» che causano il terrorismo che si rovescia su di loro. Si calcola per altro che nelle file del Daesh si annidino circa 200 palestinesi, la loro presenza è maggiore a Gaza mentre nell'West Bank gran parte dei palestinesi lo rifiuta, ma di sicuro l'uso sconsiderato anche da parte dell'Autonomia Palestinese della bugia che Israele vuole occupare la Moschea di Al Aqsa ispira l'islamismo che porta i giovani al terrore. L'ondata dei coltelli è un tentativo di imitare l'Isis e le sue decapitazioni; l'attacco a luoghi sacri agli ebrei, come l'incendio alla tomba di Giuseppe mima altri attacchi ai vari luoghi sacri. Israele è abituata a rispondere al terrorismo sin dagli anni '20, ben prima che esistesse il problema dei territori. Il mondo invece non è abituato a prendersi cura del terrore in Israele, che è sempre stato lasciato solo a fronteggiarlo mentre invece si adoperava a fare muro per tutti quanti.

Wikileaks dell'Isis. I segreti del califfato svelati da un alto dirigente dello Stato islamico, scrive Daniele Mastrogiacomo, inviato di guerra de la Repubblica su "huffingtonpost.it" il 26/09/2014. C'è un Julian Assange jihadista che svela i segreti del Califfato. Segreti inconfessabili. Perché imbarazzanti. Quelli che nessun alto dirigente dell'Isis vorrebbe rendere pubblici. Ma che spiegano bene la struttura della più potente e pericolosa organizzazione terroristica islamica, i suoi legami con chi l'ha finora sostenuta e finanziata e che magari oggi, nel tipico doppio gioco dello scacchiere mediorientale, fa parte della coalizione dei 40 paesi che la combatte. L'autore dei wikiLeaks dello Stato islamico si nasconde dietro un account twitter apparso improvvisamente in rete nel gennaio scorso. Ha iniziato a postare una serie di domande su chi fosse veramente Abu Bakr al Bagdadi e su come fosse riuscito a conquistare un territorio che si estende dai confini est del Libano fino alla provincia sunnita irachena di al Anbar. Ha creato un dossier a puntate sotto l'accattivante titolo: "I segreti di Stato di Baghdadi". Le sue risposte sono state raccolte da un pool investigativo dal sito arabo in lingua inglese "alakhbar". Si tratta informazioni difficili da verificare. Pochissimi sono a conoscenza delle trame e degli scontri interni al Fronte delle brigate impegnate da tre anni nella guerra in Siria; le stesse che tra mille divisioni alla fine hanno contribuito alla nascita dello Stato Islamico. Ma la serie di episodi che li hanno scanditi sono realmente accaduti. Hanno date, nomi e luoghi. L'anonimo estensore dei Wikileaks del Califfato li ha vissuti in prima persona. Si tratta probabilmente di qualcuno interno al gruppo che aveva accesso a informazioni di prima mano. Un alto quadro dell'Isis tuttora attivo. Magari infiltrato da un gruppo avversario. Perché nella feroce lotta per la conquista della leadership si è fatto di tutto: anche una raffica di omicidi per eliminare i dissidenti, i potenziali disertori, chiunque poteva svelare dettagli che dovevano restare segreti. L'obiettivo era costruire per la prima volta un'entità territoriale ben definita. Un vero Stato islamico. Ma doveva restare coperto fino all'ultimo. Il Califfo di Raqqa in realtà si chiama Ibrahim Awwad Bou Badri bin Armoush, noto come Abu Awwad o Abu Doaa. Abu Barkr al Bagdadi è solo uno pseudonimo. Ha vissuto a Falluja, in Iraq, ed è stato per anni l'imam di una moschea a Diyala. Le sue origini, al dispetto del nome, non sono di Bagdad ma di Samarra. Fa parte del clan Bou Abbas: clan che sostiene essere discendente dell'imam al Hassan Bin Alì. Le sue radici affondano nella tribù Quraysh, condizione essenziale per diventare un emiro in un gruppo jihadista. Questo spiega perché il principe del terrore ha potuto proclamarsi Califfo dello nuovo Stato Islamico. L'assenso delle più alte cariche religiose dell'area è indispensabile. Ma va cercato e conquistato. Abu Bakr al Bagdadi appare raramente in pubblico e anche davanti ai suoi stessi uomini. È sospettoso, ossessionato dai tradimenti e dai complotti. Per questo, lui iracheno, si contorna solo di connazionali che controllano la leadership dello Stato islamico. Il Consiglio o Shura, l'organo esecutivo dell'Isis, è formato da 8 persone alle quali, in occasioni speciali, se ne aggiungono altre 5. Il direttivo, struttura strategica del gruppo, è costituito da 3 ex ufficiali iracheni che hanno servito nell'esercito di Saddam Hussein.  Tutti sono stati agli ordini di un ex colonnello iracheno, Haji Bakr, capo militare dell'Isis, ucciso ad Aleppo il 2 febbraio scorso durante uno scontro con le brigate laiche dell'Esercito libero siriano. È stato questo oscuro e spietato ex militare a creare le basi per la nascita dello Stato islamico. Conosceva bene il suo paese. Sapeva dove trovare le armi e gli esplosivi. Ha svelato al gruppo dirigente tutte le tecniche di combattimento che aveva appreso in anni di servizio nell'esercito di Saddam. Ha spiegato come agivano gli ex militari entrati nella guerriglia dopo l'invasione americana dell'Iraq, i sistemi di comunicazione, di difesa, di intercettazione. Ha lavorato nell'ombra per mantenere in Iraq la futura leadership del Califfato e ha proposto nel momento giusto la nomina di Abu Bakr al Bagdadi come suprema guida. Ma ha anche creato una struttura di comando a compartimenti stagni. Al tempo stesso ha messo in piedi un servizio di intelligence simile a quello di Saddam: ha sguinzagliato spie in tutte le brigate che combattevano in Siria e ha pianificato gli omicidi per i sospetti. L'ordine era bloccare ogni dissidenza. Con il terrore e la delazione. Uno squadrone della morte ha fatto fuori decine di alti responsabili delle brigate e di quadri intermedi. Era noto come il "Gruppo del silenziatore": firmava le sue azioni con pistole silenziate. A molti combattenti stranieri decisi a rientrare a casa sono stati confiscati i passaporti. Gli altri sono stati fermati con il piombo. È stato sempre Haji Bakr a pianificare la raccolta dei fondi: taglieggiando i commercianti, i cristiani, gli yazidi, conquistando i pozzi petroliferi, gli impianti energetici e di carburante, le fabbriche e i centri di distribuzione. Nel 2011 scoppia la rivolta in Siria. L'ex colonnello teme la fuga di molti combattenti impegnati in Iraq. Serra le fila. Con le buone e le cattive. Uccidendo e facendo lanciare ordini al Consiglio della Shura. "La situazione è confusa, meglio aspettare", suggerisce. Ma la rivolta diventa presto guerra e un fiume di combattenti si riversa in Siria. Al Qaeda forma nel nord del paese il Fronte al Nusra e lo affida a Abu Mohammed al Golani. Tra l'ancora neonato Isis e al Nusra ci sono i primi contatti. Hajii Bakr sonda le intenzioni di una brigata che può contare fino a 10 mila combattenti. Spedisce un gruppo di soli iracheni in Siria. Ma i rapporti con al Golani sono pessimi. Per ricucire i contrasti interviene spesso anche al Zawahiri, il nuovo capo di al Qaeda. Il quale, alla fine, appoggia il giovane comandante e confina l'Isis in Iraq. La tensione esplode nel 2013: i due gruppi si confrontano per quattro mesi, con centinaia di morti e prigionieri. Haji Bakr torna nell'ombra. Cerca consensi religiosi e politici. Convince l'influente imam saudita Abu Bakr al Qahtani a riconoscere il progetto del Califfato. E al Qahtani, a sua volta, incarica un ex ufficiale della monarchia Bandar Bin Shaalan a creare un gruppo religioso di supporto nel Golfo. Vengono coinvolti il Qatar e il Bahrain. Entrambi, attraverso religiosi e facoltosi commercianti, contribuiscono alla raccolta dei fondi. Lo Stato islamico non è più un sogno, può essere una realtà. Al Golani, sempre più pressato, non risponde più agli ordini. Si sente braccato, teme di essere ucciso, diffida di tutti e tutto. Cadrà in battaglia il 25 ottobre del 2013. Neanche l'intervento del capo di al Qaeda in Yemen, Nasser al Wahishi e di quello kwaitiano Hamed ad-Ali, riescono a salvarlo. Al Zawahiri si pronuncerà ufficialmente a favore di al Nusra ma l'intensa attività politica e diplomatica di Haji Bakr porta alla sconfitta dello stesso capo di al Qaeda. Il Califfo ha le porte aperte. Con decine di brigate irachene irrompe sulla scena siriana e si installa a Raqqa. Il Fronte delle altre brigate è in rotta. I ceceni si defilano in silenzio. Hanno persino paura di annunciare la loro ritirata. Gli altri sono infiltrati da Haji Bakr. Vuole sapere i loro punti deboli. Deve contrastarli perché sono i più forti oppositori all'arrivo degli iracheni in Siria. Sul campo resta solo una decina di gruppi. Sui tutti domina Liwaa al Tawhid, legata ai Fratelli Musulmani: può contare su 10 mila combattenti. I suoi dirigenti diffidano dell'ex colonnello iracheno e del suo progetto di Califfato. Durante uno dei tanti scontri catturano un centinaio di combattenti e alti quadri dell'Isis. Tra questi la moglie di Hajii Bakr. Conoscono molti segreti del nuovo Stato islamico. Sono ostaggi preziosi. L'Isis teme che possono parlare, svelare dettagli vitali per il gruppo. Quando conquista Mosul cattura 49 cittadini e funzionari turchi nel consolato. Li userà come merce di scambio per gli ostaggi nelle mani di Liwaa al Tawhid. Grazie alla mediazione dei servizi turchi che avevano tutto l'interesse a unire il Fronte dei ribelli jihadisti. Per dare l'ultima spallata a Bashar al Assad. E cancellare ogni prova sul suo, finora presunto, aperto sostegno al sogno mai tramontato di un Califfato sotto l'egida di Ankara.

La spia e la Jihad, scrive Imma Vitelli il 28.09.2014 su Vanity Fair. Il tavolo, solitario, è su una radura rocciosa rischiarata da un’incongrua luna piena. Prendo appunti a lume di candela; un cameriere ci serve del tè e alla sua comparsa l’uomo si fa muto. Ha trent’anni ed è minuto e quando parla di quel che faceva, fino a ieri, il volto rivela un ghigno astuto. Egli è un agente pentito del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi o, per essere più precisi, un ex ufficiale dei servizi segreti dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria: l’Isis. Fino a questa estate se ne andava in giro per la sua città, Raqqa, la capitale del Califfato, vestito d’ordinanza: barba e camicione, maschera in viso, kalashnikov in spalla, esplosivo in vita. «Amavo il mio lavoro», dice. «Lo amavo così tanto da dormire la notte con la mia cintura kamikaze». Lo incontro grazie ai buoni uffici di un amico siriano in una località della Turchia che ho promesso di non rivelare. Lo ascolto per una notte mentre Obama annuncia all’America che sta per bombardare la sua città e la Siria. La storia del nostro uomo, che chiamerò Abu Ali, comincia con le manifestazioni e la repressione in Siria. Abu Ali sa quel che vuole: imbracciare il fucile. Esplora gli islamisti di Jabhat al-Nusra, il Fronte del sostegno, in pratica Al Qaeda, e sale su un altro pianeta. Nel gennaio del 2013, i barbuti aprono un paio di campi di addestramento ad Aleppo: «Vengo scelto per le forze della Sicurezza», dice fiero. Al campo gli insegnano a setacciare i teatri conquistati a caccia di file e archivi. Agli agenti spiegano anche come formare cellule dormienti, governi ombra da insediare nei villaggi vinti. Il cuore dell’Isis è strabiliante. Gli iracheni hanno forze eterogenee: ingegneri, agronomi, amministratori, filmmaker. Il capo dei servizi informatici è il miglior hacker d’Egitto, uno sul cui capo pende una taglia da cinque milioni di dollari dell’Fbi. Si chiama Abdullah Ahmed Abdullah, detto Abdullah el Masri, un tizio spietato e scaltro. Settimana dopo settimana, i quartieri al Hod e al Masaken Shorta e al Thakanah, un tempo occupati dall’élite del governo di Assad, vengono popolati da una nuova folla multinazionale: i muhajirin, i combattenti stranieri, e le loro famiglie. L’Isis guadagna 3 milioni di dollari al giorno nel contrabbando del petrolio, e per i suoi membri single si dedica allo shopping di mogli locali, per radicarsi. Mese dopo mese, si delinea la nuova classe dirigente: gli iracheni sono i leader, i tunisini e i ceceni i comandanti militari, i sauditi i magistrati e i kamikaze, gli uzbeki e i kazaki la soldataglia, gli inglesi i principali addetti alla propaganda destinata al mercato occidentale. Abu Ali non ha problemi con i metodi dell’Isis e si unisce entusiasta alle sue brigate. Lo fa il 90 per cento dei soldati di Nusra. Per aver diritto alle cinture esplosive e al kalashnikov, al tesserino e alle maschere, è previsto un rituale. Ricorda i voti dei mafiosi: «Si esegue al cospetto di uno sheikh», spiega Abu Ali. «Gli stringi la mano e ripeti: giuro di seguire l’Isis nella buona e nella cattiva sorte e di ubbidire qualsiasi cosa accada. Giuro di accettare le sue decisioni e di non discuterle mai, a meno che esse non siano contrarie alla volontà di Allah». Egli è ora un detective dei servizi di Daesh (Isis, in arabo). Il suo compito è smascherare le spie curde e turche ed europee e interrogare i sospettati di reati politici e religiosi. Le decapitazioni non gli fanno effetto: «Sono nel Corano». Ammette le torture. A dargli fastidio è la discriminazione. Perché i comandanti ceceni e tunisini ed egiziani hanno diritto alle auto e alle mogli, e lui a così poco? Il salario base di un siriano è di 40 dollari al mese, che diventano 80 se hai moglie. Ci sono, certo, i bonus: se arresti o rapisci qualcuno e la preda è buona possono darti un extra di 100 dollari. Poi ci sono i figli: l’Isis concede 20 dollari a erede, l’Isis incoraggia la riproduzione, l’Isis considera la prole la generazione futura della jihad: «Ci sono campi per bambini, dai sette anni in su». È solo quando gli tolgono il lavoro che Abu Ali nota la violenza pulp, l’amministrazione metodica del terrore. Centinaia di ribelli, tra cui amici suoi, si arrendono in cambio di promesse di salvezza: l’Isis li fa fuori. Abu Ali va dallo sheikh saudita e gliene chiede conto. Il magistrato risponde: «Per dimostrare l’autorità, devi far rispettare la legge. E per far rispettare la legge, devi applicare le punizioni». Le sue domande provocano rumore. Abu Ali viene mandato al fronte a Deir ez-Zor e frustato 70 volte. Un suo amico gli dice: «Ho sentito via radio la tua condanna a morte». Ora che ha fatto il salto, l’ex agente esprime rammarico: «Ho sbagliato. Ma non voglio che Obama bombardi. Ci sono oggi a Raqqa ottomila soldati, metà diserteranno, lo posso garantire. Però ci sono almeno 300 civili innocenti in prigione. Moriranno». Degli ostaggi stranieri non si è mai occupato direttamente. Gli chiedo di Padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita sequestrato il 29 luglio 2013. «È vivo», dice. Gli chiedo perché non lo abbiano liberato. L’Italia paga. «L’Isis ama le sorprese. Prima o poi sapranno che cosa farne». Gli chiedo, infine, come ci si libera del Califfato. «È impossibile liberarsene totalmente. L’ideologia resterà. Alcuni civili, qui in Turchia, dicono: se l’America bombarda l’Isis, noi sosteniamo l’Isis. È questo il problema: i musulmani che non ci hanno mai vissuto dentro».

Aldo Giannuli: Gli errori dei servizi segreti sull’Isis: ma lo fanno apposta? Partiamo da alcune constatazioni difficilmente contestabili:

–la lotta al terrorismo islamico sta dando risultati catastrofici, peggiori della più pessimistica aspettativa;

-nella storia dell’intelligence occidentale non c’è una serie così lunga di insuccessi così completi, dunque non c’è un precedente in cui l’intelligence si sia dimostrata così al di sotto del loro compito;

-siamo di fronte ad un tipo di terrorismo totalmente nuovo per dimensioni, modalità d’azione, forme organizzative e di lotta (con buona pace di qualche imbecille che le compara con le brigate rosse che è come mettere sullo stesso piano la “compagnia della teppa” con il cartello di Medellin);

-i servizi segreti stanno facendo errori evidenti, persino sul piano del comune buon senso.

Tutto questo sta stimolando un dibattito: è solo una questione di errori o si tratta di complicità? Insomma: ci sei o ci fai? E allora vediamo. Confesso che alla tesi “dietrologica” che pensa che l’Isis sia una longa manus degli americani ed Israele o che, quantomeno, ci sia una intesa cordiale fra essi, non ho mai creduto molto e continuo a non credere. In primo luogo non si capisce che cosa ne verrebbe agli americani, in questa fase, da un gioco così contorto e stravagante. Quanto ad Israele, faccio presente che, allo stato attuale, ha posizioni che lo proiettano in modo divaricante rispetto agli Usa e, semmai e per certi versi, ha più in comune con la Russia di Putin. Anche qui si fa fatica a capire il senso politico di una operazione di copertura dell’Isis, salvo che per la sua inimicizia con l’Iran; ma se si trattasse solo di questo, basterebbe “stare a vedere” senza compromettersi più di tanto. Poi non so se i feriti Isis siano curati in Israele ed in cambio di cosa: magari, c’è una sorta di patto di non aggressione momentaneo. Tutto questo è possibile ma non ha il valore di una vera e propria alleanza politica o tantomeno un rapporto di dipendenza. Insomma, per sostenere una tesi del genere dovremmo avere molti più elementi e tali non sono i gossip di rete. Ma soprattutto, dovremmo capire il senso politico di tutto questo, quel che per ora non è spiegato e fa a cazzotti con tutto quel che sappiamo della situazione internazionale (poi è evidente che ci sono cose che non sappiamo, ma delle cose sconosciute non si piò parlare). Dunque, l’idea che dietro questi insuccessi ci sia una volontà positiva di aiutare l’Isis mi pare poco convincente, se non al massimo come interesse oggettivo alla sua esistenza. Sin qui le uniche cose fondate sono quelle che riguardato Arabia Saudita, Quatar e Kwait con un forte sospetto sulla Turchia. Ma questo non riguarda le intelligence occidentali ed in particolare quelle europee. Ma è credibile la tesi opposta che riduce tutto ad insufficienze personali degli operatori dei servizi europei? Anche questa non mi convince. Quando parlo di incredibile serie di errori (vere e proprie bestialità) non intendo parlare di un deficit di preparazione ed intelligenza degli operatori dei servizi, magari a livello apicale. Queste mancanze di professionalità ed intelligenza ci sono ed anche in modo massiccio, ma non sono la causa principale del disastro presente. Il problema è più generale e io lo riassumo in questi termini schematici:

a. assenza di direzione politica da parte dei governi che delegano tutto ai servizi lavandosene le mani e senza neppure chiamare i capi dei servizi a rispondere dei loro insuccessi;

b. assenza di una vera e propria linea politica da parte di Europa (e questa è storia vecchia) ed Usa (questa è la novità) che non sanno cosa fare. Obama è fermissimo nel tentennare ed è evidente che in testa non ha nulla;

c. persistenza dell’ideologia antiterrorista da non confondere con il contrasto al terrorismo. Il vero contrasto è quello fatto al terrorismo per come è effettivamente, l’ideologia è quella che combatte per il terrorismo per come lo immagina;

d. il persistere del dogma base dell’ideologia antiterrorista è pensare il terrorista come un criminale, pazzo o fanatico con vaghe idealità politiche, mentre il terrorista è un soggetto politico pienamente razionale che ricorre a forme di lotta criminali. Ne consegue che, nel primo caso, la lotta al terrorismo è in primo luogo un problema di polizia e di intelligence, nel secondo che è un problema in primo luogo politico e sono secondariamente di intelligence cui occorre dare le indicazioni necessarie per evitare che diventi uno strumento cieco che colpisce a caso;

e. la scarsa duttilità degli apparati a rivedere le proprie impostazioni di partenza anche quando queste sono evidentemente superate. Il dogma dell’ideologia antiterrorista era sbagliato anche 60 anni fa ai tempi dell’Algeria, ma diventa devastante oggi dopo gli sviluppi della guerra irregolare. I cinesi hanno capito la guerra asimmetrica, gli uomini di Al Zarkawi la hanno capita e sviluppata, mentre i servizi occidentali sono fermi alle tesi del generale De Beaufre.

f. di fatto i servizi hanno mancato gravemente nella analisi non riuscendo a capire il nemico islamista tanto nella versione Al Quaeda quanto in quella Isis e non si sono neppure accorti della differenza fra i due.

g. a questo poi bisogna aggiungere il processo di decadenza dei servizi occidentali a seguito di una serie di infelici scelte che risalgono a Bush e che si intrecciano con la II guerra del Golfo (ma sul punto torneremo);

h. infine ci sono le meschine “furberie” particolaristiche degli europei per cui ognuno gioca la partita per conto suo con compromessi, pasticci, imbrogli e veri e propri tradimenti come quello dei Belgi. E’ evidente che la polizia belga aveva stipulato nei fatti un “patto di non aggressione” con gli jihadisti per cui, in cambio di non essere oggetti di attentati, concedevano di poter usare il loro paese come retrovia per gli attentati in Francia; e lo conferma la notizia che i Turchi avevano estradato in Belgio uno dei due kamikaze di avantieri e che il Belgio lo aveva rilasciato. Begli alleati! Come si vede, la scelta non può essere ridotta a confusi retroscena complottistici o a semplice negligenza di una parte degli operatori. Ci sono complesse ragioni di ritardi culturali, retaggi ideologici, rigidità organizzative, che producono una sorta di “coazione a ripetere l’errore”. Non tutto può essere ricondotto alle singole persone, perché le istituzioni hanno spesso una propria logica, talvolta perversa, che supera anche le responsabilità personali. Aldo Giannuli

Documento segreto del Pentagono rivela che gli USA “crearono” l’ISIS come “strumento” per rovesciare il presidente Assad in Siria, scrive il 25 maggio 2015 Tyler Durden. Fin dalla prima improvvisa e teatrale comparsa sulla scena mondiale del fanatico gruppo islamico noto come ISIS, praticamente sconosciuto fino a un anno fa e che ha sostituito la logora al-Qaeda nel ruolo di terrorista cattivo, avevamo suggerito che lo scopo del video con la decapitazione postato su YouTube e dello Stato Islamico finanziato dall’Arabia Saudita (thedailybeast.com/) era molto semplice: usare i jihadisti come strumento per ottenere un obiettivo politico, ovvero la deposizione del presidente siriano Assad, che da anni ostacola la realizzazione di un cruciale gasdotto del Qatar (zerohedge.com-), gasdotto che detronizzerebbe la Russia dal ruolo di principale fornitore di energia dell’Europa. La situazione raggiunse l’apice della tensione nel 2013 con l’accumulo di forze militari nel Mediterraneo, che fecero sfiorare un conflitto potenzialmente mondiale. Il racconto e la trama erano così trasparenti che perfino la Russia non si fece ingannare. Lo scorso settembre scrivemmo: “Secondo il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov, se l’Occidente bombarderà i militanti dell’ISIS in Siria senza consultare Damasco, LiveLeak riporta che l’alleanza anti-ISIS potrebbe sfruttare l’occasione per lanciare attacchi aerei contro le forze di Assad. Capendo chiaramente che la nuova strategia di Obama contro l’ISIS serve solo a far passare il gasdotto del Qatar (come la spinta ad intervenire nel 2013), la Russia frena, notando che l’ISIS è un pretesto per bombardare le forze siriane e ammonendo che - ciò potrebbe portare a un’enorme intensificazione del conflitto in Medio Oriente e in Nord Africa-.” Una cosa però è speculare, un’altra è avere prove concrete. E mentre c’erano un sacco di speculazioni sul fatto che, come Al Qaeda, finanziata dalla CIA, era stata usata dagli USA come facciata per ottenere i loro interessi geopolitici e nazionali negli ultimi 20 anni, così l’ISIS non fosse altro che al-Qaeda 2.0, di questo non c’erano prove concrete. Ora però tutto è cambiato con un documento segreto declassificato del Pentagono, ottenuto da Judicial Watch, che mostra come i governi occidentali si allearono deliberatamente con al Qaeda e altri gruppi estremisti islamici per deporre il presidente Assad. Secondo quanto afferma il reporter investigativo Nafeez Ahmed su Medium, “il documento rivela che l’Occidente, in coordinazione con gli stati del Golfo e la Turchia, ha sponsorizzato intenzionalmente i gruppi islamici violenti per destabilizzare Assad, nonostante prevedesse che ciò avrebbe portato all’emergere dell’ISIS.” […] E non solo: ora che l’ISIS sta andando in giro per il Medio Oriente a tagliare le teste alla gente in alta definizione e qualità da Hollywood (forse letteralmente), gli USA hanno una giustificazione credibile per vendere miliardi in armi moderne e sofisticate ad alleati come l’Arabia Saudita, Israele e Iraq. Ma che il complesso militare-industriale statunitense sia il vincitore ogni volta che scoppiano guerre nel mondo (di solito con l’assistenza della CIA) ormai è chiaro a tutti. Quello che non era chiaro è come gli USA predeterminarono l’attuale svolgimento degli eventi in Medio Oriente. Ora, grazie al seguente resoconto declassificato abbiamo una comprensione molto migliore non solo del modo in cui si sono sviluppati gli odierni avvenimenti in Medio Oriente, ma anche del ruolo dell’America quale burattinaio. Le rivelazioni contraddicono la linea ufficiale dei governi occidentali riguardo alle loro politiche in Siria, e pongono domande inquietanti sul supporto segreto fornito dall’Occidente agli estremisti violenti all’estero, mentre la minaccia del terrorismo viene usata all’interno per giustificare la sorveglianza di massa e la restrizione dei diritti civili. Tra i documenti ottenuti da Judicial Watch attraverso una causa federale ve n’è uno dell’Agenzia d’Intelligence per la Difesa statunitense (DIA), datato 12 agosto 2012. […] Finora i media hanno evidenziato che l’amministrazione Obama sapeva che da un baluardo terrorista libico venivano inviate armi ai ribelli in Siria. Alcuni media hanno riportato che l’intelligence statunitense aveva previsto l’ascesa dell’ISIS. Tuttavia, nessuno ha esposto i dettagli inquietanti che mettono in evidenza come l’Occidente ha fomentato in Siria una ribellione settaria guidata da al-Qaeda. […] Il documento DIA del 2012 conferma che la componente principale delle forze anti-Assad era composta da insorti islamisti affiliati a gruppi che avrebbero portato all’emergere dell’ISIS, ma che nonostante questo dovevano continuare a ricevere supporto dagli eserciti occidentali e dei loro alleati regionali. “Notando che salafiti, Fratelli Mussulmani e al-Qaeda in Iraq sono le forze principali dell’insurrezione siriana, l’Occidente, i paesi del Golfo e la Turchia supportano l’opposizione, mentre Russia, Cina e Iran supportano il regime di Assad.” Il documento di 7 pagine afferma che al-Qaeda in Iraq (AQI), il precursore dell’ISIS, ha appoggiato l’opposizione siriana fin dall’inizio, sia ideologicamente che tramite i media. […] La DIA prevede che il regime di Assad manterrà il controllo sul territorio siriano, ma la crisi si intensificherà fino a diventare una “guerra per procura”. Il documento raccomanda anche la creazione di “rifugi sicuri sotto riparo internazionale, come in Libia quando Bengasi venne scelta come sede del governo provvisorio.” In Libia i ribelli anti-Gheddafi, in gran parte milizie affiliate ad al-Qaeda, venivano protetti dalla NATO tramite zone di non sorvolo. Il documento del Pentagono predice esplicitamente la probabile dichiarazione di uno “Stato Islamico, tramite la sua unione con altre organizzazioni terroriste in Iraq e in Siria.” Nondimeno, “i paesi occidentali e la Turchia stanno supportando gli sforzi dell’opposizione siriana che lotta per il controllo delle aree orientali adiacenti alle province irachene occidentali (Mosul e Anbar)”: “…c’è la possibilità che venga istituito un principato salafita dichiarato o non dichiarato in Siria orientale (Hasaka e Der Zor), e questo è esattamente ciò che le potenze che supportano l’opposizione vogliono, così da isolare il regime siriano, considerato la profondità strategica dell’espansione sciita (Iraq e Iran).” Il documento segreto del Pentagono fornisce perciò la straordinaria conferma che la coalizione anti-ISIS guidata dagli USA aveva salutato l’emergere di un “principato salafita” come strumento per indebolire Assad e fermare l’espansione strategica dell’Iran. E’ significativo che anche l’Iraq vi venga citato come parte integrante di questa “espansione sciita”. Più avanti, il documento rivela che gli analisti del Pentagono conoscevano benissimo i rischi di questa strategia, ma decisero di andare avanti comunque: “L’istituzione di un simile principato salafita in Siria orientale porrebbe l’AQI nelle condizioni ideali per tornare alle sue vecchie roccaforti di Mosul e Ramadi.” Ebbene, l’estate scorsa l’ISIS ha conquistato Mosul in Iraq, e proprio questo mese ha preso controllo anche di Ramadi. Tale entità quasi statale avrebbe fornito: “…un rinnovato impulso alla pretesa di unificare la jihad tra l’Iraq sunnita, la Siria e il resto del mondo arabo contro quello che esso considera il suo nemico. L’ISI potrebbe anche dichiarare uno Stato Islamico tramite la sua unione con altre organizzazioni terroristiche in Iraq e Siria, il che costituirebbe un grave pericolo per l’unificazione dell’Iraq e la protezione del suo territorio.” Il documento della DIA è un resoconto informativo, non una valutazione definitiva, ma è circolato nella comunità d’intelligence statunitense, compreso il Dipartimento di Stato, il Comando Centrale, il DIpartimento per la Sicurezza Nazionale, la CIA, l’FBI e altre agenzie. In risposta alle mie domande riguardo alla strategia, il governo britannico ha semplicemente negato le rivelazioni contenute nel documento del Pentagono. […] La DIA non ha risposto alla richiesta di commento. L’analista per la sicurezza Shoebridge, tuttavia, che ha tenuto traccia del supporto occidentale ai terroristi islamici in Siria fin dall’inizio della guerra, ha sottolineato che il resoconto segreto del Pentagono mette in evidenza fatali contraddizioni nelle dichiarazioni ufficiali: “Per tutti i primi anni della crisi siriana, i governi statunitense e britannico e quasi tutti i media occidentali dipinsero i ribelli siriani come moderati, liberali, secolarizzati, democratici e quindi meritevoli del supporto occidentale. Visto che questi documenti smentiscono del tutto questa immagine, è significativo che i media occidentali li abbiano quasi completamente ignorati, nonostante la loro importanza.” Secondo Brad Hoff, ex ufficiale statunitense di Marina che servì durante i primi anni della guerra in Iraq, il documento declassificato del Pentagono fornisce la prova che: “L’intelligence statunitense prevedeva l’ascesa dell’ISIS, ma invece di delineare chiaramente il gruppo come nemico lo considerava una risorsa strategica degli USA.” […] I critici della strategia statunitense nella regione hanno ripetutamente sollevato domande circa il ruolo degli alleati della coalizione nel fornire intenzionalmente supporto a gruppi islamici terroristi con lo scopo di destabilizzare il regime di Assad. La versione convenzionale è che il governo USA non controllò abbastanza il finanziamento ai gruppi ribelli anti-Assad, che avrebbe dovuto essere monitorato e valutato affinché venissero appoggiati solo i gruppi “moderati”. Tuttavia, il documento del Pentagono dimostra senza dubbio che anni prima che l’ISIS lanciasse la sua offensiva contro l’Iraq, l’intelligence degli USA era pienamente consapevole che i militanti islamici costituivano il nucleo principale dell’insurrezione siriana. Nonostante ciò, il Pentagono continuò a supportare l’insurrezione islamista, anche se prevedeva la probabilità che ciò avrebbe portato all’istituzione di una roccaforte salafita in Siria e Iraq. […] Diversi ufficiali governativi statunitensi hanno ammesso che i loro alleati nella coalizione anti-ISIS stavano finanziando gruppi islamisti violenti che diventarono parte intengrante dell’ISIS. L’anno scorso per esempio il vice presidente Joe Biden ammise che Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Turchia avevano incanalato centinaia di milioni di dollari verso i ribelli islamisti in Siria che hanno poi dato vita all’ISIS. Ma non ha ammesso che questo documento interno del Pentagono dimostra che l’intera strategia segreta era approvata e supervisionata da USA, Gran Bretagna, Francia, Israele e altre potenze occidentali. Tale strategia pare essere conforme a uno scenario politico identificato da un resoconto della RAND Corp commissionato dall’Esercito USA. Il resoconto, pubblicato 4 anni prima del documento della DIA, suggeriva agli USA “di capitalizzare sul conflitto tra sciiti e sunniti, schierandosi con i regimi conservatori sunniti e lavorando con loro contro tutti i movimenti sciiti del mondo mussulmano.” Gli USA avrebbero dovuto contenere “il potere e l’influenza iraniana” nel Golfo “appoggiando i tradizionali regimi sunniti di Arabia Saudita, Egitto e Pakistan.” Allo stesso tempo gli USA devono mantenere “una forte relazione strategica con il governo iracheno sciita”, nonostante la sua alleanza con l’Iran. Il resoconto RAND confermava che la strategia del “divide et impera” era sempre stata usata per “creare divisioni nel campo jihadista. Oggi in Iraq tale strategia viene usata a livello tattico.” […] La rivelazione di un documento interno dell’intelligence statunitense, secondo il quale la stessa coalizione guidata dagli USA che oggi combatte contro l’ISIS lo ha coscientemente creato, pone interrogativi inquietanti sui recenti sforzi dei governi occidentali di giustificare l’espansione dei poteri anti-terrorismo degli stati. In seguito all’ascesa dell’ISIS, da entrambe le parti dell’Atlantico si stanno perseguendo nuove misure invasive per combattere l’estremismo, tra cui la sorveglianza di massa, l’orwelliano “dovere di prevenire” e perfino progetti che permetterebbero ai governi di censurare i media, il tutto indirizzato prevalentemente contro gli attivisti, i giornalisti e le minoranze, specialmente mussulmane. Eppure il nuovo documento del Pentagono rivela che, contrariamente alle affermazioni dei governi occidentali, la causa principale della minaccia è la loro stessa politica profondamente sbagliata di sponsorizzare segretamente il terrorismo islamista per dubbi fini geopolitici.

Il rapporto Chilcot, bufera sull’invasione dell’Iraq. Una paese in guerra e un paese fuori controllo: questi i risultati della decisione presa da Blair e Bush nel 2003, scrive il 7 luglio 2016 Luciano Tirinnanzi su "Panorama". Quella di ieri, mercoledì 6 luglio 2016, è stata una giornata difficile per la politica britannica e, in buona parte, anche per quella americana. Mentre Londra faceva la conta del numero di politici dimissionari dopo lo tsunami della Brexit, e mentre a Washington l’FBI scagionava dalle accuse sull’emailgate Hillary Clinton, sulla scena internazionale irrompevano le conclusioni del rapporto Chilcot, ovvero la commissione d'inchiesta britannica sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq del 2003.  “Abbiamo concluso che la scelta del Regno Unito di partecipare all’invasione in Iraq è stata compiuta prima che fossero esaurite tutte le altre opzioni pacifiche per il disarmo. Abbiamo altresì concluso che la minaccia delle armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq, rappresentata come una certezza, non era giustificata. Nonostante gli avvertimenti, le conseguenze dell’invasione sono state sottovalutate e la preparazione del dopo Saddam è stata del tutto inadeguata”. Sono queste in sostanza le osservazioni di John Chilcot, l’uomo che presiede l’inchiesta sul ruolo britannico nell’invasione. Parole che verosimilmente scateneranno una serie di polemiche destinate ad ampliare il terremoto in corso nel mondo politico inglese e che hanno già fatto breccia nella campagna elettorale americana. Anche se il rapporto Chilcot - dopo sette anni di lavori, centinaia di testimonianze raccolte e 150mila documenti vagliati - ci racconta delle ovvietà, poiché evidentemente tutti hanno sotto gli occhi i risultati di cosa ha comportato, non può sfuggire l’importanza simbolica delle sue conclusioni. L’ufficialità del rapporto pone, infatti, una questione politica non da poco sia per il Regno Unito sia per la comunità internazionale, soprattutto per il verdetto schiacciante che condanna in toto l’attività dell’allora premier britannico Tony Blair, il quale “era stato avvertito” dell’inopportunità di entrare in guerra e nonostante ciò ha perseverato nel disastro, ma anche la decisione degli americani. Secondo gli storici, Blair agì in questo modo per non rovinare il buon rapporto tra il Regno Unito e gli Stati Uniti che si era cementato durante la presidenza Clinton e che rischiava di sgretolarsi con l’arrivo del nuovo presidente repubblicano. In questo senso, la commissione suggerisce che Blair avrebbe promesso a George W. Bush che lo avrebbe affiancato nell'impresa bellica “a ogni costo”, convinto di poter gestire il rapporto con l’inquilino della Casa Bianca. Mentre secondo il diretto interessato, che non ha perso tempo e ha risposto immediatamente alle accuse, il rapporto Chilcot per quanto lo riguarda afferma che non vi è stata “nessuna falsificazione o uso improprio dell’intelligence” e neanche “alcun inganno nei confronti del governo”, così come non è stato siglato “nessun patto segreto” tra lui e il presidente George W. Bush per l’entrata in guerra britannica. Nonostante la difesa di Tony Blair, però, il risultato non cambia. La parabola politica dell’ex premier inglese si conclude con una bocciatura storica non da poco da parte di un’inchiesta ufficiale. E non va meglio dall’altra parte dell’oceano, dove il candidato repubblicano Donald Trump non ha perso tempo nel commentare alla sua maniera il caso: “Saddam Hussein era un cattivo ragazzo. Davvero cattivo. Ma sapete cosa? Ha fatto qualcosa di buono. Ha ucciso i terroristi”. E ha poi aggiunto: “Guardate cos’è diventato oggi l’Iraq, è l’Harvard del terrorismo”. Insomma, se a Londra ci si domanda come gestire il rapporto Chilcot e come assorbire l’impatto di questa inchiesta, in America la questione è già spostata in avanti. Il New York Times in un cupo editoriale si è sentito in dovere di citare le parole pronunciate poche settimane fa dal capo della CIA John Brennan il quale, commentando la forza dello Stato Islamico, si è spinto a dire: “Abbiamo ancora molta strada da fare prima di poter affermare che abbiamo fatto dei progressi significativi contro di loro”. Dunque, seguendo le osservazioni di Londra e Washington: la guerra per deporre Saddam Hussein fu un errore; la gestione del dopo-invasione ha generato il terrorismo; il terrorismo a sua volta ha prodotto il Califfato; il Califfato è vivo e vegeto e gli Stati Uniti non hanno idea di come fermarlo. Ma la cosa che più spaventa è l’ammissione che l’Occidente da quindici anni a questa parte ha sbagliato tutto sul Medio Oriente e ancora oggi non ha idea di come gestire il genio (del male) fuoriuscito dalla lampada. E, come insegna la fiaba de Le mille e una notte, una volta fuori è difficile ricacciarlo dentro. Il rapporto Chilcot incide sulla pietra il fatto che l’invasione dell’Iraq fu un vero fallimento e che le conseguenze negative di quella scelta sciagurata si stanno protraendo fino a oggi. Questo significa anche ufficializzare il de profundis per la politica occidentale nel Medio Oriente, e in Iraq in misura ancora maggiore, proprio mentre Baghdad è ostaggio del tritolo dello Stato Islamico. Infatti il Califfo Al Baghdadi, che con il Ramadan 2016 ha inaugurato una nuova strategia del terrore, ha deciso di incrementare le azioni suicide sulla capitale per costringere il governo sciita di Haider Al Abadi a far rientrare in città le truppe che oggi combattono l’ISIS a nord e che minacciano Mosul (ancora in mano allo Stato Islamico), per difendere dalle azioni dei kamikaze una capitale quasi fuori controllo. La sicurezza a Baghdad, infatti, non esiste più e anche se il Califfato non è arrivato mai a minacciare militarmente la città, ciò non significa che tenerla in ostaggio con le bombe non produca lo stesso risultato: quello di danneggiare il governo Al Abadi fino al punto da provocare una sua caduta. In questo, il Califfato potrebbe trovare un alleato inconsapevole nello sceicco Moqtad Al Sadr, il leader che a Baghdad comanda il gigantesco quartiere sciita di Sadr City (impenetrabile anche alle autorità irachene e già protagonista della resistenza all’invasione americana), che osteggia tanto i sunniti di Al Baghdadi quanto il governo sciita in carica, accusandolo di corruzione e di complicità con il terrorismo. Non più di due giorni fa, infatti, Al Sadr ha affermato: “Questi attentati non avranno fine, perché molti politici stanno capitalizzando sulle bombe” e ha poi aggiunto una frase che suona come una minaccia diretta all’attuale governo: “solo il popolo iracheno potrà mettere fine a questa corruzione”. Come a dire che, se Al Abadi non è in grado di proteggere la popolazione, qualcun altro presto dovrà farlo. In ogni caso, metaforicamente Baghdad è davvero la nuova Babilonia.

Così la guerra in Iraq ha sconvolto il Medio Oriente e rafforzato il terrorismo. Lo scenario. Dal rapporto della commissione chilcot emerge che Blair e Bush jr. ignorarono la Storia e non ascoltarono i diplomatici: l'invasione spezzò i fragili equilibri regionali, scrive Bernardo Valli il 7 luglio 2016 su “La Repubblica”. Ci sono voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l'invasione dell'Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto. Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per "crimine di guerra" a carico dell'inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l'autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra. Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per "l'aggressione militare basata su un falso pretesto". E ha parlato di "violazione della legge internazionale", da parte di un primo ministro laburista, quel era all'epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l'inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l'obbediente Tony Blair fosse il "barboncino". Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell'Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l'invasione di allora. La situazione era pronta per un'esplosione. È vero. La guerra nell'Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l'Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l'Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli Ottanta, tra l'Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l'Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell'Islam adesso in aperto confronto. Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c'era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall'iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c'erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L'uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto. La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l'altro, quando era in guerra con l'Iran, un alleato obiettivo. L'irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L'ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c'erano gli americani, sia a Bassora dove c'erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza. L'esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un'amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L'impatto dell'intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell'impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l'Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L'intervento americano con l'appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d'accusa sul piano politico e morale, ma l'analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l'amico Blair hanno ignorato la Storia.

«Sarò con te, sempre». Scrive il 6 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. Tra le carte, fino ad oggi top secret, analizzate e rese pubbliche nel rapporto di Sir John Chilcot sulle responsabilità britanniche nella guerra in Iraq, ci sono anche alcune note che l’allora premier Tony Blair scrisse a George W. Bush. In una di queste, datata 28 luglio 2002 (otto mesi prima che il 20 marzo 2003 prendesse il via la guerra) Blair già promette appoggio incondizionato all’allora presidente Usa per l’invasione dell’Iraq. Il dossier Chilcot contiene vari messaggi tra Blair e Bush prima, durante e dopo il conflitto. In questa lettera, scritta a mano, l’ex premier si complimenta con il presidente Usa per un suo «brillante discorso» in merito alla necessità dell’intervento in Iraq. In tutto sono 29 le lettere inviate dall’ex primo ministro del Regno Unito Tony Blair all’ex presidente Usa George W. Bush e sono centinaia i documenti desecretati e pubblicati nel Rapporto Chilcot. Il rapporto tra i due leader è considerato cruciale nella decisione dell’invasione. Il rapporto Chilcot è un’inchiesta britannica portata avanti dalla commissione parlamentare presieduta dall’ex diplomatico Sir John Chilcot sulla guerra in Iraq. Istituita da Gordon Brown nel 2009, ha lo scopo di far chiarezza sulle circostanze che portarono il governo di Tony Blair a entrare in guerra assieme agli Stati Uniti contro Saddam Hussein Durante i lavori della commissione sono stati analizzati oltre 150.000 documenti e sono stati sentiti più di 150 testimoni, tra cui l’ex premier Tony Blair. È suddiviso in 12 volumi e contiene 2,6 milioni di parole.

Iraq, come sarebbe il mondo oggi se Saddam non fosse caduto? Dopo tredici anni e un’infinita serie di attentati e violenze, cinque domande provano a creare una realtà alternativa in cui il raìs sarebbe ancora al potere, scrive Michele Farina il 6 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. E se non avessero invaso l’Iraq? O se almeno avessero preparato meglio il dopo guerra? Per il rapporto Chilcot fu un intervento «sbagliato» e «le sue conseguenze perdurano ancora oggi». Tony Blair dice che senza quell’intervento il mondo sarebbe peggiore, meno sicuro. E che almeno adesso gli iracheni hanno una chance di libertà che sotto Saddam Hussein non avevano. La libertà di morire a centinaia, una sera d’estate del 2016, per l’esplosione di un camion bomba dell’Isis tra i negozi e i ristoranti di Bagdad affollati di famiglie e bambini? Khaddim al-Jaburi dice che, se incontrasse Blair oggi, «gli sputerebbe in faccia». Al Jaburi è l’uomo che buttò già la prima statua di Saddam alla caduta di Bagdad. Faceva il meccanico, riparava le moto del dittatore. Cadde in disgrazia, gli uccisero 15 familiari. Eppure oggi intervistato a Bagdad dalla Bbc dice che se potesse tornare indietro, sapendo quanto è successo in questi tredici anni, lui quella statua «la rimetterebbe in piedi». I curdi del nord e gli sciiti del Sud, per decenni vittime dichiarate del regime, hanno una prospettiva differente. Senza l’invasione del 2003 Saddam o chi per lui (Qusay, il figlio più astuto) gaserebbe ancora bambini e avversari? Avrebbe fatto un’altra guerra con l’Iran? E se la primavera araba nel 2011 avesse attecchito anche sulla riva al Tigri oggi l’Iraq sarebbe comunque preda — come lascia intendere Blair — di una sanguinosa guerra civile modello siriano? E il mondo sarebbe comunque alle prese con l’Isis e il suo terrorismo in franchising? Tornare indietro. Immaginare la storia provando a rimettere insieme i tasselli secondo un’altra combinazione, seguendo il cartello del «what if», cosa sarebbe successo se. Lo fa l’ex premier Blair e il meccanico al-Jaburi. E’ una tentazione che ognuno di noi sperimenta nel proprio piccolo, a ogni angolo. E se Pellè non avesse provocato Neuer? Più seriamente, pensando in grande: e se non avessero invaso l’Iraq? Un gioco distopico per romanzieri, un esercizio per provare a non sbagliare direzione in futuro.

1 Se avessero trovato le armi di distruzione di massa? Tutto a posteriori sarebbe stato giustificato. Bush e Blair candidati al Nobel per la pace?

2 Se Blair non si fosse legato al carro armato di Bush? L’America sarebbe andata da sola all’invasione. La Gran Bretagna non sarebbe stata meno sicura. Vedi Francia: nel 2003 con Chirac all’Eliseo disse no all’intervento armato in Iraq. Ma questo non le ha risparmiato le ferite degli attentati di Parigi.

3 Se la guerra fosse stata preparata meglio? Il rapporto Chilcot accusa Londra (e di riflesso Washington) di impreparazione e sottovalutazione. Anche da un punto di vista militare. Fin da subito gli stessi comandi alleati dissero (inascoltati) che servivano più soldati e più mezzi. Gli Usa rimasero con gli Humvees colabrodo che saltavano in aria sulle bombe improvvisate, gli inglesi al Sud giravano con i gipponi che i soldati chiamavano «bare mobili». Pensare che la Cia arrivò a Bagdad con casse di bandierine a stelle e strisce: da distribuire alla popolazione che si immaginava festante. Altro che resistenza. Gli Usa prospettavano un rapido «mordi e fuggi», o in alternativa qualcosa di simile alla serena occupazione del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale.

4 Se non avessero sciolto l’esercito iracheno? Una questione spinosa e complicata. Ma certo quella decisione presa dal governatore Usa Paul Bremer non favorì la riconciliazione nazionale. Anzi.

5 Se avessero aspettato l’Onu? Francia e Russia erano contro l’intervento armato. Di fronte alla paralisi diplomatica non c’era un attimo da perdere, sostiene Blair. Ma le prove di intelligence contro Saddam Hussein, come riafferma oggi la commissione Chilcot dovevano apparire gravemente insufficienti anche 13 anni fa. E allora, prendere tempo sarebbe stato saggio e non avrebbe necessariamente rafforzato Saddam. Questa era anche la posizione tedesca. Una linea di prudenza che, con scenario tutto diverso, Angela Merkel va applicando anche alla questione Brexit. La politica del «Schweigen»: calma e silenzio. Meglio che «shock and awe», colpisci e terrorizza (la tattica adottata nel primo giorno di attacco all’Iraq nel 2003). Il rapporto Chilcot (volendolo guardare attraverso il filtro della diplomazia comunitaria) per certi versi prova e allarga il solco tra Gran Bretagna ed Europa continentale. Un solco a geometrie variabili, considerando per esempio l’impazienza francese nell’attaccare la Libia di Gheddafi. Anche se i tedeschi mai l’ammetterebbero, l’attendismo di Berlino sulla Brexit (aspettiamo l’estate) può ricordare il nostro adda passà ‘a nuttata. Molto italiano, e anche molto iracheno: il sentimento di un popolo che, 13 anni dopo la sua liberazione, si ritrova a rimpiangere l’orco Saddam.

PROFUGHI. ARMA DI INVASIONE, DI DITRAZIONE E DI DISTRUZIONE DI MASSA.

Riviste. Eurasia: l’Europa è vittima di migrazioni o di (vere e proprie) invasioni? Scrive il 7 marzo 2017 Manlio Triggiani su "barbadillo.it". All’ordine del giorno resta, in tutta Europa, il tema dei migranti e la soluzione da assumere per affrontare questo problema sempre di più pressante. Intere baraccopoli con migliaia di immigrati vengono spazzate via, eliminate, come a Calais e a Foggia, in molti centri di raccolta si susseguono i tentativi di rivolta, le carrette del mare continuano a sbarcare carichi umani sulle coste italiane, il terrorismo incombe e le agenzie di intelligence indicano i rischio che fra le migliaia di migranti si infiltrino terroristi. Gli attentati periodicamente scuotono la coscienza degli europei. Che fare? A questa domanda i governi europei non sembrano pronti a rispondere. La rivista Eurasia, con gli strumenti geopolitici, di analisi demografica, e di prospezione, affronta questo tema nell’ultimo numero (Eurasia, 4/2016, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, pagg. 205, euro 18). Lo fa con un dossario di 180 pagine interamente dedicato al tema “Migrazioni o invasioni?”. Il direttore Claudio Mutti fa un’operazione necessaria quando si parla di migrazione, invasioni, trasferimenti, accordi: mette a posto i concetti basandosi sul significato delle parole e richiamandosi a eventi storici. Lo fa con chiarezza e efficacia. Sgomberato il campo da interpretazioni grossolane, ideologiche o approssimative, nel fascicolo, uno dei migliori pubblicati dalla redazione di Eurasia, si affrontano, con dati, bibliografie, analisi e revisioni storiche, aspetti fondamentali come le manovre geopolitiche dietro i flussi migratori (Giovanni Petrosillo) la situazione dei rifugiati e migranti nel Mediterraneo (Stefano Vernole) un’analisi economica dei migranti in Francia (Alain de Benoist) il piano di destabilizzazione dell’Europa (Wayne Madsen, Gennaro Scala, Enrico Galoppini) la diffusione del precariato (Gianluca Marletta) i flussi migratori (Alessandra Colla, Anna Bono, Ivelina Dimitrova), e un’analisi degli accordi sull’immigrazione (Aldo Braccio e Ali Reza Jalali). Non mancano due saggi storici sulle invasioni barbariche (Andrea Galletti e Claudio Mutti). Chiudono il fascicolo articoli sulla Russia e un’intervista al segretario regionale della Lega Nord in Emilia Romagna, Gianluca Vinci.

MIGRAZIONI O INVASIONI? Di Claudio Mutti 1 dicembre 2016. La storiografia italiana e francese è solita applicare la definizione di “invasioni barbariche” a quel vasto fenomeno di spostamenti a catena che si verificò tra l’Asia e l’Europa a partire dal IV secolo d. C., portando popolazioni eterogenee a stabilirsi in sedi diverse da quelle originarie, spesso sui territori appartenenti o appartenuti all’Impero romano. Gli storici tedeschi e ungheresi, per ragioni facilmente comprensibili, hanno preferito far uso di termini più neutri e anodini, quali Völkerwanderung e népvándorlás (“migrazione di popoli”). L’odierna penetrazione di masse umane originarie dell’Asia e dell’Africa entro i confini europei è a volte paragonata al fenomeno che ebbe luogo nel Tardoantico e nell’Alto Medioevo; ed anche i termini “migrazione” e “invasione”, quando vengono applicati al caso attuale, riflettono prospettive e percezioni alquanto diverse.

“Migrazione”, infatti, è il termine con cui viene comunemente indicato lo spostamento che individui, famiglie o gruppi più o meno numerosi intraprendono con l’intenzione di stabilirsi in una nuova sede, in maniera provvisoria o definitiva. La teoria geopolitica è solita distinguere i movimenti migratori, rispetto alla volontà dei migranti, in volontari e coatti. Si parla di migrazione volontaria quando gl’individui decidono liberamente di andare a stabilirsi in un luogo in cui sperano di migliorare la loro condizione economica. Invece, una migrazione viene considerata coatta quando i migranti trasferiscono altrove la loro residenza per effetto di una costrizione esercitata dal potere politico (ad esempio, nel caso in cui siano vittime di una deportazione); il movimento migratorio è considerato coatto anche quando viene intrapreso allo scopo di evitare il coinvolgimento in eventi bellici o in catastrofi naturali. Alle due suddette varianti della tipologia migratoria è possibile aggiungerne una terza: quella che in uno studio recente Kelly M. Greenhill (già assistente del senatore John Kerry e consulente del Pentagono) definisce come coercive engineered migration, ossia “migrazione coatta progettata”. Le migrazioni “create ad arte” (engineered) sono, secondo la definizione fornita dalla studiosa stessa, “movimenti di popolazione transfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di estorcere concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più Stati presi di mira”.

Le migrazioni coatte progettate vengono a loro volta distinte in espropriatrici, esportatrici, militarizzate. “Le migrazioni progettate espropriatrici – scrive la Greenhill – sono quelle il cui obiettivo principale consiste nell’appropriazione del territorio o della proprietà di un altro gruppo o gruppi, oppure nell’eliminazione di tale gruppo o gruppi in quanto minacciano il dominio etnopolitico o economico di coloro che progettano l’(e)migrazione; rientra in questo caso ciò che è comunemente noto come pulizia etnica”.

Si parla invece di “invasione” allorché un gruppo militare o anche un gruppo di civili penetra in un territorio, vi si diffonde e lo occupa, sottraendolo, tutto o in parte, al controllo ed alla sovranità della popolazione autoctona. Non è dunque necessario che un’invasione, per essere tale, venga portata a termine con le armi; anzi, un’invasione può avvenire in modo pacifico, se a stanziarsi su un determinato territorio e a modificarne l’omogeneità etnica o culturale sono masse umane disarmate ma numericamente consistenti.

Vi sono infatti casi nei quali un fenomeno immigratorio si configura come un’invasione vera e propria. L’immigrazione di massa possiede allora l’efficacia di un’arma di distruzione di massa. Esempi storici in tal senso non mancano: si pensi all’immigrazione che ha praticamente cancellato dal territorio degli attuali Stati Uniti d’America la presenza della popolazione autoctona o a quella che ha trasformato la Palestina nell’odierno “Stato d’Israele”. Da parte sua, Kelly M. Greenhill individua circa una cinquantina di casi di migrazioni architettate o comunque eterodirette ed utilizzate, tutti casi verificatisi dopo che nel 1951 entrò in vigore la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati.

Perciò l’invasione migratoria attualmente diretta verso l’Europa, se si vuole riproporre un termine usato dalla studiosa statunitense, è “un’arma di guerra” (a weapon of war), che rientra nel novero delle armi non convenzionali impiegate nella cosiddetta “guerra asimmetrica”. Come il terrorismo, la manipolazione dei mezzi di comunicazione, la pirateria informatica, le turbative dei mercati azionari, così anche i flussi migratori che investono l’Italia e la regione balcanica – flussi sollecitati, attirati, agevolati ed importati – costituiscono un’arma non convenzionale utilizzata per destabilizzare l’Europa. È dunque in corso qualcosa che, a detta di Samar Sen, ambasciatore dell’India all’ONU, assomiglia molto ad una guerra. “Se aggredire un Paese straniero – argomenta il diplomatico – significa colpire la sua struttura sociale, danneggiarne l’economia, costringerlo a rinunciare a porzioni del suo territorio per accogliere profughi (refugees), qual è la differenza tra questo tipo di aggressione e il tipo più classico, che si ha quando viene dichiarata una guerra?” Il medesimo concetto è stato espresso nel corso di una conferenza sul conflitto in Cossovo tenuta l’11 dicembre 2000 alla Brandeis University: “La natura della guerra è cambiata – ebbe a dire Martha Minow, della Harvard Law School –; ora la guerra sono i profughi (refugees)”.

Gli strateghi di questa guerra sui generis agiscono allo scoperto. Uno di loro, il famigerato speculatore statunitense George Soros, il 20 settembre 2016 ha apertamente rivendicato dalle colonne di “The Wall Street Journal” il proprio ruolo di finanziatore dell’invasione. “Ho deciso – ha dichiarato – di stanziare 500 milioni di dollari per investimenti destinati in modo specifico ai bisogni di migranti, rifugiati e centri d’accoglienza. Investirò in nuove imprese, società già esistenti, iniziative di impatto sociale fondate dai migranti e rifugiati stessi. Anche se il mio impegno principale consiste nell’aiutare migranti e rifugiati che arrivano in Europa, cercherò progetti di investimento che avvantaggino i migranti in tutto il mondo”.

Migrazioni. Di Claudio Mutti, 21/12/2015. Fonte: Eurasia. Il termine migrazione indica uno spostamento di uomini o di animali da una sede ad un’altra; esistono perciò migrazioni di popoli e di persone singole, così come migrazioni di gru o di anguille. Considerato in relazione agli esseri umani (individui e collettività), il fenomeno migratorio si rivela alquanto complesso, sicché comporta diverse definizioni e classificazioni. Secondo l’ONU sono da ritenersi spostamenti migratori i cambiamenti di residenza aventi una durata superiore ad un anno, per cui restano esclusi fenomeni quali “il pendolarismo, il frontalierato, la transumanza, l’alpeggio, il nomadismo e quelle forme di spostamenti ciclici legati al bracciantato agricolo stagionale, alla vendita di manufatti prodotti direttamente, alla prestazione d’opera o di servizi stagionali”. Considerata in base alla sua durata, una migrazione può essere permanente o temporanea, anche se una distinzione di questo genere non è sempre facile: un trasferimento che secondo il progetto iniziale doveva essere temporaneo può diventare definitivo, mentre un trasferimento progettato come definitivo può risolversi, per cause impreviste, in uno spostamento temporaneo. Per quanto riguarda l’ampiezza, le migrazioni possono essere classificate come intraregionali ed extraregionali, intranazionali ed extranazionali, intracontinentali ed extracontinentali. Rispetto al numero degl’individui migranti, si distinguono migrazioni per infiltrazione e migrazioni di massa. Nel primo caso, “il movimento migratorio si svolge mediante il trasferimento di singoli individui o, al massimo, di piccoli nuclei familiari”. Alla categoria delle migrazioni di massa (spostamenti di popoli interi o comunque di grandi gruppi umani) appartengono invece le conquiste, le colonizzazioni, le invasioni.

“Invasioni barbariche”, ad esempio, è la locuzione preferita dagli storici italiani e francesi per indicare quel vasto fenomeno di spostamenti a catena che a partire dai secc. IV e V d.C. interessò popolazioni eterogenee del continente eurasiatico, per concludersi col loro insediamento su territori che in molti casi erano già appartenuti all’Impero romano e che comunque erano diversi da quelli di cui tali popolazioni erano originarie. Come è noto, questo fenomeno migratorio è stato invece definito dalla cultura tedesca col termine più neutro ed anodino di “migrazioni di popoli” (Völkerwanderungen). In relazione alla volontà degl’individui che migrano, vi sono migrazioni definibili come volontarie (allorché si sceglie liberamente di trasferirsi altrove allo scopo di migliorare la propria condizione economica) ed altre qualificabili come coatte (in quanto determinate da costrizioni politiche o persecuzioni oppure da eventi bellici o catastrofi naturali). I cosiddetti fattori di spinta migratoria, ossia quelli che inducono ad emigrare, sono dunque diversi. Un potente fattore di spinta è quello economico, quando nel paese d’origine le opportunità di lavoro sono scarse ed il tenore di vita è inferiore rispetto alle aree scelte come destinazione. Vi sono poi fattori di spinta migratoria definibili come politici: guerre, conflitti etnici, persecuzioni ecc.

Tra i fattori che agevolano il movimento migratorio, quelli sociali consistono nell’esistenza di una rete capace di assicurare un certo sostegno ai migranti appena arrivati nel paese di destinazione. Tale rete di relazioni sociali può coincidere con una comunità di connazionali che, già insediata nel paese prescelto, consente ad amici e parenti rimasti in patria di emigrare a loro volta, offrendo informazioni, risorse per il trasferimento e infine assistenza nella ricerca di una sistemazione. Si tratta di un processo a catena: “Se esiste una ‘legge’ in materia di migrazioni, è che un flusso migratorio, una volta avviato, si alimenta da solo”. Ma la rete di relazioni sociali a sostegno dei migranti può anche essere costituita da organizzazioni non governative o da enti assistenziali, sia laici sia ecclesiastici, che coinvolgono le amministrazioni e la politica.

A livello infrastrutturale, un fattore agevolante è rappresentato dalla disponibilità dei trasporti, legali e illegali, eventualmente affiancati dalle iniziative “umanitarie” organizzate dai governi.

Infine, “risultato delle condizioni facilitatrici sociali e infrastrutturali, l’immigrazione è stimolata dal numero crescente di imprese clandestine che organizzano l’immigrazione illegale”.

Ai fattori di spinta migratoria si collegano le strategie specificamente concepite al fine di creare o manipolare un movimento migratorio di massa. In tal caso si ha a che fare con quelle che Kelly M. Greenhill (già assistente del senatore John Kerry e già consulente del Pentagono, presidentessa del gruppo di lavoro pubblico su conflitto, sicurezza e politica presso la Harvard Kennedy School of Government del Belfer Center) chiama “migrazioni progettate coatte” (coercive engineered migrations), vale a dire “movimenti di popolazione transfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di strappare concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più Stati presi di mira”. La Greenhill individua tre distinte categorie di migrazioni strategicamente progettate: quelle espropriatrici, quelle esportatrici e quelle militarizzate. “Le migrazioni progettate espropriatrici sono quelle in cui il principale obiettivo è l’appropriazione del territorio o della proprietà di un altro gruppo o gruppi, oppure l’eliminazione di tale gruppo o di tali gruppi in quanto minacciano il dominio etnopolitico o economico di coloro che progettano la migrazione (o le migrazioni); rientra in questo caso ciò che è comunemente noto come pulizia etnica. Migrazioni progettate esportatrici sono le migrazioni progettate per rafforzare una posizione politica interna (espellendo dissidenti politici ed altri avversari interni) oppure per sconfiggere o destabilizzare uno o più governi stranieri. Infine, migrazioni progettate militarizzate sono quelle effettuate, di solito durante un conflitto armato, per acquisire vantaggio militare contro un avversario – attraverso la spaccatura o la distruzione del suo centro di comando, della sua logistica o delle sue capacità di movimento – oppure per rafforzare la propria struttura attraverso l’acquisizione di personale o risorse aggiuntive”.

Parlando dell’immigrazione clandestina di massa che ha sconvolto l’Europa nel 2015, il presidente ceco Miloš Zeman ha inquadrato il fenomeno nello schema delineato dall’ex assistente di Kerry. “La cosiddetta crisi migratoria – ha detto Zeman nel corso di una visita ufficiale a Pardubice – è un’invasione organizzata, il cui scopo è quello di abbattere le strutture sociali, culturali, economiche e politiche europee. È un’invasione ben organizzata. Non è spontanea. Ci sarà un momento in cui l’esercito ceco dovrà agire per difendere i confini della Repubblica Ceca”. Insomma, come ebbe a dire un’altra docente universitaria statunitense l’11 dicembre 2000, commentando la guerra in Cossovo, “È cambiata la natura stessa della guerra; adesso i rifugiati sono la guerra” (“The nature of war itself has changed; now the refugees are the war”).

Le “migrazioni progettate coatte” (coercive engineered migrations) si configurano perciò come un’arma non convenzionale che, al pari di altre armi altrettanto non convenzionali (terrorismo, manipolazione dei media, pirateria informatica, turbative dei mercati azionari ecc.), viene usata per combattere quella che due celebri polemologi cinesi hanno chiamata “guerra senza limiti”. È interessante e significativo il fatto che i due polemologi accostino George Soros a Bin Laden: il famigerato “filantropo” è stato citato dal primo ministro ungherese Viktor Orbán, in un’intervista rilasciata a Radio Kossuth, in relazione all’invio in Europa di sedicenti profughi provenienti dall’Africa e dal Vicino Oriente. “Il suo nome – ha detto Orbán – rappresenta forse il caso più noto di coloro che sostengono tutto ciò che sovverte il tradizionale stile di vita europeo”, mentre gli attivisti delle sue organizzazioni, fornendo assistenza legale e pratica agl’immigrati clandestini, “diventano inavvertitamente parte della rete internazionale di contrabbando di esseri umani”.

In seguito agli attacchi terroristici di Parigi attribuiti al Daesh (il sedicente “Stato Islamico”), è stata nuovamente presa in considerazione l’ipotesi di un rapporto tra movimenti migratori e terrorismo. In realtà, molti migranti hanno abbandonato la loro terra proprio per sottrarsi alla ferocia del Daesh o, comunque, alle condizioni catastrofiche create in Africa e nel Vicino Oriente dalle aggressioni occidentali. Tuttavia, data la mancanza di efficaci controlli alle frontiere dell’Unione Europea, non si può certo escludere che i flussi migratori, controllati da gruppi criminali, abbiano recato con sé anche elementi affiliati ad organizzazioni terroristiche o da queste facilmente reclutabili. “Da tempo – ha dichiarato un funzionario dei servizi d’informazione – sappiamo che il traffico di esseri umani sta attirando l’attenzione di milizie estremiste e formazioni terroristiche, incluso Islamic State. Sia come possibile metodo di veicolamento verso l’Europa di elementi ostili a loro affiliati, sia in quanto canale di finanziamento”. In ogni caso, una massa di immigrati destinata a condizioni di vita precarie, all’emarginazione ed alla frustrazione non può non costituire un bacino ideale per l’azione di proselitismo dei gruppi terroristi.

Immigrazione e rifugiati: 5 cose da sapere prima di aprire la bocca, scrive "Contro-informazione" il 17 giugno 2015. Ad ogni emergenza, come in questi giorni, sui media parte sempre la solita litania infarcita di domande retoriche: Siamo vittime di un’invasione? Perchè stanno venendo tutti qua? Come possiamo difenderci? Mai una volta che si cerchi di rispondere alla domanda delle domande, quella che potrebbe aiutare lo spettatore a mettere veramente a fuoco il fenomeno: per quale motivo e da che cosa questa gente sta scappando? E’ una domanda che evidentemente non si può fare, perché la risposta comporterebbe anche l’obbligo di una riflessione su noi stessi, sulle politiche dei nostri governi e sui costi sociali del nostro benessere. Ci costringerebbe a guardarci dentro ed a riflettere su alcune questioni che diamo per scontate. Cose del tipo: esiste una correlazione tra immigrazione e guerre scatenate dai nostri governi in giro per il mondo? E la nuova offerta super conveniente che mi hanno proposto per la fornitura domestica del gas a cosa sarà dovuta? E le verdure e la carne che il supermercato mi offre a basso prezzo c’entrano qualcosa? Ma prima di rispondere a queste domande procediamo con ordine.

1. IN ITALIA SIAMO PIENI DI RIFUGIATI? Il Pakistan ospita al suo interno oltre 1,6 milioni di rifugiati, Iran e Libano oltre 800mila (per il Libano i rifugiati rappresentano addirittura il 19% della popolazione totale), la Turchia e la Giordania oltre 600mila (con un’incidenza del 10% sulla popolazione totale). Se ci soffermiamo a ragionare sui dati percentuali, i più pertinenti per capire quanto “l’emergenza rifugiati” pesi sulle società ospitanti, scopriamo che in Svezia rappresentano l’1,19 % della popolazione totale, in Austria lo 0,66, in Francia lo 0,35, in Germania lo 0,23, mentre in Italia la loro incidenza sulla popolazione totale si ferma allo 0,13%. Sono 78mila persone in tutto, una ogni 767 abitanti. In pratica, seguendo i dati, in tutto il vostro quartiere è probabile che vi siano tra sì e no una decina di rifugiati. Sorpresi? Scommetto che se siete soliti perdere i pomeriggi guardando Giletti pensavate fossero molti di più.

2. I RIFUGIATI CI COSTANO UN SACCO DI SOLDI? Questo è l’altro grande cavallo di battaglia di tutti i razzisti: “Ai rifugiati diamo 35 euro al giorno e agli italiani niente”. Ma sapete quanto viene dato a un rifugiato? 2,50 euro sotto forma di buono spesa (il cosiddetto pocket money) da utilizzare presso alcuni negozi convenzionati per beni di prima necessità. Basta. Tutti gli altri soldi che vengono spesi vanno in mano ad italiani. Quando la cosa è gestita a norma di legge servono a ripagare servizi reali e creano anche un indotto con ricadute sull’economia reale: stipendi agli operatori sociali, acquisti di cibo presso servizi di catering, affitti a hotel e residence che li ospitano. Quando invece è gestita tramite tangenti e ruberie – il che succede molto spesso – servono principalmente a far fare un sacco di soldi agli affaristi dell’accoglienza. Come ha recentemente dimostrato il caso di “mafia capitale” con il grande boss del sistema dell’accoglienza – Salvatore Buzzi – intercettato mentre spiegava all’interlocutore: “Ma tu c’hai idea quanto ce guadagno sui rifugiati? Er traffico de droga me rende meno”. Comunque siano spesi è importante sapere anche che i 35 euro al dì in questione sono appositamente erogati dal “Fondo Europeo per i rifugiati”, che li destina all’Italia esclusivamente per questo scopo, quindi non si tratta di soldi che potrebbero essere spesi in altro modo.

3. QUALE RELAZIONE ESISTE TRA GUERRE FATTE DALL’OCCIDENTE E RIFUGIATI? Osservate la mappa a lato e guardate quali sono gli stati dai quali provengono la maggior parte dei richiedenti asilo arrivati in Europa. Ai primi quattro posti abbiamo Siria, Iraq, Afghanistan e Kosovo. In Siria da ormai 4 anni si combatte una guerra civile fomentata in gran parte dai paesi occidentali che hanno imposto sanzioni e minacciato guerra al governo legittimo di Assad e finanziano la fazione del cosiddetto Esercito Libero Siriano, mentre sfruttando il vuoto di potere l’Isis avanza e i cittadini siriani, ovviamente, cercano di scappare. In Iraq e Afghanistan assistiamo da oltre un decennio ai tragici effetti della “guerra al terrorismo” voluta da George Bush, con la scusa dell’attentato alle torri gemelle. Le bombe americane autorizzate dopo la formulazione di prove false su ipotetiche armi di distruzioni di massa (Iraq) e allo scopo di stanare Bin Laden che in realtà se ne stava tranquillo e protetto dentro i confini dell’alleato pachistano (Afghanistan), hanno creato nient’altro che insicurezza, bombe ai mercati e distruzione di ogni infrastruttura economica. Per ultimo il Kosovo, dove l’aggressione della Nato contra la Serbia, in barba al diritto internazionale, ha sancito l’indipendenza dell’ex provincia di Belgrado, la quale continua ad essere guidata in nome della divisione etnica, mentre la minoranza serba perseguitata non smette di scappare. Forse prima di tutto il resto i media nostrani dovrebbero chiedersi quanto la nostra politica estera abbia alimentato morte, povertà ed emigrazione, non credete?

4. COSA C’ENTRA LO SFRUTTAMENTO DELLE RISORSE CON L’IMMIGRAZIONE? Ma non è solo la guerra a impoverire i territori spingendo gli abitanti locali a cercare riparo altrove. L’immagine a fianco mostra la fitta rete di commerci petroliferi che dagli stati africani si dipanano verso il resto del mondo. Una relazione commerciale quanto mai iniqua: dove multinazionali petrolifere americane, europee ed asiatiche sfruttano i territori africani lasciando in cambio una manciata di denari a poteri (spesso dittatoriali) compiacenti e frequenti disastri ambientali. Dal delta del Niger ad esempio, si stima che ogni anno decine di migliaia di persone partano in cerca di protezione umanitaria proprio perché vittime della violenza e dell’inquinamento (che ha reso impossibile la pesca, sostentamento storico per quelle popolazioni) generati dal business del petrolio. Sarebbe sbagliato credere che questa forma di commercio sia paritaria, perché appunto si basa sulla connivenza dei poteri locali (che siano sceiccati come nel golfo arabo o governi autoritari dell’africa post-coloniale) che vengono finanziati e mantenuti al potere in cambio della cessione delle proprie risorse. Nella storia recente due paesi al mondo hanno cercato una strada diversa: la Libia di Gheddafi, dove le risorse naturali erano nazionalizzate, e il Venezuela dopo la rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez, che cessò i contratti con le multinazionali e fece gestire le risorse petrolifere a compagnie di stato, sancendo che i proventi dovessero servire in massima parte per lo sviluppo del paese e la lotta alla povertà interna. Il risultato? In Libia sappiamo che fine ha fatto Gheddafi, mentre in Venezuela gli Usa cercarono (fallendo) di fomentare un colpo di stato contro Chavez nel 2002.

5. IL FURTO DELLE TERRE (LAND GRABBING) E I FENOMENI MIGRATORI. Da una parte paesi come Sud Sudan, Papua Nuova Guinea, Indonesia, Congo e Mozambico. Dall’altra: Stati Uniti, Emirati Arabi, Gran Bretagna, Singapore, Cina e Arabia Saudita. I primi sono i paesi dove più massiccio è stato l’accaparramento di terre, i secondi sono quelli che quelle terre le hanno rilevate. Ecco il colonialismo del XXI secolo. Un colonialismo senza fucili, ma sostanzialmente simile al colonialismo degli albori. D’altronde anch’esso iniziò con lo sventolio di titoli di proprietà. A partire dal 2000, a livello globale, contiamo oltre 1.600 accordi di acquisizione di grandi porzioni di terreni, per un totale di oltre 60 milioni di ettari. Come se ogni 4 giorni venisse espropriata una porzione di terreno più grande di Roma, con accordi che sanciscono il diritto esclusivo in locazione per 50 o 99 anni (non in acquisto per evitare le tasse) non solo sul suolo, ma anche su tutto ciò che vi si trova sotto e sopra. Quindi anche possesso di risorse naturali e idriche, senza costi aggiuntivi. Ai contadini locali di norma viene lasciato qualche giorno per lasciare i terreni e portare via i propri averi, prima di rimanere senza terra, senza casa e senza cibo. Questo è il “land grabbing”. Le conseguenze sociali del fenomeno sono: affollamento urbano e povertà, erosione di culture ed economie locali e – quando la terra viene destinata a coltivazioni per l’esportazione o biocarburanti – minaccia alla sicurezza alimentare e all’ambiente coinvolto. Milioni di contadini sono stati in questi anni espropriati della loro, povera ma dignitosa, vita sui campi. Molti di essi cercano di emigrare, alcuni dopo un lungo peregrinare attraverso l’africa, scampando a guerre e carestie, arrivano qua come rifugiati. Dovevano rimanere a casa loro? Se imperialismo e neo-colonialismo non fossero arrivati ad impedirglielo, sicuramente lo avrebbero preferito anche loro.

Autore: Andrea Legni. Giornalista professionista, vive a Bologna dove lavora insieme al gruppo media indipendente SMK Videofactory. Ha scritto e realizzato video-inchieste per Il Corriere della Sera, La Repubblica, Altreconomia ed altri. Come documentarista ha realizzato le inchieste "Kosovo vs Kosovo" e "Quale Petrolio?". E' caporedattore web di Dolce Vita Magazine.

Boom di spese per i migranti. Ci costano più della manovra. Nel Def la cifra per gli sbarchi aumenta a 4,6 miliardi contro i 3,4 della finanziaria. Verso l'aumento dell'Iva, scrive Antonio Signorini, Martedì 18/04/2017, su "Il Giornale". La gestione dei «flussi» dei migranti costa sempre più. Non c'è spending review che regga di fronte alle masse che attraversano il Mediterraneo e vengono portate in Italia. Ce n'è traccia persino nel Def, con toni allarmanti. «Il deciso incremento dei flussi e delle presenze a fine 2016 si riflette nei dati oggi disponibili, che aggiornano al rialzo le stime presentate nel Documento Programmatico di Bilancio», spiega il documento di Economia e finanza approvato la settimana scorsa dal governo. Il ministero dell'Economia piega che «In base ai dati attuali, le operazioni di soccorso, assistenza sanitaria, alloggio e istruzione per i minori non accompagnati sono, al netto dei contributi dell'Ue, pari a 3,6 miliardi (0,22 per cento del PIL) nel 2016 e previste pari a 4,2 miliardi (0,25 per cento del PIL) nel 2017, in uno scenario stazionario». Cifre attese e, fino a ieri, citate come scenario peggiore. Ma il Def aggiunge dell'altro. «Se l'afflusso di persone dovesse continuare a crescere la spesa potrebbe salire nel 2017 fino a 4,6 miliardi (0,27 per cento del Pil)». Ci sono quindi in ballo spese extra per 400 milioni di euro. Quanti ne dovrebbe portare la stretta sulle accise prevista dalla manovra che sta per essere approvata dal governo. E in ogni caso, la spesa per migranti potrebbe superare per 1,2 miliardi il valore complessivo della manovra stessa, cioè qei 3,4 miliardi chiesti dall'Europa. Un sacrificio a quanto pare incomprimibile. La spesa per la gestione dei migranti aumenta di anno in anno e va a braccetto con un'altra tendenza evidentemente inarrestabile. Quella ad aumentare le tasse.

La denuncia di Forza Italia: "Partenze incentivate da Ong Chiudiamo la rotta del mare". Romani: scorretto umanitarismo. In Senato al lavoro la commissione di indagine chiesta dagli azzurri, scrive Anna Maria Greco, Martedì 18/04/2017, su "Il Giornale". Forza Italia mette sotto accusalo lo «scorretto umanitarismo» che, con imbarcazioni di soccorso delle Ong vicino alle acque territoriali libiche, finisce con «l'incentivare il traffico di esseri umani» e tragedie in mare come quella di Pasqua. Gli azzurri hanno chiesto e ottenuto che la commissione Difesa del Senato avviasse una indagine conoscitiva sulla situazione e ora il presidente dei senatori di Fi Paolo Romani raccomanda che «giunga rapidamente ad un risultato». L'ennesima tragedia nel Mediterraneo di domenica, con un bambino tra le vittime, dice, «si poteva evitare» e rientra tra le «nefaste implicazioni di uno scorretto umanitarismo», mentre bisogna «interrompere il meccanismo infernale, avviato inconsapevolmente dalle Ong». Una denuncia di cui Il Giornale si occupa da mesi. Romani cita il rapporto Frontex 2017, sulla presenza delle imbarcazioni di soccorso delle Ong «a poche miglia dalle coste libiche, in determinate circostanze si potrebbe dire a vista, che dà l'illusione di un salvataggio certo», inducendo i migranti a partire anche col brutto tempo e con mezzi sempre più di fortuna. Ciò si traduce in un affare per le organizzazioni criminali, che riducono i costi per i «barconi» ed eliminano gli scafisti facendoli guidare da un immigrato, mentre il nostro Paese «si trova a fronteggiare una vera e propria invasione di migranti, tra cui molti minori non accompagnati, con costi ingentissimi e non più sostenibili». Gli stessi migranti, sostiene Romani, «affrontano un pericoloso e costoso viaggio, via terra e via mare, preda di trafficanti senza scrupoli, sottoposti ad abusi e torture, che li porterà invece, se non alla morte in mare, a frontiere chiuse da gendarmi o da burocrazie europee poco solidali». Dunque, per il senatore l'Italia non può più «assistere inerme alle sempre più frequenti tragedie nel Mediterraneo, né sostenere i costi di un'accoglienza indiscriminata» e consentire che «le nostre città diventino ancora meno sicure perché terreno di razzia di clandestini costretti alla microcriminalità». La richiesta è di chiudere la rotta del centro-Mediterraneo, come è già stato fatto per quella nell'ovest-Mediterraneo, con controllo delle frontiere, rimpatri e lavoro congiunto dei Paesi di origine e di partenza. Basta con «ogni meccanismo di incentivazione delle partenze», sostiene Romani, bisogna fermare i barconi, verificare «l'eventuale complicità fra scafisti, che forniscono telefoni cellulari con tanto di numeri telefonici, e le ong pronte a ricevere le chiamate dirette», ridurre «l'eccessiva ed inappropriata presenza della nostra Guardia Costiera» che traghetta sulle nostre coste i migranti e il «falso addestramento» di quella libica, che non pattuglia le coste da dove partono i barconi. Già qualche giorno fa Maurizio Gasparri, dopo un'audizione al Senato, aveva parlato di «organizzazioni ambigue, dai connotati non ben definiti, con finanziatori internazionali che si divertono a dar soldi a chi oggettivamente sostiene i trafficanti».

Esodo indotto e luoghi comuni dei falsi buonisti: è in corso da anni, un attacco alla vicaria di Cristo da parte dei nemici di Gesù. Ecco perchè! Scrive Arrigo Muscio – Genitori Cattolici. Le nostre coste sono invase (ogni giorno di più) da migliaia di immigrati che, proclamandosi rifugiati politici o profughi, vengono accolti (anche mediante le nostre navi da guerra) con ogni considerazione. I mass media ci fanno “una capa così” ogni giorno parlando di minori non accompagnati (il perché non ci viene detto) di donne incinte ecc.. Il solito ritornello! La nostra repubblica delle banane viene comunque stigmatizzata in quanto ancora “cattivella” nei confronti dei profughi. In questa riflessione mi preme sottolineare un paio di concetti, puntualizzando quanto segue:

1) Dopo le primavere arabe con le quali sono stati rovesciati i “tiranni” degli stati africani confinanti, a cui sono seguite “libere elezioni” da parte degli stessi cittadini, sono aumentati i cosiddetti profughi. Profughi da che cosa? (Ma non c’era stata – aggiungiamo – l’esportazione della democrazia occidentale, planata sulle ali robuste e fiere delle “Primavere Arabe”?);

2) Tale invasione riguarda essenzialmente l’Italia dato che se qualcuno alza il posteriore dalla sedia, si disintossica dalla disinformazione organizzata, si reca personalmente negli stati europei ed osserva direttamente la situazione nelle varie città (es.: Oslo, Copenaghen, Valencia, Barcellona, Lisbona, ecc.) scopre che nel resto d’Europa la situazione immigrati è completamente diversa. Le migliaia di cosiddetti profughi che, ospitati in vari hotel e strutture, bighellonano qua e là, praticamente non esistono. Vivono soltanto quelli impegnati in varie attività lavorative. A Nazarè (rinomata località marina in Portogallo) non ho notato un vu cumprà.  Come non li ho notati in altre città europee. Come mai? Ho visto invece migliaia di lavoratori extracomunitari impegnati in vari ruoli, ad esempio sulle navi da crociera.

3) Nella nostra repubblica delle banane, nella quale i presidenti del consiglio non vengono più nominati in base al risultato delle elezioni politiche nazionali ed in barba ai più elementari criteri di democrazia (tant’è che le preferenze sono state abolite e se ne guardano bene dal rintrodurle!) non ho mai incontrato un extracomunitario, tra quelli che allungano la mano per l’elemosina o che si aggirano con le mani in tasca, che mi abbia chiesto se conoscevo qualche opportunità di lavoro. Trovano comodo godere dei sostanziosi aiuti del Bel Paese senza cercar lavoro?

4) Perché l’Europa che condanna l’Italia per la situazione carceraria non la condanna anche e soprattutto per l’assenza di democrazia?

5)  Perché l’Europa non la condanna per i tanti delinquenti pluricondannati che a piede libero, grazie alle leggi permissive, compiono reati a danno dei sudditi italiani?

6) I soldi per l’accoglienza dei cosiddetti profughi (in base a quale documentazione, situazione accertata ecc. nessuno lo sa!) ci sono sempre, mentre quelli per la ricerca, per le forze di polizia, per le aule scolastiche fatiscenti e pericolose, per la ristrutturazione informatica della giustizia, per la sanità ecc. languono e l’adeguamento della pensione entro i duemila euro netti chissà quando la vedranno gli interessati.

7)  Perché i cosiddetti profughi (la maggior parte giovani e forti) non devono impegnarsi in attività lavorative? Chi l’ha detto che devono solo godere dei benefit? La Bibbia? Assolutamente no! (“Chi non vuole lavorare neppure mangi” 2 Tes 3,10). La costituzione? Dove?

8) Come mai i sostenitori del buonismo immigratorio non ne accolgono uno o più a testa a casa loro al posto di rifilarli a Pantalone? Tra loro vi sono politici (senatori, deputati, consiglieri regionali), sindacalisti, ministri, giornalisti, docenti, vescovi, cardinali, persone di cultura e di portafoglio gonfio ecc.. Che bell’esempio che darebbero!!!

9)  Come mai ad esempio gli ucraini, che sono in guerra, non arrivano in massa in Italia in cerca di accoglienza? Sono solo gli islamici che ci “invadono”? Quali, visto che sia in Marocco sia in Tunisia, sia in Egitto sia in Palestina (ecc..) vi sono milioni di persone che vivono e lavorano regolarmente?

10) L’Onu che cosa fa? Dorme? E i contributi che riceve da parte di tutti gli stati membri a che cosa servono?

Potrei continuare, ma mi fermo qua e torno alla domanda principale. Come mai solo nel Bel Paese (amato dalle caste, dai papponi, dai delinquenti nazionali e d’importazione, dai corruttori, dagli evasori, dai violenti, dagli stupratori, dai delinquenti a piede libero ecc.) succede quanto sopra riportato? Ed è quanto dicono al bar ed in varie occasioni i semplici cittadini, quelli che mantengono la baracca! Semplice! Perché in Italia c’è la vicaria di Cristo ed i nemici di Gesù (in stretta alleanza con i discendenti di Giuda) cercano di soffocare il centro politico-operativo-amministrativo della chiesa cattolica. Infatti, guarda caso, i beneficiari di ogni considerazione sono proprio quelli che non “riconoscono Gesù venuto nella carne” i quali, secondo l’eterna Parola di Dio (e non secondo quella dei prelati) non dovrebbero essere accolti. Non lo affermo io ma lo Spirito Santo “Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo! Fate attenzione a voi stessi, perché non abbiate a perdere quello che avete conseguito, ma possiate ricevere una ricompensa piena. Chi va oltre e non si attiene alla dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo; poiché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse.” (2 Gv. Cap. 7). Concetto espresso anche dal grande Papa Leone XIII nell’Inimica Vis, Papa che non verrà mai beatificato per i suoi interventi di denuncia della massoneria (Humanum genus, Inimica Vis). Arrigo Muscio – Genitori Cattolici

Invasione provata dalla mancata integrazione. Velate di botte: la violenza in nome dell'islam. Le ragazze musulmane vogliono vivere all'occidentale e senza velo. Ma i genitori islamici le picchiano. In una settimana cinque casi, scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 17/04/2017, su "Il Giornale". Le grida di libertà diventano urla di dolore. Muoiono in gola, si perdono nelle mura di casa. La testa rasata, i pugni in faccia, le frustate sulla schiena fino a far sgorgare il sangue. Ogni giorno aumenta il numero di ragazze musulmane che vivono in Italia, ma sono costrette dalle loro famiglie islamiche a seguire i dettami della cultura di origine. La cronaca delle ultime settimane dimostra che esiste il problema "integrazione". Bella scoperta, direte. Certo: ma i casi di violenza degli ultimi giorni suonano come un pugno sul volto di chi non vuol capire che i moderni valori nostrani e quelli di estrazione musulmana cozzano. E non poco. Altro che multiculturalismo. Molte giovani musulmane vorrebbero "vestire all'occidentale", vivere come vivono i loro coetanei italiani. Innamorarsi di un cristiano, sposarsi per amore e non per costrizione. E invece nell'Europa delle libertà sono obbligate a indossare il velo, a maritarsi da bambine e a subire frustate dai genitori per i loro comportamenti fuori dai dettami coranici.

Non tutte le famiglie musulmane sono così, ovvio. Ma il problema esiste ed è folle nasconderlo. Chiedetelo a Fatima, la 14enne del Bangladesh cui la madre ha tagliato i capelli a zero. Appena uscita di casa, si toglieva il velo che era obbligata a mettere e mostrava ai compagni di classe la bella chioma. Era il suo piccolo segreto. Al suono della campanella si rimetteva l'hijab in testa e fingeva di apprezzare i dettami di Allah. Una sera la famiglia ha scoperto tutto. La madre le ha estirpato i capelli: uno ad uno, annullando la sua femminilità. Quando intervistai un importante imam della setta dei Tabligh Eddawa, movimento radicale islamico, mi spiegò che il Corano prescrive di "battere le donne nei loro letti" per far capire loro gli "errori commessi". Se picchiate "senza esagerare", non si commette una violenza. Forse non la pensava così la 15enne marocchina di Pavia quando ha saggiato sul suo corpo indifeso le frustate del padre e le bastonate del fratello. "Non meriti di vivere, sei una putt..., se muori è meglio", le dicevano accusandola di avere comportamenti "troppo disinvolti". "Tu non sei come noi, vuoi essere come le tue amiche italiane, solo le putt... si vestono come te...". I giudici sono intervenuti per allontanarla dalla famiglia. Un altro padre-padrone è il 38 kosovaro finito in manette a Siena. La figlia è arrivata a scuola piegata in due dalle botte e dolorante. La sua colpa? Non aver indossato il velo ed essere refrattaria nell'imparare a memoria il Corano. La polizia ha scoperto che la giovane "viveva in un contesto familiare isolato", "non poteva intrattenere alcun rapporto con i coetanei" e "doveva seguire i precetti più radicali della religione islamica". Tutti, nessuno escluso: a partire dalla subordinazione all'uomo.

Non è un caso quindi se nel Belpaese ogni anno circa 2mila bambine sono obbligate a sposare adulti che non hanno mai conosciuto. Vendute dalle loro famiglie come semplici oggetti. A Torino una 15enne egiziana ha chiesto aiuto ai servizi sociali per impedire che il padre la costringesse a sposare un uomo di 10 anni più grande di lei. Dalla disperazione ha pure tentato il suicidio. E la madre? Anche lei la isolava e la pestava, complice dell'orrore e guardiana dell'onore islamico della famiglia. Di mogli e figlie picchiate perché preferiscono i jeans al burqa gli archivi della cronaca locale sono zeppi. E molte delle aggressioni rimangono relegate nelle silenziose mura domestiche. La settimana scorsa altri due casi: a Bassano del Grappa la ragazza si è presentata a scuola con il volto tumefatto per le botte prese dal padre musulmano; a Sant’Anastasia una 28enne ha rifiutato il burqa ed è stata chiusa in bagno dal marito 51enne che poi l'ha presa a calci e pugni. Perché per tante famiglie straniere in Italia, la Sharia è già legge. La legge della violenza.

Guerra in Siria, la spiegazione facile dagli inizi ad oggi. Di Tommaso Caldarelli. 07 Aprile 2017. Riassunto breve sulla Guerra in Siria. Ecco quando e come è iniziato il conflitto, quali sono le parti coinvolte e le fasi principali. Le ultime notizie sulla guerra in Siria costringono anche i più lontani dalla politica internazionale ad una riflessione e ad un approfondimento sull'argomento. La guerra in Siria, conosciuta anche come guerra civile siriana, è un conflitto iniziato nel 2011 e che va avanti ininterrottamente da cinque anni e che ha causato più di 300.000 vittime e migliaia di profughi.

Tutto ha avuto inizio nel marzo 2011, quando la popolazione manifestò contro il regime del presidente Bashar al-Assad (nella foto qui sotto), succeduto al padre, che governa la Siria ininterrottamente dal 2000 (la famiglia Al-Assad, complessivamente, governa a Damasco dal 1971). Il regime cercò di reprimere con la forza le manifestazioni, causando centinaia di morti, ma le proteste si diffusero. Dopo le repressioni una parte dei manifestanti è passata alla lotta armata e alcuni soldati siriani hanno disertato per unirsi alle proteste. Negli ultimi mesi del 2011 alcuni ufficiali disertori hanno proclamato la nascita dell’Esercito Siriano Libero (cioè l’FSA, Free Sirian Army). Da allora si è passati ad una vera e proprio guerra civile. Nei mesi successivi alla sua nascita si uniscono all’FSA sempre più ribelli e l’Esercito Siriano Libero conquista il controllo di alcune città, avvicinandosi sempre più a Damasco, la capitale della Siria.

All’inizio del 2012 si affiancano all’FSA altri gruppi di oppositori tra i quali c’è il Fronte al-Nusra, nato a il 23 gennaio 2012 come branca siriana di al-Qaida e dello Stato Islamico dell’Iraq (ISI). Al-Nusra è costituito da fondamentalisti sunniti che vedono nella guerra in Siria un’opportunità per rovesciare il regime di Bashar Al-Assad e per la nascita di uno Stato Islamico in Siria. Con il passare dei mesi sempre più persone si uniscono al fronte di Fronte al-Nusra e inizialmente l’Esercito Siriano Libero collabora con il Fronte, che presto però opera sempre di più con azioni di stampo terroristico, spesso con autobombe e attentati suicidi, causando moltissime vittime tra la popolazione civile. Nel corso del 2012 gli scontri tra i ribelli e l’esercito siriano regolare aumentano, mentre il governo tenta di di bloccare i ribelli e i loro sostenitori con azioni sempre più violente, provocando massacri tra la popolazione civile e cercando di attribuire la responsabilità ai ribelli. Queste azioni suscitano le reazioni a livello internazionale. Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Turchia si schierano a supporto dei ribelli, mentre Russia, Cina, Iran e Venezuela si schierano a favore del regime di Al-Assad.

Nel corso del 2013 il conflitto si è esteso a tutto il Paese e i gruppi estremisti guadagnano sempre più forza. A inizio di marzo 2013 il Fronte di al-Nusra conquista la città pacifica di Raqqa, centro strategico che garantisce un buon controllo sulla Siria centrale e settentrionale. Al Fronte si affianca un'altra forza estremista, quello dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS). Nei mesi successivi la situazione diventa ancora più confusa e frammentata: da una parte c’è l’esercito regolare siriano, difensore del regime di Al-Assad, e dall’altra il fronte dei ribelli, diviso in sottogruppi. L’Esercito Siriano Libero è ormai contrapposto ad al-Nusra e all’ISIS, mentre le forze curde che operano a Nord-Est della Siria si oppongono all’ISIS.

Nel 2014 l’ISIS si distacca dal Fronte di al-Nusra. Il fronte dei ribelli è sempre più spaccato. Nel frattempo l’ONU indice una conferenza di Pace a Ginevra per cercare di risolvere la crisi Siriana. A giugno 2014 al-Assan viene rieletto mentre lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante conquista molte città dell’Iraq. Il 29 giugno l’ISIS proclama la nascita del Califfato, che comprende territori tra la Siria e l’Iraq. A partire dal settembre 2014 una coalizione guidata dagli Stati Uniti inizia a bombardare i territori della Siria occupati dall’ISIS che nel frattempo concentra le sue azioni al confine con la Turchia, verso la città di Kobane, controllata dalle milizie curde che però, nonostante l’assedio della città, riescono a mantenerne il controllo. 

Nei primi mesi del 2015 le forze curde, con l’appoggio dell’Esercito Siriano Libero e della Coalizione guidata dagli USA, riescono a riconquistare altri territori e si avvicinano a Raqqa, la capitale del Califfato. L’ISIS contrattacca verso la Turchia ma, dopo diversi scontri, viene di nuovo respinta. Negli ultimi mesi del 2015 lo Stato Islamico viene bombardato dagli aerei della coalizione guidata dagli Stati Uniti mentre le forze armate russe appoggiano l’esercito governativo siriano nella battaglia per la conquista di Aleppo. Nella sera del 15 novembre 2015 la Francia, già impegnata negli interventi in Siria, ha effettuato un bombardamento aereo sulla città di Raqqa, con il supporto degli USA. Il bombardamento viene visto come una risposta ai terribili attentati terroristici avvenuti a Parigi la sera del 13 novembre.

Nel 2016 il conflitto siriano è continuato e gli scontri tra il regime e i ribelli si sono concentrati in particolare ad Aleppo, città situata a nord-ovest del Paese e capitale economica della Siria (Damasco è la capitale amministrativa), che dopo anni di guerra è divisa in due: la parte orientale sotto il controllo delle forze ribelli e la parte occidentale controllata dal regime. A partire da luglio 2016 la parte della città occupata dai ribelli, ancora abitata da migliaia di civili, è stata posta sotto assedio e il regime ha bloccato l’arrivo di sostentamenti e gli aiuti umanitari destinati alla popolazione. Negli ultimi mesi Aleppo è stata bombardata in modo massiccio dagli aerei dell’esercito di Assad e dagli alleati russi, che hanno mirano soprattutto a colpire le strutture umanitarie che lavoravano per soccorrere le vittime. A dicembre 2016 i bombardamenti si sono intensificati e a metà mese Aleppo est è caduta ed è stata conquistata dall’esercito di Assad, mentre i ribelli hanno mantenuto il controllo di piccolissimi territori della città. Il regime ha quindi riconquistato il controllo sulla città che rappresentava il punto strategico delle forze di opposizione. La situazione a livello umanitario è gravissima: durante i mesi di assedio e i bombardamenti ci sono state centinaia di migliaia di vittime, tra cui moltissimi bambini e donne.  Il resto della popolazione di Aleppo est, affamata dal lungo assedio, sta cercando di fuggire dalla zona.

Sono passati 6 anni dall'inizio dalla Guerra in Siria e le cose non accennano a migliorare. A ricordarcelo sono stati, lo scorso martedì 4 aprile, i 72 morti (la maggior parte dei quali civili), vittime dell'attacco chimico a Khan Sheikhoun, in provincia di Idlib. Un attacco per il quale il governo americano, guidato da Donald Trump, e l'Unione Europea hanno accusato quello siriano. Un'ipotesi che può sembrare veritiera ma della quale, a onor del vero, non si ha ancora certezza. La reazione, in ogni caso, non ha tardato ad arrivare, inasprendo ancor di più la Guerra in Siria: nella notte tra il 6 e il 7 aprile gli Stati Uniti hanno lanciato missili Tomahawk contro una delle basi dell'aeronautica militare siriana, la stessa da cui - stando alle parole di Trump - sarebbe partito martedì scorso l'attacco chimico.

Assad e le armi chimiche? Ricorda molto Saddam, scrive Antonio Angelini l'11 aprile 2017 su "Il Giornale".

Siamo ad un passo dalla guerra?  Forse sì. Ma Perché? Perché la Siria è così importante da attirare tutte queste attenzioni? Allego a questi miei pensieri due paginette di ragioni. Certamente la Siria non deve essere così benvoluta dalle grandi multinazionali petrolifere che non hanno mai amato la indipendenza del Petrolio da loro. Ne sappiamo qualcosa noi Italiani visto che Mattei fu con tutta evidenza vittima di due attentati, il secondo fatale. L’ ENI dava fastidio. Inoltre recentemente BYOBLU ha intervistato Giovanni Fasanella che ha raccontato come da carteggi inglesi desecretati ad un certo punto la pratica “Mattei” fu passata ai servizi segreti, non essendo riusciti a convincerlo in altro modo. La Siria oggi come l’Italia allora rappresentavano l’eccezione, che non doveva essere copiata o imitata da altri. Un esempio negativo. Questo per far capire che razza di interessi ci siano sul petrolio e come dia molto fastidio chi non lo lascia gestire alle grandi multinazionali o anche lo tratti o tenti di trattarlo in una valuta che non sia il dollaro (Saddam – Gheddafi). Assad combatte l’Isis e con l’aiuto di Putin pare stia vincendo la guerra laddove gli Usa, sotto la guida di Obama, non erano riusciti in tanto tempo a combinare nulla di buono (strano eh?). Assad a mio parere non avrebbe avuto alcun motivo di usare Sarin o altre armi chimiche contro il suo popolo attirandosi l’odio e l’antipatia di tutto il mondo oltre che reazioni varie. E Assad non è un fesso. Il primo giorno si è iniziato con la fonte della notizia “Osservatorio Siriano per i Diritti Umani”. Bellissimo nome, peccato che dietro ci sia un solo uomo, nemico giurato di Assad che vive in Inghilterra. E che aveva già in passato rifilato bufale. Poi vari esperti hanno dichiarato che se davvero i corpi che si vedono nelle immagini fossero stati gasati dal Sarin, i soccorritori non avrebbero potuti toccarli con mani nude o semplici guanti ed operare senza protezioni. Ricordate le false foto quando bisognava buttare giù Gheddafi? Poi ho trovato un articolo di un amico, Cesare Sacchetti che racconta come Assad non possieda più armi chimiche da molti anni Ci metto anche un bel video su YOUTUBE dell’ex ambasciatore UK in Siria ed il quadretto è pronto. Ascoltate bene cosa dice. Insomma a questo punto se vi dicessi che sia stato Assad a uccidere bambini e civili con il Sarin, ci credereste? Ovviamente sono rimasto negativamente stupito della reazione di Trump. Già una volta con Saddam (in realtà due anche con Gheddafi) abbiamo sbagliato seguendo gli USA nelle loro farneticazioni comprovate da bufale mediatiche. I risultati li abbiamo sotto gli occhi e sotto le nostre case.

Siria. ADESSO COMINCIAMO A CAPIRE O NO? Scrive Felice De Matteis il 9 aprile 2017. I portatori della democrazia e del buon governo la hanno bombardata perché colpevole di avere usato armi chimiche. Proviamo a gettare lo sguardo un pochino oltre la nostra normale quotidianità. Proviamo a pensare che la Tv di Stato è foraggiata con i nostri soldi, estorti dalle bollette della luce, e rappresenta l’Italia di oggi: un agglomerato di delinquenti e mafiosi al riparo sotto l’ombrello di certa politica e di certa magistratura. Proviamo a pensare che torme di deficienti si sono scannati verbalmente pro Clinton contro Trump e viceversa, pensando che questi “signori” potessero pensare anche un poco al mondo che hanno “colonizzato” da quasi un secolo. Sarà per questo – e lo dico sommessamente – che a chi scrive gli unici americani che piacciono sono quelli che “soggiornano” a Falciani, un hotel vicino Firenze. Dimenticavo: i portatori della democrazia e del buon governo hanno bombardato la Siria colpevole di avere usato armi chimiche. Un poco come le armi chimiche di Saddam, che non c’erano o la violenta dittatura di Gheddafi; in quei luoghi adesso impera la pace sociale e il petrolio…A proposito di Siria, lo sapevate che:

In Siria, non c’è nessuna banca centrale Rothschild.

La Siria ha vietato gli alimenti geneticamente modificati e la coltivazione e l’importazione degli stessi.

La Siria è l’unico Paese arabo che non ha debiti con il fondo monetario internazionale né con la Banca mondiale né con chiunque altro…

La famiglia Assad appartiene all’orientamento tollerante alauita dell’Islam.

Le donne siriane hanno gli stessi diritti degli uomini nello studio, sanità e istruzione.

Le donne in Siria non sono obbligate a indossare il burka. La Sharia (legge islamica) è incostituzionale.

La Siria è l’unico paese arabo con una Costituzione laica, che non tollera movimenti estremisti islamici.

Il 10% della popolazione siriana appartiene a uno dei molti rami cristiani sempre presenti nella vita politica e sociale.

Negli altri Paesi arabi la popolazione cristiana non raggiunge l’1% a causa dei maltrattamenti subiti.

La Siria è l’unico paese del Mediterraneo che è rimasto proprietario delle risorse petrolifere e ha rifiutato di privatizzarle.

La Siria ha un’apertura verso la società e la cultura occidentale come verso gli altri Paesi arabi.

Nella storia 5 papi sono stati di origine siriana. Il pluralismo religioso è unico nella zona.

Nell’ambito delle tensioni globali, la Siria era il solo Paese, in zona, senza guerre o conflitti interni.

La Siria è l’unico Paese al mondo che ha ammesso i rifugiati iracheni, senza alcuna discriminazione sociale, politica o religiosa.

Bashar Al-Assad ha un grande sostegno popolare.

La Siria ha destinato, a imprese statali, una riserva di petrolio di 2,5 miliardi di barili.

La Siria si oppone all’espansionismo di Israele e alla sua apartheid verso i palestinesi.

La popolazione è ben informata sui pericoli della globalizzazione e del nuovo ordine mondiale.

La Siria è l’ultimo ostacolo che impedisce l’asservimento dell’umanità e la creazione dello stato sionista del Grande Israele. Adesso cominciamo a capire o no?

Sinai rischia di diventare la nuova Siria, scrive il 17 aprile 2017 Alberto Bellotto su "Gli Occhi della Guerra". A poco più di 100 km dal Cairo potrebbe esserci una nuova Siria. Il giorno dopo il duplice attacco del 10 aprile contro due chiese copte a Taba e ad Alessandria, un razzo è partito dalla penisola del Sinai per finire in un campo della regione di Eshkol, nel Sud di Israele. Il lancio non ha causato morti o danneggiamenti, ma è bastato a spingere Tel Aviv ha rinforzare i controlli e a chiudere la frontiera con l’Egitto. Qualche ora dopo, tramite l’agenzia Amaq è arrivata anche la rivendicazione dello Stato islamico che ha confermato di aver lanciato un missile grad contro «insediamenti nella regione ebraica di Eshkol». Dall’avvento delle primavere arabe l’intera penisola del Sinai è diventata sempre di più un territorio fuori dal controllo delle autorità del Cairo. La regione nei decenni è sempre stata una sorta di terra di nessuno in cui diversi gruppi di miliziani hanno potuto operare con una discreta facilità. Spinti soprattutto da alleanze proficue con i terroristi palestinesi di Gaza. In più, dopo la caduta di Mubarak nel 2011, con il conseguente indebolimento del governo centrale, i terroristi hanno capitalizzato il vuoto di potere. Nello stesso anno vari combattenti si sono coagulati intorno al gruppo salafita Ansar al-Bayt Maqdis (Abm) legato ad al-Qaeda. Nel corso degli anni Abm si è radicato sul territorio diventando la formazione più importante della regione. Inizialmente i suoi attacchi si concentravano contro obiettivi israeliani, in particolare attraverso una stringete ideologia legata all’anti-sionismo. Ma negli anni gli agguati e gli attentati si sono spostati anche contro le forze di sicurezza egiziane. Ma nel novembre del 2014 qualcosa è cambiato. Abm ha rotto i suoi legami con l’associazione di al-Zawahiri giurando fedeltà all’Isis e riconoscendo fedeltà al-Baghdadi, che solo cinque mesi prima aveva proclamato il Califfato a Mosul, in Iraq. In questo modo il gruppo è di fatto diventato la Provincia dello Stato islamico nel Sinai. Questo inizialmente ha diviso i membri della formazione ma poi ha permesso a tutta l’organizzazione di acquisire nuovo potere, nuove armi e nuovi combattenti. Questa nuova linfa ha ridato slancio a tutte le attività, ampliandone ambizioni e operazioni, nonostante gli sforzi dell’anti terrorismo egiziano messi in campo da al Sisi, che è diventato presidente nel 2014. Il governo in tutta la regione ha subito gravi perdite per tutto il 2015 e il 2016. In particolare il gruppo ha compiuto vari attentati nelle principali città dell’Egitto fino ad ottenere gli onori della cronaca internazionale con l’abbattimento del Metrojet Flight 9268 russo che era partito da Sharm El Sheikh in direzione San Pietroburgo. In quell’occasione Abu Osama al-Masri, il leader del gruppo, si rivelò mostrando tutta la potenza del suo gruppo. Diverse prove raccolte dai vari centri studi, come il Centre for the new middle east, suggeriscono che l’Isis nel Sinai stia collaborando con l’ala militare di Hamas presente sulla striscia di Gaza. Figure di spicco dell’organizzazione palestinese hanno attraversato il confine per incontrare membri della provincia di Daesh. Allo stesso modo anche elementi di spicco dell’ex Abm hanno attraversato i valichi entrando a Gaza portando poi con sé alcuni palestinesi per dare un supporto medico. Nel corso dell’estate del 2016 l’esercito egiziano è riuscito a colpire l’organizzazione in modo molto duro. All’inizio di agosto le forze di sicurezza del Cairo hanno confermato di aver ucciso il leader del gruppo, al-Masri, anche se non ci sono state altre conferme. Negli ultimi mesi, con le innumerevoli perdite subite in Siria e Iraq, la propaganda del Califfato si sta concentrando proprio sul Sinai, immaginando anche di poter trasferire nell’area parte dei combattenti.

Al momento è difficile dire quanti possano essere i combattenti nell’area. Alcuni parlano di non più di mille, mentre altri centri raddoppiano o triplicano la cifra. Ma una prima indicazione arriva proprio dagli appelli che fece il leader di al-Qaeda, al-Zawahiri, nel 2014 che esortava le popolazioni del Sinai a dare ospitalità ai Muhajireen. Secondo fonti della sicurezza egiziana, nella regione sono presenti combattenti di almeno otto paesi diversi: Afghanistan, Siria, Yemen, Sudan, Libia, Algeria, Somalia e Arabia Saudita. I primi rapporti sui combattenti stranieri in Egitto risalgono già al 2013 durante la presidenza di Morsi. Tra di loro il gruppo più numeroso sembra essere quello yemenita, anche per l’originario legame di Abm con l’organizzazione fondata da Osama Bin Laden. Nel 2013 il mauritano Abu al Mundhir al-Shinqiti, un ideologo del jihadismo salafita, faceva appello a tutti i musulmani per combattere «l’esercito egiziano, colpevole di voler proteggere i confini di Israele» e spiegando che «la jihad nel Sinai è una grande opportunità per combattere sotto una bandiera pura».

Ma tutta la penisola rappresenta un rifugio per altri gruppi di matrice islamista. Tra questi c’è la diretta emanazione di al-Qaeda: al-Qaeda in Sinai Peninsula, attiva soprattuto nel nord della regione. Secondo alcuni rapporti dell’intelligence egiziana sarebbe guidata da Ramzi al-Mowafi, che per lungo tempo è stato il medico personale di Osama Bin Laden e uno degli addetti all’arsenale chimico di al-Qaeda. Secondo una ricostruzione egiziana l’ex medico era detenuto al Cairo nel carcere di Wadi el-Natroun, ma nel gennaio del 2011 riuscì a fuggire insieme ad altri 34 detenuti, tra i quali il futuro presidente Mohammed Morsi, grazie a un’azione congiunta della fratellanza musulmana, Hamas ed Hezbollah. Un altro gruppo attivo nel Sinai e Tawhid al-Jihad, una formazione qeadista originaria della striscia di Gaza e indiziata per la morte dell’attivista Vittorio Arrigoni nel 2011. Nella zona è presente anche una rappresentanza del Muhammad Jamal Network, una cellula terroristica della galassia qeadista che fa capo a Muhammad Jamal al Kashef, un egiziano che avrebbe stretto accordi con al Zawahiri e gruppi jihadisti attivi in Europa. Per gli Stati Uniti alcuni membri del suo gruppo avrebbero partecipato all’attacco all’ambasciata americana di Bengazi del 2012 e che costò la vita all’ambasciatore Chris Stevens. Il Sinai ha dato anche asilo a Ajnad Misr, letteralmente i “soldati dell’Egitto”, una formazione nata nel 2013 e molto attiva al Cairo. Ultimo attore noto nella scena è l’Army of Islam, un gruppo palestinese qeadista vicino allo sceicco salafita Abu Qatada al-Filistini. “L’armata dell’Islam” è stata responsabile del rapimento di un reporter di Fox news nel 2007 e dell’attentato che nel 2011 uccise 23 cristiani copti ad Alessandria.

La conformazione della penisola ha rappresentato nei secoli il terreno perfetto per il contrabbando di armi e altri beni. Il crollo della sicurezza seguito alla rivoluzione del 2011 ha permesso ai trafficanti d’armi di prosperare. La maggior parte delle munizioni che arrivano ai gruppi della regione confluiscono da tre distinte rotte: dalla Libia a Ovest, dalla Striscia di Gaza a Est e dal Sudan a Sud. Con la caduta di Gheddafi molti degli armamenti presenti nei suoi depositavi hanno preso la via dell’Egitto. Solo nel 2012 l’esercito egiziano ha sequestrato armi e munizioni per un valore di 3,3 milioni di dollari. Secondo l’esercito israeliano i miliziani presenti nel Sinai dispongono comunque di missili guidati, e razzi anticarro. Altro grande snodo per il traffico di armi è il Sudan. Secondo la Shin Bet, l’intelligence israeliana, il Paese funge da raccolto tra l’Iran il Sinai e Gaza. Nel 2009 ha svolto tre attacchi aerei contro convogli di armi proveniente dal Paese degli Ayatollah verso la Palestina. Le spedizioni di armi da Teheran sono continuate anche nel 2014 e diversi convogli sono stati fermati lungo le coste del Sudan. Ma i miliziani hanno dimostrato anche di essere in grado di produrre da soli i propri armamenti. Hamas ha mostrato più volte la capacità di confezionare missili e razzi e secondo diversi studi ha spostato parte della sua produzione proprio in Sinai dove gli “impianti” sono meno esposti ai razzi di Tel Aviv, agendo così indisturbati grazie a una convergenza con lo Stato Islamico.

Pronti a Tutto. I migranti, armi di ricatto contro l’Occidente. Scrive Gianluca Veneziani 30 marzo 2017 su "Libero Quotidiano". L’americana Greenhill spiega come le bombe demografiche hanno preso il posto di quelle vere. Dai balseros cubani riversati da Castro sulla Florida ai patti dell’Unione europea con Gheddafi. I migranti armi di ricatto contro l’Occidente. Dovremmo non considerare più i migranti come persone in fuga dalle armi, ma essi stessi come armi. Manipolate e sfruttate da alcuni Paesi per mettere sotto pressione altri Stati, in una strategia a metà tra persuasione e ricatto. È il fenomeno che la studiosa americana Kelly M. Greenhill, nell'interessantissimo libro Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (LEG, pp. 482, euro 20) in uscita oggi, definisce «migrazione coercitiva progettata», una forma di guerra asimmetrica che utilizza bombe demografiche al posto delle bombe vere, facendo leva su un duplice arsenale umano: le popolazioni in movimento (i “proiettili”) e le popolazioni che dovrebbero accoglierle (il “bersaglio”). Questa dinamica è riscontrabile nell’emergenza migratoria adesso in corso, ma è figlia ­ ravvisa l’autrice ­ di una lunga storia che si dipana da oltre un sessantennio (dalla Convenzione Onu sullo status dei rifugiati del 1951) e vanta almeno cinquanta casi, simili tra loro, in tutto il mondo. Caratteri comuni alle migrazioni coercitive sono i metodi e gli obiettivi (generare crisi umanitarie per ottenere in cambio concessioni politiche, militari, economiche), i rapporti di forza tra i protagonisti (il Paese “coercitore” è sempre più debole rispetto al Paese bersaglio) e le vittime, che di solito coincidono con le democrazie liberali occidentali: quegli Stati, cioè, che hanno preso più impegni riguardo al rispetto dei diritti umani e vanno più in difficoltà quando si tratta di tradurre quei principi ideali in Realpolitik; e nei quali la diversità di opinioni è più marcata, da cui un’eterogeneità politica che genera instabilità e maggiore vulnerabilità. Il primo caso preso in considerazione dalla Greenhill è la crisi cubana dei balseros del 1994. In quella circostanza Fidel Castro, che fino ad allora salvo due altre occasioni ­ aveva impedito la fuga da Cuba dei dissidenti, rovesciò il piano, incoraggiando la partenza di migliaia di migranti. Alla base c’era il tentativo di far pressione sull’amministrazione statunitense per guadagnare l’alleggerimento dell’embargo e la fine dei dirottamenti, con cui molti cubani si impossessavano dei traghetti e si dirigevano verso la Florida. La crisi dei migranti obbligò infine gli Stati Balseros cubani in fuga su un camion trasformato in gommone. A sinistra, la copertina del volume della Greenhill Uniti a cedere, stabilendo che da quel momento in poi nessun cubano avrebbe più potuto entrare illegalmente negli Usa. Un'arrendevolezza verificatasi già altre due volte: nel 1965, durante il cosiddetto esodo di Camarioca, quando gli Usa dovettero ­ loro malgrado ­ farsi carico di tutti i dissidenti di cui Castro voleva sbarazzarsi; e nel 1980, durante l’esodo di Mariel, quando il dittatore incoraggiò la fuga di 125mila persone dall’isola, trasformando un problema interno ­ la crisi economica che aveva aumentato il malcontento nei confronti del regime ­ in un problema americano, e mettendo in ambasce la presidenza Carter, che da un lato proclamava l’esigenza di accogliere «a braccia aperte» i profughi, mentre dall’altro si ritrovò costretta a minacciare sequestri e ammende per le loro imbarcazioni. Non a caso, in quell’occasione, Castro ammise che sua intenzione era riempire di «merda» (cioè di indesiderabili, tra criminali e parassiti sociali) le «braccia americane». Se a Cuba i migranti venivano utilizzati come feccia da scagliare contro il nemico, in Kosovo furono uno strumento per sconsigliare l’intervento militare. Nel 1999 il presidente serbo Milosevic minacciò di mettere in fuga 800mila kosovari e riversarli nei Paesi confinanti per dissuadere la Nato dal far guerra a Belgrado e poi per costringere la stessa Alleanza atlantica a interrompere i bombardamenti. In quel caso, tuttavia, l’arma­profughi si ritorse contro Milosevic, sia per la determinazione della Nato a portare avanti la guerra sia per la retorica umanitaria con cui l’Occidente volle presentarsi difensore dei diritti umani dalle brutalità serbe. Non fu l’unico caso in cui gli Usa attaccarono un altro Paese come risposta all’emergenza umanitaria. Anzi, in una circostanza, l’invasione militare fu dettata proprio dalla necessità di fermare un’invasione di migranti. Da Haiti, a partire dal 1991, oltre 60mila persone scapparono in direzione degli Stati Uniti ufficialmente per scampare alle violenze dei golpisti. In realtà la loro partenza fu incoraggiata dal leader appena detronizzato e in esilio negli Usa, Jean­Bertrand Aristide, per costringere la superpotenza a intervenire nell’isola e a restituirgli il potere. Ennesima dimostrazione di come l’Occidente abbia spesso preferito cedere a patti e stretto accordi con personaggi discutibili (l’ultimo è stato l’accordo dell’Unione europea con la Libia di Gheddafi), pur di non doversi sobbarcare al peso insostenibile dell’accoglienza.

L’immigrazione di massa è pianificata a tavolino. Ecco (altre) prove. Segnalazione di Federico Prati su “Agere Contra”. L’immigrazione di massa in atto verso l’Europa è un progetto pianificato a tavolino dalle élites mondialiste al fine di sconvolgere economicamente, socialmente, culturalmente ed etnicamente il Vecchio Continente, per quel che ne è rimasto. Tra le altre cose, avevamo anche citato un rapporto interno dei servizi d’intelligence militari austriaci, secondo cui le notissime ONG americane a tinte “umanitarie” giocherebbero un ruolo fondamentale in materia. I due documenti che seguono confermano il tutto – e ora diteci che siamo complottisti!- e ci forniscono ulteriori elementi di prova, nonché dati di cronaca ovviamente oscurati dai media di regime. Aprite bene gli occhi: abbiamo estratti di un documento del 2000 del “National Intelligence Council” (NIC), organismo che elabora le politiche di sicurezza nazionale statunitensi, in cui si profilano gli attuali scenari migratori dai paesi musulmani a causa di guerre, rivalità etniche, discriminazioni, ecc. in un’Europa in preda a bassa crescita economica e bassa natalità, che in conseguenza dei flussi migratori deve affrontare problemi economico-sociali, mutamenti della composizione etnica, difficoltà di integrazione. Ricorda qualcosa?

Si parla poi della professoressa Kelly Greenhill della Tufts University nel Massachusetts, legata ai vertici del complesso militare e d’intelligence USA, che ha elaborato il modello delle migrazioni forzate di massa quale strumento di “soft power” per creare disordine sociale; si conferma il ruolo delle ONG finanziate da Soros (sempre lui, guardacaso…), in particolare dell’organizzazione statunitense filo-sionista “Ayn Rand Institute” che, tramite un sito internet ed appoggiandosi ad un ente direttamente controllato dal magnate americano, promuove l’esodo dei “rifugiati” dal Medio Oriente in Europa; si descrive il consueto ruolo da utili idioti (o da consapevoli sodali?) delle sinistre mondialiste, ed i tragici problemi di ordine pubblico e di salute pubblica nei campi profughi in Germania, Austria, Slovenia. Insomma, la situazione di oggi era già stata preconizzata. Ma voi continuerete a credere alle frottole di regime. Anche quello l’avevano previsto.

Invasione di migranti e “rivoluzioni colorate”, stesso calderone politico degli USA, scrive Scrive James Clapper, Wayne Madsen Strategic Culture Foundation, il 11/06/2015. Lo stesso calderone politico degli Stati Uniti, incentrato sulle accademie di Boston che hanno fornito il modello delle “rivoluzioni colorate” in Europa orientale e Medio Oriente, è responsabile dell’ “arma delle migrazioni di massa” nell’attuale caos che impazza in Europa. Anche se a volte sembri a molti osservatori che la politica estera sia presa dal cappello di un mago da circo, molte politiche apparentemente insensate degli Stati Uniti sono profondamente radicate nei documenti, libri bianchi e libri sponsorizzati dal governo. Anche se la cancelliera tedesca Angela Merkel giustamente è accusata di avere la responsabilità dell’apertura dei confini dell’Europa all’afflusso possibile di oltre 1,5 milioni di migranti soprattutto musulmani da Asia e Africa, la politica che usa i rifugiati come “arma di migrazioni di massa” è un’idea di una consigliera di dipartimento della Difesa, Ford Foundation e Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Un libro scritto nel 2010 dalla professoressa Kelly Greenhill della Tufts University ha avuto non solo l’attenzione dei pianificatori di guerre e conflitti civili del Pentagono ma anche della Merkel e dei magnati tedeschi intenti a ringiovanire la popolazione lavoratrice della Germania. Il libro “Armi di migrazioni di massa: epurazioni, coercizione e politica estera”, ha avuto subito successo presso i pianificatori statunitensi di Pentagono e Central Intelligence Agency, sempre alla ricerca di modi nuovi per creare il caos a vantaggio dell’estensione della sfera d’influenza degli Stati Uniti. Greenhill è legata ai vertici del complesso militare e d’intelligence degli Stati Uniti in qualità di presidentessa del gruppo di lavoro pubblico su conflitto, sicurezza e politica presso l’Harvard Kennedy School of Government di Belfer Center; ex-assistente del senatore John Kerry ed ex-consigliera del Pentagono. Il libro della Greenhill è un modello per creare disordine sociale attraverso la migrazione di massa forzata, come il manuale sull’“azione non violenta” dell’ex-professore dell’Università del Massachusetts Gene Sharp, diventato la guida delle “rivoluzioni colorate” per provocare colpi di Stato con l’uso dei social media e scontri di strada. A differenza di Sharp che si affida a movimenti sociali e politici sintetici creati all’esterno del Paese preso di mira, e che possono avere risultati vari come s’è visto in Egitto, Greenhill vede l’arma di migrazione di massa come il metodo più efficace per raggiungere certi risultati. La ricerca sulle migrazioni forzate della Greenhill come arma del “soft power” sui complessi campi di battaglia di oggi si accorda all’interesse simile espresso da James Clapper, direttore della National Intelligence statunitense e del National Intelligence Council degli Stati Uniti (NIC). Il NIC formula la politica di sicurezza nazionale e sui servizi segreti statunitensi. Le decennali proposte delle comunità militare e d’intelligence statunitensi d’utilizzare i rifugiati come un’arma del soft power hanno avuto subito l’attenzione di Merkel e sostenitori più stretti, tra cui la ministra della Difesa tedesca Ursula van der Leyen. In un documento del 2000 dal titolo, “Crescente migrazione globale e implicazioni per gli Stati Uniti”, il NIC previde la seguente situazione demografica per l’Europa: “Con una bassa crescita economica, l’Europa occidentale subirà molte sfide dagli attuali flussi di immigrati e dagli immigrati residenti. Supponendo che la fertilità dell’Europa occidentale rimanga a livelli di sub-sostituzione, potrà aspettarsi un rapido mutamento della composizione etnica, in particolare nelle aree urbane”. La soluzione del NIC? “Può darsi che governi e sistemi politici dell’Europa occidentale incontrino scarso successo nella gestione dell’integrazione dei musulmani residenti”. E oltre a integrare nella società europea i lavoratori musulmani con permessi di soggiorno già presenti, i pianificatori futuri della comunità d’intelligence degli Stati Uniti conclusero che lavoratori supplementari saranno necessari dalla periferia d’Europa, cioè da Medio Oriente e Nord Africa: “Sforzi per introdurre la cittadinanza degli immigrati (come lo sforzo della Roma imperiale di dare status giuridico ai popoli della periferia)”. E il NIC previde come tali nuovi lavoratori sarebbero stati costretti a lasciare i loro Paesi d’origine per l’Europa: “I migranti continueranno ad essere spinti dallo stress ambientale nei loro Paesi d’origine, come cambiamento climatico, guerra, conflitti civili e criminalità, rivalità etniche e discriminazione. La sopravvivenza motiverà molti a muoversi, nonostante l’emarginazione dei profughi nei Paesi di arrivo”. Il NIC si rese conto che conflitto civile e rivalità etniche potevano esserci solo nelle nazioni prese di mira dalle “azioni non violente” e “rivoluzioni colorate” di Sharp. Quindi, la “Primavera araba” inventata contro i leader di Libia, Egitto, Tunisia, Yemen e Siria ha creato il peggiore problema dei profughi in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. E chi in realtà finanzia le migrazioni di massa verso l’Europa da Paesi come Turchia, Siria, Iraq e Libia?” Ci sono varie notizie in Europa sulla fuga precipitosa, soprattutto di giovani musulmani armati di nuovi smart phones, coordinata da ONG finanziate dal magnate globale degli hedge fund George Soros. La cospirazione delle élites occidentali per spostare le popolazioni è un disastro per i Paesi di accoglienza in Europa come per i rifugiati legittimi morti su imbarcazioni insicure cercando di raggiungere l’Europa. In un campo di Lipsia, un gruppo di afghani radicali ha attaccato un altro gruppo di siriani secolari con conseguenti numerosi feriti. Gli stupri di donne migranti nei campi e quartieri vicini ai campi in Germania sono saliti alle stelle. Molte donne tedesche ora evitano di uscire di casa da sole per paura di essere stuprate dai loro nuovi “vicini” stranieri. Vi è anche la prova che il massiccio flusso di rifugiati musulmani da Siria, Iraq e Afghanistan in Paesi come Slovenia, Croazia, Austria, Ungheria e Serbia sia stato affiancato da quello dei musulmani di Bosnia-Erzegovina, Kosovo e Albania. La ripartizione delle frontiere interne dell’Unione europea ha spinto coloro che speravano nell’ assistenza sociale in Germania e Austria ad unirsi al corteo dei migranti dai Balcani. In termini di salute pubblica, i migranti che arrivano hanno creato una situazione da incubo. Vi sono rapporti di migranti che defecano nei parchi tedeschi e austriaci e urinano per strada creando una crisi sanitaria e un orribile fetore in alcuni quartieri. Miran Vuk, sindaco di Zavrc in Slovenia, s’è lamentato che i migranti temporaneamente ospitati nel nuovo stadio della città avessero defecato sul campo, costringendone la chiusura. Gli ospedali tedeschi sono stati sommersi da casi di migranti avvelenati. Alcuni migranti siriani scambiavano il locale velenoso fungo “tappo della morte” per la varietà commestibile Barba Amanita, che si trova nella nativa Siria. Le autorità mediche tedesche misero in cima all’elenco dei donatori di fegato un 16enne siriano che necessitava del trapianto di fegato per aver mangiato i funghi velenosi. Anche se l’adolescente siriano è morto, un altro siriano avvelenato veniva posto in cima alla lista dei donatori di fegato, negando così a un cittadino tedesco il dovuto trapianto di fegato. La “falsa” sinistra in Germania è in prima linea nella confisca della proprietà privata per accogliere i migranti senza fissa dimora dal Medio Oriente. Socialdemocratici, Verdi e Partito della Sinistra di Amburgo si sono uniti ai sostenitori della Merkel nel far passare un disegno di legge nel parlamento di Amburgo che legalizza la confisca di aziende vuote per alloggiarvi i migranti. Solo i democristiani anti-Merkel, Liberaldemocratici (FDP) e Alternativa per la Germania (AfD) hanno bloccato in seconda lettura il provvedimento di confisca. La finta sinistra in Germania, che prende ordini dai provocatori politici delle ONG finanziate da Soros e NATO, sostiene l’arma della politica migratoria di massa della Merkel, mentre il partito fratello bavarese, l’Unione cristiano sociale, s’è unito al Primo Ministro ungherese Viktor Orban e al sempre più popolare leader del Partito della Libertà austriaco Heinz-Christian Strache nel chiedere di fermare immediatamente l’invasione dei migranti dell’Europa. Tedeschi e austriaci che si oppongono alla politica della porta aperta ai migranti sono minacciati da procedimenti penali dalla Merkel per sostegno all’ ideologia “neonazista”. Tuttavia, tedeschi e austriaci preferiscono affrontare il carcere e multe salate piuttosto che vedere i loro villaggi, paesi e città trasformati in futuri centri di assassinio e decapitazione “delle province occidentali del Califfato islamico”.

L’Ayn Rand Institute degli USA promuove l’emigrazione musulmana in Germania. Fonte "Russia Insider" 9 novembre 2015. Perchè una ONG degli USA promuove l’esodo dei rifugiati dal Medio Oriente in Europa?. “Aiuta l’esodo!” con tale slogan l’organizzazione cerca volontari e tale invito crea molto rumore nei media. Il sito http: //www.fluchthelfer.in (nota: “fluchthelfer” si traduce approssimativamente “aiutare i profughi”) sembra professionale, dal design del web ai banner pubblicitari, tutto appare sofisticato. Dato che tale organizzazione promuove attivamente il traffico di esseri umani molte denunce sono state depositate contro di essa. Il traffico di esseri umani è illegale in Germania e Austria. È interessante notare che tale campagna per il traffico di esseri umani è stata ideata dagli Stati Uniti. L’organizzazione statunitense “The Ayn Rand Institute” è proprietaria del dominio. L’indirizzo di posta elettronica sul sito appartiene a un ente di Seattle chiamato “Rise Up”.

Umanitarismo o bellicismo? L’”Ayn Rand Institute” è uno dei think tank degli Stati Uniti che promuove il traffico di esseri umani in Europa esortando “umanità” e “empatia” nei suoi messaggi agli europei. La maggior parte dei richiedenti asilo in Europa è costituita da musulmani e arabi. Ciò sorprende ricordando che l’ “Ayn Rand Institute” non si distingue per la simpatia verso i popoli arabi. La fondatrice e patrona Ayn Rand (nata Alisa Zinoveevna Rosenbaum) era una sionista ebrea e feroce sostenitrice d’Israele, che lo definiva Paese progressista, tecnologico e civile. Sempre secondo Rand, Israele rappresenta tutto il contrario dei popoli arabo e palestinese che bollava così: “Questi arabi sono primitivi e selvaggi, non si sono sviluppati e sono razzisti che odiano lo Stato d’Israele”. Senza motivo li accusava di uccidere donne e bambini innocenti; quindi il loro Paese era “la terra degli assassini” ed erano puri “mostri”. (2) In uno dei pochi articoli tedeschi disponibili su Ayn Rand viene indicata come capo ideologo della destra statunitense e fervente sostenitrice degli eroi del capitalismo occidentale. (3) Dopo la morte le cose non cambiarono molto. L’attuale direttore dell’istituto è l’israeliano Yaron Brook. In un video sulla guerra contro i civili palestinesi non lascia dubbi: “tutto va bene finché necessario per la guerra …” (4) L’Ayn Rand Institute incoraggia Israele nelle guerre in Medio Oriente e chiede azioni decisive e dure nella guerra al terrore. Ondate di profughi verso l’Europa sono il risultato diretto dei conflitti che causa. L’organizzazione “Rise Up” si trova a Seattle, Stati Uniti d’America, e si occupa anche del “progetto fluchthelfer.in”; e dal suo programma appare come un’altra trovata della Soros Foundation. L’ordine del giorno dice: “avviamo le rivoluzioni e la società aperta” (“Lavoriamo per creare rivoluzione e una società libera”). È interessante notare che tali organizzazioni aiutano i profughi solo in Europa. Purtroppo e non sorprende, non troverete un’iniziativa simile negli Stati Uniti, ad esempio a sostegno degli immigrati dal Messico negli Stati Uniti. Aiutate i rifugiati che vanno in Germania … ma non quelli che vanno in America o Israele! Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

Migranti usati come arma contro l’Europa. Invasione islamica? Scritto da "Rights Reporter" il 9 novembre 2015. E’ di pochi giorni fa la notizia del ricatto del Governo libico di Tripoli all’Europa: riconosceteci o vi sommergeremo di migranti (musulmani n.d.r.). E’ solo l’ultimo di uno dei tanti ricatti (palesi o meno) all’Europa. Prima del Governo libico di Tripoli era stata la Turchia ad aprire le proprie frontiere e a spingere centinaia di migliaia di migranti e/o profughi verso l’Europa, anche se nessuno ne parla, una mossa che ha fruttato ad Ankara tre miliardi di euro in aiuti e la promessa di inserire la Turchia negli accordi di Schengen. Quella dei migranti diventa sempre di più un’arma di ricatto e pressione nei confronti dell’Europa che al momento non sa bene come reagire, un’arma che sta destabilizzando tutta la parte est dell’Unione Europea (i Balcani) e che sta creando seri problemi anche in Paesi, come la Svezia, notoriamente “accoglienti”. Queste indebite pressioni avvengono perché in Europa c’è poca chiarezza sulla questione dei rifugiati (richiedenti asilo) e sui migranti economici. Eppure non dovrebbe essere così perché le convenzioni internazionali, a partire dalla più importante che è la Convenzione di Ginevra, sono piuttosto chiare in merito ai concetti di richiedenti asilo (o rifugiati) e migranti. Concetto di rifugiato o richiedente asilo. Lo status di rifugiato può essere concesso a quelle persone che vengono perseguitate per ragioni di:

discriminazioni fondate sulla razza;

discriminazioni fondate sulla nazionalità (cittadinanza o gruppo etnico);

discriminazioni fondate sull’appartenenza ad un determinato gruppo sociale;

limitazioni al principio della libertà di culto;

persecuzione per le opinioni politiche;

persone in fuga da conflitti;

Lo status di rifugiato non è uno status definitivo ma temporaneo e prevede la protezione internazionale. Lo status di rifugiato cessa nel momento in cui:

il rifugiato abbia nuovamente usufruito della protezione del Paese di cui abbia la cittadinanza oppure ne riacquisisca volontariamente la cittadinanza;

il rifugiato sia tornato a stabilirsi volontariamente nel proprio Paese;

il rifugiato abbia acquisito una nuova cittadinanza e goda della protezione del Paese che gliel’ha concessa;

siano venute meno le condizioni in seguito alle quali la persona abbia ottenuto il riconoscimento della qualifica di rifugiato.

L’errore di fondo degli europei è quello di trasformare i richiedenti asilo in migranti stanziali, cioè di non specificare con chiarezza che la protezione internazionale è momentanea e non permanente e, soprattutto, che una volta venuti meno i motivi per cui la protezione internazionale viene concessa, il richiedente asilo deve rientrare nel proprio Paese d’origine. D’altro canto la formula della “protezione internazionale” è stata creata proprio per questo, cioè non per incentivare la migrazione ma per fornire una protezione temporanea volta a garantire una sicurezza alla persona in pericolo in attesa che essa possa rientrare nel suo Paese d’origine senza rischio. Invece chi viene in Europa non lo fa per proteggersi momentaneamente per poi rientrare nel suo Paese di origine, ma lo fa per stabilirsi definitivamente in Europa. La poca chiarezza su questo punto è il motivo principale che spinge centinaia di migliaia di siriani, afghani, pakistani, africani di ogni Paese, a venire in Europa.

L’ipotesi della invasione islamica attraverso i migranti è sempre più attuale tra coloro che contrastano il sistema di accoglienza europea. In realtà se fino a poco tempo fa questa teoria poteva essere inserita tra le teorie complottiste, oggi il quadro è molto diverso e la cosiddetta “invasione islamica” attraverso i migranti diventa sempre più realistica. Trasformare centinaia di migliaia di richiedenti asilo in migranti stanziali è un errore fatale che rischia di sconvolgere i principi fondanti della stessa Unione Europea. La tolleranza degli europei verso la progressiva introduzione della Sharia in diverse aree dell’Europa viene vista come un segno di debolezza da sfruttare per “conquistare” le terre degli infedeli. D’altro canto, come abbiamo evidenziato nel nostro rapporto sulla Fratellanza Musulmana, la “teoria della gradualità”, cioè quella teoria che prevede la conquista graduale dell’occidente attraverso diverse tecniche inizialmente non violente, è proprio uno dei capisaldi della mentalità islamica, una teoria di cui la migrazione di popolazioni musulmane è diventata uno strumento fondamentale da sfruttare al massimo.

Il problema è che tra gli europei non esiste una via di mezzo. O ci sono i buonisti a tutti i costi che vorrebbero aprire le frontiere a chiunque, oppure ci sono gli intransigenti che costruirebbero muri invalicabili per chiudere la “fortezza Europa”. In realtà basterebbe un po’ di buon senso e applicare alla lettera le convenzioni internazionali ed europee. Asilo temporaneo garantito a chi ne ha Diritto e quote di ingresso per i migranti economici. Chi non ha Diritto alla protezione internazionale e non rientra nelle quote di ingresso non può stare in Europa e deve essere rimpatriato. Il buon senso e i trattati europei vorrebbero anche che in Europa la legge islamica (Sharia) sia illegale quindi bandita. Chi viene in Europa deve rispettare le regole europee. Se non gli va bene torna a casa sua. E’ del tutto paradossale che in Europa si accolgano persone che fuggono dai regimi islamici e poi quelle stesse persone pretendano di instaurare in Europa quelle stesse regole che li hanno spinti a fuggire dai loro Paesi. Su questo si che ci vuole intransigenza dettata dal buon senso. Scritto da Gabor H. Friedman

PROFUGHI: ARMA DI DISTRUZIONE DI MASSA DEI MONDIALISTI. EMERGENZA PROFUGHI: IL RICATTO DEGLI USA, scrive l'8 settembre 2015 Riccardo Percivaldi. Nel nostro articolo precedente abbiamo analizzato le motivazioni storiche e geopolitiche che rendono il possesso dell’Heartland una questione d’importanza strategica per gli Stati Uniti. Abbiamo visto che a questo scopo, il mantenimento del controllo dell’Europa, ottenuto con la Seconda guerra mondiale, svolge un ruolo decisivo. Per cingere d’assedio la Russia e per impedire che l’Europa, “testa di ponte democratica in Eurasia”, si liberi dalle catene di Bruxelles, le ONG, finanziate dal dipartimento di Stato americano e da Soros, si sono attivate per fomentare la crisi in Ucraina e l’emergenza profughi. In entrambi i casi lo scopo è duplice. Primo, quello di destabilizzare l’Europa per ricattarla ed indurla a spalleggiare qualsiasi iniziativa di Washington. Secondo, quello di indebolire un rivale geopolitico sprofondandolo nel caos e nelle rivolte interne. Da mesi gli Stati Uniti cercano con ogni tipo di provocazione di far saltare gli accordi di Minsk. Sin dall’inizio gli strateghi di Washington miravano a far deflagrare il caos in Ucraina per indurre gli stati europei a intervenire militarmente con la scusa di proteggere i propri confini contro una fantomatica aggressione della Russia. In questo modo l’Europa sarebbe stata costretta a schierare i suoi eserciti, facendosi trascinare controvoglia nella guerra globale permanente degli USA. Se il caos in Ucraina rappresenta una spina nel fianco soprattutto per la Germania, quello suscitato in Libia mira a sollecitare l’intervento degli Stati del Mediterraneo, in primis l’Italia. In entrambi i casi lo scopo è di creare un cordone sanitario attorno alla Russia, gettare nel caos gli stati cuscinetto e colpire i suoi alleati.

La priorità strategica degli USA in questo momento è obbligare l’Europa a supportare l’aggressione americana alla Siria e ad aderire al TTIP. Se Russia e Cina rappresentano i principali rivali geopolitici di Washington, l’Europa resta pur sempre una minaccia in quanto, anche se sconfitta nella Seconda guerra mondiale, potrebbe sempre risorgere e ridiventare padrona del proprio destino. Dal dopoguerra gli USA hanno tenuto sotto scacco il Vecchio Continente inscenando la farsa della guerra fredda. Ma poiché, con il crollo dell’Unione Sovietica, veniva meno teoricamente la ragion d’essere della NATO, Euro e Unione Europea hanno finora funto da surrogati economici del ricatto militare, per rinnovare e rendere irreversibile il vassallaggio europeo alle centrali atlantiste. Tuttavia, proprio in questi ultimi tempi, il diffondersi dell’euroscetticismo, il prolungarsi e l’intensificarsi dell’eurocrisi, l’incrinarsi delle relazioni tra Germania e USA, con il Piano B architettato da Schuable per far uscire la Grecia dalla moneta unica, evitato per un pelo solo grazie al fulmineo intervento di Washington, il successo del referendum austriaco e ora anche l’ipotesi del brexit, hanno obbligato gli USA a ritornare al loro originario sistema di deterrenza, che implica la creazione di false minacce e di false emergenze che servono a mantenere in vita e ad espandere il loro apparato di protezione mafiosa nell’ottica di un dominio mondialista unipolare basato sulla gestione strategica del caos controllato. Tra queste le principali, oltre allo spauracchio della nuova guerra fredda, vi sono la minaccia del terrorismo islamico, con i vari false flags architettati dai servizi d’intelligence anglosionisti, e la crisi dei profughi, con annesso teatrino mediatico moralista inneggiante al mea culpa e appelli all’autoflagellazione di massa dei vari servi sciocchi di turno.

Finalmente però i registi occulti di questa patetica sceneggiata hanno deciso di uscire allo scoperto, dato che dichiarazioni del Capo di Stato Maggiore Martin Dempsey rispondono perfettamente alla domanda cui prodest: «Dobbiamo affrontare sia unilateralmente che con i nostri partner questa questione come un problema generazionale, e organizzarci e preparare le risorse ad un livello sostenibile per gestire (questa crisi dei migranti) per (i prossimi) 20 anni». Questo significa continuare a rafforzare l’apparato bellico e di controllo per giustificare, con la scusa dell’emergenza profughi, l’invio di contingenti militari occidentali all’estero per combattere la guerra degli USA di tutti contro tutti, come già deciso in segreto dai vertici di Bruxelles il 18 maggio scorso con l’approvazione del Piano sulla gestione della crisi fatto trapelare da Weakileaks. (Ricordiamo che in questi giorni sta avendo luogo in Italia la maxi esercitazione della NATO denominata Trident Juncture). Si tratta infatti della strategia del creare problemi e poi offrire le soluzioni, chiamata anche “problema-reazione-soluzione” e che di fatto coincide con la dottrina della Shock Terapy. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, per poi proporre come unica alternativa ad essa la soluzione desiderata. Infatti scriveva Milton Friedman: «Soltanto una crisi – reale o percepita – produce vero cambiamento. Quando la crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano. Questa, io credo, è la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile». Lezione che a Washington e a Bruxelles hanno imparato bene. Anche se ormai tutti sanno che dietro all’emergenza profughi si nasconde lo zampino degli americani – come emerge anche dalle rivelazioni dei servizi segreti austriaci, per i quali «organizzazioni provenienti dagli Stati Uniti hanno creato un modello di co-finanziamento e contribuiscono a gran parte dei costi dei trafficanti», attraverso società come la “ORS Service AG”, di proprietà della Barclays Bank, di cui i Rothschild sono i principali azionisti – la manovra del Pentagono sembra aver avuto successo. La prima a cedere al ricatto è stata la Francia. Il presidente Hollande ha annunciato all’Eliseo: «Ho chiesto al ministro della Difesa di organizzare da domani voli di ricognizione sulla Siria, in vista di eventuali raid contro lo Stato islamico». Per ora ha escluso un intervento di terra, ma non si sa mai, magari domani gli USA ordineranno ai combattenti taqfiriti giunti assieme ai profughi siriani di attivarsi e dare inizio a un’ondata di attentati suicidi.

Infatti «tali profughi non sono altro che i terroristi taqfiriti e familiari al seguito di cui le petromonarchie si sono sbarazzate in questi anni, arruolandoli, anche in cambio dell’amnistia, nella guerra contro Siria e Iraq. Turchia e Giordania ospitano campi di addestramento dei terroristi, mentre i Paesi del GCC non li vogliono semplicemente. Nel caso delle proteste alla stazione di Budapest da parte dei “rifugiati siriani”, appare evidente che si tratta di militanti e non d’immigrati». «In questo video appare chiaramente una folla organizzata e diretta da dei capi. Non si tratta d’immigrati che fuggono dalla fame, ma di combattenti taqfiriti, sconfitti dagli eserciti siriano ed iracheno e future truppe della destabilizzazione in Europa»: L’emergenza profughi serve dunque come cavallo di Troia per inviare un esercito di occupazione dietro le linee nemiche, in attesa del momento più opportuno per attivare le cellule dormienti da impiegare in atti di sabotaggio, omicidi mirati e terrorismo, su ordine dei tecnocrati di Bruxelles asserviti agli USA, per liquidare ogni possibile oppositore della dittatura finanziaria della BCE. Proprio per impedire agli italiani di difendersi quando verrà il momento decisivo, Renzi ha in questi giorni dichiarato: «abbiamo pronta una legge, non passata ancora alla prima lettura alla camera, per rendere più difficile possedere armi da tenere in casa». Gli italiani devono infatti lasciarsi sgozzare come agnellini, col beneplacito del governo e delle istituzioni, come accaduto agli anziani coniugi di Palagonia. Guai a reagire.

Sarebbe dunque sbagliato credere che l’emergenza profughi sia solo una tragica conseguenza delle guerre imperialiste dell’Occidente, come ci racconta certa propaganda liberale e cattocomunista, volta a instillare i sensi di colpa negli europei per fomentare la passività di fronte all’invasione che avanza, dato che non c’è nessun rapporto di causa-effetto tra l’aggressione ad esempio alla Siria, iniziata nel 2011 e “l’emergenza dei profughi siriani” che improvvisamente compaiono solo ora, dopo che la Turchia, per ordine degli USA, li ha sfrattati dai campi in cui sono rimasti per ben quattro anni. E sempre la Turchia, che sottobanco addestra e arma i mercenari dell’ISIS contro Assad, ha anche provocato l’esodo delle turbe islamiche che hanno messo a ferro e fuoco l’isola di Kos, dopo averli riforniti di tutto punto, gommoni e giubbotti di salvataggio compresi. Similmente in Africa sono i banditi legati all’Organisation internationale pour les migrations a gestire il traffico, in combutta con i mercenari dell’ISIS, a rapire i negri da luoghi dove non esistono guerre, come la Nigeria, la Somalia e il Senegal, all’unico scopo di spedirceli. Siamo dunque di fronte non ad un’emergenza umanitaria o ad una spontanea migrazione di popoli in fuga da una guerra, ma ad una precisa strategia di destabilizzazione che mira, oltre a ricattare i governi europei e a strappare all’opinione pubblica il consenso per nuove guerre preventive, a creare i presupposti per far deflagrare in Europa una guerra civile tra autoctoni e immigrati, in ossequio al tradizionale principio del divide et impera che ha da sempre caratterizzato la geopolitica anglosassone a partire dalla politica britannica dell’equilibrio. C’è da chiedersi anche se l’osceno regime di privilegi che viene riconosciuto agli ultimi arrivati e le rivendicazioni sociali, che opportuni “mediatori culturali” insegnano loro a pretendere per metterli contro i popoli ospitanti, non corrispondano in realtà a un lucido disegno per far scoppiare le fiamme della rivolta, allo stesso modo con cui agenzie finanziate da Soros hanno provocato gli scontri di Ferguson e Baltimora negli USA, nel tentativo di trasformare in disordini razziali il malessere popolare causato dalla crisi economica. «Secondo i seguaci del filosofo Leo Strauss, il cui ramo mediatico è conosciuto sotto la denominazione di “neo-conservatori”, il vero potere non si esercita nell’immobilismo, ma al contrario con la distruzione di qualsiasi forma di resistenza. È immergendo le masse nel caos che le èlite possono aspirare alla stabilità della loro posizione».

BUONISTI ED ONG. TUTTA QUESTIONE DI DISONESTA'.

L'appello di Roberto Saviano: "Rompiamo il silenzio contro la menzogna". "Perché vi nascondete? Scrittori e medici, attori e youtuber: tutte le persone pubbliche, chiunque abbia la possibilità di parlare a una comunità deve sentire il dovere di prendere posizione. Non abbiamo scelta. Oggi tacere significa dire: quello che sta accadendo in questo paese mi sta bene", scrive Roberto Saviano il 24 luglio 2018 su "La Repubblica". Dove siete? Perché vi nascondete? Amici cari, scrittori, giornalisti, cantanti, blogger, intellettuali, filosofi, drammaturghi, attori, sceneggiatori, produttori, ballerini, medici, cuochi, stilisti, youtuber, oggi non possiamo permetterci più di essere solo questo. Oggi le persone pubbliche, tutte le persone pubbliche, chiunque abbia la possibilità di parlare a una comunità deve sentire il dovere di prendere posizione. Non abbiamo scelta. Oggi tacere significa dire: quello che sta accadendo mi sta bene. Ogni parola ha una conseguenza, certo, ma anche il silenzio ha conseguenze, diceva Sartre. E il silenzio, oggi, è un lusso che non possiamo permetterci. Il silenzio, oggi, è insopportabile. Chi in questi mesi non si è ancora espresso - a fronte di chi invece lo sta facendo con coraggio - tace perché sa, come lo so io, che a chi fa il nostro lavoro parlare non conviene. Spesso sento dire o leggo: "Chi esprime il proprio pensiero lo fa per avere visibilità", ma è una visibilità che ti fa guadagnare migliaia di insulti sui social e la diffidenza di chi dovrebbe sostenere il tuo lavoro perché si sente chiamato a dar conto delle tue affermazioni. Quello che nessuno ha il coraggio di dire è che spesso si tace per non essere divisivi, perché si teme che arrivino meno proposte, meno progetti. Ma se la pensiamo così, abbiamo già perso, perché ci siamo rassegnati a non stimolare riflessioni e ad assecondare chi crede che la realtà sia riducibile a parole d'ordine come "buonista", "radical chic", "taxi del mare", "chiudiamo i porti", "un bacione", "una carezza" ed emoticon da adolescente. Spesso si tace perché si sa che prendere posizione comporta dividere non solo il pubblico che ti segue sui social, ma anche e soprattutto chi dovrebbe comprare i tuoi libri, comprare i biglietti dei tuoi spettacoli, venirti a vedere al cinema o non cambiare canale quando ti vede in televisione. Ma davvero credete che quello che sta succedendo sia accettabile? Per quanto tempo credete di poter sopportare ancora senza esprimere il vostro dissenso? Con Berlusconi, in fondo, era tutto più chiaro: c'era lui e c'eravamo noi. Criticarlo portava conseguenze, reazioni forti, artiglieria di fango, ma c'era una comunità attiva, che si stringeva attorno a chi lo faceva. Prendere posizione contro Berlusconi non significava perdere share, copie, consenso. Con Berlusconi era agevole farsi capire anche Oltralpe perché il Cavaliere era in fondo la macchietta italica, un carattere riconoscibile della commedia dell'arte. Oggi non è più così e in questo governo si stenta a scorgere i germi di qualcosa di estremamente pericoloso. "Fai il tuo lavoro e basta" è il richiamo all'ordine che subisce il calciatore che esprime la sua opinione sui migranti, l'attore che indossa la maglietta rossa. E il richiamo all'ordine è già un ricatto: guadagni con il tuo lavoro, non accettiamo commenti politici da chi ha il culo al caldo. Oggi c'è fastidio verso chi travalica i confini del proprio lavoro e del proprio ruolo per fare quello che sarebbe invece normale: controllare chi ci governa perché, anche se legittimato alle urne, non tradisca non solo il proprio mandato, ma soprattutto la nostra storia e i valori che ci hanno consentito di vivere decenni di pace. La nostra Democrazia è una Democrazia giovane e fragile, ma è prima di tutto antifascista e antirazzista. Vi sembra che oggi questo governo si stia muovendo nel rispetto dei valori che sono alla base della nostra Costituzione? Che si stia muovendo e che stia comunicando all'interno di un perimetro di sicurezza? Non vi sembra piuttosto che i 70 anni di prosperità e pace appena trascorsi ci abbiamo resi permeabili a partiti politici xenofobi? Che ci abbiano resi disattenti se non disinteressati a vigilare su diritti che una volta acquisiti, se non li difendiamo, possono essere spazzati via da qualche post su Facebook e da una manciata di tweet? Questo governo, in maniera maldestra ma evidentemente efficace, speculando sulle difficoltà di molti, utilizza come arma di distrazione di massa l'attacco ai migranti e alle Ong. Sta accadendo un orrore davanti al quale non si può tacere: mentre il M5S e la Lega litigano sui punti fondamentali del loro accordo, ci fanno credere che il nostro problema siano i migranti. E se mi rispondete che i governi precedenti hanno fatto altrettanto vi rispondo: non si erano spinti fino a questo punto, ma di certo hanno asfaltato la strada perché tutto questo accadesse. E se mi dite che avete votato per Lega e M5S per ribaltare il tavolo, perché era l'unico modo per mandare via una classe dirigente che aveva fallito sotto ogni profilo, vi dico: vigilate, non delegate, aprite gli occhi perché le cose si stanno mettendo male, male per tutti. Male non solo per i migranti o per le voci che dissentono, ma anche per voi. Sant'Agostino scrive: "Se togliete la giustizia, che cos'altro sono i grandi Stati se non delle associazioni di ladri? [...] Se una di queste bande funeste si accresce con altri briganti fino al punto di occupare tutta una regione, [...] di dominare delle città, ecco che si arroga il nome di Stato". Quando la politica perde il sentiero della giustizia, si spoglia della sua carne lasciando scoperta l'ossatura banditesca. Sapete perché cito Sant'Agostino? Perché questo passaggio spiega bene come sia possibile che il potere, anche quando iniquo, anche quando ingiusto, anche quando incapace e anche quando criminale, viva indisturbato. Sapete di cosa si sostanzia l'omertà di fronte alle mafie? Se credete solo di paura vi sbagliate. Il pensiero che la protegge è questo: giudico un boss per quello che fa a me. Mi ha maltrattato? No. Ha intimidito qualcuno della mia famiglia? No. E allora per me va bene. Allo stesso modo oggi pensare che, solo perché questo governo, per ora, non ha toccato noi personalmente - la querela a me è solo un granello se paragonata ai colpi mortali che questo governo sta infliggendo allo Stato di Diritto - e i nostri interessi, possiamo esimerci dal prendere posizione, è atteggiamento ingenuo e irresponsabile che sta legittimando scelte e comportamenti scellerati. Questo non è uno scontro tra me e Matteo Salvini. Per me non c'è nulla di personale, sento fortissimi il dovere e la necessità di parlare per chi non ha voce. Per i seicentomila immigrati presenti in Italia che devono essere regolarizzati ora, subito, perché siano sottratti allo stato di schiavitù in cui versano. Per le Ong che hanno iniziato a fare salvataggi in mare, aiutando gli Stati europei e l'Italia a gestire un fenomeno che non può essere bloccato, ma solo ben amministrato perché è palesemente una risorsa. Quei politici che oggi si ostinano ancora a sostenere il contrario, di politica e di economia non capiscono niente e sono un pericolo per la tenuta sociale del nostro Paese che è un Paese multietnico. Fieramente multietnico. Oggi chiedo a voi, miei concittadini, di mobilitarvi per i diritti di tutti, perché anche se a voi oggi sembra di non far parte di questi "tutti", siete già coinvolti. In nome di un presunto benessere, in nome di una maggiore sicurezza ci diranno che in fondo la libertà di espressione è una cosa da ricchi privilegiati, che parlare di diritti di chi fugge e trova inferno in terra e morte nel Mediterraneo è fare il gioco dei negrieri. Addirittura mi sento dire che con le mie critiche aiuto Salvini nei sondaggi: come sempre la colpa non è di chi appicca il fuoco, ma di chi tenta di spegnerlo. Salvini non sale nei sondaggi per colpa di chi lo critica, ma per responsabilità di chi tace e di chi mostra timidezza e timori. La mobilitazione che vi chiedo è una mobilitazione che riguarda ciascuno di noi, parlate al vostro pubblico e non per me, che in tribunale e fuori so difendere da me le mie ragioni. Vi chiedo di mobilitarvi per difendere i diritti che a breve non ricorderete nemmeno più di aver avuto. Ci stanno facendo credere che non ne abbiamo bisogno, ma presto capiremo che più della tracotanza di questo governo, più dell'arroganza di Salvini, quello che ci sta condannando è il silenzio. La libertà d'espressione e la lotta per i diritti raccontati come "vizi" da élite contro il popolo, che invece invoca sicurezza. Ma la lotta per i diritti è sempre lotta per chi non può permetterseli e per chi spesso non può permettersi nemmeno di chiederli. E ora voi mi direte: ma le nostre battaglie le facciamo con i nostri libri, con le nostre canzoni, con i nostri spettacoli, con la nostra ironia. È vero, è sempre stato così: ma ci sono dei momenti in cui diventa cruciale capire da che parte si sta e quindi non basta più delegare la resistenza alla propria arte. Dinanzi a menzogne che crescono incontrastate, a truppe cammellate di bugiardi di professione (al loro cospetto gli scherani di Berlusconi erano dilettanti), davanti al dolore che queste menzogne e questi bugiardi di professione provocano, abbiamo tutti il dovere di rispondere: NON È VERO! Il solito antico scontro: l'arte che prende parte e quella che orgogliosamente disdegna l'ingaggio. La prima che si crede superiore alla seconda in nome dell'impegno e la seconda che si crede superiore alla prima perché rivendica il diritto alla purezza del disimpegno. Steccati che collassano dinanzi ai morti in mare e alle continue menzogne. Dovete parlare ai vostri lettori, ai vostri ascoltatori, a tutti coloro a cui con la vostra arte e il vostro lavoro avete curato l'anima. Abbiate fiducia in voi stessi, avete gettato le basi per essere ascoltati, non abbiate paura di dire a chi vi vuole bene che voi non state con tutto questo. Ci sarà disorientamento all'inizio, riceverete critiche per aver rotto l'equilibrio dell'equidistanza, che però è fragile e già incrinato. Ma gli effetti virtuosi che domani avranno le vostre parole, vi ripagheranno delle reazioni scomposte degli hater oggi. Il trucco per delegittimarvi lo conoscete, quindi partite (partiamo) in vantaggio. Vi diranno: guadagni? Non puoi parlare. Era così che Mussolini trattava Matteotti prima che venisse ammazzato: sei figlio di benestanti? Non ti puoi occupare di istanze sociali. Pensateci: ma davvero siamo tornati a questo? E soprattutto, davvero stiamo accettando tutto questo? Accettiamo di essere intimiditi da questa comunicazione criminale? Dovremmo vergognarci del frutto del nostro lavoro? Accettare, come vogliono, che autentico sia solo chi tiene la testa bassa? Scrittori, l'attacco al libro, alla conoscenza, al sapere è quotidiano. "Vai a lavorare" viene detto a chi scrive. Il primo passo di qualsiasi deriva autoritaria parte da disconoscere la fatica intellettuale, togliere alle parole la dignità di lavoro. In questo modo resta solo la propaganda. Editori, non sentite franare la terra sotto i vostri piedi? Prendete parte, non c'è salvezza nel prudente procedere. Bisogna investire casa per casa, strada per strada e conquistare lettori, ossia persone in grado di poter capire il mondo e non subirlo con le maree del rancore: la conoscenza è uno strumento preziosissimo di emancipazione dalla miseria personale, difendiamo questo strumento. Difendiamolo con tutte le nostre energie. Tra i soccorritori di Josephine, l'unica superstite del naufragio che ha mostrato ancora una volta l'inadeguatezza della Guardia costiera libica a compiere missioni umanitarie, c'era Marc Gasol, uno dei giocatori di basket più forti del mondo, una roccia di due metri e dieci. Dite un po', cosa rispondereste a chi dice: Marc Gasol è ricco, non può occuparsi di chi soffre? Vi sembra un'obiezione plausibile, vi sembra che abbia senso o che siano i deliri di chi oggi ha paura? E allora uscite allo scoperto, oggi l'Italia ha bisogno delle vostre voci libere. Non abbiate paura di chi, più di ogni altra cosa, teme il dissenso perché non ha gli strumenti per poterlo gestire, se non in maniera autoritaria. E un ministro della Repubblica che querela uno scrittore su carta intestata del ministero sta mettendo in atto un gesto autoritario: sta utilizzando la sua posizione per intimidire non solo me, ma anche voi. Da una parte c'è chi critica, dall'altra tutto il governo, che a oggi non ha manifestato alcun fastidio a essere strumentalizzato. Non mi fa paura la querela e non mi fa paura la solitudine. Ma voi dove siete finiti? Ricordate quando dicemmo "strozzateci tutti" a Berlusconi che avrebbe voluto strozzare chi scriveva di mafie? E ora, dove siete? Quando ho criticato le politiche dei governi di centrosinistra mi veniva detto che diffamavo il Paese, che diffondevo disfattismo, che esponevo il fianco ai nemici della democrazia. In realtà attivare analisi e critica è il compito (direi il dovere) di chi racconta la realtà; e le sue parole vanno in soccorso della libertà, non la boicottano. Ci siamo ridotti a subire l'offesa che prendere posizione critica su questo governo sia un favore a qualche potente? A qualche interesse? Coraggio! Ho a lungo riflettuto prima di scrivere queste righe, non vorrei pensiate che vi stia chiamando a raccolta per difendere me, ma vorrei capiste che il tempo per restare nelle retrovie è finito. Se non prenderete parte vorrà dire che quello che sta accadendo sta bene anche a voi. In tal caso a me non resterà il rimpianto di non averci provato, ma voi dovrete assumervi la responsabilità di ciò che accadrà: o complici o ribelli. "La storia degli uomini - scrisse Vasilij Grossman in Vita e destino - non è dunque la lotta del bene che cerca di sconfiggere il male. La storia dell'uomo è la lotta del grande male che cerca di macinare il piccolo seme dell'umanità. Ma se in momenti come questo l'uomo serba qualcosa di umano, il male è destinato a soccombere". Voi siete il piccolo seme dell'umanità, senza di voi l'Italia è perduta. Allora, da che parte state?

Smontate le accuse della Ong: così i libici hanno provato a salvare i migranti. La Guardia costiera libica accusata di omicidio in mare, l'Italia di collusione. Ma Open Arms mente: ecco il video che lo prova, scrive Fausto Biloslavo, Martedì 24/07/2018, su "Il Giornale". I libici della guardia costiera non sono educande o suorine della Croce rossa, ma neppure tagliagole che affondano volutamente i gommoni con gente viva ancora a bordo. Nel tritacarne quotidiano delle notizie vere e false sugli inutili viaggi della speranza dalla Libia ci siamo già dimenticati del video reportage realizzato dalla giornalista tedesca sul soccorso di un gommone maledetto. Prima annunciato gran voce e poi mai visto. Poche ore dopo lo stesso gommone semi affondato è stato intercettato dalla nave dell'Ong spagnola Open Arms, che ha trovato fra i relitti alla deriva Josefa, la migrante miracolata e purtroppo un'altra donna ed un bambino annegati. Subito è scattata la grancassa umanitaria per accusare la Guardia costiera libica di omicidio in mare e l’Italia di collusione. Adesso che sul sito di Tripoli hanno postato uno spezzone del soccorso notturno possiamo renderci conto che i libici si sono dannati l'anima per soccorrere i migranti, compresa una bambina piccola che non ce l'ha fatta e viene tenuta in braccio dalla giornalista. Non solo: uno dei sopravvissuti dichiara in francese che nessuno, morto o vivo, è rimasto indietro. Al contrario gli stessi libici hanno ammesso di avere abbandonato a bordo due corpi senza vita. È lo stesso gommone intercettato da Open Arms? Una delle supposte vittime in realtà era ancora viva? Probabilmente sì, ma nessuno l'ha lasciata volutamente alla deriva. Basta guardare le immagini del soccorso nel buio della notte (guarda qui). Braccia che issano a bordo i naufraghi sfiniti, bambini dissetati, donne sfinite fatte distendere sul ponte. Prima di pensare a riportarli indietro, i libici, come qualsiasi marinaio al mondo, si sono fatti in quattro per salvare i migranti. Tutti condannati a morte certa dai trafficanti di uomini, che li avevano spediti verso l'Europa su uno stracarico gommone cinese destinato a colare a picco.

«Io bannato da Facebook per quella foto che tutti dovremmo guardare». Parla il professore che ha postato l'immagine del bimbo annegato nel Mediterraneo e che è stato segnalato dagli utenti fino alla sospensione del suo account: «Quello scatto è un bene comune, contro il negazionismo dilagante», scrive Fabio Sabatini il 20 luglio 2018 su "L'Espresso". Due giorni fa ho condiviso su Facebook le immagini del salvataggio, da parte della nave ong Open Arms, di una donna sopravvissuta a un naufragio nel Mediterraneo. Una delle foto, inizialmente diffuse dalla giornalista Annalisa Camilli di Internazionale, mostrava anche il corpo di un bimbo senza vita galleggiare inerte tra i resti di un barcone. I medici a bordo ritengono che il bimbo sia morto di ipotermia poco prima dell’arrivo dei soccorsi, dopo due giorni e due notti trascorsi aggrappato a un pezzo di legno alla deriva in mare aperto. Il post, che tra le altre cose spiegava le ragioni della condivisione, ha ricevuto molte segnalazioni anonime, così Facebook lo ha rimosso e ha sospeso il mio account in virtù del divieto di “mostrare nudità e atti sessuali” sul social network. Quando un post ottiene molte condivisioni succede che esca dalla nostra camera d’eco per essere letto da persone con le opinioni più disparate. È un fatto positivo, che però espone a commenti critici e reazioni poco civili. A volte i contenuti sono oggetto di segnalazioni multiple che ne provocano la rimozione precauzionale da parte della piattaforma. È un problema, perché la gestione della censura su Facebook è farraginosa e tutt’altro che trasparente, e chiunque può organizzarsi militarmente per sorvegliare degli account e farli sospendere ogni volta che se ne presenta l’occasione. Dopo due giorni il mio profilo è stato ripristinato con molte scuse, ma questa minuscola vicenda personale è irrilevante rispetto al contenuto delle foto. In Italia è in corso un colossale processo di rimozione collettiva, che per dimensione e profondità ricorda quello della Germania nazista. Come i tedeschi conducevano una vita indifferente alle porte del lager, noi accettiamo senza batter ciglio che grappoli di persone muoiano per raggiungere le nostre spiagge. Oppure neghiamo che tutto questo stia accadendo, come testimonia la convinzione diffusa che le foto dei bimbi annegati ritraggano in realtà dei bambolotti. Le immagini dei naufragi nel Mediterraneo sono un bene comune, perché danno all'opinione pubblica informazioni preziose, ancorché strazianti, e servono a contrastare il negazionismo dilagante. Quei morti sono bimbi, non bambolotti, sono tutti nostri figli e avrebbero meritato ogni nostro sforzo di salvataggio e di cura.

Josefa, le parole e la zona grigia. La propaganda del governo investe i non allineati: Ong, tecnici, giornali. E prova a trasformare i fatti con la semantica, scrive Marco Damilano il 23 luglio 2018 su "L'Espresso". Josefa, la migrante del Camerun salvata dalla Ong Open ArmsÈ l’estate delle parole. Parole violente e parole sbiadite. Parole che si smentiscono da sole, come quelle del presidente americano Donald Trump che a Helsinki attacca l’intelligence Usa e si affida a Vladimir Putin, salvo tornare in patria e affermare davanti alle telecamere che no, è stato frainteso perché c’era una doppia negazione nella sua dichiarazione e non è stato capito. Parole che puntano a trasformare la realtà: chiami il decreto “dignità” e per concessione di Stato i precari non dovrebbero esserci più, definisci quelli libici “porti sicuri” e i migranti vedrete che spariranno, almeno dal nostro orizzonte. Poi succede che dopo settimane di numeri sventolati da una parte e dall’altra, statistiche, puntini radar intercettati nel Mediterraneo, arriva un nome, un volto, uno sguardo che non si può proprio dimenticare. È quello di Josefa, la donna venuta dal Camerun e salvata dalla nave della ong spagnola Open Arms dopo due giorni di naufragio, accanto a un’altra donna e a un bambino di quattro anni. «Sono scappata dal mio paese perché mio marito mi picchiava. Mi picchiava perché non potevo avere figli», ha raccontato a Annalisa Camilli di “Internazionale” che l’ha intervistata sul ponte della Open Arms. «Siamo stati in mare due giorni e due notti. Sono arrivati i poliziotti libici e hanno cominciato a picchiarci». Nei suoi occhi c’è il nulla, l’orrore che riassume le storie di tutti. E al tempo stesso la voglia di vivere che l’ha portata fin qui. “I sommersi e i salvati”, li ha definiti il quotidiano “Avvenire” il 18 luglio in prima pagina, con il titolo del libro di Primo Levi. In quel saggio, uscito nel 1986, il capitolo centrale riguarda la zona grigia, la terra di mezzo tra i carnefici e le vittime, quel mondo ampio composto da «persone grigie, ambigue, pronte al compromesso», veloci a conquistare i piccoli vantaggi, i privilegi concessi da una frequentazione anche minima con chi detiene il potere, nel lager e fuori. Ma la Zona grigia è ancora più larga. Comprende gli indifferenti. E la parte di opinione pubblica più vasta che non ha tempo, non ha voglia, non ha strumenti per capire. Non aveva tempo, in fondo, neppure la sottosegretaria Lucia Borgonzoni, stava perdendo il treno, non poteva aspettare di ascoltare l’intervento dell’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi. Si è fatta rimproverare perfino dal padre, ma se non ha tempo lei, figuriamoci i suoi elettori. A loro arriverà qualche post sui social, uno slogan distratto, una parola d’ordine su cui costruire la propaganda di giornata. Così, nell’Italia dell’estate 2018, capita di leggere sulla prima pagina di un quotidiano ormai governativo che l’annegamento della donna e del bambino e il salvataggio di Josefa siano un «giallo». Succede che il ministro dell’Interno liquidi l’accaduto con la categoria della «fake news». Così come, su tutt’altro versante, l’obbligo della Lega di restituire allo Stato 49 milioni di euro perché oggetto di truffa secondo la Cassazione diventa in una trasmissione televisiva una semplice «tesi», contrapposta a un’altra tesi. Tesi che si possono opinare, dunque, non notizie o fatti. La guerra delle parole e della propaganda investe, soprattutto, i poteri di controllo, la stampa non allineata, le organizzazioni non governative, gli istituti tecnici. Le contro-inchieste giornalistiche si fanno non sui nuovi governanti e sulle loro reti internazionali, ma sulle Ong che operano nel Mediterraneo, si va a caccia dei loro rapporti occulti con gli scafisti, vanno smascherate, è da un anno che il processo mediatico è in corso, nonostante l’assenza di prove, indizi, conclusioni giudiziarie. Si producono inchieste giornalistiche sui non-governativi, non sull’operato del governo di turno, il centrosinistra ieri come i gialloverdi oggi. Si mettono sotto accusa i senza potere, non i potenti. E così, il dibattito sulle nuove norme sul lavoro volute dal ministro e vicepremier Luigi Di Maio, ribattezzate “Decreto dignità”, non riguarda l’efficacia del provvedimento per combattere la precarietà, proposito sacrosanto, ma il presunto complotto del presidente Inps Tito Boeri, colpevole di aver inserito nella relazione tecnica che accompagna il testo la stima di ottomila posti di lavoro perduti all’anno nel prossimo decennio. E sulla rete dilagano liste di proscrizione contro i giornalisti non allineati, insulti, minacce, l’immancabile promessa di togliere ai quotidiani e ai periodici il finanziamento pubblico (questa sì una fake news, come forse è riuscito confusamente ad ammettere perfino il sottosegretario M5S Vito Crimi in una lettera al direttore di “Repubblica” Mario Calabresi). La Zona grigia italiana si sta allargando. Un po’ per il tradizionale opportunismo nazionale, che fa confondere il governante di turno per sommo statista, specie in una stagione di nomine: Cassa depositi e prestiti, Rai, Csm, Ferrovie, e siamo solo all’inizio della Grande Pacchia. Un po’ perché pesa come in nessun’altra stagione repubblicana l’assenza di una opposizione politica e parlamentare. Sul fronte di Forza Italia, la nomina di Alberto Barachini, catapultato direttamente dalla conduzione tg Mediaset alla presidenza della commissione di Vigilanza Rai, non è un dettaglio perché testimonia la resa del fu partito-azienda berlusconiano, venticinque anni dopo la sua nascita, e il suo addio a un ruolo centrale nella politica italiana: meglio coltivare un futuro da piccola lobby, predisposta a chiedere piccoli favori al governo Di Maio-Salvini, piuttosto che costruire un partito moderato, europeo, liberale, popolare eccetera, aggettivi che non hanno nessun senso per Berlusconi, transitato da Licio (Gelli) a Licia (Ronzulli) e ciascuno giudichi se è un miglioramento. Sul fronte del Pd, in questo numero proviamo a sorriderci su con Susanna Turco che racconta i sette nani democratici: tutti i dirigenti, a partire dal segretario Maurizio Martina, per finire agli aspiranti segretari come Nicola Zingaretti, parlano dell’urgenza di una ripresa se non si vuole morire. Ma intanto la ripresa non c’è e la Zona grigia si allarga sempre di più, in mancanza di rappresentanza. La Zona grigia italiana è quella della criminalità organizzata. La Borghesia Camorra di Napoli che ci racconta Giovanni Tizian nelle pagine che seguono: all’ombra di Gomorra e dei bambini della paranza, i professionisti dei quartieri alti si mescolano ai notabili del crimine. La Roma dei Casamonica, denunciata  da una giornalista coraggiosa come Floriana Bulfon. La Zona grigia dei dubbi, dei pensieri che non condividiamo e delle risposte che non abbiamo. Ne parliamo in un lungo incontro con Zerocalcare e con Michela Murgia, due artisti che lavorano con le parole e con i disegni, e con i loro corpi gettati nella mischia, le loro vite, l’intelligenza e la sensibilità con cui sanno cogliere e decifrare i segnali del presente, con un’intransigenza diretta prima di tutto verso se stessi. Le parole che servono a scardinare le semplificazioni e le banalizzazioni, da qualunque parte provengano, anche da chi dimostra di avere le migliori intenzioni. Gli occhi di Josefa disperdono i luoghi comuni, i porti sicuri, la retorica dell’Italia che ha cambiato l’Europa e anche quel tanto che c’è di melenso, dolciastro, modaiolo, ripetitivo in chi sventola la bandiera opposta. E fanno luce nella Zona grigia, costringono a decidere, ancora una volta, da che parte stare.

IL VUOTO DI IDEE DIETRO LA STRUMENTALIZZAZIONE DELLA PIETÀ. Scrive Arturo Diaconale il 18 luglio 2018 su “L’Opinione". Non è la chiusura dei porti a provocare le tragedie in mare. Quando l’accoglienza era senza controllo e le navi Ong traghettavano i migranti dalle coste libiche a quelle italiane, donne, bambini e profughi morivano ugualmente. Addirittura in numero superiore a quello attuale. Allora quelle morti venivano utilizzate per tenere sempre più aperta l’accoglienza. Adesso le tragedie in mare diventano uno strumento di azione politica contro la linea della chiusura scelta dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Non stupisce l’uso strumentale di vicende così dolorose. Il cinismo è una componente fin troppo significativa della propaganda e della ricerca del consenso. Per cui, anche se l’eccesso di strumentalizzazione può fare ribrezzo, non ci si deve scandalizzare eccessivamente di fronte alle sparate come quelle effettuate da Roberto Saviano e dai suoi emuli della sinistra. Nessuno stupore e nessun scandalo, allora. Anche se una considerazione su una così virulenta manifestazione di cinica propaganda deve essere necessariamente fatta. Le grida, le accuse, gli insulti, le proteste dei guru della sinistra e dei loro imitatori nascondono l’assenza di qualsiasi soluzione al problema dei flussi migratori che dall’Africa si indirizzano verso l’Europa e l’Italia. La linea della chiusura dei porti sarà pure rozza, ma è una risposta. Quella secondo cui l’unico modo per evitare le tragedie in mare è tornare all’accoglienza indiscriminata gestita dalle Organizzazioni non governative non è una risposta ma un modo per eludere il problema trasformandolo in una gravissima questione interna al nostro Paese. Come dire che impedendo i naufragi in mare si favoriscono le tensioni razziali, lo sfruttamento del lavoro in nero, la moltiplicazione della manovalanza della criminalità e le violenze singole e di gruppo nelle nostre periferie. C’è un solo modo per evitare le tragedie in mare e quelle nel nostro territorio. Ed è quello di fare in modo che i flussi migratori non si formino nei Paesi africani. Come? Se non si vuole o non si può usare la forza non c’è altra strada che contribuire a risolvere le cause delle migrazioni con aiuti massicci e continui.

Libia, Italia e migranti. È tutta questione di… disonestà, scrive il 23 luglio 2018 Alessandro Bertirotti su "Il Giornale". Dunque, ricapitoliamo e, stavolta, cerchiamo di non raccontarcela, ma di raccontarla. Anno 2008. Berlusconi e Gheddafi firmano il famoso trattato di “Amicizia, partenariato e cooperazione”, in virtù del quale, per la modica cifra di 5 miliardi di dollari, l’Italia compra dalla Libia maggiori quantità di gas e petrolio. Inoltre, sempre l’Italia compra il pattugliamento libico della costa, per impedire ai migranti di partire in direzione della nostra penisola. Scontata è la levata di scudi, da parte delle organizzazioni umanitarie dal momento che, a loro dire, le autorità libiche già detenevano gli aspiranti migranti sottoponendoli a tortura. Anno 2012. Gheddafi è morto, Berlusconi è fuori dai giochi. Cambiano i suonatori ma la musica è la stessa, forse peggiore. Con un accordo segreto del 3 aprile, il nostro ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri ed il suo omologo libico Fawzi Altaher Abdulati confermano quanto stabilito nel trattato del 2008. Anzi, lo rafforzano, con la previsione del controllo delle frontiere meridionali della Libia e l’addestramento delle forze di polizia di frontiera locali. Giusto per essere certi di avere più carne umana da infilare nei famigerati centri di accoglienza libici.

Anno 2017. Al nostro ministero dell’Interno abbiamo Minniti, padre morale e fattuale dell’accordo siglato con il Primo ministro libico Fayez al-Sarraj e con il quale, riconfermando i precedenti accordi, l’Italia si impegna a sostenere le autorità libiche locali nel pattugliamento e nella chiusura del confine con il Niger. È, infatti da qui, che arrivano i disperati dell’Africa sub sahariana. L’Italia firma col sangue (è proprio il caso di dirlo) questo accordo. E fornisce, in regalo alla Libia, quattro motovedette per il controllo di 600 km di costa, ed un gruppo di nostri militari della Marina per l’addestramento di 200 unità libiche tra ufficiali e guardacoste.

Oggi, il ministro dell’Interno Italiano è un altro. Vuole porre il problema degli sbarchi in Italia all’attenzione dell’Europa, perché chiede cooperazione nella gestione del problema. È giusto, sano e politicamente rilevante. Fa bene ad insistere perché l’Europa si rimbocchi le maniche. Ma lo fa, secondo me, con un metodo sbagliato, perché urla di chiudere i porti con un frasario da campagna elettorale (nel 2019 ci saranno le elezioni europee), con il quale scalda ancora di più gli animi degli italiani, esasperati da una crisi economica di cui non si vede la fine.

Lasciare vite umane in balìa del mare per settimane non è uno scherzo, specie quando in zona ci sono le navi libiche, che proprio noi italiani abbiamo addestrato tanto bene, a pattugliare. Il boato che si fa intorno alla chiusura dei porti è propaganda, perché Minniti ha ragione, non siamo più in emergenza sbarchi. Ah! Quanto si bea questo ex ministro quando dice che dal 2017 gli sbarchi sono diminuiti dell’80%, per effetto del suo accordo con la Libia. Vuole il merito? Riconosciamoglielo, è giusto. E’ tutto suo. Ma col merito della diminuzione degli sbarchi deve prendersi anche tutto il peso di coscienza sul “come” gli sbarchi sono diminuiti, ovvero lasciando i migranti a pregare di morire prima che una sola guardia libica possa toccarli. Se una di loro arrivasse a farlo, la vita di qualsiasi essere umano diventa una interminabile serie di giorni dentro un qualunque centro di accoglienza, creati con la cooperazione italiana e dove si consumano sevizie, denutrizione, violenze sessuali. Dove si ammassano corpi senza la disponibilità di servizi igienici e senza distinzione tra uomini, donne e persino bambini. L’Alto Commissario ONU per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein ha dichiarato che “(…) la politica Ue di assistere le autorità libiche nell’intercettare i migranti nel Mediterraneo e riportarli nelle terrificanti prigioni in Libia è disumana. La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”. C’è un fatto che tutti i politici europei conoscono benissimo e non ci dicono: la Libia non è certamente firmataria della Dichiarazione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (detta anche CEDU) del 1950. Ma l’Italia sì, e ne ha rafforzato il contenuto, con le famose sentenze gemelle nn.348 e 349, pronunciate dalla Corte Costituzionale. E l’Italia non può non tenere conto che ogni accordo stipulato con la Libia dal 2008 al 2017 viola la CEDU. Dire, in ogni canale televisivo, che gli sbarchi in Italia sono diminuiti dell’80% è propagandistico, tanto quanto dire che bisogna trattare con la Libia per risolvere il problema immigrazione, perché la Libia è un luogo di tortura. Per chi non lo sapesse, il nostro Paese è già stato condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo nel 2012, nel famoso caso “Hirsi Jamaa e altri contro Italia”. La Corte ha dichiarato che l’espulsione dall’Italia di naufraghi verso la Libia vìola il divieto di tortura, i trattamenti inumani o degradanti (Art. 3 CEDU), nonché le espulsioni collettive (Protocollo n. 4), e la mancata possibilità di richiedere la protezione internazionale (Art. 13 CEDU). Sarebbe ora che tutti i nostri politici, di qualunque schieramento, prendessero atto che tra il 2008 ed il 2017 ogni forza politica al governo, compresa in tutto l’arco parlamentare, ha trattato, pagando, con un branco carnefici. Possiamo ripartire da qui con onestà intellettuale e trovare alternative diverse da quelle di propaganda? E lo scrivo come uomo di scienza, ancora prima di dichiararmi cristiano. La verità umana sulle cose è questione di coscienza, soprattutto, e la nostra coscienza è legata alla capacità di (prestate) prestare attenzione alle cose che noi stessi giudichiamo importanti. Quanto dunque è importante la vita di tutti?

La Libia è ancora figlia di Gheddafi. «Con la rivoluzione ci siamo rialzati dopo 40 anni. Ma nel mio paese pesa l’eredità del dittatore». Parla lo scrittore premio Pulitzer Hisham Matar, scrive Francesca Mannocchi il 23 luglio 2018 su "L'Espresso". Hisham Matar lo scorso anno ha vinto il premio Pulitzer per l’autobiografia con “Il ritorno”, racconto della sua condizione di figlio alla ricerca del padre - Jaballa Matar - oppositore del regime di Muammar Gheddafi, sequestrato al Cairo nel 1990 e condotto nella prigione libica di Abu Salim, la prigione degli oppositori politici dell’ex rais. La prigione delle torture e del massacro del 1996 in cui 1.270 persone furono giustiziate e ammassate nei cortili, a marcire. I testimoni sopravvissuti ricordano di quel giorno che il rumore dei proiettili era durato ore, ininterrotto. Da Abu Salim si sono perse le tracce anche di Jaballa Matar. “Il ritorno” è il racconto di un’assenza, viva nella memoria di figlio come l’eredità più difficile con cui convivere. Nel marzo del 2012, dopo la rivoluzione, Hisham Matar torna in Libia per la prima volta, sulle tracce del padre, per colmare quella distanza e raccontare l’assenza come recita il sottotitolo del libro: Padri, figli e la terra fra di loro.

C’è stato un evento specifico prima di iniziare a scrivere “Il ritorno” che l’ha incoraggiata a iniziare il libro o è stata una naturale evoluzione del suo percorso come scrittore?

«Ho sempre trovato curioso quanto fosse per me impossibile stabilire quando i miei libri abbiano effettivamente avuto inizio. È quando scrivo la prima riga, è quando ho l’idea, o è quando sono nato? Forse tutti portiamo i nostri libri con noi, e solo alcuni finiscono per scriverli o per scriverne almeno una parte. In ogni caso, “Il ritorno” è nato da quell’importantissimo viaggio che ho fatto tornando in Libia nel 2012 dopo trentatré anni».

Come descriverebbe oggi la Libia, osservandola da lontano?

«La Libia è un paese giovane con una storia travagliata e un difficile presente. Sta tentando di navigare attraverso i fantasmi del passato e le zone violentemente spaccate del presente. È anche un paese molto ricco e questo spesso significa che altri lo guardino con il desiderio di un parassita, e lo stesso fa, purtroppo spesso, parte della sua stessa gente».

Nel suo libro ci sono pagine di grande coraggio che descrivono la storia della Libia, il regime di Gheddafi, i suoi servizi segreti. Oggi la letteratura può ancora cambiare le cose? La parola è ancora uno strumento in grado di spostare equilibri?

«Un sinonimo di letteratura è verità, e per scrivere qualcosa di vero bisogna mettere da parte le proprie cause e le proprie ambizioni. La letteratura è intransigente sulla sua libertà; richiede di essere libera anche dal suo stesso autore. Se uno scrittore cercasse di impiegare la letteratura per i propri scopi, si renderebbe ridicolo. Ma questo non significa che la letteratura non cambi il mondo, ma piuttosto è così che cambia il mondo. Credo che lo faccia, ma alle sue condizioni. Quante volte sono stato italiano, irlandese, giapponese, nero o gay? E quante volte sono stato ucciso e sono stato assassino. Sono stato una donna molte volte. È grazie alla letteratura che ha espanso il mio cuore, mi ha coinvolto nella vita degli altri».

Pensa che la letteratura araba possa aiutare a portare avanti le motivazioni che hanno animato la rivoluzione del 2011 o ritiene che quelle motivazioni siano andate perdute?

«Penso che le rivoluzioni del 2011, come forse tutte le rivoluzioni, siano complesse e imperfette. Spesso lasciano dietro le loro spalle un debito di smarrimento e confusione. E quindi questo, anche se indirettamente, deve toccare l’artista. La letteratura in particolare, con il suo interesse per uomini e donne in antitesi con i loro stessi cuori, è interessata a momenti di tale conflitto interiore».

Il suo libro è una summa della storia della Libia. Oggi la Libia - a mio avviso - non paga solo il prezzo della negligenza dei paesi occidentali dopo il 2011, ma è ancora vittima del regime di Gheddafi. Quando legge le notizie libiche, di fronte alla guerra civile che sembra non finire, ai gruppi fondamentalisti nel paese, cosa si aspetta per il futuro?

«Il presente è sempre un sintomo del passato. E lo è ancora di più con Gheddafi perché il suo progetto era quello di creare una Libia e la sua gente a sua immagine. E ha avuto quattro decenni per farlo. Ci è quasi riuscito. Questo è l’aspetto straordinario della nostra rivoluzione. Ci siamo rialzati dopo tanta oppressione. Ciononostante, l’eredità naturalmente rimane, e gran parte della Libia di oggi - il modo in cui il potere è negoziato o meno, il modo in cui la violenza è preferita al dialogo, il peso politico dell’umiliazione, la natura rudimentale delle istituzioni private e statali - tutti questi sono gheddafismi. E, cosa peggiore, quel contesto è stato un eccellente terreno fertile per l’estremismo. L’estremismo, dopo tutto, è un’espressione di disperazione».

Parlo della mia esperienza in Libia: negli ultimi due anni ho riscontrato un fenomeno preoccupante: un numero crescente di persone, soprattutto i giovani intorno ai 25-30 anni, guardano al regime di Gheddafi con nostalgia. Perché accade secondo lei? 

«George Orwell, da qualche parte nei suoi libri, credo in “Omaggio alla Catalogna”, osserva come il fascismo cavalchi sulle spalle della borghesia. Il desiderio di stabilità può far accettare molta oppressione. Niente di nuovo né unico. Quindi capisco la sensazione. Ma il problema è di logica: se l’oggi è il risultato del passato come possiamo desiderare che torni la causa della situazione attuale? E poi: ho sempre rilevato in un tale lamentarsi un atto di autocommiserazione. Mi ricorda la vittima dello stupro che si incolpa se stessa. Nessuno merita di essere trattato con violenta umiliazione. I diritti fondamentali sono dovuti a ognuno di noi».

Pochi mesi fa a Tripoli ho incontrato una persona che ha combattuto nel 2011. Mi ha detto: “Sotto Gheddafi la vita non aveva odore, oggi la vita puzza”; come si può dare speranza ai giovani che si sentono illusi dalla rivoluzione e abbandonati? 

«Il presente ci obbliga a impegnarci nuovamente con la nostra storia, per capire come siamo arrivati qui. Spero che lo faremo, ma non sono fiducioso perché, se guardi in giro - l’Italia è un ottimo esempio - la maggior parte dei paesi non è brava a guardarsi allo specchio. È un fallimento umano comune».

La condizione di esilio interiore è cambiata dopo “Il ritorno”?

 «Il mio esilio non è mai stato un fatto interiore o spirituale, ma piuttosto materiale: non è che non volessi tornare; semplicemente, a causa della situazione politica, non potevo tornare a casa. Così ora che sono stato in grado di tornare e posso continuare a farlo, non sono più un esiliato. Il che per me è un sollievo, perché non mi è mai piaciuta la parola esilio».

I”Il ritorno” ha alleviato il peso della sua storia o lo ha reso più difficile? 

«Mi ha permesso di fare un passo avanti, di non essere come quell’uomo nel sogno che descrivo nel libro in cui appaio a me stesso come una figura deformata con la testa rivolta sempre all’indietro. Sono un po’ più interessato al presente ora e, nei giorni audaci, anche al futuro.

Un giornalista francese, a differenza di Macron, accusa le Ong di aiutare gli scafisti libici a incassare 5 mila euro per migrante, scrive Tino Oldani. Italia Oggi, n. 157, pag 4, 07/07/2018. Dalla Francia, in tema di migranti, non piovono solo insulti sull'Italia. Per esempio, c'è un giornalista del quotidiano Le Figaro, che invece di definire «vomitevole» la politica del governo italiano, come ha fatto Emmanuel Macron, prova a spiegare, con i dati di fatto, come funziona e quanto guadagna la rete dei trafficanti di carne umana che da anni opera in Libia. Proprio in quella Libia destabilizzata militarmente nel 2011 dalla Francia di Nicolas Sarkozy, che pur di mettere le mani sul petrolio libico e tappare la bocca a Gheddafi sulle tangenti pagate allo stesso Sarkozy, ha distrutto lo stato libico e lasciato il campo libero a centinaia di gang criminali. Gang che, da allora, controllano, armi in pugno, i flussi dei migranti africani verso l'Europa, in pratica verso l'Italia, con guadagni colossali. Il giornalista è Renaud Girard, titolare di una rubrica molto letta su Le Figaro. La descrizione del traffico dei migranti che ha fatto qualche giorno fa nella sua rubrica ha suscitato enorme curiosità in Francia, tanto da spingere le tv a intervistarlo. La sua analisi merita di essere conosciuta, non solo per alcuni dettagli, in parte già noti in Italia, ma soprattutto per le conclusioni di tipo politico: «Questa follia di migrazioni incontrollate e illegali è dannosa per l'Africa, e sta distruggendo questa Europa liberale e unita, che è stata pazientemente costruita dagli anni '50, fino dal Trattato di Roma del 1957». Un'intervistatrice tv chiede a Girard: come si spiega il rapporto tra la rete dei trafficanti e le Ong? «Beh, i trafficanti devono guadagnare, fare soldi. Ogni passaggio costa tra i 3 mila e i 5 mila euro per ogni persona. Denari che finiscono in tasca a mafie che operano non solo in Libia e in Niger, ma anche nei paesi d'origine dei migranti e sulla costa europea. Un giro d'affari illegale, diventato molto più importante del traffico di droga». In effetti, se consideriamo che solo in Italia vi sono 600 mila clandestini, significa che queste mafie hanno lucrato circa 3 miliardi di euro per mandarceli. Quanto al rapporto con le Ong, Girard sostiene che i trafficanti «sono molto bravi a sfruttare le regole della carità cristiana in Europa. Il loro metodo è semplice: raccolgono dei disperati, ciascuno dei quali ha pagato 5 mila euro, li mettono su un canotto gonfiabile e li portano a 12 miglia nautiche dalla costa della Libia, al limite delle acque internazionali. E da lì inviano un Sos con il telefono satellitare, dicendo che c'è un naufragio imminente. E poi se ne vanno. Da quel momento sono le navi delle organizzazioni umanitarie Ong, o la Marina italiana o la Guardia costiera italiana che vengono a recuperare i migranti, svolgendo a tutti gli effetti il resto del lavoro». Ovvero il trasporto fino ai porti italiani. «Sarebbe più logico», dice Girard, «che questi poveri naufraghi, o quelli che passano per tali, vengano riportati sulle coste dalle quali provengono, a Tripoli o nei porti vicini. Invece no, dicono le Ong, non si può, perché quello è un paese pericoloso. Così il passaggio illegale dei migranti dall'Africa all'Europa è organizzato a scopo di lucro dai trafficanti, ma gratuitamente dalle Ong e dalla Marina italiana. Segno che le mafie sanno bene come sfruttare il sentimentalismo europeo e la carità cristiana». In tutto questo, sostiene Girard, c'è anche un vuoto di democrazia. «Nel giro di due generazioni, i popoli europei hanno accettato liberamente l'indipendenza di tutti i paesi africani, votando in referendum o in elezioni parlamentari. In Francia siamo stati consultati su molte cose: la durata del mandato del presidente, la questione della Nuova Caledonia, l'entrata dell'Inghilterra nell'Unione europea, eccetera, ma non abbiamo mai consultato il popolo francese per sapere se volevano un'immigrazione di massa o meno. Quindi, c'è un problema di carenza democratica in Europa su questo punto». Del pari, si può aggiungere che le Ong sono associazioni private, che, agendo sovente in accordo con gli scafisti, si sono sostituite agli Stati europei, Italia in primis, nel decidere i flussi migratori dall'Africa verso l'Europa, scaricandone i costi finali, economici e sociali, sulle finanze pubbliche, dunque sulle tasche dei contribuenti. Il tutto senza alcun mandato democratico. Un andazzo a cui ha posto fine, per ora, il veto alle navi Ong di attraccare nei posti italiani. E l'Europa, come ne esce? «Questa tratta di esseri umana è doppiamente deleteria», sostiene Girard. «È deleteria per l'Africa, e lo è per l'Europa. Questa alleanza tra contrabbandieri e Ong sta portando in Europa i giovani africani capaci, quelli che dispongono del denaro per pagare il passaggio, somme ingenti che potrebbero essere usate diversamente nei villaggi africani, per fare un pozzo, una fattoria fotovoltaica, irrigare, o cose come queste. Sono i giovani più industriosi e intelligenti quelli che partono, mentre i più poveri non hanno i soldi per farlo. Così l'Africa viene svuotata della sua sostanza umana. Ma questi giovani hanno una cultura diversa da quella europea: prima di essere soggetti economici, sono esseri culturali, e non è detto che siano felici in Europa. I buonisti di sinistra dicono: oh sì, ma la Germania, e non solo quell'economia, ha bisogno di lavoratori. Può darsi. Ma, visto che in Germania c'è la democrazia, qualcuno ha chiesto ai tedeschi se vogliono o no questi trasferimenti? Questo è ciò che la Merkel non ha capito». Idem per gli altri paesi, dove cresce il rifiuto dell'Unione europea, imbelle di fronte alla gravità del fenomeno. La conclusione di Girard è quasi ovvia: «Questa follia di migrazioni incontrollate e illegali è dannosa per l'Africa, e sta distruggendo l'Europa liberale e unita». Chapeau.

Tutti gli affari e i legami politici del ras dei profughi con la Ferrari. Candidato Ncd, legami istituzionali. Ma recitava da benefattore, scrive Massimo Malpica, Venerdì 22/06/2018, su "Il Giornale". La miglior difesa è l'attacco. Slogan perfetto per Paolo Di Donato, che dalla «sua» Sant'Agata dei Goti recitava la parte del leone nell'accoglienza migranti in provincia di Benevento. Gli affari vanno alla grande, le chiacchiere sono poche. Almeno fino a novembre 2015, quando il sito redattoresociale.it racconta i problemi di alcuni dei centri gestiti dal consorzio Maleventum, creato da Di Donato, che gestisce 13 strutture in provincia. Sovraffollamento, settimane senza acqua potabile, scarsi controlli. L'articolo è un sasso nello stagno, la replica è immediata. Non arriva da Di Donato, ma da tal Elio Ouchtati, 24 anni, che risulta amministratore unico della coop sociale, della quale Di Donato sarebbe solo «dirigente aziendale». Il consorzio si difende, ma in quell'articolo spicca la foto del «dominus» in posa accanto a una Ferrari 360 rosso fiammante. Arriva dal profilo Facebook dell'uomo, prodigo di immagini e piuttosto loquace (e polemico). Così, dopo che Mario Giordano gli dedica un capitolo di «Profugopoli» e il Giornale ne anticipa la storia decifrando l'identikit prima dell'uscita del libro, lui reagisce. «Non credo di fare una vita di lusso», dichiara a febbraio 2016. Lamentandosi dei soldi da pagare, negando che la Ferrari - e una Porsche - fossero sue, salvo poi ammettere di averle comprate «usate», definendole «stravecchie». L'uomo, che si è anche dato alla politica avvicinandosi a Ncd, dopo aver minacciato querele e gridato il suo sdegno su Facebook torna al lavoro, vantandosi semmai che da lì in avanti la tv si era ancora interessata a lui, ma solo in quanto «esperto di accoglienza». E rivendicando l'eccellente lavoro portato avanti con i migranti nonostante le infamanti accuse della stampa e degli invidiosi. Ora Di Donato è finito ai domiciliari. Per la procura di Benevento ha messo su un sistema di corruzione per cui gli venivano assegnati più migranti di quanti potevano ospitarne i suoi centri, dove gli ospiti vivevano in pessime condizioni. Tanto, anche quando andavano via, sui registri venivano falsificate le firme dei migranti per farne risultare la presenza anche se non c'erano più. Proprio la foto in Ferrari è stata galeotta. Pare che abbia attirato l'attenzione di un concorrente nel settore dell'accoglienza costretto ad accontentarsi delle briciole, che aveva poi scoperto l'«asse» tra Di Donato e un funzionario della prefettura, mettendo tutto nero su bianco e denunciando l'uomo. E quando Di Donato capisce che non ci sono da rintuzzare solo le ispezioni e i controlli sui centri - per le quali veniva regolarmente avvertito in anticipo - ma che il cerchio di un'indagine su di lui gli si sta stringendo attorno, grazie alle gole profonde che gli spifferano dell'inchiesta, elargisce regali - secondo la procura tra questi c'è anche un'automobile - mette appartamenti a disposizione e ottiene una «visura» abusiva sui terminali della procura, che però non sfugge alla Digos, che pizzica la talpa immortalata insieme a Di Donato dalle telecamere del palazzo di giustizia mentre «controlla» la situazione. In fondo lui stesso, a ottobre del 2016, spiegava quanto fosse difficile gestire quei 1000 migranti: «Facciamo del nostro meglio, stando attenti a quello che si può fare e non si può fare, dovendoci sostituire in più occasioni ad alcuni organi, istituzioni e poteri dello Stato». Forse su quello che non si può fare non è stato abbastanza attento.

Prima delle navi Ong, ci sono le Ong del microcredito: sono queste che prestano i soldi ai migranti per il viaggio, facendo affari d'oro, scrive Tino Oldani. Italia Oggi, n. 169, pag 6, 19/07/2018. È ormai noto che ogni migrante africano paga da tremila a cinquemila euro ai trafficanti per tentare di arrivare in Italia o in Spagna. Una somma ingente per dei disperati. Da dove arrivano quei soldi? Una risposta documentata e degna di attenzione viene dalla blogger Ilaria Bifarini, che si autodefinisce «bocconiana redenta» e da tempo studia cause ed effetti dei flussi migratori in varie parti del mondo, Africa in testa (vedi ItaliaOggi di ieri). In pratica, secondo la sua ricostruzione, avviene questo: prima di arrivare sulle navi delle Ong che operano nel Mediterraneo, i migranti hanno stipulato un vero e proprio contratto con le Ong del microcredito che operano nel loro paese d'origine, pur essendo state costituire in altri paesi, spesso in Europa o negli Stati Uniti. Da queste Ong del microcredito, i migranti ricevono alcune migliaia di dollari che, sul piano formale, sono una concessione di denaro di tipo filantropico, un micro-prestito concesso a chi è talmente povero da non potere avere accesso al credito ordinario. Il tutto con lo scopo, in apparenza, di promuovere attività economiche locali e favorire lo sviluppo nel Terzo Mondo. La realtà, spiega Bifarini, è però ben diversa: quel prestito viene usato in moltissimi casi per emigrare, pagare le spese di viaggio, compresi gli esosi balzelli pretesi dai mercanti di carne umana e dagli scafisti. Il tutto con la promessa, messa per iscritto, di restituire alle Ong del microcredito il prestito ricevuto, e gli interessi, con le future rimesse di denaro che il migrante avrà guadagnato in Europa. Con tanti saluti al presunto filantropismo di partenza. Le prove? La Bifarini cita alcune ricerche sul campo. Il primo è uno studio condotto tra il 2008 e il 2010 in Cambogia dalla sociologa Maryann Bylander, dal quale emerge «una correlazione diretta tra l'espansione del microcredito e l'aumento dei flussi migratori cambogiani verso l'estero». Lo stesso nesso è stato poi riscontrato in Bangladesh, paese d'origine di circa un decimo dei migranti che arrivano in Italia (oltre 10 mila solo nel 2017): in questo paese opera fin dagli anni Ottanta la Grameen Bank, istituto finanziario creato a scopo filantropico grazie all'appoggio di sostenitori illustri, come i coniugi Clinton e Bill Gates, e con il sostegno della Banca Mondiale. Con il tempo, i suoi microprestiti si sono tramutati in veri e propri incentivi all'emigrazione. Tanto che una locale Ong (Organizzazione non governativa), la Brac (Bangladesh rural advancement commitee) ha dato vita a un vero e proprio business dei «migration loans», prestiti per emigrare. Attenzione: la Brac non è una Ong di seconda fila. Tutt'altro. Secondo il Global Journal, questa Ong bengalese è la più grande al mondo e la prima nella classifica delle cento migliori Ong al mondo. Che si occupi di «migration loans» è il suo stesso sito a confermarlo, tanto è vero che ne spiega il funzionamento con una infografica molto ben fatta, in otto punti, dai quali gli aspiranti migranti possono apprendere cosa devono fare per chiedere il microprestito per andare all'estero, e poi per restituirlo, inviando le rimesse in denaro ai familiari, che devono provvedere materialmente al rimborso nel giro di 12-24 mesi. E se non ci riescono, ecco pronto un altro prestito per la famiglia, con tanto di interessi, per guadagnare tempo, in attesa delle rimesse. Precisa il sito della Ong bengalese: «A giugno 2016, Brac ha contribuito a finanziare 194 mila lavoratori migranti a cercare lavoro all'estero». Il sito della Ong Brac è prodigo di informazioni anche sui «prestiti di rimessa», a riprova del fatto che ci tiene moltissimo a riprendersi i soldi dei «migration loans»: «Brac fornisce ulteriore supporto alle famiglie dei migranti sotto forma di prestiti di rimesse. Questi prestiti sono scommesse sicure, progettati per offrire maggiore flessibilità alle famiglie, che fanno affidamento sulle rimesse mensili inviate dai familiari che guadagnano all'estero». Tra giugno 2014 e giugno 2016, la Ong Brac ha offerto questo servizio a oltre 40 mila famiglie bengalesi. Essendo la prima Ong al mondo, la Brac non opera solo in Asia, ma anche in America Latina e in molti paesi dell'Africa. Un colosso finanziario che ha fatto del business dei microcrediti ai migranti e alle loro famiglie la sua vera fonte di guadagno. Osserva con tono critico la Bifarini: «Vengono concessi finanziamenti non per lo sviluppo dell'economia locale, bensì per incentivare l'emigrazione, secondo un infondato modello di sviluppo economico, che vede nelle rimesse dei migranti una fonte di crescita per il paese d'origine». Non sempre però le rimesse riescono a pagare il debito iniziale. Tanto è vero che «in alcune zone dell'India non sono rari i casi di vite immolate per ripagare i prestiti, dall'aumento dei suicidi, fino alla vendita di organi da parte di cittadini bengalesi». Lo zoccolo finanziario da cui pescare profitti rimane tuttavia ampio. «Un affare d'oro quello delle rimesse», scrive Bifarini, «che ha visto un incremento in termini globali di oltre il 50% in soli dieci anni, per una cifra complessiva di 445 miliardi di dollari sotto forma di rimesse nel solo 2016, il 13% delle quali è stato inviato in Africa (dati Ifad)». Un business ricco se si considera che «spedire soldi nei paesi africani sotto forma di rimesse è piuttosto oneroso, con commissioni che vanno dal 10 al 15%». Conclusione: fare luce sul ruolo delle navi Ong è stato un passo utile, ma non meno importante sarebbe ricostruire l'intera filiera del business dei migranti, un business perverso, fondato sulla disperazione, compreso il ruolo ambiguo delle Ong dei «migration loans» e di chi le manovra, anche dall'Europa.

“80% delle Ong lucra su immigrati”, scrivono l'8 maggio 2017 Luigi Avantaggiato e Benedetto Sanfilippo su "Gli occhi della guerra". «Fino a due anni fa, qui a Chios, dormivamo con la porta aperta. Non succedeva nulla, perché ci conosciamo tra di noi. Oggi invece quasi tutti hanno un sistema di allarme o un’assicurazione sulla casa: abbiamo paura di ciò che non vediamo e di quello che non possiamo controllare. Nei mesi scorsi abbiamo subìto delle violazioni e dei furti compiuti da rifugiati che non scappano da nessuna guerra. L’isola di Chios era un bellissimo posto dove vivere o trascorre le vacanze. Ora non più. Questo gioco sinistro fra la Turchia e l’Europa ha trasformato le nostre isole in un sistema di filtraggio per migranti e rifugiati». Non è la voce di un sindaco, di un assessore o di un politico: a parlare sono persone comuni, i coniugi Nanà e Giorgios Agios che vivono nel centro storico di Chios città. Tutte le mattine aprono le persiane per far entrare la luce in camera da letto e destarsi dal sonno. Ma non sorridono al nuovo giorno: dicono “kaliméra” al vigilantes del campo profughi “Souda” installato sotto casa, nel cuore dell’area archeologica e monumentale della città, dove vivono circa 1200 rifugiati. Shelter e lunghissime file di container dell’Unhcr si stendono all’interno un’area di circa 6 chilometri quadrati per poi sfociare sul porto retrostante, dove altre tende e accampamenti di fortuna incontrano i ciottoli e l’acqua dell’Egeo.

Campo profughi “Souda”, Chios, Isola di Chios. Il campo profughi è stato installato all’interno dell’area archeologica del Castello dei Giustiniani, costruito in età bizantina nel IX secolo d.C. L’installazione del campo ha contribuito in maniera determinante al crash del turismo sull’isola.

Per i cittadini di Chios la misura è colma: sono stanchi delle istituzioni locali che non riescono – o non sono in grado – a risolvere il problema e sono stanchi degli stessi rifugiati che continuano a generare problemi e disordini che danneggiano la microeconomia sociale dell’isola. Souda e Vial, infatti, sono stati teatri di diverse situazioni di tensione (incendi, risse e accoltellamenti) esplose a causa dei contrasti tra le diverse – forse troppo – etnie e comunità religiose che vi risiedono. La più recente è accaduta il 5 maggio 2007, quando a Vial due clan rivali si sono scontrati con lanci di pietre sollevando il malcontento e la protesta dell’intera isola.

Chios, casa della famiglia Agios. Nanà segue il figlio durante i compiti a casa: «Questo gioco sinistro fra la Turchia e l’Europa ha trasformato le nostre isole in un sistema di filtraggio per migranti e rifugiati».

Sino a pochi mesi fa era difficile scorgere del malcontento nelle parole dei greci. La massiccia e arretrante crisi dei rifugiati del 2015 aveva spiazzato l’intera comunità ellenica, ma i sentimenti di aiuto e di sostegno verso il prossimo avevano prevalso sul resto. Oggi invece la situazione è nettamente diversa: in Grecia e nelle isole dell’Egeo nordorientale sembra delinearsi una narrazione confusa e schizofrenica, fatta di stimoli incoerenti, un racconto scandito dall’insofferenza, dall’isolamento culturale e dalla xenofobia, e dall’altro da comunità locali e singoli individui che si fanno carico di aiutare e sostenere i rifugiati alla stregua delle Ong. «Non ho mai avuto problemi nel riempire il mio locale. Siamo una conduzione familiare, ci bastava poco. Oggi invece accendo il camino per preparare la brace con cui cucino il pesce solo quando vedo entrare i clienti nel ristorante». Dall’isola di Lesbo Eirene Filautis racconta di quando il marito soccorreva «con le proprie mani» i rifugiati sbarcati lungo le battigie di Agrilia Kratigou, pochi kilometri a sud di Mitilene. Mentre si lamenta della sua situazione fa vedere sullo smartphone le immagini di palazzi occupati da rifugiati e di qualche cassonetto incendiato nel parco pubblico della città.

Mitilene, Lesbo. Eirene Filautis nel suo ristorante. «Oggi invece accendo il camino per preparare la brace con cui cucino il pesce solo quando vedo entrare i clienti nel ristorante».

È molto cortese e ospitale, come tutti i greci d’altronde. Ed è avvilente constatare che i sentimenti che aleggiano nell’aria siano molti vicini allo sconforto, alla rassegnazione e alla perdita del senso dell’altro, proprio qui dove sono nati i valori più importanti della cultura e della politica occidentale. La luce rossa che abbraccia la costa di Molivos illumina le pile, o meglio, le montagne di centinaia di migliaia di salvagenti e giubbetti di salvataggio usati dai migranti per le traversate dalla Turchia sembra avvalere questa constatazione, e purtroppo racconta anche che il problema della migrazione in Grecia è così radicato che fa parte del paesaggio.

Eftalou, Molyvos, Lesbo. Una discarica sorta al di fuori dello spazio urbano raccoglie le migliaia di salvagenti e i relitti delle barche usate dai migranti per le traversate.

Il flusso migratorio e l’installazione dei relativi campi hanno contribuito in maniera decisiva al crash del turismo. Nello studio del gennaio 2017 pubblicato dal Laboratory for Tourism Research and Studies dell’Università dell’Egeo curato dai professori Theodore Stavrinoudis della medesima università e da Stanislav Ivanof dell’Università di Varna in Bulgaria sugli effetti della migrazione a danno dell’economia turistica, le percentuali raccontano di un calo del 43% sull’incoming, del 36% sui ricavi e del 24% sui prezzi di mercato. Ora le battigie delle spiaggie dell’Egeo non accolgono più ombrelloni e lettini per i turisti e lasciano spazio a carcasse di animali morti.

Spiaggia di Eftalou, Molyvos, Lesbo. Nel 2016 lungo questa spiaggia sono stati trovati alcuni cadaveri di profughi morti durante il viaggio in mare. Adesso è una spiaggia deserta. Durante una passeggiata alla ricerca dei segni della migrazione lasciati sul paesaggio costiero, mi sono imbattuto in questa carcassa di un cane, morto diversi mesi prima e lasciato marcire.

«Tutte le mattine mi affaccio dalla finestra e spero di non vedere migranti sulla spiaggia davanti al mio locale. Siamo qui da trent’anni e abbiamo solo la stagione per lavorare, nient’alto. Per noi è difficile andare avanti perché ai turisti non interessa questa situazione. Vogliono sedersi qui fuori, rilassarsi e bere un drink. Non possono vedere certe immagini». La Taverna Eftalou è deserta quando Manuel, il proprietario, spiega come sia difficile continuare a vivere di turismo in una località «invasa dai migranti. Siamo aperti solo perché qui a Eftalou ci conoscono tutti e qualcuno ci viene a trovare».

Eftalou, Molyvos, Lesbo. Manuel è il proprietario della Eftalou Tavern: «Tutte le mattine mi affaccio dalla finestra e spero di non vedere migranti sulla spiaggia davanti al mio locale».

Questi fugaci ritratti del popolo greco raccontano una situazione di stallo che minaccia la sopravvivenza economica e sociale della comunità ellenica ma sono in contrasto con altre realtà presenti sulle isole dell’Egeo e che lavorano in favore delle migliaia di rifugiati presenti sulle isole. La parola spetta a Eric Kempson, scultore di origine inglese ma trasferitosi a Lesbo, che da anni offre il proprio aiuto e quello della moglie Philippa in favore dei migranti in fuga dalla Turchia. «A febbraio del 2015 abbiamo iniziato ad aiutare queste persone perché arrivavano in uno stato disastroso, da zone di guerra e con ferite di arma da fuoco. Approdavano proprio sulla spiaggia di fronte a noi. Quindi abbiamo deciso come famiglia che avremmo prestato il nostro aiuto». La famiglia di Eric e Philippa risponde al nome di Ellenis Workshop, un laboratorio artigianale che produce manufatti artistici destinati alla vendita, il cui ricavato viene devoluto per l’aiuto ai migranti. Ogni giorno Eric, Philippa e i volontari in visita al workshop ricevono donazioni di ogni tipo e da diversi continenti (vestiti, medicine, kit di primo soccorso, equipaggiamento termico, ecc) che vengono catalogate e distribuite alle popolazioni in difficoltà. L’impegno e le voci di questo vivace gruppo che utilizza l’arte e l’artigianato come veicoli di scambio in favore della dignità umana fanno breccia in quello che è l’attuale e instabile scenario delle Ong impegnate in Grecia e nel Mediterraneo. «Io dico sempre che c’è bisogno di un organo internazionale per governare le agenzie umanitarie e le Ong, perché molte di queste fanno solo affari». Le accuse di Erik sono taglienti, ma l’enunciazione di queste tesi deriva da anni di lavoro sul territorio di Lesbo e dalla profonda conoscenza di come si sono attuate le logiche del salvataggio organizzate dalle Ong: «Nell’ottobre del 2015 hanno detto che sull’isola erano presenti circa 120 organizzazioni non governative. Io sostengo che l’80% di queste Ong erano corrotte, unicamente impegnate nel fare soldi da questa catastrofe».

Oxfam e le altre: gli scandali sessuali che infangano le ong. Dai festini con le giovani prostitute ad Haiti ad altre violenze imputabili anche al personale di Save The Children e Christian Aid, scrive "Panorama" il 12 febbraio 2018. Festini con ragazze in miseria indotte a prostituirsi a Haiti, fra le devastazioni del terremoto del 2010, dal personale della ong Oxfam. E non solo. Si estende a macchia d'olio, in Gran Bretagna, lo scandalo sugli abusi sessuali attribuiti ad alcuni volontari e coordinatori di organizzazioni non governative umanitarie di primissimo piano. Uno scandalo che il governo di Londra minaccia di punire con tagli di fondi in assenza di garanzie di trasparenza per il futuro. La sordida vicenda di Haiti, scoperchiata dal Times nei giorni scorsi, non pare in effetti isolata. L'Observer, domenicale del progressista Guardian, svela come operatori della stessa ong fossero stati pescati a frequentare prostitute, sfruttandone la miseria, già in Ciad nel 2006 sotto la guida di Roland van Hauwermeiren, il medesimo capo missione costretto poi a dimettersi nel 2011 per il coinvolgimento personale nelle presunte "orge haitiane": ospitate in una villa affittata apposta per lui. Ma non basta. Perché il Times va oltre, con un nuovo capitolo d'inchiesta dedicato a sospetti più diffusi e recenti: riferiti nel solo 2017 a 87 segnalazioni di possibili abusi sessuali o almeno comportamenti impropri attribuiti in Paesi stranieri bisognosi d'aiuto a personale Oxfam (solo 53 dei quali denunciati e con 20 addetti licenziati). L'ong ha replicato alle accuse del Times sottolineando "di aver sempre agito in modo trasparente sugli abusi". Pur insistendo a negare gli insabbiamenti, non può ormai non riconoscere per bocca del chief executive, Mark Goldring, che i comportamenti di "una piccola parte" del suo staff sono stati "vergognosi". Le accuse però riguardano anche 31 casi riconducibili a impiegati o collaboratori di Save the Children (appena 10 denunciati) e due a Christian Aid. Mentre la Croce Rossa britannica risulta aver ammesso 5 casi di denunce di molestie a carico di propri volontari in patria, Save the Children ha risposto in una nota di aver "segnalato ai media 31 casi di accuse sessuali che hanno portato a 16 licenziamenti". I casi comunque non riguardavano bambini e comunque l'ong ribadisce la sua politica di "tolleranza zero verso ogni abuso sessuale". L'ammissione del management di Oxfam non basta però all'attuale ministro inglese della Cooperazione Internazionale, Penny Mordaunt, che ha alzato i toni dell'indignazione, additando in un'intervista alla Bbc il "fallimento morale" della leadership di Oxfam: un'istituzione benemerita su molti fronti, pronta spesso a denunciare presunte violazioni altrui, ma ora investita essa stessa dalla bufera e dall'onta.  Il governo britannico, che solo l'anno scorso ha contribuito con 32 milioni di sterline alle casse di Oxfam, è pronto a destinare ad altri parte di quei finanziamenti se non riceverà rassicurazioni credibili.

Abusi sessuali, si allarga lo scandalo nelle Ong, scrive Nicol Degli Innocenti il 24 febbraio 2018 su "Il Sole 24 ore". Lo scandalo degli enti di beneficenza si allarga. Dopo le rivelazioni che hanno travolto Oxfam, altre due organizzazioni hanno ammesso che alcuni loro dipendenti hanno commesso abusi sessuali, anche su minori. Plan International, un ente britannico specializzato nell'aiutare i bambini che ha una presenza in 50 Paesi in via di sviluppo, ha confermato oggi sei casi di abusi sessuali e sfruttamento di minori che sono avvenuti tra il 1 luglio 2016 e il 30 giugno 2017. L’organizzazione ha detto che in cinque casi su sei la persona responsabile è stata denunciata alle autorità del Paese coinvolto e un dipendente è stato licenziato. Nello stesso periodo ci sono stati anche nove casi di molestie sessuali da parte di dipendenti dell’ente a danno di persone adulte: sette dei responsabili sono stati licenziati e due ammoniti. «Ci dispiace molto» ha fatto sapere in un comunicato di autodenuncia online Tanya Barron, responsabile di Plan International UK: «Purtroppo non siamo immuni dai comportamenti del tutto inaccettabili di un piccolo numero di persone che lavorano per noi o con noi. L’importante è ammettere la verità e gli errori commessi». Plan International ieri assieme a 21 altre organizzazioni del settore si era impegnata a fare di più per proteggere le persone vulnerabili che dovrebbero aiutare. L’obiettivo principale è lo scambio di informazioni sui dipendenti per impedire che una persona che si è comportata in modo illecito o illegale ed è stata allontanata da un ente di beneficenza possa poi andare a lavorare per un altro ente, cosa che è successa nel caso di Oxfam. «Non ci può essere alcuna tolleranza per gli abusi di potere - afferma la lettera firmata tra gli altri anche dai dirigenti di Oxfam, Unicef UK, Cafod e Save the Children UK. – Abbiamo il dovere di fare tutto il possibile per prevenire, individuare e eliminare i comportamenti inaccettabili, per il bene dei nostri dipendenti, dei nostri sostenitori e soprattutto delle persone che è nostra missione aiutare». Anche il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha confermato che 21 dipendenti sono stati licenziati o hanno dato le dimissioni dal 2015 a oggi per avere pagato prostitute. Yves Daccord, direttore generale della Croce Rossa Internazionale, si è detto «molto rattristato» e ha ammesso che sono stati fatti errori: «Questi tipi di comportamento sono un tradimento delle persone che dobbiamo aiutare, è un insulto alla loro dignità umana e noi avremmo dovuto vigilare meglio». Lo scandalo era scoppiato con le rivelazioni sulla condotta di alcuni dipendenti di Oxfam che erano andati ad Haiti per prestare soccorso dopo il devastante terremoto del 2010 e che avevano sfruttato giovani prostitute locali. Nelle ultime settimane sono stati denunciati 26 case di abusi o molestie sessuali commessi da dipendenti dell’ente di beneficenza, 16 dei quali all'estero e 10 in Gran Bretagna. Il Governo di Haiti ha sospeso ogni operazione di Oxfam nel Paese per due mesi, mentre il Governo britannico ha avviato un’inchiesta e potrebbe sospendere o tagliare i finanziamenti all'ente di beneficenza, che lo scorso anno ha ricevuto 32 milioni di sterline da Londra e 29 milioni dalla Commissione Europea. Nel frattempo Oxfam ha rivelato che 7mila donatori privati hanno sospeso i loro contributi all'organizzazione da quando è scoppiato lo scandalo, mentre i grandi sponsor stanno valutando la loro posizione.

Oxfam, Media: “Coinvolte altre ong nello scandalo sessuale”. La ministra per la cooperazione Uk: “Fallimento morale”. Secondo il Times, Oxfam sarebbe stata coinvolta in 87 episodi di comportamento improprio di suo personale in missione all'estero (53 dei quali denunciati alla polizia e con 20 addetti silurati), Save the Children in 31 (10 dei quali denunciati) e Christian Aid in due. Mentre la Croce Rossa britannica ammette cinque casi di sospette molestie in patria. La ong: "Scioccati e costernati", scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 febbraio 2018. “Lo scandalo sessuale che ha investito Oxfam riguarda solo pochi delle sue migliaia di operatori, ma rappresenta un fallimento morale per i vertici questa ong umanitaria”. Così Penny Mordaunt, ministra britannica per la Cooperazione internazionale, la quale ha ribadito che il suo dicastero – finanziatore nel 2017 di Oxfam con 32 milioni di sterline – non era stato informato dei presunti abusi a Haiti o nel Ciad. Non solo i festini con prostitute a Haiti e non solo l’Oxfam. Si allarga, sulla stampa britannica, lo scandalo sugli abusi sessuali attribuiti ad alcuni volontari e coordinatori di organizzazioni non governative umanitarie. Il Times, che ha scoperchiato per primo la vicenda, allarga oggi l’obiettivo, riferendo che nel 2017 la stessa Oxfam sarebbe stata coinvolta in 87 episodi di comportamento improprio di suo personale in missione all’estero (53 dei quali denunciati alla polizia e con 20 addetti silurati), Save the Children in 31 (10 dei quali denunciati) e Christian Aid in due. Mentre la Croce Rossa britannica ammette cinque casi di sospette molestie in patria. L’Observer, domenicale del Guardian, svela da parte sua che rapporti di rappresentanti Oxfam con giovani prostitute erano stati già denunciati nel 2006 in Ciad, dove il capo missione era sempre Roland van Hauwermeiren, poi dimessosi nel 2011 per i festini organizzati a Haiti. Oxfam, pur negando gli insabbiamenti, riconosce ora che i comportamenti di “una piccola parte” del suo staff sono stati “vergognosi”. Lo scandalo sembra estendersi: il Sunday Times riporta che nell’ultimo anno oltre 120 impiegati di ong britanniche sono stati accusati di abusi sessuali, “alimentando timori che i pedofili stiano prendendo di mira organizzazioni umanitarie oltreoceano”. Il governo britannico lancia un avvertimento: tutte le ong dovranno incrementare gli sforzi contro lo sfruttamento sessuale e collaborare con le autorità, altrimenti i loro finanziamenti verranno tagliati. A dare l’aut aut, adesso, è sempre Penny Mordaunt, la quale ha spiegato alla Bbc che domani incontrerà diversi responsabili di ong e che alle organizzazioni chiede di spiegare in dettaglio quali passi stiano intraprendendo sulla questione e di confermare che abbiano riferito alle autorità competenti tutte le preoccupazioni su casi e persone specifiche. “Riguardo a Oxfam e a ogni altra organizzazione che abbia problemi di tutela, ci aspettiamo che cooperino in modo totale con le autorità e cesseremo di finanziare ogni organizzazione che non lo fa”, ha chiarito Mordaunt, chiedendo anche a tutti i donatori e alle organizzazioni impegnate per lo sviluppo, di passare all’azione sulla questione nel corso del summit “Global Partnership to End Violence Against Children” che si terrà a Stoccolma la prossima settimana. Stando al racconto del Times, non solo parte del senior staff di Oxfam ingaggiò delle giovani come prostitute, ma ai tempi la ong con base centrale nel Regno Unito avrebbe provato a insabbiareil caso. Secondo il Sunday Times, Oxfam – per cui lavorano circa 5mila membri dello staff e 23mila volontari – ha registrato l’anno scorso 87 incidenti di abusi sessuali, di cui 53 sono stati riferiti a polizia e autorità, e ha licenziato 20 persone fra membri dello staff e volontari. La Charity Commission britannica, che regolamenta il settore e questa settimana incontrerà Mordaunt, ha chiesto a Oxfam di fornire urgentemente nuove informazionisullo scandalo ad Haiti. Oxfam sottolinea di avere immediatamente lanciato un’indagine interna nel 2011, dalla quale sarebbe emersa una “cultura dell’impunità” in parte del suo staff, ma la ong nega di avere provato a coprire lo scandalo, sottolineando che nell’ambito di quella indagine furono licenziati quattro membri dello staff e altri tre si dimisero. Il ceo di Oxfam ha ammesso che la ong non ha fornito dettagli completi dello scandalo alla commissione nel 2011: la Charity Commission spiega di avere ricevuto ad agosto 2011 un rapporto dell’organizzazione, che però citava solo “comportamenti sessuali inappropriati, molestie e intimidazioni da parte del personale”, mentre non menzionava “abusi considerevoli su beneficiari” della ong né “potenziali crimini sessuali che coinvolgevano minorenni”. Secondo Oxfam, devono ancora essere trovati elementi che provino le accuse secondo cui fra le ragazze pagate come prostitute ci fossero minorenni. Il dipartimento dello Sviluppo internazionale (Dfid) ha fatto sapere che sta rivedendo i suoi rapporti con Oxfam, a cui l’anno scorso ha dato circa 36 milioni di euro, accusando i leader della ong di avere “mostrato mancanza di giudizio” nella loro gestione della questione e nel livello di apertura con il governo e la commissione. Il Chief Executive di Oxfam, Mark Goldring, sottolinea di avere ricevuto dal Dfid meno del 10% dei finanziamenti, ma esprime la speranza di continuare a lavorare con il dipartimento, ricostruendo la fiducia con l’opinione pubblica. Oxfam, fra l’altro, è accusata anche di non avere avvertito altre agenzie umanitarie di quali membri dello staff fossero coinvolti, il che ha permesso loro di ottenere posti di lavoro fra persone vulnerabili in altre zone di crisi. Roland van Hauwermeiren, 68 anni, che Oxfam sostiene fosse stato costretto a dimettersi da direttore per Haiti nel 2011 dopo che pare avesse ammesso di avere ingaggiato delle prostitute, è andato avanti diventando capo missione per Action Against Hunger in Bangladesh dal 2012 al 2014. La ong francese ha raccontato ad Afp di avere fatto delle verifiche pre-assunzione con Oxfam, ma che l’organizzazione britannica non passò i dettagli relativi ai fatti di Haiti. L’organizzazione ha ribadito di aver “agito in maniera dura e trasparente rendendo pubblica anche sui media l’inchiesta interna il 5 agosto e il 5 settembre dello stesso anno, che portò al licenziamento di quattro membri dello staff e alle dimissioni di altri, incluso il direttore di Oxfam nel Paese. Siamo inoltre scioccati e costernati per le accuse che riguarderebbero la condotta di alcuni membri dello staff di Oxfam Gran Bretagna in Ciad nel 2006, al momento in corso di verifica”. Definendosi “feriti” da un “piccolo gruppo di persone” che ha agito in quel modo, Oxfam ribadisce la “priorità è ed è sempre stata essere al fianco delle donne e delle ragazze” vittime di abusi o sfruttamento. “Dopo l’inchiesta resa pubblica nel 2011 – ha dichiarato il direttore di Oxfam Italia, Roberto Barbieri – Oxfam si è dotata di strumenti e politiche in primo luogo in grado di prevenire casi di cattiva condotta e abuso, ma stiamo lavorando per agire in modo ancor più efficace: formando gli operatori, rafforzando le verifiche in fase di selezione e, soprattutto, prevedendo dei canali di denuncia protetta per le vittime di abusi. Solo consentendo spazi protetti possiamo intervenire con efficacia e il più rapidamente possibile”.

Scandalo Ong, Medici Senza Frontiere ammette: 24 casi di abusi sessuali nel 2017. E l'attrice Minnie Driver lascia il ruolo di ambasciatrice Oxfam, scrive il 14 Febbraio 2018 “Il Tempo. Dopo lo scandalo che ha investito la ong Oxfam, oggi arriva l'ammissione di Medici senza frontiere (Msf) che annuncia di aver registrato 24 casi di molestie o abusi sessuali all'interno dell'organizzazione nel 2017. In particolare, su 146 segnalazioni o denunce ricevute dalla direzione dell'Ong, che conta 40mila dipendenti nel mondo, "40 casi sono stati identificati come casi di abusi o molestie in generale, emersi da indagini interne, e 24 di essi a sfondo sessuale", ha dichiarato Msf in un comunicato, aggiungendo che per questi ultimi 19 persone sono state licenziate. E nuovi capitoli si aggiungono allo scandalo che sta travolgendo Oxfam. L'attrice britannica Minnie Driver ha annunciato di lasciare il suo ruolo di ambasciatrice dell'organizzazione, dicendosi "devastata" da come essa ha gestito lo scandalo sessuale riguardante suoi operatori. E la segretaria allo Sviluppo internazionale, Penny Mordaunt, incontrerà gli investigatori della National Crime Agency, dopo che lei stessa ha invocato un cambiamento radicale nel modo di lavorare delle ong in modo che scandali come quella in corso siano evitati. "Mentre le indagini devono essere completate e potenziali incriminazioni valutate di conseguenza, ciò che è chiaro è che la cultura che ha consentito ciò succedesse deve cambiare. E deve cambiare ora", ha affermato, parlando a Stoccolma a un forum sulla protezione dell'Infanzia, citata dai media britannici. Mordaunt ha parlato di "accuse terrificanti". La pressione è altissima su Oxfam, dopo che è trapelato che operatori dell'ong pagarono delle prostitute e furono autori di violenze e abusi sessuali in vari Paesi, tra cui Ciad, Haiti e Sud Sudan, e nei charity shop del Regno Unito. E dopo che la ex garante delle norme interne dell'ong, Helen Evans, ha denunciato che i dirigenti dell'organizzazione avrebbero ignorato le sue segnalazioni e richieste di analizzare il problema, agendo in modo inadeguato. Lo scandalo ha già spinto alle dimissioni la vice direttrice generale di Oxfam, Penny Lawrence, mentre resiste il direttore generale Mark Goldring, accusato direttamente di aver ignorato le accuse dalla garante. L'attrice e cantante Minnie Driver, nominata agli Oscar, è stata la prima a sbattere la porta prendendo le distanze dall'ong. "Tutto quel che posso dire di queste orribili rivelazioni su Oxfam è che sono distrutta", "distrutta per le donne che sono state usate dalla gente mandata là per aiutarle, distrutta per la risposta di un'organizzazione che ho appoggiato da quando avevo nove anni", ha scritto su Twitter. Intanto, nei giorni scorsi l'Unione europea ha promesso "tolleranza zero" e minacciato di tagliare i fondi alle ong che non rispetteranno rigidamente le regole, e la stessa ipotesi è stata ventilata dal governo di Londra.

Oxfam, Medici senza frontiere e Onu travolti da scandali sessuali. L'accusa dei media inglesi e dell'authority che sta all'origine dello scandalo Oxfam è che i vertici abbiano coperto l'accaduto. Ma questa storia, che comincia ad Haiti, è solo la punta di un iceberg che coinvolge in tutto il mondo e in diversi modi ong come Medici senza frontiere e Irc. E la stessa Onu, scrive Lorenzo Bagnoli il 19 febbraio 2018 su "Osservatoriodiritti.it". Il 9 febbraio il Times di Londra ha pubblicato un’inchiesta che mette sotto accusa l’ong britannica Oxfam. I fatti risalgono al 2011, ad Haiti, dove l’organizzazione non governativa aveva una missione che la vedeva impegnata nella ricostruzione dell’isola dopo il terremoto. La fonte del Times è un documento, un’indagine confidenziale del 2011 – che parla di episodi di prostituzione, uso di materiale pornografico, intimidazione – che coinvolge in totale sette persone. Nel report non si esclude che le prostitute ingaggiate dagli operatori di Oxfam fossero minorenni. Il nome più ingombrante è l’allora capo missione, il belga Roland van Hauwermeiren. Il diretto interessato ha pubblicato in olandese una lettera aperta per difendersi dalle accuse. Nel 2011 il direttore era stato allontanato dall’organizzazione dopo l’ammissionedi essere andato a letto con giovani haitiani dopo aver loro dato degli aiuti umanitari, senza però che fosse segnalata alcuna violenza alla polizia haitiana, né aperta una vera inchiesta sul suo conto.

Le conseguenze dello scandalo Oxfam. Dieci giorni dopo, le conseguenze dello scandalo hanno prodotto l’allontanamento di migliaia di donatori da Oxfam (oltre 1.200 solo nelle prime 48 ore); le dimissioni di Penny Lawrence, vice direttore esecutivo, che ha detto di prendersi «piena responsabilità» per i mancati controlli su van Hauwermeiren; lo stop del governo inglese a milioni di euro di sostegno economico. La ministra Penny Mordaunt ha chiesto all’ong di dimostrare una «leadership morale», messa a repentaglio dalle accuse di aver tentato di insabbiare il caso con un’inchiesta interna – diramata ad agosto 2011 all’authority di controllo della cooperazione inglese – incapace di individuare e sanzionare a dovere i colpevoli.

Dal Ciad ad Haiti: clima di «impunità» nella ong. Il 16 febbraio Oxfam International ha lanciato una Commissione d’inchiesta «immediata» per fare chiarezza sui casi di abusi sessuali e ha promesso la massima trasparenza sul caso di Haiti del 2011. The Guardian e The Times, però, hanno già rivelato come il grande accusato, Roland van Hauwermeiren, già nel 2006, in Ciad, sia stato indicato come frequentatore di festini a luci rosse frequentate da prostitute. E riportano anche che l’ong per cui aveva lavorato in precedenza, Merlin (ora inglobata in Save the Children), lo aveva allontanato due anni prima per lo stesso motivo. Uno stralcio del primo report pubblicato dal Times parlava di «cultura dell’impunità» che regnava nella missioni di Haiti, nel 2011. E non solo. In Inghilterra, sostiene il Sunday Times, lo scorso anno 120 operatori delle più grandi ong sono stati accusati di molestie sessuali. I risultati delle verifiche a seguito di queste segnalazioni, però, non si conoscono.

Il caso Oxfam e l’attacco alle ong: credibilità a rischio. Il clima che si respira all’interno del mondo della cooperazione internazionale ricorda quello della campagna #MeToo, con la quale le attrici di Hollywood hanno denunciato attraverso i social media gli abusi subiti dal produttore Harvey Weinstein. C’è però un’enorme differenza. L’effetto valanga del caso Oxfam rischia di compromettere in modo definitivo la credibilità di una delle ong più importanti al mondo, il cui impegno nella lotta alla povertà e alla giustizia fiscale è stato fino ad oggi innegabile. Contenere la slavina, che colpisce un mondo delle ong già sfibrato dalla generale sfiducia verso i difensori dei diritti, è difficile anche per le altre organizzazioni. Anche perché i casi che affiorano dal passato, dopo anni di insabbiamenti, sono numerosi e sempre più ingombranti.

Medici senza frontiere si autodenuncia. «Abbiamo diffuso proattivamente i nostri principi e procedure per combattere ogni forma di abuso all’interno della nostra organizzazione, insieme ai dati sui casi riscontrati nel 2017», scrive Medici senza frontiere in un comunicato del 14 febbraio. «Abbiamo preso questa decisione per portare avanti il nostro spirito di trasparenza, in un momento in cui il tema è sotto i riflettori in tutti i settori e gli ambiti della società, purtroppo anche quello umanitario». Sulle 146 segnalazioni interne giunte all’ufficio centrale dell’ong francese, 40 sono diventate indagini in cui si sono stati individuati 24 casi di abusi sessuali. Le sanzioni sono state 19 licenziamenti. È la prima volta che la ong dà tanta evidenza alle proprie verifiche interne sui casi di violenza sessuale. Con un tardivo tentativo di rompere il silenzio sul tema.

Irc: frode, corruzione e molestie sessuali in Congo. L’International rescue comittee (Irc), organizzazione presieduta dall’ex ministro degli Esteri britannico David Miliband, è invece implicata in casi di abusi sessuali in Repubblica democratica del Congo (Rdc). I casi in totale sarebbero 37, rivela il tabloid inglese The Sun, di cui tre sarebbero già stati scovati. Anche l’authority di vigilanza delle ong inglesi ne è al corrente, da agosto 2016. Ancora una volta, pare che i vertici dell’organizzazione sapessero, senza però intervenire, se non con un licenziamento. Per i portavoce dell’organizzazione, però, anche la polizia congolese era stata messa al corrente dei fatti, a differenza di quella haitiana nel caso Oxfam. Nella Repubblica democratica del Congo, l’International rescue comittee (Irc), secondo ilSun, è sotto inchiesta anche per truffa e corruzione. Di conseguenza, i fondi del progetto per il Congo Girls Education Program sono stati congelati in attesa di chiarimenti sull’uso dei soldi.

Nazioni Unite e violenze: i casi Unhcr, Unicef e Oim. Il 18 gennaio The Guardian ha pubblicato un’inchiesta sulle indagini a carico di due funzionari di alto livello delle Nazioni Unite. E anche all’Onu ci sarebbero casi mai segnalati. Nonostante lo scoop, le conseguenze della rivelazione giornalistica sono stateminori dello scandalo Oxfam. Eppure non è la prima volta che si parla di abusi in casa Onu. Sia da parte di persone al Palazzo di Vetro, sia – soprattutto – di personale in missione. Sono stati 31 gli episodi in cui sono implicati caschi blu (12 casi, per lo più in Mali e Repubblica centrafricana) o personale Onu solo tra luglio e settembre 2017, non tutti accertati, secondo la portavoce Onu Stephane Dujarric. Quattordici di queste segnalazioni sono già diventate un’indagine. La maggioranza dei casi civili, 15, coinvolge l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), altre tre l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e uno anche l’Unicef, agenzia che si occupa di bambini. Accanto a questi casi, già sconvolgenti, ci sono i numeri del passato: nel solo 2016 ci sono state 80 segnalazioni di violenze sessuali in cui sono coinvolti peacekeepers e altre 65 con protagonisti operatori civili. Il Paese in cui questi episodi sono avvenuti più di frequente è la Repubblica Centrafricana, dove opera la missione Minusca.

Ong, in calo le donazioni in Italia. Gli «scandali» minano la fiducia. Da Iuventa a Oxfam: casi e fake news circolano sui social e chi fa del bene diventa il nemico. L’allarme delle organizzazioni non governativo: a rischio i nuovi progetti, scrive Marta Serafini il 4 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Variano le cifre e le stime. Ma il parere è unanime. «Le donazioni dei privati alle ong italiane sono in calo». Attacchi, inchieste giudiziarie e giornalistiche più o meno solide, fake news e hatespeech: sono tanti i fattori che in questi mesi hanno rischiato di sgretolare il principio su cui si basa l’azione umanitaria, la fiducia. «È iniziato tutto esattamente un anno fa quando qualcuno ci ha definiti i taxi del mare», spiega Annalaura Anselmi, a capo della raccolta fondi di Medici Senza Frontiere. È Luigi Di Maio, allora vicepresidente della Camera e oggi leader del M5S, a usare questa espressione. Ma la paternità non è del tutto sua. Da tempo infatti in rete circolano ipotesi complottistiche secondo cui le ong sono al servizio di un piano per «far invadere l’Europa ai migranti in modo da indebolirci». In quei mesi effettivamente gli sbarchi dalla Libia, secondo i dati diffusi dal ministero degli Interni, stanno aumentando. Ma a causarli sono guerre, conflitti e torture. Con l’avvicinarsi dell’estate l’atmosfera si fa più sempre più tesa, i toni anche. Il migrante diventa il capro espiatorio dei problemi del Paese, una narrativa che si autoalimenta nei dibattiti politici e grazie alle fake news diffuse in rete. «Invasione, orda, pericolo, emergenza», sono le parole più utilizzate da chi grida contro. Quando il ministro degli Interni Marco Minniti in luglio decide di imporre alle ong un codice di regolamentazione dei salvataggi in mare, il dibattito si fa rovente. La procura di Trapani ordina il sequestro della nave Iuventa della tedesca Jugend Rettet ma non procede ad alcun arresto. L’Italia si spacca in due: chi difende i soccorritori e chi invece li accusa di complicità con i trafficanti. Morale, le ong che operano soccorso in mare registrano cali immediati nelle donazioni, una diminuzione che sarà in media del 5 per cento. «Nel nostro caso possiamo parlare di un -7 rispetto alla raccolta fondi del 2017, cifra equivalente a circa 4 milioni di euro», riporta al Corriere Msf. Anche chi non fa soccorso in mare viene preso di mira. «Non abbiamo ancora le cifre definitive ma di certo non siamo stati risparmiati», conferma Simonetta Gola responsabile della Comunicazione e delle Campagne di raccolta fondi nazionali di Emergency. Sui social il fiume di odio per la cooperazione ormai è inarrestabile. Gli addetti alla comunicazione devono fare fronte a questo assalto e distogliere le energie da altri progetti. Ad avvelenare il dibattito, le accuse al governo di aver trattato con le milizie libiche per fermare gli sbarchi. L’Edelman Trust Barometer mette il nostro Paese al primo posto per aumento di sfiducia nei confronti delle ong con 13 punti di differenza rispetto al 2017. «Chi fa del bene diventa il nemico e viene meno il principio secondo cui chi dona ad una ong sta contribuendo a un futuro migliore», spiega Nino Santomartino del comitato dell’Associazione delle ong italiane. Il 2018 si apre con un ulteriore calo degli sbarchi iniziato in luglio. A salvare vite umane in mare sono rimaste solo l’Aquarius e la Open Arms. Ma non basta. A metà campagna elettorale l’odio monta fino all’omicidio di Macerata e la strage commessa contro migranti che nulla hanno a che fare con la morte di Pamela Mastropietro. A rischio per le ong, ora ci sono posti di lavoro e l’avvio di nuovi progetti. Soprattutto chi dipende più dalle donazioni e meno dai fondi pubblici è in difficoltà. In febbraio un nuovo fulmine piove dalla Gran Bretagna sul settore da un cielo non certo sereno. Un’inchiesta delTimes accusa la ong Oxfam di aver coperto abusi commessi da suoi ex dipendenti ad Haiti. In pochi giorni 1.200 donatori ritirano il loro appoggio. Il governo britannico sospende i finanziamenti pubblici e anche la sezione italiana registra dei contraccolpi. Medici Senza Frontiere in via preventiva ammette di aver proceduto contro 24 casi di abusi nel 2017. Anche questa volta le accuse della stampa sono pesantissime. C’è chi mette in discussione tutto il sistema. Ma gli addetti ai lavori cercano di reagire per proteggere la propria capacità operativa. Oxfam istituisce una commissione indipendente anti abusi e cerca di salvare il salvabile. «Abbiamo rafforzato una rete di cooperative di produttori e produttrici di piccola scala di caffè nel sud di Haiti, lavorando per incrementare la loro capacità di produzione, trasformazione e vendita di caffè (sia sul mercato interno che per esportazione) a favore di circa 2000 produttori», racconta Francesco Torrigiani responsabile America latina di Oxfam Italia. Il tentativo è di volgere in positivo una congiuntura negativa. Ma gli effetti di questa onda non sono ancora finiti. «Solo tra due anni saremo in grado di capire i cali registrati per il 2017 e il 2018 sul 5 per mille», è il commento unanime di tutti gli addetti ai lavori. Ma che si tratti di comunicazione, di selezione del personale o di progetti sul campo, la parola chiave per tutti è reagire. «Sin dal primo momento abbiamo voluto parlare direttamente con i nostri sostenitori, alcuni dei quali si sono trovati disorientati di fronte a notizie spesso riportate in maniera confusa e superficiale - quando non del tutto false - e abbiamo spiegato loro chiaramente, al telefono o attraverso il nostro sito e i nostri canali social, come stavano veramente le cose», spiega Valerio Neri, direttore Generale di Save the Children Italia. La maggior parte delle ong avvia un processo di revisione interna delle proprie regole. Per Paolo Ferrara, capo comunicazione di Terre des Hommes, il primo pensiero deve andare infatti a chi beneficia del lavoro delle ong: «Siamo consapevoli dell’importanza delle nostre missioni e non possiamo permetterci di abbandonare chi ha bisogno di noi».

Chi controlla le Ong? Ecco dove scoprire tutti i dati sui contributi. La cooperazione internazionale in Italia vale oltre 692 milioni, ma la crisi di credibilità dopo gli scandali estivi ha ridotto i donatori. Per recuperare consenso si segue il modello Usa: visibilità totale. Open Cooperazione fornisce dati su contributi e interventi, scrive Diana Cavalcoli il 22 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". La cooperazione internazionale in Italia? Vale oltre 692 milioni di euro. A dirlo è il portale Open Cooperazione che promuove la trasparenza delle Ong pubblicando online informazioni sugli enti non profit. Ci sono i bilanci, il numero di donatori, i progetti, gli stipendi dei dirigenti. I dati, unici nel nostro Paese, si riferiscono alle 85 principali organizzazioni non governative sul territorio nazionale e si rivelano preziosi nel fornire un quadro dell’economia del Terzo settore. Il sostegno alle Ong ha conosciuto un boom a partire dal 2014 quando è arrivato a toccare i 625 milioni di euro. Da allora la crescita del settore, nella sua interezza, è stata costante. Merito da una parte dei fondi pubblici e dall’altra dell’exploit del sostegno privato. Nel giro di un anno le prime 25 Ong hanno visto crescere le proprie entrate del 20 per cento e nel complesso l’incremento è stato del 10 per cento. I numeri sono quindi positivi ma, andando a guardare nel dettaglio le donazioni, emerge un fenomeno sommerso: stanno scomparendo i piccoli donatori in favore dei grandi filantropi. Non a caso per Gfk Eurisko dal 2006 il nostro Paese ha perso oltre 5 milioni e mezzo di generosi mentre per l’Unhcr la metà dei cosiddetti «major donors» ha aumentato le offerte dal 2015. Per fare un esempio ActionAid, prima Ong per numero di donatori, pur crescendo a livello di entrate ha perso circa 2 mila sostenitori privati tra 2014 e 2015. Chi lavora nelle Ong garantisce che il 2016 confermerà questo trend: lo scandalo della scorsa estate (con alcune organizzazioni accusate di favorire l’immigrazione clandestina) ha segnato l’opinione pubblica e in particolare i cittadini che donavano via 5 x mille. Anche perché quelle critiche si sono in qualche modo allargate al mondo del non profit: nel mirino dei detrattori l’efficacia degli interventi umanitari e le capacità di governance di molti fra gli operatori. Onlus e Ong si sono trovate così ad affrontare una crisi di credibilità senza precedenti e stanno lavorando tuttora per rafforzare quella che in gergo tecnico viene chiamata «accountability», il rendere conto del proprio operato davanti ai privati e alle istituzioni. La mancanza di trasparenza. Per ripristinare la fiducia c’è però uno scoglio da superare. Nonostante gli sforzi per la trasparenza il mondo del non profit è ancora un groviglio di dati disaggregati, una matassa di informazioni non confrontabili in assenza di standard condivisi. Per un donatore o un azienda è ostico districarsi in questo labirinto. Open Cooperazione ha risolto la questione applicando lo standard internazionale Iati agli oltre 100 iscritti al portale. Tra questi Unicef, ActionAid, Medici Senza Frontiere, Emergency, Fondazione Avsi e Cesvi. «La piattaforma è uno strumento necessario oggi più che mai — spiega Maria Laura Conte direttore della comunicazione per Fondazione Avsi — perché tiene insieme due aspetti fondamentali: da un parte garantisce trasparenza e dall’altra accessibilità». Va però detto che, se è vero che tutti gli enti pubblicano i bilanci, sono ancora pochi quelli che fornisco informazioni complete sui contratti e sullo stipendio dei vertici. Un’eccezione è Coopi Cooperazione Internazionale che da sola conta 3.162 dipendenti e segnala una retribuzione lorda massima di 63 mila euro annui e una minima di 18 mila. Il tema è fondamentale soprattutto considerando che il mercato del lavoro delle Ong è in espansione: gli addetti delle 85 organizzazioni sono passati da 12 mila nel 2014 a oltre 16 mila nel 2015 con un aumento del 10% del tempo indeterminato. Un contratto che (fatta eccezione per le sedi italiane) rimane però poco utilizzato: rappresenta appena l’8% dei contratti complessivi. Per promuovere la condivisione delle informazioni il portale pubblica anche delle Top Ten delle Ong suddivise per categoria. Considerando il bilancio 2015 ad esempio Unicef è prima con oltre 55 milioni di euro, Medici Senza Frontiere è seconda con 52 milioni ed Emergency è terza a 51. Mentre per numero di volontari «vince» la Comunità di Sant’Egidio con 60 mila persone coinvolte. «Il portale non è utile solo agli utenti. Nel nostro caso il dover fornire tutta una serie di dati, tra cui la posizione contrattuale dei lavoratori, ci ha permesso di conoscere in maniera approfondita l’organizzazione di cui facciamo parte. È un ottimo modo per fare autocritica e mettersi in gioco», aggiunge Conte. Il modello di Open Cooperazione, in breve, è quello americano degli open data: massima visibilità e intelligibilità dei contenuti. Un sistema che proprio perché consente di paragonare l’attività delle varie Ong potrebbe anche favorirne lo sviluppo. «Tra gli operatori manca la competizione intesa nel senso positivo del termine», spiega il presidente del Cesvi, Giangi Milesi, «c’è una certa reticenza al confronto che blocca la crescita delle nostre Ong. In questo modo rimaniamo molto piccoli se confrontati con le realtà francesi o americane. Non parlo esclusivamente di dimensioni ma piuttosto di qualità del management». Il ranking diventa così un paragone pensato per responsabilizzare le Ong. A quest’ultime il compito di non scadere nella mera competizione muscolare.

Viaggio nel mondo delle ong: chi sono, di chi (e perché) fidarsi? «Le economie della fiducia», prima puntata dell’inchiesta che ci accompagnerà fino alla festa di Buone Notizie, scrive Marta Serafini il 17 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Quasi 20 mila addetti ai lavori, 81 mila volontari attivi e oltre duemila progetti realizzati in oltre cento Paesi. É la radiografia delle Ong italiane, protagoniste di una seconda «estate calda» per le vicende legate ai soccorsi in mare ma anche perché promotrici di un processo di revisione interna legato al tema della trasparenza. Da un lato la narrativa della politica che sta influenzando in negativo il livello di fiducia dell’opinione pubblica nei confronti di chi fa del bene e che ha già causato un calo delle donazioni. Dall’altro le accuse di abuso sessuale ai dipendenti di Oxfam ad Haiti che hanno costretto il settore a una revisione dei suoi principi. Risultato, nel mondo della cooperazione si è aperto un dibattito per rivedere i processi di selezione del personale e della gestione dei fondi. Riunioni interne, confronti e dibattiti. «Sono necessarie nuove regole e nuovi strumenti per salvare un sistema economico che proprio sulla fiducia si basa», è la parola d’ordine. Ed ecco perché la trasparenza diventa il principio cardine del settore a tutti i livelli, da quello economico fino a quello della comunicazione. «Bisogna partire dai dati, dal fact checking (la verifica dei fatti) e dal debunking (il processo con cui si smontano le bufale)», spiega Silvia Stilli, portavoce Aoi, associazione organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale.

La trasparenza. Uno dei miti più diffusi è che le Ong abbiano finanziatori occulti e che siano al servizio di un piano per favorire i flussi migratori. Una leggenda? Per la loro stessa definizione, le organizzazioni non governative non dipendono da alcun governo o entità politica o partitica. Alcune Ong partecipano a bandi pubblici, altre per loro stessa scelta decidono di dipendere esclusivamente dai donatori privati. «In entrambi i casi le organizzazioni non governative che si occupano di cooperazione nei Paesi in via di sviluppo, in Italia devono ottenere il riconoscimento da parte del ministero degli Affari Esteri per poter beneficiare dei contributi della cooperazione italiana (al 2016 quelle registrate sono 217, ndr)», sottolinea Stilli. Il riferimento è alla legge 49, prima legge di regolamentazione della categoria del 1987, testo poi rivisto nel 2014 con l’obiettivo di mettere insieme tutti gli attori, dagli enti locali ai privati, ognuno nella sua specificità per garantire maggiore trasversalità su tutti i settori di azione. Per quanto riguarda lo status giuridico, bisogna distinguere tra organizzazioni con sede in Italia (e sono la maggior parte) da quelle che invece hanno sede all’estero ma operano anche in Italia (una strettissima minoranza). Esistono poi Ong che fanno parte di network internazionali (come Medici Senza Frontiere o Save the children) che hanno sedi operative anche nel nostro Paese e che dunque rispondono alle leggi italiani. Cinque (ActionAid, CBM, Save the Children, Terre des hommes e VIS,) sono iscritte al Cini, il coordinamento italiano del network internazionali. Per quanto riguarda la trasparenza dei bilanci, va sottolineato poi come la maggior parte delle Ong (il 73 per cento) renda pubblica la lista dei donatori privati, ma non esiste una legge che le obblighi a rendicontare.

Non solo soccorso in mare. Altro mito da sfatare è che le Ong in Italia si occupino solo di soccorso in mare e di assistenza ai migranti. Se si scorre la classifica dei settori di intervento compilata da Open Cooperazione, si scopre come il primo posto sia occupato dall’educazione, seguita dalla formazione e dalle attività sanitaria mentre l’assistenza ai migranti è solo al decimo posto. «Molte di queste attività sono destinate anche alla contrasto della povertà agli italiani. Un esempio su tutti? Gli ambulatori ambulanti aperti da Emergency che offre assistenza medica ai senza tetto e alle persone in difficoltà», replica Stilli. E ancora. Spesso in queste ore abbiamo sentito dire che le Ong attive nel soccorso in mare sono tutte straniere. «Sbagliato anche questo. Alcune organizzazioni italiane collaborano con le agenzie internazionali o con altre Ong per i soccorsi in mare», sottolinea ancora Stilli. E si va da Intersos presente con Unicef sulle navi della Guardia costiera italiana fino alla collaborazione di Emergency con il Moas, avviata nel 2016, poi terminata o quella di Cospe con Sea Watch. «Non c’è alcuna distinzione tra chi fa soccorso in mare e chi opera a terra. Siamo tutti parte di una stessa famiglia di operatori che hanno a cuore l’interesse di chi ha più bisogno», conclude Stilli. Chiude il debunking, il capitolo inchieste giudiziarie iniziate l’anno scorso. E qui sono gli atti a parlare. A partire dalla primavera del 2017 la procura di Catania ha messo nel mirino le navi delle Ong e gli equipaggi accusandoli di complicità in traffico di esseri umani. Fin qui però non è stato effettuato nessun arresto, mentre delle due navi sequestrate — la Iuventa della Ong tedesca Jugend Rettet e la Open Arms della Ong spagnola Proactiva Open Arms — solo la prima rimane ferma mentre per la seconda è stato ordinato il dissequestro. Così, mentre le parole continuano a volare, gli addetti ai lavori lottano per difendere il loro settore. Un settore che — è doveroso ricordarlo — dal 2014 ha incrementato del 31 per cento i posti di lavoro creati. Al servizio degli altri.

Tra i giganti delle Ong, ecco chi comanda. Come funziona la governance delle dieci organizzazioni umanitarie più ricche sulla base dei bilanci. La seconda puntata dell’inchiesta «Le economie della fiducia», scrive Mario Gerevini il 24 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Save the Children che cambia lo statuto; Medici Senza Frontiere e gli immobili da gestire; il verbale con omissis del siluramento di Cecilia Strada in Emergency; l’«Albergo La Rosetta» dell’Unicef. Viaggio nella governance delle prime dieci Ong italiane. Ognuna ha la sua storia e la sua missione. Ma tutte hanno una struttura complessa e una macchina articolata da far girare. Chi comanda? Chi nomina i vertici? Quali sono le cifre delle entrate nei primi bilanci 2017 pubblicati?

I tre big. Save The Children Italia (Stc) è di gran lunga la numero uno con 111,7 milioni di entrate (+10,5%) secondo il bilancio 2017 fresco di approvazione. L’organo sovrano è l’assemblea dei soci e i soci sono sette membri del movimento globale: le due entità giuridiche «supreme», la svizzera Stc Association e la britannica Stc International, cui si aggiungono altri cinque membri in rappresentanza del Nord e del Sud del mondo. In totale sono 29 le organizzazioni nazionali, sotto il coordinamento operativo dell’inglese, da cui il movimento nel 1919 ha preso il via. Da noi l’assemblea dei sette soci approva strategie, bilancio e nomina collegio sindacale e consiglio direttivo (nessun compenso in entrambi gli organi). I due uomini chiave sono Claudio Tesauro, avvocato partner dello studio Bonelli-Erede, presidente dal 2008 e Valerio Neri, direttore generale dal 2006. Tesauro lo scorso anno ha presieduto un’assemblea, un po’ movimentata e non pubblicizzata, per modificare lo statuto allo scopo di derogare al limite dei tre mandati (2 anni ognuno) dei membri del Consiglio direttivo. Una rigidità che in effetti impediva la proroga dei consiglieri più attivi e utili. L’ok è arrivato all’unanimità dopo le perplessità espresse (e poi rientrate) da Thomas Chandy di Stc India e del norvegese Tove Wang. La governance ha funzionato, nella dialettica internazionale. Unicef Italia (60,7 milioni raccolti nel 2016) ha invece un dna molto particolare. Per un verso è una classica Ong ma per l’altro è anche parte integrante della struttura globale dell’Unicef-Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia che è un organo sussidiario dell’Onu.

L’albergo in rosso. Una curiosità dal bilancio: tra le donazioni ricevute c’è una quota del 25 per cento dell’«Albergo Ristorante La Rosetta» di Perugia che una novantenne ha lasciato per testamento. Quel 25 per cento va realizzato anche perché l’albergo ha i bilanci in perdita. Dai rendiconti pubblici di Medici Senza Frontiere si nota la quantità di appartamenti, terreni e box, spesso del valore di poche decine di migliaia di euro, che sono stati ricevuti per lasciti testamentari. È una risorsa, ma complessa da gestire e da realizzare al meglio. Intanto i proventi 2017 sono in crescita del 2 per cento a 58 milioni. La struttura internazionale è assai complessa e fa sostanzialmente riferimento alla base di Ginevra. Cinque centri operativi coordinano le operazioni sul terreno e la sezione italiana di Msf (oltre 400 soci tra operatori umanitari, staff e volontari) fa capo al centro operativo di Bruxelles. L’osmosi tra una Ong e l’altra a livello di alta dirigenza non è rara. Intersos, associazione italiana nata nel 1992, governata da un consiglio direttivo di dieci membri e specializzata nel campo degli aiuti di emergenza, ha Kostantinos Moschochoritis come segretario generale, un ingegnere ex direttore generale (2007-2013) di Medici Senza Frontiere. Intanto il 2017 di Intersos ha visto un balzo in avanti dei proventi passati a 63,7 milioni contro i 49 del 2016.

Il balzo nei conti. Emergency (48,7 milioni) ha un folto consiglio direttivo, nominato dai 121 soci, che delega la gestione più operativa a un comitato esecutivo di sei membri. Ma la figura-guida è indiscutibilmente quella del fondatore, Gino Strada. La governance è stata scossa un anno fa dal siluramento di Cecilia Strada, presidente dal 2009 e figlia di Gino. Il motivo sarebbe stato un’opposta visione tra la presidente e parte del consiglio direttivo sulla gestione della Ong e in particolare sulle fonti di finanziamento (48,6 milioni entrati nel 2016). «Nessun dissidio e nessun siluramento - smorzava i toni il fondatore parlando con la stampa - noi curiamo le vittime di guerra, 8 milioni dagli inizi, questa è la nostra mission». «Normale dinamica di confronto interno», scrivevano in un comunicato congiunto Gino Strada e la nuova presidente Rossella Miccio. Però c’è un verbale, mai uscito, di quella caldissima riunione iniziata alle 10,30 dell’8 luglio 2017, durata tutto il giorno e aggiornata al mattino successivo. Per quanto largamente omissato, riporta due elementi fondamentali. Il primo è l’argomento numero uno all’ordine del giorno: «Esame e discussione sulla governance dell’associazione ed eventuali delibere conseguenti, in vista delle future strategie di sviluppo». Il secondo è una frase che sbuca dagli omissis: «Si passa quindi alla votazione per la revoca a Cecilia Strada della carica e dei poteri di Presidente del Consiglio direttivo». Revoca significa che non si è presentata dimissionaria ma che si è andati «alla conta» e la maggioranza l’ha sfiduciata togliendole le deleghe e la carica. Si può dire che la governance ha funzionato ma perché non rendere subito noti e chiari i motivi della rottura?

Schema assemblea-soci-Cda. ActionAid è un’organizzazione internazionale, nata in Gran Bretagna, come Save The Children e l’Italia ha una sua struttura federata. Così come per il Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) si ripete in sostanza lo schema assemblea dei soci-consiglio direttivo che nomina i vertici operativi. ActionAid aveva incassato 48 milioni nel 2016 mentre del Cisp ci sono i risultati 2017 con il balzo a 45,5 milioni (da 35,4 precedenti). Tecnico il vertice della Fondazione Avsi (46,3 milioni nel 2016). La numero uno, Patrizia Savi, è direttore finanziario del gruppo Sea-Aeroporti di Milano (Linate e Malpensa). Un profilo manageriale marcato in una struttura che ha 47 fondatori (Ong, fondazioni e 12 persone fisiche) sparsi per il mondo e un consiglio di amministrazione italiano composto da dirigenti d’azienda, ex senatori, ex magistrati e rettori d’università. Coopi Cooperazione Internazionale (30milioni nel 2016) è una Fondazione di partecipazione e oggi conta 70 soci fondatori; il direttore è Ennio Miccoli e il presidente è Claudio Ceravolo, un medico specialista in medicina tropicale. Un prete, invece, don Dante Carraro, guida Medici con l’Africa Cuamm (23,5 milioni nel 2016) la cui struttura è giuridicamente integrata all’interno della Fondazione Opera San Francesco Saverio, presieduta dal vescovo di Padova.

I MIGRANTI, I SALVATAGGI IN MARE E LE MENZOGNE DEI TALEBANI DEL BUSINESS DELL'ACCOGLIENZA.

Ong, migranti, trafficanti, Guardia Costiera libica e elicotteri della missione interforze Sophia: tutti insieme appassionatamente. Una sequenza svela come sono avvenute realmente le operazioni di salvataggio dei migranti a largo delle coste libiche. In un sms un volontario delle ONG rivela a Report: «Avevamo l’ordine di non riprendere i barchini con gli scafisti, altrimenti ci avrebbero lasciato a casa». Le immagini confermano quanto scritto nel rapporto riservato di Frontex, con una comparsa in più: l’elicottero della missione Sophia, che vede tutto e invece di intervenire vola via. L’integrale nella puntata di Report in onda alle 21.10 su Rai 3, scrive Francesca Ronchin il 20 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Sono le 6.30 del 18 maggio 2017 la nave Aquarius di SOS Mediterranee, a circa 15 miglia dalle coste della Libia, è impegnata nelle attività di soccorso di 562 migranti. Quel giorno in mare ci sono anche altre 5 ONG.Non c’è la guardia costiera italiana, non c’è Frontex, c’è un elicottero dell’operazione Sophia di Enuav for Med, che sorvola il mare per qualche minuto e poi inspiegabilmente va via. Dalle soggettive delle immagini girate dal team della Aquarius si vedono solo i volti dei migranti tratti in salvo. Ma se si allarga l’obiettivo si vede una realtà molto più complessa di quella che è stata raccontata fino ad ora, molto di più rispetto ai filmati da consegnare alle forze dell’ordine una volta a terra. Se si allarga l’obiettivo, si vedono delle motovedette libiche, non si sa se quelle ufficiali o appartenenti alle milizie, che bruciano le barche in legno ma prima rubano i motori, si vedono dei barchini con a bordo uomini coperti da grossi cappelli di paglia che le ong chiamano “pescatori” ma che più che ai pesci, sono interessati a motori e giubbotti salvagente. Gli stessi barchini che scortano i migranti fino alle navi delle ONG. Nessun operatore della ong li ha mai fotografati perché a bordo c’era il divieto assoluto di scattare foto “altrimenti ti avrebbero lasciato a casa”, spiega un volontario. Motivi di sicurezza? Il volontario ci spiega che era una questione soprattutto di rispetto. La convivenza in mare con trafficanti e motovedette che non appartengono alla guardia costiera del governo di Tripoli non è facile. Ma le stesse ONG che hanno sempre dichiarato di voler collaborare con le forze dell’ordine, sono le stesse che fino al 10 agosto si sono battute per non avere ufficiali di polizia giudiziaria a bordo. Il filmato verrà trasmesso nella puntata di Report in onda alle 21.10 su Rai 3.

Ecco i saluti tra Ong e trafficanti. Svelata la maschera dei buonisti. Il servizio di Report mostra i cenni di saluto tra i soccorritori delle Ong e i "facilitatori" degli scafisti. La Lega: "Conferma le nostre denunce", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 20/11/2017, su "Il Giornale". Anche Report documenta i saluti tra Ong e trafficanti di uomini. Dopo il terremoto che ha investito le organizzazioni non governative questa estate, quando la procura di Trapani ha messo sotto inchiesta Jugend Rettet e sequestrato la nave Iuventa, ora anche la trasmissione di Rai3 certifica i rapporti "amichevoli" in mezzo al mare tra scafisti e soccorritori. L'inviato di Report era sulla nave Sos Mediterraneé, l'Ong francese che gestisce la nave Acquarius insieme a Medici Senza Frontiere. Durante un soccorso del 18 maggio 2017, le telecamere Rai riprendono nello stesso spicchio di mare due barconi carichi di migranti, due un gommone di salvataggio, una motovedetta libica, la nave Prudence di MsF, la Phoenix di Moas, la Iuventa, la Golfo Azzurro di Proactiva Open Arms, Sea Eye e pure un barchino non identificato. A bordo sostengono si tratti di "pescatori", ma diverse inchieste giornalistiche hanno dimostrato che - in realtà - sono "facilitatori" o trafficanti (a bordo infatti non hanno reti da pesca). Sopra di loro vola un elicottero dell’operazione Sophia di Enuav for Med. Chi sono quei quattro uomini sulla motovedetta libica? Secondo il comando della Guardia Costiera di Tripoli, sentito da Report, non sarebbero loro uomini. Non è escluso, dunque, che in realtà si tratti di miliziani libici. Ovvero trafficanti. Bisogna ricordare che l'accordo tra Al Serraj e il ministro Minniti che ha permesso al governo libico di prendere il controllo delle coste è successivo alle immagini raccolte dalla trasmissione di Rai3. La motovedetta si avvicina ad uno dei barconi usati per il trasporto di carne umana e lo incendia, non prima però di aver tratto in salvo il motore. A quanto pare a quei libici interessa e non poco recuperare le imbarcazioni: per questo dietro la nave di Medici Senza Frontiere viene consegnato un barcone alla motovedetta libica, nonostante il codice dei soccorsi preveda sia l'Ong a distruggerlo per impedire che torni nelle mani dei trafficanti. Le telecamere di Report riprendono anche una barca di facilitatori che "indica" la barca di Sos Mediterraneé ai migranti, "come a dire: adesso vi vengono a prendere loro". Un'ulteriore prova di come i trafficanti utilizzassero la presenza delle Ong per aumentare le partenze, incrementare i guadagni e moltiplicare gli sbarchi in Italia. E infatti subito dopo arrivano i soccorsi per recuperare i migranti. Quando i soccorritori delle Ong si allontanano, i facilitatori si avvicinano come a controllare qualcosa. Ed ecco il saluto: ad un certo punto, però, operatori umanitari e scafisti si salutano. Come se fossero amici. Appena diffusa l'anticipazione di Report, scatta il duro attacco della Lega Nord. A parlare è Paolo Grimoldi, Segretario della Lega Lombarda e deputato: "Il filmato - dice - conferma quello che denunciavamo da mesi, ovvero che le navi delle ONG che stazionavano nelle acque libiche per trasportare decine di migliaia di clandestini al mese nei porti italiani erano in contatto con i trafficanti di esseri umani e sono responsabili di quanto accaduto nell'ultimo anno nel Mediterraneo, dell'invasione subita dall'Italia e degli oltre 2000 immigrati annegati in quel tratto di mare".

Il diktat delle Ong ai volontari: "Non fate i video ai trafficanti". Un volontario delle Ong spiega perché nei video delle associazioni umanitarie non compaiano mai gli scafisti (semore presenti in mare), scrive Claudio Cartaldo, Martedì 21/11/2017, su "Il Giornale". Non solo i saluti tra soccorritori delle Ong e scafisti. Nel video realizzato da Report che andrà in onda stasera su Rai3, si vede anche dell'altro. Se infatti dei saluti si era parlato già in altre occasioni, visto che sia l'agente dello Sco infiltrato a bordo della nave di Save the Children che dagli operatori del servizio di sicurezza della Vos Hestia avevano denunciato la stessa, strana, familiarità, Report spiega perché i barchini dei "facilitatori" e dei trafficanti non appaiano mai nei video delle Ong. Molto semplice. A spiegarlo all'inviata della Rai è un membro della Ong, che in un sms spiega l'esistenza di un divieto di riprendere quei barchini impartito dai vertici delle Ong "altrimenti si resta a casa". Ma a incastrare le Ong e a dimostrare una certa disonvoltura nei rapporti con i trafficanti è anche la questione giubbotti di salvataggio. Alcuni migranti, quelli più ricchi, partono dalle coste della Libia con indosso il salvagente. Costano 200 euro l'uno e a venderli sono gli stessi trafficanti. Quando però arrivano i soccorsi umanitari, le Ong consegnano i propri giubbotti e lasciano volontariamente (come si vede dalle immagini) quelli vecchi sul gommone. Così subito dopo arrivano i trafficanti e li recuperano. Che ci sia un accordo non scritto tra Ong e criminali libici? Duro l'attacco della Lega Nord. "Ora si spiega perché le ONG non accettavano di avere a bordo poliziotti italiani - dice Paolo Grimoldi, Segretario della Lega Lombarda e deputato del Carroccio -: per evitare che vedessero gli scafisti… Tutto questo conferma che l’attività di queste navi ONG è stata illegale ed è servita solo ad aumentare gli arrivi di immigrati in Italia, immigrati il cui mantenimento costa 1050 euro mensili per ognuno di loro e miliardi per le casse statali. Soldi che, a questo punto, andrebbero chiesti alle ONG che per mesi hanno operato liberamente nelle acque libiche". Poi l'affondo: "Cosa dicono ora la Boldrini che auspicava maggiore libertà delle navi ONG nel Mediterraneo e tutti quelli a sinistra hanno fatto il tifo per queste ONG?"

Tra gas e fenomeno migratorio: gli interessi dell’Italia a Mellitah, scrive il 21 novembre 2017 Mauro Indelicato su Gli occhi della Guerra su “Il Giornale". Nel vedere la pagina Facebook della società, sembra quasi si tratti di un’azienda come tante altre: come prima foto compare, ad esempio, quella della festa di pensionamento di un dipendente con tanto di tavola apparecchiata, bibite e selfie tra colleghi; pur tuttavia, si sta parlando in questo caso della Mellitah Oil & Gas, la società che gestisce il grande terminal petrolifero ed energetico sito per l’appunto nella cittadina costiera libica di Mellitah e vitale tanto per il paese nordafricano quanto per l’Italia. Da lì parte il Greenstream, il grande condotto che porta a Gela il gas naturale che proviene da Bahr Essalam e Wafa e che costituisce il canale di rifornimento più importante per il nostro paese, subito dopo le condutture provenienti dalla Russia. Il terminal è nodo focale attorno cui ruotano gli interessi strategici, in ambito energetico e non solo, del nostro paese nell’ex colonia; la stessa ENI detiene, con la libica NOC (National Oil Company), il 50% dello stabilimento e della società sopra menzionata.

Il problema della sicurezza. Rovesciato il governo di Gheddafi, il terminal di Mellitah è subito diventato punto vulnerabile della presenza italiana in Libia; esposto a danneggiamenti ed assalti da parte delle milizie armate che hanno preso il sopravvento nella zona, la sua funzionalità è stata gravemente compromessa: se prima del 2011 da questo stabilimento veniva condotto in Italia il 20% del gas necessario al soddisfacimento del nostro fabbisogno, già durante il conflitto la percentuale è scesa al 10% ed è per questo che, negli ultimi sei anni, è stato necessario ricorrere a delle formazioni locali per permettere nuovamente un’importante produttività all’interno della grande struttura posta sulle coste della Tripolitania. A far emergere in maniera preponderante il problema della sicurezza di Mellitah, è stato nel luglio del 2015 il rapimento di quattro italiani avvenuto nei pressi del terminal; dopo quell’episodio, è stata intrapresa la decisione di costituire la cosiddetta ‘Brigata 48’, formata sulla carta da miliziani locali e da veterani dell’esercito di Gheddafi la quale, come sua missione, ha da subito avuto quella di proteggere il vitale impianto di Mellitah.   Pur tuttavia, come evidenziato da diversi analisti locali nella scorsa estate quando, nella vicina Sabrata, è scoppiata una lotta interna alle varie fazioni che si contendevano la città, la Brigata 48 è stata di fatto in gran parte formata da membri del clan Dabbashi; una famiglia, quest’ultima, che con la caduta di Gheddafi ha aumentato il suo potere nella zona fino a controllare gran parte dei traffici illeciti di Sabrata e dintorni, riguardanti soprattutto il traffico di esseri umani. La formazione della Brigata 48 è stata un’occasione per i Dabbashi di aumentare la propria morsa sul territorio; il controllo del terminal di Mellitah, ha fatto acquisire loro maggior prestigio agli occhi degli altri clan e maggiore potere politico e contrattuale. È proprio ai Dabbashi che il governo di Tripoli, secondo le famose inchieste pubblicate ad agosto dalla Reuters e dall’Associated Press, avrebbe stornato i fondi che l’Italia ha girato alla Libia per contrastare le partenze dei barconi verso il nostro paese; la sconfitta maturata dal clan di Sabrata ad inizio ottobre, ha permesso la conquista della città alla cosiddetta ‘Cabina di regia anti ISIS’, creata contro gli islamisiti nel 2016 ed adesso posizionata al fianco di Haftar contro il governo centrale guidato da Al Serray.  

Chi controlla Mellitah? Cacciati i Dabbashi da Sabrata e ridimensionata, per non dire anch’essa del tutto sconfitta, la Brigata 48, in Libia ma anche in Italia ci si chiede chi di fatto sorveglia la vitale e fondamentale produzione della Mellitah Oil & Gas; una domanda che, oltre a non trovare facili risposte, reca con sé non poche inquietudini e perplessità: il rischio è che il terminal da cui parte il Greenstream sia nuovamente posizionato in un vera e propria ‘terra di nessuno’, esposto in un territorio dove non vi è una forza in grado di riportare ordine e controllo ai danni delle tante milizie armate, pronte a guadagnare con le armi piccole ma importanti fette di questa parte della Tripolitania. Il gruppo che ha sconfitto i Dabbashi a Sabrata, avrebbe subito rivolto le proprie attenzioni anche verso Mellitah, come rivelato ad ottobre dal The Lybia Observer, pur tuttavia la cittadina vicina il terminal non sembra essere stata conquistata interamente dalla Cabina di regia Anti ISIS; attualmente, non è chiaro chi controlla e chi sorveglia gli ingressi al grande hub energetico.

Gli interessi italiani in ballo tra Sabrata e Mellitah. A dire il vero, oltre che il problema della sicurezza, sul futuro del terminal di Mellitah aleggiano ombre riguardanti anche tematiche di tipo meramente economico: se da un lato infatti, come annunciato alla Reuters dai responsabili della Mellitah Oil & Gas, nel 2018 partirà la produzione da altri undici pozzi estrattivi presso l’impianto off shore di Bahr al-Salam, dall’altro in questi giorni si osservano numerose proteste da parte dei dipendenti e degli operai per il mancato pagamento delle ultime mensilità e per l’assenza di un’assicurazione sanitaria. Un clima dunque non certo rassicurante per l’Italia, costretta ad osservare non senza preoccupazioni problemi di sicurezza e di gestione economica del vitale hub di Mellitah da cui, è bene ricordarlo, deriva una quota non secondaria del nostro fabbisogno di gas naturale. Tra Sabrata ed il terminal del Greenstream, nel giro di pochi chilometri di costa tripolina si concentrano al momento due interessi di vitale importanza per le dinamiche future dell’Italia: non solo la produzione e l’arrivo, tramite il gasdotto posto sotto le acque del Mediterraneo, di migliaia di metri cubi di gas, ma anche il problema inerente l’immigrazione e la partenza di centinaia di barconi verso le nostre coste. E’ proprio da Sabrata che, alla volta della Sicilia, salpano i natanti con a bordo i migranti provenienti in gran parte dall’Africa sub Sahariana; il leggero calo estivo delle partenze è stato dovuto ai soldi girati a Tripoli che, a sua volta, li ha stornati al clan di Sabrata poi sconfitto dalle forze vicine ad Haftar. In poche parole, la mancanza di controllo del territorio in questo tratto di costa sta creando non pochi grattacapi al governo di Roma: pochi chilometri separano i porti e le insenature usate dai trafficanti di esseri umani dagli ingressi del terminal di Mellitah, è qui che si gioca la credibilità e la sostenibilità della tutela degli interessi nazionali da parte dell’Italia.

Libici contro Ong: la battaglia navale mentre 50 migranti muoiono in mare. Militari e volontari si fronteggiano, i naufraghi si tuffano per non tornare indietro. Poi la strage, scrive Alessandro Ziniti il 10 novembre 2017 su "La Repubblica". "THIS IS ITALIAN Navy helicopter, channel 16, we want you to stop now, now, now". L'elicottero della Marina italiana volava basso in tondo e provava a fermare la motovedetta libica mentre John moriva, trascinato via a folle velocità, sospeso in aria sul mare, una mano disperatamente attaccata alla cima e l'altra protesa verso la moglie, ormai in salvo sul gommone della Sea Watch. "Lui era lì, sul ponte della barca e gridava verso di me. I libici lo picchiavano con delle corde, lo prendevano a calci, poi l'ho visto scavalcare e buttarsi in acqua. È andato giù, l'ho visto riemergere, era riuscito a riaggrapparsi alla fune sul fianco della motovedetta. Gridava: "Aspettatemi, aspettatami, aiuto, non lasciatemi qui...". Ma a un certo punto i libici hanno riacceso il motore e la barca ha fatto un balzo in avanti trascinando via lui e tutti gli altri che stavano ancora in acqua. E non l'ho più visto. John non sapeva nuotare, era salvo ma è morto perché voleva raggiungere me che ero già in Italia". Darfish piange senza sosta, in ospedale a Modica, mentre riavvolge il tragico film che lunedì mattina ha cambiato per sempre la sua vita. Lei, sul gommone della nave umanitaria tedesca, dunque "già in Italia ", suo marito, a bordo della motovedetta della Guardia costiera, dunque destinato a tornare in Libia. Viaggio di andata e ritorno all'inferno. Di nuovo in prigione, di nuovo torture, violenza, un nuovo riscatto da pagare per riprovarci ancora. Una prospettiva agghiacciante anche per chi, come questa giovane coppia camerunense, è sopravvissuto alla traversata nel deserto, alla prigionia nella connection house e persino al naufragio di quel gommone davanti al quale il destino ha aperto loro le "sliding doors" del Mediterraneo. Un drammatico soccorso conteso tra i libici e le Ong che, per la prima volta da quando sono entrati in vigore gli accordi tra il governo italiano e quello di Al Serraj, ha aperto gli occhi dell'Europa sulla roulette russa a cui è affidato il destino delle migliaia di persone che ancora tentano la traversata nel Mediterraneo. Un incidente che avrebbe fatto una cinquantina di dispersi e sul quale adesso indaga la Procura di Ragusa. Nei prossimi giorni i pm vaglieranno le testimonianze dei 59 superstiti portati a Pozzallo dalla Sea Watch insieme al corpicino del bimbo di due anni, annegato sotto gli occhi della madre, e a quelli delle altre quattro vittime recuperate e trasferite a bordo di un'altra nave umanitaria, la Aquarius di Sos Mediterranèe. Dovranno stabilire se su queste morti vi siano delle responsabilità di qualcuno degli attori intervenuti nelle operazioni di soccorso che, coordinate dalla sala operativa della Guardia costiera di Roma, hanno dovuto fare i conti con il contemporaneo arrivo sul luogo del naufragio della motovedetta libica e della nave umanitaria. L'Italia da una parte e la Libia dall'altra, il gommone semiaffondato in mezzo, tanti corpi galleggianti in acqua ma soprattutto decine di persone, che ormai in salvo sull'imbarcazione libica, si sono buttate in mare nel vano tentativo di raggiungere quei due gommoni che avrebbero aperto loro le porte dell'Europa. Terribili disperati minuti di caos spezzati dalla fuga in avanti della motovedetta libica che, dopo aver tentato di trattenere a bordo con minacce e violenze i migranti, ha riacceso i motori ripartendo a tutto gas verso Tripoli con 42 superstiti a bordo che imploranti tendevano le mani urlando verso mogli, figli, fratelli, sorelle da cui probabilmente sono stati divisi per sempre. La scena, da girone dantesco, è rimasta impressa non solo nei racconti di chi ce l'ha fatta, ma anche nella scatola nera della Sea Watch che ora l'equipaggio della ong tedesca mette a disposizione degli inquirenti per andare a fondo nelle indagini. Il disperato grido partito dall'elicottero della Marina italiana presente sulla scena è tutto registrato nelle conversazioni sul canale 16 riservato ai soccorsi: "Guardiacostiera libica, questo è un elicottero della Marina italiana, le persone stanno saltando in mare. Fermate i motori e collaborate con la Sea Watch. Per favore, collaborate con la Sea Watch", l'invito inascoltato. Nel racconto di Gennaro Giudetti, attivista italiano imbarcato sulla Sea Watch, tutto l'orrore di quei momenti: "Quando siamo arrivati sul posto c'erano già diversi cadaveri che galleggiavano e decine di persone in acqua che gridavano aiuto. Abbiamo dovuto lasciare stare i corpi per cercare di salvare più gente possibile. I libici ci ostacolavano in tutti i modi, per quanto incredibile possa sembrare, ci tiravano anche patate addosso. Loro non facevano assolutamente nulla, abbiamo dovuto allontanarci un po' per non alzare troppo il livello di tensione e in quel momento abbiamo visto che sulla nave libica i militari picchiavano i migranti con delle grosse corde e delle mazze. In tanti si sono buttati a mare per raggiungerci e sono stati spazzati via dalla partenza improvvisa della motovedetta. È stata una cosa straziante. E la colpa è di tutti noi, degli italiani, degli europei che supportiamo questo sistema. Quelle navi libiche le paghiamo noi. Quando ho raccolto dall'acqua il corpo di quel bambino, ho toccato davvero il fondo dell'umanità".

Le accuse di Sea Watch alla guardia costiera libica. Facebook Venerdì 10/11/2017, pubblicato da "Il Giornale". Nel video di propaganda pubblicato su Facebook, l'ong tedesca Sea Watch accusa la Guardia costiera libica di lasciar annegare i migranti: "Si allontanano anche se c'è ancora una persona appesa", sostengono in questo filmato, "È un comportamento violento e sconsiderato". Ma la realtà è che è stata la stessa ong a fare da esca. Finisce con i libici che salvano e riportano indietro 106 migranti e 5 cadaveri e Sea Watch che attracca a Pozzallo con 59 clandestini e il corpo di un bimbo.

Libia, i migranti affogano: video incastra Ong tedesca. Nel video di Sea Watch un'operazione di salvataggio. Facebook Venerdì 10/11/2017 pubblicato da "Il Giornale". In questo video pubblicato dalla pagina Facebook di Sea Watch, l'ong mostra una delle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo: "Siamo in attesa di istruzioni da parte del Comango centrale del corpo delle Capitanerie di Roma", dicono nel post. Dopo il recupero Sea Watch ha portato a Pozzallo 59 migranti e il corpo senza vita di un bimbo, utilizzato per fare propaganda dagli "umanitari" che vogliono abbattere "la fortezza Europa".

La guardia costiera libica contro Sea Watch: "Rallenta le operazioni di recupero". Facebook Venerdì 10/11/2017, pubblicato da "Il Giornale". La guardia costiera libica smaschera Sea Watch: l'ong tedesca ha rallentato le operazioni di salvataggio per consentire ai migranti di salire sulla propria imbarcazione e sfuggire così al rimpatrio.

La guardia costiera libica smaschera Sea Watch: l'ong tedesca ha rallentato le operazioni di salvataggio per consentire ai migranti di salire sulla propria imbarcazione e sfuggire così al rimpatrio. I filmati parziali e le foto dei talebani dell'accoglienza, al contrario, puntano a dimostrare che è tutta colpa della Guardia costiera di Tripoli. I filmati parziali e le foto dei talebani dell'accoglienza puntano a incolpare la Marina libica. Ma la verità è un'altra, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 10/11/2017, su "Il Giornale". Una motovedetta della Guardia costiera libica arriva per prima in mezzo al mare per soccorrere un gommone zeppo di migranti, che non sarebbe rimasto a galla a lungo. Poco dopo piomba sulla scena Sea watch 3 (guarda il video), una delle navi della Ong tedesca talebana dell'accoglienza. Piuttosto che collaborare con il comandante libico, che cerca di convincere gli umanitari, fa da calamita, se non da esca per i migranti che si gettano in mare. Almeno cinquanta annegano compreso un neonato, secondo le testimonianze dei superstiti a Pozzallo. L'Ong punta subito il dito contro i libici (guarda il video), accusandoli di aver provocato la tragedia, ma i filmati girati dalla Guardia costiera di Tripoli dimostrano il contrario. Lunedì scorso il centro di coordinamento con la Marina italiana nella base di Abu Sitta a Tripoli allerta i libici che c'è un gommone in difficoltà a 30 miglia dalla costa. In venti minuti la motovedetta più vicina, Ras Jadir, arriva sul posto, dove la situazione è delicata. Il gommone di fabbricazione cinese è stracarico con oltre 100 migranti e potrebbe affondare. Pure la centrale operativa della Guardia costiera a Roma ha lanciato l'allarme e Sea watch piomba sul posto, ma dopo i libici, che essendo arrivati per primi hanno il comando delle operazioni. Un filmato postato ieri dai marinai di Tripoli mostra con quanta cautela si avvicinino ai migranti per lanciare una cima verso il gommone invitandoli a stare calmi (guarda il video). Il rischio è che per i movimenti a bordo il gommone si ribalti facendo finire tutti in mare. «L'equipaggio della Ras Jadir ha cominciato a recuperare i migranti, ma la gente di Sea watch si è piazzata a dieci metri nonostante le ripetute richieste del comandante di collaborare» spiega al Giornale il Capitano di vascello Abujela Abdelbari, veterano della Guardia costiera. «I migranti illegali è ovvio che vogliono andare in Italia e non tornare indietro in Libia. La vicinanza del gommone della Ong ha provocato il disastro. A decine si sono tuffati anche a rischio di annegare» sottolinea l'ufficiale libico. E le immagini lo dimostrano. Una volta affiancato il gommone alla motovedetta libica molti migranti si lanciano in mare nuotando verso l'unità della Ong.

Le false verità della disinformazione buonista. Da dispersi che risorgono a morti che nessuno ha mai visto: il doppiogioco dei moralisti da sbarco. Così le ong ingannano i media, scrive Fausto Biloslavo, Mercoledì 15/11/2017, su "Il Giornale". Un servizio di RaiNews24 usa un video per sostenere che il 6 novembre scorso i guardiacoste libici hanno lasciato un migrante in mare ad annegare. Ma il filmato integrale - e non tagliato ad hoc - mostra che l'uomo è stato tirato a bordo dagli attivisti della Ong tedesca Sea Watch ed è sano e salvo. Ieri la Guardia costiera libica ha tenuto una conferenza stampa a Tripoli denunciando “le calunnie di Sea Watch” e mostrando i video che provano come sia stata la ong a ostacolare le operazioni di salvataggio dei migranti dopo il naufragio del 6 novembre scorso...Con un video su Facebook, l'ong tedesca Sea Watch accusa i guardiacoste libici di essere partiti con un migrante ancora appeso alla scaletta. "Così lo uccidono", commentano. In realtà è stato tirato a bordo e salvato dai libici, come mostrano le immagini girate nel centro di detenzione di Tajura. La disinformazia umanitaria ha colpito ancora nel caso del naufragio di un gommone stracarico di merce umana il 6 novembre al largo della Libia trovando sponda su Rai news 24 con migranti dati per morti, che al contrario sono stati recuperati dalla nave dell’Ong tedesca Sea watch. Per non parlare del migrante che i libici avrebbero ucciso aggrappato alla scaletta della motovedetta.

Le bugie dell'Ong sul migrante...In realtà era stato tirato a bordo ed è vivo e vegeto in un centro di detenzione del ministero dell’Interno vicino a Tripoli. E la balla che fa da cappello alle altre è lo sbandierato numero della “strage”: 50 dispersi in mare. I morti sono cinque e nessun altro corpo è stato ritrovato o riportato dalle onde sulle coste libiche. Rai News 24 va in onda il 10 novembre con un servizio dal titolo inequivocabile: “Migranti, un video non lascia dubbi: la motovedetta libica se ne va e lo abbandona in mare”. L’attacco del pezzo è un pugno nello stomaco con un africano, forse un uomo o una giovane donna, aggrappata alla fiancata della motovedetta libica giunta per prima sul posto, che cercava di recuperare i migranti e riportarli a Tripoli. “Questo è uno dei 50 dispersi nelle operazioni di salvataggio a 35 miglia dalle coste libiche” esordisce Pino Finocchiaro mostrando le immagini drammatiche del disgraziato in mezzo ai flutti con il volto terrorizzato. E poi: “Disperso perchè la motovedetta della guardia costiera libica ha lasciato la zona delle operazioni nonostante l’uomo fosse ancora appeso alla scaletta in attesa di aver salva la vita”. In pratica dato per morto. Peccato che il “disperso” prima viene recuperato da un gommone della ong Sea Watch giunta sul posto a fare da “esca” per portare più migranti possibili in Italia. E poi fatto salire a bordo della loro nave. Si nota nelle stesse immagini girate dall’organizzazione umanitaria riconoscendolo grazie i pantaloni rosa. Il peggio arriva più avanti nel servizio di Rai news, che fa vedere dei migranti che salgono a bordo della nave Sea watch sani e salvi. Fra i fortunati c’è anche il “disperso” con pantaloncini della tuta rosa e felpa grigia. Inspiegabilmente la parte che lo riguarda è tagliata nel servizio di mamma Rai. Lo spettatore è convinto che il poveretto o poveretta sia annegato. L’ennesima chicca della disinformazia umanitaria riguarda le riprese di Sea watch, che mostrano un altro migrante appeso alla scaletta della motovedetta libica dopo essersi buttato in mare nel tentativo di raggiungere la nave della Ong e l’Italia. L’unità di Tripoli se ne va dalla scena della disastrosa operazione a tutta velocità. In un nuovo filmato di mezz’ora l’Ong si sofferma sulla drammatica immagine ed in sovrimpressione sullo schermo appare l’epitaffio “…a tutta velocità - possono ucciderlo”. Qualcuno ripete due volte “stanno uccidendo una persona” sulla plancia della nave umanitaria. Peccato che il migrante è stato tirato a bordo e salvato proprio dai libici. Si chiama Mustafà Ghane ed è un senegalese senza alcun diritto di venire in Italia. I fratelli sono riusciti a farsi recuperare da Sea Watch. La Guardia costiera l’ha filmato vivo e vegeto nel centro di detenzione del ministero dell’Interno di Tajura vicino a Tripoli. Non a caso il drammatico filmato di Sea watch sui “cattivi” libici si conclude con una schermata nera ed una denuncia terribile: “Circa 50 persone da questa barca di migranti sono morti” per colpa della Guardia costiera di Tripoli e non della Ong che ha fatto da esca o calamita. I conti però non tornano: i libici hanno recuperato 47 persone e l’Ong 59 oltre a cinque cadaveri. La somma è di 111 persone. Secondo una stima fatta da un velivolo il gommone conteneva al massimo 120 migranti. Nessun corpo è stato recuperato sulle coste libiche nonostante le giornate di vento avrebbero dovuto spingere gli annegati verso terra. Dove sono i 50 morti della strage, che giornali, parlamentari e per ultima l’Arci con un duro comunicato sono convinti sia avvenuta? Non solo: Sea watch chiede a gran voce che l’Unione europea “fermi immediatamente i finanziamenti alla Guardia osteria libica”. Peccato che Harald Hopper, a nome dell’Ong abbia firmato appena il 14 ottobre il codice di condotta imposto dal Viminale con un interessante allegato relativo solo a Sea Watch. I tedeschi si impegnavano a “non ostacolare la guardia costiera libica nelle acque territoriali o dove sono autorizzati a svolgere le proprie attività”. L’intervento del 6 novembre rientra nella zona di soccorso dichiarata la scorsa estate dai libici e la motovedetta era stata allertata dal centro di coordinamento con la Marina italiana nella base navale Abu Sitta di Tripoli.

ASSASSINI DI BAMBINI.

Così l'Italia ha lasciato annegare 60 bambini: in esclusiva le telefonate del naufragio, scrive l' 8 maggio 2017, "L'Espresso". Nave Libra, il pattugliatore della Marina italiana, è ad appena un'ora e mezzo di navigazione da un barcone carico di famiglie siriane che sta affondando. Ma per cinque ore viene lasciata in attesa senza ordini. Il pomeriggio dell'11 ottobre 2013 i comandi militari italiani sono preoccupati di dover poi trasferire i profughi sulla costa più vicina. Così non mettono a disposizione la loro unità, nonostante le numerose telefonate di soccorso e la formale e ripetuta richiesta delle Forze armate maltesi di poter dare istruzioni alla nave italiana perché intervenga. Il peschereccio, partito dalla Libia con almeno 480 persone, sta imbarcando acqua: era stato colpito dalle raffiche di mitra di miliziani che su una motovedetta volevano rapinare o sequestrare i passeggeri, quasi tutti medici siriani. Quel pomeriggio la Libra è tra le 19 e le 10 miglia dal barcone. Lampedusa è a 61 miglia. Ma la sala operativa di Roma della Guardia costiera ordina ai profughi di rivolgersi a Malta che è molto più lontana, a 118 miglia. Dopo cinque ore di attesa e di inutili solleciti da parte delle autorità maltesi ai colleghi italiani, il barcone si rovescia. Muoiono 268 persone, tra cui 60 bambini. In questo videoracconto "Il naufragio dei bambini", L'Espresso ricostruisce la strage: con immagini inedite, le telefonate mai ascoltate prima tra le Forze armate di Malta e la Guardia costiera italiana, e le strazianti richieste di soccorso partite dal peschereccio. In quattro anni, dopo le denunce dei sopravvissuti, nessuna Procura italiana ha portato a termine le indagini.

Naufragio dei bambini, la Marina fece allontanare la nave dei soccorsi. I pm chiedono l'archiviazione dell'inchiesta. Ma non tutte le comunicazioni sarebbero state messe a loro disposizione. Una in particolare riguarderebbe la decisione ai vertici del comando della Marina militare che ordinò alla Libra di andare a nascondersi oltre l'orizzonte, anziché partecipare alle operazioni di salvataggio, scrive Fabrizio Gatti il 15 maggio 2017 su "L'Espresso". Sul naufragio dei bambini gravano due richieste di archiviazione. Una da parte della procura di Roma, la seconda da parte della procura di Agrigento, contro le quali si sono opposti i genitori sopravvissuti al disastro, assistiti dagli avvocati Arturo Salerni, Gaetano Pasqualino e Alessandra Ballerini. La loro necessità di giustizia per i presunti, sconcertanti ritardi nei soccorsi è ora nelle mani dei giudici. Quello che emerge dagli atti e dalla ricostruzione fatta da "L'Espresso", però, è che non tutte le comunicazioni sarebbero state messe a disposizione dei magistrati. Una in particolare riguarderebbe la decisione ai vertici del comando della Marina militare che ha ordinato alla nave Libra di allontanarsi e andare a nascondersi oltre l'orizzonte, anziché partecipare ai soccorsi: quel pomeriggio dell'11 ottobre 2013 il pattugliatore italiano è soltanto a 17 miglia dal peschereccio carico di bambini che sta affondando, un'ora di navigazione. Nave Libra, il pattugliatore della Marina italiana, è ad appena un'ora e mezzo di navigazione da un barcone carico di famiglie siriane che sta affondando. Ma per cinque ore viene lasciata in attesa senza ordini. Il pomeriggio dell'11 ottobre 2013 i comandi militari italiani sono preoccupati di dover poi trasferire i profughi sulla costa più vicina. Così non mettono a disposizione la loro unità, nonostante le numerose telefonate di soccorso e la formale e ripetuta richiesta delle Forze armate maltesi di poter dare istruzioni alla nave italiana perché intervenga. Il peschereccio, partito dalla Libia con almeno 480 persone, sta imbarcando acqua: era stato colpito dalle raffiche di mitra di miliziani che su una motovedetta volevano rapinare o sequestrare i passeggeri, quasi tutti medici siriani. Quel pomeriggio la Libra è tra le 19 e le 10 miglia dal barcone. Lampedusa è a 61 miglia. Ma la sala operativa di Roma della Guardia costiera ordina ai profughi di rivolgersi a Malta che è molto più lontana, a 118 miglia. Dopo cinque ore di attesa e di inutili solleciti da parte delle autorità maltesi ai colleghi italiani, il barcone si rovescia. Muoiono 268 persone, tra cui 60 bambini. In questo videoracconto "Il naufragio dei bambini", L'Espresso ricostruisce la strage: con immagini inedite, le telefonate mai ascoltate prima tra le Forze armate di Malta e la Guardia costiera italiana, e le strazianti richieste di soccorso partite dal peschereccio. In quattro anni, dopo le denunce dei sopravvissuti, nessuna Procura italiana ha portato a termine le indagini (di Fabrizio Gatti).

Ma nemmeno l'elicottero a bordo della Libra viene lanciato in volo per una rapida ed efficace ricognizione «to assess the status», per valutare la situazione. L'altra comunicazione, una telefonata probabilmente non ascoltata per intero dagli investigatori, contiene il rifiuto della centrale operativa della Guardia costiera italiana alla sala operativa delle Forze armate di Malta, autorità responsabile dei soccorsi, che invece insiste per l'impiego della Libra. E si conclude con l'invito, pronunciato da un ufficiale italiano, a far intervenire una nave commerciale, anche se la più vicina è a 70 miglia. Soltanto alle 17.04, all'ennesimo sollecito maltese, la Marina militare fa finalmente avvicinare nave Libra, ma senza fretta, solo per valutare la situazione. Ormai è tardi. Alle 17.07, dopo cinque ore di inutile attesa, il barcone con 480 profughi siriani si rovescia nel mare quasi calmo: almeno 268 annegati, tra cui 60 bambini, quasi tutti dispersi e mai più recuperati. Un tempestivo intervento avrebbe probabilmente permesso alla Libra di raggiungere il barcone già tra le 14.30 e le 15. Proprio quel naufragio, soltanto una settimana dopo l'affondamento di un altro barcone con i 366 morti a Lampedusa, convince il governo italiano ad avviare nel giro di sette giorni l'operazione "Mare nostrum", come ha raccontato sabato 13 maggio a "Repubblica" Enrico Letta, presidente del Consiglio in quei tragici giorni. Se la Marina avesse messo subito a disposizione nave Libra, grosso pattugliatore adatto proprio a quel tipo di interventi, probabilmente non ci sarebbe stata una seconda carneficina in otto giorni, il governo non avrebbe avviato "Mare nostrum" e non saremmo arrivati dove siamo oggi. Le presunte negligenze di quel pomeriggio, come osservano gli avvocati delle famiglie che hanno letteralmente perso i loro bambini in mare, hanno avuto ripercussioni sulle azioni dei governi italiano ed europei per tutti i mesi successivi. Il recente coinvolgimento nei soccorsi dei barconi della Guardia costiera libica aumenta ulteriormente la possibilità di uno scaricabarile tra autorità con possibili esiti tragici. Mercoledì 10 maggio l'avvicinamento di una motovedetta libica, richiesto da Roma, ha rischiato di concludersi con lo speronamento di una nave di soccorso di una Ong civile, sfiorata a prua dall'unità militare di Tripoli. L'inchiesta giornalistica de "L'Espresso" finisce intanto in Parlamento. Mercoledì 17 maggio la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, risponderà al "question-time" presentato dal capogruppo di Sinistra italiana, Giulio Marcon. Secondo i procuratori di Roma, Giuseppe Pignatone, e di Agrigento, Renato Di Natale, che hanno firmato le richieste di archiviazione di proprio pugno, non ci sarebbe più nulla su cui indagare e non ci sarebbero responsabilità da parte della Marina e della Guardia costiera italiane. Scrivono i magistrati romani: «Alle 16.44, a seguito di telefonata di Roma a Malta per aggiornamenti, si viene a sapere che l'aereo maltese riferisce che l'imbarcazione si è fermata. Roma contatta Malta dicendo che "la nave militare italiana è un assetto importante per identificare nuovi bersagli", cioè i barconi carichi di profughi, e sarebbe meglio non muoverla ma "se quella di spostare nave Libra è l'unica soluzione, allora possono utilizzarla"». La telefonata è la stessa pubblicata in parte al termine del videoracconto "Il naufragio dei bambini". Sintetizzata così, nella forma in cui la Guardia di finanza delegata per le indagini l'ha consegnata alla Procura, sembra effettivamente che la Guardia costiera italiana voglia mettere a disposizione la Libra e che i colleghi di Malta perdano tempo. In realtà, dopo la frase riportata dai magistrati romani, l'ufficiale italiano al telefono dice esattamente il contrario. Perché questa parte manca nella richiesta di archiviazione? È una telefonata a tratti surreale, tra l'ufficiale di servizio nella sala operativa della Guardia costiera di Roma, il tenente di vascello Antonio Miniero, 42 anni, che non figura tra gli indagati, e l'ufficiale di servizio maltese, un maggiore donna. Dura otto minuti. Dice il tenente Miniero: «Madam, riguardo il vostro ultimo fax, ho alcune domande. Voi sapete che la nave da guerra rappresenta una unità importante che ha lo scopo di avvistare i nuovi obiettivi nell’area Sud. Se avete bisogno che mandiamo una nave da guerra a soccorrere le persone, successivamente con la nostra nave da guerra abbiamo l’incarico di trasferire (i profughi) alla costa più vicina. Io penso che non sia il miglior modo di operare perché poi non avremmo unità nell’area, in grado di avvistare nuovi obiettivi». E Malta: «Aaah, è la P402? La P402 è la nave da guerra». P 402 è l'identificativo ottico, cioè la sigla, di nave Libra. I maltesi scoprono dal loro aereo ricognitore che è vicinissima al peschereccio che sta affondando. Malta lo ribadisce nella conversazione, aggiorna la situazione del barcone che ormai si è fermato ed è alla deriva e aggiunge: «Abbiamo anche detto a una nave civile di provare ad andare nell’area, ma è lontana circa 70 miglia nautiche dal peschereccio». E il tenente Miniero: «Oh bene, penso che sarebbe una buona idea cominciare a coinvolgere anche una nave commerciale. Naturalmente ho già passato il vostro fax alla nostra Marina. Ma abbiamo bisogno anche di questo tipo di...». Malta: «Di attività». Miniero: «Di attività, perché dobbiamo anche vigilare, sai, perché sappiamo che ci dovrebbero essere altri obiettivi oggi. Quindi, se la nostra nave da guerra abbandona l’area, dopo non abbiamo altre navi per avvistare l’area. Questo è un altro punto importante». L’ufficiale donna da Malta, con tono molto sorpreso: «Cosa stanno cercando di avvistare? Quali sono le caratteristiche di queste imbarcazioni da avvistare: migranti o altri obiettivi?». Miniero: «Migranti». Malta: «Ok, quindi stai dicendo che se gli dite di spostarsi (alla Libra), non avete altre navi nell’area?», anche se la Espero, altro pattugliatore della Marina, è a 50 miglia. Miniero: «Sì, di solito lavoriamo in questo modo. Usiamo le nostre unità più grandi per gli avvistamenti e dopo, se ci sono navi commerciali, noi preferiamo impiegare loro. E dopo organizzare rendez-vous con le nostre motovedette, quelle piccole. Perché non vogliamo perdere l’area, vogliamo sempre mantenere alcune navi per avvistare nuovi obiettivi». Malta: «Aaaah, ok, capisco». E Miniero: «Naturalmente, nel caso fosse l’ultima e unica soluzione, usiamo anche le navi da guerra per i trasferimenti. L’abbiamo fatto alcune volte». Infatti, l'ufficiale di servizio nella sala della Guardia costiera lo dice. Ma non si ferma qui. Sentite cosa aggiunge subito dopo. Ed è la parte che forse i magistrati non hanno sentito. Malta: «Avete altre navi che possono andare nell’area? C’è qualcosa nelle vicinanze? Vi abbiamo dato la posizione. Ma noi non abbiano nessuna nave nell’area. È a Sud di Lampedusa, capisci? Possiamo richiamare una delle nostre navi e provare a mandarla ma richiederebbe un po’ di tempo per arrivare. Voi non avete nient’altro nell’area?». Miniero: «Nell’area? Te l’ho detto c’è...». Malta: «Solo questa qua, sì (la Libra)». Miniero: «Avete una posizione aggiornata del peschereccio?». Malta: «Sì, sono fermi». Miniero: «Bene, Madam, penso che il capo deve provare a trovare una nave commerciale». E Malta, ormai rassegnata al rifiuto dell'Italia: «Sì, proveremo». Quindi la sala operativa di Roma non solo sa già, dalle chiamate da bordo delle 12.26 e 12.39, che il peschereccio imbarca acqua, ne ha già mezzo metro nello scafo (ore 12.39), ci sono due bambini feriti e grossi problemi con il motore, come ha più volte ripetuto al telefono satellitare Mohanad Jammo, 40 anni, il medico di Aleppo che perderà in mare i figli di 6 anni e nove mesi. Ma Malta lo ribadisce dopo le richieste formali via fax, perché i maltesi hanno un aereo in volo sul barcone e sulla Libra. E l'ufficiale di servizio di Roma non conclude rispondendo con le parole riportate nella richiesta di archiviazione di Roma, ma con l'invito chiaro a trovare una nave commerciale, lontana 70 miglia. Tanto che il maggiore maltese, rispetto alla prassi delle altre telefonate in cui gli operatori si presentano semplicemente come "duty officer", ufficiale di servizio, chiede invece alla fine, pensando già al rapporto che scriverà: «Con chi sto parlando, per favore?». E l'italiano: «Sono l'ufficiale di servizio». Lei: «Sì, qual è il suo nome?». Lui: «Il mio nome è Miniero». Pochi minuti prima, alle 16.38, lo stesso ufficiale italiano cerca di convincere il comando operativo della Marina (Cincnav) a inviare la Libra, come già hanno chiesto i maltesi via fax: «Sarebbe il caso...», suggerisce invano Miniero al capitano di fregata Nicola Giannotta, 43 anni, in servizio alla centrale operativa aeronavale della Marina militare. Anche Giannotta fin dalle 13.34 chiede al suo superiore, il capitano di fregata Luca Licciardi, 47 anni, capo della sezione attività correnti del Cincnav, se deve inviare la Libra. Ma la risposta è «non ancora». E alle 15.37, quando i maltesi non avendo ancora scoperto la vera posizione ravvicinata della Libra muovono una loro motovedetta lontana oltre due ore di navigazione, Giannotta domanda a Licciardi che cosa deve riferire al pattugliatore italiano. E il capitano Licciardi: «Che non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette... te lo chiami al telefono, oh, stanno uscendo le motovedette, non farti trovare davanti ai coglioni delle motovedette che sennò questi se ne tornano indietro». Giannotta obbedisce e trasmette l'ordine alla nave, comandata da Catia Pellegrino, 41 anni, che a bordo non sa nulla dello scaricabarile in corso: «Perché se vi vede a un certo punto (la motovedetta maltese)... eh, gira la capa al ciuccio e se ne va», riferisce Giannotta. Così la Libra, che si trova a sole 17 miglia dai bambini siriani e dai loro genitori, invece di avvicinarsi si allontana in direzione opposta fino a 19 miglia. E si nasconde dalla congiungente tra Malta e il barcone, la rotta più breve, restando in attesa oltre l'orizzonte. Licciardi, Giannotta, Catia Pellegrino e Leopoldo Manna, capo della centrale operativa di Roma della Guardia costiera, sono gli unici quattro indagati per i quali la Procura di Roma ha chiesto l'archiviazione, anche per non essere stati consapevoli, secondo i magistrati, dell'effettivo pericolo a bordo del peschereccio: «La loro azione può ritenersi rispettosa della complessa e dettagliata disciplina di settore... In questo senso nessun addebito penalmente rilevante può essere mosso agli indagati», sostengono i pubblici ministeri. Per la Procura di Agrigento invece l'omissione di soccorso c'è stata: ma, è scritto nella richiesta di archiviazione, «emergerebbero, senza tema di smentita, responsabilità per gli omessi soccorsi in capo alle autorità maltesi e ciò per la indubbia circostanza che l'imbarcazione dei migranti, al momento del naufragio, si trovava inequivocabilmente nelle acque territoriali di quel Paese». Probabilmente una svista: perché le acque territoriali arrivano a 12 miglia dalla costa, mentre il peschereccio carico di bambini è a 118 miglia da Malta. Il dottor Jammo e i suoi sfortunati compagni di fuga dalla Siria e dalla Libia in guerra, pur essendo a 61 miglia da Lampedusa, stanno affondando nell'area di competenza maltese per la ricerca e il soccorso in mare. Proprio per questo Malta, come autorità di coordinamento, ha chiesto più volte agli italiani l'impiego della Libra. Senza sapere che il comando della Marina militare italiana l'aveva mandata a nascondersi oltre l'orizzonte.

Naufragio dei bambini, Pinotti risponde al Parlamento ma è smentita dai magistrati. La titolare del dicastero della Difesa ha risposto alla Camera con una versione che non corrisponde a quella messa nero su bianco dalla Procura di Roma. Inoltre, le sue parole sono smentite dalle altre telefonate del pomeriggio della tragedia, l'11 ottobre 2013, scrive Fabrizio Gatti il 18 maggio 2017 su "L'Espresso". La ministra della Difesa, Roberta Pinotti, risponde alla Camera sul naufragio dei bambini con una versione che non corrisponde alla verità: «Per quanto riguarda l'attività di nave Libra», dice guardando i deputati e dando le spalle alla presidente, Laura Boldrini, «la Marina riferisce che, appena informata dalla centrale operativa del comando generale del Corpo delle capitanerie di porto, delle attività di ricerca e soccorso in atto, a cura del centro di coordinamento del soccorso marittimo maltese, ha disposto di propria iniziativa che nave Libra, distante circa quindici miglia nautiche dal natante in difficoltà, si dirigesse verso il punto segnalato. È stato impiegato anche un elicottero di nave Libra, che è giunto sul luogo ed ha avviato le operazioni di soccorso con lancio di salvagenti e zattere». Ma una forza armata può mentire al Parlamento? Lo stato maggiore della Marina può permettersi di far pronunciare al ministro che la rappresenta dichiarazioni già smentite dalle indagini della magistratura? Sono da poco passate le tre del pomeriggio di mercoledì 17 maggio quando Roberta Pinotti risponde al question-time presentato dal deputato Giulio Marcon di Sinistra italiana sui ritardi nei soccorsi al peschereccio carico di profughi siriani, affondato l'11 ottobre 2013. Marcon porta in aula il bisogno di giustizia dei sopravvissuti, che tra l'altro coincide con gli obblighi imposti dalla legge e sanciti dalla Costituzione. Sui circa 480 passeggeri di quel barcone, 268 sono morti compresi sessanta bambini. Quasi tutti scomparsi nel mare calmo, dopo cinque ore di inutile attesa, con nave Libra ad appena un'ora di navigazione a 17 miglia, lasciata per tutto quel tempo senza ordini. Anzi con ordini opposti a quelli previsti dal codice della navigazione. La versione riferita dalla ministra Pinotti in Parlamento è smentita prima di tutto da quanto scrivono i magistrati della Procura di Roma, Francesco Scavo e Santina Lionetti, nella richiesta di archiviazione firmata anche dal procuratore, Giuseppe Pignatone: «Alle ore 15,37... nave Libra si trova a 17 miglia dal contatto (il peschereccio che sta affondando)... Licciardi interviene dicendo che nave Libra non deve trovarsi sulla direttrice contatto-motovedette maltesi, altrimenti queste ultime se ne tornerebbero indietro. Nave Libra, il pattugliatore della Marina italiana, è ad appena un'ora e mezzo di navigazione da un barcone carico di famiglie siriane che sta affondando. Ma per cinque ore viene lasciata in attesa senza ordini. Il pomeriggio dell'11 ottobre 2013 i comandi militari italiani sono preoccupati di dover poi trasferire i profughi sulla costa più vicina. Così non mettono a disposizione la loro unità, nonostante le numerose telefonate di soccorso e la formale e ripetuta richiesta delle Forze armate maltesi di poter dare istruzioni alla nave italiana perché intervenga. Il peschereccio, partito dalla Libia con almeno 480 persone, sta imbarcando acqua: era stato colpito dalle raffiche di mitra di miliziani che su una motovedetta volevano rapinare o sequestrare i passeggeri, quasi tutti medici siriani. Quel pomeriggio la Libra è tra le 19 e le 10 miglia dal barcone. Lampedusa è a 61 miglia. Ma la sala operativa di Roma della Guardia costiera ordina ai profughi di rivolgersi a Malta che è molto più lontana, a 118 miglia. Dopo cinque ore di attesa e di inutili solleciti da parte delle autorità maltesi ai colleghi italiani, il barcone si rovescia. Muoiono 268 persone, tra cui 60 bambini. In questo videoracconto "Il naufragio dei bambini", L'Espresso ricostruisce la strage: con immagini inedite, le telefonate mai ascoltate prima tra le Forze armate di Malta e la Guardia costiera italiana, e le strazianti richieste di soccorso partite dal peschereccio. In quattro anni, dopo le denunce dei sopravvissuti, nessuna Procura italiana ha portato a termine le indagini (di Fabrizio Gatti). Non avendo nave Libra ricevuto alcun ordine di dirigere sul punto, questa deve continuare il suo pattugliamento», osservano i magistrati romani: «Al di là del tono diretto e dell'uso di espressioni volgari - Licciardi a domanda di Giannotta su cosa debbano riferire a nave Libra risponde: "Che non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette... te lo chiami al telefono, oh, stanno uscendo le motovedette, non farti trovare davanti i coglioni delle motovedette che sennò, questi se ne tornano indietro" - è evidente che la preoccupazione è quella che le autorità maltesi possano venir meno all'impegno assunto. Vi è in atti il verbale della trascrizione della conversazione telefonica». Il capitano di fregata Luca Licciardi, 47 anni, è il capo della sezione attività correnti del Cincnav, il comando in capo della squadra navale della Marina. E il capitano di fregata Nicola Giannotta, 43 anni, in quel momento è l'ufficiale di servizio alla centrale operativa aeronavale della Marina. Sono le 15.37. Da oltre tre ore il dottor Mohanad Jammo, 40 anni, tra i medici a bordo del peschereccio con le loro mogli e i figli, sta supplicando l'invio dei soccorsi. Da due ore, dalle 13.34, la Guardia costiera italiana ha lanciato un avviso a tutte le navi in transito chiedendo se possibile di dare assistenza. E il comando della Marina militare ordina alla Libra addirittura di allontanarsi e nascondersi. Licciardi e Giannotta sono tra i quattro indagati per i quali la Procura di Roma ha comunque chiesto l'archiviazione perché, secondo i magistrati, non erano consapevoli del reale pericolo e delle conseguenze del loro comportamento. I sopravvissuti, assistiti dagli avvocati Arturo Salerni, Gaetano Pasqualino e Alessandra Ballerini, si sono opposti e attendono ora la decisione del giudice per le indagini preliminari. Il videoracconto "Il naufragio dei bambini" pubblicato da "L'Espresso" e "Repubblica" dimostra infatti come le informazioni riferite dal dottor Jammo siano precise fin da subito e come l'ufficiale di servizio nella sala operativa della Guardia costiera, il tenente di vascello Clarissa Torturo, 40 anni, non indagata, le abbia ben comprese. Le parole della ministra alla Difesa sono ulteriormente smentite da altre telefonate di quel pomeriggio, registrate e consegnate ai magistrati. Come quella delle 16.38 in cui il tenente di vascello Antonio Miniero, 42 anni, anche lui non indagato, altro ufficiale di servizio alla sala operativa della Guardia costiera, suggerisce di inviare la Libra come chiede formalmente l'autorità di coordinamento dei soccorsi che è Malta: «L'aereo maltese... è al corrente del fatto che c'è una vostra nave a circa 19 miglia, quindi vuole fornire delle istruzioni alla nave, essendo in questo momento Malta l'autorità Sar competente. Ora, se per lei va bene, sarebbe il caso che la nave avesse diretti contatti con Malta senza il nostro tramite», dice Miniero. E il capitano Giannotta risponde: «Eh, un attimo, io qua ne devo parlare con il capo ufficio operazioni». Il capo ufficio operazioni è sempre Licciardi, che evidentemente non mette a disposizione nave Libra. Perché poco dopo, alle 16.44, il tenente Miniero lo riferisce in una telefonata surreale all'ufficiale di servizio della sala operativa maltese: otto minuti di conversazione in cui l'autorità di Malta chiede più volte l'impiego della Libra, molto vicina al peschereccio, e Miniero risponde che la buona idea è dirottare sul punto una nave commerciale, anche se la più vicina è a 70 miglia. Solo alle 17.04, all'ennesima richiesta maltese, il Cincnav fa avvicinare nave Libra. Ma senza nemmeno lanciare in volo l'elicottero con cui, già alle 13.34, in poche decine di minuti la Marina avrebbe potuto valutare direttamente la situazione e soccorrere il barcone dei bambini. Alle 17.07 il peschereccio si rovescia. Alle 17.14 la notizia viene comunicata a nave Libra e finalmente viene fatto decollare l'elicottero che scarica sui superstiti giubbotti di salvataggio e zattere gonfiabili. La Libra arriverà soltanto alle 18: addirittura dieci minuti dopo la motovedetta P61 partita da Malta a 118 miglia di distanza, la stessa da cui il capitano Licciardi aveva ordinato di nascondersi. La versione passata dalla Marina al Parlamento attraverso la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, tace insomma su oltre quattro ore di decisioni apparentemente contrarie ai doveri del soccorso in mare. La ministra, ricordando in aula che sia la Procura di Roma sia la Procura di Agrigento hanno comunque chiesto l'archiviazione, conclude con una promessa: «Qualora dovessero emergere ulteriori elementi, saranno valutate nelle sedi opportune le decisioni di competenza. Infine aggiungo che testimonianze come quelle dei sopravvissuti al naufragio dei bambini nell'ottobre 2013 non lasciano certo insensibili e quale responsabile del dicastero della Difesa mi sento di dire che continueremo a fare tutto il possibile, con generosità e determinazione, per salvaguardare e proteggere vite umane ed evitare il ripetersi di tragedie come questa». Dura la replica di Giulio Marcon: «Non siamo soddisfatti perché ovviamente riconosciamo il lavoro importante che ha fatto la Marina militare in questi anni per salvare vite umane che appunto rischiavano di naufragare e di perdersi. Però qui parliamo di un caso specifico. E in questo caso specifico non sono state date risposte soddisfacenti... Alle drammatiche sollecitazioni del dottor Jammo, la Marina ha cercato di nascondere la nave Libra, anzi l'ha fatta allontanare dal luogo dove avveniva questo naufragio. Questo è inaccettabile, soprattutto perché la Marina militare ha svolto un lavoro enorme e prezioso nel Mar Mediterraneo e non può essere macchiata da un evento così grave e da una irresponsabilità nella violazione di una legge del mare che non andrebbe mai violata. I soccorsi a chi sta affogando vanno portati sempre».

LA NORMALIZZAZIONE DI TRUMP SULL’ASSE PRO TERRORISTI.

La "profezia" di Hillary Clinton: io avrei attaccato Assad. Coincidenza davvero fortuita: le parole pronunciate proprio poco prima del bombardamento deciso poi da Donald Trump. Siria, ieri Hillary Clinton invitava Trump ad attaccare. L'ex avversaria del tycoon alla corsa alla Casa Bianca, a poche ore dall'attacco alla base siriana, era favorevole all'azione militare: "dovremmo far fuori le sue basi aeree, scrive il 7 aprile 2017 "Quotidiano.net". Hillary Clinton ieri aveva invitato Donald Trump ad agire contro il regime di Bashar al Assad, cosa solo minacciata dal precedente presidente Barack Obama. Poche ore dopo 59 missili Usa hanno colpito la base siriana di Al Shayrat, considerata la struttura da cui è partito l'attacco chimico su Khan Sheikun. "Assad ha un'aviazione e questa aviazione è la causa della maggior parte delle morti di civili, come abbiamo visto nel corso degli anni e in questi ultimi giorni. E credo veramente che avremmo dovuto e dovremmo ancora far fuori le sue basi aeree e impedirgli di usarle per bombardare persone innocenti e per lanciare contro di loro il gas sarin". Le parole della Clinton, a margine della conferenza sulle "Donne nel mondo" a New York, e alla luce dei fatti, sono sembrate a molti un via libera dei democratici. Ma la posizione dell'ex segretario di Stato riguardo la politica estera non è una novità, infatti nei primi 4 anni di Obama alla Casa Bianca, Hillary aveva elaborato un piano per muoversi più aggressivamente nei confronti della Siria, entrando in contrasto con il presidente. La Clinton, parlando col giornalista del New York Times, Nicolas Kristof, aveva detto che era stato uno sbaglio non lanciare un'offensiva simile in precedenza. Secondo l'allora segretario di Stato gli Stati Uniti avrebbero dovuto sposare un approccio più "aggressivo" a sostegno dell'opposizione al presidente Bashar al-Assad, "prima che l'Isis emergesse con il suo piano per un califfato e la sua conquista di Raqqa. Credo, e l'ho detto ripetutamente, che avremmo dovuto fare di più in quel momento". Nel 2014, in un'intervista a The Atlantic, la Clinton usò parole molto dure contro Obama sulla Siria, parlando di "fallimento" della politica statunitense. Secondo Hillary la decisione di restare ai margini durante la prima fase della sollevazione contro Assad portò all'ascesa dell'Isis. L'attegiamento troppo cauto del presidente non le era piaciuto, come lo slogan di Obama "Don't do stupid stuff", infatti, disse la Clinton, "le grandi nazioni hanno bisogno di principi organizzativi, e 'non fare cose stupide' non è un principio organizzativo". Nel 2012, Obama tracciò una "linea rossa" riguardo l'uso di armi chimiche, minacciando conseguenze se fossero state ancora usate. Ma dopo gli attacchi chimici di cui fu accusato Assad nell'agosto 2013, l'amministrazione Obama non fece nulla trovando l'opposizione del Congresso e avendo trovato un accordo con la Russia, che prevedeva la distruzione dell'arsenale chimico di Assad sotto il controllo internazionale. 

Perché, giornalisti, per voi Hillary è progressista? Scrive Maurizio Blondet il 29 maggio 2016. “Per Israele, distruggerò la Siria”. E’ una delle e-mail della candidata democratica alla Casa Bianca. L’ha rivelata Wikileaks di Julian Assange.  Recita: “Il modo migliore di aiutare Israele a gestire la crescente capacità nucleare dell’Iran è aiutare il popolo siriano a rovesciare il regime di Bachar al-Assad”. Anzi, aggiunge, “sarebbe buona cosa minacciare di morte direttamente la famiglia del residente Assad”. Attenzione: si tratta della mail declassificata dal Dipartimento di Stato con il numero di dossier F-2014-20439, Doc NO. C05794498, parte della grossa quantità di documenti che si sono dovuti rendere pubblici dopo che si è scoperto che, mentre era segretaria di Stato, usava un server mail privato.  Proprio per questo (al Dipartimento è ancora incistata la Nudelman in Kagan, in arte Nuland) potrebbe essere un falso, o un documento manipolato, diffuso per farci cascare i “complottisti”.  Lo suggerisce in parte anche il testo – un po’ troppo esplicativo – e la data, che Wikileaks data 31 dicembre 2000.  Può essere un errore materiale: la Clinton essendo stata ministra degli esteri dal 2009 al 2013, e date le allusioni nel testo alle trattative dell’Iran   per fargli ridimensionare il suo programma nucleare, Istanbul 2012.  Può essere invece la sbavatura inserita volutamente per screditare il messaggio. Non occorrono prove per sapere quanto la signora Clinton si rallegri dei suoi delitti, con una risata di trionfo che agghiaccia il cuore.  Abbiamo un buon numero di video: quello del 20 ottobre 2011 in cui, in una intervista alla CNBC, ride quando apprende che in Libia è stato trucidato Gheddafi; e, emulando il detto d Cesare – Veni Vidi Vici – se la ride: “Siamo venuti, abbiamo visto, lui è morto”.  Un anno dopo, ad essere ammazzato fu l’ambasciatore Usa in Libia Chris Stevens, che lei – la ministra – aveva lanciato in un losco traffico di armi rubate dagli arsenali di Gheddafi per mandarle in Siria, ai jihadisti gestiti dalla Cia. Sulla volontà di Hillary di provocare la guerra al servizio di Israele- con l’Iran o con chiunque altro – circola il video di un talk show con James Baker III (ex segretario di Stato come lei, uomo dell’Establishment se ce n’è uno) dove, ridendo istericamente, lo dichiara apertamente e scompisciandosi dalle risate. Il video è dell’ottobre 2013, quando Hillary era segretaria di Stato. Si parla delle trattative in corso con l’Iran sulla riduzione dell’embargo se Teheran accetta di azzerare il suo programma atomico.  James Baker dice che Israele è preoccupata… “Alla fin fine, se non otteniamo il risultato cui adesso lavora l’Amministrazione (Obama), dovremo   eliminarli.” “Ci stiamo lavorando duro!”, se la ride Hillary. Tutti gli altri si scompisciano con lei. “Tutte le opzioni sono sul tavolo – e poi, francamente, ci sono quelli che dicono: la cosa migliore che può capitarci sarebbe di essere aggrediti da qualcuno.  Fatti sotto! Perché questo ci unificherebbe. Legittimerebbe il   regime.  Non cederemo su nessun punto. Di fatto provocheremo un attacco perché allora saremo al potere più di quanto chiunque possa immaginare”. Sembra che attribuisca queste intenzioni al regime iraniano, che sono notoriamente un modus operandi americano. Ma nel discorso che la candidata ha tenuto all’AIPAC (la lobby) il 20 marzo scorso, per ricevere voti e soldi dagli ebrei, ha detto: “Mentre siamo qui riuniti, tre minacce sono in corso: la continua aggressione dell’Iran (sic)…”  e promesso  tutto quanto si può promettere ai fanatici sionisti. Del resto, se la Clinton diventa presidente, è più che probabile che segretaria di stato diventi la Nuland in Kagan, quella che ha dedicato 5 miliardi di dollari   per il golpe anti-russo in Ucraina, e la vita a regolare i conti con Mosca.  Due guerrafondai neocon con l’aggravante del messianismo talmudico, pronti a scatenare la guerra mondiale contro la Russia.

Del resto   è evidente che la NATO, spinta dai neocon e da Obama, sta avvicinando alla Russia missili AEGIS a   testata potenzialmente nucleare, e moltiplica provocazioni belliciste che hanno lo scopo di sfidare la Russia, e costringerla ad umiliarsi. Un istruttivo articolo del Saker Italia spiega tutto ciò, e la reazione dei generali russi –   contrariamente agli americani che non hanno mai provato la guerra sul loro territorio, i russi conoscono l’invasione, le decine di milioni di morti, e per loro la guerra non è un esercizio da comodi uffici, ma la vita o la morte come popolo.

La Clinton ridens alla Casa Bianca continuerà e peggiorerò la politica di Obama, il Nobel per la Pace, e dunque la possibilità di una guerra che si combatterà in Europa. Tutto ciò è noto, se non al grande pubblico, almeno ai giornalisti italiani che si occupano di esteri. Ora, quindi, la domanda sarebbe da fare a loro: perché continuate a dire, e persino credere, che Hillary Clinton   è progressista, e invece Donald Trump un fascista, populista, un pericolo per la pace mondiale?

Le esplosive mail di Hillary Clinton. L'arte della guerra. Subito dopo aver demolito lo stato libico, gli Usa e la Nato hanno iniziato, insieme alle monarchie del Golfo, l’operazione coperta per demolire lo stato siriano, infiltrando al suo interno forze speciali e gruppi terroristi che hanno dato vita all’Isis, scrive Manlio Dinucci su “Il Manifesto” il 19.9.2016. Ogni tanto, per fare un po’ di «pulizia morale» a scopo politico-mediatico, l’Occidente tira fuori qualche scheletro dall’armadio. Una commissione del parlamento britannico ha criticato David Cameron per l’intervento militare in Libia quando era premier nel 2011: non lo ha però criticato per la guerra di aggressione che ha demolito uno stato sovrano, ma perché è stata lanciata senza una adeguata «intelligence» né un piano per la «ricostruzione».

Lo stesso ha fatto il presidente Obama quando, lo scorso aprile, ha dichiarato di aver commesso sulla Libia il «peggiore errore», non per averla demolita con le forze Nato sotto comando Usa, ma per non aver pianificato the day after. Obama ha ribadito contemporaneamente il suo appoggio a Hillary Clinton, oggi candidata alla presidenza: la stessa che, in veste di segretaria di stato, convinse Obama ad autorizzare una operazione coperta in Libia (compreso l’invio di forze speciali e l’armamento di gruppi terroristi) in preparazione dell’attacco aeronavale Usa/Nato. Le mail di Hillary Clinton, venute successivamente alla luce, provano quale fosse il vero scopo della guerra: bloccare il piano di Gheddafi di usare i fondi sovrani libici per creare organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana e una moneta africana in alternativa al dollaro e al franco Cfa. Subito dopo aver demolito lo stato libico, gli Usa e la Nato hanno iniziato, insieme alle monarchie del Golfo, l’operazione coperta per demolire lo stato siriano, infiltrando al suo interno forze speciali e gruppi terroristi che hanno dato vita all’Isis. Una mail di Clinton, una delle tante che il Dipartimento di stato ha dovuto declassificare dopo il clamore suscitato dalle rivelazioni di Wikileaks, dimostra qual è uno degli scopi fondamentali dell’operazione ancora in corso. Nella mail, declassificata come «case number F-2014-20439, Doc No. C05794498», la segretaria di stato Hillary Clinton scrive il 31 dicembre 2012: «È la relazione strategica tra l’Iran e il regime di Bashar Assad che permette all’Iran di minare la sicurezza di Israele, non attraverso un attacco diretto ma attraverso i suoi alleati in Libano, come gli Hezbollah». Sottolinea quindi che «il miglior modo di aiutare Israele è aiutare la ribellione in Siria che ormai dura da oltre un anno», ossia dal 2011, sostenendo che per piegare Bashar Assad, occorre «l’uso della forza» così da «mettere a rischio la sua vita e quella della sua famiglia». Conclude Clinton: «Il rovesciamento di Assad costituirebbe non solo un immenso beneficio per la sicurezza di Israele, ma farebbe anche diminuire il comprensibile timore israeliano di perdere il monopolio nucleare». La allora segretaria di stato ammette quindi ciò che ufficialmente viene taciuto: il fatto che Israele è l’unico paese in Medio Oriente a possedere armi nucleari. Il sostegno dell’amministrazione Obama a Israele, al di là di alcuni dissensi più formali che sostanziali, è confermato dall’accordo, firmato il 14 settembre a Washington, con cui gli Stati uniti si impegnano a fornire a Israele i più moderni armamenti per un valore di 38 miliardi di dollari in dieci anni, tramite un finanziamento annuo di 3,3 miliardi di dollari più mezzo milione per la «difesa missilistica». Intanto, dopo che l’intervento russo ha bloccato il piano di demolire la Siria dall’interno con la guerra, gli Usa ottengono una «tregua» (da loro subito violata), lanciando allo stesso tempo una nuova offensiva in Libia, camuffata da operazione umanitaria a cui l’Italia partecipa con i suoi «parà-medici». Mentre Israele, nell’ombra, rafforza il suo monopolio nucleare tanto caro a Hillary Clinton.

Wikileaks, le mail della Clinton e la Siria, scrive il 18 marzo 2016 “Piccole note”. Wikileaks ha pubblicato le mail di Hillary Clinton, quelle oggetto di indagine negli Usa perché custodite nel computer privato nonostante si trattasse di materiale riservato e pubblico, in quanto relativo al suo ruolo a capo del Dipartimento di Stato Usa. L’inchiesta, che dovrebbe far luce sulla possibile “privatizzazione” di materiale pubblico, languisce. Forse per non nuocere alla corsa presidenziale della signora. Ma, al di là dei suoi sviluppi, la pubblicazione di tali missive sembra di certa rilevanza. Ne riportiamo una del 2012, relativa alla guerra in Siria.

«I negoziati per limitare il programma nucleare iraniano non risolveranno il dilemma della sicurezza di Israele. Né lo farà impedire all’Iran di sviluppare la parte cruciale di qualsiasi programma nucleare – la capacità di arricchire l’uranio. Nella migliore delle ipotesi, i colloqui tra le grandi potenze del mondo e l’Iran iniziati a Istanbul lo scorso aprile e che continueranno a Baghdad a maggio permetteranno a Israele di rinviare di qualche mese la decisione se lanciare o meno un attacco contro l’Iran, cosa che potrebbe provocare una guerra in Medio Oriente».

«Il programma nucleare iraniano e la guerra civile in Siria possono sembrare non collegati, ma lo sono. Per i leader israeliani, la vera minaccia di un Iran dotato di armi nucleari non è la prospettiva di un leader iraniano tanto folle da lanciare un attacco nucleare non provocato contro Israele, che porterebbe alla distruzione di entrambi i paesi».

«I capi militari israeliani si preoccupano in realtà – ma non possono dirlo – del fatto che Israele sta perdendo il suo monopolio nucleare. Una possibile capacità nucleare dell’Iran non solo può comportare la fine del monopolio nucleare, ma potrebbe anche permettere ad altri avversari, come l’Arabia Saudita e l’Egitto, di giungere al nucleare».

«Il risultato sarebbe un equilibrio nucleare precario nel quale Israele non potrebbe rispondere alle provocazioni con attacchi militari convenzionali in Siria e Libano, come può fare oggi. Se l’Iran dovesse raggiungere l’obiettivo del nucleare, Teheran potrebbe con molta più facilità di oggi ricorrere ai suoi alleati in Siria e a Hezbollah per colpire Israele, ben sapendo che le sue armi nucleari sarebbero per Israele un deterrente che gli impedirebbe di rispondere con un attacco diretto contro l’Iran».

«Torniamo alla Siria. È la relazione strategica tra l’Iran e il regime di Bashar Assad in Siria che rende possibile per l’Iran minacciare la sicurezza di Israele – non attraverso un attacco diretto, che nei trenta anni di ostilità tra Iran e Israele non si è mai verificato, ma attraverso il Libano, attraverso Hezbollah, che è sostenuto, armato e addestrato dall’Iran tramite la Siria. La fine del regime di Assad sarebbe la conclusione di questa alleanza pericolosa».

«La leadership di Israele capisce bene che sconfiggere Assad ora è nel suo interesse. Parlando al programma della Cnn della Amanpour la scorsa settimana, il ministro della Difesa [israeliano ndr.] Ehud Barak ha sostenuto che “il rovesciamento di Assad sarà un duro colpo per l’asse radicale, un duro colpo per l’Iran…. Essendo “l’unico avamposto dell’influenza iraniana nel mondo arabo… e indebolirà drasticamente sia Hezbollah in Libano che Hamas e la Jihad islamica a Gaza”. Abbattere Assad non solo sarebbe una manna enorme per la sicurezza di Israele, ma diminuirebbe anche la comprensibile paura di Israele di perdere il suo monopolio nucleare».

«Più in là, Israele e gli Stati Uniti potrebbero riuscire a sviluppare una visione comune in vista del momento in cui il programma iraniano si dimostrerà così pericoloso da giustificare un’azione militare. In questo momento, è la combinazione dell’alleanza strategica tra l’Iran e la Siria e il costante progresso del programma di arricchimento nucleare iraniano a portare i leader israeliani a immaginare un attacco a sorpresa – se necessario anche nonostante le obiezioni di Washington».

«Con Assad rovesciato e l’Iran non più in grado di minacciare Israele per procura, è possibile che gli Stati Uniti e Israele possano concordare linee rosse per il momento in cui il programma iraniano avrà varcato una soglia non più accettabile. In breve, la Casa Bianca può allentare la tensione che si è sviluppata con Israele riguardo l’Iran facendo la cosa giusta in Siria».

«La rivolta in Siria dura ormai da più di un anno. L’opposizione non sta arretrando e il regime non vuole accettare una soluzione diplomatica dall’esterno. Con la sua vita e la sua famiglia a rischio, solo la minaccia o l’uso della forza potrà far cambiare idea al dittatore siriano Bashar Assad».

Nota a margine. La mail appare significativa non tanto per quanto riguarda la visione di Israele, anzi della destra israeliana, che vi viene descritta, dal momento che tale posizione è ben nota e pubblica. Piuttosto perché dimostra lo sforzo degli Stati Uniti, e della Clinton in particolare, di usare, e strumentalizzare, le paure e le esigenze di sicurezza di Tel Aviv per sviluppare una politica estera Usa più che aggressiva. Tra le altre rivelazioni contenute nel documento, appare significativa la spiegazione della paura di Tel Aviv riguardo l’atomica iraniana. A più riprese, infatti, il governo israeliano ha allarmato circa un possibile attacco diretto di Teheran contro Israele. Secondo quanto si legge nella mail la paura sarebbe tutt’altra. Resta da capire quel cenno riguardante l’accordo sul nucleare tra Usa e Teheran, che nella missiva è indicato solo come un passaggio in vista di un postumo attacco militare contro l’Iran. Cenno che non rassicura se si pensa che la Clinton oggi è accreditata come prossimo presidente Usa. Detto questo, dopo la pubblicazione di tale missiva è davvero difficile immaginare il conflitto siriano come una guerra civile, cosa accreditata dalla narrativa ricorrente. Come si vede, è tutt’altro.

In Medio Oriente noi occidentali abbiamo fatto peggio di Assad. Dai migliaia di morti dei bombardamenti Usa in poi, l'Occidente in Medio Oriente ha fatto una quantità di danni imparagonabile a quella dei dittatori locali. Non lo dice il nostro senso di colpa, lo dicono i numeri, scrive Fulvio Scaglione il 29 Marzo 2017 su “L’Inkiesta”. Il famoso o famigerato selfie con Bashar al-Assad del senatore Razzi, che tanto scandalizzò le anime belle, ha però avuto il pregio di aprire uno spiraglio di discussione sulla qualità del racconto intorno alla crisi siriana. Non da oggi il racconto di una crisi è più importante della crisi stessa. Lo ha dimostrato, tra i tanti altri casi, il cosiddetto Rapporto Chilcot, dal nome di sir John Chilcot, incaricato dal Governo inglese di indagare sulle ragioni e i metodi dell’invasione anglo-americana del 2003 in Iraq. Tra i tanti altri particolari agghiaccianti, il Rapporto racconta che nel 2003 il criminale di guerra Tony Blair, mentre si apprestava a lanciare con George Bush una guerra basata su motivazioni fasulle che provocò centinaia di migliaia di morti (più o meno ciò che molti oggi imputano ad Assad, insomma), si preoccupava fortemente di avere un gruppo di specialisti della propaganda che sapessero “presentare” quella porcata agli elettori inglesi. E se di racconti e favole parliamo, mi permetto di esporre qui un’ambizione frustrata: da anni vorrei scrivere un libro per riprendere e commentare le “analisi” che campeggiavano sui giornali e nelle Tv nel 2002-2004, quando quasi tutti gli “esperti” si affannavano a spiegare al popolo che bell’idea fosse attaccare l’Iraq e quale brillante futuro di democrazia e progresso quella guerra avrebbe spalancato al Medio Oriente e al mondo. L’ho proposto in giro e nessuno me lo vuole pubblicare. Li capisco, perché quelli che pontificavano allora pontificano pure oggi, sugli stessi giornali e le stesse Tv di allora. Compreso la Selvaggia Lucarelli coi baffi del Corriere della Sera, che un selfie con Blair e Bush se lo farebbe senza problemi, alla faccia di tutti quelli (comprese le tante migliaia di bambini ammazzati dai tredici anni di embargo che hanno preceduto la guerra del 2003) che in Iraq sono morti mentre si sentivano raccontare che la democrazia era in arrivo. Perché dopo i pianti per Aleppo, le stragi dei civili di Mosul sotto le bombe dell’aviazione americo-saudita sono state taciute da quasi tutti fino a quando è stato impossibile ignorarle. Storia che si ripete pari pari anche adesso. La presa di Aleppo Est da parte dell’esercito di Assad e dell’aviazione russa è stata accompagnata dagli alti lai degli sdegnati di professione. Giustificati, per carità. La guerra nelle città è una cosa bestiale e orrenda. Ma è il loro sdegno che non è più credibile. Anzi, è ormai immorale. Perché dopo i pianti per Aleppo, le stragi dei civili di Mosul sotto le bombe dell’aviazione americo-saudita sono state taciute da quasi tutti fino a quando è stato impossibile ignorarle: cioè, fino al giorno in cui gli stessi americani hanno dovuto ammettere di aver ammazzato 200 civili in un solo raid. Se uno dovesse credere a certe cronache, penserebbe che a Mosul non ci sono clown né pediatri né bambine con la fissa di Twitter. Nessuno, insomma, di cui valga la pena di preoccuparsi. Qualche eccezione a me nota: una Ong irachena, una inglese, un articolo di The Post Internazionale e uno del sottoscritto su Terrasanta.net. Democrazia è la parola chiave, il grimaldello universale. Chi può essere contrario alla democrazia? Solo una persona spregevole, ovvio. Un nemico. Viviamo sotto questo ricatto dal 1989, cioè da quando il presidente Usa George Bush senior e il suo segretario di Stato James Baker vararono appunto la strategia della “esportazione della democrazia”, per estendere il controllo politico sulle aree del mondo che stavano per essere abbandonate dall’agonizzante rivale sovietico. Da allora, anche solo pensare che forse sia meglio lasciare che la democrazia si affermi da sola, se ce la fa e dove ce la fa, è un crimine ideologico. Vale la scomunica. Poi, però, arriva la realtà. Nessuno può dire che in Libia, Iraq e Siria si viva meglio oggi di quando c’era la dittatura. Ed è a questo punto che la narrazione della crisi sostituisce la crisi stessa. Tony Blair lo sapeva, per questo si premurava di avere sotto mano una buona squadra di contaballe in vista della guerra del 2003. Altrettanto si fa oggi, non è cambiato nulla. Se la realtà non corrisponde alla teoria, basta far credere che la realtà sia diversa, rendendola così confacente alla teoria. Sa di Unione Sovietica ma funziona. Il 1° maggio del 2003 George Bush tenne, sul ponte della portaerei “Abraham Lincoln”, il famoso discorso del “mission accomplished”, missione compiuta. Tutto va bene, abbiamo vinto, c’è la democrazia in Iraq. Appunto. Nel dicembre 2014, secondo Barack Obama, in Afghanistan tutto andava così bene che le truppe Usa potevano essere ritirate. Dieci mesi dopo fece dietro front e nel 2016, come ci dice l’Unicef, si è avuto laggiù il record di vittime civili. Della Libia meglio non parlare, meglio far finta che il Governo di Al Farraj, quello riconosciuto da Onu e compagnia bella, esista e abbia qualche autorità anche fuori da Tripoli. Per la Siria stessa storia. La realtà è complicata? Sostituiamola con una più semplice. Le notizie? Le prendiamo da Al Jazeera e Al Arabiya, le Tv di Stato di due Paesi (Qatar ed Emirati Arabi Uniti) che, insieme con l’Arabia Saudita, sono tra i principali finanziatori dell’Isis, come ci dice peraltro la stessa Hillary Clinton quando non sa che le sue mail stanno per finire su Wikileaks. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, creato da un oppositore di Assad e finanziato dal Governo inglese, ci fornisce i numeri. Se manca qualcosa ci sono le Tv americane. E il gioco è fatto. Sempre più pateticamente, ma con tenacia, gira per l’Italia l’archeologo che racconta la favola bella di una rivolta popolare siriana piena di buoni sentimenti ma precipitata nel sangue dal dittatore Assad. Col relativo contorno di fantasie. Ah, se dessimo più aiuto ai ribelli moderati. Non è vero che la Turchia aiuta l’Isis. Gli antichi monumenti? Li distruggono le bombe dei russi. Il popolo è contro il regime. E così via, semplificando semplificando, fino a trasformare la realtà in finzione. D’altra parte, l’amore per la democrazia giustifica tutto, copre tutto, lava tutto. Il presente rapporto mostra come [...]fin dai primi giorni delle proteste in Siria i donatori dei Paesi del Golfo abbiano lavorato per convincere i siriani a prendere le armi. Poco importa che si tratti di un villaggio Potiomkin, uno di quei villaggi contadini fasulli che il plenipotenziario della zarina Caterina II preparava quando la sovrana voleva uscire da palazzo e credere che il popolo campasse bene e fosse felice. Poco importa che tutto ciò che di serio sappiamo indichi che le proteste spontanee e legittime dei siriani siano rimaste tali molto poco (si veda, per esempio, Playing with fire, lo studio del 2013 della Brookings Institution: “Il presente rapporto mostra come [...] fin dai primi giorni delle proteste in Siria i donatori dei Paesi del Golfo abbiano lavorato per convincere i siriani a prendere le armi” . Poco importa che lo stesso Joe Biden, vice presidente Usa con Barack Obama, già nel 2012 abbia spiegato chiaramente che fine abbia fatto l’influenza dei “ribelli moderati”: “Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti… che cos’hanno fatto? Hanno riversato centinaia di milioni di dollari su chiunque dicesse di voler combattere Assad. Peccato che tutti quei rifornimenti andassero a finire ad Al Nusra, ad Al Qaeda e ai jihadisti accorsi a combattere in Siria dalle altre parti del mondo”. Men che meno importa ciò che alle persone di normale intelligenza risulta evidente. E cioè, che un regime come quello di Assad, espresso da una piccola minoranza (gli sciiti alawiti sono circa il 12% della popolazione) deve per forza raccogliere il consenso anche di una parte corposa dei sunniti (75%), altrimenti non avrebbe potuto resistere per più di quattro anni (l’intervento russo arriva nel 2015) contro alcuni dei Paesi più ricchi del mondo (le petromonarchie del Golfo Persico), i Paesi più potenti dell’Occidente (Usa, Gran Bretagna, Francia) e la Turchia, che ha il più grande esercito del Medio Oriente. Riconoscere la complessità della situazione non significa inginocchiarsi davanti ad Assad, e nemmeno disconoscere le sue brutalità, vere e presunte. Al contrario, disconoscerla per raccontare simili favolette significa prostrarsi davanti gli interessi dei jihadisti e dei loro mandanti, che sono alcuni dei regimi più reazionari del pianeta. Ma tant’è. Basta riempirsi la bocca con la democrazia e tutto passa. Come con le purghe.

Attentato a Stoccolma, la gaffe mondiale di Trump meno di due mesi dopo diventa realtà. "Guardate cos'è successo in Svezia ieri sera... Chi poteva immaginarlo?". Così parlava dalla Florida il presidente degli Stati Uniti il 17 febbraio, alludendo a un attacco terroristico mai avvenuto, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 aprile 2017. Da gaffe di livello internazionale a imprevedibile realtà. Era il 17 febbraio quando Donald Trump durante un comizio a Melbourne, in Florida, dichiarava la sua solidarietà alla Svezia per un attentato in realtà totalmente inesistente. Parole che tornano dopo l’attacco nel centro commerciale di Stoccolma. “Guardate cosa sta succedendo – si infervorava quel giorno il presidente americano davanti ai suoi sostenitori – Dobbiamo mantenere il nostro Paese sicuro. Guardate quello che sta succedendo in Germania, guardate quello che è successo la notte scorsa in Svezia. In Svezia, chi può crederci? Stanno avendo problemi che non avrebbero mai pensato di avere”. La fake news del presidente americano scandalizzò il mondo, fino alla denuncia di Margot Wallström, ministra degli Esteri della Svezia, per la “tendenza generale” a diffondere “informazioni sbagliate”. Trump aveva provato a rifugiarsi in corner spiegando che la sua dichiarazione era arrivata dopo aver visto un servizio televisivo della Fox. Tuttavia il video dell’emittente Usa non faceva alcun riferimento ad attacchi in Svezia, ma solo all’afflusso di migranti in Scandinavia e ad un attentato, con due feriti, sì a Stoccolma ma risalente a sette anni prima, nel 2010. Tra l’altro quell’attacco passato era avvenuto, con due autobombe, proprio nella stessa zona colpita oggi, l’area pedonale della Drottninggatan.

QUANDO TRUMP PARLAVA DI UN ATTENTATO TERRORISTICO IN SVEZIA CHE NON ERA MAI AVVENUTO. Trump stava argomentando con forza la decisione del “ban” anti immigrati e, per avvalorare le sue ragioni, faceva riferimento a un attentato avvenuto nel paese scandinavo, scrive Venerdì 7 aprile 2017 “TPI". Il 18 febbraio 2017 il presidente degli Stati Uniti, Donald Tramp, teneva un comizio di fronte a migliaia di sostenitori nell'hangar dell'aeroporto di Orlando-Melbourne in Florida. In tale occasione si rese protagonista di alcune esternazioni su un presunto attacco terroristico in Svezia che scatenarono polemiche e ironia. Trump stava argomentando con forza la decisione del “ban” anti immigrati e, per avvalorare le sue ragioni, faceva riferimento a un attentato avvenuto nel paese scandinavo come uno dei tanti esempi di terroristi che invadevano paesi innocui con atti di violenza e paura. Quell’attentato, però, non c’era mai stato eppure Tramp diceva: "Avete visto che è successo in Svezia? In Svezia! Nella tranquilla, pacifica Svezia. Da non crederci!!"

Le ore successive a quel famoso comizio trascorsero cercando di interpretare le parole del presidente. Oggi suonano piuttosto macabre le parole di risposta dell’ex premier svedese Carl Bildt che commentando Trump scriveva su Twitter: “Svezia? Attentato? Ma cosa ha fumato?”, ritwittando anche il post di un utente che scriveva "Breaking news, la polizia svedese ha diffuso la foto dell'uomo ricercato per l'attentato" corredando il post con una foto dei Muppets. Secondo il Guardian Trump avrebbe confuso la parola "Sweden", Svezia in inglese, con Sehwan, città del Pakistan in cui il venerdì precedente un attacco kamikaze aveva fatto più di ottanta morti. A distanza di meno di due mesi, il 7 aprile 2017, un camion si è schiantato contro alcune persone in una strada centrale di Stoccolma, in Svezia, finendo la sua corsa contro un magazzino commerciale. La polizia svedese ha confermato la morte di tre persone e parla di otto feriti. C'è chi con un velo di ironia ipotizza che Trump avesse in qualche modo predetto tale tragico evento, e c'è chi, con maggiore malizia, intravede addirittura un complotto alla base di tali avvenimenti.

Attenti: hanno “normalizzato” Trump, scrive il 7 aprile 2017 Marcello Foa su “Il Giornale”. Verrebbe da dire: c’era una volta Trump. C’era, fino a poche settimane fa, un presidente che prometteva un’America diversa da quella di Obama ma anche di Bush, di Clinton, di Bush padre. Un’America intenzionata a rompere nettamente con la dottrina neoconservatrice, che in nome della lotta al terrorismo e di un mondo migliore ha ottenuto, dal 2001 ad oggi esattamente l’opposto: più instabilità in tutto il Medio Oriente, più fondamentalismo islamico, la nascita dell’Isis e una serie di attentati nelle capitali europee. Quell’America si proponeva di non essere più il poliziotto del mondo e pareva ansiosa di fare la pace con Putin. Non fatevi ingannare dal rumore mediatico degli ultimi mesi: a disturbare l’establishment americano e quello Stato Profondo (Deep State) che in realtà governa l’America e che accomuna repubblicani e democratici, non era solo la persona di Donald Trump, quanto, soprattutto, le sue idee, quel progetto di America. Quanto avvenuto la notte scorsa in Siria segna un cambiamento radicale nello spirito e nelle intenzioni di Trump. Cinque mesi di campagna martellante contro il presidente eletto hanno prodotto, evidentemente, gli effetti auspicati. E non mi riferisco solo alle manifestazioni di piazza, all’opposizione isterica della stampa, alle sentenze dei giudici (a proposito: ricordate l’articolo di Kupchan? Era profetico). Trump non è stato capace di resistere al boicottaggio che proveniva dall’interno delle istituzioni e dall’apparato dell’intelligence e della difesa. E chissà a quali altre pressioni e minacce. Si è lasciato avvinghiare, inghiottire da quel mondo che prometteva di combattere. Tutto in appena due mesi e mezzo dal giorno del suo insediamento.

L’errore più grande lo ha commesso quando ha accettato che uno dei suoi consiglieri più fidati, Flynn, si dimettesse. Un commentatore acuto e davvero indipendente quale Paul Craig Roberts lo aveva capito subito: quel cedimento era devastante, perché spaccava il fronte dei fedelissimi ma soprattutto perché rompeva la posizione di Trump sul “caso Russia”, che poteva diventare così un caso nazionale. Della serie: Se Flynn si dimetteva c’era qualcosa da nascondere. E allora via con le pressioni. Ancora oggi mancano prove concrete sulle ipotetiche collusioni con Mosca per condizionare il voto, ma il “deep state” lo ha fatto diventare il Caso Nazionale con toni maccartisti, paventando persino un impeachment nell’arco di qualche mese. Un impeachment sul nulla, ma questo era secondario. Flynn era la mente della nuova politica estera e di sicurezza dell’Amministrazione Trump. Un’Amministrazione che si è via via riempita di ministri, consiglieri ed esperti appartenenti alla vecchia guardia. All’inizio quelle nomine, poco coerenti, parevano una concessione obbligata al Partito repubblicano che controlla il Congresso, nella supposizione che le redini sarebbero rimaste nelle mani del presidente. Ma si è rivelata una falsa speranza.  E quando, l’altro ieri, l’altro suo più fedele collaboratore, lo stratega politico Bannon è stato estromesso dal Consiglio di sicurezza nazionale, l’accerchiamento si è concluso. Il segretario di Stato Tillermann si è rapidamente allineato all’establishment e ora a guidare la politica estera e di difesa, a consigliare il presidente sono gli esperti della Washington di sempre.

E si vede: la distensione con il Cremlino appare sempre più lontana; anzi proprio i ministri della nuova amministrazione alimentano la retorica antirussa con le stesse argomentazioni e lo stesso tono di Obama. Il Trump di qualche mese fa avrebbe preteso la verità sull’uso del gas in Siria, quello di oggi, invece, ha proclamato – senza ombra di dubbio – che molte linee rosse erano state superate. Proprio come Obama nel 2013. Peccato che allora, in seguito, si scoprì che a usare il sarin erano stati i “ribelli” moderati per far cadere la colpa su Assad e provocare l’intervento della Nato. Sarin la cui consegna sarebbe stata autorizzata da Hillary Clinton. Ed è molto verosimile che anche la strage dell’altro giorno sia stata provocata dai “ribelli” per fornire agli Stati Uniti un pretesto per intervenire.

Solo che nel 2013 Obama si fermò all’ultimo minuto, il Trump di oggi no. Ha fatto tutto in fretta, senza riscontri oggettivi sulle responsabilità di Assad, evidentemente mal consigliato. O consigliato benissimo, dipende dai punti di vista. Intanto l’Isis e i fondamentalisti islamici che combattono Assad ringraziano: la distruzione della base siriana avrà un solo effetto concreto, quello di indebolire l’esercito siriano e dunque di rimettere in discussione una vittoria che sembra certa. E’ così che si combatte lo Stato Islamico? Non ci prendano in giro: così lo si favorisce, perché l’obiettivo di Washington è il cambio di regime a Damasco anche a costo di vedere trionfare in Siria il peggior integralismo islamico. Non è un caso che a salutare l’interventismo della Casa Bianca siano stati proprio Hillary Clinton e John McCain. L’impressione è che l’agenda Trump sia già stata sconfessata a beneficio di quella irresponsabile e interventista portata avanti negli ultimi 15 anni dai neoconservatori. Se ciò fosse vero, significherebbe che Trump è stato “normalizzato”. E per la pace nel mondo sarebbe una pessima notizia. Resta una sola flebile speranza: che si tratti di un riposizionamento transitorio e non di una resa. Che l’uomo sia capace di riscattarsi. Ma probabilmente, a questo punto, più che una speranza è un’illusione.

Il tradimento di Trump, scrive Sebastiano Caputo il 7 aprile 2017 su “Il Giornale”. Negli ultimi giorni è accaduto l’impensabile sul piano internazionale. Proviamo ad unire tutti i puntini. In un primo momento l’ambasciatrice degli Usa al Consiglio di Sicurezza, Nikki Haley, insieme al Segretario di Stato Rex Tillerson, aveva sancito la dottrina isolazionista dell’amministrazione Trump annunciando che rovesciare Bashar Al Assad non era più la “priorità”. Successivamente tutti vengono richiamati all’ordine dalla notizia non verificata – ma diffusa dalla gran cassa mediatica – dell’utilizzo di armi chimiche da parte del governo di Damasco nelle zone occupate dai jihadisti. La Casa Bianca accetta la versione ufficiale e all’improvviso ripensa il suo approccio in politica estera considerando persino l’ipotesi di un’azione militare in Siria (e dunque anche contro la Russia). Infine esce fuori la notizia che Stephen Bannon, ex direttore di Breitbart, definito da alcuni come l’ideologo più influente del populismo americano (molto diverso da quello europeo), esce dal Consiglio per la Sicurezza nazionale, l’organo che più di ogni altro orienta le decisioni del presidente degli Stati Uniti in materia di politica internazionale, e al suo posto viene nominato il generale McMaster, lo stratega della disastrosa guerra in Iraq. E poi dicono che i “regimi militari” esistono solo in Medio Oriente e in Sudamerica. Tutta questa storia sembra un “déjà vu”. Magari tra qualche anno ci diranno che le “armi chimiche” ad Idlib non erano mai state utilizzate. Ma sarà troppo tardi. Del resto le prove erano insufficienti, non solo perché le fonti – Al Jazeera, Al Arabiya, l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani e i Caschi Bianchi – rispondono tutte all’agenda straniera di Paesi coinvolti sin dal 2011 della destabilizzazione della Siria, ma soprattutto perché Assad aveva smantellato i suoi arsenali in accordo con le Nazioni Unite già nel 2014. E poi conviene non dimenticarsi della vicenda analoga a Ghouta nel 2013 quando il governo di Damasco fu accusato della strage con l’uso del gas poi smentito qualche mese dopo dal giornalista americano nonché Premio Pulitzer Seymour Hersh il quale dimostrò che fu utilizzato dai ribelli. Persino Barack Obama, l’uomo che ha permesso la nascita e l’ascesa dello Stato Islamico, non ordinò in quell’occasione un intervento militare. Le minacce rimasero minacce. Ora le cose sono cambiate diametralmente. Al bambino che giocava a fare il cow boy gli è stata data una pistola. Vera questa volta. Donald Trump è stato manovrato dal Pentagono ad agire unilateralmente. Nella notte da due navi americane di stanza nel Mediterraneo orientale sono stati lanciati 59 missili Tomahawk contro la base siriana di Al Shayrat, da dove, secondo l’intelligence Usa, sarebbero partiti i caccia carichi di armi chimiche. Esultano tutti: l’Isis, l’Arabia Saudita, la Turchia, Israele. Esultano persino i più grandi detrattori della sovranità siriana che durante la campagna elettorale avevano ridicolizzato The Donald. Se molti, di fronte alla candidata guerrafondaia Hillary Clinton, avevano giustamente sperato nell’isolazionismo del tycoon si sbagliavano. Ci sbagliavamo. In America non è il presidente a comandare. E persino chi si dice anti-establishment può diventare più establishment dell’establishment.

Idlib: tutto quello che non torna, scrive Giampaolo Rossi il 6 aprile 2017 su “Il Giornale".

PERCHÉ? A distanza di giorni dalla tragedia di Idlib è impossibile trovare un solo analista, un solo giornalista, un solo politico tra quelli che provano a capire veramente cosa è accaduto in Siria, in grado di rispondere alla più importante delle domande: “Perché?”

Perché Assad avrebbe deciso di effettuare un bombardamento chimico nella fase finale di una guerra ormai vinta e nel giorno in cui a Bruxelles si apriva la Conferenza Internazionale sul futuro della Siria (e su quello suo)?

E perché l’avrebbe fatto pochi giorni dopo aver incassato dall’Amministrazione Trump (per bocca di Nikki Haley, ambasciatrice all’Onu), la conferma che rimuoverlo “non è più una priorità degli Stati Uniti”?

Perché il regime siriano, in maniera così goffa e intempestiva, avrebbe optato per un attacco con armi chimiche violando l’accordo siglato nel 2013 a Ginevra sotto l’egida di Usa e Russia, che portò all’effettivo smantellamento del suo arsenale (come è stato riconosciuto dall’Onu), accordo mai violato in questi anni neppure nei momenti di maggiore indecisione sull’esito della guerra?

Perché farlo, ben sapendo che questo avrebbe scatenato la comunità internazionale, messo in drammatica difficoltà l’alleato russo, riacutizzato le divisioni nel mondo arabo, provocato una legittima reazione tra gli stessi siriani che oggi, a stragrande maggioranza, vedono Assad come il salvatore della Siria contro l’occupazione terrorista dei mercenari islamisti?

L’unica risposta che per ora rimbalza sui media mainstream è quella più stupida e più funzionale alla ridicola narrazione occidentale dei “buoni contro i cattivi”: perché Assad è un dittatore! Quindi si sa che i dittatori gasano e uccidono il proprio popolo: lo fanno per gusto o per rappresaglia. O peggio, come motiva il New York Times, “per depravazione”. Giusto non può esserci altra spiegazione quando non si trovano le motivazioni.

I DUBBI. Andrea Purgatori, uno che i bombardamenti chimici li ha visti sul serio nel 1988 ad Halabja quando Saddam Hussein scaricò cianuro e gas nervini sulla popolazione curda causando quasi 5.000 morti e il doppio dei feriti, intervistato su Intelligo ha espresso forti perplessità su ciò che può essere accaduto: “Quello che ho visto sul campo dell’uso dei gas è che uccidono indiscriminatamente e soprattutto difficilmente fanno “solo” 70 morti. Non dico che non siano stati usati ma secondo me è successo qualcosa che ancora non sappiamo bene. (…) il problema è che se io carico i gas su un aereo e poi bombardo mi sembra difficile che ci sia questo numero di morti”. I bombardamenti chimici servono a spazzare via una popolazione e non un obiettivo militare. Per questo, usare armi chimiche per distruggere una fabbrica d’armi non è criminale è semplicemente stupido. Su La Stampa, Giuseppe Cucchi esprime con onesta obiettività gli stessi dubbi di Purgatori. Ma va anche oltre. Richiama alla memoria il bombardamento di Merkale a Serajevo, che scatenò l’intervento Nato contro la Serbia; massacro per il quale, nonostante le sentenze definitive del Tribunale internazionale, rimangono “fondati dubbi (…) che i colpi di mortaio” che causarono oltre 40 morti civili, possano essere partiti “da zone in mano ai bosniaci e non ai serbi”. E se l’orrore di Idlib servisse proprio a questo? A generare un casus belli per imporre magari un intervento diretto occidentale? A rimettere in discussione la permanenza di Assad anche in una Siria futura? È proprio quello che vuole Assad? O è quello a cui aspirerebbero i suoi nemici: i ribelli moderati di Al Qaeda e il paese principale che li supporta e li finanzia: l’Arabia Saudita; o quello che ambisce ad impossessarsi di pezzi della Siria e cioè la Turchia. Ecco che allora la versione siriana e quella russa, secondo cui le sostanze chimiche non sono scese dal cielo ma si sono sprigionate dall’interno della fabbrica dei ribelli bombardata, potrebbe non essere solo una verità artefatta per nascondere l’evidenza di ciò che è accaduto. D’altro canto che armi chimiche siano in possesso e siano state utilizzate dai ribelli anti-Assad è cosa risaputa ed anche provata. Ma ancora è tutto troppo vago.

NON È UNA GUERRA SIRIANA. Nel frattempo si consuma il previsto effetto dirompente sui media che serve a sconvolgere le coscienze e combattere questa guerra con le armi dell’emozione e dell’indignazione, spesso più potenti di quelle vere. Perché nella guerra moderna le armi chimiche non hanno alcuna utilità militare; ma hanno una grande utilità mediatica. E così, ecco puntuali i soliti Elmetti Bianchi, impavidi soccorritori cari ad Hollywood, falsificatori di professione legati ai gruppi di Al Qaeda, diffondere immagini e video che sembrano chiaramente manipolati e che si sommano alle immagini e i video reali e orribili dei bimbi morti o quelli agonizzanti, in un sadico e strumentale gioco di orrore che unisce il vero al falso. Ed ecco l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani, emanazione dei Servizi segreti britannici, essere utilizzato come fonte d’informazione prioritaria sui media occidentali per spiegare quello che è successo a Idlib.

Come è possibile che il regime siriano non immaginasse questi effetti di un attacco del genere? Assad sa troppo bene che la guerra in Siria non è più una guerra siriana ma una guerra mondiale. È che quello che lì avviene ha una ricaduta internazionale mille volte superiore rispetto a ciò che accade in altre guerre. Questo è il motivo per cui l’enfasi con cui i media occidentali mostrano le terribili immagini dei bimbi siriani è direttamente proporzionale al modo in cui gli stessi media relegano a semplice cronaca le notizie dei bimbi yemeniti (o somali) ammazzati dalle bombe americane e inglesi lanciate dai sauditi. Può Assad non aver previsto tutto questo?

OLTRE LA LINEA ROSSA. L’unica cosa certa è che la strage di Idlib rischia di spostare indietro l’orologio della guerra siriana, riportandolo al 2013. Il primo effetto politico è il cambiamento di posizione degli Stati Uniti annunciato da Donald Trump che ieri ha dichiarato “l’attacco sui bambini ha avuto un grande impatto su di me (…) siamo andati ben oltre la linea rossa”, chiaro riferimento all’ultimatum che nel 2013 Obama aveva posto ad Assad per evitare l’ingresso in guerra dell’America contro di lui. Facendo eco a lui la stessa ambasciatrice Haley: “Quando l’Onu fallisce nel suo dovere di agire collettivamente, ci sono momenti in cui gli Stati sono costretti ad agire per conto proprio”. Ecco a cosa ha portato la strage di Idlib; ecco forse a cosa serviva.

Con l'attacco alla Siria, Trump ha scelto di stare con i terroristi. "Il Centro Italo Arabo e del Mediterraneo esprime dura condanna per l’attacco missilistico che gli Stati Uniti hanno condotto nei confronti della Siria. Un attacco che si configura a tutti gli effetti come un’aggressione militare", scrive il 7 Aprile 2017 la redazione di "cagliaripad". Il Centro Italo Arabo e del Mediterraneo esprime dura condanna per l’attacco missilistico che gli Stati Uniti hanno condotto nei confronti della Siria. Un attacco che si configura a tutti gli effetti come un’aggressione militare nei confronti di uno stato sovrano che siede nei banchi delle Nazioni Unite e si colloca al di fuori del diritto internazionale.

L’attacco è avvenuto sulla base della “falsa prova” che il governo di Damasco abbia usato armi chimiche in un villaggio della provincia di Idlid. Non c’è nessuna prova, allo stato attuale, che la Siria abbia ordinato un attacco con armi non convenzionali nei confronti della popolazione civile. Le fonti utilizzate per incolpare il governo di Damasco non solo non sono indipendenti ma spesso sono riconducibili ai gruppi jihadisti che governano interamente quella regione e che, come è stato evidenziato da numerosi rapporti dell’intelligence e da inchieste giornalistiche, sono in grado di produrre e utilizzare armi chimiche. E’ infatti grave che una delle fonti sul posto del presunto attacco chimico sia un certo Shajul Islam, che si presenta ai media come un medico. Si tratta in realtà del volontario di nazionalità inglese accusato in Gran Bretagna di aver fatto parte della banda di miliziani che rapirono e ferirono nel luglio del 2012 il fotografo inglese John Cantlie. Un soggetto che già allora veniva considerato un soggetto radicalizzato, simpatizzante dei gruppi jihadisti. L’azione unilaterale ordinata da Trump è criminale e il presunto utilizzo di armi non convenzionali da parte dell’esercito di Assad è solo un pretesto. E’ chiaro che la Casa Bianca avesse deciso di attaccare già prima della strage avvenuta. E’ chiaro che tutto fosse pronto da giorni. Ancora più grave è che sia stata colpita una base militare dalla quale ogni giorno partivano gli attacchi contro lo Stato Islamico nella parte orientale del paese. La distruzione di quella base da parte degli Stati Uniti rafforza i terroristi che, giustamente, hanno esultato. E non è un caso che subito dopo l’azione missilistica americana sia partita una controffensiva dei terroristi dell’ISIS verso la città di Palmira, che soltanto la Siria di Assad e la Russia di Putin hanno difeso mentre la cosiddetta coalizione internazionale rimaneva inerte. Oggi Trump colpisce chi combatte contro l'espansione dell'integralismo islamico, rinsaldando l’alleanza con Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Israele che a vario modo hanno sostenuto, armato, supportato e aiutato i gruppi jihadisti in Siria. Lo fa per interesse personale (molte sue aziende sono presenti in questi paesi) e perché suo malgrado è diventato ostaggio delle élite belliche americane, senza le quali la sua elezione non sarebbe stata possibile. Trump è l’alleato ideale che i terroristi speravano di avere nella guerra contro la Siria. Oggi il mondo è meno sicuro e il terrorismo più forte. Speriamo che l’Italia condanni in modo inequivocabile questa azione militare che si colloca al di fuori del diritto internazionale e rappresenta un precedente pericoloso, anche per la posizione che il nostro paese occupa al centro del Mediterraneo. Se il governo Gentiloni dovesse avvallare questa azione, si macchierebbe anch’esso di una colpa gravissima, della quale ci pentiremo da qui agli anni a venire.

Trump bombarda la Siria: neanche 100 giorni per essere fagocitato dal sistema, scrive Federico Dezzani l'8 aprile 2017. Nella notte tra il 6 ed il 7 aprile è finita l’effimera parabola del presidente “populista” Donald Trump, fagocitato dallo stesso establishment che diceva di voler combattere: con 59 missili da crociera lanciati su una base aerea siriana, il neo-inquilino della Casa Bianca ha punito “il regime di Assad” per l’attacco chimico di Idlib dello scorso 4 aprile, un’evidente orchestrazione ad hoc. È superficiale affermare che Trump sia succube di Israele o degli alleati sunniti: il raid sulla Siria è una vera e propria resa all’establishment atlantico, ossessionato dal rinnovato attivismo di Mosca in Europa e Medio Oriente. Gli attacchi interni e le faide contro l’amministrazione Trump cesseranno, ma con essi muore anche la distensione con Mosca e le vaghe promesse di neo-isolazionismo. Le elezioni francesi si svolgeranno in un clima di fibrillazione internazionale ed il loro valore aumenta ancora.

L’establishment ha già riconquistato la Casa Bianca. La lotta tra il “populista” Donald Trump e l’establishment atlantico, liberal e finanziario, quello che poggia sull’asse City-Wall Street, non è durata neppure tre mesi: il 20 gennaio scorso il neo-presidente si è insediato alla Casa Bianca e dopo solo dieci settimane, appestate dalla diffusione di dossier, agguati al Congresso, insinuazioni sui suoi rapporti con la Russia, colpi bassi dei servizi segreti, Trump ha infine capitolato. Tra un combattimento all’arma bianca e la resa, l’immobiliarista di New York ha scelto la seconda strada, chinando il capo ed adeguandosi alle direttive dell’oligarchia. Il gesto di riconciliazione con l’élite atlantica è coinciso col bombardamento della base aerea siriana di Shayrat nella notte tra il 6 ed il 7 aprile, motivato dal precedente attacco chimico su Idlib che gli angloamericani avevano orchestrato ad hoc: 59 missili Tomahawk con cui il neo-presidente ha cestinato la campagna elettorale, le sue promesse di distensione con la Russia ed il vagheggiato neo-isolazionismo, per ricevere il battesimo dell’establishment. Ora Trump è parte integrante del sistema: gli attacchi della stampa cesseranno, il partito repubblicano si acquieterà, la CIA smetterà di produrre scomodi dossier ed il Dipartimento di Stato si allineerà allo Studio ovale. Poche mosse in rapida successione sono state sufficienti per piegare un presidente che aveva suscitato grandi speranza negli Stati Uniti e all’estero per la sua carica anti-sistema, ma all’atto pratico ha dimostrato di non possedere né la fibra, né l’esperienza, né la forza politica, per imporre la sua linea e liberare la nazione americana dall’élite mondialista. Il 24 marzo l’ammutinamento del partito repubblicano impedisce l’abolizione dell’Obamacare; il 31 marzo l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn si dice pronto a testimoniare davanti alla commissione del Congresso che indaga sul “Russiangate” in cambio dell’immunità; il 4 aprile si consuma nella provincia di Idlib l’attacco chimico imputato al regime di Assad e realizzato dai “White Helmets” finanziati dagli angloamericani. La strage siriana è il test decisivo per Trump: o si piega alla volontà dell’establishment o sarà estromesso. Trump getta la spugna: il 5 aprile, Stephen Bannon, l’anima “populista” della campagna elettorale, è allontanato dal Consiglio per la Sicurezza nazionale per la gioia del Pentagono. Il 6 aprile la Casa Bianca ribalta di 180 gradi la strategia sinora seguita sulla Siria: il Segretario di Stato Rex Tillerson sostiene che Bashar Assad deve essere rimosso e nelle prime ore del 7 aprile, è sferrato il blitz sulla base aerea di Shayrat, da dove sarebbe partiti i fantomatici caccia per gasare Idlib. Sebbene Mosca disponga di mezzi idonei a neutralizzare l’attacco (i sistemi S-300 e S-400), non si registra nessuna reazione da parte russa: il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, dirà che il personale della base è stato evacuato dopo l’avviso americano dell’imminente raid.

È da notare la tempistica dell’attacco: poche ore prima che il presidente Trump incontri in Florida il leader cinese Xi Jinping e a distanza di pochi giorni dalla visita del Segretario di Stato Tillerson in Russia, l’11 e 12 aprile1. Il blitz statunitense è un monito che la “nuova” Casa Bianca, quella del rinato Donald Trump, lancia al resto del mondo: nessun isolazionismo, nessuna distensione, nessuna divisione del mondo in sfere d’influenza. L’impero angloamericano è vivo ed è pronto alla guerra per difendere la sua egemonia mondiale: esattamente l’opposto di quanto aveva promesso Trump in campagna elettorale, delineando uno scenario di progressivo ritiro degli USA. Smantellamento della NATO, ritiro dal Giappone, fine delle interferenze in Medio Oriente, etc. etc.

C’è chi dice che il bombardando dell’installazione militare siriana sia la prova della dipendenza di Trump dal Likud e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu; altri dicono che, oltre a Tel Aviv, il presidente americano abbia voluto rinsaldare i legami con le potenze sunnite regionali, Turchia ed Arabia Saudita in testa. Non sono affermazione errate, ma parziali: quelli israeliani, turchi e sauditi sono pur sempre piccolo o medi nazionalismi. L’azione di Trump deve essere letta considerando cosa è oggi il Medio Oriente: una grande scacchiera dove il declinante impero angloamericano si confronta con la rinnovata potenza mondiale russa. L’intervento in Siria è prima di tutto una vittoria dell’establishment atlantico, atterrito dai progetti neo-isolazionisti del primo Trump: Washington e Londra sono ancora in Medio Oriente e sono pronte a “contenere” la Russia in qualsiasi quadrante. Nessun Levante in mano ai russi, nessun smantellamento della NATO, nessun attacco al suo corrispettivo politico, l’Unione Europea: è questo il nuovo corso del Donald Trump “normalizzato”.

Sono sintomatici, a questo proposito, gli editoriali della stampa liberal, la stessa che fino al 5 aprile braccava Trump con le accuse di connivenza con Mosca: ora che il presidente si è piegato alla linea “russofobica”, ora che è disposto a combattere l’esuberanza russa in Medio Oriente, ora che la distensione, mai decollata, è morta del tutto, è un fiorire di elogi e ripensamenti. “Striking at Assad Carries Opportunities, and Risks, for Trump2” scrive il New York Times, asserendo che il blitz militare è un’occasione per “raddrizzare” la sua amministrazione allo sbando, riaffermando l’autorità americana nei confronti di Mosca. “A president who launches missiles into Syria is a president these GOP Trump skeptics can get behind” titola il Washington Post, assicurando che le fratture dentro il partito repubblicano si riassorbiranno presto, ora che Trump si è adagiato alla linea dei vari neocon. “Trump Shows He Is Willing to Act Forcefully, Quickly” gioisce il Wall Street Journal, cantando le lodi del marziale Trump, vero “commander in chief”. “La chance di Trump e la credibilità persa da Obama” è il significativo articolo di Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, il tempio statunitense dell’oligarchia atlantica. Afferma l’autore3: È raro che la storia offra una seconda possibilità (dopo il mancato bombardamento di Obama dell’agosto 2013, Ndr), ma gli Stati Uniti e gli altri Paesi si trovano precisamente in questa situazione. (…) Un’opzione è attaccare le posizioni siriane, soprattutto i campi d’aviazione e gli aerei associati con le armi chimiche. (…). Un’azione militare russa, tuttavia, non è da considerarsi scontata. Il presidente Vladimir Putin potrebbe esitare prima di rischiare e adottare un atteggiamento di sfida, considerando le difficoltà economiche e il riaccendersi delle proteste politiche in patria. (…) Un altro approccio sarebbe quello di fornire attrezzature di difesa antiaerea ai curdi siriani e a gruppi sunniti dell’opposizione ben selezionati. (…). Vale la pena sottolineare che nei prossimi mesi bisognerà fare di più per rafforzare i sunniti locali, che devono poter garantire la sicurezza in quelle aree della Siria che devono essere liberate dai gruppi terroristi. (…). Trump ha l’opportunità di marcare le distanze rispetto al suo predecessore e dimostrare che c’è un nuovo sceriffo in città; Theresa May, la premier britannica, ha un’opportunità analoga. È raro che la storia offra una seconda possibilità: stavolta non va sprecata.”

Ecco qual è la missione del nuovo Trump “addomesticato”: portare a compimento il piano di balcanizzazione del Medio Oriente iniziato nel 2014 con l’improvviso scatenarsi dello Stato Islamico, ritagliando tra Siria ed Iraq un “Sunnistan” ed un Kurdistan, due nuove entità legate agli angloamericani ed agli israeliani. È superfluo dire che tale strategia è inconciliabile con la difesa dell’integrità nazionale degli Stati sostenuto da Mosca ed appoggiata da Teheran. Lo stesso bombardamento aereo del 6 aprile si inserisce in questa logica di balcanizzazione della regione: nessun jet siriano è partito dalla base siriana di Shayrat per “gasare” i ribelli, ma l’installazione, situata nella provincia di Homs e aperta ai russi nel dicembre 2015, è di strategica importanza per contenere l’ISIS nell’est e nel sud della Siria, le stesse zone in cui dovrebbe nascere il Califfato islamico protetto dagli angloamericani. Non è certamente casuale che i miliziani islamisti abbiamo prontamente sfruttato il blitz aereo di Trump per riprendere l’iniziativa contro le postazioni dell’Esercito Arabo Siriano4. Gli effetti di una Casa Bianca “rimessa in riga”, superano però i confini del Medio Oriente ed hanno profonde ripercussioni anche nell’Unione Europea, dove, dopo l’elezione di Trump, i movimenti populistici avevano potuto contare sulla sponda americana e su quella russa.

Il voltafaccia di Trump priva i nazionalisti europei del supporto statunitense, in coincidenza per di più di un appuntamento elettorale decisivo per le sorti della UE/NATO: le imminenti elezioni presidenziali francesi. Anziché avvalersi di una cooperazione tra Putin e Trump in chiave anti-Bruxelles, la candidata del Front National affronterà le elezioni in un clima di tensione internazionale e forte polarizzazione, utile ai suoi detrattori per dipingerla come la “quinta colonna”di Putin in Francia. Constata la conversione di Trump ed il deterioramento sempre più preoccupante della situazione internazionale, la vittoria di Marine Le Pen riveste un ruolo ancora più importante: solo svincolandosi da Bruxelles, che è sinonimo di Unione Europea ma anche di NATO, sarà possibile per i Paesi evitare di essere trascinati nel conflitto tra angloamericani e potenze euroasiatiche che si va delineando all’orizzonte, giorno dopo giorno. Poco importa se a iniziarlo sarà Trump o qualsiasi altro burattino dell’establishment atlantico.

I TOMAHAWKS HANNO CENTRATO I BERSAGLI. A WASHINGTON? Scrive Maurizio Blondet l'8 aprile 2017. Se davvero sono stati sparati 59 Tomahawks e ne sono arrivati sul bersaglio solo 23, la prima cosa che il generale Mattis doveva fare era aprire un’inchiesta contro la Raytheon che li fabbrica e li vende al Pentagono (pare) per un milione di dollari l’uno, e far scoppiare uno scandalo: i missili da crociera, guidati da satellite, per definizione non sbagliano il bersaglio. Non, almeno, in così gran numero.  Perché altrimenti tanto varrebbe sparare degli Scud, che dove colgono colgono, ma sono più economici.

Cos’era, una partita difettosa?  Pensate: appena due giorni prima, la Marina Usa ha dovuto smettere di operare tutti i suoi aerei da addestramento T-45 dopo che “oltre 100 istruttori si sono rifiutati di volarci, accusando problemi con l’ossigeno nell’abitacolo”. Un mese prima, il costosissimo F-35 invisibile riceveva questo giudizio dal direttore del Direttorato Prove e Valutazioni del Pentagono, Michael Gilmore: “Non ha una sola speranza in un combattimento reale”.  Quanto alle portaerei, splendidi mezzi di proiezione della potenza americana, già negli anni 70 l’ammiraglio Rickover, il padre della marina nucleare, in un conflitto reale gli dava una sopravvivenza “di uno o due giorni prima di essere affondate, forse una settimana se restano in porto”.  Ora, coi missili russi Sunburn supersonici e gli sciami di barchini d’assalto iraniani, i gallonati della Navy sono ben coscienti che la durata andrebbe calcolata in ore, forse in minuti.

Se anche i Tomahawks   funzionassero come contro le piste siriane, il generale Mattis dovrebbe porre davvero la domanda scomoda: ma è in grado, l’America, di vincere una vera guerra? I danni all’aeroporto siriano sono stati limitati. Ma i media americani dicono che è quasi completamente distrutto. I russi erano stati avvertiti mezz’ora prima. Solo una pista delle due, del resto, è stata bombardata abbastanza efficacemente da essere inutilizzabile. Infatti in serata (così almeno asserisce l’Osservatorio Siriano per i diritti umani, quel signore che abita presso Londra) l’aviazione siriana ha ripreso a decollare da lì.

McCain fulminato, i media conquistati. L’attacco, militarmente, è stato dunque insignificante. Sicché, col passare delle ore, s’è consolidata la sensazione che la volata di Tomahawks, lungi dal fare cilecca, avevano colpito alla perfezione i loro bersagli: che non sono in Siria, ma a Washington.  Hanno incenerito parecchi argomenti dei numerosissimi avversari di Trump: anzitutto, la “narrativa” secondo cui Donald è in realtà un vassallo, anzi un agente di Putin; che non è un comandante in capo capace di bombardare come i predecessori. Il lancio dei Tomahawk ha inattivato l’ostilità del senatore McCain e del suo compare Lindsey Graham, che da mesi avevano scippato la politica estera di Trump andando a riattizzare i focolai di guerra in Ucraina, nei paesi baltici, in Siria   a farsela con quelli di Daesh; adesso i due hanno dovuto applaudirlo, The Donald. I democratici, che fino a ieri minacciavano di porlo sotto impeachment (e di riuscirci) per i suoi rapporti occulti con Putin, sono tutti apparsi in tv a dire che sono a fianco del presidente come un sol uomo, per quell’azione. Adam Schiff, il vicepresidente della Commissione Intelligence della Camera, uno che cercava di incastrarlo   come agente di Mosca, è andato alla MSNBB a dichiarare che non solo appoggia il bombardamento unilaterale che Trump ha deciso senza prima chiedere l’autorizzazione al Congresso, ma che esigerà dal Congresso    che ne autorizzi di più. E i media? Prima tutti ferocemente ostili, denigratori, schernitori? Fulminati: da improvviso amore, sono tutti ai suoi piedi.  Hanno dato e ridato i video dei Tomahawks che decollavano nella notte dalla nave, estasiandosi: “Beautiful!  A marvel!”  Uno della MSNBC, Brian Williams, lirico: “Ecco le splendide immagini dei temibili armamenti mente   si lanciano in quello che per loro è il breve volo verso quel campo d’aviazione!”.  L’effetto-sorpresa è stato   abbacinante sulle tv a cominciare da CNN: Donald è proprio un cane pazzo! Così lo vogliamo!

La lobby neocon è placata, Netanyahu è contento.  Inutile dire che la cosa è stata una consolazione per tutto il complesso militare-industriale, rassicurato sulla continua spesa militare futura, che sarà forte come prima; Raytheon in particolare è stata accontentata dal generale Mattis: nuovi ordinativi assicurati da questo sparacchiamento a caso di abbondanti Tomahawks a spreco. Perché pare che tali missili abbiano una durata di vita utile limitata, e spararli è meglio che distruggerli.  Rende anche molto in tv. Intendiamoci: magari le prossime ore smentiranno questa ipotesi benevola.   Tutto sta a vedere se Trump si ferma a questo o invece continua, ordinando ai suoi generali di creare una no-fly zone sopra la Siria, e distrugge altre piste e basi militari (Mc Cain glielo ha consigliato in diverse interviste tv, Erdogan lo vuole..) Se le cose stanno così, si può sottoscrivere l’analisi del sito cattolico francese Le Salon Beige: “Trump, anche se è stato eletto, non è che un presidente simbolico nella misura in cui non s’è veramente impadronito delle leve del potere. Ha contro l’apparato dei media, il giudiziario, il finanziario. Non ha ai suoi ordini che il 2-3% dei funzionari pubblici, e i suoi fedeli non sono abbastanza numerosi per coprire i posti pubblici di vertice. La sua diplomazia è paralizzata – ed è la ragione per cui la Cina temeva che Trump scatenasse un conflitto di bassa intensità in Asia (effettivamente importanti manovre sono in corso da marzo con Corea del Sud e Usa, che mobilitano 300 mila uomini) perché la guerra permette ai presidenti americani di impadronirsi delle leve del potere. I cinesi avevano ragione, si sono solo sbagliati di teatro.

“Anche la Russia ne trarrebbe paradossalmente beneficio – a parte le proteste d’uso – perché ha interesse che Trump salvi la faccia e soprattutto si impadronisca, finalmente, del potere. Putin può lasciare che Trump sparga l’illusione che l’America ha mantenuto un piede nella porta in Siria”. Speriamo sia così. Non possiamo far altro, da spettatori.

The American President, con Michael Douglas. Chiudo citando un sagace lettore, che ha elaborato questa valutazione fra i primi: “…Sembra un film.  Anzi, nel film “The American President” Michael Douglas ordina un bombardamento di notte di una base libica quando non c’è nessuno: lo fa per motivi di propaganda per fare una ritorsione ai terroristi libici per dare ai mass media americani quello che volevano, cioè “la vendetta”. Douglas nel film dice “scegliamo un orario notturno, non voglio che ci siano troppi morti. Mentre noi siamo qui, un custode sta per morire lasciando moglie e figli perchè il suo governo non è stato capace di capire che non bisogna sostenere i terroristi e il nostro governo quindi è costretto ad intervenire per punire sia il governo libico di Gheddafi, sia i terroristi ma soprattutto un tizio che semplicemente fa il suo lavoro come custode notturno. Ma è necessario fare questo bombardamento visto che nessuno di noi si può permettere di lasciare impunito un attacco terroristico” e nel film si può notare che Douglas è sotto attacco politico dagli avversari in Senato”. Come noto, Hollywood è la migliore arma strategica della Superpotenza.

Post Scriptun: la tesi qui avanzata è condivisa anche da Thierry Meyssan, un’autorità assoluta nell’intelligence alternativa. La si può trovare su Rete Voliare: “Donald Trump afferma la sua autorità sui suoi alleati. Non fatevi ingannare dai giochi diplomatici e dalla copertura informativa dei grandi media. Quel che è appena accaduto in Siria non ha alcun legame né con la presentazione che vi è stata fatta, né con le conclusioni che se ne sono tratte.”

Stoccolma, l'assist dei terroristi ai terroristi in Siria, scrive l'8/04/2017 “L’antidiplomatico". Ancora da capire la dinamica dell’attentato a Stoccolma, dove un camion rubato è stato lanciato a bomba contro la folla, provocando almeno tre morti e una decina di feriti. Dalle ricostruzioni pare che un agente del terrore lo abbia sottratto al legittimo autista per poi usarlo per i suoi scopi omicidi. Dopo la strage, l’attentatore si è dileguato tra la folla. Non si è trattato quindi di un kamikaze, come d’uso per i delitti di questo tipo, ma di un agente ben preparato, che, al contrario di quanto consigliano i manuali del terrore, non ha finito il suo lavoro uscendo dalla vettura per lanciarsi sui passanti con un’arma (come accaduto nel recente attentato di Londra). L’agente in questione ha invece conservato il sangue freddo e si è dileguato, come accaduto per l’attentato avvenuto in Germania al mercatino di Natale. Forse è un caso, forse no che l’attentato a Stoccolma sia avvenuto subito dopo il lancio di missili americani contro obiettivi siriani (e russi). Primo intervento diretto, almeno esplicito, dell’America nella guerra che oppone Assad ai suoi antagonisti. Possibile che il Terrore, come in altri attentati similari, voglia favorire un intervento militare occidentale in Siria, accompagnando e favorendo la spinta che in tal senso giunge dall’America. Un intervento che giocoforza farebbe fuori Assad e creerebbe ulteriore destabilizzazione in Siria. Già, perché la destabilizzazione costituisce un terreno fertile per il Terrore, che trae alimento dal caos. Non per nulla i Paesi dove ha maggiormente attecchito sono Afghanistan, Iraq, Libia e Siria; esattamente gli Stati che sono stati interessati dalle guerre neocon dell’ultimo quindicennio. Ma al di là della coincidenza temporale tra l’attentato e i raid americani su Assad, magari casuali, val la pena ripetere che le truppe di Damasco sono oggettivamente, e al di là di ogni ragionevole dubbio, un argine al dilagare del Terrore in Siria e altrove. Non c’è alternativa in Siria, come invece narra certa propaganda occidentale. Non esistono tre fazioni: le forze di Damasco, i ribelli e i terroristi. Come sanno tutti, le milizie dei cosiddetti ribelli operano in coordinato disposto con quelle terroriste dell’Isis e di al Nusra. Se si bombarda l’esercito di Damasco o si sostengono le cosiddette milizie ribelli, si favorisce solo il dilagare del Terrore, quello che oggi ha fatto strage a Stoccolma. Non ci dilunghiamo sul tema. Ci limitiamo a riportare il testo dell’appello di una campagna lanciata dalla Christian Solidarity International, autorevole organismo internazionale con sede a Zurigo ma attivo in diverse zone del mondo.

La campagna ha un titolo inequivocabile: Nessuna arma ai terroristi. E ha trovato alcuni sostenitori bipartisan nella Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti e, al Senato, l’adesione del senatore Rand Paul. Di seguito l’appello riportato sul sito ufficiale della ong. «Nessuno mette in dubbio la complessità delle sfide in tema di sicurezza che gli Stati Uniti stanno affrontando in Medio Oriente e nel resto del mondo. Tuttavia, i promotori della campagna Nessuna Arma ai Terroristi ritengono che in nessun caso si può considerare un’opzione legittima o un uso valido dei dollari provenienti dalle tasse degli americani, finanziare e armare al-Qaeda e altri gruppi che il governo degli Stati Uniti sa bene essere terroristi o collaboratori degli stessi». «Questo problema è particolarmente evidente in Siria, dove negli ultimi sei anni di conflitto i soldi delle tasse degli americani sono stati utilizzati, direttamente o indirettamente, tramite gli alleati degli Stati Uniti, per armare gruppi terroristi jihadisti, nel tentativo di rovesciare una classe dirigente laica e pluralista per sostituirla con un’altra, a supremazia sunnita, basata sulla sharia […]». «Ciò ha contribuito alla carneficina in corso in Siria (e nelle zone limitrofe, in particolare in Iraq), in particolare di persone e comunità non in linea con il programma ideologico dei terroristi: alawiti, cristiani, drusi, curdi e sciiti, yazidi e sunniti moderati». «Armare i terroristi in Siria e altrove contribuisce al genocidio in corso dei cristiani e delle altre minoranze religiose in Medio Oriente, promuove la violenza contro le donne, provoca la migrazione di massa dalla Siria verso gli Stati limitrofi e l’Occidente, ed accresce la minaccia terroristica in America e in Europa». Un appello che, dopo l’attacco alla base aerea siriana da parte degli Stati Uniti e l’attentato di Stoccolma suona più urgente che mai.

Trump si dimostra il nuovo “fantoccio” di Israele e dei gruppi di potere neocons di Washington, scrive Luciano Lago su "Controinformazione" il 7 aprile 2017. “Nessun bambino dovrebbe soffrire” come hanno sofferto quelli siriani: lo ha affermato Trump nel suo discorso alla TV. Ed ha aggiunto: “il bombardamento americano in Siria è nel “vitale interesse della sicurezza” degli Stati Uniti. La Siria ha ignorato gli avvertimenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”, ha sottolineato Trump. Ed ha chiesto al mondo di unirsi agli Usa “per mettere fine al flagello del terrorismo”. Mentre gli USA stanno uccidendo centinaia di bambini fra cui decine di questi a Mosul (bombardata una scuola a Mosul pochi giorni fa con 200 persone dentro), mentre l’aviazione USA bombarda in Siria ed in decine di altri luoghi maciullando centinaia di civili, nello stesso momento in cui le bombe a grappolo dell’aviazione USA e GB stanno devastando lo Yemen dove hanno prodotto oltre 15.000 morti fra cui almeno 2600 bambini, Trump si sofferma a parlare di “sofferenze di bambini siriani “e proferisce menzogne su Al-Assad e sull’Esercito siriano, accusando questi di crimini di guerra di cui Washington è il massimo responsabile. Lo spettacolo di questo presidente buffonesco e della sua ipocrisia è quanto meno vomitevole. Trump segue servilmente i “consigli” interessati del suo socio sionista, Benjamin Netanyahu, e si fa scudo delle stesse menzogne e degli stessi pretesti utilizzati prima da George W. Bush e poi dal suo predecessore Barack Obama. La sagra delle “armi di distruzioni di massa” e dei “malvagi dittatori” (da Milosevic a Gheddafi e poi ad Assad) sembra essere un copione di una rappresentazione teatrale fotocopiato e fatto proprio da i vari presidenti che si alternano alla Casa Bianca. Un copione consegnato all’apparato dei mega media perchè diffondano in tutto il mondo la solita mascheratura di menzogne e propaganda che accompagnano tutte le guerre americane. Si dimostra ancora una volta come tutti coloro che in buona fede hanno parteggiato e votato per Trump, sperando che lui rappresentasse un salutare cambiamento, come lui stesso annunciava, rispetto alla mania dell’America di fare guerre in giro per il mondo per soddisfare la voglia di profitti del complesso militar industriale, trascurando i problemi interni degli USA, hanno preso un “gigantesco granchio”. Sembra evidente che questi ingenui elettori sono stati ingannati da una cospirazione interna negli ambienti di potere di Washington per collocare un fantoccio di Israele alla Casa Bianca e far avanzare il programma di egemonia dell’elite di potere sionista e neocon in tutto il mondo. Il Trump pagliaccesco che “piange lacrime sui bambini siriani” è quello che, dal suo lussuoso resort sui campi di golf della Florida, ha ordinato l’attacco militare sulla Siria ed ha poi avuto l’impudenza di affermare che questo era necessario per “proteggere la sicurezza degli Stati Uniti e i bambini della Siria”. Evidente che Trump è invidioso del premio Nobel concesso ad Obama e vuole concorrere per ottenerne uno anche lui, prima che sia possibile. Vedrete che la giuria di Stoccolma non mancherà di concederglielo.

Trump ha dichiarato che la base aerea di Ash Sha’irat, a nord di Damasco, contro cui sono stati lanciati 60 missili Tomahawk, era stata prescelta come obiettivo in quanto risulta essere quella da cui gli aerei siriani erano decollati per lanciare l’attacco chimico, mascherando la colossale menzogna che fosse stata l’aviazione siriana ad effettuare un bombardamento chimico, quando è ormai accertato che le armi chimiche erano nel magazzino/fabbrica in possesso dei gruppi terroristi di Al Nusra appoggiati dall’Occidente e dall’Arabia Saudita. Il Trump che parla di una azione “per mettere fine al flagello del terrorismo” finge di ignorare che le uniche forze che combattono sul campo i gruppi terroristi sono quelle che Washington ha fatto bombardare, adesso e nel Settembre del 2016, quando l’Aviazione USA bombardò le posizioni dell’Esercito siriano (con oltre 60 morti), adducendo poi il fatto ad un “errore” dei piloti e favorendo, allora come adesso, l’avanzata dell’ISIS sulla zona. Il favoreggiamento dei gruppi terroristi jihadisti da parte degli USA è ormai cosa nota e comprovata, registrata persino nelle dichiarazioni registrate dell’ex segretario di Stato John Kerry, nessuno crede più da tempo alla favola degli USA che intervengono in Siria, in Iraq o in Libia, per” lottare contro il terrorismo”. Un nuova enorme “False Flag” per avere il pretesto di lanciare gli USA in un’altra delle tante guerre che potrebbe facilmente diventare la Terza Guerra Mondiale. Ancora una volta di rende evidente al mondo l’ipocrisia e l’indole criminale della dirigenza di Washington che, a qualsiasi costo, porta avanti i suoi programmi di egemonia sacrificando le sue vittime e seminando il caos e la distruzione, con il plauso dei suoi stati vassalli fra cui si distingue, come sempre, l’Italia dell’attuale Governo Gentiloni.

Trump bombarda la Siria, molto rumore per (quasi) nulla. Gli attacchi coi missili contro le forze di Assad non obbediscono a una strategia precisa, ma sono una mossa gattopardesca. Al massimo The Donald vuole dare un'idea di imprevedibilità, che potrebbe pagare nel medio termine, scrive Tommaso Canetta l'8 Aprile 2017 su “L’Inkiesta”. Dopo aver minacciato rappresaglia contro Assad per il bombardamento con armi chimiche su Khan Shaykhun dello scorso 4 aprile, Donald Trump è stato rapidissimo a passare all’azione. Una sessantina di missili Tomahawk sono caduti, a poche ore dall’annuncio, sulla base dell’aviazione siriana di Shayrat, da cui gli Usa sostengono sia partito l’attacco con il gas nervino. Un’azione che, secondo quanto affermato dagli Usa e secondo il parere degli analisti, non dovrebbe – ma il condizionale è d’obbligo con un presidente imprevedibile come Trump – preludere a un cambio di strategia americana in Siria. La rapida evoluzione degli avvenimenti ha creato una certa confusione. Subito dopo l’attacco col gas del 4 aprile la Casa Bianca aveva affermato, per bocca del suo portavoce, che la politica Usa verso la Siria e verso Assad non sarebbe cambiata. Poi invece Trump ha preso duramente posizione, condannando l’attacco e minacciando rappresaglia. A distanza di poche ore la vendetta è arrivata, con il bombardamento su Shayrat. Subito dopo il bombardamento però l’amministrazione repubblicana ha nuovamente fatto sapere che non intende cambiare la sua linea d’azione in Siria, né rimuovere con la forza il regime siriano. Allora a cosa abbiamo assistito? Cos’è successo davvero nelle ultime ore?

Secondo diversi esperti questo strike ordinato da Trump è più un’operazione di immagine che di sostanza. Per quanto riguarda specificamente la Siria si tratterebbe di una mossa gattopardesca, per cui si cambia qualcosa – per la prima volta i missili Usa colpiscono in Siria obiettivi del regime – perché non cambi nulla. Infatti è molto più importante per Trump, che ha sdoganato la permanenza al potere di Assad, punire eventuali superamenti della “linea rossa” sulle armi chimiche evitando che risuccedano in futuro, di quanto non lo fosse per Obama, che era dichiaratamente ostile al dittatore siriano (pur nel contesto del non-interventismo voluto dal presidente democratico). Ma una volta “impartita la lezione” ad Assad – e indirettamente alla Russia, così invitata a vigilare maggiormente sul proprio alleato – Trump sembra che voglia tornare allo schema precedentemente approvato, per cui non c’è un piano B rispetto alla permanenza del dittatore. Per quanto riguarda specificamente la Siria si tratterebbe di una mossa gattopardesca, per cui si cambia qualcosa – per la prima volta i missili Usa colpiscono in Siria obiettivi del regime – perché non cambi nulla. Ma questo bombardamento, secondo fonti vicine agli ambienti dell’intelligence, ha un valore che va al di là dello scenario siriano. Si tratta di una “comunicazione strategica” di Trump ai leader di tutto il mondo, che vuole testimoniare un cambio rispetto agli anni della precedente amministrazione. Adesso il presidente Trump – questo sarebbe il messaggio – è pronto a usare la forza in qualsiasi momento, con scarso preavviso e senza bisogno di mediazioni. Potrebbe non essere un caso che l’attacco sia avvenuto durante la visita negli Usa del presidente cinese Xi Jinping, anche considerato il recente surriscaldamento del dossier nord-coreano. E il messaggio è sicuramente stato sentito anche a Teheran.

Torniamo alla Siria. Il bombardamento con armi chimiche del regime – oramai le prove sono tali da fugare quasi qualunque dubbio sulla paternità - è stato quasi unanimemente ritenuto dagli osservatori come una mossa stupida sotto molteplici punti di vista. Se la pioggia di Tomahawk americani sarà l’unica sua conseguenza, Assad potrà ritenersi fortunato. Al momento questo sembra l’esito più probabile, perché gli Usa continuano a non avere (apparentemente) una strategia alternativa a quella russa per la Siria, la Turchia è sotto scacco e non può permettersi scarti nei confronti di Mosca e perché i sostenitori di Assad (Iran, Cremlino, Hezbollah etc.) non hanno un’altra carta su cui puntare al momento. Ma non è detto che la situazione non si evolva.

Gli elementi da tenere in considerazione, secondo gli esperti, per verificare che il quadro resti sostanzialmente invariato sono quattro.

Il primo, più banale, sarà l’assenza di altri strike americani nelle prossime ore. Le dichiarazioni degli ambienti militari americani che parlano di “un colpo soltanto” lasciano presagire che non dovrebbero esserci altri attacchi ma, come già detto, non si può esserne certi in uno scenario tanto fluido e con un presidente Usa tanto inaffidabile.

Il secondo è il rapporto Usa-Turchia. Se Ankara, che in queste ore ha fatto retromarcia sulle precedenti aperture alla permanenza di Assad, continuerà ad essere lasciata nell’angolo in cui si è infilata - un po’ da sola un po’ giocando (male) di sponda con Mosca - senza che le venga offerta una sponda, vuol dire che a Washington non interessa riaprire i giochi in Siria.

Terzo elemento è il rifornimento di armi, soldi e logistica ai ribelli siriani. Se gli Usa continueranno ad armare ed aiutare solamente le SDF (alleanza di sigle ribelli dominata dal YPG curdo), che al momento stanno macinando successi nell’avanzata verso la capitale siriana del Califfato, Raqqa, Assad può tirare un sospiro di sollievo. Le SDF e il regime hanno infatti degli accordi di non belligeranza e spesso hanno trovato, anche con la mediazione della Russia, soluzioni comuni. Se invece riprenderanno programmi americani di riarmo e addestramento di altre sigle ribelli, coinvolte direttamente negli scontri con le forze di Damasco, potrebbe essere il segnale di una volontà di Trump di impedire un consolidamento del regime. Un’ipotesi al momento ritenuta poco probabile dagli analisti, a causa della mancanza di soluzioni alternative ad Assad da un lato, e dall’altro a causa della visione politica di Trump, poco incline a invischiarsi nelle questioni interne della Siria (ad esempio decidere chi sono i ribelli “buoni” e chi i ribelli “cattivi”). Tutta la dinamica di questa vicenda lascia quindi per ora presagire un gran polverone nei prossimi giorni che, una volta placatosi, lascerà la situazione sostanzialmente inalterata rispetto a come era prima dell’attacco chimico del 4 aprile.

Quarto elemento, fondamentale, è il rapporto tra Casa Bianca e Cremlino. La Russia, dopo il bombardamento americano, ha preso posizioni molto dure parlando di “danni considerevoli” alle relazioni con gli Usa e di “aggressione a uno Stato sovrano”. Gli esperti sono però scettici sulla reale portata di queste esternazioni. Si tratterebbe di un gioco delle parti necessario, perché Putin non può perdere la faccia coi propri alleati e deve anche intestarsi il fatto che la rappresaglia Usa non vada oltre quest’unica azione. Di qui la necessità di fare la faccia cattiva. Molto più indicativo sarebbe, secondo le fonti vicine agli ambienti dell’intelligence, il preavviso che gli Usa hanno dato alla Russia sull’imminente attacco. Per prima cosa vuol dire che i canali di comunicazione ci sono, sono aperti e ben lubrificati. In secondo luogo bisognerebbe anche capire se quando gli Usa hanno avvisato c’era il pericolo che, qualora non lo avessero fatto, venissero colpiti involontariamente anche mezzi e uomini russi. Se così non fosse la preallerta data dagli Usa sarebbe ancor più un riconoscimento a Mosca del suo ruolo nell’area. In ogni caso lo scarso numero di morti (sei, per ora) tra le fila dell’esercito siriano testimonia che, così come Washington ha avvisato Mosca, Mosca ha avvisato Damasco, in modo da minimizzare i danni.

Tutta la dinamica di questa vicenda lascia quindi per ora presagire un gran polverone nei prossimi giorni che, una volta placatosi, lascerà la situazione sostanzialmente inalterata rispetto a come era prima dell’attacco chimico del 4 aprile. Non si può tuttavia escludere che la fluidità dello scenario siriano e l’intreccio di interessi di numerose potenze regionali e internazionali possa portare verso un’escalation. Tanto più pericolosa perché, almeno in apparenza, nata da episodi e non da una pianificazione strategica.

Non è stato Assad, scrive Giampaolo Rossi il 14 aprile 2017 su “Il Giornale”. Theodore Postol è uno scienziato del MIT di Boston. In quella che è una delle più importanti Istituzioni di Ricerca del mondo, Postol insegna Tecnologia e Sicurezza Internazionale; ha lavorato per anni con il Pentagono, è stato consulente della Cia ed ha ricevuto innumerevoli premi scientifici per la sua attività di ricerca nel settore tecno-militare. Già nel 2013, le sue analisi contribuirono a confutare la teoria dell’Amministrazione Obama secondo cui l’attacco chimico di Goutha alla periferia di Damasco, che produsse centinaia di morti, era stato causato dall’artiglieria siriana di Assad. Attacco che, ricordiamolo, aveva spinto Obama a dichiarare “superata la linea rossa” che apriva all’intervento militare Usa contro la Siria. Ma proprio le contraddizioni delle informazioni e la non certezza dell’inchiesta, spinsero il Presidente americano a retrocedere e, con l’aiuto della Russia, limitarsi ad imporre al regime di Assad la distruzione del proprio arsenale chimico; distruzione completamente avvenuta, secondo il monitoraggio delle organizzazioni internazionali.

Ora il prof. Postol interviene a confutare nuovamente la Casa Bianca, sul “presunto” attacco chimico a Khan Shaykun, nel nord della Siria nella provincia di Idlib.

Facciamo un passo indietro.

Tre giorni fa l’amministrazione Trump ha reso pubblico un documento di quattro pagine “declassificato” con le “valutazioni inequivocabili” dell’intelligence Usa, secondo cui sarebbe stata l’aviazione siriana ad usare le armi chimiche che hanno causato circa 80 morti e centinaia di feriti. Le immagini dei bambini morti o agonizzanti colpiti dal gas Sarin, hanno scosso l’opinione pubblica mondiale e spinto gli Usa ad attaccare Assad senza alcuna autorizzazione internazionale. In realtà il documento americano, riportato con enfasi impressionante da tutti i media occidentali, non prova minimamente che l’attacco chimico è stato opera del regime siriano. Lo dice, ma non lo prova. Nei giorni scorsi persino a noi che non siamo tecnici, quelle quattro pagine sono apparse quantomeno superficiali e dubbie. Le prove raccolte dagli americani si basano su fotografie satellitari ed intercettazioni (che però non sono mostrate), più una serie di (testuale): “report di social media pro-opposizione” e “video open-source”, cioè praticamente filmati presi da internet e materiale fotografico, prodotti ovviamente da chi era sul terreno e aveva agibilità nella zona colpita dal bombardamento. Bisogna ricordare che la zona interessata non è sotto il controllo di romantici “ribelli moderati”, ma sotto le formazioni mercenarie di Al Qaeda; sono loro ad aver girato i video e fatto circolare immagini che la Cia e i media occidentali hanno preso come base di conclusione. E noi stessi, avevamo sollevato il dubbio che forse, nessuna Commissione d’Inchiesta internazionale avrebbe preso il documento americano come prova per confermare l’accusa al regime siriano e legittimare un intervento armato. Ed è esattamente quello che scrive Postol: “il documento non fornisce la benché minima prova che il governo siriano sia stata la fonte dell’attacco chimico in Khan Shaykhun. L’unico fatto indiscutibile riportato nel dossier della Casa Bianca è l’affermazione che un attacco chimico di gas nervino si è verificato”. Postol è categorico: il rapporto della Casa Bianca “non contiene assolutamente alcuna prova che possa indicare chi è stato l’autore di questa atrocità”. Non solo, ma lo scienziato del MIT va ben oltre e analizza l’immagine che gli americani hanno individuato come prova del bombardamento chimico da parte di un aereo siriano: il famoso “cratere nella strada a nord di Khan Shaykun” con all’interno il presunto resto di bomba che avrebbe rilasciato il Sarin. Questa immagine riprodotta più volte sulla rete e ripresa sul mainstream, sarebbe per l’intelligence Usa la pistola fumante che inchioda Assad e il suo regime al crimine. Secondo il documento Usa, “i resti di munizione osservati presso il cratere e la colorazione attorno al punto di impatto sono coerenti con una munizione che si è attivata, ma le strutture più vicine al cratere non hanno subito danni che ci si aspetterebbe da un normale carico ad alto potenziale. Al contrario, hanno subito un danno più coerente con una munizione chimica”.

Secondo il prof. Postol è esattamente il contrario; questa immagine dimostrerebbe che “il rapporto della Casa Bianca contiene conclusioni false e fuorvianti”. Perché? Innanzitutto il munizionamento è un tubo apparentemente di 122 mm simile a quelli usati in artiglieria. Nel 2013 furono questi razzi modificati ad essere utilizzati per l’attacco chimico di Goutha. Di certo questo oggetto non ha nulla a che vedere con un bomba d’aereo. “Il tubo originariamente sigillato nelle due estremità si presenta schiacciato e con un taglio longitudinale (…) Ma la deformazione del manufatto indica che non è stato lanciato dal cielo”. Se il cratere e la carcassa contenente il Sarin “non sono una messa in scena” ma vere “come ipotizzato nella relazione della Casa Bianca”, allora secondo Postol “la munizione è stata quasi certamente messa a terra con un esplosivo detonante esterno su di essa che ha schiacciato il contenitore in modo da disperdere il carico di Sarin”.

Un’ipotesi, secondo il professore, è che “una lastra di esplosivo ad alto potenziale” sia stata posta “sopra una delle estremità del tubo riempito di sarin e fatta detonare (…) Poiché il Sarin è un gas incomprimibile” con la pressione “ha agito sulle pareti e sull’estremità del tubo causando una fessura lungo la lunghezza e il cedimento del tappo” Per capire questo meccanismo immaginiamo “di colpire un tubo di dentifricio con un grande maglio”. La relazione di Postol è poi suffragata da ulteriori prove fotografiche ed un’attenta analisi delle condizioni meteorologiche la mattina del presunto attacco chimico. Sorprende che questo report non abbia avuto il benché minimo risalto sui media. Postol non raggiunge conclusioni politiche. Da scienziato si limita a confutare le “presunte prove” poste da Washington; ma afferma che “nessun analista competente avrebbe omesso che il presunto contenitore di Sarin è stato con forza schiacciato dall’alto, e non è esploso dall’interno”.

Se la sua analisi è giusta, quello che si deduce è ancora più sconvolgente. La versione americana dice che i siriani hanno effettuato un bombardamento chimico. I siriani dicono che loro hanno bombardato con armi convenzionali e che la strage chimica potrebbe essere determinata da gas che i ribelli nascondevano nei magazzini colpiti dalle bombe. Qui ci troviamo di fronte ad una versione ancora più sconvolgente: non sono stati i siriani e non si è trattato di un incidente. Qualcuno da terra ha volutamente fatto esplodere un contenitore di Sarin, perché colpisse la popolazione civile. Questo inoltre spiegherebbe il sostanziale numero limitato di vittime che nel caso di un bombardamento chimico aereo sarebbero state di gran lunga maggiore. Ma chi può aver fatto questo? Innanzitutto qualcuno che ha completa agibilità della zona. E chi detiene il controllo della zona?

Quest’ultima immagine è una cartina operativa del fronte di Hama, risalente al 31 marzo scorso (qualche giorno prima del bombardamento) pubblicata sull’account twitter @PetoLucem. Come si vede l’offensiva scatenata dai ribelli nelle settimane precedenti era stata neutralizzata e l’esercito siriano non solo aveva riacquistato le posizioni ma stava premendo sulla linea difensiva del nemico in procinto di collassare. La provincia di Idlib, dove è avvenuto la strage chimica, è a circa 100 km più a nord di questo fronte ed è sotto il controllo totale dei gruppi legati ad Al Qaeda. Perché i siriani, in un momento in cui stavano chiudendo in una sacca i ribelli sfondando le loro linee di difesa, dovevano fare una strage chimica sulla propria popolazione, in un posto sperduto senza alcuna ricaduta militare sul fronte operativo? O meglio, stante questa situazione, chi aveva interesse a bloccare con qualsiasi mezzo possibile, l’offensiva di Assad scatenando una strage che avrebbe messo sotto accusa il regime e comportato l’intervento internazionale? E infatti, come avevamo anticipato prima dell’intervento Usa, questo strano bombardamento chimico è servito proprio a colpire Assad e salvare i ribelli di Al Qaeda. Se le analisi del Prof. Postol sono vere, e non è stata una bomba aerea a sprigionare il gas che ha ammazzato gli innocenti, ci troveremmo di fronte ad una clamorosa false flag. E questo spiegherebbe perché i russi fin dal primo giorno hanno chiesto l’istituzione di una Commissione indipendente che indagasse su ciò che è realmente accaduto; commissione che americani ed europei si sono rifiutati di creare, convinti, come sempre, che la sola verità possibile sia quella dell’Occidente. Vogliamo sperare che tutto questa ipotesi sia falsa e che la narrazione occidentale sia quella vera: Assad è un crudele dittatore che non si fa scrupoli di gasare il proprio popolo e noi siamo i buoni che corrono a salvare le vittime. Ma dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia allo Yemen, ci siamo resi conto che le nobili democrazie sanno mentire più e meglio dei peggiori regimi dittatoriali.

Le Iene Show. Puntata del 22 novembre 2016. Matteo Viviani ha intervistato l’ex agente dei servizi segreti noto come Agente Kasper. L’uomo ha ripercorso con la Iena la sua carriera nell’intelligence, le sue esperienze da infiltrato e le operazioni internazionali a cui ha preso parte nel corso della sua vita.

Supernotes, la misteriosa storia delle banconote da 100 dollari false ma… buone. La vicenda dei supenotes, biglietti da cento dollari stampati con gli stessi cliché utilizzati dal governo americano, è degna delle migliori spy story. Le banconote con la faccia di Benjamin Franklin sono quelle con il valore più alto ma anche le più diffuse fuori dagli Stati Uniti. E da almeno trent’anni il Dipartimento del Tesoro americano dà la caccia a questi esemplari praticamente perfetti, scrive il 25 novembre 2016 Mirko Bellis su "FanPage". La diffusione dei supernotes o superdollari risale all'epoca di Reza Pahlavi, lo Scià di Persia. In quegli anni, Washington aveva concesso a Teheran il privilegio di stampare dollari e per questo aveva consegnato all'Iran alcuni clichè (le matrici con le quali si "producono" i soldi) e numeri di serie. Il cambio di regime dopo la rivoluzione di Khomeini nel 1979, però, mandò all'aria i piani americani e a Teheran avrebbero continuato a stampare le banconote americane con lo scopo di minare la fiducia internazionale verso il biglietto verde. Da allora, gli agenti segreti americani sono sguinzagliati in tutto il mondo alla ricerca dei superdollari. La scoperta dei primi biglietti contraffatti fu fatta nel lontano 1989 in una banca a Manila, nelle Filippine. Secondo altre versioni, invece, il primo esemplare di supernote risale al 1990 (numero di serie 14342) in Medio Oriente, precisamente in Libano nella valle della Bekaa, al confine siriano. Presto la diffusione del biglietto da cento dollari contraffatto si espande in tutto il mondo. Nel 2006, Michael Merritt, un ufficiale del servizio segreto degli Stati Uniti, consegnò al Senato il frutto delle sue indagini e, già dieci anni fa, il traffico dei supernotes coinvolgeva più di centotrenta Paesi. Una relazione del Congresso degli Stati Uniti del 2009 incolpò direttamente il governo della Corea del Nord di essere dietro la stampa dei superdollari. Le banconote contraffate – secondo le informazioni contenute nel dossier – sarebbero servite al regime comunista per finanziare operazioni all'estero e l’importazione di prodotti. Nonostante Pyongyang abbia sempre negato questo tipo di accuse, per gli Stati Uniti sono state individuati almeno quarantacinque milioni di supernotes stampati dalla Corea del Nord. Per gli 007 americani, la produzione delle banconote da cento dollari da parte dei nordcoreani iniziò nel 1998; il Banco Delta Asia (Bda) di Macao, in Cina, aveva invece il compito di riciclare i profitti generati dalla falsificazione. Washington stimava che il Paese asiatico avesse guadagnato dai quindici ai venticinque milioni di dollari all'anno con i supernotes. Per cercare di contrastare il fenomeno, nel 2007, il Tesoro americano inserì il Banco Delta Asia nella lista nera con la proibizione di eseguire operazioni in dollari. E il Washington Post in un’inchiesta del 2009 scoprì che un generale nordcoreano, O Kuk-Ryoll, era la figura chiave nella contraffazione delle banconote americane. Secondo le fonti anonime dei servizi segreti riportate nell'articolo, esisterebbero diciannove versioni di supernote. La loro produzione avverrebbe in una stamperia a Pyongsong (a soli trenta chilometri dalla capitale) controllata direttamente dal partito comunista nordcoreano di cui, ancora adesso, il generale O Kuk-Ryol rimane un potente esponente.

Altre versioni, però, smentiscono che la Corea del Nord sia il responsabile della diffusione dei supernotes in quanto lo ritengono un Paese privo della tecnologia necessaria per falsificare i dollari.  Al contrario, per alcuni esperti nella fabbricazione di banconote, sarebbe la stessa Cia a stampare i biglietti. Ovviamente siamo nel campo delle ipotesi, ma, come ha scritto il giornalista tedesco Klaus W. Bender del Frankfurter Allgemeine in The Mystery of the Supernotes, questi dollari servirebbero a finanziare le operazioni clandestine della Cia nelle aree di crisi evitando così il controllo del Congresso degli Stati Uniti. Come dimostra anche la vicenda del nostro connazionale Vincenzo Fenili, un ex agente segreto rinchiuso per 373 giorni in un lager in Cambogia, l’ambasciata della Corea del Nord nella capitale cambogiana nasconderebbe diversi bancali carichi di dollari “veri, ma falsi”.  Secondo quanto raccontato da Fenili nel libro Supernotes di Luigi Carletti e anche in un servizio mandato in onda dalle Iene, la Cia si servirebbe proprio del regime nordcoreano per produrre i supernotes.

Gli Usa hanno comunque cercato di porre rimedio alla circolazione di queste banconote contraffate. Nell'ottobre del 2013, la Federal Reserve annunciò l’emissione di un nuovo biglietto da cento dollari. Per rendere la vita più difficile ai falsificatori furono introdotte una serie di misure hi tech, tra cui una banda tridimensionale blu e una campana disegnata dentro un calamaio. Ma sembra che tutti questi sforzi non siano riusciti ad impedire la diffusione dei supernotes. Il 16 dicembre del 2015, all'aeroporto di Linate, un antiquario italiano è stato scoperto in possesso di due esemplari di supernotes. E lo stesso agente Kasper – il nome sotto copertura di Fenili – a riprova del suo racconto mostra due biglietti da cento dollari con le ultime innovazioni anti falsificazione. Come la Corea del Nord sia entrata in possesso dei clichè necessari a stampare i dollari fuorilegge rimane ancora un mistero ma di sicuro la circolazione di queste banconote non si è mai interrotta.

Nord Corea, l’agente Kasper prigioniero dei dollari sporchi. Agente Kasper, Luigi Carletti “Supernotes” Mondadori. Lo Stato canaglia stampa banconote false che la Cia usa per finanziare operazioni clandestine, scrive il 17/04/2014 Alberto Simoni su "La Stampa”. La fabbrica dei dollari sta in Nord Corea, macina banconote dello Zio Sam per miliardi di dollari. «Centoni» falsi ma veri con tanto di volto di Benjamin Franklin. Macchina, carta, i rarissimi marcatori... Che ci fanno fuori dagli Stati Uniti, lontani migliaia di miglia dal Bureau of Engraving and Printing? Producono «supernotes». Le zecche americane non sono due bensì tre. La terza se ne sta nascosta a Pyongsong, la «città chiusa» a due passi da Pyongyang, batte moneta solleticando i desideri del dittatore nordcoreano di turno e fornisce cash in abbondanza ai servizi segreti Usa per le loro operazioni clandestine. Dollari falsi, ma verissimi, non esistono nei budget, esistono eccome sul mercato. Sono made in Corea anziché in Usa. E custoditi in bancali nei sotterranei dell’ambasciata nordcoreana a Phnom Penh. I nordcoreani stampano, i cambogiani a modo loro custodiscono, gli americani tirano i fili. I custodi della democrazia mondiale e lo Stato canaglia si minacciano ma combuttano e fanno affari.

L’intrigo internazionale è smascherato da un ficcanaso italiano che per aver visto troppo, chiesto troppo, parlato (forse) troppo, è andato all’inferno per tredici mesi prima di tornare a respirare l’aria di casa, colline della Toscana, una moglie e una bimba piccola. Ebbene chi è questo ficcanaso? Il suo nome è Agente Kasper, ma potremmo chiamarlo Hornet, Comandante Carlos e altro ancora, pilota Alitalia (e non solo) agente sotto copertura dell’intelligence italiana per 30 anni, prestato talvolta alla Cia, titolare di un bar a Phnom Penh da dove ha condotto l’indagine che lo ha portato ad annusare le supernotes e a firmare così la sua condanna all’inferno, le carceri cambogiane e soprattutto il lager di Prey Sar. Ci resta 373 giorni nelle carceri, marzo 2008-aprile 2009. «L’inferno esiste e io ci sono stato», scrive. Volevano farlo sparire, l’avidità di carcerieri che bramano i soldi di quell’occidentale nerboruto la cui famiglia da lontano può pagare per garantirgli che l’inferno sia meno inferno, lo tiene in vita. Scrive un diario, pagine fitte, divora quaderni e matite.

Sono questi appunti da Prey Sar che diventano un libro, ovviamente intitolato Supernotes scritto con il giornalista Luigi Carletti. Quasi 400 pagine di suspense, emozioni, imprevisti, poche pause, pudici indugi ai sentimenti. Il lager, pare di vederlo, coperto di fango, le piogge incessanti del Sud Est asiatico che anziché lavare, insozzano. La cella d’isolamento, buco interrato in mezzo al piazzale del carcere che quando diluvia Kasper deve aggrapparsi alla grata e guardar in su, il cielo, per non essere inghiottito dall’acqua. Vermi, larve non uomini in quei lager che Kasper racconta. Pugni, coltelli, morte, risse, affari e traffici, secondini talvolta compiacenti talvolta ansiosi di sangue. Kasper da qui ci racconta la sua vita, il suo essere (stato) 007, uomo d’intelligence sempre in bilico fra vita e morte, e fra vero e falso. Vecchi missioni e l’ultima, maledetta, a caccia di Supernotes. Non dà risposte, non anticipa conclusioni, vaga insieme al lettore fra le pagine in cerca della verità. Ci arriva vicino. Coglie il senso, ma Kasper non dà l’ultima zampata. Il perché è successo tutto ciò è una risposta abbozzata, biascicata. Nemmeno Kasper lo sa.

E’ egli stesso un mistero. Certo che esiste, che è vero, il suo nome compare in inchieste e nei registri di Regina Coeli dove finisce per 4 giorni nel 2009, gli amici sono in carne ed ossa, le persone citate note (come l’allora procuratore Pier Luigi Vigna che guidò due operazioni contro il narcotraffico, «Pilota» e «Sinai» e Kasper era della partita come affiliato ai Ros). E la sua storia? Possibile che per 13 mesi un cittadino italiano sia evaporato in un lager cambogiano e non vi sia uno straccio di azione del nostro governo su quello di Phnom Pehn? Solo un avvocato, una misteriosa pentita, qualche amico di Kasper nei Ros, una lettera dell’allora ministro Frattini ai famigliari («Seguiamo il caso....»), uno strano console faccendiere francese e Marco Lanna, console onorario italiano in Cambogia... Pochissimo. Eppure è anche questo intreccio fra verità e fiction che tormenta il lettore, «sarà tutto vero?».

Vera la storia, esagerati i dettagli? Il contrario? Chissà. Pistole, droga, agenti della Cia e dell’Fbi, inseguimenti, esecuzioni, il cinese colto, il contractor tedesco, il boss thailandese che naviga nell’oro, il senatore cambogiano buono per necessità (prende mazzette ma avverte Kasper del pericolo), il lager e l’italiano ficcanaso con l’amico americano Clancy, uomo Cia ovviamente. Atmosfera da Alias, il telefilm di spie con la bellissima Jennifer Garner (ora signora Affleck) che si sdoppia in centinaia di persone per combattere i nemici. Ma almeno lì, in tv, è finzione c’è il bene e c’è il male. Qui invece c’è Kasper con i suoi giochi di specchi. Vera o falsa? Accontentiamoci della storia. Strepitosa. 

La Fabbrica dei dollari, scrive Carlo Bonini il 23 marzo 2014 su "La Repubblica". Per tredici mesi, dal marzo 2008 all'aprile 2009, un cittadino italiano ha attraversato l'inferno della prigionia in Cambogia. In una caserma, quindi in un ospedale lager, infine nel campo di concentramento di Prey Sar, alle porte di Phnom Penh. Chi lo aveva spinto in quell'abisso — «uomini dell'intelligence americana» che lo consegnano ai servizi cambogiani con «un'accusa farlocca» di riciclaggio, racconta lui — aveva deciso che non dovesse uscirne vivo e che il «segreto» che aveva scoperto se ne andasse con lui. Un segreto — spiega oggi — chiamato «Supernotes», banconote da 100 dollari «vere ma false», stampate con macchine e clichet «autorizzati» niente di meno che in Corea del Nord, con cui l'intelligence americana paga clandestinamente ciò che l'opinione pubblica non può e non deve conoscere. Regimi canaglia, narcotrafficanti e tutto ciò che si può e si deve pagare al mercato nero della sicurezza nazionale.

Sentite un po'. «Le zecche americane del Bureau of Engraving and Printing che stampano banconote non sono due, ma tre. La terza — macchina, carta e tutto il resto, inclusi i rarissimi marcatori — non si trova sul territorio statunitense, bensì in Corea del Nord. Il Paese del dittatore pazzo che gioca con l'atomica. Delle esecuzioni di massa. Delle minacce e della censura. Lo Stato canaglia nemico degli Usa. Talmente canaglia che nessuno può andare a ficcarci il naso. Sono americani quelli che fanno girare le ruote del dollarificio. Sono loro a gestire il traffico di valuta. A utilizzarne i proventi colossali. Americani. Quale che sia la loro sigla. Quale che sia il cappello che si mettono per l'occasione. La struttura per la stampa dei dollari è localizzata nei dintorni di Pyongsong, una città di centomila abitanti a nord-est della capitale Pyongyang. La chiamano "la città chiusa". Gli stranieri non possono entrarvi. La struttura fa parte della Divisione 39 dei servizi segreti nord-coreani. La Divisione 39 gestisce i fondi riservati del leader coreano. Una dotazione stimata in circa cinque miliardi di dollari». Insomma, «il dittatore nord-coreano minaccia gli Usa e nel frattempo incassa una robusta percentuale nella produzione di Supernotes. Dal canto loro, Cia, Nsa e le altre agenzie finanziano le proprie attività con fondi che i bilanci statali non potrebbero mai garantire».

Ebbene, di questo cittadino italiano, del buco in cui è finito e del segreto che dice di custodire, per tredici mesi, nessuno sembra voglia davvero occuparsi con convinzione. La sua storia non affaccia nelle cronache. Il suo caso semplicemente non esiste. L'allora ministro degli Esteri Franco Frattini scrive una lettera ai familiari in cui genericamente li rassicura sull'impegno della nostra diplomazia nel risolvere quello che viene classificato come l'arresto di un cittadino italiano residente all'estero in forza di un provvedimento di altro Paese straniero (gli Usa) per riciclaggio e reati fiscali. Il «cittadino» deve dunque cavarsela da sé. Dalla sua, ha un'avvocatessa caparbia, Barbara Belli, una donna che lo ama, Patty, e un'anziana madre che vive a Firenze, grazie alle cui rimesse in contanti attraverso Money Transfer («Alla fine, circa 250mila euro versati in più tranches», dice mostrando le ricevute di pagamento), compra la propria sopravvivenza nel lager in cui è rinchiuso e dove viene regolarmente pestato a sangue. Perché quel denaro, per i suoi aguzzini cambogiani, è una fortuna a cui non si possono voltare le spalle. Poi — è appunto l'aprile del 2009 — il nostro riesce a evadere dal suo inferno e a raggiungere l'Italia. Dove, tuttavia, lo attende un mandato di cattura per un'accusa di bancarotta fraudolenta. Si costituisce nel carcere di Regina Coeli, a Roma, dove resta per quattro giorni e viene interrogato dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dal pm Francesco Ciardi («Capaldo era convinto che fossi al centro dei misteri d'Italia»). Una volta scarcerato, si esilia in una casa di campagna dove getta in un baule il diario sporco di sangue e sudore della sua prigionia, si mette a coltivare gli ulivi, apre una palestra di arti marziali frequentata da ex appartenenti a corpi militari di élite, si tiene in allenamento con qualche lancio in paracadute, diventa padre di una bambina e trascorre notti insonni inseguito dagli incubi di ciò che ha attraversato e dal fantasma del suo passato. Fino a quando non cerca e rintraccia un giornalista che si era occupato di lui, Luigi Carletti. Gli racconta la sua storia, ora scritta in un libro su cui la la Mondadori scommette molto: Supernotes. Quel cittadino italiano nel suo libro di memorie si fa chiamare "Agente Kasper". È un uomo controverso e la sua storia promette di suscitare un vespaio.

In una palazzina liberty di Roma, in un ufficio illuminato dal primo sole della primavera, Kasper, 55 anni, sorride fasciato da una tshirt aderente blu e pantaloni verde cachi dalle ampie tasche che ne disegnano il corpo massiccio e atletico. Sul bicipite destro fa mostra di sé una grande tatuaggio. Un gladio coronato dal motto unus sed leo. All'anagrafe, Kasper ha un nome e un cognome. Che Repubblica conosce bene per essere stato all'onore delle cronache negli anni '90 e ancora nei giorni della sua permanenza a Regina Coeli nel 2009. Un nome e un cognome che Kasper e la Mondadori chiedono che non venga reso pubblico. «Il mio nome non ha importanza — dice lui —. La mia vita è cambiata. Sono diventato padre. Con quel mondo ho chiuso. Mi importa solo che un giorno mia figlia, digitando su Google, non pensi che suo padre è stato quello che hanno scritto di lui i giornali. Cose del tipo, "un ex di Avanguardia nazionale che negli anni della militanza studentesca andava in giro con un dobermann" e che certa magistratura ha fatto pensare che fossi, infilandomi anche in golpe da operetta. Mentre la verità è solo che da ragazzo io ero di destra e da adulto ho fatto una vita che non poteva essere raccontata. In fondo, il libro serve a svelare una verità che altrimenti sarebbe morta con me». Quel mondo è il luogo delle ombre e degli specchi che chiamiamo intelligence. Dove nulla è fino in fondo vero o falso. E dove, soprattutto, nulla è mai ciò che appare. Una regola che vale anche per Kasper.

Dice di sé: «Ho lavorato per il mio Paese come agente sotto copertura dall'inizio degli anni '80, subito dopo essermi congedato da carabiniere. Prima per il Sismi, poi per il Ros. Il mio lavoro di copertura era pilota di aereo per compagnie civili. L'Ati prima, L'Alitalia poi, fino al '98. Per il mio operato ero stato proposto per una medaglia al valor civile che non mi è stata mai consegnata». Agente sotto copertura, dunque. E tuttavia, assolutamente irregolare. Kasper non risulta sia mai stato incardinato nel nostro Servizio mi-litare, né nel Ros dei carabinieri, per il quale ha comunque partecipato a due operazioni contro il narcotraffico ("Pilota" e "Sinai") istruite dall'allora procuratore di Firenze, Pierluigi Vigna, e di cui è traccia documentale in sentenze passate in giudicato. «Nulla di più, nulla di meno. Dall'operazione Sinai in poi, il Ros non ha più avuto rapporti operativi con Kasper. Nei carabinieri Kasper ha svolto il servizio di leva e i carabinieri sono un organismo di polizia giudiziaria che opera su direttiva della magistratura, non sono un Servizio segreto», dicono oggi al comando del Raggruppamento speciale dell'Arma. «Non potevo che essere un irregolare — osserva lui — perché certe cose possono farle solo gli irregolari. Né ho mai manifestato l'intenzione di diventare effettivo alla nostra intelligence. Sarei finito a marcire dietro una scrivania. E non era quella la vita che volevo».

La vita che Kasper voleva la racconta nel suo Supernotes. Roba da arditi. Pistole, stupefacenti, agenti della Cia, del Fbi o semplicemente ex spioni che nella Ditta sono stati per poi mettersi in proprio e diventare free-lance dell'intelligence. Volti e gesti stravolti dall'adrenalina nei diversi angoli del globo. Un plot in cui il lettore non ha molta scelta. Credere o meno a ciò che legge. Che i dollari della vergogna, falsi ma veri, esistano («Li ho visti con i miei occhi»), che il governo abbia abbandonato questo suo cittadino perché scomodo. Non fosse altro perché dagli atti ufficiali della nostra magistratura e della nostra diplomazia risulta un racconto capovolto che suona così: Kasper viene arrestato su richiesta dell'Fbi perché accusato di frode informatica, uso di documenti falsi e di aver riciclato quattro milioni di dollari, viene assistito dalla nostra ambasciata a Bangkok anche attraverso il console a Phnom Pehn, visitato e monitorato nel periodo della sua prigionia e quindi regolarmente rilasciato dalle autorità cambogiane con un visto in uscita che gli ha consentito di raggiungere Vienna in aereo.

Luigi Carletti, il giornalista che di Kasper ha raccolto le memorie, dice: «Si può pensare quel che si vuole della storia che mi ha raccontato. Ma un fatto è certo. Tutti i procedimenti contro di lui sono improvvisamente evaporati. Non se ne sa più nulla. In Italia, in America, in Cambogia. Nessuno lo ha più cercato. Forse perché quelle accuse erano strumentali. O no?». Kasper sorride. «Voglio pensare che devo la mia vita alla buona sorte e a un amico come l'ex comandante del Ros, il generale Ganzer. Che ci sia stato lui dietro la mia fuga da Prey Sar». Ganzer, oggi in pensione, schiarisce la voce: «Nel '98, dissi a Kasper che essendo stato esposto a un grosso rischio con le operazioni Pilota e Sinai, la sua collaborazione con il Ros doveva ritenersi conclusa per sempre. Da allora, in modo del tutto autonomo, Kasper si è prima messo nei guai con agenti del Nocs e della Finanza. Poi ha aperto un bar in Cambogia, dove è finito in carcere su rogatoria americana. In quei tredici mesi, l'unica cosa che feci, fu attivare la nostra Direzione Centrale dei Servizi Antidroga perché l'addetto a Bangkok e il nostro console in Thailandia si sincerassero di quanto stava accadendo. Ho visto Kasper l'ultima volta quando si è costituito al Ros nel 2009 per essere accompagnato a Regina Coeli. Mettiamola così. Kasper è un uomo intelligente ma anche molto avventuroso». Carlo Bonini, 23 marzo 2014. 

ANATOMIA DI UN PAZZO. Kim Jong un, la vita e gli orrori del dittatore della Corea del Nord: mentre il "traditore" veniva sbranato dai cani..., scrive il 17 Aprile 2017 Maurizio Stefanini su "Libero Quotidiano”. Se l'attuale dittatore comunista della Corea del Nord, Kim Jong-un, sembra un pazzo criminale, tenete conto della famiglia da cui proviene.

Kim Il-sung, il fondatore della Dinastia e nonno del Kim attuale, in realtà si chiamava Kim Song-ju. Prese il nome di un leggendario comandante della Resistenza dopo l'occupazione giapponese del 1910, quando lui era ancora un bambino, per aureolarsi del prestigio dell'eroe. Emigrato da piccolo in Manciuria con la famiglia per sfuggire a una carestia, fu arruolato dai comunisti cinesi in una milizia di ausiliari coreani, che poi passò con i sovietici. Dall' Armata Rossa fu messo alla testa del Paese, dopo che nel 1945 ne aveva occupato la parte Nord. Voleva vivere 120 anni e per questo aveva istituito un «comitato per la longevità» che praticava esperimenti dietetici su persone che avevano la stessa sua età e costituzione, in modo da potergli somministrare quegli alimenti e quelle vitamine che avevano dato i risultati migliori. Morì comunque nel 1994 a 82 anni, di infarto. Ma tuttora secondo la Costituzione è il «Presidente Eterno» della Corea del Nord, e con suoi discorsi registrati continuano a iniziare tutti gli appuntamenti ufficiali più importanti.

Il figlio Kim Jong-il ha avuto infatti solo il titolo di Leader Supremo, mentre il nipote Kim Jong-un è il Grande Successore. Sempre in onore di Kim Il-sung in Corea del Nord è l'anno 105, poiché il «Grande Leader» era nato nel 1912, proclamato anno 0 dell'«era rivoluzionaria». «Kimilsungia» è stato battezzato il fiore nazionale, depositato in mazzi davanti alla grande statua di bronzo di 35 metri di altezza del «Sole della Patria» (altra definizione ufficiale). Tutti i visitatori stranieri per ottenere il visto devono impegnarsi a recarsi davanti al monumento per inchinarvisi.

La bomba atomica, però, la Corea del Nord l'ha avuta il 9 ottobre 2006 con Kim Jong-il: un ometto che per nascondere la sua bassa statura andava in giro con i tacchi e la pettinatura gonfia, e che per paura dell'aereo viaggiava solamente in treno. Aveva ragione di temere: in treno è infatti morto (pure lui di infarto). La propaganda di regime oltre a definirlo «genio del XXI secolo» gli attribuiva il potere taumaturgico di controllare la nebbia e gli elementi, ma lui personalmente alle smanie salutiste del padre preferiva la buona tavola. In particolare andava matto per le aragoste che, mentre nel Paese infuriava la carestia, si faceva mandare vive dalla Russia per via aerea e che esigeva di mangiare con posate d' argento. E amava anche il vino, di cui una volta durante un vertice col presidente sud-coreano Kim Dae-jung riuscì a scolarsi ben 10 bicchieri. Per festeggiare il suo compleanno del 1998 riuscì a spendere 100 milioni di dollari. È morto nel 2011 a 70 anni lasciando in eredità a Kim Jong-un oltre al potenziale nucleare anche un arsenale chimico stimato il terzo del mondo.

Nato ufficialmente l'8 gennaio del 1982, in realtà Kim Jong-un era solo il terzo dei figli maschi di Kim Jong-il. Ma il primogenito Kim Jong-nam nel 2001, a trent' anni fu arrestato all'aeroporto giapponese di Narita mentre cercava di entrare con un falso passaporto della Repubblica Dominicana: per sua stessa ammissione, nell' intento di visitare il parco Disneyland di Tokyo. Mentre Kim Jong-chul, classe 1981 e studi in un collegio svizzero, nel 1994 era stato fotografato con una zazzera da hippy, e nel 2006 era andato in Germania, anche lui sotto falso nome, per vedere i mondiali e assistere a un concerto del suo idolo Eric Clapton. Insomma, entrambi apparivano troppo occidentalizzati.

Kim Jong-un poté dunque diventare il capo di Stato più giovane del mondo perché il più somigliante al padre e al nonno come carattere. Al potere, però, ci si è accorti che addirittura li batteva: nella fantasia con cui manifestava la crudeltà di famiglia. Dai funzionari e ministri giustiziati per essersi appisolati durante i suoi discorsi, alla famiglia dello zio Jiang Song-thaek sterminata dopo un presunto golpe probabilmente consistito solo in qualche dissenso col nipote. Quanto allo stesso Jiang, secondo una voce non controllabile assieme a cinque stretti collaboratori sarebbe stato buttato nudo in una gabbia dove li aspettavano 120 cani, a digiuno da tre giorni. In stile Nerone o Caligola, lui avrebbe assistito allo spettacolo assieme ad altri dignitari. Infine, c' è stato il recente brutale omicidio del fratello Kim Jong-nam in Malaysia. Anche Kim Jong-un ha studiato in Svizzera. Lì ha imparato inglese, francese e tedesco e si è appassionato a videogame e basket.

Da studente passava ore a disegnare il suo idolo Michael Jordan e all'amore per la pallacanestro si deve un invito in Corea del Nord all' ex-campione Usa Dennis Rodman, cui si devono alcune informazioni su una biografia che le fonti ufficiali ci consegnano scarna e imprecisa. È stato Rodman a rivelare che la sua vera data di nascita sarebbe l'8 gennaio 1983 e anche che ha una figlia. In Corea del Nord Kim Jong-un ha preso due lauree in Fisica e all' Accademia Militare: non si sa quanto meritate, sembra che in Svizzera abbia sempre avuto voti piuttosto mediocri. Come il padre, ama la vita lussuosa: è sempre Rodman ad aver testimoniato che la sua isola privata «è come le Hawaii o Ibiza, ma ci vive solo lui». Nel 2012 fu fotografato con una borsa di Dior il cui valore era pari allo stipendio che il coreano medio prende in un anno. Maurizio Stefanini

Sorpresa! Ora Trump gioca a fare la guerra e i “sinceri democratici” sono tutti con lui. Già dimenticato il Trump del muslim ban, e quello del muro contro il Messico. Bastano un po' di missili contro Assad, la superbomba in Afghanistan, e la voce grossa con la Corea del Nord, e The Donald diventa simpatico a tutti. Anche ai democratici, scrive Fulvio Scaglione il 18 Aprile 2017. Puoi girarla come ti pare ma la sostanza è questa: chi vuole diffondere la democrazia ama la guerra. Basta vedere quel che succede al povero Donald Trump. L’establishment democratico e parte di quello repubblicano, uniti nella pratica dell’unica politica estera che gli Usa abbiano da decenni, ovvero la cosiddetta “esportazione della democrazia”, gli hanno messo i ceppi ai piedi. Il primo con la storia dei rapporti illeciti con la Russia di Vladimir Putin, che ha precipitato Trump, presidente democraticamente e regolarmente eletto, in una condizione quasi eversiva. Un po’ come se da noi i servizi segreti e i carabinieri cominciassero a indagare sul presidente Mattarella e lo comunicassero al Parlamento e ai cittadini tutti, andando in Tv e facendosi intervistare dai giornali. Il secondo facendogli capire che nemmeno la quota repubblicana di voti è garantita. Caso tipico la mancata abrogazione dell’Obamacare, la riforma del sistema sanitario voluta da Barack Obama e diventata legge nel 2010: al momento di votare, il Partito repubblicano (che ha sempre detestato la riforma ed è maggioranza al Congresso) si è tirato indietro, lasciando Trump col cerino acceso in mano. Ora, Trump forse è politicamente sprovveduto ma fesso proprio no. Ha capito la lezione e si è messo con la prua al vento. Ha approfittato del presunto attacco chimico di Bashar al-Assad per lanciare un po’ di missili sulla Siria e fare la voce grossa con la Russia. Poi ha usato una delle 16 superbombe da 9.800 chili dell’arsenale Usa per colpire i ribelli in Afghanistan. Infine ha mosso la flotta contro la Corea del Nord e ha spedito il suo vice, Mike Pence, in Corea del Sud a far capire che gli Usa sono più che pronti all’intervento armato. Cioè a una delle vecchie care “guerre preventive” così proficue negli anni di George Bush junior. Trump ha capito la lezione e si è messo con la prua al vento. Ha approfittato del presunto attacco chimico di Bashar al-Assad per lanciare un po’ di missili sulla Siria e fare la voce grossa con la Russia. Poi ha usato una delle 16 superbombe da 9.800 chili dell’arsenale Usa per colpire i ribelli in Afghanistan. Infine ha mosso la flotta contro la Corea del Nord. In tutto questo, com’è ovvio, c’è molto teatro. L’attacco missilistico contro la base dell’aviazione siriana è stato portato dopo aver avvertito i russi, ha fatto pochi danni e quasi metà dei missili è finita fuori bersaglio. Ed è certo che la marina Usa non è così facilona. La superbomba è esplosa in Afghanistan ammazzando un po’ di ribelli ma non ha cambiato di una virgola lo stato delle cose. Da anni talebani & C. allargano la propria zona d’influenza e il Governo legittimo ormai controlla la capitale Kabul e poco altro. La situazione è sempre più critica, gli americani non riescono ad andarsene e nel 2016, come ci dice l’Unicef, in Afghanistan c’è stato il record di vittime civili dal 2001. Però, certo, la superbomba ha fatto un sacco di scena. E poi c’è la Corea del Nord. Trump avrà davvero il coraggio di tentare un colpo militare nel cortile di casa della Cina? O, anche qui, la finzione supera la realtà e quello di Trump è solo una specie di “facite ‘a faccia feroce” a uso e consumo dell’opinione pubblica interna? In ogni caso, Trump ha raggiunto il proprio scopo. Facendo rullare i tamburi della guerra è diventato, di colpo, simpatico a tutti. Ai neocon repubblicani che di bombe e guerre campano da sempre. E ai neocon democratici che, come si diceva, pur di portare la democrazia non badano al numero delle vittime. L’esempio tipico è il recente editoriale di Thomas L. Friedman, tre volte Premio Pulitzer, pubblicato dal New York Times. Perché mai gli Usa dovrebbero combattere l’Isis, si chiede Friedman, a noi che ci frega? Tiriamoci indietro e lasciamo che l’Isis si scontri coi russi e con Assad, così Assad cadrà e finalmente avremo più democrazia. Certo, Friedman non si è accorto che per due anni e mezzo Obama ha fatto proprio questo, con i suoi finti bombardamenti sulla sabbia. Ma lasciamo perdere. L’idea dell’editorialista non è male, peccato che nel frattempo l’Isis ammazzi un sacco di civili siriani e iracheni che non c’entrano niente, più di 30 mila nel solo 2015. Ma appunto, che volete che sia a fronte della prospettiva di diffondere la democrazia? Che volete che importi al New York Times, che fino a un mese fa ci spiegava che con Trump si era entrati in una nuova era fascista? Dopo tutto, sono solo siriani e iracheni, no?

In ogni caso, Trump ha raggiunto il proprio scopo. Facendo rullare i tamburi della guerra è diventato, di colpo, simpatico a tutti. Ai neocon repubblicani che di bombe e guerre campano da sempre. E ai neocon democratici che, come si diceva, pur di portare la democrazia non badano al numero delle vittime. Giornali e Tv esultano, finalmente è tornata l’America che fa il gendarme del mondo e insegna a tutti l’educazione. Il Trump rovina famiglie, il Presidente isolazionista, nazionalista e islamofobo che stava portando il mondo alla rovina è scomparso, per lasciare il posto a un leader che si fa carico dei problemi planetari. Certo, potremmo essere alla vigilia della terza guerra mondiale, o almeno di un colossale contrasto tra Usa, Russia e Cina, ma che fa? Il muslim ban? Dimenticato. Il muro al confine col Messico? Poca roba. La denuncia dei trattati commerciali internazionali? Chi se ne importa. Tutto ciò che tre settimane fa era angoscia collettiva oggi è quisquilia, pinzillacchera. E chi, come il sottoscritto, aveva il sospetto che tutte quelle marce e quei cortei anti-Trump fossero un po’ meno spontanei e un po’ più organizzati (a pagamento) di quel che si diceva, e veniva per questo trattato da complottista dalle fighette della sinistra button down, registra oggi la totale assenza di marce e cortei di fronte a un’iniziativa bellica che potrebbe far sembrare quelle di Bush e di Obama un giochetto da ragazzi. Quindi non c’è verso: più si ama la democrazia, tanto da volerla portare agli altri, più si ama la guerra. Trump l’ha capito e si regola di conseguenza. La vera superbomba, lui, l’ha sganciata sulla testa di chi ancora crede alle favole.

LO “IUS SOLI” PER I TERRORISTI.

Il manuale radical chic che spalleggia i clandestini. La guida Feltrinelli è curata da attivisti di ultra sinistra. Svela ai migranti tutti i trucchi per evitare il rimpatrio, scrive Riccardo Pelliccetti, Martedì 20/06/2017, su "Il Giornale". «Welcome to Italy Guida pratica per rifugiati e migranti». Già il titolo fa comprendere chiaramente quale sia lo scopo di questo manuale edito da Feltrinelli e distribuito gratuitamente. A realizzarlo è stata la rete euro-africana Welcome to Europe che, come scrivono, è formata «da centinaia di attivisti/e e associazioni che dal 2009 in tutta Europa e in Africa del Nord offrono supporto diretto a migranti e rifugiati/e, promuovono la libertà di movimento, l'uguaglianza dei diritti per tutti/e e lottano contro i confini, le discriminazioni e le politiche militari e repressive dell'Unione Europea, dei singoli Stati europei e i loro alleati in altre parti del mondo». Sì, avete capito bene, qui parliamo di progressisti illuminati, i quali non fanno mistero delle loro reali intenzioni: «Questa guida è indirizzata a tutti/e i/le migranti che arrivano in Italia e che intendono restarci o andare in un altro Paese europeo». Ma cosa contiene questo vademecum? Informazioni, suggerimenti importanti per non dire fondamentali affinché chi sbarca illegalmente nel nostro Paese possa non essere respinto. Insomma, come sfruttare le leggi e i regolamenti che i radical chic hanno imposto agli italiani. Il nuovo arrivato quindi deve sapere che può giocarsi diverse carte, cioè: «Non essere rimandato/a in uno Stato dove puoi essere perseguitato/a o discriminato/a; non essere espulso dall'Italia se fai parte delle categorie vulnerabili; ricevere assistenza medica di base e lo screening sanitario completo e gratuito; le donne, i minorenni e chi ha problemi fisici e/o psichici hanno diritto a un'assistenza specifica e gratuita; nei centri di accoglienza avere cibo e acqua almeno tre volte al giorno e essere alloggiato in strutture non sovraffollate e attrezzate in maniera adeguata; ricevere in una lingua che comprendi le informazioni principali sui tuoi diritti, sulle procedure per chiedere asilo e le relative tempistiche; avere copia scritta di tutti i documenti che ti vengono consegnati, poter comprendere quanto vi è scritto e rifiutarti di firmare se il documento non è scritto in una lingua che conosci; poter contattare, tramite telefono o internet, i tuoi familiari e amici, sia nel tuo paese di origine che in Italia e in Europa, e parlare con mediatori linguistico culturali; se necessario, chiedere il supporto di un avvocato; vedere tutelata la tua libertà personale e non subire nessuna violenza fisica e/o verbale; poter restare sempre insieme ai tuoi parenti più vicini (diritto all'integrità familiare); avere tutela legale senza spese a tuo carico».

Questi i diritti. E i doveri? Abbiamo sfogliato attentamente ognuna delle 80 pagine, ma non ne abbiamo trovato traccia. Eppure, questi attivisti dei diritti un tanto al chilo dovrebbero sapere che ogni aspirante cittadino od ospite straniero, come ogni abitante della nazione ospitante, ha dei doveri, come quello di rispettare le leggi, i costumi, la cultura, la religione eccetera. Insomma, dei semplici principi costituzionali. Ma chissenefrega. Questi sono dettagli insignificanti per gli importatori di immigrati, secondo i quali chi sbarca in Europa deve avere uno status privilegiato. Alla faccia di chi deve, obtorto collo, pagare per garantirgli un diritto tutto da dimostrare. E qui i maghi dell'accoglienza superano se stessi e forniscono precise istruzioni su come ottenere asilo o protezione internazionale. Un capitoletto a pagina 34 spiega al nuovo arrivato «come preparare la tua storia». Proprio così, preparare una storia, che sia convincente, magari a prescindere dalla verità. «Un avvocato o un operatore sociale del centro di accoglienza ti aiuteranno a scrivere la tua storia». Con precise raccomandazioni. «Racconti i motivi per cui sei dovuto fuggire e tutte le violenze che hai subito e i problemi che hai avuto (ad esempio prigione, torture, violenze, abusi, stupri, infibulazione o altre mutilazioni, denunce, minacce, costrizioni nella scelta del marito/o moglie, della religione, del partito ecc...) e questo vale anche se è accaduto a un tuo familiare». E se non avesse subito queste traversie ma arrivasse in Europa solo col sogno di una vita migliore? Poco importa, basta condire la propria storia. «Racconti la tua la fuga: i paesi che hai attraversato () quanto hai dovuto pagare, la prigionia, le torture e le minacce che hai subito nei Paesi che hai attraversato (); successivamente devi specificare perché non puoi tornare nel tuo Paese, i rischi concreti che corri, le leggi e/o le pratiche del tuo Paese che violano i tuoi diritti e le tue libertà e perché non puoi chiedere aiuto alla polizia o ai familiari». Dulcis in fundo, per mettere a tacere sul nascere qualsiasi forma di protesta, una serie di recapiti e contatti a cui rivolgersi, come forum e reti antirazziste, osservatori contro le discriminazioni eccetera. Tanto oggi con l'accusa di xenofobia o razzismo puoi silenziare chiunque.

Per questo non censuriamo il risvolto della medaglia pro invasione.

"Ecco cosa fanno veramente le Ong nel Mediterraneo". Un ricercatore trentino a Londra ha pubblicato una rapporto che smonta molte accuse. Lorenzo Pezzani dal 2011 si occupa dell'immigrazione che attraversa il braccio di mare tra l'Europa e il Nord Africa, scrutando i movimenti di barche e barconi con l'occhio dell'oceanografia e della ricerca spaziale, con l'apporto di satelliti e cartografie dettagliate, scrive Donatello Baldo il 18 giugno 2017 su "Dolimiti". Lorenzo Pezzani è un ricercatore del Goldsmiths college dell’università di Londra dove ha avviato la sua carriera accademica dopo aver frequentato l'università svizzera di architettura. Ma è nato e cresciuto a Trento, anche se più che le montagne della nostra terra, a Lorenzo interessa il mare. Il Mediterraneo in particolare. Dal 2011 si occupa dell'immigrazione che attraversa il braccio di mare tra l'Europa e il Nord Africa, scrutando i movimenti di barche e barconi con l'occhio dell'oceanografia e della ricerca spaziale, con l'apporto di satelliti e cartografie dettagliate. La domanda a cui cerca rispondere è questa: quali sono le condizioni che hanno portato migliaia di persone a perdere la vita durante la traversata del Mediterraneo? “Le nostre ricerche (quelle che Pezzani firma con il suo collega Charles Heller, ndr) hanno circolazione in ambiti diversi – spiega – sia in ambito legale nei processi che devono accertare responsabilità per mancati soccorsi o respingimenti, sia per altre produzioni accademiche”. Insomma, non sono ricerche tutte teoriche, punti di vista soggettivi che si dividono tra i pro e i contro. Sono documenti analitici complessi che guardano la realtà con disincanto, che la descrivono per quello che è sulla base di dati, numeri, immagini, statistiche. Parlare di Mediterraneo significa parlare di un tema politico molto caldo, che si presta a strumentalizzazioni. Pensiamo al dibattito sulle Ong accusate di facilitare gli sbarchi, addirittura di aumentare le morti in mare. “Siamo partiti da un dato – spiega Lorenzo Pezzani – dal numero record di morti in mare del 2016 che coincideva con l'anno di maggior esplosione del fenomeno delle Ong”. Un dato che deponeva non certo a favore del lavoro delle organizzazioni umanitarie, una coincidenza che i ricercatori volevano approfondire, senza tralasciare nulla. “Abbiamo raccolto tutte le informazioni, di tutte le critiche che venivano messe, delle accuse nei confronti delle operazioni umanitarie. Abbiamo scartato soltanto quelle cospirative, basate sul nulla, dichiaratamente false o già dimostrate tali”. “Ci siamo concentrati su tre focus in particolare, analizzandoli uno a uno: Ong come fattore di attrazione (pull factor), accusate di spingere esse stesse i migranti a prendere il mare. Ong accusate di spingere i trafficanti ad abbassare la qualità dei mezzi, non più barconi ma gommoni, per il fatto che a poche miglia marine i migranti possono trovare subito una nave pronta a soccorrerli e non sono più costretti a fare lunghe traversate. E la più grave delle accuse, Ong responsabili di aver provocato l'aumento dei morti in mare”. Le accuse verso il mondo delle organizzazioni non governative sono arrivate da più parti. Da Matteo Salvini della Lega, dal Movimento 5 Stelle che attraverso la sua punta Luigi di Maio ha definito le Ong Taxi del mare, ma le accuse sono state formalizzate anche da tre procure italiane (a titolo conoscitivo, spiegano però), procure che però non hanno indagati, non hanno accuse specifiche e che sono state richiamate dal ministero di Grazia e Giustizia a 'parlare' attraverso gli atti e non con le interviste. “In mare – osserva Pezzani – non ci sono solo le Ong, c'è la Guardia costiera, ci sono le imbarcazioni dell'agenzia Frontex e quelle dell’operazione Sophia e di altre missioni militari. E il contesto deve essere visto in modo più esteso: dobbiamo considerare anche la condizione che attraversa la Libia”. Ma il dato importante è questo: “Tante delle accuse indirizzate alle Ong si riferiscono a fenomeni iniziati ben prima che fossero presenti in quel tratto di mare”. E già qui il palco dei detrattori comincia a scricchiolare. La qualità delle imbarcazioni usate dai mercanti di uomini, dai passatori che per soldi assicurano il 'passaggio' verso l'Europa, è sempre più bassa. Si tratta di imbarcazioni 'usa e getta', “perché dal 2015 vengono sequestrate e destinate allo smantellamento”. Responsabile di questo è l'Operazione Sophia che appunto dal 2015 ha il compito di individuare, catturare e distruggere le navi ed attrezzature utilizzate o sospettate di essere utilizzate da contrabbandieri e trafficanti di migranti. Quindi l'abbassamento della qualità dei natanti non è imputabile alle Ong perché già da prima si era assistito a questo fenomeno: il trafficante, sapendo che l'imbarcazione sarà poi distrutta e non potrà riutilizzarla, utilizza un gommone, una barca già vecchia e destinata alla demolizione. “Sull'accusa dell'aumento delle morti in mare in concomitanza con la presenza delle Ong – spiega Pezzani – abbiamo dovuto ricostruire attentamente i nessi temporali arrivando a dimostrare che le Ong non sono responsabili di questo, anzi”. Anzi la loro presenza li ha fatti diminuire. “Il 2016 è stato un anno record per mortalità di chi attraversava il mediterraneo, e record per la presenza delle Ong. Un dato che preso così potrebbe far pensare ad un rapporto causa-effetto”. Ma non è proprio così, tutt'altro. All'inizio dell'anno, nel periodo invernale, le Ong presenti erano molto poche, e negli stessi mesi il picco dei morti si è impennato. Nei mesi estivi di intervento delle Ong i morti sono invece calati di molto, tornando a crescere dall'autunno, nel momento che le Ong hanno ridotto le loro uscite, dimostrando che la presenza delle organizzazioni non governative in mare hanno ridotto le morti, facendo scendere il numero di vittime in modo rilevante. “Siamo riusciti a smontare queste accuse con dati empirici – afferma Pezzani – ma possiamo dire anche che le stesso Ong continuano a sostenere che per ridurre le morti in mare dovrebbero essere aperti corridoi umanitari legali, perché le morti continueranno ad esserci se il viaggio verso l'Europa rimarrà in mano ai trafficanti”. Sul fatto poi che siano le Ong ad attirare qui i migranti, la ricerca dimostra che l'aumento del flusso migratorio è precedente all'inizio del coinvolgimento delle Ong in mare. “E poi va considerata la situazione libica – osserva Pezzani – è una situazione disperata da cui chiunque riesca si mette in mare per fuggire ad ogni costo”. Il lavoro precedente, sempre a firma Pezzani- Heller, si era concentrato sulla fine del pattugliamento di “Mare Nostrum” dovuta alle pesanti critiche che erano state mosse all'operazione. “Anche il quel caso c'era chi sosteneva che l'operazione di salvataggio determinava un aumento degli sbarchi. Accuse politiche che portarono alla soppressione di Mare Nostrum con un aumento altissimo di mortalità in mare”. “Quel vuoto nei soccorsi – afferma Pezzani – fu riempito dai mercantili che però non sono imbarcazioni adatte a tale scopo. Quella di sospendere la missione di salvataggio Mare Nostrum fu politica, una decisione presa per sottrarsi da accuse infondate, con il risultato di aumentare i morti, non certo di fermare gli arrivi”. Lo stesso presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker affermò questo: “La decisione di sospendere Mare Nostrum è costa molte vite umane”. I ricercatori hanno dimostrato che bloccare i soccorsi e le ricerche di imbarcazioni non fa diminuire gli sbarchi ma, come successo con Mare Nostrum, ma fa aumentare i morti. “Se è successo allora – spiega il ricercatore trentino – può succedere anche con le Ong se si continua a delegittimarle fino farle desistere dal lavoro di soccorso”. E succederebbe che un'altra volta le pressioni politiche basate su dati sbagliati, usate per strumentalizzare il dramma dei migranti, provocherebbe altri morti. Ora lo stato italiano sta formando la Guardia costiera libica perché interrompa questa fuga. “E questo è preoccupante – spiega Lorenzo Pezzani – perché ci sono testimonianze di gravi violazioni dei diritti umani. Pretendere che i migranti rimangano in Libia significa giustificare in qualche modo la permanenza in carcere di queste persone, trattenute senza tutele dalle autorità libiche, con moltissimi casi di tortura, di violenza”. La soluzione, per il ricercatore, sono i corridoi umanitari. “Vie di accesso legali e siicure. Invece si spendono cifre astronomiche nella difesa delle frontiere senza alcun successo, determinando spesso catastrofi umanitarie con naufragi in cui perdono la vita molte persone". Perché, dopo queste informazione, sembra ovvio: le persone muoiono perché costrette ad affidarsi a 'passatori' criminali che si arricchiscono sulla pelle di chi vuole scappare verso l'Europa. Per evitare le morti in mare dovrebbe essere tolto loro il 'monopolio' dei viaggi attraverso l'apertura di corridoi umanitari". "I soldi impiegati nel pattugliamento del mare nel tentativo di impedire gli sbarchi - conclude - potrebbero essere usati nell'accoglienza”. 

Un rapporto smentisce le accuse contro le ong che aiutano i migranti, scrive il 9 giugno 2017 Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale. Una delle accuse principali rivolta alle organizzazioni non governative che soccorrono i migranti nel Mediterraneo centrale è quella di essere un fattore di attrazione (pull factor) per i migranti. Secondo Frontex, l’agenzia dell’Unione europea per il controllo delle frontiere, basta la presenza delle loro navi a far aumentare gli arrivi sulle nostre coste. Blaming the rescuers (Accusare i soccorritori) un rapporto firmato da Lorenzo Pezzani e Charles Heller, ricercatori del Goldsmiths college dell’università di Londra, smentisce questa accusa a partire da un’analisi empirica dei dati e dal confronto con le mappe oceanografiche prodotte dal Forensic oceanography, un progetto di ricerca dell’università di Londra. L’analisi dimostra che un aumento degli arrivi era già stato registrato nel biennio 2014-2015, quando ancora non c’erano navi delle organizzazioni umanitarie davanti alle coste libiche. Questo elemento è stato in parte riconosciuto dalla stessa Frontex, che nel documento Annual risk analysis 2017 afferma: “Il Mediterraneo centrale è diventato la rotta principale dei migranti africani verso l’Europa e per lungo tempo sarà così”. Secondo Pezzani e Heller, autori nel 2015 del rapporto Death by rescue, il fatto che il numero degli arrivi sia aumentato prima che le ong lanciassero le loro missioni di soccorso dimostra che non c’è nessun nesso di causalità tra i due eventi. Nell’ultimo anno, inoltre, sono aumentate del 46 per cento le traversate verso l’Europa dal Marocco, in un tratto di mare che non è pattugliato da navi umanitarie. La principale causa dell’aumento delle traversate verso l’Europa sarebbe invece l’aggravarsi del conflitto in Libia. Infine, quando la missione militare di ricerca e soccorso Mare nostrum è stata interrotta alla fine del 2014, non si sono fermati gli arrivi, anzi nei primi mesi del 2015 sono aumentati, anche se non c’erano imbarcazioni di soccorso in quel tratto di mare. Secondo la ricerca Blaming the rescuers, i fattori di spinta (la crisi economica, le terribili condizioni di vita per i migranti in Libia, i conflitti nell’area subsahariana) sono più forti di qualsiasi fattore di attrazione. “Le accuse contro le ong ignorano il peggioramento della crisi economica e politica in numerose aree dell’Africa, che è tra le cause dell’aumento delle traversate nel 2016. In Libia, i migranti sono vittime di violenza estrema e sono disposti a provare ad attraversare il Mediterraneo con o senza la presenza di attività Sar (ricerca e soccorso)”, sostiene Lorenzo Pezzani del Goldsmiths college. Un’altra accusa rivolta ai soccorritori è quella di aver involontariamente fatto aumentare le morti durante le traversate.Secondo questa teoria, contando sugli interventi di soccorso in mare aperto, i trafficanti costringono sempre più spesso i migranti ad attraversare il Mediterraneo a bordo di gommoni economici e poco resistenti di fabbricazione cinese, invece d’imbarcazioni di legno e di pescherecci. Lo studio di Pezzani e Heller dimostra che è stata l’operazione militare dell’Unione europea EunavforMed a far aumentare l’uso d’imbarcazioni meno sicure. Tra i suoi obiettivi c’era infatti la distruzione delle barche di legno più grandi. Anche la guardia costiera libica sarebbe in parte responsabile dell’aumento della pericolosità delle traversate, perché interviene troppo spesso con azioni violente contro le imbarcazioni. “La maggiore pericolosità delle traversate è determinata dalla gestione del traffico da parte delle milizie libiche, dall’operazione dell’Unione europea di contrasto ai trafficanti EunavforMed, nel corso delle quali sono state distrutte molte imbarcazioni di legno di grandi dimensioni”, ha affermato Charles Heller. “La nostra analisi dimostra che il tasso di mortalità è diminuito in maniera consistente nei periodi in cui le ong impegnate in attività di ricerca e soccorso erano presenti ed è aumentato di nuovo in loro assenza. Una maggiore presenza delle ong ha significato rischi minori per i migranti”. La ricerca conclude che le accuse contro le ong ignorano il ruolo che altri, come le agenzie europee e i governi, hanno avuto nel rendere le traversate più rischiose. “Se questa campagna di discredito contro le ong impegnate nella ricerca e soccorso dovesse ridimensionare o addirittura portare all’interruzione delle loro attività, il rischio che molti più migranti muoiano nel Mediterraneo è molto alto, esattamente come è accaduto quando attacchi simili portarono alla chiusura dell’operazione italiana Mare nostrum nel 2014”, ha concluso Charles Heller.

I pescherecci sospetti che seguono le Ong in cerca di migranti. Un appuntamento in mare con i barconi: il satellite traccia la rotta di barche libiche, scrive Valentina Raffa, Domenica 18/06/2017, su "Il Giornale".  A pensar male si fa peccato Ma che ci fanno tre pescherecci libici nelle acque tra Malta e Lampedusa, di competenza commerciale italiana/europea, in un'area in cui di lì a breve transiteranno la CP940 «Fiorillo» della guardia costiera italiana e la «Phoenix» dell'Ong maltese Moas? Il tutto mentre l'elicottero delle forze aeree maltesi AS1248 li sorvola? Di sicuro non sono autorizzati a pescare. E li troviamo, dopo, in prossimità della Libia, intorno a un'altra nave dei soccorsi, la «Vos Hestia», appartenente a Save the Children. I movimenti dei pescherecci sono a dir poco sospetti. Sono stati immortalati dal sistema Ais, Automatic identification system, nella notte tra giovedì e venerdì. Alcuni «screenshot» dei tracciati satellitari attestano come i pescherecci effettuino giri sempre attorno allo stesso punto, dando come l'impressione di essere in attesa di una meta da raggiungere che ancora non conoscono. A un certo punto partono. Il tragitto che compiono è preciso, senza titubanze. Vanno dritto verso l'area in cui si trova la nave appartenente all'Ong. Cosa abbia spinto i pescherecci a partire verso quella data direzione e quale compito dovessero svolgere lì non si sa. Ma sarà un caso che pescherecci libici si muovano tutti verso una determinata zona? E che proprio in quell'area ci sia una nave Ong? Potrebbero aver avvistato la nave dalla distanza in cui si trovavano a gironzolare in cerchio? Se non avvistandola, potrebbero avere captato la presenza della nave della Ong? E, ancora, per far cosa le si avvicinano e le stanno attorno a breve distanza? Tutti interrogativi legittimi, soprattutto dopo le recenti accuse che sono state mosse dalla Marina militare libica ad alcune navi delle Ong di avere contatti con gli scafisti. Questi ultimi, avvisati della presenza della nave dei soccorsi, andrebbero a colpo sicuro a lasciare gli immigrati partiti in massa dalle coste libiche su natanti fatiscenti proprio perché si partirebbe dal principio che non devono affrontare l'intero tragitto fino a raggiungere le coste siciliane. A denunciarlo era stato di recente il portavoce della Marina libica, l'ammiraglio Ayob Amr Ghasem, che ha anche parlato di «chiamate wireless rilevate, una mezz'ora prima dell'individuazione dei barconi, tra organizzazioni internazionali non-governative che sostenevano di voler salvare i migranti illegali in prossimità delle acque territoriali libiche. Sembrava che queste Ong aspettassero i barconi per abbordarli». E ha anche aggiunto che «le Guardie costiere hanno contattato queste Ong chiedendogli di lasciare le acque territoriali libiche». Questa è la versione fornita dalla Marina libica, malgrado le Ong sostengano che non sia andata così. La procura di Catania, che ha all'attivo un'indagine conoscitiva sull'operato di alcune Ong, ha confermato di possedere registrazioni di conversazioni via radio tra operatori delle Organizzazioni non governative e trafficanti di vite umane. I satellitari, infatti, sono intercettati e intercettabili, mentre le frequenze radio utilizzate raggiungono un raggio meno ampio, quindi sono più sicure. «Ci sono navi che staccano i trasponder. È anche su questo che dobbiamo indagare», aveva detto al Il Giornale il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, prima che si alzasse un polverone attorno alla notizia dell''indagine conoscitiva, perdendo di vista la motivazione che ha indotto il magistrato a parlare, ovvero la necessità «di uno sforzo investigativo enorme per poter tradurre in prove queste fonti di conoscenza non utilizzabili processualmente perché non provenienti dalla polizia giudiziaria».

I libici fermano le Ong: "Chiamano gli scafisti". La Marina di Tripoli: aspettavano i gommoni. E c'è un altro naufragio: 8 morti, 100 dispersi, scrive Chiara Giannini, Domenica 11/06/2017, su "Il Giornale".  Va a finire che il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, aveva ragione. È la Marina libica a puntare il dito contro le Ong. Quello che sta rischiando di diventare un vero e proprio incidente diplomatico si è consumato l'altro ieri nel Canale di Sicilia, dove i militari della Tripolitania hanno intimato alle navi del soccorso di uscire dalle acque territoriali libiche dove, a quanto pare, erano in attesa dei gommoni carichi di migranti. L'accusa è pesante: le Ong sarebbero state in contatto con persone a bordo dei barconi, in seguito individuati dalla guardia costiera. E sarebbero 570 i migranti rimandati indietro dai libici. È stato il portavoce della Marina libica, ammiraglio Ayob Amr Ghasem, a spiegare come «chiamate wireless sono state rilevate, una mezz'ora prima dell'individuazione dei barconi, tra organizzazioni internazionali non governative, che sostenevano di voler salvare i migranti illegali in prossimità delle acque territoriali libiche. Sembrava che queste Ong - ha proseguito - aspettassero i barconi per abbordarli. Le Guardie costiere hanno preso contatto con queste Ong e hanno domandato loro di lasciare le acque territoriali libiche». E ha detto poi: «Il comportamento di queste Ong accresce il numero di barconi di migranti illegali e l'audacia dei trafficanti di esseri umani». Ha quindi ricordato che nei giorni scorsi uno dei migranti è stato «ucciso dai trafficanti, che sanno bene che la via verso l'Europa è agevole grazie a queste organizzazioni e alla loro presenza illegittima e sospetta in attesa di poveri esseri umani». Oltretutto, il mezzo usato per le comunicazioni, la chiamata wireless, appunto, farebbe capire come ci sia la volontà di occultare le prove dei contatti, proprio perché difficilmente rilevabile. La domanda è: la nostra intelligence sapeva? Insomma, le accuse nei mesi scorsi lanciate da Frontex nei confronti delle Ong e riprese dal procuratore Zuccaro e da altri tre colleghi di rispettive Procure siciliane parrebbero trovare fondamento. Tanto più che i marinai libici sono gli stessi addestrati proprio dall'Italia per operare nelle acque territoriali e per contrastare il traffico di esseri umani. Lavoro che, a quanto pare, stanno facendo bene. Le navi accusate di essere in quella zona al momento della comunicazione sono la Prudence di Medici senza frontiere, che più volte aveva ammesso di aver superato il limite dello specchio acqueo territoriale, quelle di Openarms, Jugendrettet e Seawatch che hanno recuperato 1.129 migranti. Msf ha subito negato l'accaduto e sbarcherà 716 clandestini questa mattina a Palermo. Peraltro, c'è un altro fatto a creare non poco sconcerto. È il comandante della Guardia costiera libica della città di Gasr garabulli, non distante da Tripoli, Fathi Al Rayani, ad avvertire di un naufragio recente di un gommone, 9 chilometri al largo dalla costa. Otto sarebbero i corpi individuati. Le reazioni politiche allo scontro Ong-libici non hanno tardato. Il segretario della Lega Matteo Salvini, ha scritto: «La Marina Militare libica respinge le navi delle Ong pro-invasione e riporta a terra più di 500 clandestini. Applausi! Meglio i libici dei pidioti». Un chiaro attacco al governo, reo, secondo il politico, di fare gli interessi delle Ong, invece che quelli dell'Italia.

Ius soli, Giuliano Ferrara e la lezione a Laura Boldrini (senza citarla): "Altro che moraline, è in atto il rimpiazzo demografico", scrive il 20 Giugno 2017 "Libero Quotidiano". Sullo ius soli il confronto è serratissimo, spesso i toni eccedono. E quando eccedono, le varie Laura Boldrini alzano il ditino e dicono che no, così non si può parlare. E così, a dare una sonora lezione alla presidenta - pur senza mai citarla - è Giuliano Ferrara. Lo fa dalle colonne de Il Foglio, dove, appunto scrive di ius soli. E premette: "Chi condanna per oscenità le paure di quelli che temono l'espropriazione dell'identità e recita la parte dell'umanitarismo universalista a buon mercato sulla questione della cittadinanza per diritto di nascita nel territorio di una nazione è il peggiore dei demagoghi, è il demagogo che non sa di esserlo". Il parere dell'Elefantino sullo ius soli, insomma, è chiaro da subito. Per Ferrara, infatti, "è in atto il rimpiazzo demografico, e dunque civile, del vecchio ordine e della vecchia identità biologica e storica del nostro mondo". E ancora, ricorda il direttore, "non è un avversario morale della gente per bene, chissà quale gente, poi, chi si domanda come sia possibile reggere e tenere insieme una comunità nazionalizzando ope legis quasi un milione di nati qui nel contesto del fenomeno migratorio. È solo un cittadino che ha un'opinione diversa da quella destinata a prevalere in Parlamento". E dunque, "schiaffeggiarlo per disumanità è un modo di mettere nei guai tutta una prospettiva di contrasto identitario e insieme di integrazione delle diversità, un modo per negare, al di là delle parole altisonanti e mandatorie dei demagoghi umanitari, che il multiculturalismo è un fallimento accertato". Una lezione, pacata e inappuntabile, a chi alza il ditino. Alle Laure Boldrini di turno. Una lezione che Ferrara conclude così: "Altro che moraline, bisogna dare un'armatura di razionalità e di volontà a un mondo che sente di averla persa. Un compito decente e grave, non un affare per piccole demagogie". Touché.

Sullo ius soli serve razionalità, non lezioni sentimentali. E’ il momento di spiegare con calma e sangue freddo come stanno le cose piuttosto che dare libero sfogo a piccole demagogie, scrive Giuliano Ferrara il 20 Giugno 2017 su "Il Foglio. Le avventure del moralismo e della demagogia in politica sono stupefacenti. Chi condanna per oscenità le paure di quelli che temono l’espropriazione dell’identità e recita la parte dell’umanitarismo universalista a buon mercato sulla questione della cittadinanza per diritto di nascita nel territorio di una nazione è il peggiore dei demagoghi, il demagogo che non sa di esserlo. Considerare italiano chi vede la luce entro i nostri confini è cosa appena ovvia, già compresa di fatto nell’ordinamento pur senza il compimento...

Ius soli e cittadinanza: un dibattito che non coglie nel segno. Gli stranieri stabilmente residenti in Italia hanno diritto ad esercitare i diritti politici. La cittadinanza non c’entra nulla ed i bambini con le bandierine in mano ancor meno, scrive Rocco Todero il 18 Giugno 2017 su "Il Foglio". A quanto pare all’interno del dibattito sullo ius soli non c’è spazio per una posizione differente da quelle che si stanno contendendo il campo e che vedono, da un lato, coloro che pensano sia giunto il tempo di compiere un atto di civiltà, riconoscendo la cittadinanza ai bambini stranieri che nasceranno sul suolo nazionale, e dall’altro, quanti, ritengono, invece, necessario preservare la cittadinanza da una contaminazione extra nazionale. Nelle argomentazioni degli uni si avvertono accenni di auto condanna della comunità italiana, come se si dovesse riparare la grave ingiustizia di avere escluso dalla cittadinanza decine di migliaia di individui degradati a sudditi. In quelle degli altri si coglie la riproposizione di un modello di identità nazionale che dovrebbe caratterizzare una comunità statale per omogeneità di cultura, lingua, tradizioni e religione. Coinvolti nella propaganda, fra immagini di bambini di colore che impugnano orgogliosi il tricolore italiano e manifesti pubblici che ricordano come ai cittadini italiani mancherebbe l’assistenza che si pretende di riconoscere agli stranieri, quasi tutti trascurano di rappresentare, invece, quale sia la reale condizione giuridica dello straniero in Italia e come si sia evoluta a livello internazionale la nozione di cittadinanza. Grazie all’esplosione di quella intuizione che portò i rivoluzionari francesi a redigere una dichiarazione universale dei diritti che valesse non solo per i cittadini ma per gli uomini tutti, successivamente alla seconda guerra mondiale la cultura dell’effettività dei diritti umani, consacrata in numerose Carte internazionali come la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ha condotto gli ordinamenti giuridici delle liberal democrazie occidentali a riconoscere progressivamente agli stranieri uno statuto giuridico pressoché identico a quello dei propri cittadini, imponendo un’interpretazione delle Costituzioni nazionali (è il caso dell’Italia, ad esempio) che consentisse di coprire sotto l’ombrello della tutela dei diritti fondamentali anche quanti cittadini non sono mai stati e mai lo saranno. Solo per restare al caso italiano, per esempio, si deve registrare come oggi gli stranieri regolarmente residenti nel nostro Paese godano di tutti i diritti e le libertà fondamentali consacrate nella Costituzione repubblicana. Si va dal naturale riconoscimento di tutte le libertà cosiddette negative, come quelle di circolazione, manifestazione del pensiero, associazione, religione, alla tutela dei principali diritti sociali di prestazioni quali il diritto al lavoro, alla pensione, all’assistenza sociale, all’istruzione, alla sanità, agli assegni sociali e all’invalidità civile. Il nucleo indefettibile dei diritti fondamentali è, poi, riconosciuto a prescindere dalla preventiva verifica della condizione di straniero regolarmente soggiornante in Italia, così che molto opportunamente “Ai cittadini presenti nel territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate, nei presidi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative per malattia ed infortuni e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva”. L’effettiva equiparazione fra cittadini e stranieri che soggiornano regolarmente in Italia è esclusa, invece, con riguardo ai diritti politici e all’elettorato attivo e passivo. Si tratta, tuttavia, di diritti soggettivi pubblici che dovrebbero essere ricondotti non già alla qualità di cittadino di una determinata comunità nazionale, quanto a quella di soggetti che, in quanto stabilmente residenti all’interno di una comunità locale e statale, hanno diritto di partecipare alla determinazione di quelle decisioni pubbliche di cui saranno inevitabilmente destinatari. Non può residuare alcun dubbio sul fatto che lo straniero stabilmente residente in Italia, e che qui paghi le tasse, abbia il sacrosanto diritto di partecipare alle decisioni politiche che concernono, ad esempio, la produzione e la qualità dei servizi pubblici che riceve, la realizzazione delle infrastrutture che è destinato ad utilizzare, il livello di prelievo fiscale che gli si impone e così via discorrendo. Ma si tratta, come detto, di diritti che si radicano nell’effettiva partecipazione “fisica” dello straniero alla vita di una comunità e non già nel concetto obsoleto di cittadinanza che richiama, invece, appartenenze a dimensioni omogenee di natura etica, morale, culturale e storica di cui nessuno oggi avverte l’esigenza nell’epoca di un mondo globalizzato multi culturale all’interno del quale diritti e libertà sono riconosciuti a prescindere dallo Stato cui formalmente si appartiene. Naturalmente, l’argomentazione vale anche “a contrario”, vale cioè per quei cittadini “formalmente” italiani che risiedono stabilmente all’estero e ai quali dovrebbe essere negato l’esercizio dei diritti politici in Italia in ragione del fatto che non subiscono gli effetti delle decisioni pubbliche che, tuttavia, contribuiscono ad assumere. D'altro canto, sotto il profilo dei doveri individuali, fatta eccezione per il "sacro" dovere di difendere la Patria di cui all'art. 52 Cost. (sulla cui attualità ci sarebbe molto da discutere), anche gli stranieri appaiono su un piano di perfetta parità rispetto ai cittadini italiani. Appare chiaro, allora, come la questione non dovrebbe iscriversi all’interno di un dibattito sulla nozione di cittadinanza (che un po' dovunque in occidente ha abbandonato i connotati della “nazionalità” e del senso d’appartenenza) ma dovrebbe riguardare innanzitutto (e fors’anche esclusivamente) il diritto degli stranieri stabilmente residenti in Italia a partecipare alle decisioni pubbliche che investono le sorti delle comunità cui fanno parte. Decisioni che possono essere assunte solo da individui (cittadini italiani o stranieri) maturi e maggiorenni. Non a caso, infatti, il comma 2 dell'articolo 4 della legge n.91/1992 attribuisce automaticamente la cittadinanza italiana allo straniero nato in Italia che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età. I bambini, dunque, dovrebbero continuare a giocare in santa pace.

Ius Soli. La Patria non è un cavillo burocratico, scrive il 15/06/2017 Emanuele Ricucci su "Il Giornale". Disfatta l’italia ora bisogna disfare gli italiani. Progresso. Ma dopo, cosa c’è? Dopo la vita e dopo la fine di Beautiful? Parliamo di cosa c’è dopo per la paura di vivere cosa c’è ora? Ce lo chiediamo perché la nostra natura è l’umile curiosità. Al contrario, invece, è perversione del coatto, come quella che segna la presunzione di un’epoca. Un’epoca che ha tutto: la tecnologia, gli hamburger vegani, il maglione per cani, le file all’Apple Store e l’Unione Europea. Ma che soprattutto si è liberata dei più grandi fardelli: si è tolta dai piedi Dio e il senso di identità e confine; ha liquidato secoli di umanissime certezze (e quei valori non negoziabili che sono il piedistallo dell’essere semplicemente umani, citando Torriero, sono stati gioiosamente messi sul mercato), ha travolto le aggregazioni e gli atti essenziali, come la famiglia, la dignità, la partecipazione, la sovranità, la legalità, lo Stato padre, l’identità come amore, e la spontaneità – se entra un ladro in casa, tanto vale preparagli un bel panino quaglie e broccoletti -. E poi, maestra di nichilismo, ha passato la spugna sulle cose semplici che sostengono il mondo, poiché ci risulta eroticamente indispensabile credere che sia necessario coltivare gli uomini, per poter coltivare le idee e non crepare di futuro (repetita…). Ha murato il cantuccio, l’angulus oraziano, quello da cui cogliere la visuale senza essere ancora corrotti dal mainstream. Luogo noto e sicuro, per ritrovare sempre se stessi nell’epoca della grande siccità dello Spirito. Tutto questo, perché, dicono, dobbiamo andare oltre. Ma oltre de che? Oltre il sangue, persino. E tutto si riduce ad una questione di marketing (elettorale. Francia docet). Prendete lo Ius Soli. Approvato alla Camera nel 2015, rischia di diventare certezza il prossimo giugno al Senato.Il divieto di sosta per gli italiani. Ah la grande modernità! Ma lo sapevate che Kaled è nato in ospedale e quindi è un medico? Eh già, gli spetta di diritto. In tutti i sensi; anche se avrebbe voluto fare altro nella vita, il terrorista, ad esempio. Insomma non conoscevate la storia di Kaled. Curioso. In questo mondo iperconnesso. Storia, per altro, molto simile a quella di Omar, che è nato in Italia da padre libico e madre spagnola ed è italiano. Italianissimo, pugliese di Tripoli. Nel giro di due anni, il gioco è fatto. Un Paese giovane, ancora alla ricerca di se stesso, che ancora deve sanare il divario tra Nord e Sud, tra secessionisti di confine ed il riconoscimento di un inno e di una bandiera nazionale, in cui ancora dobbiamo integrarci tra noi, figuriamoci. Un popolo che si sente unito davanti all’Italia che gioca per la qualificazione agli europei. Un Paese che ancora deve fare i conti con i vecchi italiani e che ora, già ne fabbrica di nuovi. Le conquiste della civiltà: cento anni dopo, esatti, dalla Grande Guerra, la Camera dei Deputati approva lo Ius Soli. Ora tocca al SenatoamicodiRenzi. Cento anni prima il dovere degli italiani di sentirsi italiani, cento anni dopo il dovere di far sentire italiano chiunque passi di qui. A saperlo prima, avremmo detto a quei poveri ragazzi in trincea, soprattutto a quelli del ’99, così piccoli, di tornare a casa dalle mamme o dalle giovani mogli in Calabria, di lasciar perdere o al limite, di farla con i propri connazionali deliranti, la guerra, non con i dirimpettai o con qualche straniero. Connazionali…o sarebbe meglio definirci coinquilini d’ora in avanti? Disfatta l’italia ora bisogna disfare gli italiani, perché la nazionalità s’indossa come un vestito, si sceglie su un catalogo. Se la coesione sociale è un problema serio, la governabilità è sempre a rischio, i poveri ci sono sempre stati, l’Italia inizia a diventare un lontano ricordo ed in questo paese, indiscutibilmente, oltre alle belle giornate di sole, alla pasta col pomodoro, al mare azzurro e alla pizza con i frutti di mare, si sta decisamente male, conviene aprire all’internazionalizzazione. L’ultima italianità rimarrà chiusa in uno stereotipo e nell’eco lontano, rimbombante delle note di Domenico Modugno, delle parole di Dante: “Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade”. Dopo la palese interruzione democratica riparte il “treno dei diritti civili”: la cittadinanza italiana è un affare da appioppare. Torna lo Ius Soli, per il secondo round, tra ridicolezze, poco sense of humour ed il dramma del fatto che non si stia scherzando, anzi, si faccia decisamente sul serio.  Dal diritto di sangue a quello di transito. “Acquista la cittadinanza per nascita chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Per ottenere la cittadinanza c’è bisogno di una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età. Se il genitore non ha reso tale dichiarazione, l’interessato può fare richiesta di acquisto della cittadinanza entro due anni dal raggiungimento della maggiore età”, come riporta Repubblica e così come andò alla Camera. Nessun cenno ad un giuramento, allo studio dell’identità di questo Paesaccio. Nessun sentimento. Nessun inno, nessun esame. Al limite lo ius culturae (tanto il latino sta bene con tutto, anche col beige), che consentirà ai minori stranieri arrivati nel nostro Paese prima dei dodici anni di diventare italiani esibendo una semplice licenza di scuola elementare, come risalta Gian Micalessin, sottolineando il pericolo futuro e palpabile di ritrovarci in casa il terrorismo con inaudita facilità.

Il gioco è fatto in barba a D’Annunzio e al Capitano Giovanni De Medici. Cittadinanza, quindi, non è un mero fatto giuridico. A farcelo presente è anche Giuliano Guzzo: “L’assegnazione della cittadinanza per il solo fatto di nascere in Italia pare dunque, ad essere buoni, un azzardo. A maggior ragione se si rammenta che la cittadinanza non è un mero dato giuridico e che prevede la «condivisione di valori comuni che sono alla base del sentimento di appartenenza e dell’integrazione del soggetto all’interno di un comunità», condivisione che fa sì che una data comunità possa, grazie ai propri componenti di diritto, continuare ad esistere preservando i propri tratti identitari. Facile, qui, l’obiezione: ma neppure tanti italiani onorano la loro cultura e la loro patria osservandone principi e regole. Certo, ma questo nulla toglie al valore della cittadinanza; in altre parole il problema, se molti cittadini non onorano i valori del loro Paese, non è dei valori, bensì di questa parte di cittadini, e sarebbe sbagliato utilizzare il pretesto della scarsa disciplina di taluni per svuotare di rilevanza un diritto – quello della cittadinanza – che riguarda tutti nonché, insistiamo, la sopravvivenza della comunità”

L’Occidente cadrà da dentro. Come ogni impero che si rispetti. Ma è progresso. E quindi Dobbiamo andare oltre. Ma oltre de che? Millantiamo un mondo libero, che ha capito i propri recenti errori, e poi se non metti il velo tuo padre ti gonfia come una zampogna, ci sono tir che travolgono e missili in cielo; si evocano fascisti ogni minuto, si lasciano crepare i giovani di futuro. I ricchi si arricchiscono, i medi muoiono, i poveri aumentano. Le domande etiche esplodono: io che ho un pène, ma vorrei una vagina, e mi rendo conto che, in realtà, il sesso è solo un ingombro, posso partorire pur non avendo l’utero?

Tutto questo perché, dicono, dobbiamo andare oltre. Abbracciare il Progresso. Se la maestra Eugenia ogni volta che inizia a spiegare una parte di storia non la termina e va avanti con nuovi argomenti, improvvisamente, proiettando gli scolaretti nella confusione e costringendoli a tempestare l’ingenua Eugenia di domande, non è andare avanti, è creare confusione. Non è trasmettere conoscenza e consapevolezza. Per metter ordine al caos, serve ordine: non altro caos. I giovani virgulti, a fine anno c’arrivano lo stesso; i promossi, saranno promossi, i bocciati verranno frustati a casa dai genitori e Padoan continuerà a non sapere quanto costa un litro di latte; eppure i ragazzi, di storia, non c’avranno capito un cavolo, saranno confusi, si saranno dovuti adeguare in fretta e si accontenteranno così. L’importante è andare avanti. Non sempre ciò che vien dopo è progresso. Ecco appunto. Ciò che vien dopo. Ma oltre de che? Oltre la funzione e l’essenza stessa degli uomini? Eppure a giudicare dalla lingua che parliamo, e quindi il luogo che viviamo, per essere fedeli ad Emil Cioran, la vita è un tutto un post. Faccio un post-it per ricordarmi di scrivere un post che esprima sdegno sulla post verità che avanza mentre percepisco, dalla fondamentale battaglia per la democrazia di Emanuele Fiano, contro la vendita di gadget del Ventennio nel nostro Paese, che la post ideologia avanza e ci rende nuovi. Post, ma in che tempo? Posto cosa? Quale premessa? Dopo di che? Dopo il pudore, dopo il rispetto, dopo la famiglia, dopo il sesso biologico, e dopo Dio? Diritti, ora, quando, proprio per tutti

A posteriori verso il postribolo. Tutto a post, tranquilli. Nel dubbio tiè pij’t la cittadinanza.

Ius Soli, Monsignor Di Tora (Cei): "La cittadinanza agli immigrati risolve il problema di denatalità e fuga degli italiani", scrive il 18 Giugno 2017 "Libero Quotidiano”. A destra molti la chiamano "sostituzione etnica": fuori gli italiani, dentro gli immigrati. Fantasie da complottisti? Eccessivo allarmismo? Può darsi, ma a leggere le parole di Monsignor Guerino Di Tora, vescovo ausiliare di Roma, presidente della Fondazione Migrantes e della Commissione Cei sulle migrazioni, qualche dubbio viene. Intervistato dal Corriere della Sera, il vescovo sottolinea come il buonismo con lo Ius soli non c'entri nulla: "Qui si tratta di un diritto fondamentale della persona che l'Europa ha già riconosciuto nella stragrande maggioranza delle nazioni. Del resto, come cristiani, andare incontro alle persone in una realtà umana che ci unisce mi pare doveroso. Secondo gli insegnamenti di Papa Francesco, dobbiamo includere, non escludere". E fin qui, tutto abbastanza prevedibile. Ma c'è un altro passaggio, successivo, che fa venire i brividi lungo la schiena: "Da una legge simile abbiamo solo da guadagnare. Si fanno sempre meno figli, è anche una risposta al problema della denatalità. Molti italiani inoltre stanno emigrando, dal 2005 sono 4 milioni e 800mila in dieci anni, circa il 40%, per motivi di studio e gli altri di lavoro, intere famiglie che se ne vanno. Abbiamo bisogno di giovani. Probabilmente ce ne sono già 800mila che potrebbero usufruire di questa regolamentazione. Quante altre volte, in Italia, si sono fatte sanatorie?". La Cei bacchetta i contrari: calcoli elettorali. L'ira della Lega: "Pensi ai nostri disoccupati".

Il segretario dei vescovi Galantino attacca il fronte del no: "Lo fanno per i voti". E Salvini boicotta la Feltrinelli che distribuisce la guida gratuita per i migranti, scrive Jacopo Granzotto, Lunedì 19/06/2017, su "Il Giornale". Anche la Chiesa si affida ai sondaggi. L'ultimo, sullo ius soli, dice che tre italiani su quattro vogliono la cittadinanza agli immigrati. Come dire che la sovraffollata Italia piace ancor più popolosa e piena di disoccupati ciondolanti. Sarà. Forte dell'ipotetico consenso il segretario della Cei, monsignor Galantino, attacca perciò l'«ignobile gazzarra» in Senato e bacchetta chi vuole affossare lo ius soli. «E già che certi sondaggi - annota polemicamente Galantino - fanno venire l'orticaria a coloro che hanno impostato la loro politica e il consenso sul contrario, ma anche a chi improvvisamente ha cambiato strategia per riprendere consenso». Riferimento chiaro alla Lega Nord che più di tutti sta cercando di fermare la legge e a Beppe Grillo che, dopo la batosta delle comunarie, si è messo alla ricerca di voti cavalcando la lotta all'immigrazione. Il leghista Calderoli replica, ricordando al monsignore le priorità degli italiani: «Stupisce la presa di posizione della Cei che invoca l'approvazione della legge che introdurrebbe lo ius soli e lo ius culturae andando a regalare la cittadinanza italiana ad almeno un milione di immigrati, forse il doppio. Raramente dalla Cei abbiamo sentito prese di posizione altrettanto nette davanti ai tanti problemi che affliggono milioni di nostri cittadini in un'Italia che ha una disoccupazione generale all'11,5%, con una disoccupazione giovanile che sfiora il 40, e oltre 6 milioni di italiani con una pensione minima sotto i mille euro. Questi sono i veri problemi degli italiani, di cui dovrebbe occuparsi e preoccuparsi una Chiesa che vuole stare dalla parte degli ultimi, dei poveri, di chi è in difficoltà». Ius soli (che vede crescere il partito, Alfano, di chi vorrebbe rimandare l'approvazione chiedendo un pausa di riflessione al Pd) e quello che gli gira attorno. Come certi ambienti amici, vedi libreria Feltrinelli, luogo da sempre in prima linea per difendere il rifugiato che non c'è. La libreria dell'immigrato che ti aspetta fuori con il perdibile opuscolo si è fatta notare anche per certe cose all'interno: l'opuscolo gratuito Welcome to Italy. A notarlo Matteo Salvini che ha annunciato che non metterà più piede alla Feltrinelli, almeno a Como. La guida è disponibile in italiano, inglese, francese e arabo e, come detto, è gratis. Una trovata contestata da Salvini che su Twitter lancia il boicottaggio della Feltrinelli. «Non darò più una lira agli amici dei clandestini - scrive il leader della Lega - viva le librerie piccole e indipendenti». La crisi sull'eccessiva accoglienza voluta dalla sinistra è uno dei temi della campagna elettorale. In ballo l'elezione del sindaco di Como. Si decide domenica al ballottaggio. Negli ultimi giorni Salvini è stato lì per sostenere il candidato di centrodestra Mario Landriscina. In quell'occasione ha duramente contestato il centro di accoglienza in via Regina e la Feltrinelli che sponsorizza la politica dell'accoglienza «dei clandestini» distribuendo gratuitamente Welcome to Italy - Guida per migranti e rifugiati. È la goccia che fa traboccare il vaso. L'anno scorso, a Bologna, gli avevano fatto a pezzi alcune copie del libro. Militanti rossi, ma - almeno quelli- tutti denunciati.

Le sette bugie sullo ius soli. Dall'integrazione al calo demografico una legge senza senso. La norma causerebbe storture e paradossi senza produrre nessun effetto positivo, scrive Alfredo Mantovano, Mercoledì 21/06/2017 su "Il Giornale". «Sono cresciuta in Italia e ho sempre studiato qui, ci vivo, la mia lingua è l'italiano. A 16 anni avrei potuto essere naturalizzata perché avevo maturato i dieci anni di residenza. Ma era diventata una questione di principio: volevo che fosse un diritto che mi venisse riconosciuto, non che dovessi chiederlo». È quanto dichiara una ventiquattrenne originaria dello Sri Lanka intervistata lunedì scorso da la Repubblica, quotidiano fortemente impegnato perché lo ius soli sia approvato in questa Legislatura. Dà il senso del tasso di ideologizzazione che ha assunto la discussione, dentro e fuori il Senato: la giovane donna ammette lei stessa che sarebbe diventata cittadina italiana con le norme oggi ancora in vigore, ma poiché le contesta sceglie di non avanzare alcuna domanda, pur avendone i requisiti, salvo poi lamentarsi per essere rimasta priva di diritti politici.

Quel che pare non avere cittadinanza nel dibattito sono i contenuti: da un lato si sprecano gli slogan pietistici, dall'altro gli slogan urlati in opposizione prevalgono sulle riflessioni di merito. Non vi è dubbio che l'adeguamento le norme varate nel 1992 sia necessario: 25 anni fa gli stranieri presenti in Italia in modo regolare erano circa mezzo milione, oggi superano largamente i cinque milioni, al netto di coloro che nel frattempo sono diventati cittadini. Nel 1990 i provvedimenti di cittadinanza furono 3.809, a fronte delle centinaia di migliaia attuali. La legge del 1992 provoca tempi lunghi di trattazione ed esige troppi adempimenti, più formali che sostanziali. Una seria riforma della cittadinanza dovrebbe prevedere procedure più snelle, ma al tempo stesso dotarsi di strumenti di effettiva e non formalistica verifica che il riconoscimento è meritato. Prendiamo il disegno di legge che il presidente del Consiglio ritiene prioritario per superare le discriminazioni ai danni dei bambini stranieri, e confrontiamolo con la legge del 1992 per comprendere se il primo è in grado di dare queste risposte; prendiamo le motivazioni avanzate pro ius soli e confrontiamole con i dati obiettivi che interessano la materia. Prima di esprimerci pro o contro proviamo a rispondere alle seguenti domande.

La cittadinanza vale quanto una maglietta, da indossare o da sfilare a piacimento? Le nuove disposizioni stabiliscono ai fini della sua concessione ai minori o che costoro siano nati in Italia, o che - se non sono nati qui - abbiano frequentato per cinque anni la nostra scuola. Chi dei genitori sia titolare di una carta di soggiorno chiederà la cittadinanza per conto del figlio prima che costui compia la maggiore età. Se, una volta superati i 18 anni, l'ex minore non condivide la scelta del genitore, ha due anni per rifiutarla. Se la cittadinanza è così importante per il minore, perché poi costui ha facoltà di rinunciarvi? Si dirà: l'interessato va lasciato libero di farlo se - diventato maggiorenne - dissenta dal genitore; proprio per questo non andrebbero anticipati i tempi, permettendo di decidere direttamente al compimento dei 18 anni! Una comunità nazionale non è l'atrio di un hotel, nel quale entrare e uscire come ti pare. A legge approvata, avremo più nazionalità in molte singole famiglie o un rapido allargamento della cittadinanza? A legge approvata, un genitore con carta di soggiorno (che per questo ha domandato e ottenuto la cittadinanza per un figlio) potrà trovarsi a fianco il secondo genitore magari solo col permesso di soggiorno, un figlio a tutti gli effetti italiano, e un altro della nazionalità originaria perché non ha ancora completato il quinquennio di studio. Escludiamo che, con l'inevitabile campagna mediatica che si scatenerebbe contro tali odiose diseguaglianze nel medesimo nucleo familiare, un giudice non richiami l'art. 3 Cost. e sancisca per sentenza che diventano tutti cittadini?

La cittadinanza è uno strumento di integrazione? Per tanti questa è una affermazione, cui non segue il punto interrogativo. La logica a base del nostro ordinamento è diversa, e segue cautela e gradualità: il migrante che entra in Italia in modo regolare ha il permesso di soggiorno, che ha durata temporanea, non superiore ai due anni; permanendo le condizioni del suo rilascio, alla scadenza vi è il rinnovo; dopo cinque anni di presenza regolare ottiene la carta di soggiorno, che ha carattere di permanenza; dopo dieci anni ha titolo per chiedere la cittadinanza, avendo nel frattempo maturato un radicamento e la conoscenza di lingua e regole essenziali. Si può convenire che 10 anni siano troppi, che requisiti di sostanza siano preferibili ad altri troppo formali, ma non si può sostenere che la cittadinanza favorisca l'integrazione: la cittadinanza attesta che è avvenuta una parte importante del percorso di integrazione.

La nuova legge favorisce l'integrazione? È paradossale, ma i nuovi automatismi rischiano di attenuare il valore di quegli incentivi all'integrazione introdotti fra il 2008 e il 2009, in primis la conoscenza della lingua e l'utile compimento di percorsi formativi. Se per l'adolescente la cittadinanza deriva dalla somma fra la nascita in Italia e la richiesta del genitore con carta di soggiorno perché mai deve impegnarsi a scuola? E se, non essendo nato qui, è richiesta la conclusione positiva solo del corso di istruzione primaria, perché mai deve dimostrare profitto in un corso di istruzione secondaria (per il quale le nuove norme non esigono il requisito della conclusione positiva degli studi)?

La nuova legge semplifica o complica il lavoro degli uffici? Per rispondere immaginiamo gli addetti all'anagrafe che, poco tempo dopo aver istruito e dato corso a una cittadinanza chiesta dal padre per il figlio sono chiamati a ricominciare punto e daccapo se il figlio, divenuto maggiorenne, comunica la volontà di revoca. È introdotto l'obbligo per la stessa anagrafe di informare i residenti stranieri che entro i sei mesi compiranno 18 anni della facoltà di acquisto della cittadinanza per ius soli o per ius culturae. Ovviamente gli enti locali vi provvederanno «a costo zero», cioè aumentando il lavoro già esistente.

La cittadinanza è strumento per rispondere al calo demografico? Lo sostiene mons Di Tora, presidente della Fondazione Migrantes in una intervista al Corriere della sera di domenica: «Si fanno sempre meno figli, è anche una risposta al problema della denatalità. Molti italiani inoltre stanno emigrando, dal 2005 sono 4 milioni e 800 mila in dieci anni, circa il 40 per cento, per motivi di studio e di lavoro, intere famiglie se ne vanno. Abbiamo bisogno di giovani». Il rispetto dovuto a un Vescovo non è inferiore a quello che si deve alla realtà; dal bilancio demografico Istat del 13 giugno: «Hanno lasciato il nostro Paese nel 2016 circa 157 mila persone (di cui quasi 115 mila di cittadinanza italiana), con un incremento di 12mila unità rispetto al 2015. Tra questi è in continuo aumento il numero di italiani nati all'estero: più di 23mila nel 2015 e circa 27mila nel 2016 (...). Si tratta prevalentemente di cittadini di origine straniera che emigrano in un Paese terzo o fanno rientro nel Paese d'origine dopo aver trascorso un periodo in Italia ed aver acquisito la cittadinanza italiana». Dunque, negli anni 2015-2016 sono espatriati circa 218.000 «italiani», inclusi gli stranieri naturalizzati italiani e tornati nel paese di origine: il numero degli italiani dalla nascita che sono emigrati è molto inferiore. Se valessero i numeri di monsignor Di Tora, in due anni se ne sarebbero andati circa un milione di italiani. È il caso di aggiornare la valutazione ai dati oggettivi? E magari convincersi al calo demografico si risponde con incentivi concreti a riprendere a fare figli (cosa tutt'altro che semplice)?

Perché siamo così immemori di quando i migranti eravamo noi? Il limite del quesito sta nel sovrapporre periodi storici e dinamiche diverse: chi dall'Italia si trasferiva col piroscafo nelle Americhe, o prendeva il treno con la valigia di cartone per il Nord dell'Europa, in larga parte ci andava con la prospettiva di restarci. Chi oggi viene in Europa da aree meno sviluppate pensa di stabilirsi mediamente solo in un terzo dei casi: l'altro 70% si pone l'obiettivo di mettere da parte dei risparmi, di acquisire mestieri e/o professionalità, di far frequentare ai figli le nostre scuole, quindi di rientrare dopo un numero apprezzabile di anni nel Paese d'origine per far fruttare i risparmi e le conoscenze apprese. A che cosa serve a costoro la cittadinanza? Chi di loro realmente la desidera? Ed è per questo che la si è disciplinata «rinunciabile»?

Ius soli? 14volte no! Scrive il 19 giugno Luigi Iannone su "Il Giornale". Lo ius soli ha il valore simbolico dello ‘ius primae noctis’, che sarà stato anche un falso storico, ma da entrambi ricaviamo la stessa percezione di una imposizione calata dall’alto; di una fregatura, insomma. Non entro nel vivo delle questioni tecniche, nei meandri sempre paradossali e complessi della eventuale legge, dei commi e degli articoli. Resto alla premessa, alla strategia e alla visione d’insieme che è quanto di più antidemocratico si possa considerare in un momento storico come il nostro. Vale a dire, a come si sia arrivati a questo moderno ius primae noctis senza un minimo di realismo ma strabordanti di falso ecumenismo che quel geniaccio di Giovanni Papini avrebbe definito ‘pecoreccio’. Perché l’idea nascosta, e perciò non detta, è che il futuro ci prospetti una società globale senza vincoli, limiti e identità, e quindi sia giusto ‘attrezzarci’ per tempo. Aggiungerei, per onestà, che cosa buona e giusta sarebbe quella di ‘ritirare’ – se solo fosse possibile – la patente di italianità anche a tanti connazionali indegni, ma qui si aprirebbe un altro capitolo che ci porterebbe lontano e quindi restiamo al punto. Nessuno si ostina a rifiutare il fatto che vi siano persone col pieno diritto di sentirsi ‘ufficialmente’ italiani ma allo stesso tempo bisogna anche accettare che non è solo questione di carte bollate e di timbri. E soprattutto che se vi sono politici che riducono una così complessa questione a slogan di nazionalismo spicciolo e anacronistico, ciò non significhi che le tesi di fondo siano errate e chi li condivida sia un reazionario becero. E allora provo a confutare, una ad una, le premesse di una scelta che ritengo ideologica prima che politica. Leggo di paragoni con l’Impero Romano e mille altri regni o monarchie ed epoche della Storia che farebbero da pezze d’appoggio in tema di moderna inclusione e di integrazione più o meno coatta. Nulla di più sbagliato. Decisioni di questo tipo vanno calate nella realtà sociale di uno specifico contesto storico. Non c’è una legge che vale per tutti i tempi. Così come non c’è un governo o un regime adatto per ogni situazione. Che sia una questione ideologica è chiaro e palese a tutti. Il fatto che giornali e Tv intervistino bambini nati in Italia da genitori stranieri, cogliendo il lato umano e drammatico di quelle esperienze, è operazione volgare e indegna. Se da una parte c’è chi sostiene questa tesi facendosi vergognosamente scudo con le facce e le storie di bambini, c’è un ministro dell’Interno che ci intima di tenerci lontano dai cattivi maestri. Ora, con tutto il rispetto che si deve per un ministro così importante, va da sé che sentir parlare un ex comunista di cattivi maestri provoca risentimento e irritazione di non lieve entità. Chi sarebbero i ‘cattivi maestri’? Quelli che hanno una posizione diversa sui flussi migratori o sul concetto di cittadinanza? Se è così, si sbaglia caro Ministro; i Salvini e le Meloni di turno non c’entrano. Si tratta di un sacrosanto scontro dialettico che è sale della democrazia. Si finisca, una volta e per tutte, di portare come esempio gli altri Paesi. Solo qualche giorno fa, un deputato di Forza Italia ci invitava a dare uno sguardo alla legislazione di non so quale stato africano dove le regole di integrazione sarebbero più restrittive. Non so se sia una boutade o una ‘uscita’ fatta col proposito di provocare una discussione pubblica. Tuttavia, su questo tema vale lo stesso discorso fatto per le riforme costituzionali. Le leggi si fanno tenendo presente l’interesse primario dei cittadini e il contesto storico, economico e sociale. Giolitti diceva che un sarto, quando taglia un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito …e così doveva fare un politico. Ecco, lorsignori facciano il vestito tenendo conto della attuale situazione generale e perciò non annuncino la palingenesi della umanità. Non c’è riuscito Gesù Cristo, dovremmo credere ai sinistrorsi e ai democratici di turno? Non è assolutamente vero che il tema della identità non è connesso ai flussi migratori. A leggere i dati, per la quasi totalità, coloro che scappano dai propri paesi sono migranti economici. Sono cioè futura mano d’opera a basso costo che si prepara ad integrarsi nel nostro sistema economico e a rendere ancor più labile le certezze del diritto del lavoro grazie alla percezione reale di poter diventare in un breve-medio periodo cittadini. Tenuto conto di ciò, dal punto di vista simbolico, approvare lo ‘ius soli’ sarebbe un colpo micidiale (positivo) per coloro i quali ci ritengono il paese del bengodi. L’idea di partorire in Italia per ottenere una futura cittadinanza sarebbe un incentivo incredibile per i poveri e i diseredati dell’intero Mediterraneo. In tutti i Paesi del mondo cosiddetto civile, gli immigrati si adeguano alle leggi del paese ospitante. Da noi sta succedendo l’inverso. C’è timidezza e ritrosia nel segnalare questa verità lapalissiana quasi si offrisse la stura ad un nuovo razzismo. Tuttavia, di fronte a fenomeni enormi, invece di regolarli e stringere le maglie, abbassiamo ai minimi termini la soglia del lecito e del legittimo. Insieme allo ius soli il Parlamento ha pensato di collegare una sorta di ius culturae, una cittadinanza data <<agli under 12 che abbiano frequentato almeno cinque anni di scuola>>. Ma davvero si ritiene che possa essere sufficiente ciò per una reale integrazione? Un riassunto fatto bene all’esame di quinta elementare, delle tabelline citate a memoria o le divisioni? E se anche fosse così, qualcuno ha pensato che se il bambino con regolare licenza elementare e successiva cittadinanza italiana continui a frequentare predicatori di odio, in famiglia, in moschea o da qualunque altra parte, sarà integrato solo formalmente? In Paesi come Francia e Belgio le maglie larghe della integrazione hanno chiaramente palesato un tragico fallimento. Tante migliaia di seconde e terze generazioni sono francesi o belgi solo sulla carta. Come i fatti dimostrano, restano invece legati ai paesi di provenienza dei loro familiari. E questo se da un lato non sarebbe un male perché tutti devono custodire le proprie antiche radici, dall’altro preoccupa perché in non rari casi si rifanno al radicalismo islamico e a fanatismi di vario tipo. Una volta che avranno compiuto qualche atto terroristico, non potremmo nemmeno espellerli. Sarebbero italiani e quindi dovrebbero restare nelle nostre carceri, il luogo in cui più si alimenta il fanatismo. Italiani-razzisti è un panzana di dimensioni ciclopiche. La tolleranza e la solidarietà dei nostri concittadini supera di gran lunga talune comprensibili liti e contrasti. Tuttavia, quando l’accoglienza è messa da parte e si pensa alla sostituzione di un popolo con un altro e nelle periferie piccole e grandi arrivano in massa clandestini, senza nessun ordine, disciplina, legalità, ed anche armonia, il minimo che possa accadere sono le rivolte modello-banlieue. Il tema dell’identità non è secondario. Nonostante viviamo in una società magmatica, ‘liquida’ avrebbe detto il famoso sociologo, non significa che ogni riferimento alle proprie radici debba per forza essere azzerato. Ecco perché a me fa paura un paese come la Germania dove si parla di ‘’persone che vivono qui’’ e non più di tedeschi. Su questo concetto si era aperto un dibattito alcuni anni fa ma la situazione non sembra essere cambiata visto che la settimana scorsa la Cancelliera Merkel ha ancora una volta utilizzato lo stesso perfido concetto (‘’tutte le persone che vivono qui’’). Non è un dato secondario il fatto che il migrante economico sia essenzialmente lo scopo principale del capitalismo finanziario che vuole esseri apolidi, non legati ad alcuna identità e soprattutto precari nel lavoro e disponibili per mano d’opera a basso costo. Che voglia cioè dei cittadini riconoscibili solo dal loro esser consumatori, senza valori autoctoni di rifermento. Ed infine, la deriva tragica ed eterna della sinistra contemporanea che rinnega completamente le sue idee storiche per mettersi dalla parte dei padroni. Non capisce che è tutto connesso: cittadinanza, flussi migratori, diritto del lavoro, eccetera. Finge di non accorgersi di nulla e porta avanti stupide battaglie ecumeniche che andranno a penalizzare le fasce di popolazione più deboli, proprio quelle che un tempo erano il suo bacino elettorale di riferimento. Ma tant’è. Stiamo dunque vivendo tempi bui. Aveva ragione Baudelaire: all’inferno si scende per piccoli passi. Ma ho l’impressione che i nostri passi siano grossi e veloci.

Magdi Allam su “Il Giornale” del 15 novembre 2015: L’invasione è già iniziata: la civiltà europea va difesa. Per fronteggiare il terrorismo islamico è necessario chiudere le moschee illegali, bloccare ai confini i clandestini e abrogare lo ius soli. Poi potenziare e addestrare le forze dell’ordine. Siamo in guerra. Parigi è stata trasformata in un campo di battaglia. Dopo toccherà a Roma. È una guerra scatenata dal terrorismo islamico, ormai autoctono ed endogeno. Una guerra intestina, europei musulmani contro europei miscredenti, che si consuma in Europa. Una guerra che registra il fallimento dello Stato, dei suoi servizi segreti e della magistratura, che non hanno saputo elaborare una strategia politica, prevenire e reprimere il terrorismo islamico. Una guerra dove in realtà il principale nemico da combattere siamo noi stessi, la nostra ingenuità, la nostra ignoranza, la nostra paura, il condizionamento degli interessi materiali, la collusione ideologica di una maggioranza che concepisce l’islam come una religione di pace e immagina i terroristi islamici come una scheggia impazzita che tradirebbe il «vero islam». Inevitabilmente il trauma prodotto da terroristi islamici che si fanno esplodere, che massacrano e che giustiziano uno ad uno i nemici dell’islam, ci costringe a prendere atto che siamo in guerra. Ma non abbiamo la lucidità intellettuale e il coraggio umano di affermare che i terroristi che perpetrano degli efferati crimini invocando «Allah è il più grande», sono i musulmani che più di altri dicono e fanno alla lettera e nella sua integralità quanto Allah ha prescritto nel Corano, quanto ha detto e ha fatto Maometto. Un attimo dopo aver toccato con mano le atrocità dei terroristi islamici archiviamo il fatto nei meandri impenetrabili della ragione. Perché abbiamo paura di guardare in faccia la realtà. Quanti continueranno a occuparsi delle stragi di Parigi tra una settimana o dieci giorni? La verità è che temiamo di prendere atto che la radice del male è l’islam, ritenendo che dovremmo scontrarci con tutti i musulmani, moderati, integralisti e terroristi che, con modalità diverse, difendono la bontà dell’islam. Ebbene non si tratta di fare la guerra a un miliardo e mezzo di musulmani, ma di salvaguardare il nostro legittimo dovere, prima ancora che diritto, di difendere la nostra civiltà per essere pienamente noi stessi dentro casa nostra. Cosa dovremmo fare concretamente? Se fossi il ministro dell’Interno, nell’ambito della proclamazione dello stato d’emergenza indispensabile per fronteggiare la guerra del terrorismo islamico, attuerei immediatamente i seguenti provvedimenti:

1) chiudere le moschee illegali, a partire da quelle che sono registrate come centri culturali, le moschee e i siti jihadisti collusi con il terrorismo, che legittimano nel nome di Allah l’odio, la violenza e la morte nei confronti di ebrei, cristiani, atei, apostati, adulteri e omosessuali.

2) Bloccare le frontiere all’ingresso dei clandestini, che sono in stragrande maggioranza giovani musulmani che arrivano dalle coste libiche, filtrati dal terrorismo islamico, ponendo fine all’attività della criminalità organizzata straniera e italiana che lucra con il traffico e l’accoglienza dei clandestini. L’Italia non può continuare a essere l’unico Stato al mondo che legittima la clandestinità e che investe le proprie risorse per l’auto invasione di clandestini.

3) L’adeguamento delle Forze dell’ordine assumendo 40mila giovani che riequilibrino l’organico e consentano di abbassare l’età media che è di 45 anni; avviare un corso di formazione anti terrorismo per almeno 12mila agenti; l’ammodernamento delle armi e dei mezzi; l’aumento sostanziale delle retribuzioni che sono mediamente di 1.350 euro; la tutela giuridica che favorisca le forze dell’ordine nell’esercizio del loro dovere di garantire la sicurezza dei cittadini e la difesa delle istituzioni.

4) Abrogare lo ius soli e limitare la concessione della cittadinanza agli stranieri che abbiano dimostrato con i fatti di rispettare le leggi, di condividere i valori della sacralità della vita di tutti, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà di scelta compresa la libertà del musulmano di abiurare l’islam senza essere automaticamente condannato a morte per apostasia e, soprattutto, di operare concretamente per costruire un’Italia migliore.

Chiedo al ministro dell’Interno Alfano di smetterla di dirci che non ci sono riscontri dell’imminenza di attentati. Con questo terrorismo islamico microcellulare, dove 8 terroristi sono stati in grado di mettere a soqquadro la capitale di un importante Stato europeo, non ci saranno mai riscontri che consentano di prevenire gli attentati. Alfano deve ugualmente smetterla di fare proclami altisonanti per l’espulsione di singoli imam violenti. Sono la punta dell’iceberg, è una mera operazione mediatica. Solo scardinando l’iceberg, la filiera che attraverso il lavaggio di cervello trasforma le persone in robot della morte, potremo vincere la guerra del terrorismo islamico. È questa la specificità e la vera arma del terrorismo islamico. Oggi tutte le nostre istituzioni sono inadeguate a fronteggiare la guerra del terrorismo islamico. Dobbiamo cambiare. Fortificarci dentro. Subito. Quando conteremo i nostri morti sarà troppo tardi. Siamo in guerra. O combattiamo per vincere o saremo sconfitti e sottomessi all’islam.

Terrorismo: non vi azzardate a confondere le acque, scrive il 20 giugno 2017 Giampaolo Rossi su "Il Giornale". Lanciare un furgone contro civili inermi che stanno uscendo da una moschea dopo aver pregato, è un crimine ignobile; un atto d’orrore e di vigliaccheria. Darren Osborne, il “bianco” inglese di Cardiff che ha compiuto questo atto, è un miserabile e mi auguro che possa marcire in galera (o in un’ospedale psichiatrico) per il resto dei suoi giorni. Poteva essere una strage e non lo è stata per pura casualità. Quell’uomo è stato immediatamente accusato di terrorismo; questo consentirà alla magistratura britannica di imputargli il massimo delle pene possibili per la tentata strage con l’applicazione delle aggravanti previste. Ma chi oggi prova ad equiparare questo gesto vigliacco con il terrorismo islamista che da anni insanguina le nostre città, è un ipocrita e uno spudorato mentitore. Chi mette sullo stesso piano la crescente islamofobia in Gran Bretagna (di cui il gesto di Osborne è ad oggi il crimine più grave) con la pianificazione di un terrore teorizzato e costruito in questi anni dal radicalismo islamico, manipola la realtà. Parlo di voi, intellettuali buonisti, politici da sbornia multiculturale, teorici dello Ius Soli; non ci provate neppure per un secondo a pulirvi le coscienze e la responsabilità con ragionamenti tipo questo: “ecco, c’è un terrorismo islamico e uno anti-islamico e hanno la stessa matrice; in fondo si equivalgono perché tutto è uguale a tutto. Quindi non esiste un pericolo islamico per l’Occidente, semmai un pericolo terroristico (che è anche islamico) che mina la nostra tranquillità sociale”. Quello che state cercando di far passare sui vostri media è l’ennesima dissimulazione di un problema immenso che voi avete contribuito a creare nelle nostre società.

Quello dei movimenti nazionalisti a sfondo razzista è un fenomeno certo pericoloso ma ancora marginale e limitato; non è parte delle nostre paure quotidiane come lo è l’integralismo islamico. Non abbiamo dovuto mettere soldati in assetto di guerra a vigilare metropolitane, piazze, mercati, per colpa di quelli come Darren Osborne. L’islamofobia che cresce in Europa non è terrorismo. Almeno per ora. Lo potrà diventare solo se l’Europa sarà permissiva, debole, vigliacca, come lo è stata in questi anni con il radicalismo islamico a cui è stato concesso di crescere indisturbato in molte nostre città. Dietro l’uomo bianco di Cardiff non ci sono nazioni straniere che finanziano le sue organizzazioni terroristiche; come da anni fanno Arabia Saudita e Qatar. L’uomo di Cardiff non è stato indottrinato dentro una chiesa cristiana (cattolica o protestante) da un prete che lo ha benedetto dicendogli che è bene uccidere musulmani in nome di Dio o di Gesù; come fanno molti imam integralisti che predicano nelle moschee delle città europee. Quell’uomo non ha imparato a scuola un integralismo religioso che nega e distrugge i valori della società in cui vive; come invece accade in molte scuole coraniche salafite autofinanziate dagli stessi musulmani occidentali. Il quartiere di Cardiff da cui lui viene non è una zona franca allo Stato di Diritto dove è concesso che ci sia una “Polizia Ariana” o un “Tribunale della Razza”: come invece avviene ormai in alcuni quartieri di Londra, Amsterdam o Stoccolma controllati da Polizie e Tribunali della Sharia. Quell’uomo non è stato addestrato ad uccidere nei campi di guerriglia degli eserciti di Dio, né è tornato dopo aver combattuto in una Guerra Santa, come molti foreign fighters islamici prima di compiere stragi in Europa. L’Occidente inizi a guardare con realismo cosa sta succedendo.

In questo momento in Siria ci sono musulmani che stanno dando la loro vita per combattere il terrorismo; musulmani che difendono i cristiani perseguitati dai jihadisti. I governi occidentali, invece di stare dalla loro parte, sono alleati di nazioni che il terrorismo islamico lo finanziano e lo esportano (Arabia Saudita e Qatar in primis); promuovono guerre umanitarie il cui unico risultato è radicalizzare masse islamiche e diffondere l’estremismo; destabilizzano il Medio Oriente generando l’immigrazione di massa che si riversa nei nostri paesi alterando da qui ai prossimi 30 anni l’equilibrio demografico, sociale e culturale. Quando il Presidente turco Erdogan (membro della Nato) invita i suoi fratelli musulmani in Occidente a fare “non 3 ma 5 figli perché voi sarete il futuro dell’Europa”, e il governo italiano si appresta a votare lo Ius Soli (aprendo la strada a questa follia per altri paesi europei), ci troviamo di fronte ad una rimozione della realtà che non farà altro che aumentare conflitti. L’Islamofobia nega i valori delle società che pretende di difendere; è una contraddizione che nasce da una frustrante paura per ciò che l’Europa è diventata in questi ultimi 20 anni, per la percezione di un cambiamento imposto che sta stravolgendo le nostre vite; imposto attraverso i processi di immigrazione indotta e multiculturalismo. Per questo non vi azzardate a confondere le acque: l’uomo di Cardiff non è la causa di tutto questo; semmai è una reazione criminale, un campanello di allarme di ciò che voi state consentendo e che si chiama: islamizzazione dell’Europa.

La polizia tedesca ordina: non dite la verità sul terrorismo islamico, scrive Marcello Foa su “Il giornale” il 20 giugno 2017. Il Corriere del Ticino, principale testata del gruppo che dirigo, ha pubblicato questa mattina un documento riservato del Bundeskriminalamt (BKA) la Polizia criminale tedesca. Si intitola «Come agire in presenza di attacchi terroristici” e contiene le linee guida sulle informazioni da trasmettere alla stampa in queste circostanze. L’intenzione è lodevole: evitare il diffondere di allarmismi, ma le conseguenze pratiche sono sorprendenti. E inquietanti. La premessa dà già il tono: “Nell’anno elettorale 2017 non ci sarà alcun attentato, almeno se si sarà in grado di evitarlo. Ciò significa che, non importa quanto siano sicuri dei fatti i funzionari in campo, davanti alla stampa e all’opinione pubblica, per cominciare, si deve negare sempre tutto. Lo staff di consulenza del Governo ha bisogno di tempo per illustrare l’accaduto e per mettere insieme un racconto credibile agli occhi dell’opinione pubblica».

Capito? E ancora: «Le lettere di rivendicazione devono essere citate solo se necessario, ma senza fornire particolari. In caso di dubbio, escludere l’attacco terroristico. Divulgare la teoria dell’autore singolo, come pure quella della persona psichicamente disturbata. In aggiunta: evitare sempre, per cominciare, di parlare di IS (Stato islamico, n.d.r.) o di Islam».

L’autore dello scoop, Stefan Müller, cita un esempio concreto: l’attentato di Dortmund dell’11 aprile contro il bus dell’omonima squadra di calcio. La polizia, dopo una decina di giorni, annunciò che era stato compiuto da Sergej W. (28.enne russo-tedesco nel frattempo arrestato a Tubinga), che aveva ordito l’attentato per speculare in Borsa. Versione, che all’epoca aveva suscitato non poche perplessità. Dal documento scoperto dal Corriere del Ticino si scopre che era giunta una rivendicazione dell’Isis, mai però comunicata ai media. Inevitabile chiedersi adesso: Chi è stato davvero? Sergei o un fanatico del Califfo?

Molto interessante anche la parte del documento in cui, rilevando un netto aumento dei fenomeni terroristici in Europa, si osserva che il quadro è andato peggiorando con «l’apertura delle frontiere da parte di Merkel». Ovvero la Polizia criminale tedesca avvalora l’equazione che le sinistre tendono a liquidare come un pregiudizio o un teorema populista: più immigrati fuori controllo, più terrorismo. La BKA parla di un traffico di passaporti rubati usati dagli attivisti dell’Isis in Europa. «Dieci milioni di visitatori stranieri all’anno entrano in Germania con passaporti falsi o rubati. In tal senso è possibile correlare la quantità di passaporti rubati con Al Qaeda (IS) e le attività terroristiche islamiste».

Sono menzognere anche le cifre sull’immigrazione clandestina, almeno quelle comunicate in Germania. Leggete questo passaggio del rapporto: «La percentuale degli ingressi illegali è cresciuta del 70%. I colleghi italiani prevedono l’arrivo di circa 350 mila, fino a 400 mila migranti dall’Africa nell’anno 2017. Verso l’esterno, alla stampa e ad altri media, indichiamo una cifra di 250 mila unità».

E lo stesso vale per i crimini ordinari commessi dagli immigrati. Nel 2015 erano 309 mila, nel 2016 sono saliti a 465 mila. Queste cifre, peraltro, non contengono reati contro l’asilo e la socialità. Ma “ai media – si legge nel rapporto – si parla rispettivamente di 209 mila reati e di 295 mila». Ben 170 mila in meno.

Decisamente esplosivo questo passaggio del rapporto: «Mai parlare di migranti economici. La sollecitazione giunge direttamente dal ministro della Cancelleria e dal portavoce del Governo. Queste indicazioni sono tassative, per chi non le rispetta sono previste sanzioni severe, procedure disciplinari e il licenziamento dalla polizia».

Sia chiaro: le autorità, da sempre, si riservano una certa discrezionalità nel diffondere le notizie più sensibili o per proteggere agenti infiltrati. Non dicono mai tutta la verità, com’è ovvio. Ma il quadro che emerge da questo rapporto va oltre i normali confini dell’intelligence. Quando si modificano sistematicamente le statistiche, quando si tenta di dissimulare gli attentati fino a dare istruzioni per fabbricare versioni credibili agli occhi dell’opinione pubblica, quando un governo vieta di parlare di “migranti economici” si è in presenza di un metodo per la creazione di Post Verità governative o, se preferite, di una manipolazione sistematica delle informazioni. E tutto questo al fine di non turbare il processo elettorale, dunque di non intralciare la campagna elettorale della cancelliera Merkel. Cose che capitano nella democratica Germania.

Mentana difende Facci e litiga con i «webeti» «Aboliamo l'Ordine». Il direttore a fianco del collega sospeso: "No a chi sanziona le opinioni". Ma viene attaccato, scrive Luca Fazzo, Martedì 20/06/2017, su "Il Giornale. Guai a Filippo Facci, colpevole di odiare l'Islam; e guai anche a chi osa prendere le sue difese: anche se si chiama Enrico Mentana, dirige il Tg della 7, e alle spalle ha qualche decennio di carriera giornalistica che testimonia per lui. Ma non c'è niente da fare. Domenica sera Mentana sulla sua pagina Facebook attacca frontalmente l'Ordine dei giornalisti, che ha sospeso Facci - giornalista di Libero - per due mesi dalla professione e dallo stipendio per un editoriale considerato razzista: una manciata di ore, e Mentana si trova costretto a pubblicare un nuovo post per rispondere all'ondata di reazioni indignate piovutegli addosso, «direttore ma che cazzo dice?», e via di questo passo: tutte schierate contro Facci, quasi tutte contro Mentana, e in buona parte contro la possibilità stessa che un giornalista pubblichi le sue opinioni. «C'è gente - scrive Mentana nel nuovo post - che concepisce il ruolo del giornalista alla stregua di un altoparlante della stazione: annunci, notizie, nessuna opinione»: e ricorda che tutti i grandi del mestiere, da Montanelli a Bocca, furono anche portatori di opinioni forti. Per i suoi critici, il direttore conia la definizione di «analfabeti funzionali»: che richiama da vicino quella di «webeti», da lui stesso impiegata contro la demenza di molti commentatori via Internet. Quella di Mentana non è la sola voce che si è levata a difesa di Facci: prima Alessandro Sallusti sul Giornale, poi Pierluigi Battista sul Corriere. Ma è a Mentana che vengono riservate le contumelie più esplicite, in nome di una pretesa obiettività dell'informazione. E poco conta che Mentana non abbia in nessun modo condiviso le tesi di Facci, ma abbia posto il problema della libertà di opinione: «Io con gente che sanziona le opinioni non voglio avere nulla a che fare», scrive; e si schiera per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti, «ora che da inutile è diventato anche dannoso». Ma come è arrivato l'Ordine dei giornalisti a interdire per due mesi Facci? La sanzione dà conto della autodifesa di Facci: «Il giornalista Facci ha respinto con fermezza l'accusa di razzismo (...) egli ha precisato che il suo articolo si riferisce a idee e non a persone e che il suo odio è indirizzato all'Islam come patrimonio di idee». Scrive il Consiglio di disciplina: «Questo Consiglio non deve valutare se Facci sia o meno razzista ma se l'articolo da lui scritto appaia in linea con le regole che i giornalisti si sono date per evitare la diffusione di scritti che possono ledere la dignità delle persone appartenenti a razze o religioni diverse da quella maggioritaria e possano rafforzare e legittimare nei lettori opinioni d natura razzista». Ebbene: «le affermazioni contenute nell'articolo hanno un evidente carattere razzista e xenofobo (...) la parte peggiore dell'articolo è quella che riguarda le idee e che consiste in un attacco e in una offesa ad un intero sistema culturale (...) si ritiene pertanto che Facci con la sua condotta abbia compromesso la stessa dignità della professione, ridotta a grancassa dell'ostilità e del livore contro chi appartiene ad un'altra sfera culturale».

Filippo Facci condannato e sospeso per aver criticato l'islam. Scrive Filippo Facci il 17 Giugno 2017 su "Libero Quotidiano". La notiziola è che il Consiglio di disciplina dell'Ordine lombardo dei Giornalisti ha deciso di sospendermi per due mesi dalla professione e dallo stipendio, questo a causa di un articolo che pubblicai su Libero il 28 luglio 2016 e che fu titolato «Perché l'islam mi sta sul gozzo». Una giovane collega, che non conosco, lesse l'articolo - che ebbe un certo seguito - e ritenne di fare un esposto contro di me: c' è gente che in agosto fa queste cose. Il risultato, dopo un pacato processino, è questa condanna incredibilmente severa rispetto alle abitudini dell'Ordine: è una sentenza comunque appellabile e, da principio, avevo pensato di riservare ogni reazione alle sedi competenti, come si dice: poi ho letto le motivazioni del giudice estensore (un avvocato che si chiama Claudia Balzarini) e sinceramente non ce l'ho fatta.

Questo per due ragioni: la prima è temperamentale mia, la seconda riguarda puramente la libertà di espressione garantita dalla Costituzione, che non è solo affar mio. Anticipo solo questo: trovo riprovevole che il regolamento del Consiglio di disciplina permetta che una non-professionista, che ho diritto di giudicare di dubbio livello culturale e di forte condizionamento ideologico, possa privare un giornalista e relativa famiglia dei mezzi di sostentamento per mesi due: e questo, a mio dire, non per una palese violazione di alcuna legge (in particolare viene citata la Legge Mancino, quella che vieta la diffusione di idee fondate sull' odio razziale) bensì, sempre a mio dire, per le sue personali visioni del mondo. Ci sarebbe il problema, ora, di illustrare l'oggetto del contendere (l'articolo) senza che suoni come un pretesto per riproporlo tale e quale: suonerebbe provocatorio e non mi va. Quindi dovrete fidarvi di una sintesi dei concetti che esprimeva: e lo faceva con grande chiarezza, vi assicuro.

Unica premessa: il linguaggio era durissimo, volutamente durissimo: e questo come reazione all' impossibilità, oggigiorno, di esprimersi liberamente sull' islam con lo stesso comune linguaggio che si riserverebbe ad altri temi, senza dover porre tremila distinguo ogni volta: «Ho esagerato consapevolmente e lucidamente», ho detto durante l'audizione all' Ordine.

Dopodichè, passando all' articolo, in esso ho espresso il personale diritto di poter odiare l' islam, tutti gli islam, dunque gli islamici e la loro religione che giudico addirittura peggiore di tutte le altre: perché - anche su questo sono stato chiarissimo, durante il processino - io le religioni le detesto tutte, alla maniera dei razionalisti inglesi: non sono mai stato un teo-con, non m' interessa contrapporre una religione a un' altra: tanto che, su questo giornale, ho espresso critiche durissime anche contro il Papa e il Vaticano (forse l' estensore della sentenza non avrebbe gradito neppure quelle, scrivendo lei su Famiglia Cristiana) e questo senza che nessuno mi denunciasse all' Ordine. Certo, alla teosofia islamica ho riservato un'intolleranza particolare perché trattasi di un credo totalizzante e imperniato sulla sottomissione altrui, o - per fare un solo esempio - sulla considerazione della donna come essere inferiore. Dal mio articolo: «Io non odio il diverso: odio l'islam, perché la mia (la nostra) storia è giudaica, cattolica, laica, greco-latina, rousseiana, quello che volete: ma è la storia di un'opposizione lenta e progressiva e instancabile a tutto ciò che gli islamici dicono e fanno». Da qui un' intolleranza (mia) anche per dettagli che sono liberissimo, credo, di poter detestare apertamente: dalle moschee ai tappeti che puzzano di piedi, dai veli femminili al cibo involuto, dall' ipocrisia sull' alcol a cose più serie come «le teocrazie, il loro odio che è proibito odiare», soprattutto «quel manualetto militare che è il Corano», che a sua volta devo poter criticare esattamente, ritengo, come posso fare col Vangelo o chessò, col Mein kampf: che trattano idee o ideologie - tali sono anche le religioni - e non singole persone. Sempre dal mio articolo: «Odio l'islam perché l'odio è democratico esattamente come l'amare, odio dover precisare che l'anti-islamismo è legittimo mentre l'islamofobia no, perché è solo paura: e io non ne ho, di paura... Odio l'islam, ma gli islamici non sono un mio problema: qui, in Italia, in Occidente, sono io a essere il loro».

Bene. Ora qualche estratto dalla sentenza, del cui livello possiamo avere un'idea sin dall' incipit: «Facci ha respinto con fermezza l'accusa di razzismo. Questa è la premessa che solitamente accompagna tutte le affermazioni di carattere razzista». Chiaro: è come dire che dirsi innocenti, in tribunale, sia un primo indizio di colpevolezza: il livello è questo, e per non essere scorretti tralasceremo gli errori materiali di scrittura (sbagliano a scrivere «jihad», ma a ciascuno il mestiere suo). A ogni modo, «Le affermazioni contenute nell' articolo hanno un evidente carattere razzista e xenofobo»: e qui, francamente, c' è da averne abbastanza dell' espressione «razzista» adottata ormai come termine passpartout quando ha invece un significato etimologicamente e storicamente preciso, vedasi vocabolario: è l' idea che la specie umana sia divisibile in razze biologicamente distinte - con diverse capacità intellettive, valoriali o morali - con la convinzione che un raggruppamento razziale possa essere superiore a un altro. Questo è il razzismo, imparentato con la xenofobia che è, invece, una generica paura dello straniero. Ma se è vero che il mio articolo parla di idee, attenzione, «la parte peggiore è proprio quella che riguarda le idee e che consiste in un attacco e in un offesa ad un intero sistema culturale». E se anche fosse? Siamo al reato di vilipendio islamico? «Facci offende una religione e un intero sistema di valori. Non può non rilevarsi che, per l'islam, il Corano ha un valore diverso di quello (sic) che per le altre religioni rivelate hanno i libri sacri». Ergo, se abbiamo letto bene: il Corano non si può offendere, gli altri libri già di più. Mistero: resta che trattasi, l'articolo, di «attacco diretto, indiscriminato e generalizzato verso un gruppo di persona (sic) che costituisce un quarto del genere umano». Verrebbe da rispondere che gli idioti forse sono anche di più, tuttavia la Costituzione non ci impedisce di criticarli. Nell' insieme, è semplicemente pazzesco. Mi avessero detto «hai ecceduto nel linguaggio e allora ti sanzioniamo», forse avrei capito. Ma questa è un'altra cosa. E rischia, sissignori, di essere lo specchio di un'epoca. Filippo Facci

Facci sospeso perché rivendica il diritto all'odio. Sull'onda degli attentati in Europa, il giornalista rivendicava il diritto ad odiare l'islam e gli islamici. Ora l'Ordine lo ha sospeso per due mesi dalla professione e dallo stipendio, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 17/06/2017, su "Il Giornale". L'Ordine dei giornalisti ha sospeso per due mesi dalla professione e dallo stipendio Filippo Facci, collega di Libero e noto volto televisivo. Nell'articolo finito sotto inchiesta, scritto nel luglio dello scorso anno, Facci rivendicava il diritto ad odiare l'islam e gli islamici. Un articolo molto duro, nella forma e nella sostanza, scritto sull'onda degli attentati fatti nel nome di Allah che in pochi giorni provocarono in Europa oltre cento vittime, la maggior parte delle quali a Nizza. Conosco Filippo Facci e lo stimo, come collega e come intellettuale. È un uomo talmente libero da non aver raccolto quanto il suo talento gli avrebbe permesso accettando solo qualche piccolo e umano compromesso. No, non c'è verso: lui si infiamma e parte in quarta senza remore e limiti. Per questo piace a molti lettori, meno a direttori ed editori. Figuriamoci ai colleghi invidiosi, ai notai del pensiero, ai burocrati del politicamente corretto. Filippo Facci non farebbe male a una mosca (al massimo è capace di farlo a se stesso) e per questo non mi spaventa che abbia rivendicato il «diritto all'odio» di una religione e di una comunità che hanno generato i mostri assassini dei nostri ragazzi. L'odio inteso - nell'articolo è ben spiegato - non come incitamento alla violenza, ma come sentimento contrario a quello dell'amore, «detestare» come opposto di «ammirare». I sentimenti non si possono contenere, ma evidentemente non si possono neppure scrivere. Tanto più se sei un giornalista, se non sei di sinistra, se pubblichi su un giornale di destra, se si parla di islamici. Il tema posto da Facci sul diritto all'odio (Travaglio, tanto per fare un esempio, lo teorizzò nei confronti di Berlusconi) è questione aperta nonostante sia stata affrontata nei secoli da fior di filosofi e da grandi intellettuali. Che a differenza dei colleghi del tribunale dell'Ordine di Milano non sono mai arrivati a un verdetto unanime (e qualcosa vorrà pur dire). Qui non parliamo di una notizia falsa o di fatti e persone specifiche. Siamo di fronte all'opinione di un intellettuale. Il problema non è condividerla o meno. È non censurarla, non soffocarla, non punirla, come abbiamo sempre invocato per chiunque, compreso per Erri De Luca quando istigò al sabotaggio della Tav. Tanti islamici, anche se non terroristi, anche se non lo dichiarano, odiano noi e i nostri costumi. Noi stiamo per premiarli dando la cittadinanza automatica ai loro figli. Però puniamo Facci che non fa mistero dello stesso, reciproco, sentimento. Mi spiace per lui e mi spiace per la categoria così ridotta. Ma soprattutto mi spiace per tutti noi.

Islam, culo e bavaglio, Vittorio Feltri il 17 Giugno 2017 su "Libero Quotidiano" difende Facci: perché ha il diritto di critica. Il nostro eccellente Filippo Facci, editorialista di vaglia, è stato «condannato» a due mesi di disoccupazione per aver pubblicato un articolo nel quale egli manifestava odio e disprezzo nei confronti dell'islam in genere. La dura sentenza non è stata emessa da un tribunale della Repubblica bensì dall' Ordine lombardo dei giornalisti, ente legittimato a punire gli iscritti anche se si limitano a usare un linguaggio considerato dai giudici (improvvisati) volgare e offensivo. Il che è arbitrario. Secondo i colleghi al vertice dell'Albo, Facci merita di essere sospeso dalla professione (chiamiamolo correttamente lavoro) non solo perché detesta i precetti del Corano, ma pure perché la sua prosa cruda non è gradita alla categoria, la quale si ispira al più vieto conformismo e, pertanto, respinge il lessico che contrasti col cosiddetto politicamente corretto. Ormai l'Ordine, pur di adeguarsi alla moda progressista, invece di badare alla correttezza dell'informazione, si preoccupa di imporre agli scribi i propri canoni estetici, per altro discutibili. In sostanza fa la guerra alle parole e ne trascura il significato. Inoltre entra nel merito delle opinioni e se non condivide quelle di un collega le boccia e le sanziona in barba alla Costituzione che, in teoria, le ammette tutte, salvo quelle del fascismo, la cui apologia è proibita. Filippo nel suo pezzo critica ferocemente la religione musulmana (e non solo questa) e coloro che la praticano. Ha ragione o torto? Non importa. Bisogna riconoscere che è un suo diritto non essere d'accordo con gli adoratori di Allah. D' altronde nessuno ha mai impedito agli anticlericali occidentali, italiani in particolare, di essere ostili al cattolicesimo, al cristianesimo. Si è mai visto un cronista perseguito dall' ordine in quanto auspica la sparizione dei preti? Non c' è quindi ragione di prendersela con Facci perché non tollera gli islamici, i cui costumi sono antitetici rispetto ai nostri. Gli si rimprovera di aver fatto ricorso a termini quali «culo» e «merda». Ma ciascuno ha il proprio vocabolario, bello o brutto che sia. Non c' è motivo di censurarlo. Il culo è una realtà che accomuna l'intero mondo animale, quindi anche umano. È il terminale dell'intestino. È obbligatorio ignorarlo? Quanto alla merda, sfido la corporazione a dimostrare con argomenti scientifici che è una invenzione di Filippo tesa a diffamare chi non sopporta la parità tra maschi e femmine e combatte la democrazia in favore dello Stato etico, da noi superato da secoli. Se la merda c' è, e le cloache ne sono piene, non si comprende per quale motivo sia innominabile. Non si cambia la società, amici redattori, ignorando la semantica e confinando all' indice certi sostantivi e certi aggettivi. Tra l'altro non è compito dei giornalisti migliorare ciò che avviene sulla terra; al massimo siamo attrezzati per descriverlo. Cosa che Facci fa egregiamente, e forse per questo gli tappano la bocca senza neppure provare imbarazzo. La libertà è un bene prezioso per tutti tranne che per i soloni dell'Albo, i quali, non riuscendo a beneficiarne (per convenienza?), pretendono di negarla a noi, sono persuasi sia un lusso inaccessibile per gente disinibita come Filippo.

Facci, l’assurda condanna dell’Ordine, scrive Pierluigi Battista il 18 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Il problema non è se Filippo Facci abbia scritto sul suo giornale castronerie o cose condivisibili. Il problema è che a decidere della liceità di ciò che ha scritto e addirittura a punirlo inibendogli per due mesi l’esercizio della professione sia chiamato un organismo per l’appunto nato nel clima del fascismo, in un’atmosfera per così dire poco favorevole all’ossigeno della libera stampa, e che si chiama Ordine dei giornalisti. Un organismo che infatti non ha eguali in tutto il resto delle democrazie occidentali, nessuna esclusa, che forse (forse?) con la libera informazione hanno una consuetudine più collaudata della nostra. Un organismo costoso e inutile, che si regge sul contributo coatto dei suoi iscritti, perché una norma liberticida, nata con il fascismo e purtroppo perfezionata nell’Italia antifascista, obbliga all’iscrizione nell’Albo dei giornalisti se si vuole esercitare, retribuiti e regolarmente assunti, la libertà di espressione in un giornale. Dicono i suoi difensori: ma anche gli avvocati, gli ingegneri, i medici e altri. Solo che gli avvocati, gli ingegneri, i medici hanno alle spalle un corso di studio, una piattaforma di conoscenze e di tecniche indispensabili per dimostrare la loro idoneità per professioni delicate per la vita di tutti. I giornalisti accedono all’Ordine dopo un esame una tantum consultando testi che, come nell’esame di guida, verranno dimenticati il giorno dopo l’acquisizione dell’obbligatorio tesserino. E soprattutto gli ordini degli avvocati, degli architetti, dei medici non mettono bocca sulle opinioni dei loro aderenti. In quello dei giornalisti, o meglio nelle burocrazie che ne detengono le leve, sì: c’è qualcuno, i cui titoli sono tutti da discutere e da vagliare, che si arroga il diritto di decidere cosa Filippo Facci, e tutti i giornalisti come lui, possa o non possa sostenere in piena autonomia e libertà. In un Paese passabilmente normale e liberale, se un giornalista commette un reato nell’esercizio della sua professione deve essere giudicato dalla giustizia al pari di tutti i cittadini. In Italia no: c’è l’organo corporativo che si sostituisce alla giustizia ordinaria e decide che Facci per due mesi non debba ricevere lo stipendio. Un’assurdità, che prescinde totalmente da quello che Facci ha scritto e può essere più o meno condivisibile. Ma in Italia, l’assurdo è normale.

L’assessore scambia l’Islam per terrorismo. Gli studenti: "Si deve dimettere". All’indomani della strage di Parigi Elena Donezzan, responsabile per l’Istruzione della giunta veneta, scrive un appello ai presidi per parlare di terrorismo, accostandolo alla religione islamica. Scoppia il caso e la rete degli studenti chiede che lasci il suo posto con pubbliche scuse e il ritiro delle frasi incriminate, scrive Michele Sasso “L’Espresso”. Una frase ha scatenato un putiferio: «Se non si può dire che tutti gli islamici sono terroristi, è evidente che tutti i terroristi sono islamici e che molta violenza viene giustificata in nome di una appartenenza religiosa e culturale ben precisa». È giovedì 8 gennaio 2015 e a vergare l’appassionata lettera è l’assessore all’Istruzione della Regione Veneto, Elena Donezzan, che pochi giorni prima aveva promosso un family day a scuola per difendere la famiglia naturale. Scossa per il massacro nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, torna alla carica non pensandoci troppo sopra. Una circolare indirizzata a tutti i presidi della sua regione intitolata “Terrorismo islamico: parliamone soprattutto a scuola” con passaggi forzati carichi di livore: «Alla luce della presenza dei tanti alunni stranieri nelle nostre scuole e dei loro genitori nelle nostre comunità, soprattutto a loro dobbiamo rivolgere il messaggio di richiesta di una condanna di questi atti, perché se hanno deciso di venire in Europa devono sapere che sono accolti in una civiltà con principi e valori, regole e consuetudini a cui devono adeguarsi e che la civiltà che li sta accogliendo con il massimo della pienezza dei diritti ha anche dei doveri da rispettare». Se il fine è la conoscenza e il dibattito dell’attualità tra i banchi il risultato di questa mossa è disastroso. Via change.org è partita una petizione dell’associazione studenti universitari e della rete degli studenti per chiedere le sue dimissioni con pubbliche scuse allegate e il ritiro delle frasi incriminate. In più di quattromila hanno sottoscritto le motivazioni: «Nella circolare si chiede a tutti i dirigenti di far discutere di quanto accaduto, condannando non solo i fatti e chiedendo a genitori e studenti stranieri di dissociarsi, ma anche la cultura islamica, che alimenta, secondo l’assessore, la genesi di tali attacchi terroristici». A scaldare gli animi l’accostamento della Donezzan tra il massacro di Parigi (e tutto quello che è seguito per 55 ore di paura) con l’aggressione alle porte di Venezia di un quattordicenne tunisino che ha accoltellato il padre di uno studente vittima di bullismo. «Fare un paragone tra un gesto di bullismo e un massacro con armi da fuoco è simbolo di un becero razzismo che non possiamo accettare, specialmente se proveniente da una figura con una certa carica istituzionale», continua la petizione: «Viene da domandarsi se questo parallelo sia frutto di una strumentalizzazione cosciente dei fatti oppure da semplice ignoranza: i casi di bullismo sono diffusi in tutto il Paese, non importa l’origine culturale del ragazzo». Dietro gli studenti anche la Cgil regionale ha preso posizione: «La lettera lascia stupefatti per il forte fondamentalismo ideologico sotteso nelle indicazioni impartite. La scuola deve formare le intelligenze e lo spirito critico di quelli che saranno i cittadini di domani, è un luogo di discussione e riflessione anche per capire quanto accaduto in Francia».

Basta coi finti Charlie. La sinistra si appropria dei simboli di ciò che ha sempre combattuto, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. La mia libertà vale più o meno di quella dei colleghi di Charlie? La nostra libertà, quella di ognuno di noi, compresi la Le Pen e Salvini, quanto vale? E ancora: chi decide la classifica delle libertà? Mi chiedo questo perché stiamo assistendo al più ipocrita degli spettacoli e al più surreale dei dibattiti. Giornalisti, intellettuali e politici di sinistra si sono stretti - dico io giustamente - attorno ai colleghi sterminati dalla furia islamica. Ma, contemporaneamente, dagli stessi è partita una campagna contro chi, come noi, sostiene che il pericolo viene proprio dal Corano, dall'islam e dai suoi imam. In queste ore, in tv e sui giornali, ci stanno facendo passare per dei provocatori, dei seminatori di odio, degli incendiari. Ma dico: se c'è qualcuno che, in decimo, ha sostenuto e scritto negli anni ciò che Charlie ha divulgato con la sua tecnica, siamo proprio noi. Noi siamo Charlie, la Fallaci è Charlie, Magdi Allam è Charlie, Piero Ostellino è Charlie. I liberali tutti sono Charlie. Voi di sinistra siete solo degli approfittatori, vi siete impossessati del corpo di un nemico ucciso per quella libertà di opinione che voi di sinistra negavate prima della strage (satira religiosa sì, ma solo contro il Papa e Gesù) e che ancora ora vorreste negare a noi. Se questo Giornale avesse pubblicato una sola di quelle vignette blasfeme saremmo stati linciati come razzisti, fascisti, pazzi irresponsabili e messi al gabbio dalla solerte magistratura italiana per islamofobia (ci siamo andati comunque vicini, nonostante il reato non esista nei nostri codici). E invece, da domani, sarà gara anche a sinistra per pubblicare le nuove frecciate del primo numero di Charlie Hebdo post attentato. Perché Charlie domani potrà dire sull'islam ciò che pensa e noi dovremmo invece allinearci al politicamente corretto? Non condivido molte cose che sostengono la Le Pen e Salvini, ma se uno «è Charlie» deve essere anche Le Pen e Salvini. Cioè deve essere uomo libero e garantire la libertà di chiunque. Cara sinistra, è facile sostenere i diritti dei morti. Anche perché, se fossero vivi, quelli di Charlie vi farebbero un mazzo tanto, quantomeno una pernacchia lunga da Parigi a Roma.

Se la sinistra odia il popolo, scrive Alessandro Catto su “Il Giornale”. La marcia di Parigi, come da programma, ha scatenato apprezzamento e condanna, sentimenti di simpatia e lontananza. Un’ondata di contraddizioni provenente in primis da quelli che, da questa marcia, avrebbero dovuto sentirsi rappresentati, ovvero i cittadini europei. Un evento che più che storico per meriti fisiologici, si è voluto rendere storico nella sua formulazione, nella sua presentazione ai media, nel dipingerlo come unica risposta possibile ad un attacco verso l’Occidente e i suoi valori. Premetto che per me non è stata una marcia trionfale, tantomeno un successo, soprattutto per quanto riguarda la testa di quel corteo. Coi suoi leaders in giacca e cravatta, i capi di stato, sembrava una pratica di circostanza tremendamente ipocrita e fasulla, qualcosa di fatto perché così c’è scritto che bisogna fare. Un qualcosa incapace di rappresentarmi e di rappresentare moltissime persone come me che dovrebbero, in teoria, essere e sentirsi cittadini europei. Alla testa di quel corteo è andata in scena l’ipocrisia di numerosissimi politici europei che hanno grosse responsabilità riguardo la situazione mediterranea e mediorientale. Vi erano personaggi che fino a ieri ci mostravano i benefici della primavera araba di turno, il suo carattere evangelico ed evangelizzante. Vi erano gli alfieri della democrazia per esportazione, gli alfieri di una Europa che non unisce. C’era un trionfo di bandiere in Piazza della Repubblica, ma bandiere europee ce n’erano pochissime. Quella manifestazione ha avuto più il carattere di un secondo funerale ai morti di Charlie Hebdo che non quello di una rivendicazione di orgoglio, di identità e di appartenenza. Ce l’ha avuto a partire dalla sua formulazione, dall’aver fatto fin dal principio figli e figliastri. Quella manifestazione stessa è figlia pure di una porzione politica che, fin da quando il terribile agguato alla sede parigina di Charlie è avvenuto, si è preoccupata più di fare tribuna politica contro il Salvini o la Le Pen di turno che di offrire tutto il proprio supporto alle vittime. Pare esserci stata più veemenza nell’attaccare i capipartito di destra che sensibilità nel puntare il dito contro i responsabili del fatto di sangue. Ieri non è andata in scena la marcia di una Europa unita ma semmai quella di molte nazioni divise, divise pure al loro interno. Nel sud della Francia, mentre le anime belle europee marciavano a colpi di foto e riprese, è andata in scena la marcia sponsorizzata da Marine Le Pen e dal Front National. La marcia dei dannati, degli ultimi, degli esclusi da tutto. Di quelli che non vanno di moda, che fa sempre prurito ospitare in qualche salotto, di quelli che non parlano di Europa, di Diritti e Democrazia, di concetti maiuscolati. Un partito ed una leader scomodi, che è meglio cancellare ed evitare se si vuole andare in piazza imbellettati e col sorriso. Strano però, perché a suon di parlare di democrazia ci siamo forse dimenticati di farla a casa nostra, e ci siamo dimenticati che quel partito così odiato, temuto, becero per bocca dei professori dei nostri tempi, è il primo partito di Francia per consenso elettorale. Marciamo per la libertà dei popoli dimenticandoci di cos’è il popolo, del suo diritto ad essere rappresentato. Si è preferito usare un fatto tragico per trasformare il tutto nella solita, trita e oramai inascoltabile retorica sul rifiuto dei fascismi, dei razzismi, sull’accoglienza, sulla condanna di una ipotetica strumentalizzazione. Qui l’unica strumentalizzazione che ho visto, personalmente, è stata quella di chi, a cadaveri ancora caldi, ha subito messo in piedi un gioco orribile per colpire l’avversario politico, di chi ha approfittato dell’occasione per provare, tristemente, a ritornare rappresentante del popolo dopo l’usurpazione. La sinistra non dimentica, è vendicativa, non tollera usurpazioni. E quella del Front in Francia e pure della Lega in Italia è una usurpazione in piena regola. In termini elettorali, politici e in termini di consenso. La rabbia monta in partiti di sinistra che non riescono più a farsi intercettori delle istanze popolari più umili, che non sanno dar loro rappresentazione, che si ritrovano smarriti. In questi casi allora si tenta sempre di barrare la strada a chi può divenire l’intercettore della protesta al proprio posto. Può esservi la risposta più scaltra, quella di un centrosinistra in salsa renziana che tenta di attirare gli apparati più moderati della nazione. Ma c’è anche la risposta più rabbiosa, più puerile, e sta alla sua sinistra: quella di chi ha perso tutto, ha perso la propria dimensione elettorale, ha perso il passo nei confronti delle istanze del popolo, di chi come unica arma conserva una sola cosa: l’assalto indiscriminato all’avversario e al suo successo, con tutti i mezzi possibili. La sinistra di oggi pare odiare ferocemente il popolo perché l’ha smarrito, perché sa benissimo che moltissimi operai, cassaintegrati, esodati, sia in Francia che in Italia non vogliono salotti, sofismi, filosofie, teosofie, psicodrammi e buonismi. Vogliono soluzioni immediate, presenze tangibili, capacità di dialogo e rappresentazione, vogliono poter confessare le proprie paure e le proprie necessità, anche quelle politicamente scorrette. E questo ormai, in Europa, non lo si fa nella piazza di Parigi, lo si fa nella piazza di Beaucaire con la Le Pen, lo si fa a Musile di Piave con Salvini. Il popolo è lì, consegnato in toto al nemico a son di cianciare di populismo e demagogia. Parlando proprio di rapporto tra Islam e Occidente sentivo ieri, in una nota trasmissione serale di La7, un giovane dire che “non si può far parlare chi non arriva agli ottocento euro al mese”. Un giovane in giacca, occhiali da hipster, erre arrotata, espressione massima del ben pensare de sinistra in salsa europea. Non me la sento di attaccarlo perché esprime chiaramente quello che è la sinistra oggi. Rifiuto del più povero e del più debole, al quale si può pure tappare la bocca. Negazione del disagio, elogio del buonismo. Rifiuto per le classi più povere e disprezzo delle stesse. Non c’è cosa più trendy, al giorno d’oggi, di usare il termine populismo come offesa. E’ un qualcosa che potrebbe tranquillamente essere adottato come criterio di iniziazione per un percorso che parte dalle giovanili del PD, dalle università, dagli apericena meticci, dai lupanari dell’accoglienza. La sinistra oggi è questa, e sfila in giacca e cravatta dopo aver tentato di esportare la sua democrazia in giro per il mondo. Permetteteci di dissentire, e di preferire la piazza di Beaucaire. Che forse ha ancora il diritto di venir chiamata piazza, e non palcoscenico.

Alessandro Catto, laureato in Storia, collabora anche con l’Intellettuale Dissidente. Si occupa di politica e società. Nemico del pensiero unico, tradizionalista per reazione, popolare per collocazione, identitario per protesta, controcorrente per natura, nemico dichiarato della dittatura culturale da sinistra salottiera. Nato a Camposampiero (Padova) il 22/11/1991.

Volo e schianto, scrive l'1 Dicembre 2017 Filippo Facci su "Libero Quotidiano". Fabio Volo è un simpatico vero, la sua virtuosa medietà l'ha trasformato in un'Alice nell' Italia delle meraviglie a cui tutto riesce benino. Si diverte. Gli scrittori impegnati lo odiano perché stravende paccate di libri senza straziarsi le viscere. Volo non pensa granché, ma lo pensa lui, e non ha mai sentito il bisogno di schierarsi politicamente dalla parte dei giusti. Continui pure a farlo: resti lontano dalle sabbie mobili della politica, che non è una cosa complicata ma neanche semplicistica; altrimenti, come dire, chi va al mulino s' infarina. L'altro giorno ha raccontato che in Rai aveva incontrato Berlusconi e che l'aveva rimproverato per un paio di uscite sugli extracomunitari: e bum, ha trovato subito lenzuolate mediatiche pronte a celebrarlo. Forse gli è piaciuto, e mercoledì sera ci ha riprovato con Matteo Renzi, in pubblico: e si è schiantato. Doveva presentare il suo libro, Volo, ed era ospite di Oscar Farinetti, nel cuneese, e c'era Renzi come previsto. È stato Volo a introdurre il tema "ius soli" e a solleticare Renzi: salvo stupirsi perché Renzi ha fatto Renzi, e la parola non l'ha mollata più. Così Volo ha perso centralità e ha cercato istericamente di portare via il pallone: «Non sono venuto ad assistere a un comizio». E se n' è andato. Serata auto-rovinata. Poi ha ammesso: «È una situazione che ho gestito male». Cristallino. Che bello se tutti gli altri artistoidi, quelli «impegnati» all' italiana, capissero che ogni volta fanno la stessa identica figura.

Ius soli, Alessandro Bergonzoni al quarto giorno di sciopero della fame. L’attore: «Abbiamo fame, fame di cambiamento, di diritti e di giustizia», scrive Luciana Cavina il 22 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". È al quarto giorno di digiuno, di sciopero della fame. In staffetta con tutti coloro che hanno aderito all’appello del professore Luigi Manconi. Alessandro Bergonzoni prosegue così la sua battaglia per promuovere lo Ius Soli. Ha marciato insieme ai migranti, alle associazioni, ai figli di famiglie immigrate con i figli nati nel nostro Paese e che niente hanno di diverso rispetto ai compagni di banco nati da genitori italiani. Se non, appunto, la cittadinanza e la consistente manciata di diritti e doveri che ne consegue.

Al pranzo per i poveri. L’autore e attore bolognese, da sempre impegnato in progetti solidali, non perde occasione per rimarcare la sua convinzione che l’approvazione dello Ius Soli sarebbe prima di tutto una conquista di civiltà. Lo ha ribadito anche durante il pranzo per i poveri alle cucine popolari fondate da Roberto Morgantini. «È il concetto di fame - ha detto – Abbiamo fame, fame di cambiamento, di modifica, fame di diritti e fame di giustizia. Oggi come ieri».

Lo sciopero a staffetta. Bergonzoni, segue periodicamente ventiquattro ore di digiuno a turno con gli altri sostenitori dello Ius Soli che comunicano la loro scelta sul sito «A buon diritto» curato dall’anonima associazione presieduta da Manconi. Alla lista sono iscritti molti professori di scuole di ordine e grado e diversi politici. La protesta proseguirà fino a che il Parlamento non si farà concretamente carico della questione.

Arcore, presepe con il barcone. E Gesù nasce tra gli immigrati. Polemica ad Arcore per il presepe sul barcone con i migranti. La Lega Nord insorge: "Qualcuno cammina su sentieri non in linea con la storia della Chiesa", scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 22/12/2017, su "Il Giornale". Ancora una polemica sul presepe. Mancano appena tre giorni a Natale e ancora si combatte sui presepi realizzati da amministrazioni comunali e parrocchie. Questa volta succede ad Arcore, in Brianza. La parrocchia di Sant'Eustorgio, infatti, ha messo la natività in un barcone. E non solo un gommone, come successo a Castenaso in Emilia Romagna: stavolta oltre al bue e all'asinello ci sono anche i migranti. "Gesù è profugo tra i profughi, ultimo tra gli ultimi", hanno scritto gli autori vicino alla Natività. "Possiamo anche immaginare che al di là delle finestre in queste case ci siano dei presepi certamente belli, ma pur sempre finti. Il dramma in realtà accade fuori, il presepe vero è fuori". Dura la risposta della Lega Nord locale, che ha provocatoriamente realizzato un gazebo per esporre un piccolo presepe "tradizionale": capanna, Gesù, Giuseppe e Maria, pastorelli e via dicendo. Nessun migrante, insomma. "Non si può negare che il presepe predisposto nella parrocchia di Sant'Eustorgio ci abbia un po' intristito - scrivono su un post su Facebook i leghisti - Qualcuno sta camminando su sentieri che, a nostro parere, non sembrano essere in linea con la storia della Chiesa". E ancora: "Il presepe che abbiamo visto nella nostra chiesa non ha i nostri valori simbolici, quelli con cui siamo cresciuti e il messaggio che si vuole veicolare sembra non accorgersi che i poveri ci sono anche molto vicino a noi. Noi non crediamo che il messaggio della barca sia un messaggio di solidarietà, ci vediamo invece della strumentalizzazione politica da cui prendiamo le distanze".

La guardia costiera trasformata per legge in Ong salva migranti. La rinuncia al controllo delle nostre frontiere è in manovra. Arriva pure la nuova web tax, scrive Antonio Signorini, Mercoledì 20/12/2017, su "Il Giornale". Entra nel vivo la sessione di bilancio alla Camera dei deputati. È arrivata la modifica alla Web tax così come era stata varata dal Senato, una nuova versione che taglia l'aliquota unica dal 6 al 3%, ma non allarga la tassa al commercio elettronico. Spuntano anche altri emendamenti, approvati nella notte tra domenica e lunedì. Tra questi, uno impegna il governo a fare le veci delle Ong che andavano a cercare le barche di immigrati imbarcati nel Nord Africa e stabilisce che «le risorse stanziate per il controllo delle frontiere marittime» debbano «essere prioritariamente utilizzare per la ricerca e salvataggio di vite umane», ha spiegato il deputato di Possibile, Andrea Maestri, esponente di Liberi Uguali, autore della proposta di modifica. In altre parole - se l'emendamento dovesse arrivare integro fino all'approvazione della manovra - la legge di Bilancio stabilisce che le risorse per proteggere le coste siano utilizzati in primo luogo per portare in Italia aspiranti rifugiati o migranti economici. Lo scopo, continua Maestri, è «rendere prevalente la funzione di soccorso in mare dei migranti invece che il controllo securitario delle frontiere marittime. Per noi è fondamentale il ruolo delle navi delle Ong, che con il loro lavoro coprono le insufficienze delle operazioni post Mare nostrum, Triton e Sophia. Ma è anche fondamentale ripristinare un capillare servizio pubblico e istituzionale italiano ed europeo di ricerca e salvataggio». Sempre in tema immigrazione - anche se in un'accezione più simbolica - è stato confermato lo stanziamento per consentire il trasporto e l'installazione presso l'Università di Milano del relitto del peschereccio che è naufragato il 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia. Sono 600 mila euro.

L'ultimo regalo del Pd alle coop: sgravi a chi assume immigrati. Contributi fino a 500mila euro l'anno a tutte le cooperative che assumono gli immigrati a tempo indeterminato. Salvini: "È razzismo". Meloni: "Schiaffo ai disoccupati italiani", scrive Andrea Indini, Mercoledì 20/12/2017, su "Il Giornale". Arriva l'ultimo regalo del Pd alle cooperative che fanno affari con l'accoglienza. Un emendamento alla manovra, riformulato e approvato dalla commissione Bilancio della Camera, prevede un premio in denaro, attraverso sgravi fiscali, per le cooperative che assumeranno a tempo indeterminato gli immigrati che hanno lo status di rifugiati. "Questo è vero razzismo - sbotta Matteo Salvini - se ne fregano dei disoccupati italiani, preferiscono fare soldi con coop e immigrati". L'emendamento alla manovra della maggioranza è l'ennesima regalo di un governo prodigo nei confronti delle cooperative che da anni lucrano sull'accoglienza degli immigrati. Si tratta di un contributo di massimo 500mila euro all'anno e per un massimo di tre anni per ridurre gli sgravi dei contributi previdenziali e assistenziale per le cooperative sociali che assumono con contratto a tempo indeterminato, dal primo gennaio 2018 al 31 dicembre 2018, i rifugiati a cui è stata riconosciuta la protezione internazionale a partire dal primo gennaio 2016 "Quasi 5 milioni di nostri concittadini vivono in condizione di povertà, abbiamo una disoccupazione che supera l'11% con contratti farsa anche di un solo giorno, le migliori aziende nazionali sono costrette a chiudere a causa di una tassazione altissima e cosa fa questo governo?", commentano i deputati della Lega Massimiliano Fedriga e Nicola Molteni. L'opposizione è compatta nel condannare la misura che concede sgravi fiscali alle coop che assumeranno a tempo indeterminato rifugiati. Per il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, è "uno schiaffo in faccia ai milioni di disoccupati italiani". E promette: "È una delle prime porcate della sinistra che cancelleremo quando andremo al governo". Per Sandra Savino di Forza Italia la maggioranza a guida Pd è ormai "in stato confusionale". "Ci sarebbe da ridere - commenta - se non fossimo davanti a un Paese sempre più povero, a ragazzi che se ne vanno all'estero per trovare un lavoro e avere un futuro, a disoccupati in età adulta, a giovani famiglie che sempre meno hanno la stabilità per mettere al mondo dei figli". La parlamentare azzurra accusa la sinistra di avere dell'Italia un'idea in cui "i migranti hanno il posto fisso, mentre gli italiani disoccupati si rivolgono alle mense sociali".

Hawala, ecco come fanno lavoratori stranieri, scafisti e terroristi a trasferire soldi senza lasciare tracce, scrivono Lorenzo Bagnoli e Lorenzo Bodrero su "IRPI" riportato il 22 dicembre 2017 su "it.businessinsider.com". Firenze, via Palazzuolo 172 rosso. La Cattedrale di Santa Maria del Fiore dista 15 minuti a piedi. La Stazione di Santa Maria Novella cinque. Il civico corrisponde ad un palazzo anonimo, incastonato tra le case ammassate l’una sull’altra in questa stretta via del centro fiorentino. Su Google, chi cerca “via Palazzuolo 172” trova un nome, Abdalla Osman Hassan, e un negozio, Ilays Money Service. Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Firenze, era una banca clandestina che tra il primo gennaio e il 3 ottobre 2017 ha mosso oltre 400 mila euro. Soldi fuori da ogni radar della Banca d’Italia, che si muovono senza lasciare traccia, come fossero contanti. Ilays Money Service appariva come un semplice money transfer, ma dietro questa facciata nascondeva un sistema di passaggio di denaro parallelo. Il cosiddetto hawala. Hawala in arabo significa “trasferimento” o più spesso “fiducia”, che poi è anche la traduzione di “trust”, che da dizionario economico Treccani è un’ “istituto giuridico caratteristico del diritto anglosassone che consente di dar vita a un fondo con patrimonio autonomo, amministrato da un fiduciario”. In soldoni, rappresenta lo strumento previsto dalla legge che scherma le ricchezze offshore di tutto il mondo. Gli hawala, invece, sono quelli illegali per chi non ha santi nei paradisi fiscali. Strumenti finanziari che hanno una storia millenaria, con i quali si fa riciclaggio ed evasione spesso di piccolo cabotaggio, ma che complessivamente raggiungono cifre difficili persino da immaginare. Hawala è diventato, negli anni, il nome con cui si definiscono tutti i “circuiti informali” attraverso cui soprattutto le comunità straniere portano i propri soldi fuori dall’Italia. Rimesse che dalle autorità italiane non vengono né tassate, né controllate: passano di mano in mano in una lunga catena che si basa proprio sulla fiducia. Il tasso di cambio e la commissione vengono pattuiti tra il “banchiere”, l’hawaladar, e il cliente. Il sistema ha tanti altri nomi con cui viene definito, a seconda delle aree geografiche: chiti o hundi nel subcontinente indiano, Stash-House nelle Americhe, Chop Shop in Cina. In pratica, gli hawala “sono una cambiale, un pagherò, un assegno”, spiega Giovambattista Palumbo, presidente di Eurispes e grande esperto del sistema. “I ‘banchieri’ hawala, che si occupano di raccogliere e trasferire all’estero le risorse finanziarie, esercitano spesso attività commerciali legali (cambia-valute, negozianti, commercianti, agenti di viaggio, orefici) e godono di molta fiducia e rispetto nell’ambito delle rispettive comunità”, aggiunge Palumbo. “La loro attività consiste nel garantire il trasferimento delle somme di denaro derivanti dai profitti, leciti ed illeciti (spesso derivanti da lavoro nero o evasione fiscale), ottenuti dai membri della comunità”. Gli hawaladar sono bottegai della finanza, “broker” da strada la cui attività è prevista anche negli ahadith, libri che interpretano i versi del Corano. Esistono varie sfumature di hawala: il sistema può essere davvero l’unico modo per spedire denaro alla propria famiglia in Paesi dove lo Stato non esiste, oppure un perfetto sistema di riciclaggio ed evasione per milioni di euro, sfruttato anche da organizzazioni terroristiche e criminali. Il passaggio di denaro via hawala appare identico a quello di un money transfer. Quest’ultimo funziona così: un cliente va allo sportello e deposita la cifra di denaro da inviare in un altro Paese. L’operatore consegna al cliente un codice, che a sua volta lo manderà al destinatario finale. Quest’ultimo andrà nel giro di 48 ore in un’agenzia della stessa catena di money transfer con in mano il codice e ritirerà la somma di denaro. La differenza per gli hawala sta tutta in chi muove i soldi e nella commissione applicata. L’hawala è decisamente più conveniente. Gli hawaladar, i banchieri, sono persone con tanto denaro a disposizione sulle quali trasferire il proprio debito. Sono loro che anticipano e che fanno circolare soldi. Anticipano il denaro per conto di altri: i debiti e i crediti tra hawaladar, quello dal Paese di partenza del denaro e quello di arrivo, verranno saldati in un secondo tempo, a seguito di centinaia di operazioni. La fiducia, come sempre, è la base millenaria su cui si poggia questo sistema. L’inchiesta fiorentina è arrivata all’esercizio commerciale di Abdalla Osman Hassan da un vecchio camion militare. Il mezzo era stato spedito dalla Toscana alla Somalia aggirando l’embargo che impedisce la vendita di materiale militare nel Paese. Camion simili vengono riempiti di esplosivo e usati come autobombe: l’ultima del 14 ottobre ha ucciso circa 230 persone a Mogadiscio. Il sistema è noto all’Europol come fonte di approvvigionamento di gruppi terroristici almeno dai tempi della prima Al Qaeda guidata da Osama Bin Laden. Più di recente, Chérif Kouachi, attentatore che insieme al fratello ha compiuto la strage alla redazione di Charlie Hebdo nel gennaio 2015, ha ammesso di aver ricevuto attraverso questo sistema 20mila euro dal gruppo di Al Qaeda nello Yemen. L’hawala è poi il sistema usato dai trafficanti di esseri umani per farsi pagare dai migranti che attraversano l’Africa, si imbarcano verso l’Italia e dalla nostra penisola si spostano in tutta Europa. A maggio un’importante operazione della Squadra mobile di Bari ha colpito la rete criminale intorno a Hussein Ismail Olahye, somalo classe 1984 che aveva costruito a partire dal suo money transfer Juba Express un’organizzazione che comprava permessi di soggiorno e titoli di viaggio falsi, pagava trafficanti di uomini, corrompeva ufficiali dell’anagrafe e poliziotti alla frontiera, gestiva spostamenti e pernottamenti tra Somalia, Italia, Germania, Svizzera e Svezia. La sua rete era il punto di riferimento per i somali che desideravano arrivare illegalmente in Italia o da qui spostarsi verso un altro paese europeo. In due anni e mezzo, gli inquirenti hanno individuato spostamenti di denaro per 9 milioni di euro. L’organizzazione aveva anche aiutato, nel luglio 2016, due estremisti siriani entrati in Italia via Malta, già condannati per associazione finalizzata al terrorismo in primo grado dal Tribunale di Brescia. Dal 2007 al 2010, secondo le operazioni Cian Liù, Cian Ba 2011 e Cian Ba 2012 condotte tra Prato e Firenze dalla Guardia di finanza fiorentina sono stati mossi attraverso gli hawala cinesi oltre 4,5 miliardi di euro dall’Italia alla Cina. Spesso frutto di lavoro nero. Le operazioni hanno prodotto 24 arresti e 581 denunce. A febbraio 2017, la filiale di Milano della Bank of China ha patteggiato 600 mila euro di multa: la banca era finita sotto inchiesta per riciclaggio. Nel periodo in esame, aveva ricevuto da un money transfer illegale 2,2 miliardi di euro, per i quali aveva ricevuto 758 mila euro in commissioni. Trasferimenti arrivati poi in Cina, senza che fosse possibile stabilire la reale provenienza. Quattro erano i dirigenti sotto inchiesta, accusati di aver omesso il controllo e frazionato le tranche in pagamenti da 1.999 euro, uno sotto alla soglia massima consentita dalla legge. Mai, fino ad oggi, era stato toccato un patrimonio tanto vasto mosso attraverso gli hawala.

IL TERRORISMO ISLAMICO E LE MAFIE ITALIANE SONO IN AFFARI?

Terrorismo islamico e mafia: i punti di contatto. I patti segreti tra le organizzazioni criminali italiane e i terroristi dell'Isis. L'intervista a due analisti, esperti di geopolitica internazionale, scrive Nadia Francalacci il 28 marzo 2018 su "Panorama". Negli ultimi mesi consultava la rivista “The Lone Mujahid Pocketbook” e “Rumiyah”, in arabo “Roma”, per trovare le istruzioni su come compiere attacchi con i camion. È lì che Elmahdi Halili, italo-marocchino di 23 anni, arrestato il 28 marzo dagli investigatori della Digos e dell'Antiterrorismo della Polizia di Torino, ricercava i dettagli e le modalità operative per realizzate attentati con mezzi pesanti ma anche con auto e coltelli. Elmahdi Halili, era pronto a colpire l’Italia in nome di Allah. Ma dove? Da solo oppure con una cellula organizzata? Halili, che ancora non aveva individuato il luogo dove agire, faceva una forte azione di proselitismo con italiani convertiti, ghanesi e marocchini, alcuni già conosciuti alle forze di polizia. "Tiranni! Vado in prigione a testa alta", ha gridato agli uomini della Digos che lo stavano arrestando. 

La cellula estremista di Foggia. Anche Abdel Rahman, arrestato a Foggia, cercava proseliti. E li cercava tra i bambini e gli adolescenti musulmani ai quali inculcava la necessità di uccidere gli infedeli, di colpire i miscredenti, sgozzandoli. L'uomo, sposato con una donna italiana di 20 anni più grande di lui, teneva lezioni di religione ai bambini nel centro culturale islamico di Foggia, "Al Dawa", di cui era anche il presidente. L’arresto di Abdel Rahman, 59 anni, si inserisce in un più ampio contesto operativo che già nel luglio scorso aveva portato all'arresto, sempre nel capoluogo pugliese, di Eli Bombataliev, un militante ceceno dell'Isis.

Terrorismo islamico e mafia. Eppure Halili, Abdrrahim Moutaharrik e Abderrahmine Khachia agli occhi degli analisti ed esperti di geopolitica internazionale non sono solo dei terroristi islamici pronti a mettere a segno un attentato in Italia, ma anche soggetti capaci di far acquisire nuovi elementi sui traffici illeciti e le interazioni delle organizzazioni mafiose con il terrorismo e il territorio. Sì, mafia e terrorismo islamico. Le cellule terroristiche presenti sul nostro territorio, sono legate alle organizzazioni criminali da sodalizio solidissimo basato su un business milionario di cui non si parla mai, neppure, in occasione di arresti e sventati attentati in nome di Allah.

 “Gli estremisti islamici che, mese dopo mese, vengono arrestati in Italia mostrano sempre con maggiore chiarezza una interazione tra il terrorismo islamico e le organizzazioni mafiose presenti sul nostro territorio- spiega a Panorama.it, Margherita Paolini, esperta geopolitica internazionale- Camorra, Cosa Nostra e ‘Ndrangheta hanno ormai da moltissimi anni, instaurato un legame di connivenza integrato con i terroristi dove vi è uno scambio costante e continuo di armi, droga, documenti falsi”. La maggior parte dei terroristi che vengono arrestati in territorio europeo hanno legami, più o meno diretti, con i Balcani, territorio di “affari” di tutte le organizzazioni criminali italiane.

Il ruolo della mafia. “Le mafie italiane permettono e aiutano le cellule terroristiche a raggiungere il nostro Paese, gli permettono di vivere nel nostro territorio o di transitare dalle nostre terre con il chiaro accordo - prosegue Paolini- di non colpire l’Italia. Questo è ormai cosa nota a tutti gli analisti.” “Gli attentati implicano un maggior controllo del territorio da parte delle forze di polizia e la mafia non lo vuole - continua Paolini- gli accordi tra le mafie italiane e le cellule terroristiche sono molto chiari in quanto una violazione di tale accordo farebbe saltare guadagni milionari ad entrambe le parti”. “Se le organizzazioni mafiose vengono a conoscenza di qualche soggetto che ha intenzione di “violare” il tacito accordo- conclude Margherita Paolini- viene fatto “uscire” allo scoperto. In sostanza, viene fatto in modo che venga arrestato prima di compiere un attentato. Praticamente, viene fermato prima”. A fare un’analisi precisa e dettagliata dei legami tra mafia e terroristi non è solo Margherita Paolini, ma anche Gianluca Ansalone, Docente di geopolitica presso la Sioi.

Connivenza, opportunità e interessi. “Connivenza, opportunità ed interessi. Si può riassumere così il sodalizio che unisce terroristi islamici e organizzazioni mafiose - conferma a Panorama.it, l’esperto - l’Italia è un hub logistico strategico sia per i terroristi che vogliono transitare da e per il resto d’Europa che per le organizzazioni criminali che sfruttano questi soggetti per implementare il traffico di droga, armi, sigarette e prostituzione”. “Non a caso le rotte commercialmente più vantaggiose per le mafie corrispondono a quelle dei terroristi- prosegue Gianluca Ansalone - la prima è senza alcun dubbio quella balcanica che permette ai terroristi, ma anche alle armi o alla droga di raggiungere i nostri territori attraversando prima la Turchia e la Grecia; la seconda è quella africana che ha origine nell’Africa occidentale e che attraversando la Nigeria, il Mali raggiunge le coste libiche, tunisine e algerine”. Dunque i rapporti tra mafia e cellule terroristiche ci sono e sono solidi. “Mafia e terrorismo è un’equazione solidissima anche se non si può identificare come “uno a uno” in quanto qualche soggetto “sfugge” a questo accordo. Ad esempio, i lupi solitari – conclude il docente della Sioi - dando vita a quelle minacce cosiddette “granulari” difficili da monitorare ed intercettare e che sono oggetto, costantemente, di osservazione da parte dei nostri apparati di polizia e intelligence”.

Eppure è la stessa Nadia Francalacci su Panorama a dire il contrario.

"L'Italia si protegge dai terroristi con la mafia". Un ex agente dei Servizi segreti: "L’Italia riesce a proteggersi dagli attacchi terroristici in soli due modi: l’elaborazione precisa dei ‘segnali deboli’ che permette intercettazioni mirate e interventi preventivi, e con la mafia", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 18/11/2015, su "Il Giornale". "L’Italia riesce a proteggersi dagli attacchi terroristici in soli due modi: l’elaborazione precisa dei ‘segnali deboli’ che permette intercettazioni mirate e interventi preventivi, e con la mafia". A dirlo a Panorama è un ex agente dei Servizi segreti, che con il settimanale ha analizzato gli eventi di Parigi e la paura di attentati che attanaglia l'Italia e l'Europa. "Non è possibile indicare un luogo o un obiettivo come “sensibile” - ha detto - gli attacchi in Francia l’hanno dimostrato chiaramente. I lupi solitari così come cellule ben strutturate e organizzate non tendono a colpire i grandi monumenti o aree di grande interesse ma, prendono di mira luoghi “comuni” non presidiati dalle forze di polizia ma che sono comunque punto di ritrovo per la cittadinanza. Il teatro Bataclan ne è la dimostrazione". Poi: "Il nostro Paese è un territorio molto vasto, difficile da controllare e ricco di luoghi che potrebbero essere considerati obiettivi sensibili. Quindi sarebbe sciocco per non dire ridicolo fare una classifica dei monumenti a rischio certamente rimangono monitorate costantemente dall’intelligence le metropolitane, le grandi stazioni ferroviarie che hanno importanti centri commerciali e gli aeroporti oltre ad alcuni acquedotti ma la vera protezione è quella “indiretta” esercitata dalle organizzazioni criminali". Insomma, a proteggere gran parte dell'Italia non ci sarebbe lo Stato, ma la mafia. "Non possiamo dire quali saranno le aree nel mirino degli attentatori - afferma l'ex agente - ma invece possiamo indicare quasi con una certezza matematica l’area che invece non sarà interessata da eventuali attentati strutturati come quelli avvenuti a Parigi: il Sud Italia". "Potenziali attentati - continua - potrebbero essere portati a segno solo da Napoli in su. Dal capoluogo partenopeo in giù la presenza delle organizzazioni criminali che controllano il territorio non permettono la permeabilità dei terroristi nelle loro zone. Le cellule legate all’estremismo islamico possono solo attraversare quelle zone, ad esempio, la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania ma non è permesso loro di fermarsi. La Camorra, la ‘Ndrangheta e la Mafia possono semmai solo guadagnare dal loro passaggio ma, sanno che la presenza in loco di questi soggetti, potrebbe solo danneggiarli. E viceversa. Anche gli stessi terroristi sanno che il controllo sul territorio esercitato dagli stessi mafiosi, rischierebbe di farli entrare nel mirino degli investigatori".

Ecco quindi i 4 motivi per cui gli islamici non colpiranno mai il Sud.

1) Le vedette: Sono una presenza più che radicata nel territorio dei boss, uno schieramento di "soldati" così capillare da avere un controllo praticamente totale. Sono loro a registrare la presenza e i movimenti di possibili terroristi.

2) Spesso la presenza di cellule terroristiche distrugge le attività commerciali ed economiche del luogo. E la criminalità organizzata non può fare a meno di una fonte di reddito come questa.

3) Se ci sono possibili jihadisti in giro è probabile che ci sia anche la polizia alle loro calcagna. Per distogliere l'attenzione delle autorità, la mafia è attenta a tener lontani i terroristi e integralisti. Ma vale anche il contrario: gli jihadisti sanno che al Sud la presenza della polizia è forte nelle zone ad alta densità mafiosa.

4) Le mafie considerano il loro territorio come "off limits": non permettono a nessuno di passare o insediarsi.

Isis in Italia, le regioni più sicure quelle dove c'è la mafia. Ma le organizzazioni criminali (per interessi propri) lavorano alla prevenzione degli attentati. Arrestati questa mattina, tre italiani e un libico, scrive Nadia Francalacci su Panorama il 31 gennaio 2017.

I territori off limits. Le mafie non accettano le presenze “esterne ed estranee” su un territorio considerato di proprietà.

La mafia riesce a contrastare il terrorismo. Le armi all’Isis, passavano dall’Italia con la complicità della mafia del Brenta e dei Casalesi. Ha ricostruire il traffico di illegale di fucili di assalto e missili terra aria ma anche di elicotteri, è stato il Nucleo Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Venezia che questa mattina, su ordine della Dda di Napoli, ha arrestato 4 persone con l’accusa di traffico internazionale di armi e di materiale "dual use", di produzione straniera. Si tratta di tre italiani di cui due radicalizzati, e un libico. Sono loro ad aver introdotto, tra il 2011 e il 2015, in paesi soggetti ad embargo, quali Iran e Libia, migliaia di armi e munizioni. Mario Di Leva, convertito all'Islam con il nome di Jaafar, e Annamaria Fontana sono i coniugi di San Giorgio a Cremano, Napoli, che dopo essersi radicalizzati, gestivano il traffico illegale assieme all'amministratore delegato della Società Italiana Elicotteri, Andrea Pardi, già coinvolto un un'altra inchiesta su traffico di armi e reclutamento di mercenari tra Italia e Somalia. Dall’inchiesta di questa mattina, è emerso che una persona organica ad un clan camorristico dell'area casalese era stato contattato da un appartenente alla cosiddetta "mala del Brenta" con precedenti specifici per traffico di armi. Quest'ultimo ricercava, infatti, persone esperte di armi ed armamenti da inviare alle Seychelles per l'addestramento di un battaglione di somali, che avrebbero dovuto svolgere attività espressamente qualificate come "mercenariato". Ma c'è un altro aspetto inquietante che lega questa coppia di coniugi ai terroristi: il rapimento dei quattro italiani in Libia nel 2015. Da alcuni sms di poco successivi al sequestro, infatti, in cui i coniugi facevano riferimento ai rapitori come persone già incontrate qualche tempo prima per i loro affari. "Ce li hanno proprio quelli dove noi siamo andati, già sto facendo, già sto operando con molta tranquillità e molta cautela". I pm non escludono "una loro possibile attività nel complicato meccanismo di liberazione che solitamente avviene tramite il pagamento di riscatti o la mediazione con altri affari ritenuti di interesse dai miliziani". Il sequestro si concluse, a marzo del 2016 con la morte di due italiani, Fausto Piano e Salvatore Failla mentre gli altri due rapiti, Gino Pollicandro e Filippo Calcagno, riuscirono a fuggire. Sull'importanza strategica delle organizzazioni criminali sul nostro territorio nella prevenzione degli attentati e sugli interessi delle mafie, Panorama.it ne aveva già parlato due anni fa. Ecco l'intervista rilasciata in esclusiva a Panorama.it il 17 novembre 2015 da un ex agente dei Servizi Segreti italiani che aveva anticipato l'operazione di questa mattina. “L’Italia riesce a proteggersi dagli attacchi terroristici in soli due modi: l’elaborazione precisa dei segnali deboli che permette intercettazioni mirate e interventi preventivi, e con la mafia”. Parla così un ex agente dei Servizi segreti dopo gli attacchi terroristi che hanno messo in ginocchio Parigi e spaventato il resto d’Europa. “Non è possibile indicare un luogo o un obiettivo come “sensibile” - prosegue l’ex agente a Panorama.it - gli attacchi in Francia l’hanno dimostrato chiaramente. I lupi solitari così come cellule ben strutturate e organizzate non tendono a colpire i grandi monumenti o aree di grande interesse ma, prendono di mira luoghi “comuni” non presidiati dalle forze di polizia ma che sono comunque punto di ritrovo per la cittadinanza. Il teatro Bataclan ne è la dimostrazione.” “Il nostro Paese è un territorio molto vasto, difficile da controllare e ricco di luoghi che potrebbero essere considerati obiettivi sensibili. Quindi sarebbe sciocco per non dire ridicolo fare una classifica dei monumenti a rischio - continua l’ex agente il cui nome in codice era Edera – certamente rimangono monitorate costantemente dall’intelligence le metropolitane, le grandi stazioni ferroviarie che hanno importanti centri commerciali e gli aeroporti oltre ad alcuni acquedotti ma la vera protezione è quella “indiretta” esercitata dalle organizzazioni criminali”.

Si spieghi meglio…

"Non possiamo dire quali saranno le aree nel mirino degli attentatori, ma invece possiamo indicare quasi con una certezza matematica l’area che invece non sarà interessata da eventuali attentati strutturati come quelli avvenuti a Parigi: il Sud Italia".

Se possibile, sia ancora più preciso...

"Potenziali attentati potrebbero essere portati a segno solo da Napoli in su. Dal capoluogo partenopeo in giù la presenza delle organizzazioni criminali che controllano il territorio non permettono la permeabilità dei terroristi nelle loro zone. Le cellule legate all’estremismo islamico possono solo attraversare quelle zone, ad esempio, la Sicilia, la Calabria, la Puglia e la Campania ma non è permesso loro di fermarsi. La Camorra, la ‘Ndrangheta e la Mafia possono semmai solo guadagnare dal loro passaggio ma, sanno che la presenza in loco di questi soggetti, potrebbe solo danneggiarli. E viceversa. Anche gli stessi terroristi sanno che il controllo sul territorio esercitato dagli stessi mafiosi, rischierebbe di farli entrare nel mirino degli investigatori. Ecco quali sono i cinque punti che rendono il Sud Italia un luogo più sicuro dagli attentati terroristici:

Il ruolo fondamentale delle vedette dei boss. Presenza capillare sul territorio dei “soldati” dei boss appartenenti ai vari clan, impedisce l’organizzazione da parte di gruppi terroristici. Le vedette dei boss, monitorano e presidiano in modo costante le zone di “appartenenza” e “registrano” anche gli arrivi e i movimenti dei presunti terroristi.

I terroristi interferirebbero con le attività criminali. Un attentato innalzerebbe sul territorio la presenza delle forze di polizia e questo impedirebbe lo svolgimento delle attività criminali come pizzo, spaccio, contrabbando. O comunque le rallenterebbe moltissimo. Da qui l’interesse ad allontanare i terroristi.

La distruzione delle fonti di reddito per la criminalità. La distruzione di attività commerciali equivale alla distruzione, per la criminalità organizzata, di una fonte di reddito certa. Da qui l'interesse a contrastare la loro presenza in loco.

Distogliere l'attenzione degli investigatori. La presenza di cellule terroristiche potrebbe condurre sui territori “controllati” dalla mafie l’attenzione degli investigatori. E viceversa. Gli investigatori potrebbero “disturbare” le organizzazioni terroristiche seguendo le piste mafiose o la ricerca di latitanti.

I territori off limits. Le mafie non accettano le presenze “esterne ed estranee” su un territorio considerato di proprietà.

IL BOSS: "LA MAFIA È PRONTA A DIFENDERE LE NOSTRE CITTÀ DAL TERRORISMO DELL'ISIS". Scrive Martedì 24 Novembre 2015 “Leggo”. «La mafia ha un controllo migliore degli enti di sicurezza tradizionali sul territorio e nessun limite alla legge». È così che Giovanni Gambino, figlio di un boss della criminalità organizzata di New York, motiva in un'intervista alla Nbc la sfida lanciata all'Isis: se i jihadisti hanno in programma di attaccare nella Grande Mela, dovranno fare i conti con la mafia siciliana, pronta a fare la sua parte per fermare gli uomini del Califfato e per proteggere i cittadini. «Spesso gli organi incaricati della sicurezza agiscono troppo tardi, o non riescono ad avere un quadro completo di ciò che sta accadendo a causa della mancanza di 'intelligence umana'», ha detto Gambino. «Il mondo è pericoloso, ma le persone che vivono nei quartieri di New York dove ci sono collegamenti con i siciliani dovrebbero sentirsi al sicuro - ha spiegato - Noi garantiamo che i nostri amici e le loro famiglie saranno protetti dagli estremisti, in particolare dai terroristi dell'Isis». A suo parere, inoltre, «la mafia ha una cattiva reputazione, ma gran parte di questa è immeritata». Il figlio del boss, che si è trasferito a Brooklyn nel 1988, ha aggiunto che «come ovunque ci sono i buoni e i cattivi, ma l'ascesa del terrorismo dà alla mafia la possibilità di mostrare il suo lato buono».

QUELLA MAFIA CHE SI FA FINTA DI NON VEDERE. LA MAFIA NIGERIANA.

Il vero volto della mafia nigeriana, che ha in pugno la prostituzione in Italia, scrive Andrea Sparaciari il 16/8/2017 su "it.businessinsider.com". Oltre a Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Stidda e Sacra Corona Unita, l’Italia può “vantare” un altro sodalizio mafioso di tutto rispetto: quello nigeriano, gruppi di criminali che tengono saldamente in pugno il mercato della prostituzione, ma non solo. “ll radicamento in Italia di tale consorteria è emerso nel corso di diverse inchieste, che ne hanno evidenziato la natura mafiosa, peraltro confermata da sentenze di condanna passate in giudicato”, scrive la Dia nella relazione sulle sue attività investigative del secondo semestre 2016. Pagine nelle quali i magistrati spiegano, inchiesta per inchiesta, come i nigeriani siano ormai primari protagonisti non solo del traffico di esseri umani, ma anche della droga, delle truffe online e nello sfruttamento della prostituzione. Un ventaglio di attività al quale gli affiliati alle varie bande provenienti dal Paese centroafricano si applicano con spietata efficienza. “Sul piano generale, tra le attività criminali dei gruppi nigeriani, si conferma la tratta di donne di origine nigeriana e sub sahariana, avviate poi alla prostituzione”, si legge nella relazione, che ricorda come il 24 ottobre 2016 la Polizia di Catania, con l’operazione “Skin Trade”, abbia arrestato 15 persone per associazione per delinquere finalizzata alla tratta di persone e sfruttamento della prostituzione. Idem per le indagini sui gruppi attivi nella zona di Castel Volturno (CE) che sarebbero riusciti “a organizzare importanti traffici di droga e immigrati clandestini, operando altresì nello sfruttamento della prostituzione”. L’operazione Cultus che nel 2014 portò in carcere 34 persone, illustra perfettamente il modus operandi dei nigeriani: le ragazze erano reclutate in Togo, da dove venivano “importate” in Italia attraverso il Benin. Una volta sbarcate, si ritrovavano un debito per il viaggio – in media tra i 40 ai 70 mila euro – e per saldarlo erano costrette a prostituirsi sotto gli ordini di una Maman. Il pericolo della denuncia era scongiurato perché assoggettate psicologicamente attraverso pratiche esoteriche. A questo proposito, molti giornali hanno spesso scritto di “rituali voodoo”… In realtà, si tratta del rito “Juju”, una credenza religiosa praticata nella regione del Sud-Ovest della Nigeria. Il paradosso è che il rituale utilizzato per schiavizzare le donne africane, convincendole che lo spirito racchiuso in piccoli feticci possa causare enormi sciagure a loro e alla loro famiglia in caso di disobbedienza, non nasce in Africa, ma è stato importato dai primi colonizzatori europei, tanto che mutua il nome dal termine francese “Joujou”. Comunque, le indagini hanno dimostrato che oltre al traffico di esseri umani, l’organizzazione gestiva anche i corrieri della cocaina provenienti da Colombia, nonché quelli della marijuana dall’Albania. I proventi venivano poi spediti in Nigeria e Togo attraverso agenzie di money transfer. Secondo la Dia, appare poi assodato che le mafie nostrane appaltino il lavoro sporco ai nigeriani e che questi, quando agiscono da indipendenti, debbano pagare il pizzo a Cosa Nostra e alle ‘ndrine. Una tassa “mal sopportata”, tanto che a volte scoppia lo scontro, come accadde a Castel Volturno nel 2008, quando i Casalesi spararono indiscriminatamente sulle case dei braccianti immigrati, uccidendo sei persone (per altro non affiliate alle bande). Parliamo di bande, perché l’universo della criminalità nigeriana non è monolitico. Tutt’altro: sarebbero almeno una dozzina i gruppi che si contendono il primato, nel Paese africano e all’estero. Per esempio, in Italia è certa la presenza di almeno tre nuclei, divisi da un conflitto sotterraneo e brutale che va avanti da due decenni: la Aye Confraternite, gli Eiye e i temibili Black Axe. Secondo il rapporto “Global Report on Trafficking in Persons 2014” dello United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), con l’operazione Cultus finirono in manette “membri di due gruppi, chiamati Eiye e Aye Confraternite, operativi in alcune parti d’Italia da almeno il 2008”. Due gruppi che “hanno combattuto per oltre sei anni per il controllo dell’area di Roma (Torre Angela, Tor Bella Monaca e Torrenova, ndr)”, affrontandosi con armi da fuoco, spranghe, coltelli e machete. Una lotta che probabilmente ha spalancato le porte ai Black Axe, tanto che il 13 settembre 2016, con l’operazione “Athenaeum”, in Piemonte finiscono in manette 44 persone per associazione mafiosa, spaccio, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e lesioni gravi. L’indagine svela che i Black Axe avevano ramificazioni in buona parte dell’Italia oltre Torino, a Novara, Alessandria, Verona, Bologna, Roma, Napoli e Palermo. Ma il nostro Paese è in buona compagnia: nell’aprile scorso, il capo della polizia di Toronto (Canada), Jim Raymer, ha presentato un’operazione che ha scardinato un’organizzazione di ladri d’auto (anche lì tutti Black Axe) la quale avrebbe trafugato veicoli di lusso per oltre 30 milioni di dollari. Sulla nave diretta in Africa bloccata dalla polizia, sono stati ritrovati suv provenienti anche da Spagna e Belgio. In manette sono finiti, oltre ai ladri, anche rivenditori di parti d’auto, camionisti, impiegati delle compagnie di navigazione e portuali, tutti canadesi doc. In Giappone, invece, nel 2014 fece scalpore l’arresto di un nigeriano gestore di un locale notturno del quartiere a luci rosse di Kabukicho, che costringeva le sue hostess filippine a drogare i clienti svuotandone poi le carte di credito. Si scoprì che il gioco andava avanti da anni e che in totale l’uomo si sarebbe appropriato di oltre 7,5 milioni di euro (soldi spediti in Nigeria dove si stava costruendo un vero palazzo reale). Ma le indagini svelarono anche la diretta partecipazione dei nigeriani nei locali a luci rosse di Kabukicho, nonché i loro legami con la Yacuza nella vendita di eroina, nei furti d’auto, nel riciclaggio di denaro e nell’organizzazione di matrimoni finti. Prostituzione in Italia, furti d’auto in Canada, l’eroina in Giappone, tutte joint-venture che dimostrano quanto i nigeriani siano capaci di stringere rapporti proficui con le mafie locali, adattandosi alle diverse realtà. E non deve stupire: chi gestisce i traffici, contrariamente al credo popolare, non sono illetterati provenienti da sperduti villaggi dell’Africa equatoriale. Spesso, anzi, si tratta di laureati o comunque di persone dotate di cultura superiore. Un dato di fatto che deriva dalla stessa storia della mafia nigeriana.

L’università dei gangster. Le bande mafiose nascono infatti come degenerazione dei gruppi cultisti attivi nelle università della regione del Delta del Niger fin dagli anni ’50, gruppi che si opponevano alla dominazione europea. All’inizio erano semplici confraternite universitarie, ma presto si trasformano in associazioni a delinquere che travalicano i muri dei campus. La confraternita originaria fu quella dei Pyrates, negli anni ’70 subì una prima scissione, dalla quale si formarono i Sea Dogs (i Pyrates) e i Bucanieri.  A loro volta, i Bucanieri diedero vita al Movimento Neo-Black dell’Africa, cioè i Black Axe, che divenne egemone all’interno dell’università di Benin nello stato dell’Edo. Ma anche i Black Axe subirono una divisione, con la quale si formò la Eiye Confraternity. Da lì fu un fiorire di gruppi. Oltre a Black Axe e Eiye, oggi in Nigeria si distinguono per brutalità la Junior Vikings Confraternity (JVC), la Supreme Vikings Confraternity (SVC) e la Debam, scissionisti della The Eternal Fraternal Order of the Legion Consortium. Ognuna di esse ha un’uniforme, propri colori e un’università o scuola superiore di riferimento. Con il ritorno del Paese alla democrazia, nel 1999, in Nigeria si aprì un periodo di lotte furibonde tra i vari potentati politici a livello locale, federale e statale. Fu quasi naturale che partiti e uomini politici assoldassero le confraternite come collettori di voti o guardie del corpo, fino a trasformarle in veri eserciti privati, spesso integrati direttamente nelle forze di polizia locali. Ciò ha permesso ai sodalizi criminali di prosperare e di espandesi all’estero. Europa dell’Est, Spagna, Italia, Giappone, Canada, Sudafrica. Una piovra dalle mille teste che fa affari con tutti: da Cosa Nostra ai narcos sud americani, dai trafficanti d’armi dell’Est ai produttori di marijuana albanesi. A ingrossarne le fila, sono gli studenti universitari e delle secondarie, cooptati sia volontariamente che involontariamente. Negli ultimi anni, però, secondo l’Onu, sarebbero aumentati vertiginosamente anche i membri sotto i 12 anni, bambini di strada utilizzati come soldati. Contrariamente agli anni ’70, poi, oggi esistono anche confraternite tutte al femminile, le più note e temibili sono Jezebel e Pink ladies.

Come funzionano. L’UNODC ha studiato il funzionamento delle confraternite, ecco come descrive il funzionamento degli Eiye: “Il gruppo agisce attraverso un sistema di cellule – chiamate Forum – che operano localmente, ma che sono collegate alle altre cellule radicate in diversi Paesi dell’Africa occidentale, del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Europa occidentale”. Gli Eiye hanno “una struttura gerarchica rigida, retta da una Direzione. Sebbene ogni forum sia indipendente, i membri hanno un ruolo funzionale specifico e sono uniti tra loro da legami familiari o da altri rapporti relazionali”. Tutte le confraternite hanno un leder carismatico, detto “Capones” (in onore di Al Capone), un comandante in capo, che d ordini ai vari capones locali, dislocati nelle varie università, i suoi generali sul campo. Per divenire capones, la persona “deve aver dato prove inoppugnabili di coraggio e brutalità”. Anche per entrare in una confraternita si deve passare un esame: dopo essere stato scelto, l’aspirante viene sottoposto a un rito iniziatico, che ha luogo di notte, spesso in un cimitero, durante il quale viene drogato, picchiato e costretto a dimostrare il proprio coraggio, meglio se con un omicidio o col rapimento di una donna legata un’altra confraternita. Una volta dentro, al nuovo adepto vengono insegnati il rispetto per la “fortificazione spirituale”, le tattiche di combattimento e l’uso delle armi da fuoco. Qualora il candidato si rifiuti di entrare nella banda o, una volta dentro, voglia uscirne, sa che a pagare sarà – oltre a lui – anche la sua famiglia. Una realtà brutale, che si rispecchia poi nel modo di agire – spietato – delle bande. Una spirale di violenza infinita, già stabilmente impiantata nel nostro Paese e che sta diventando sempre più forte e potente. Una piaga destinata a diventare sempre più purulenta e dolorosa.

LA MAFIA NERA.

Silvio Berlusconi: "Libia, così Giorgio Napolitano mi aveva quasi convinto a dimettermi", scrive il 25 Luglio 2017 Salvatore Dama su "Libero Quotidiano". Il settimo "colpo di Stato". Forse l’ottavo, anzi il nono. Sicuramente il primo compiuto in trasferta. Da anni Silvio Berlusconi accusa Giorgio Napolitano di aver tramato per arrivare alla caduta del suo ultimo governo. Era l'autunno 2011. E, in effetti, già dall'estate precedente il Colle era in movimento per sondare partiti e attori istituzionali circa la fattibilità di un esecutivo tecnico che sostituisse quello del leader di centrodestra. Berlusconi era assediato da procure e alleati infedeli. Guardato con diffidenza dalle istituzioni europee. Irriso ai vertici esteri. Ma, in quei mesi difficili, si stava compiendo anche il destino di Muammar Gheddafi. Il Colonnello era impegnato a sedare i tumulti interni, appoggiati dalla comunità internazionale, persuasa che la "primavera araba" avrebbe portato democrazia e laicismo nel Maghreb. Si sa come è andata a finire. «Fu davvero una sofferenza, veder demolire in poche settimane il risultato di anni di paziente lavoro con la Libia e con Gheddafi per costruire un sistema di sicurezza e di stabilità nel Mediterraneo», si lamenta il Cavaliere a distanza di sei anni. Anche nella deposizione del Rais ci fu la mano di Napolitano. È l'inedita accusa che arriva da Arcore. Berlusconi non ha mai perdonato al Presidente Emerito della Repubblica di aver eterodiretto dal Colle più alto i tre anni più orrendi della sua vita politica. Il tradimento di Gianfranco Fini, al quale Napolitano «aveva promesso che, caduto io, sarebbe diventato il nuovo presidente del Consiglio». Poi il percorso che condusse alla fine «dell'ultimo esecutivo» indicato dai cittadini e all'incarico per Mario Monti. Infine la condanna definitiva per frode fiscale, che è costata, a Silvio, l'estromissione dal Parlamento e dalla vita politica attiva. Una sentenza, presa in Cassazione, «ispirata» in qualche modo (il Cav non ha mai spiegato come) da Re Giorgio. Nel frattempo, il Capo dello Stato operava anche in trasferta, attacca Silvio. Approfittando della debolezza dell'esecutivo, fu lui a schierare l'Italia accanto a Francia e Gran Bretagna nell'intervento lampo che porto alla deposizione di Gheddafi, malgrado la contrarietà di Palazzo Chigi. Rivela Berlusconi: «Il Presidente della Repubblica Napolitano fece valere la sua autorità costituzionale di comandante supremo delle Forze Armate. Pensai seriamente alle dimissioni, di fronte a una scelta che consegnava la Libia e il Mediterraneo a una sanguinosa anarchia. Decisi con vera sofferenza di non farlo per non scatenare una crisi istituzionale senza precedenti in un momento così drammatico». Colpa di Napolitano anche le bombe sulla Libia. Così dice il presidente di Forza Italia in un'intervista a Tiscali.it. Un astio, il suo verso il primo presidente post-comunista, esploso con effetto ritardato. Nel 2013 Berlusconi fu uno dei promotori della sua rielezione. Salvatore Dama

Berlusconi: "Non ho salutato Napolitano, è regista di troppe cose". Silvio Berlusconi è l'ultimo a lasciare il Colle al termine del ricevimento dello scambio di auguri natalizio e spiega ai cronisti il motivo del mancato saluto, scrive Luca Romano, Martedì 20/12/2016, su "Il Giornale". "Non ho visto Napolitano, non l'ho salutato. È regista di troppe cose che non mi sono piaciute...". Silvio Berlusconi è l'ultimo a lasciare il Colle al termine del ricevimento dello scambio di auguri natalizio. Nella Sala dei Corazzieri è circondato da alcuni ospiti e dai cronisti. Dall'altro lato del salone è rimasto anche Giorgio Napolitano ma i due non si sono salutati. E il Cavaliere ha spiega il perché del mancato saluto. Durante l'incontro con i cronisti il Cavaliere ha parlato anche della legge elettorale: "La riforma elettorale e' una cosa seria, dobbiamo prima sederci intorno a un tavolo". Serve una ''proposta condivisa". "Bisogna assolutamente aspettare la sentenza della Consulta". Poi il Cavaliera ha parlato dell'operato del governo e dei nodi da sciogliere nei prossimi giorni: "Noi ci siamo su tutto, a partire dal voto su Mps. È importante, una delle prime banche italiane, a cui sono legato per affetto quando iniziai la mia carriera di imprenditore". Infine torna sulla legge elettorale: "È giusto che si allontani la data del voto non siamo preparati assolutamente per arrivare a una legge elettorale condivisa. Il Mattarellum ha funzionato in un sistema che era con due poli. Adesso il sistema è tripolare e non funziona più".

Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni", scrive Goffredo De Marchis il 14 ottobre 2015 su "La Repubblica". "Ce l'avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l'uscita dall'aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l'anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall'ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n'è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell'esodo", scherza Napolitano. È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell'intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata. Sempre sul filo dell'ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici". Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l'ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche ossessioni". A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell'ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia". Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l'ho nominata sapevo bene che aveva un'estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l'ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.

Napolitano: “Le bombe contro Gheddafi? Basta distorsioni ridicole: decise Berlusconi, non io”. L'ex presidente della Repubblica ricorda che “quella fu una vicenda con una forte dimensione internazionale, non un affare tra Italia e Francia”. “Sì al dialogo tra Roma e Parigi, a partire da Fincantieri”, scrive Claudio Tito il 3 agosto 2017 su "la Repubblica". "Io ho un ricordo che altri forse hanno cancellato. Quella fu una vicenda con una forte dimensione internazionale. Non fu un affare tra francesi e italiani. Non fu una questione tra diverse personalità istituzionali del nostro Paese. Questa è una visione ridicolmente distorta della realtà". L'emergenza libica è tornata al centro della discussione tra le forze politiche. Le misure assunte in queste ore dal governo per arginare il flusso migratorio dalle coste africane verso l'Italia spesso alimentano lo scontro anche in riferimento alle scelte compiute nel 2011 che portarono alla defenestrazione e poi alla morte di Gheddafi. E soprattutto gli esponenti del centrodestra e del M5S riversano su Giorgio Napolitano la scelta di appoggiare la missione militare francese, decisa dall'allora presidente Sarkozy. Ma il capo dello Stato emerito non accetta quella versione dei fatti. In particolare vede ignorato il momento del vertice informale tenutosi accidentalmente al Teatro dell'Opera di Roma da cui emerse l'orientamento a partecipare in quanto Italia alle operazioni militari decretate dall'Onu.

Presidente, molti rappresentanti di Forza Italia a cominciare da Berlusconi e ora anche i grillini continuano a considerare lei l'artefice di quella scelta.

"Il protagonista dell'intervento in Libia fu fondamentalmente l'Onu. Non ci fu una decisione italiana a se stante. C'era stato dapprima un intervento unilaterale francese con l'appoggio inglese. Non interessa ora indagare sui motivi che spinsero Sarkozy a iniziare in tal modo l'attacco alla Libia di Gheddafi. Quella iniziativa intempestiva e anomala fu superata da altri sviluppi".

A che si riferisce?

"Le Nazioni Unite affrontarono la situazione in Libia in un quadro ben più generale e collettivo approvando una prima e una seconda risoluzione; con la prima intimarono al colonnello Gheddafi di cessare le violenze in corso contro chi chiedeva libertà e contro manifestazioni che si ispiravano allora alla cosiddetta "primavera araba"".

Ma cosa accadde in quell'incontro svoltosi al Teatro dell'Opera?

"La consultazione informale di emergenza si tenne in coincidenza con la celebrazione al Teatro dell'Opera dei 150 anni dell'Unità d'Italia. A quella consultazione io fui correttamente associato. Il presidente della Repubblica è presidente del Consiglio supremo di Difesa, e in posizione di autorità costituzionale verso le forze armate, aveva titolo per esprimersi su una questione così importante. Ma quella sera la discussione fu aperta dall'allora consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Bruno Archi, che era in contatto diretto con New York mentre veniva varata la seconda risoluzione delle Nazioni Unite che autorizzò e sollecitò un intervento armato ai sensi del capitolo settimo della Carta dell'Onu in considerazione del fatto che i precedenti appelli al governo libico non erano stati raccolti. Dal quadro complessivo rappresentato dal consigliere diplomatico di Palazzo Chigi emergeva l'impossibilità per l'Italia di non fare propria la scelta dell'Onu".

Berlusconi sostiene che era contrario a recepire quella risoluzione e che fu lei invece a spingere in quella direzione.

"Dire che il governo fosse contrario e che cedette alle pressioni del capo dello Stato in asse con Sarkozy, non corrisponde alla realtà. I miei rapporti con l'allora presidente francese erano di certo poco intensi e tutt'altro che basati su posizioni concordanti in un campo così controverso. E non soltanto io trovai fondate le considerazioni del Consigliere Archi, ma concordarono con esse anche autorevoli membri presenti del governo, come il Ministro della Difesa La Russa. L'Italia era interessata a che il da farsi sul piano internazionale in difesa dei diritti umani e del movimento della primavera in Libia non rimanesse oggetto di una sortita francese fuori di ogni regola comune, ma si collocasse nel quadro delle direttive dell'Onu e nell'ambito di una gestione Nato".

In sostanza la decisione venne assunta dal governo.

"In quella sede informale potemmo tutti renderci conto della riluttanza del Presidente Berlusconi a partecipare all'intervento Onu in Libia. Il Presidente Berlusconi ha di recente ricordato il suo travaglio che quasi lo spingeva a dare le dimissioni in dissenso da una decisione che peraltro spettava al governo, sia pure con il consenso della Presidenza della Repubblica. Che egli abbia evitato quel gesto per non innescare una crisi istituzionale al vertice del nostro paese, fu certamente un atto di responsabilità da riconoscergli ancora oggi. Però, ripeto, non poteva che decidere il governo in armonia con il Parlamento, che approvò con schiacciante maggioranza due risoluzioni gemelle alla Camera e al Senato, con l'adesione anche dell'allora opposizione di centrosinistra. La legittimazione di quella scelta da parte italiana fu dunque massima al livello internazionale e nazionale".

Ma lei crede che fu un errore?

"In quel 2011 era in gioco in Libia e altrove la garanzia del rispetto dei diritti umani e della legislazione internazionale ad essa ispirata. Ancor oggi è troppo facile giudicare sommariamente un errore l'intervento Onu in Libia. Quale fosse l'alternativa all'intervento sulla base della Carta delle Nazioni Unite, nessuno è in grado di indicarlo seriamente. A mio avviso, come qualche anno fa ho detto insieme con altri in Senato, l'errore veramente grave fu non dare, in quanto comunità internazionale, nessun contributo politico, di institution building, economico alla conclusione dell'operazione militare. Ci fu quasi un tirarsi fuori, e fu ciò che provocò il caos degli anni successivi".

Anche in questi giorni la Francia del presidente Macron in alcuni momenti è sembrata volere assumere decisioni unilaterali proprio sulla Libia.

"Macron si distingue nettamente da Sarkozy perché affronta in chiave europea tutte le questioni che possano interessare i nostri paesi. Nessun presidente francese di provenienza gollista ha in passato seguito questo approccio solidale. Mi sembra il punto sul quale anche il Presidente Tajani mette giustamente l'accento".

In questi giorni molti hanno definito "napoleonica" la politica dell'Eliseo. Coglie questa tendenza anche nella vicenda Fincantieri/Stx?

"Consiglierei la massima misura e serietà, anziché alimentare contrapposizioni tra Italia e Francia, anche se si stanno verificando divergenze su qualche problema di notevole rilevanza come quello del futuro di Fincantieri. Sono convinto che il Presidente Gentiloni si stia muovendo con chiarezza e fermezza nella convinzione che si possa e debba arrivare a posizioni concordi tra il suo governo e quello del Presidente Macron".

"Il presidente fu irremovibile. Costrinse il governo a schierarsi con Sarkozy". L'allora capo del Senato ricostruisce l'incontro in cui il Quirinale impose la guerra al Paese, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 4/08/2017 su "Il Giornale". Finora aveva taciuto. «Ma ora - spiega Renato Schifani - l'amore per la verità mi costringe a rompere il silenzio». L'ex presidente del Senato ha letto l'intervista concessa da Giorgio Napolitano a Repubblica e quella ricostruzione lo lascia perplesso. Di più: «C'è una verità formale e una sostanziale. Napolitano privilegia le forme ma nei fatti fu lui a spingere l'Italia verso la guerra con la Libia».

Veramente, Napolitano dice che la responsabilità di quell'intervento è da attribuire al governo Berlusconi.

«Mi dispiace, ma le parole del Presidente emerito mi stanno strette».

Per Salvini dev'essere addirittura processato.

«Lasci perdere Salvini. Piuttosto dobbiamo intenderci su quel che successe la sera del 17 marzo 2011».

Che cosa accadde?

«Eravamo all'Opera di Roma. Muti dirigeva il Nabucco. Alla fine del primo atto, il presidente della Repubblica ci chiese di trasferirci in un salottino riservato».

Chi c'era?

«Il capo dello Stato, il sottoscritto, il premier Silvio Berlusconi, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il consigliere Bruno Archi, Gianni Letta e Paolo Bonaiuti».

Dunque?

«Archi ci mise in contatto con il ministro degli Esteri Franco Frattini che era a New York. E Frattini ci dipinse un quadro drammatico».

In sintesi?

«L'Onu aveva votato una risoluzione che istituiva la no fly zone sula Libia. Ma soprattutto Sarkozy ci aveva fatto sapere che l'indomani avrebbe annunciato al mondo l'intervento militare e l'invio dei Mirage su cielo di Tripoli».

I tempi erano contingentati?

«Il momento era assolutamente drammatico, forse il più drammatico della mia presidenza. Sarkozy ci poneva davanti a una sorta di fatto compiuto: intervenire con la coalizione, che comprendeva Londra e Washington, oppure rimanere ai margini. E ci dava un ultimatum, poche ore per decidere».

Un contesto difficile?

«Una situazione complicata e fu in quel clima di ansia che Napolitano fece il passo decisivo».

Il presidente espresse la sua opinione?

«Napolitano disse testualmente: L'Italia non può rimanere fuori».

Berlusconi?

«Soffriva, era visibilmente contrariato, stava quasi male. Si capiva benissimo che non condivideva per niente quella posizione».

Il profondo disagio del Cavaliere lo riconosce anche Napolitano.

«Sì, ma il presidente, che era anche il capo supremo delle Forze armate, con quell'intervento chiuse la discussione. Pollice verso, partita finita».

Non ci fu un contraddittorio?

«Il contraddittorio era nei fatti. Berlusconi era in sofferenza, del resto lui aveva firmato nel 2008 il trattato di Bengasi che ci sarebbe costato 5 miliardi di dollari in vent'anni ma che garantiva numerosi vantaggi al nostro Paese: la partnership dell'Eni con i libici per l'estrazione del petrolio, il controllo delle coste, l'ingresso di imprese italiane sulla piazza di Tripoli. Ma poi era affranto sul piano personale: capiva che si andava incontro ad un disastro e poi lui aveva dato la sua parola a Gheddafi».

Napolitano sostiene che non c'erano alternative.

«Il presidente avrebbe potuto raccogliere quei dubbi, far proprie quelle domande, riflettere su quei diktat. Berlusconi intuiva che le scelte di quella notte, ammantate dal perbenismo della lotta al dittatore sanguinario, erano in realtà dettate dagli interessi economici dei vari Paesi. Per di più a danno dell'Italia. Invece la palla passò al Parlamento per i passi formali. Napolitano ha ragione sulla carta, ma in realtà fu lui a portarci in guerra. E il Cavaliere fu lasciato solo. Ma oggi possiamo dire che aveva ragione».

Napolitano, il comunista che prima spara e poi scappa. Fascista, stalinista e filoamericano, l'ex capo dello Stato è maestro nell'arte di colpire e darsela a gambe, scrive Paolo Guzzanti, Venerdì 4/08/2017, su "Il Giornale". Nella sua intervista di ieri a Repubblica Giorgio Napolitano dà prova della sua storica spudoratezza, che coincide con la spudoratezza della storia e delle sue manipolazioni. L'ex capo dello Stato è uno che, per attitudine e antico addestramento, conosce l'arte di colpire e poi scappare a gambe levate. Un'abilità che, in parte, gli viene dalle antiche guerre intellettuali dei Gruppi universitari fascisti, i cui più abili campioni come Pietro Ingrao - passarono poi armi e bagagli nel Pci di Palmiro Togliatti, e poi, naturalmente, dalla doppiezza staliniana, togliattiana e di tutto l'apparato di cui è stato un leader particolarmente eminente perché considerato elegante e con una infarinatura di inglese quando i comunisti studiavano il russo e i più pessimisti il cinese. Con Palmiro Togliatti, detto non a caso il Migliore, Napolitano commise delitti riconosciuti con elegante disincanto, per poi fondare molti anni dopo la morte di Togliatti la corrente interna dei «miglioristi», come dire degli allievi più scaltri del vecchio capo. L'ha fatto sempre colpendo e poi scappando a gambe levate, ma con un'espressione timidamente dubbiosa, come a dire «Chi? Io?». Negare e minimizzare sono stati raffinati al livello di arti marziali, per quel tipo di intellettualità del vecchio Pci. Nel 1956, quando il Partito comunista italiano era una potenza ideologica, Togliatti, spalleggiato da Napolitano e dal cinese Mao Zedong, costrinse la riluttante Unione Sovietica a schiacciare con le divisioni corazzate gli inermi insorti di Budapest che manifestavano contro il Partito comunista chiedendo libertà e democrazia. Ieri Napolitano ha preteso di far credere che l'operazione militare neocoloniale franco-inglese scatenata sotto le intrepide bandiere dell'Onu contro la Libia di Muammar Gheddafi nel 2011 fu una nobilissima guerra perché combattuta in nome della stessa libertà e democrazia contro cui aveva chiesto l'intervento dei carri armati russi a Budapest. Naturalmente gli ungheresi fatti uccidere da Napolitano, Togliatti, Mao Zedong e Nikita Krusciov sapevano che cosa fossero libertà e democrazia, mentre i libici, così come i siriani, gli egiziani, i libanesi e gli arabi musulmani in genere, non ne avevano mai avuto idea politica e pratica. Napolitano sa oggi, come sapeva ieri, che Gheddafi era un dittatore come tutti gli altri nell'area, ma era diventato uno strumento importante e funzionale della politica estera italiana di Silvio Berlusconi, il quale era riuscito ad ottenere il controllo navale delle coste libiche e il blocco dei flussi migratori oggi incontrollabili. Gheddafi era un elemento di successo personale di Berlusconi e anche per questo era, per tutto il fronte nazionale e internazionale che ne voleva la fine politica, l'uomo da abbattere e far abbattere, anche per procura. Nessuna traccia di tutto ciò nella smemorata e autorevole intervista. Napolitano sa bene, per esempio, che quando Gheddafi fu prima violentato dal suo carnefice e poi macellato come una bestia, in Italia si assisté a un'ondata razzista con manifestazioni che invocavano per il capo del governo italiano la stessa sorte. Fu, quello, uno dei momenti più sudici della nostra storia. Ma, mentre i fatti accadevano, Napolitano ritirava la mano e oggi si mostra indaffarato e formale, uno che ha bisogno delle carte geografiche e dei verbali per ricordare. L'ex presidente elenca, fra le nobili cause del catastrofico intervento in Libia che ha distrutto gli equilibri nel Mediterraneo, la difesa delle «Primavere arabe» che, salvo quella tunisina, si sono tutte concluse in democratici bagni di sangue. Come dargli torto? Dal 1956 Napolitano è un esperto del giusto rapporto che corre fra libertà, democrazia e interventi militari. Del resto, dopo essere stato uno dei raffinati stalinisti, fuggì a destra nel Pci, formando una corrente filoamericana apprezzata dal segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, detta dei «miglioristi», un aggettivo togliattiano, presentata allora come creatura specialista nel colpire, negare e fuggire. Per poi auto-assolversi. L'ex presidente della Repubblica con eterno piglio giovanile si nasconde dietro le verità a geometria variabile quando simula oggi di aver preso le distanze dalla «decisione unilaterale» del francese Nicolas Sarkozy quando attaccò la Libia per sottrarla all'influenza italiana e lanciare un siluro contro Berlusconi, che era riuscito a sigillare le coste e impedire che l'intera Africa cominciasse il suo sbarco a puntate sulle coste italiane. Sarkò attaccò con rabbia napoleonica e per odio trasparente verso il presidente del Consiglio italiano, l'ultimo eletto, come dimostrano le famose foto sghignazzanti nei confronti del primo ministro italiano. Del resto, la chiarissima operazione per liquidare per via antiparlamentare Berlusconi un vero colpo di Stato contemplava la necessità di una coalizione interna, di una coalizione estera e un'operazione militare brigantesca che si concludesse con il sacrificio umano del dittatore libico, colpevole di essere uno strumento vincente di Berlusconi che, grazie a lui, aveva sigillato le coste libiche agli scafisti e ai trafficanti di uomini. Oggi fa veramente impressione vedere la questione umanitaria dei libici sotto la tirannia di Gheddafi spacciata come motivazione morale di una partita losca, sanguinaria e diretta contro gli interessi italiani. Giorgio Napolitano si adoperò in tutti i modi, molto discutibili se non illeciti, per abbattere l'ultimo capo del governo che gli italiani abbiano potuto eleggere a Palazzo Chigi.

Libia, il generale Haftar alle forze aeree: "Bombardate le navi italiane". Sale la tensione in Libia. Secondo al Arabyia, il generale avrebbe ordinato alle forze aeree di bombardare qualsiasi nave militare italiana entrata in acque libiche. Ma Roma: "Notizia infondata", scrive Sergio Rame, Mercoledì 2/08/2017, su "Il Giornale". Il generale Khalifa Haftar, l'uomo forte della Cirenaica, e rivale del premier Fayez al Sarraj, fa carta straccia dell'intesa raggiunta nei giorni scorsi. E, dopo la passerella di Parigi al fianco del presidente francese Emmanuel Macron, ha ordinato alle sue forze aeree di bombardare qualsiasi nave militare italiana entrata nelle acque territoriali libiche su richiesta di Sarraj. Proprio oggi pomeriggio, dopo aver ricevuto le necessarie autorizzazioni, la nave "Comandante Borsini" è, infatti, entrata nelle acque libiche. In mattinata il Parlamento ha dato il via libera all'intervento della Marina Militare italiana a sostegno della Guardia di costa libica. E nel pomeriggio la nave Comandante Borsini, già impiegata nell'ambito del dispositivo dell'operazione "Mare Sicuro", è entrata nelle acque territoriali libiche, dopo aver ricevuto le necessarie autorizzazioni, facendo rotta verso il porto della città di Tripoli. A bordo, come ha reso noto lo Stato Maggiore della Difesa, è imbarcato il nucleo di ricognizione, costituito da Ufficiali del Comando Operativo di Vertice Interforze e della Squadra Navale, che ha ricevuto il compito di "condurre, congiuntamente con i rappresentanti della Marina e della Guardia Costiera libiche, le necessarie attività di ricognizione e di definire le ultime modalità di dettaglio per quanto attiene alle misure di coordinamento delle successive attività di supporto e di sostegno, che avverranno su richiesta della controparte". L'obiettivo è duplice: combattere i trafficanti di esseri umani e controllare i flussi degli immigrati irregolari. "Non è una missione aggressiva - ha garantito il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, durante la visita al Comando operativo interforze - ma una missione di sostegno alla fragile sovranità di quel paese e delle autorità libiche". E, sebbene la missione italiana non abbia intenti aggressivi, il generale Haftar è pronto ad accogliere le nostre navi con le bombe delle forze aeree. Come riferito dall'emittente araba Al Arabiya, che ricorda che oggi è già entrato nelle acque libiche un pattugliatore d'altura italiano, l'ordine del rivale di Sarraj esclude dall'attacco soltanto le navi commerciali. Sentite dall'agenzia Agi, fonti governative italiane hanno definito la notizia di minacce all'Italia "inattendibile" e "infondata".

Perché Haftar non vuole gli italiani in Libia? Scrive Alessandro Fioroni il 2 agosto 2017 su "Il Dubbio". Il generale, capo del governo di Tobruk accusa Roma di ingerenza. È sostenuto dall’egiziano al-Sisi e dalla Francia di Macron. In ballo l’influenza politica sul paese nordafricano e un una pioggia di milioni dell’Unione europea. L’arrivo delle navi italiane in Libia dovrebbe essere l’epilogo dell’accordo scaturito mercoledì scorso tra il presidente del Governo di Unità nazionale libico, con capitale a Tripoli, Fayez Serraj e il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Ufficialmente si tratta di una richiesta libica, sconfessata l’indomani da Serraj stesso, ma poi confermata. Tra l’altro a smentire il suo presidente era stato il suo ministro degli Esteri Mohamed Siala il quale ha anche emesso un comunicato nel quale si confermava l’invito fatto dal governo di Tripoli all’Italia. Siala ha spiegato, come riportano fonti di stampa libica, che la richiesta concerne “supporto logistico, tecnico e operativo alla guardia costiera libica”. Ciò però obbliga a mettere in campo “misure che richiedono la presenza di alcuni elementi della Marina Militare Italiana al porto di Tripoli, ma solo per questo scopo e solo se necessario “. In realtà Serraj si era subito spinto a dire che la sovranità della Libia non poteva essere compromessa e che avere navi da guerra straniere nelle acque libiche era una linea rossa che non poteva essere attraversata. Chiaramente dall’Italia era subito rimbalzata la risposta di Gentiloni che aveva avuto gioco forza nel dichiarare che “il Cdm ha approvato quello che il governo libico ha chiesto, niente di più, niente di meno”. Schermaglie prevedibili probabilmente ma che assumono un valore preciso alla luce di quanto successo domenica 31 luglio. Infatti mentre già si discute del numero di navi che saranno inviate e di quanti marinai e droni, è arrivato il fulmine lanciato da Tobruk. Dalla città capitale dell’altro governo libico, guidato dal generale Khalifa Haftar, è stato emesso un comunicato siglato dal Comitato nazionale libico per la difesa e la sicurezza. In esso pesanti accuse all’Italia accusata di interferire “con un intervento militare flagrante” negli affari interni libici. Obiettivo dell’attacco di Haftar è stato anche il governo di Tripoli definito “consiglio di presidenza incostituzionale e illegale”. Si è poi aggiunta la voce del portavoce dell’Operazione Dignità (l’offensiva lanciata da Haftar contro le milizie islamiste nel 2014) Ahmed Al-Mismari: “La risposta all’intervento italiano nelle acque libiche sarà forte”. L’intervento italiano viene anche giudicato sconsiderato e soprattutto in contrasto con l’iniziativa francese. Non è un mistero che Haftar (il suo governo non è comunque riconosciuto dall’Onu) è sostenuto proprio dai francesi e dall’Egitto mentre l’Italia ha costruito la sua partnership con Tripoli. L’iniziativa del presidente Macron che sta tentando di pacificare la situazione in Libia, scavalcando il governo d’Italia, è il segno tangibile di come in Libia si giochino più partite che vanno oltre il traffico di migranti e che riguardano soprattutto il settore energetico. In questo senso già nel 2015 Tobruk era insorta contro l’invio di navi italiane di fronte alle coste libiche. A gennaio la riapertura dell’ambasciata italiana e a Tripoli era stata visto come un aggressione militare. Insomma Khalifa Haftar sembra essere il vero ago della bilancia per l’intervento italiano. Incontra regolarmente diplomatici stranieri, straparla in maniera negativa di Serraj ma soprattutto si sente forte militarmente grazie all’aiuto fornito dal suo omologo egiziano Al- Sisi. Una forza da non sottovalutare se non si vuole trasformare l’intervento italiano in una palude. Il motivo risiede nella stessa entità dell’operazione che, se vuole essere significativa, deve assumere i contorni di un vero e proprio blocco navale. Come hanno sottolineato diversi esperti militari fermare i trafficanti costa l’impiego di almeno 5000 militari, dai 4 ai 6 droni per la sorveglianza delle coste, una nave con funzioni i comando, due cacciatorpediniere per la protezione aerea, e poi tutta una serie di unità più piccole preposte proprio a far rispettare il blocco. Non dovrebb essere escluso nemmeno un intervento di forze speciali, destinate a scoprire i centri clandestini di migranti gestiti dalle organizzazioni criminali. Un tale spiegamento si inserirebbe su un terreno fortemente destabilizzato dove, oltre allo scontro tra Tripoli e Tobruk, chiunque intervenisse dovrebbe fare i conti con l’Isis, centinaia di milizie islamiste, le milizie di Zintan e qualcosa come 140 tribù in costante scontro tra di loro. Una situazione che ha fatto dire all’ex generale Fabio Mini che un intervento efficace non impiegherebbe meno di 50000 militari complessivi. Inoltre le regole d’ingaggio non potrebbero essere che quelle impiegate in una guerra. Se poi si volessero fermare veramente le bande criminali che organizzano le partenze dei migranti, si dovrebbe agire in zone come Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzur, sulla costa ovest di Tripoli. Così come a Tagiura e a Tarabuli, località che difficilmente il fragile governo di Serraj riesce a controllare da solo. Come riporta l’Huffinghton Post, un viaggio frutta ai trafficanti circa 150mila euro, una torta molto grande che nessuno è disposto a farsi portare via se non a caro prezzo. E’ chiaro che al primo colpo di fucile straniero tutta la Libia potrebbe precipitare in un caos peggiore di quello attuale, se possibile. Ma forse Haftar e molti altri sono interessati a qualcos’altro, il denaro. E’ in arrivo sulla Libia una pioggia di finanziamenti, ad aprile l’Unione europea ha stanziato 90 milioni di euro per “gestire le migrazioni in Libia attraverso attività di protezione e sviluppo economico”. Parte dei soldi sono destinati ai 23 centri di detenzione per migranti controllati dal governo di Serraj e nei quali ritornano coloro che vengono intercettati in mare, compresi quelli che potrebbero essere bloccati dalla missione italiana. Si tratta di denaro prelevato dal Trust Fund, soldi che dovrebbero essere usati per progetti finalizzati alla “gestione delle migrazioni” e allo sviluppo e che invece sono andati ad iniziative militari per il controllo delle frontiere. L’inchiesta realizzata da “Diverted Aid” finanziata dal Centro Europeo di Giornalismo, ha messo in luce come nel 2015 venne istituito il Fondo Fiduciario per l’Africa che fu riempito da 2,9 miliardi di euro. Solo nel 2016 da questo fondo sono arrivati in Libia 600 milioni di euro, mentre è recentissima la notizia che riguarda 46 milioni di euro stanziati dall’Europa per permettere all’Italia di addestrare ed equipaggiare la Guardia costiera libica e le guardie di frontiera nel sud del paese a ridosso del deserto del Sahara.

"Possiamo provare incontri in mare coi trafficanti". La Iuventa fermata a Lampedusa. I pm di Trapani: "Favoreggiamento dell'immigrazione", scrive Chiara Giannini, Giovedì 3/08/2017, su "Il Giornale". L' Italia alza la voce contro le Ong che non hanno firmato il codice. E lo fa con il sequestro della nave Iuventa della tedesca Jugend Rettet, ora accusata di favoreggiamento all'immigrazione clandestina illegale. Le organizzazioni non governative che avevano rifiutato l'accordo con il Viminale avevano anche fatto capire che si sarebbero appellate al diritto internazionale. Ma là dove si tenti di aggirare la legge, il nostro Paese è campione nel far desistere con l'uso della burocrazia o quello della magistratura. In un primo momento, infatti, era giunta la notizia che la Guardia costiera italiana, nella notte tra martedì e mercoledì, aveva effettuato «normali controlli» a bordo dell'imbarcazione. Controlli, però, importanti, al largo di Lampedusa, che avevano indotto il tenente di vascello Paolo Monaco, della Capitaneria dell'isola, a salire a bordo del natante. La nave era poi stata scortata in porto con «un imponente dispiego di forze» e l'uso di diverse motovedette. Qualcuno aveva subito pensato a una mossa del governo per usare il pugno duro con chi non si era allineato nella lotta all'immigrazione clandestina. Invece le cose stanno diversamente, visto che poco dopo sono stati gli agenti dello Sco (Servizio centrale operativo della polizia), a salire a bordo della Iuventa, su ordine dei pm di Trapani che, almeno dal 2016, avevano indagato l'Ong. I tempi erano maturi e, non a caso, l'operazione arriva un giorno dopo l'incontro al Viminale. L'inchiesta tende a rilevare rapporti tra i membri dell'equipaggio della nave e i trafficanti di esseri umani. Il procuratore di Trapani, Ambrogio Cartosio, in una conferenza stampa tenuta nel pomeriggio di ieri ha chiarito: «Abbiamo documentato incontri in mare, ma siamo portati a escludere collegamenti tra Ong e libici. Escludo che qualcuno abbia agito per scopi di lucro, mentre sono presenti gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato del favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, commessi da quanti sono a bordo della nave Iuventa, utilizzata dalla Ong Jugend Rettet». Nonostante per adesso non risultino nomi nel registro degli indagati, la nave è stata posta sotto sequestro in quanto, ha chiarito ancora il pm, «c'è il pericolo serio della reiterazione del reato». Per Cartosio, però, la condotta sarebbe «abituale», visto che «persone che lavorano all'interno della Iuventa avrebbero trasbordato, per due volte, sulla nave migranti scortati da trafficanti libici non in situazioni di pericolo». La nave trasportava due siriani, trasferiti a bordo da una delle unità militari italiane impegnate nel Mediterraneo che sono stati accompagnati al centro di prima accoglienza di Lampedusa. Adesso si attende che anche le indagini delle altre tre procure portino ad azioni concrete nei confronti di chi, da tempo, opera senza rispettare le regole e favorendo l'immigrazione.

L'agente infiltrato sulle ong: "Così ho filmato gli scafisti". La storia del poliziotto che per 40 giorni ha svolto l'attività di infiltrato sulle acque libiche: "Ho filmato la restituzione dei barchini agli scafisti", scrive Luca Romano, Venerdì 4/08/2017, su "Il Giornale".  Si è finto un addetto alla sicurezza, imbarcato sulla Vos Hestia, la nave di "Save the children" per conto di una società privata ed è riuscito a documentare "con foto e video i contatti tra l'equipaggio della Iuventa e i trafficanti". La storia dell'agente sotto copertura è raccontata oggi dal Corriere della sera. Lui si chiama Luca B., 45 anni, ed è un esperto sub. Il 19 maggio inizia la sua attività di infiltrato. "Devo stare attento, perché si insospettiscono se faccio foto o filmati", comunicava ai suoi capi secondo quanto scrive il Corsera. "All' alba la Vos Hestia e la Iuventa si incrociano in alto mare. Pochi minuti dopo si avvicina un barchino dei trafficanti. Rimane a pochi metri da Iuventa, gli uomini parlano con i volontari. Arriva un altro barchino che scorta un gommone carico di migranti", racconta ancora al Corsera. Poi riesce a filmare i barchini restituiti ai trafficanti e riportati in Libia. E la missione può dirsi compiuta. Ora ci sono le prove.

Migranti e Libia, l’agente infiltrato sulla nave della Ong: «Così ho scoperto i contatti tra Iuventa e i trafficanti libici». Il poliziotto dello Sco per 40 giorni a bordo dell’imbarcazione di “Save the children”, scrive Fiorenza Sarzanini il 3 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". Era un addetto alla sicurezza, imbarcato sulla Vos Hestia, la nave di “Save the children” per conto di una società privata. Nessuno immaginava che in realtà fosse un agente sotto copertura, poliziotto dello Sco, il servizio centrale operativo impegnato da quasi un anno nell’indagine sull’attività delle Ong per il salvataggio dei migranti al largo della Libia. È rimasto a bordo per quaranta giorni, «l’esperienza più impegnativa, ma anche più emozionante della mia carriera». E adesso rivendica con soddisfazione di essere riuscito a «documentare con foto e video i contatti tra l’equipaggio della Iuventa e i trafficanti». Ma anche «di aver restituito al suo papà, nigeriano che da tempo vive in Italia, una bimba di 15 mesi imbarcata su un gommone con la mamma che invece non è riuscita a terminare il viaggio».

La missione. La scelta di agire in missione segreta viene presa nel maggio scorso. Il pool investigativo guidato dal vicequestore Maria Pia Marinelli, che lavora da oltre sette mesi per verificare la fondatezza delle denunce presentate da alcuni volontari di “Save the children” per conto della procura di Trapani, ha raccolto numerosi indizi sui possibili legami tra volontari e organizzazioni criminali. Nel mirino c’è Jugend Rettet, definita dalle altre organizzazioni «temeraria» proprio perché entra in acque libiche e carica migranti che poi trasferisce su altre navi. Ma servono prove concrete, bisogna documentare gli incontri con gli scafisti, i possibili accordi. Il direttore dello Sco Alessandro Giuliano sa bene che l’unica strada è quella della “copertura”, proprio come accade nelle indagini sui trafficanti di droga o di armi. Consulta il prefetto Vittorio Rizzi, direttore dell’Anticrimine. Ottiene subito il via libera. Tra gli agenti impegnati nelle verifiche, c’è Luca B., 45 anni che ha le caratteristiche giuste. È esperto di sub, tanto da avere il brevetto Divemasteroltre a una serie di abilitazioni per il soccorso medico in mare, la patente nautica. Ma è soprattutto un agente esperto. Quando gli propongono l’incarico non ha dubbi: «Felice di accettare». Il 19 maggio si imbarca. Viene alloggiato in una cabina con altre tre persone, sa che deve «stare continuamente all’erta per non essere scoperto».

I soccorsi. La nave partecipa a numerose incursioni di fronte alle acque libiche. Effettua tre operazioni di soccorso, lui aiuta gli operatori, salva i migranti, collabora quando c’è necessità di trasferire le persone da una imbarcazione all’altra. Tiene i contatti con Roma inviando messaggi via whatsapp. Li aggiorna su quanto accade a bordo, sulla posizione delle navi delle altre Ong. «Devo stare attento, perché si insospettiscono se faccio foto o filmati», comunica ai suoi capi. «Non abbiamo mai perso la sua posizione - conferma Marinelli - perché avevamo comunque il supporto della Guardia Costiera che ci teneva informati degli spostamenti e di eventuali emergenze». Riesce a scendere dalla nave tre volte. Incontra i colleghi in luoghi segreti, consegna aggiornamenti e informazioni utili all’inchiesta. Ma ancora non basta, bisogna continuare per dimostrare che quanto raccontato nelle denunce sia vero. Il 18 giugno arriva la svolta. Sono gli ultimi due soccorsi, quelli decisivi «All’alba la Vos Hestia e la Iuventa si incrociano in alto mare. Pochi minuti dopo si avvicina un barchino dei trafficanti. Rimane a pochi metri da Iuventa, gli uomini parlano con i volontari. Arriva un altro barchino che scorta un gommone carico di migranti». L’infiltrato scatta foto, gira video, documenta minuto dopo minuto l’incontro che segna la svolta per l’indagine. Tre ore dopo c’è un altro contatto e anche questa volta riesce a filmare ogni passaggio. «Ho tutto, comprese le immagini dei barchini restituiti ai trafficanti e riportati in Libia», comunica ai suoi capi.

La bambina salvata. La missione è compiuta, ma bisogna attendere ancora qualche giorno. Portare a termine l’incarico così come previsto dal contratto proprio per non destare sospetti. A fine giugno l’agente torna a casa. Racconta quanto ha visto, «anche quell’emozione di aver salvato tante vite». Ma il ricordo più bello lo dedica a Rejoyce, la bimba di 15 mesi che il 5 giugno hanno salvato mentre era su un gommone con altri 125 migranti. «La mamma era caduta in acqua, l’abbiamo issata a bordo, le ho fatto il massaggio cardiaco, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare». In tasca la donna ha alcuni bigliettini con un numero di telefono italiano. L’infiltrato li comunica ai colleghi della mobile di Trapani quando, tre giorni dopo, arrivano in porto. L’utenza appartiene a un nigeriano che da tempo vive in Italia e lavora come bracciante a Salerno. L’uomo viene subito trasferito in Sicilia. Conferma che quella donna morta è sua moglie. Racconta che la stava aspettando insieme con la figlioletta. Si decide di effettuare l’esame del Dna a entrambi per avere la certezza che non menta. Il risultato è arrivato ieri e non lascia dubbi: è sua figlia. Per l’infiltrato «la missione è davvero compiuta». Ma lui è pronto a ripartire. Ai suoi capi l’ha detto con chiarezza: «Per me è stata un’esperienza bellissima. Impegnativa ma esaltante, perché ti porta a contatto con queste persone che soffrono, ti fa capire che a volte per salvarli hai soltanto pochi secondi». 

Dentro le carte dell’inchiesta sulla nave Ong sequestrata a Lampedusa, scrive il 4 agosto 2017 "Il Corriere del Giorno". Il racconto di un agente sotto copertura. I volontari erano pagati 10 mila euro al mese. Per La Procura di Trapani vi sono gravi indizi probatori sugli equipaggi della Iuventa. Migranti recuperati davanti alla costa africana e barconi riconsegnati ai libici. La nave Iuventa dell’Ong tedesca Jugend Rettet, bloccata a Lampedusa e sequestrata su richiesta della Procura di Trapani con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, non solo collaborava con gli scafisti ma manifestava una vera e propria ostilità contro l’Italia, tanto da aver posizionato a prua un cartello con la scritta “Fuck Imrcc”, ovvero “affanculo l’Italian Maritime Rescue Coordination Centre”. A raccontare i retroscena dell’inchiesta sui legami tra Ong e trafficanti di essere umani è stato un agente sotto copertura imbarcato su una nave di Save The Children, una delle due sigle ad aver siglato il codice di condotta proposto dal Ministero dell’Interno, tra le nove impegnate nel soccorso nel Mediterraneo. Le 147 pagine del decreto di sequestro preventivo della Iuventa, firmato dal gip el tribunale di Trapani Emanuele Cersosimo, sono lo specchio della loro collaborazione con i trafficanti di esseri umani, dai quali prelevavano i migranti invece di intervenire solo in casi di pericolo e le intercettazioni rappresentano anche un campanello d’allarme sugli interessi delle Ong e la complicità della guardia costiera libica. Lunedì pomeriggio l’Ong tedesca Jugend Rettet non ha firmato il Codice di condotta voluto dal Viminale in accordo con l’Unione europea, perché contraria alla presenza della polizia giudiziaria a bordo della Iuventa. Un rifiuto che ora pesa come un macigno di fronte all’inchiesta della procura di Trapani e della polizia che travolge l’Ong con la pesante accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Le indagini della squadra mobile di Trapani e dello Sco (il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato) hanno rivelato un sistema di collusione tra i trafficanti di esseri umani e l’equipaggio della Iuventa. E non solo. Emerge anche uno spaccato inquietante, in termini più generali, con le Organizzazioni non governative interessate più che altro a raccogliere fondi e donazioni. Per non parlare di singolari «volontari» che in realtà arrivano a guadagnare fino a 10 mila euro al mese. Dalle intercettazioni dei due collaboratori di ‘Save the Children‘, ormai di dominio pubblico, si evince poi come l’impegno di certe Ong sia tutt’altro che disinteressato. Uno chiede all’altro: “Quali erano secondo te le cose strane che hai visto?”. E lui risponde: “Innanzitutto il fatto che venissero pagati così tanto, il fatto che ci facessero fare queste c… di foto come …”. L’amico chiede: “Perché loro, aspè perché loro erano pagati come stipendio dici?”. Sorprendente la risposta: “Eh, sì, cioè... cioè uno che fa il volontario che si piglia 10.000 euro mi sembra…”. Le indagini erano state avviate nell’ottobre del 2016, e hanno avuto ulteriori accelerazioni a giugno di quest’anno. Utili si sono rivelate le testimonianze dei due attivisti vicini a Save the Children. Ritenute peraltro genuine perché anche i due sono stati intercettati e le loro parole in privato rispecchiavano i loro racconti ufficiali forniti alla polizia e ai magistrati. «In un soccorso datato 10 settembre 2016 – ha spiegato uno dei due operatori ai magistrati inquirenti – abbiamo notato che durante un trasbordo dalla Iuventa alla nostra nave di 140 migranti soccorsi da quella imbarcazione, si allontanava un gommone dirigendosi verso le coste libiche con a bordo solo due uomini di colore. Questa circostanza ci faceva ritenere che l’equipaggio della Iuventa avesse trasbordato i 140 migranti dal gommone che rientrava sulla costa con a bordo gli scafisti». Di questa circostanza vennero informati i “servizi segreti” dell’Aise. Il secondo operatore della Ong ha raccontato ai pm che la stessa cosa sarebbe accaduta il 14 febbraio 2017. Durante le operazioni di soccorso «un legno di sei metri, con due persone di colore a bordo, si sarebbe allontanato dalla Iuventa verso le coste libiche a forte velocità».

L’intesa tra l’equipaggio della Iuventa e i trafficanti è stata certificata da intercettazioni, fotografie – grazie anche a un agente di polizia sotto copertura a bordo di una nave di un’altra Ong vicina – e testimonianze di due operatori della Vos Hestia, imbarcazione della Ong Save the Children. Ecco dunque emergere situazioni in cui i migranti spesso non vengono salvati, ma consegnati dagli scafisti agli attivisti della Iuventa. In particolare sono tre gli episodi specifici agli atti dell’inchiesta. Ma ve ne sono altri che secondo il procuratore Cartosio e il pm Andrea Tarondo configurano come «abituale» il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Iuventa aiutava gli scafisti a riportare indietro i gommoni. “L’equipaggio della Iuventa aiutava gli scafisti a riportare indietro i gommoni per poterli usare nuovamente. Gli operatori della Iuventa hanno consentito a non meglio individuati soggetti operanti al confine con le acque territoriali libiche di recuperare tre imbarcazioni utilizzate dai migranti per la partenza da quelle coste, una delle quali poi certamente riutilizzata il successivo 26 giugno per un nuovo sbarco”, racconta l’agente. Una foto immortala le “due barche in legno dei trafficanti legati in precedenza con una cima dagli operatori della Iuventa”.

Quella bandiera libica sull’albero di poppa. La sequenza fotografica pubblicata dai quotidiani nazionali è inequivocabile: “Dapprima si incontravano in acque internazionali con trafficanti libici a bordo delle rispettive imbarcazioni, quindi facevano momentaneo ritorno presso la motonave Iuventa (mentre i trafficanti libici si dirigevano nuovamente verso le acque libiche), e, da ultimo, si incontravano nuovamente con i trafficanti libici che questa volta scortavano un’imbarcazione con a bordo dei migranti che venivano poi trasbordati sulla motonave Iuventa”, è il racconto dell’agente infiltrato sotto copertura , “Il recupero dei migranti, in accordo con i trafficanti, avveniva anche a 1,3 miglia dalla costa libica”. L’intesa era talmente forte che il 26 giugno scorso alle 17 sull’albero a poppa della Ong tedesca Jugend rettet, “è stata issata la bandiera libica”. Ferrea la volontà di non attraccare nei porti italiani: “Facevano persino il pieno di gasolio a Malta pur di non avvicinarsi all’Italia”.

Le barche fantasma pro-scafisti e il giallo della nave con arabi. L'inchiesta sulla ong Jugend Rettet si allarga e si compone anche di dettagli misteriosi, scrive Luca Romano, Venerdì 4/08/2017, su "Il Giornale". L'inchiesta sulla ong Jugend Rettet si allarga e si compone anche di dettagli misteriosi. Si tratta, come scrive Il Messaggero, di alcuni barchini in vetroresina che farebbero la scorta ai trafficanti di esseri umani e che provvederebbero a recuperare mezzi e motori. "Quando navigavamo siamo stati affiancati da una barca in vetroresina di colore bianco e nero, con una persona a bordo che aveva i capelli rasta lunghi e indosso un cappello di paglia. Era un arabo e ci ha indicato la direzione da seguire per raggiungere l'imbarcazione che poi ci avrebbe soccorso. A un certo punto ci ha superato a forte velocità, ma è andato verso il largo, per poi tornare indietro e intercettarci quando ci siamo trovati in forte difficoltà. Sono barchini che effettuano un servizio di staffetta e scorta ai gommoni dei migranti. Stazionano nelle zone dove avvengono i soccorsi e dove sono presenti le navi delle ong", ha raccontato Jeuray Awale, soccorso il 10 giugno scorso da Sea Watch 2, al largo delle coste libiche e citato dal Messaggero. Non ci sono certezze sull'identità di queste persone: pescatori o miliziani. Fatto sta che sono sicuramente legati agli scafisti e la loro presenza confermerebbe che più di un'organizzazione non governativa teneva rapporti con i trafficanti. Inoltre, c'è un altro mistero nell'inchiesta e nell'attività di Iuventa: si tratta di un incontro in mare nelle vicinanze di Lampedusa con la nave fantasma Shada (forse una petroliera francese). Secondo gli investigatori, si tratterebbe di una nave che prima batteva bandiera boliviana e che ora "è priva di bandiera, dopo essere stata radiata da quello Stato". Fermata e controllata dalla Marina militare, a bordo della nave Shada sono stati identificati i cinque membri dell'equipaggio, tutti provenienti da Paesi di lingua araba.

Immigrazione, l'intercettazione sulla nave Iuventa: "Più salvataggi portano più donazioni", scrive il 4 Agosto 2017 "Libero Quotidiano". "Quelli sostengono solo il portafogli che portano in tasca sennò gli casca a terra...". Il giudizio netto sulla Ong tedesca Jugend Rettet e il comportamento che sistematicamente avrebbe avuto il personale sulla nave Iuventa, sotto sequestro da parte della procura di Trapani, viene da Christian Ricci, titolare della Imi security servicers che cura la sicurezza delle navi di Save the children, intercettato lo scorso 27 febbraio. Con il suo interlocutore della stessa società, Pietro Gallo, è stato convocato dai magistrati catanesi che vogliono vederci chiaro sulle tantissime anomalie emerse nel sistema di salvataggio nel Mediterraneo usato dalla Ong tedesca. Secondo i magistrati, non c'è dubbio che le Iuventa ha "concorso nella commissione della condotta illecita posta in essere dagli ignoti trafficanti libici rendendo sicuramente più agevole la consumazione". Come riporta il Fatto quotidiano, le stranezze attorno alla Iuventa sembravano evidenti anche a Ricci che ai magistrati aveva riferito: "Io gli ho riportato quello che era secondo me le cose strane, insomma... Innanzitutto il fatto che venissero pagati così tanto". Gli stipendi a bordo della nave olandese gestita dai tedeschi erano molto generosi: "Cioè uno che fa il volontario - raccontava Ricci a Gallo - che si piglia 10mila euro mi sembra... e poi gli ho detto eh: il fatto che quando c'era qualcuno da segnalare alla polizia ci rompevano il cazzo... e da lì ne è nato tutto l'attrito". Tra le stranezze sulla Iuventa c'è anche la presenza costante di "barchini in vetroresina" che navigavano attorno ai barconi dei migranti. Secondo la Ong tedesca quelli erano privati che "aiutano le operazioni di soccorso", ma il sospetto degli inquirenti è che si tratti di "favoreggiatori", lì presenti perché poi recuperino i gommoni e verifichino che le operazioni andassero a buon fine. In quasi un anno di indagine, diversi testimoni hanno riferito degli strani salvataggi della Iuventa: "Dicevano - si legge nelle carte del Gip - di averli salvati loro per mare per farsi dare più soldi e donazioni chiamandolo sabotaggio via internet, omettendo la realtà dei fatti".

Ong: perché è stata sequestrata la nave Iuventa. La Procura di Trapani ha chiesto e ottenuto il sequestro per il reato ipotizzato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, scrive il 4 agosto 2017 Panorama. Martedì fa avevano deciso di non sottoscrivere il codice di condotta per le Ong preparato dal Viminale. Una scelta, quella della Jugend Rettet, condivisa da altre organizzazioni non governative, come Msf. Il 2 agosto un nuovo capitolo, stavolta sul fronte giudiziario: la Procura di Trapani, che da mesi (come anticipato dal settimanale Panorama) indaga sui salvataggi effettuati nelle acque del Canale di Sicilia da navi delle ong, ha chiesto e ottenuto dal gip il sequestro della Iuventa, una delle imbarcazioni della organizzazione tedesca.  Questa volta il reato ipotizzato, ancora a carico di ignoti, è il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Nell'inchiesta, condotta dallo Sco, è stato usato anche un agente sotto copertura. In particolare, uno avrebbe lavorato sulla nave Vos Hestia che opera per conto di Save the Children.

Cosa è successo. La Iuventa, un peschereccio battente bandiera olandese di 33 metri, è stato fermato in mare e condotto a Lampedusa da diverse motovedette della Guardia costiera, con un grande spiegamento di forze dell'ordine anche sulla banchina. Il comandante della Capitaneria di porto di Lampedusa, il tenente di vascello Paolo Monaco, è salito a bordo della nave dove è rimasto per oltre due ore. "Si tratta di un normale controllo, che abbiamo fatto e che non comporterà alcun problema - aveva spiegato inizialmente l'ufficiale. Ma così non è stato.

Ma le cose non sono andate così. E dopo qualche ora si è saputo che il peschereccio era sotto sequestro su ordine della magistratura, ricorsa al provvedimento per scongiurare la reiterazione del reato. A spiegare il contenuto dell'indagine - avviata a marzo di quest'anno dalle dichiarazioni di due operatori della Vos Hestia, imbarcazione di un'altra organizzazione non governativa, Save The Children - è stato il procuratore facente funzioni Ambrogio Cartosio.

Gli inquirenti, su input di due ex operatori di Save The children, poi assunti dall'agenzia Imi security Service, avrebbero accertato almeno tre casi in cui alcuni componenti dell'equipaggio della nave, non ancora identificati, avrebbero avuto contatti con trafficanti di migranti libici e sarebbero intervenuti in operazioni di soccorso senza che i profughi fossero in reale situazione di pericolo. I migranti, in realtà, sarebbero stati trasbordati sulla nave della ong scortati dai libici. I contatti tra ong e i trafficanti sarebbero stati tenuti attraverso una chat su Whatsapp a cui partecipano i team delle navi umanitarie delle varie Ong e probabilmente anche i trafficanti per segnalare l'arrivo di un barcone. Ma è tutto ancora da verificare. Resta tuttavia questo un punto cardine della vicenda. 

Per i pm il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, escluso solo quando il soccorso avviene in situazioni di imminente rischio, sarebbe smaccato. "La più temeraria era sicuramente la Iuventa che, da quello che ho potuto vedere sul radar, avendo io accesso al ponte, arrivava anche a 13 miglia dalle coste libiche, circostanza anche pericolosa. La Iuventa, che è un'imbarcazione piccola e vetusta, fungeva da piattaforma ed era sempre necessario l'intervento di una nave più grande sulla quale trasbordare i migranti soccorsi dal piccolo natante...", racconta ai pm uno dei testimoni che ha smentito in un'intervista a Repubblica di aver visto restituire i gommoni usati dai trafficanti.

Ma una foto parla chiaro: uno scafista sta staccando il motore di un gommone "consegnato" alla Ong per portarlo via con sé. "Ci sono gravi indizi di colpevolezza - ha detto Cartosio - e poi ricorre il caso in cui la legislazione speciale prevede la confisca del mezzo che interviene in caso di condanna dei proprietari e questo ci impone di ricorrere al sequestro preventivo accettato dal gip" che parla di vero e proprio "rendez vous tra trafficanti e Iuventa". Gli episodi contestati risalgono al 18 e 26 giugno e al 10 settembre. "Ma ve ne sono anche altri - ha spiegato il magistrato - che contribuiscono a sostenere che questa condotta sia abituale".

In particolare, il 26 giugno scorso alle 17 sull'albero a poppa della Iuventa, battente bandiera olandese è stata issata la bandiera libica. Lo scrive il gip nel provvedimento di sequestro della nave. Il gip citando una testimonianza intercettata scrive che ''l'ostilità verso l'Italian Maritime Rescue Coordination Centre è confermata dal cartello con la scritta "Fuck Imrcc" posizionato alla prua'' della Iuventa. L'Ong, scrive il giudice, "ha mostrato un atteggiamento di scarsa collaborazione verso le direttive impartite da Imrcc, confermando la volontà di voler effettuare esclusivamente trasbordi su altri assetti navali verosimilmente al fine di non attraccare in porti italiani''. Una donna di nome Katrin, della Iuventa, intercettata in ambientale, ha detto, parlando anche dei suoi collaboratori, che avrebbero evitato di consegnare alla polizia materiale video fotografico relativo ai soccorsi e immagini di soggetti che conducono imbarcazioni di migranti in quanto potrebbero essere arrestati.

La responsabilità degli illeciti sarebbe individuale. Non ci sarebbero cioè legami tra i trafficanti e la Ong: infatti non è stata contestata l'associazione a delinquere. "E comunque - ha precisato Cartosio - le persone coinvolte non hanno agito per denaro". Che la vicenda avrebbe suscitato clamore, la Procura lo prevedeva. "La delicatezza dell'indagine, gli intricati risvolti giuridici e rilevanza sociale - ha precisato il procuratore - ci induce a dare all'opinione pubblica informazioni il più possibile formali e corrette". "Sulla nave si sono alternati diversi equipaggi - ha aggiunto - e al momento non pare abbiano percepito compensi. La mia personale convinzione è che il motivo della condotta dell'equipaggio sia umanitario".

Ong e migranti, il ruolo di Medici Senza Frontiere. L'inchiesta di Panorama che raccontava come alcuni uomini dell'Ong fossero al centro della prima inchiesta della Procura di Trapani, scrive il 3 agosto 2017 Carmelo Abbate su Panorama. Il 2 agosto, dopo 24 dall'entrata in vigore del Codice di Condotta delle Ong, la Procura di Trapani ha ottenuto il sequestro della nave Iuventa della Ong tedesca Jugend Retter che, come Medici senza Frontiere, non ha aderito al codice. Non è la prima volta che la Procura di Trapani si muove in questa direzione. Come spiegato nell'inchiesta di copertina del maggio scorso, Panorama aveva raccontato di un'indagine aperta contro ignoti con l'ipotesi di reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Al centro delle indagini il comportamento di una decina di appartenenti a Medici Senza Frontiere. Ecco come era andata e i contenuti dell'inchiesta.

L'organizzazione non governativa al centro dell'inchiesta della Procura di Trapani è Medici senza frontiere. L'ipotesi di reato è favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il fascicolo di indagine aperto dai magistrati siciliani agli inizi di febbraio è per il momento a carico di ignoti, ma una decina di appartenenti alla più importante organizzazione umanitaria al mondo sono oggetto di approfondimenti da parte degli uomini della polizia di Stato.

Non si tratta di semplici operatori o marinai delle navi, vale a dire di figure di secondo piano, ma di esponenti che occupano ruoli decisionali. Alcuni italiani, altri stranieri. L'inchiesta non è circoscritta all'operato di una singola nave incappata in una maldestra o illecita operazione di salvataggio, ma coinvolge ruolo e missione di Medici senza frontiere nel Mar Mediterraneo. Gli inquirenti si sono mossi dopo aver accertato, con un valore indiziario tale da consentire l'apertura di un fascicolo d'indagine, un primo profilo di illiceità: ovvero operazioni di salvataggio sospette, nel senso che sono state condotte senza aver ricevuto un Sos da parte di natanti in difficoltà, e neppure una richiesta di intervento da parte del Centro di coordinamento del soccorso marittimo della Guardia costiera italiana. In buona sostanza, la Procura di Trapani riterrebbe sufficientemente provati diversi comportamenti anomali delle navi di Medici senza frontiere che si sarebbero mosse come per andare a un appuntamento a ridosso delle acque libiche, e dopo aver fatto salire a bordo i migranti avrebbero poi puntato dritto verso le coste siciliane, violando in questo modo le leggi che regolano il soccorso in mare e che prevedono lo sbarco nel porto più vicino e più sicuro. La forza dell'ipotesi investigativa deriva dal fatto che gli elementi concreti che hanno fatto partire l'indagine sono stati forniti dagli stessi operatori di Medici senza frontiere. Proprio così, i membri dell'equipaggio delle navi hanno raccontato ai poliziotti le anomalie nelle operazioni di salvataggio, delle quali avevano conoscenza diretta.

Cosa è successo. Perché lo hanno fatto? Tutto inizia da una rissa a bordo di una delle navi della Ong, sedata dagli uomini della polizia di Stato. Durante i colloqui per la stesura dei verbali gli investigatori captano delle anomalie su alcuni movimenti in mare poco chiari agli stessi marinai. Si procede con interrogatori incrociati ed emergono elementi messi a verbale su improvvise partenze in direzione della Libia, senza aver ricevuto una richiesta di soccorso e neppure un ordine di intervento da parte delle autorità italiane, e su strani incontri in alto mare con i migranti. Siamo ai primi di febbraio di quest'anno. La Procura di Trapani apre un fascicolo e delega la polizia di Stato. Parte ufficialmente l'indagine che passa al setaccio tutta l'attività di Medici senza frontiere, l'organizzazione non governativa più grande al mondo, con base a Ginevra, sedi operative in Belgio, Francia, Olanda, Spagna e Svizzera, e 21 sezioni territoriali tra le quali l'Italia, che è presieduta da Loris De Filippi. Medici senza frontiere ha iniziato le sue operazioni di salvataggio nel Mediterraneo nel maggio 2015. Fino a marzo di quest'anno ha soccorso e assistito in mare più di 56 mila persone, la maggior parte delle quali sbarcate in Italia. Nel solo 2016, rispetto al totale di 181.436 arrivi sulle nostre coste, ben 23.532 sono per mano di Medici senza frontiere: una persona su sette. L'organizzazione non governativa ha operato con diverse navi, i cui movimenti sono stati passati al setaccio dalla procura di Trapani. La prima è Dignity I, attiva da giugno a dicembre 2015, poi da aprile a novembre 2016, quando è salpata da Malta in direzione della Spagna, dove si trova attualmente. Nel periodo in cui è stata impegnata nel Mediterraneo, la nave ha fatto registrare due avvicinamenti al limite delle acque territoriali libiche, il cui confine è a 12 miglia dalla Libia: il 28 agosto 2016 si è inoltrata fino a 13,4 miglia marine, mentre il 16 novembre è arrivata fino a 12,6 miglia. Ma il 6 luglio 2016 la nave si è spinta oltre il limite fino a 11 miglia. La nave Bourgon Argos è stata operativa da maggio a dicembre 2015, poi da aprile a novembre 2016. Dai dati di bilancio emerge che Medici senza frontiere per la missione di questa imbarcazione ha speso 5.238.422 euro nel 2016, il 29 per cento dei quali coperto con le donazioni in dichiarazione dei redditi. Il 17 agosto 2016 è stata oggetto di un attentato mentre si trovava in acque internazionali a nord della costa libica: un motoscafo non identificato si è avvicinato con uomini a bordo che hanno iniziato a sparare in direzione della nave. Il mese prima, il 10 luglio, l'imbarcazione si era spinta fino a 12 miglia dalla costa. Dopo l'incidente è rimasta ferma per un periodo in Sicilia, attualmente è attraccata in Egitto. La nave Vos Prudence è entrata in azione il 21 marzo 2017, dopo aver lasciato il porto maltese di La Valletta. L'imbarcazione si è spinta molto a ridosso delle coste libiche, a 17 miglia circa, nelle giornate del 26 marzo, 1-2 aprile, 14 aprile, 19 aprile, 1-3 maggio. Il 7 maggio ha passato il confine ed è arrivata fino a 8 miglia dalla Libia. Infine c'è Acquarius, barca gestita in collaborazione con Sos Mediterranéé (Ong fondata dal capitano della marina mercantile tedesca Klaus Foegel), che ha speso la media di 11 mila euro al giorno a partire dall'aprile dell'anno scorso. Acquarius è l'unica che opera anche durante la stagione invernale, e nel 2016 ha fatto registrare un costo complessivo di 4 milioni di euro. In alcune occasioni si è spinta fino a circa 12 miglia marine dalla costa libica: il 5 maggio di quest'anno, il 5 luglio e il 21 agosto 2016. L'inchiesta condotta dalla Procura di Trapani avrebbe accertato non soltanto l'anomalia di viaggi a ridosso delle coste libiche, in alcuni casi senza alcuna chiamata, ma starebbe valutando anche la consistenza investigativa di contatti tra personale della nave e soggetti situati sulla terraferma in Libia, la cui identità è in corso di approfondimento perché si ipotizza possano essere addirittura dei volontari della stessa organizzazione operanti nel Paese africano. Poi si cerca di tracciare movimenti e origine dei finanziamenti. Nel 2016 Medici senza frontiere ha raccolto 38 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti oltre 9,7 dalle donazioni attraverso le dichiarazioni dei redditi, e 3,3 da agenzie e fondazioni come quella di George Soros, il filantropo con la passione per la geopolitica che combina guai.

Ong: il caso Zuccaro-Moas spiegato bene. Le accuse della procura di Catania, la difesa della Ong, le posizioni della Capitaneria di Porto e del Csm che sulla questione vuole fare chiarezza, scrive il 4 maggio 2017 Ilaria Molinari su L'organizzazione non governativa Moas è sotto i riflettori da quando il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, ha indicato che ci possono essere "contatti diretti fra i trafficanti di uomini e le Ong" generando un business importantissimo "al pari dei quello della droga". Nessuna carta, nessuna prova per ora da parte del magistrato, ma parole che il procuratore siciliano ha scagliato prevalentemente contro MOAS, ong con sede a Malta, che ha però respinto le accuse al mittente con un'audizione alla Commissione Difesa del Senato e al comitato Schengen. Ma andiamo con ordine. Cosa ha detto Zuccaro - Il 3 maggio il pm di Catania aveva insistito sul fatto che non tutte le Ong sono filantrope. E la politica deve dare ai magistrati in prima linea gli strumenti per uscire dall'impasse che ha bloccato l'azione investigativa: dagli ufficiali di polizia giudiziaria imbarcati a bordo delle navi, alla possibilità di intercettare le richieste di aiuto che partono da cellulari satellitari, alla chiarezza sui finanziamenti.

A dire la verità nel mirino del procuratore non ci sono realtà consolidate come Medici senza frontiere e Save the children, ma altre "di recente fondazione", che sembrano godere di ingenti risorse economiche. Tra cui la maltese Moas che avrebbe anche ricevuto soldi dal magnate George Soros. Cos'è Moas -  La Migrant Offshore Aid Station (Moas) è una ong con sede a Malta che opera nel soccorso di vite umane nel Mar Mediterraneo, nel Mar Egeo e nel Golfo del Bengala. Di fronte alla commissione Difesa del Senato e al comitato Schengen ha respinto tutte le accuse, sia quelle di legami con i trafficanti sia quelle relative al finanziere: "I nostri interventi non sono mai autonomi e indipendenti ma noi ci muoviamo solo dopo la chiamata del centro operativo di Roma". È successo "che le operazioni siano venute a meno di 12 miglia dalla costa libica. Si sono verificate queste circostanze, sempre su indicazione del Mrcc di Roma". E sui finanziamenti ha chiarito: "Mai ricevuto finanziamenti da Soros. Le nostre fonti di finanziamento sono i privati, le aziende, le sovvenzioni istituzionali, e le campagne di crowdfunding". La posizione del Csm - Il Consiglio Superiore della Magistratura si è comunque schierato a favore di Zuccaro assicurando di fornire tutti i sostegni necessari a portare avante le indagini della Procura di Catania, così come quelle di altri uffici. Contemporaneamente la commissione difesa del Senato ha deciso un supplemento di istruttoria e il presidente Nicola La Torre ha annunciato la convocazione del procuratore di Trapani, titolare di un'altra inchiesta, anticipata da Panorama, che vede indagati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina i rappresentanti di una nave di una Ong. La posizione della guardia costiera - Il comandante generale della Guardia Costiera Vincenzo Melone ha confermato in audizione che "le ong operano sotto la supervisione della guardia costiera". "Su tutto ciò che avviene - ha precisato - al di fuori dal soccorso, il prima o il dopo, non vi è né vi potrebbe essere alcun controllo, né sulle rotte seguite, salvo che per le ong battenti bandiera nazionale su cui l'autorità italiana è competente". L'uso delle ong è necessario alla guardia costiera, ha spiegato Melone, che non dispone di mezzi sufficienti per salvare tutte le vite umane che si presentano ogni giorno nel Mediterraneo. 

Chi è George Soros e che ha che fare con le Ong, spiegato bene. Ecco perché il finanziere-filantropo americano è diventato il bersaglio di chi condanna l'operato delle organizzazioni non governative nel Mediterraneo, scrive l'8 maggio 2017 Claudia Astarita su Panorama. I toni della polemica contro George Soros, il miliardario americano di origini ungheresi accusato di aver finanziato la tratta dei migranti dal Nord Africa all'Italia sostenendo Ong colluse attive nel Mediterraneo tra cui Moas, non si placano. Gli obiettivi di questa manovra secondo i dietrologi? Aiutare i profughi a stabilirsi nell'Europa dell'Est per sfruttare il malcontento generato da questo esodo di massa e far cadere gli attuali governi per rimpiazzarli con un'élite più illuminata. Oppure - è la seconda ipotesi - sostituire l'intera popolazione italiana con immigrati da utilizzare come operai a basso costo. Se così fosse, è utile ricordarlo, non è dato sapere quale destino il "perfido" Soros abbia in serbo per gli italiani. 

Il punto di vista dei "complottisti". Nell'ipotizzare che persino le rotte dei migranti siano gestite da un gruppo di milionari la cui unica priorità sia consolidare un sistema politico ed economico che permetta loro di mantenere la propria posizione privilegiata, i complottisti sono riusciti per l'ennesima volta a dare prova di avere una più che fervida immaginazione. Ma il problema non è tanto capire quali piani abbia Soros per il nostro paese, visto che l'unica risposta possibile è nessuno, ma perché è stato montato un caso di fronte a quella che di fatto non è una notizia.

Chi è George Soros. Soros è un ebreo di origini ungheresi naturalizzato americano. Sopravvissuto all'Olocausto, Soros riuscì a trovare riparo, con il resto della famiglia, in Inghilterra, nel 1947. Allora diciassettenne, completò gli studi alla London School of Economics per poi buttarsi nel mondo delle banche d'affari.

Soros il finanziere. Che Soros possa essere etichettato come un uomo senza scrupoli è senz'altro vero, e la crisi finanziaria del 2008 ha dimostrato che quello della finanza è un mondo di squali. L'uomo d'affari statunitense è spesso ricordato per aver lanciato, nel 1992, un attacco speculativo alla Banca d'Inghilterra e a quella d'Italia, costringendo i due Istituti a svalutare la moneta nazionale, operazioni che avrebbero generato un ricavo superiore al miliardo di dollari. Il Soros Fund Management, fondo di investimento creato da Soros nel 1969, è da tempo una delle aziende più profittevoli nel mondo della finanza internazionale. Del resto, se così non fosse Soros non sarebbe di certo riuscito ad accumulare un capitale personale di circa 25 miliardi di dollari. 

Soros l'uomo politico. Forse, però, ciò che più disturba di George Soros è il suo interesse personale per la politica. Complice il background ungherese, Soros è sempre stato convinto della necessità di intervenire nei paesi dell'ex blocco sovietico per favorire quel cambiamento di idee e prospettive che, a loro volta, nel medio-lungo periodo, avrebbero potuto portare a un cambiamento di regime. A partire dalla fine degli anni '70, quando la sua posizione era diventata sufficientemente solida da permettergli di investire in operazioni non strettamente economiche, Soros ha speso centinaia di milioni di dollari per sostenere i movimenti democratici, in Ungheria e nel resto del blocco sovietico. Nel 1979, Soros creò la Open Society Foundation per gestire in maniera più trasparente e sistematica le sue operazioni filantropiche, ampliandone contemporaneamente il raggio d'azione. Come tante Fondazioni di questo tipo, anche la Open Society supporta gruppi e attività di varia natura, da quelli che si battono per i diritti delle minoranze, delle donne e degli omosessuali a quelle che lottano per la libertà di stampa. Da quelle che combattono i regimi corrotti a quelle che sostengono microcredito, imprenditoria su piccola scala, campagne vaccinali, scuole e via dicendo.

Perché i regimi autoritari non vogliono Soros. Le campagne di Soros per trasparenza, libertà di stampa, democrazia e diritti politici e civili, anche se portate avanti con il sostegno di Ong locali, non sono sempre benvenute nei paesi in cui il filantropo indirettamente si muove. Tant'è che molte Organizzazioni che hanno ricevuto finanziamenti per i loro progetti dalla Open Society Foundation sono state bandite da Russia, Bielorussia, Turkmenistan e Kazakistan. E probabilmente presto a questa lista si aggiungerà anche l'Ungheria, nazione a cui, per ovvie ragioni, il filantropo americano tiene in maniera particolare. Il motivo di tanto astio è molto semplice: se i progetti umanitari sono spesso benvenuti, quelli che sembrano sostenere un programma politico ostile al regime di turno non possono essere portati avanti. A nessuna condizione. 

I piani di Soros nel Mediterraneo. Tornando al problema delle Ong, il campanello d'allarme l'ha suonato Frontex, parlando di "involontario aiuto" dato dalle Ong operative nel Mediterraneo ai trafficanti di esseri umani, ma da qui ad accusare Soros di avere giocato un ruolo chiave nelle presunte connessioni tra scafisti e operatori umanitari la strada è lunga."Frontex ha effettivamente suggerito di aumentare la vigilanza nei confronti di alcuni fenomeni che stanno emergendo nel Mediterraneo e che sono potenzialmente pericolosi", ha spiegato a Panorama.it Federico Marcon, Business Development Manager della Croce Rossa Australiana, "ma non non ha parlato né di connessioni consolidate né di ingerenze dirette". Sono ormai 18 anni che Marcon lavora nel campo degli aiuti allo sviluppo, e la sua carriera itinerante lo ha portato in America Latina, Asia, Nord Africa e Medio Oriente prima di approdare in Australia. Forse è per questo che i suoi commenti hanno un tono molto più disilluso di quelli dei volontari alle prime armi. "Corruzione, collusione, operazioni sospette, sono problemi che esistono anche nel Terzo Settore, sarebbe sciocco negarlo. Ed è evidente che quando ci si ritrova a gestire fenomeni come quello dell'attuale esodo di massa vero l'Europa è impossibile garantire un livello di trasparenza assoluta nelle procedure di soccorso e trasferimento dei profughi. Questo però non significa che debbano essere le organizzazioni a pagarne le conseguenze. Le Ong non fanno accordi con trafficanti né hanno un approccio utilitaristico per quel che riguarda la gestione dei migranti come suggerito da diversi commenti, ma allo stesso tempo non si può escludere a priori che chi opera in questo ambiente possa assumere comportamenti impropri, come peraltro accade in ogni settore, dalla politica alla sanità. Qui alla Croce Rossa abbiano livelli di controlli interni elevatissimi, ma potrei dire la stessa cosa per tutte le Ong in cui ho lavorato", aggiunge Marcon, sottolineando di avere seri dubbi sulla possibilità che possano essere stati negoziati accordi istituzionali tra organizzazioni e trafficanti. 

Il problema è Soros? Federico Marcon racconta poi di avere un'esperienza diretta anche con le pratiche della Open Society Foundation, e spiega come per quanto l'orientamento politico della Fondazione sia evidente in ogni fase della discussione e della eventuale successiva implementazione del progetto, sia estremamente improbabile che si sia arrivati ad influenzare, anche solo indirettamente, le rotte migratorie nel Mediterraneo. Il fenomeno è estremamente complesso, e anche se i numeri non sembrano segnalare miglioramenti né sul fronte dell'entità dell'esodo né sull'efficacia umanitaria dei soccorsi, espressa in termini di vite salvate, è sciocco, se non addirittura pericoloso, puntare il dito contro George Soros accusandolo di essere il mandante di questa catastrofe. Questo attacco sfrontato e non circostanziato è grave non solo perché crea astio e polemiche inutili in un tessuto sociale già sufficientemente logorato dal problema dell'immigrazione clandestina, ma anche perché invece di risolvere i problemi ne crea di nuovi. Se il nodo della questione è l'Ong maltese Moas, e questo è ancora tutto da dimostrare, allora concentriamoci su di lei,  parliamo del ruolo di Malta nella crisi del Mediterraneo, o ancora proviamo a valutare se l'intervento della Marina Militare Italiana fosse in realtà più efficace di quello delle operazioni umanitarie gestite dalle Ong, ma non tiriamo in ballo un filantropo per sostenere che non ben definiti "poteri occulti" stanno manipolando quella che altro non è che una tragedia umanitaria che non abbiamo ancora capito come gestire. 

Schiaffo a buonisti e Ong. La solidarietà, se pelosa e interessata, può sconfinare nell'illegalità. E come tale è giusto fermarla con ogni mezzo, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 3/08/2017, su "Il Giornale".  Sarà una coincidenza ma da quando le autorità italiane, politiche e giudiziarie, hanno finalmente cominciato a curiosare davvero dentro i meccanismi dell'immigrazione clandestina, gli sbarchi sono drasticamente diminuiti. È presto per dirlo ma è possibile che per i trafficanti e i loro complici la festa stia per finire. Ieri la Camera ha dato il via libera alla missione di navi militari al largo delle coste libiche per contrastare, anche con la forza se attaccate, le partenze dei barconi. E soprattutto, sempre ieri, la procura di Trapani ha ordinato il sequestro della prima nave di una organizzazione umanitaria, la tedesca Jugend Rettet, sospettata di complicità con i trafficanti. In più di una occasione questa Ong avrebbe imbarcato, dandosi appuntamento in mare con gli scafisti, clandestini non in pericolo imminente di vita per poi consegnarli alle autorità italiane. Un servizio taxi, più che di soccorso, non si capisce ancora se retribuito o no. Adesso si capisce meglio perché la Jugend Rettet, insieme a tante altre Ong che operano su quel fronte compresa Medici senza frontiere, si è rifiutata di firmare l'accordo con il governo italiano che prevede il controllo pubblico (polizia a bordo e obbligo di tracciabilità dei movimenti) delle operazioni di soccorso fatte da privati. Strano, no? Di clandestino c'è già l'oggetto, se pretende di esserlo anche il soggetto significa che c'è qualche cosa di indicibile e quindi probabilmente di illegale. Dal primo soccorso in mare alla prima accoglienza in terra e via via fino alla gestione di questa marea di disperati in attesa di conoscere il loro destino, tutta la macchina della solidarietà si muove e come dimostrano inchieste e come è evidente nei fatti si è mossa in una inquietante zona grigia, in alcuni casi già accertati - criminale. Soldi, tanti soldi che passano di mano in mano senza produrre efficienza ma al contrario degrado sociale, ingiustizie e arricchimenti illegittimi. Non è da oggi che denunciamo e scriviamo queste cose. La novità è che chi ci dava addosso e ci sbeffeggiava oggi deve ammettere che le cose stanno davvero così. E che la solidarietà, se pelosa e interessata, o anche solo demagogica, può sconfinare nell'illegalità. E come tale è giusto fermarla con ogni mezzo.

Il libro nero delle Ong ribelli ​all'assalto della fortezza Europa. Chi sono i nuovi pirati dell'accoglienza, tra "radicalismo umanitario" e sponsor eccellenti: Ue, Usa e grandi aziende, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 3/08/2017, su "Il Giornale".  Soldi Usa, della Ue e dell'Onu ad Msf, che si rifiuta di firmare il codice di condotta del ministero dell'Interno sul soccorso ai migranti. Minacce di «radicalismo umanitario» e assalto alla «fortezza Europa» per far entrare tutti, profughi e clandestini. Strani sponsor e finanziatori per le sette Ong che fanno spallucce al governo italiano mostrando il loro vero volto di talebani dell'immigrazione senza barriere sulle spalle degli italiani.

MEDICI SENZA FRONTIERE. Le entrate di Msf, nel 2016 di 56,8 milioni di euro, si basano soprattutto su 319.496 donatori privati. Impossibile controllarli tutti. L'Ong ha investito nel recupero dei migranti nel Mediterraneo un milione e mezzo di euro. Il 6% delle donazioni arrivano da aziende e fondazioni, anche in Italia, ma Msf è finanziata pure da lotterie, governo americano, istituzioni europee e Nazioni Unite. Soldi che cozzano con il niet all'Italia sul codice di condotta, ma che al momento continuano a venire garantiti.

JUGEND RETTET. Ieri la procura di Trapani ha sequestrato la nave dell'Ong tedesca per «favoreggiamento dell'immigrazione clandestina». Fin dall'inizio dell'intervento nel Mediterraneo la Jugend Rettet si scagliava contro «la Fortezza Europa» che tiene lontani i migranti «con nuovi muri e ne limita la mobilità». Il 9 maggio, davanti alla Commissione Difesa del Senato, la vicepresidente dell'organizzazione umanitaria, Lena Waldhoff, dichiarava impunemente: «La collaborazione con la Guardia costiera (italiana, ndr) non comporta, però, anche l'identificazione degli scafisti».

SEA EYE. Un'altra Ong tedesca, che sbarca i migranti da noi, ma attacca duramente l'Italia. L'organizzazione umanitaria annuncia sul suo sito che «ha bisogno di 500mila euro per portare avanti le operazioni». E in una lettera indirizzata ai donatori si scaglia contro Roma per il piano di addestramento e rafforzamento della Guardia costiera libica: «Cooperare e appoggiare una tale organizzazione di criminali e mercenari è semplicemente inaccettabile». Per l'Ong conta solo far arrivare tutti in Italia grazie «agli obblighi derivanti dalla convezione di Amburgo, che non fanno distinzioni tra rifugiati e migranti economici».

SEA WATCH. La terza Ong tedesca, che non ha neppure partecipato alle riunioni al Viminale per il codice di condotta, ha sempre ribadito che «non accetteremo la presenza a bordo di un ufficiale di polizia giudiziaria». E aggiunto: «In quanto organizzazione non governativa siamo neutrali mentre la polizia è di parte». L'aspetto più grave è che Lion Kircheis, dall'ufficio dell'Ong a Berlino, spiegava che nelle polemiche sui migranti «puoi solo contrastare il radicalismo dell'estrema destra con il radicalismo umanitario». Sul sito di Sea Watch il no al codice di condotta viene giustificato da Violeta Moreno-Lax, lettrice di un'università londinese che bolla il regolamento del governo italiano come «ridondante o semplicemente illegale».

PROACTIVE OPEN ARMS. L'Ong spagnola ha preso tempo promettendo di firmare il codice di condotta, anche se non è chiaro quando. L'organizzazione umanitaria ha speso 1,4 milioni per le sue navi, ma la raccolta fondi supera i 2,1 milioni. Oscar Camps, direttore di Proactive Open Arms ha rivelato che fra i donatori spiccano squadre di calcio come il Manchester City e l'attore Richard Gere assieme «ad altri importanti personaggi» non meglio specificati. In passato l'Ong ha utilizzato anche il vascello di lusso Astral del milionario italiano Livio Lo Monaco.

LIFE BOAT. Fra i partner conta sull'organizzazione «sorella» Sos Mediterranee e la Fc St. Pauli, una società sportiva di Amburgo diventata famosa non per meriti calcistici, ma per l'attivismo a favore dei talebani dell'immigrazione. Fra gli altri sponsor si segnalano università, il soccorso in mare tedesco, ma pure portali specializzati come Yacht on line.

SOS MEDITERRANEE. Nel 2016 ha dichiarato costi per 4 milioni sostenendo che spende 11mila euro al giorno per far navigare Aquarius di fronte alla Libia. Fra i promotori dell'organizzazione umanitaria tedesca anche una Onlus italiana specializzata sull'immigrazione che ha ricevuto 46mila euro da Open society, l'associazione filantropica di George Soros. Sos Mediterranee scrivendo al Viminale per respingere il codice di condotta ribadisce che i poliziotti italiani «non devono stazionare stabilmente a bordo della sua nave e portare armi in contrasto con i principi umanitari di neutralità e indipendenza».

Schiaffo delle ong al governo italiano: non vogliono accettare le regole, scrive Antonio Pannullo lunedì 31 luglio 2017 su "Il Secolo D’Italia". Soltanto Save the Children, tra le organizzazioni non governative presenti nel pomeriggio al Viminale, ha firmato il Codice di condotta per le ong stilato dal ministero dell’Interno. Sia Msfche la tedesca Jugend Reptet, le uniche altre ong presenti all’appuntamento al Viminale, si sono infatti rifiutate di siglare l’intesa. Ad esempio, Medici senza frontiere non ha firmato il codice delle ong. Lo ha detto il direttore generale di Msf, Gabriele Eminente. Altre organizzazioni non erano invece presenti. Anche la spagnola Proactiva Open Arms ha già annunciato che non firmerà. Le varie riunioni dei giorni scorsi tra governo italiano e ong al ministero dell’Interno non sono bastate a far capire alle ong che è ora di finirla col trasportare esseri umani in Italia. Addirittura alcune ong rifiutano pervicacemente l’impegno ad accogliere a bordo la polizia giudiziaria e ad evitare il trasbordo di migranti su altre navi. E dire che i tecnici del Viminale avevano anche accolto alcune richieste di queste pretese salvatrici di naufraghi, inserendo la frase, nell’impegno a non trasferire i clandestini soccorsi su altre navi, “eccetto in caso di richiesta del competente Centro di coordinamento per il soccorso marittimo e sotto il suo coordinamento, basato anche sull’informazione fornita dal capitano della nave”. Ovviamente le ong non accettano neanche di avere polizia a bordo, tanto che il punto è stato così riscritto dal Viminale: la presenza della polizia avverrà “possibilmente e per il periodo strettamente necessario”. La tedesca Sea Watch provocatoriamente annuncia che metterà presto in mare una seconda nave e urla che il documento del Viminale è “illegale”. Vedremo adesso come reagirà il ministro dell’Interno Marco Minniti, intenzionato a far entrare subito in vigore il Codice: per lui “chi non firmerà dovrà accettare le conseguenze”. E la conseguenza può essere una sola: cacciare le navi delle ong dai porti italiani. Anche perché la missione navale che l’Italia dovrebbe varare, anche se non è ancora chiaro, dovrebbe riportare le i clandestini sulle coste del Paese nordafricano. 

Le ong si ribellano alle regole del governo sui migranti. Il codice di condotta firmato solo da Save the Children e Moas, no di Msf e Jugend Rettet che non accettano poliziotti armati a bordo, scrive la Redazione de “Il Foglio il 31 Luglio 2017.  Delle nove ong che operano nel Mediterraneo e che sono impegnate nel salvataggio di migranti, solo quattro si sono presentate all'appuntamento al Viminale previsto per lunedì pomeriggio. Di queste, soltanto due, Save the Children e Moas, hanno firmato il codice di condotta per le attività in mare delle organizzazioni non governative e voluto dal ministro dell'Interno Marco Minniti. "Save the Children ha deciso di firmare il codice per le ong impegnate nel salvataggio dei migranti in mare perché gran parte delle cose che prevede noi già le facciamo", ha detto il direttore generale di Save the Children, Valerio Neri, al termine dell'incontro al ministero. "L'unico punto che per noi rappresentava una criticità – ha spiegato Neri – era quello che introduce il divieto di trasbordare i migranti da una nave a un'altra ma questo si è risolto con il ruolo che svolgerà la Guardia costiera. Mi spiace che altre ong non abbiano deciso di sottoscrivere questo codice", ha aggiunto Neri. Le altre due organizzazioni presenti al Viminale, Jugend Rettet e Medici senza frontiere, hanno rifiutato di firmare. "Abbiamo deciso di non firmare questo codice. Potevamo firmare soltanto nel caso in cui le nuove norme rendessero più efficiente il nostro lavoro e aumentassero la sicurezza dei nostri volontari", ha detto il rappresentante di Jugend Rettet, Titus Molkenbur. "In nessun paese in cui lavoriamo accettiamo armi nelle strutture", ha detto il direttore generale di Medici senza frontiere, Gabriele Eminente. E' il governo che fa le regole, non le ong. Perché contestare il divieto di oltrepassare le acque libiche è folle. Il nodo decisivo, quello che ha spinto le organizzazioni a non sottoscrivere l'intesa, è una delle 13 norme previste dal codice, quella che impone la presenza di agenti della polizia armati a bordo delle navi delle ong per condurre indagini sul traffico di esseri umani. Il governo, su questo punto, non ha voluto discutere mentre le ong rivendicano di non potere tollerare la presenza di uomini armati durante lo svolgimento delle attività di salvataggio. Nei giorni scorsi la discussione tra le parti aveva portato alla risoluzione di altri punti controversi, come quello sul divieto di trasbordo dei migranti da una nave all'altra. Il Viminale aveva aggiunto la postilla, "eccetto in caso di richiesta del competente Centro di coordinamento per il soccorso marittimo e sotto il suo coordinamento, basato anche sull'informazione fornita dal capitano della nave". Ma non bastato per convincere le ong a firmare. Intanto, è previsto per domani il voto in Parlamento sul piano del governo italiano per limitare le partenze dei barconi dalle coste libiche. Ma se da una parte le ong hanno rifiutato il codice di condotta, dall'altra contestano anche le nuove misure che prevedono l'impiego di sei navi militari italiane all'interno delle acque territoriali libiche per intercettare barconi e rispedirli indietro. "Invece d'inviare navi per salvare vite umane e offrire protezione a migranti e rifugiati disperati, l'Italia si sta preparando a mandare navi da guerra per respingerli in Libia", ha dichiarato John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l'Europa. Secondo Amnesty, la Libia rimane un paese estremamente insicuro per i migranti e i rifugiati. Ma i dati del Viminale diffusi la settimana scorsa dicono che se gli sbarchi dei migranti nell'ultimo mese sono diminuiti (10.423, contro i 23.552 del luglio 2016) si deve all'attività più incisiva della Guardia costiera libica che impedisce la partenza verso le coste italiane.

Cade la maschera delle Ong: rifiutano le regole del governo. Su 9 organizzazioni 5 disertano il confronto: ora sono illegali. Medici senza frontiere che non firma il codice, scrive Chiara Giannini, Martedì 1/08/2017, su "Il Giornale". Roma L'Ong italiana Medici senza frontiere, colosso della cooperazione internazionale, rischia la via dell'illegalità. Ieri pomeriggio non ha, infatti, firmato il codice di condotta voluto dal ministro dell'Interno, Marco Minniti. A non siglare l'accordo anche la tedesca Jugend Rettet, presente alla riunione. A dare il loro assenso, invece, Save the children e la maltese Moas, la prima a dare la sua disponibilità, mentre Proactiva open arms ha comunicato la volontà di aderire. Le altre cinque organizzazioni internazionali invitate al tavolo, invece, hanno snobbato l'Italia, non presentandosi all'incontro con il capo di gabinetto Mario Morcone. «Avevamo chiesto che nell'inquadramento generale del codice - spiega al Giornale il dg di Msf Gabriele Eminente - fosse esplicitato di potenziare il sistema di soccorso in mare e fossero riconosciuti i principi umanitari. Abbiamo auspicato anche che ci fosse un riconoscimento del ruolo delle Ong spesso disconosciuto o frainteso. Dal punto di vista concreto abbiamo riscontrato che, comunque, nella previsione finale esiste ancora la possibilità che ufficiali di polizia giudiziaria armati possano salire a bordo. Non abbiamo problemi con loro, ma con le armi, in qualunque Paese operiamo». Prosegue, quindi, chiarendo: «Abbiamo visto anche che è stato inserito il divieto di trasbordi da nave a nave. Abbiamo chiesto di eliminarlo, ma nonostante siano stati apportati miglioramenti, ciò non è stato fatto. Una limitazione dei trasbordi può incidere sulla capacità complessiva di un sistema già insufficiente. Spesso - continua - gli assetti per i salvataggi sono carenti rispetto alle persone da salvare e depotenziare questo sistema non va bene». Tra gli impedimenti, per Eminente, anche «un contesto dato dal fatto che questa discussione sul codice si sta sviluppando in un momento in cui si pensa di schierare navi militari di fronte alle coste libiche. Questo - tiene a dire - rischia di confondere le idee. Al netto di questi punti abbiamo comunque comunicato al ministero che Msf è pronta a rispettare tutte le altre previsioni del codice che sono già prassi e contenute in altre norme. Siamo disposti, come sempre, a fornire anche tutte le informazioni sui finanziamenti alla nostra organizzazione e i dati sulle imbarcazioni». Quanto alle possibili sanzioni, Eminente fa presente che dall'ultima bozza del codice è stato eliminato «il divieto di ingresso nei porti italiani. Non so di preciso le conseguenze che subiremo - conclude -, ma va sottolineato che un quadro di riferimento di regole c'è ed è forte: le norme internazionali, di livello normativo superiore rispetto alle regole di condotta del codice, norme che abbiamo sempre rispettato». Il Viminale, con una nota, ha chiarito che «l'aver rifiutato l'accettazione e la firma pone quelle Ong fuori dal sistema organizzato per il salvataggio in mare, con tutte le conseguenze del caso concreto che potranno determinarsi a partire dalla sicurezza delle imbarcazioni stesse». L'avvocato Emanuele Boccongelli, esperto di diritto internazionale, spiega come la mancata firma sicuramente «aprirà degli strascichi giudiziari sia a livello locale che internazionale. Ci troviamo di fronte a un fenomeno così imponente che richiede anche interventi tecnico normativi che, inevitabilmente - chiarisce - prestano il fianco a eventuali defezioni».

I confini della solidarietà e le frontiere da blindare. Anche nell'emergenza ognuno fa il suo lavoro. I medici non hanno frontiere, gli Stati sì. E bene fanno a controllarle, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 1/08/2017, su "Il Giornale". L'incontro tra il governo e le Ong che operano nel salvataggio in mare dei clandestini si è concluso con un sostanziale fallimento. La maggior parte delle organizzazioni non governative o non si è presentata o non ha accettato - prima fra tutte «Medici senza frontiere» - le nuove condizioni per poter continuare gli interventi. E cioè: polizia armata a bordo per identificare i profughi, obbligo di rendere tracciabili rotte e posizioni, divieto di contattare gli scafisti e trasparenza nei finanziamenti che ricevono. Un passo indietro: da quando le Ong hanno preso il comando dei soccorsi, il traffico di essere umani è aumentato a dismisura perché di fatto è come se fosse stato istituito un servizio taxi. Al punto che alcune procure sospettano (e indagano) che tra soccorritori e scafisti ci siano taciti accordi, veri e propri appuntamenti in mare aperto con destinazione successiva sempre e solo, come noto, un porto italiano. Ognuno fa il suo lavoro, non commento i codici etici di «Medici senza frontiere», organizzazione privata impegnata in molti fronti caldi del mondo. Ma proprio perché «ognuno fa il suo lavoro» anche uno Stato e un governo - che hanno più titoli della migliore associazione di volontariato - devono fare il loro. Porre regole, che peraltro appaiono di assoluto buonsenso, non vuol dire impedire la solidarietà ma tutelare, oltre che i finanziatori delle Ong, l'intera collettività. Noi siamo grati al lavoro di questi signori, ma non è che loro possono decidere sulla nostra sicurezza nazionale. Semmai è sospetto chi rifiuta di farsi controllare, di rendere trasparente il proprio operato. Ci sono di mezzo vite umane ma anche grandi farabutti (gli scafisti) e una montagna di soldi: quelli che incassano le mafie e quelli che spendiamo noi per fare fronte all'emergenza. Non è il momento, per le Ong, di fare i primi della classe o gli schizzinosi. I medici non hanno frontiere, gli Stati sì e bene fanno a controllarle.

No agli agenti di un Paese civile? Usino i porti di Francia o Spagna, scrive Fausto Biloslavo, Mercoledì 2/08/2017, su "Il Giornale".  No agli agenti italiani come se fossero degli sgherri da polizia segreta del dittatore di turno. Nessuna regola altrimenti non si salvano in tempo le vite in mare. E tanta arroganza come se i padroni del mondo fossero le organizzazioni umanitarie, che possono permettersi di dire no a un Paese civile come l'Italia. Però Medici senza frontiere e tutte le altre Ong non suonano la stessa musica in zone di guerra, dove non si va tanto per il sottile sui sofismi umanitari. Msf e altre Ong meno blasonate si sono rifiutate di firmare il codice di condotta giustamente proposto dal governo italiano per cercare di mettere un argine al servizio taxi fornito a profughi e clandestini in partenza dalla Libia. Lo possono fare perché il nostro è un Paese democratico fin troppo attento e buonista alle istanze della solidarietà. I poliziotti italiani, che non devono salire a bordo delle navi umanitarie armati, vengono di fatto paragonati agli sgherri di Assad grazie al continuo riferimento allo stesso principio adottato nelle zone di crisi. In realtà, però, in Paesi come l'Afghanistan le stesse Ong garantiscono che nessuno entri armato nei loro ospedali grazie a guardie private, che tengono il kalashnikov nascosto e ti controllano come se fossero poliziotti prima di alzare la sbarra o aprire il cancello. Msf sa bene che in aree di guerra non basta sventolare la bandierina umanitaria e proclamare i sani principi dell'intervento a ogni costo per poter operare. In Siria, nelle zone più ostiche controllate dai ribelli, il personale di Msf è da tempo solo locale per timore di rapimenti o peggio. I tagliagole legati ad al Qaida o alle bandiere nere dell'Isis se ne infischiano delle regole umanitarie e fanno quello che vogliono. Spesso i volontari locali sono collusi con l'ambiente circostante altrimenti sarebbe impossibile operare e salvare vite. Non è pure questo un compromesso, giustamente accettabile entro certi limiti? Eppure con il governo italiano i talebani dell'aiuto ai migranti non sono disposti a rispettare un minimo di regole di buon senso. Anzi, con l'Italia è facile mostrare i muscoli e fare quel che si vuole continuando a sbarcare i migranti da noi. Msf protesta con tutti in mezzo mondo, ma spesso viene cacciata a discapito delle vittime che ha sempre aiutato in tutte le emergenze. Non si tratta di prendere a cannonate le navi delle Ong perché siamo un Paese civile, ma far rispettare le decisioni del governo e la stessa serietà dello Stato. Per questo bisogna chiudere i porti alle organizzazioni umanitarie che hanno detto «niet» al codice di comportamento. I vascelli buonisti possono tranquillamente puntare la prua sulla Francia o la Spagna per toccare con mano la «solidarietà» del resto d'Europa. Oppure provare ad attraccare a Malta o al Pireo, che non hanno alcuna intenzione di piegarsi alle arroganze umanitarie. O ancora meglio sbarcare i migranti in Croazia, new entry europea, in piena stagione turistica. Per non parlare dei porti veramente più vicini alla Libia come quelli tunisini, algerini o egiziani dove il rischio di qualche cannonata non è escluso.

Ong e rischio Boko Haram: ecco perché l'immigrazione è già insostenibile. Ecco perché gli altri Paesi non fanno attraccare le Ong e perché l'Italia mette in serio pericolo la sicurezza nazionale sia in relazione al terrorismo che alla criminalità, scrive Giovanni Giacalone, Martedì 4/07/2017 su "Il Giornale". Cosa farebbero i francesi o gli spagnoli se navi delle ONG piene di immigrati provassero ad attraccare nei loro porti? Plausibilmente le respingerebbero. Dunque per quale motivo l’Italia non può fare altrettanto? Una nave che tenta di entrare in acque territoriali estere senza autorizzazione va incontro a tutta una serie di misure che, almeno in teoria, le autorità del paese interessato dovrebbero prendere. Purtroppo però in Italia si resta nella teoria. Del resto in Italia si è arrivati al ridicolo, con le navi della Guardia Civil spagnola che caricano gli immigrati e li scaricano nei porti italiani invece di riaccompagnarli in Libia, dove erano stati soccorsi. In poche parole sono le ONG straniere e persino gli altri paesi europei oramai a decidere se andare a raccogliere qualche migliaio di immigrati e portarli in Italia. Dov’è finita dunque la sovranità nazionale Italiana? Molto discutibile poi la dichiarazione del il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni al vertice della Fao? E cioè che “l'Italia intera è mobilitata nell'accoglienza dei migranti e chiede condivisione in questa opera, necessaria se l'Europa vuole mantenere fede ai propri principi, storia e civiltà e necessaria all'Italia per evitare che la situazione divenga insostenibile e alimenti reazioni ostili nel nostro tessuto sociale che finora ha reagito in modo esemplare dimostrando capacità di accoglienza e coesione". Le parole di Gentiloni appaiono decisamente lontane dalla realtà, in primis perché sono tantissimi oramai gli italiani esasperati dall’eccessiva presenza di immigrati dei quali solo una piccola percentuale sono “profughi di guerra”. In secondo luogo perché la situazione è già da tempo diventata insostenibile e a Gentiloni basterebbe fare due passi in Stazione Centrale a Milano, al confine di Ventimiglia o nei pressi della Stazione Centrale di Bologna per rendersene conto. Il sindaco di Marsiglia, Dominique Tiana, ha espresso in poche parole un concetto che sembra invece così difficile da capire alla sinistra italiana: “Se ogni settimana facessimo entrare navi con centinaia se non migliaia di migranti saremmo nell'incapacità totale di alloggiare queste persone”. Esattamente quello che succede in Italia da anni ormai. Del resto quando si parla di immigrazione non si può non pensare alle famose parole di Salvatore Buzzi che ben tre anni fa evidenziava come “gli immigrati rendono più della droga”. Non a caso si parla di “business dell’accoglienza”. Un altro aspetto interessante è il fatto che le ONG coinvolte si rifiutano di far salire agenti di polizia a bordo per verificare la presenza di scafisti o trafficanti e persino di fornire bilanci trasparenti, spalleggiate da certe realtà di sinistra che ritroviamo curiosamente attive proprio nell’accoglienza agli immigrati. Analizzando alcune mappe che documentano l’attività delle ONG nel Mediterraneo in una fascia temporale che va dal 2014 al 2016, appare chiaro come le loro navi si sono progressivamente spinte sempre più a ridosso delle coste libiche, raccogliendo immigrati in piene acque territoriali di Tripoli e ciò avviene sotto gli occhi di tutti. E’ poi essenziale ricordare che soltanto una piccolissima parte degli immigrati che arrivano nei porti italiani sono veramente “profughi”. L’Italia si sta infatti riempendo di cittadini nigeriani, bengalesi, marocchini, tunisini, egiziani, pakistani che non provengono certo da zone di guerra. Dunque per quale motivo vengono comunque lasciati entrare? Non dimentichiamo che tra di loro possono nascondersi personaggi della Black Axe (la mafia nigeriana che è tra l’altro aumentata in territorio italiano negli ultimi anni, guarda caso), membri di Boko Haram, dell’Isis (come il caso Anis Amri) e di al-Qaeda, oltre che criminali in fuga dalle carceri dei propri paesi. Attualmente in Italia non solo non vengono fatti rispettare i principi basilari sulla sovranità delle proprie acque territoriali e dei propri porti, permettendo a chiunque di attraccare con navi piene di “profughi”, ma si sta anche mettendo in serio pericolo la sicurezza nazionale sia in relazione al terrorismo che alla criminalità. Non è certo un caso che Spagna e Francia si guardano bene dal seguire l’esempio italiano.

Dai soccorsi ai centri di accoglienza La nuova mafia «nera» lucra sui profughi. La cupola nigeriana pericolosa come i clan italiani. Roberti: «Fa paura», scrive Lodovica Bulian, Martedì 1/08/2017, su "Il Giornale".  «Lo sapete che abbiamo una comunità criminale nigeriana in Italia che fa paura?». È stato il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti a lanciare l'allarme in una recente audizione alla Camera di fronte al comitato Schengen. Perché se le conseguenze visibili dell'immigrazione fuori controllo sono i reati commessi da irregolari spesso destinatari di ordini di espulsione mai eseguiti, a preoccupare le autorità è soprattutto la crescente «pericolosità» delle associazioni a delinquere che si nutrono delle masse di migranti dall'Africa. E anche la «connotazione mafiosa» dei sodalizi nigeriani che appaiono «ancora più strutturati delle mafie italiane». L'ultimo rapporto della Direzione investigativa antimafia certifica come i tentacoli del crimine «nero» siano in grado di intrecciarsi e gonfiarsi con il fenomeno migratorio, di insediarsi nelle pieghe della solidarietà italiana e di utilizzarla agli interessi del loro business. La Dia rileva come anche gli stessi centri di accoglienza che accolgono i richiedenti asilo diventino lo snodo logistico per gli affari illeciti: le organizzazioni nigeriane oltre ad aver «acquisito una connotazione transnazionale, forti dei collegamenti con i trafficanti operanti in Libia» hanno pure «ampiamente dimostrato una spiccata capacità nella gestione, in totale autonomia, di tutte le fasi della filiera del trafficking e dello smuggling». Un piano che va dal «reclutamento delle vittime» al «programmato abbandono in mare per provocare l'intervento di supporto» dei soccorsi; dall'approdo nei porti italiani sotto la protezione dell'azione internazionale alla «fornitura di documenti falsi per i trasferimenti, fino all'arrivo alla meta con l'inserimento nei mercati illegali». Il sistema è così collaudato che i clan sono «in grado di pianificare l'allontanamento dei migranti dai centri di accoglienza e il loro smistamento verso il centro-nord del Paese». Operazioni delle forze dell'ordine come «Black Axe» - che ha scoperchiato una cupola nigeriana dedita all'immigrazione clandestina alla prostituzione e al traffico di stupefacenti - hanno portato, nel secondo semestre del 2016, a intercettare 193 stranieri provenienti dal nord Africa e 58 dalla Nigeria coinvolti in reati di associazionismo tra cui quello mafioso. Ma le armi di chi indaga sono spuntate. Lo stesso Roberti ha ricordato che «abbiamo un grosso problema con la Nigeria»: il memorandum d'intesa siglato con quel Paese per contrastare la mafia transnazionale, infatti, non è mai stato attivato, «proprio per la resistenza dei nigeriani». Sotto la lente degli investigatori, nel cono d'ombra in cui opera la criminalità sulle rotte del Mediterraneo, ci sono anche carichi di droga e possibili legami col terrorismo islamico nella gestione dei flussi di esseri umani. L'inchiesta in corso della procura di Como è sulle tracce di una rete di supporto logistico offerto ai migranti nel nostro Paese: il dubbio è che sia «controllato anche da soggetti nordafricani dei quali ipotizziamo legami con esponenti dello Stato islamico». Uomini collegati Califfato che operano in Europa - e in Italia - per smistare clandestini. O radicalizzarli.

Parla il "poliziotto coraggio": "Vi racconto la mia verità sull'immigrazione". Daniele Contucci, l'agente divenuto famoso per aver denunciato tra i primi il malaffare ed il business che si celano dietro all'immigrazione, si sfoga in un libro: "Dalla passione alla rabbia", scrive Elena Barlozzari, Martedì 01/08/2017, su "Il Giornale". Daniele Contucci, 46 anni ed una divisa cucita addosso da sempre. La stessa che sognava sin da ragazzino oggi è divenuta stretta, soffocante. Così nasce “Dalla passione alla rabbia” (Ed. Il Seme Bianco), libro in cui Contucci, ormai ex membro di un’unità altamente specializzata in materia di immigrazione, mette nero su bianco “tutto il mio percorso” e “tutta la mia rabbia”.

Dopo 27 anni di servizio la passione è diventata rabbia. Quando e perché?

“Quando, nel 2010, sono stato trasferito alla Direzione Centrale Immigrazione e Polizia delle Frontiere e, più precisamente, in una Task Force altamente specializzata in materia di immigrazione denominata Unità Rapida Intervento (Uri). L’esperienza diretta sul campo mi ha permesso di constatare alcuni aspetti della fallimentare gestione del fenomeno migratorio: l’esposizione al rischio malattie infettive durante gli sbarchi dei migranti, i mancati fotosegnalamenti ed il pantano burocratico del Cara di Mineo dove le pratiche d’asilo vengono completate in 18 mesi. Così ho cominciato a denunciare pubblicamente quello a cui assistevo e, da allora, la Uri è stata prima demansionata e poi chiusa. E non solo, le mie denunce davano così fastidio che sono stato ‘parcheggiato’ in ufficio ad inserire nominativi in una banca dati, postazione dove era praticamente impossibile riscontrare anomalie. Ecco perché la passione per il mio lavoro, attraverso cui ho sempre cercato di portare avanti ideali di giustizia, onestà e correttezza, si è trasformata in rabbia per aver subito ritorsioni al limite del mobbing.”

Ci spiega, esattamente, di cosa si è occupato negli ultimi anni?

“Ho coadiuvato il personale di polizia locale di diverse Questure d’Italia nella trattazione del rilascio dei permessi di soggiorno, ottimizzando e uniformando le relative procedure. Con l’istituzione dell’emergenza Nord Africa del 2011 ho contribuito all’apertura dei Centri di Accoglienza Temporanei nel Sud Italia. Dal 2013, poi, sono stato impiegato al Cara di Mineo e nei porti di sbarco migranti dove ho contribuito a snellire, da 18 a 6 mesi, la permanenza per la definizione delle pratiche dei richiedenti asilo al Cara di Mineo, con tanto di riconoscimento da parte del Questore di Catania.”

E adesso?

“Adesso sono in convalescenza in un ospedale militare a causa dello stato ansioso depressivo che si è innescato in questi mesi di calvario.”

Se le dico business dell’immigrazione cosa mi risponde?

“Le rispondo Cara di Mineo. Ogni richiedente asilo ha un costo al giorno per lo Stato di 35 euro, il Cara di Mineo durante il periodo in cui lavoravo ne ospitava quasi 4000, provate a moltiplicare questa cifra per un anno e troverete la risposta. Non a caso, in seguito alle indagini su Mafia Capitale, il Cara è divenuto il simbolo del malaffare e del business dell’immigrazione. Resta emblematica la frase: Gli immigrati rendono più della droga.”

E in questo le Ong che ruolo hanno?

“Parallelamente alle operazioni di soccorso ufficiali, ci sono altri salvataggi, quelli messi in atto dalle organizzazioni di volontariato che si spingono fino alle coste libiche incentivando così le partenze e alimentando le organizzazioni criminali. Questo non è umanitarismo ma speculazione. Qualche Procura siciliana, e non solo, sembrerebbe aver aperto dei fascicoli sul caso. Aspettiamo gli sviluppi della magistratura.”

Cosa ne pensa dell’iniziativa di pattugliamento delle acque libiche messa in campo da Generazione Identitaria?

“Penso che è un’iniziativa buona a livello simbolico, dal punto di vista pratico è inconsistente.”

Gli accordi fatti dal premier Gentiloni con la Libia non sono serviti a contenere il fenomeno. Secondo lei qual è la soluzione?

“Prima di tutto bisognerebbe stabilizzare la Libia. Questa è la condizione numero uno per poter fare accordi vantaggiosi per l’Italia. Al momento ci sono incontri per valutare l’eventuale impiego di navi militari contro i trafficanti. Staremo a vedere cosa ne uscirà fuori, ma resto diffidente. Non ritengo credibile un Governo con un mandato a tempo, che ha ereditato dal precedente una fallimentare gestione del fenomeno immigrazione.”

Il pericolo jihadista viene dal mare?

“Come già segnalato dai Servizi esiste la possibilità che qualche elemento jihadista approfitti delle cosiddette carrette del mare per giungere in Italia.”

L’Italia è a rischio attentato?

“Non credo si possa parlare di rischio attentato, con la chiusura della rotta balcanica resta solo il Mediterraneo ed un’eventuale azione terroristica sul suolo italiano porterebbe all’inevitabile blocco navale, cosa che non converrebbe a nessuno.”

Altra sua denuncia riguarda il rischio epidemia. Ci spiega quali sono le procedure eseguite al momento dello sbarco e perché non tutelano né gli agenti di polizia né i cittadini?

“Le faccio un esempio concreto, nel giugno 2014 ho partecipato ad uno sbarco al Porto di Augusta. Sono arrivate 1200 persone di cui 66 avevano la scabbia e varie unità con tubercolosi conclamata e noi agenti non avevamo i dispositivi di protezione individuale previsti dal Ministero dell’Interno e della Salute. Temevo d’essermi ammalato e, per precauzione, non ho visto mio figlio per 45 giorni.”

Perché in assenza dei dispositivi di protezione individuale non si rifiutò di procedere alle operazioni?

“Per senso del dovere, si trattava di una situazione emergenziale. Però, a luglio, convinsi tutto il personale dell’Uri ad inoltrare alla nostra Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere la richiesta di esser sottoposti ad accertamenti sanitari. Due giorni dopo l’istanza fu accolta dal Capo della Polizia. Fu emanata subito una circolare sul monitoraggio del personale impiegato nelle operazioni di assistenza, soccorso e scorta ai migranti; con particolare attenzione al controllo del bacillo tubercolare. Sulla scia di tale iniziativa, la Direzione Centrale di Sanità della Polizia di Stato emanò un vademecum informativo, in cui si descrivevano minuziosamente le modalità igienico-preventive da mettere in atto.”

Perché oggi si definisce una vittima del sistema?

“Perché sono stato abbandonato da tutti. Non solo dalla Polizia di Stato ma anche dal sindacato e dalla politica. Inizialmente, un partito di cui preferisco non fare il nome mi aveva supportato dandomi spazio e voce poi anche lì è arrivata la censura. Mi sono sentito sfruttato, letteralmente usato. E infine messo all’angolo.”

Povia canta "Immigrazia" ed è subito polemica. Il cantautore Povia pubblica su Facebook la sua nuova canzone "Immigrazia", in cui esprime la sua visione del fenomeno dell’immigrazione. E scoppia subito la polemica, scrive Luca Romano, Domenica 30/07/2017, su "Il Giornale". Ormai è un must: ogni canzone di Povia scatena subito la polemica. Dopo i gay e l’eutanasia, è successo anche con "Immigrazia", l'ultimo video che il cantautore ha pubblicato su Facebook. Una visione personale del fenomeno dell'immigrazione. "Immigrazia è una follia voluta da chi vuole che tu vada. Nel frattempo l’immigrato mentre tu stai sulla sedia piano piano lui si insedia. Nel frattempo l’immigrato con l’aiuto del governo si prende il nostro posto e si prende pure il padreterno. Gli immigrati di domani saranno i nuovi italiani. Ma se dici queste cose sei soltanto un incivile", recita Povia. Che poi si dice convinto di ottenere il plauso anche dal leader della Lega Nord: "La sostituzione degli italiani è in atto. Usano immigrati a basso prezzo. Noi italiani scompariremo, storia già vista. Matteo Salvini sto pezzo ti piacerà". E poi ancora: "Se non vuoi fare quel lavoro, lo fanno loro lo fanno loro. E mentre fissi il lampadario ti fregano il salario". Inutile dire che la canzone ha suscitato apprezzamenti ma anche diverse polemiche e accuse di xenofobia e razzismo.

Povia lancia la canzone “Immigrazia” su Facebook: “Mentre fissi il lampadario, gli immigrati ti fregano il salario”. Il ritornello della canzone, evidente invettiva contro quelli che per il cantautore sono “gli italiani alternativi”, dice che “l'immigrazione è una follia voluta da chi vuole che tu vada via”. E sul social scatta l'offerta speciale..., scrive Domenico Naso il 29 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Giuseppe Povia, vincitore del Festival di Sanremo 2006 con “Vorrei avere il becco” (meglio nota come “La canzone del piccione”), ha affidato a Facebook il suo nuovo brano, dal titolo che è tutto un programma. Dopo i gay e l’eutanasia, l’ispirazione è arrivata ancora una volta dalla strettissima attualità, visto che la canzone si chiama “Immigrazia” e racconta la personalissima visione del fenomeno migratorio del cantautore milanese. “Un tempo i figli crescevano duri – canta Povia in una strofa – perché i genitori erano duri, oggi i figli crescono molli perché siamo tutti molli”. E ancora: “Se non vuoi fare quel lavoro, lo fanno loro lo fanno loro. E mentre fissi il lampadario ti fregano il salario”, Ma Giuseppe Povia non dà la colpa solo agli immigrati, visto che “c’è un disegno molto chiaro: il potere veterano, con la scusa del razzismo, vuole fare fuori l’italiano”. Il ritornello della canzone, evidente invettiva contro quelli che per Povia sono “gli italiani alternativi”, dice che “l’immigrazione è una follia voluta da chi vuole che tu vada via”. E nel breve post di presentazione su Facebook, in effetti ritorna il tema della “sostituzione dell’italiano”, che sarebbe “in atto”. “Usano immigrati a basso prezzo. – scrive sul social network l’autore de I bambini fanno oh” – Noi italiani scompariremo, storia già vista”. La seconda parte di “Immigrazia” comincia con una critica al politicamente corretto (“Ma se dici queste cose sei soltanto un incivile e sei poco tollerante”) e prosegue con il più classico “E IL GOVERNO COSA FA?”. “L’italiano è cotto bene – conclude Povia -, sembra proprio un maccherone. Nel frattempo l’immigrato, mentre tu stai sulla sedia, piano piano lui si insedia”. E, ovviamente “con l’aiuto del governo”, mentre noi litighiamo “lui si prende il nostro posto e ci cambia pure il Padreterno”. Fin qui il testo dell’ultima fatica del cantautore, che su Facebook lancia anche una vantaggiosa offerta per acquistare il nuovo CD “Nuovo Disordine Mondiale”: una copia 15 euro, due copie 20 euro. Se poi avete voglia di un concerto di Povia da ottobre in poi, “a solo rimborso spese”, ecco servito anche il numero di telefono. L’occasione è ghiotta, come resistere?

La femminista di sinistra: "I media occultano le violenze sessuali commesse da immigrati". Lorella Zanardo: "Da più parti mi viene consigliato di non diffondere la notizia della donna violentata in Puglia, caso di cui si è parlato pochissimo. La reticenza di molti gruppi femministi e giornalisti è dovuta al fatto che la violenza sia stata commessa da un rifugiato", scrive il 3 Agosto 2017 “Il Populista". In Italia, come accade in altri Paesi europei dominati dal politicamente corretto, i crimini degli immigrati vengono minimizzati. Se risulta difficile omettere l’identità e l’origine del delinquente, almeno per ora, ecco che il sistema mediatico impone una sorta di silenziatore diffuso. Fino a poco tempo fa le malefatte nei confronti delle donne, dai casi di stalkeraggio a quelli di molestie e violenze sessuali, occupavano giustamente le prime pagine dei giornali sia cartacei sia online, lunghi servizi nei telegiornali, doverosi approfondimenti nelle trasmissioni televisive. Poi gradualmente la musica è cambiata. Ora succede che questi atroci reati, se commessi da immigrati, vengano relegati alle pagine di cronaca o a minuscoli riquadri nelle home page dei giornali più importanti. Anzi, ormai spesso nelle home page dei “giornaloni” non ci finiscono nemmeno per sbaglio. Guai a evidenziarlo però, pena il marchio infamante di razzista e xenofobo. Che non si tratti esattamente di fantasia populista o delirio leghista, lo conferma un pezzo di Lorella Zanardo comparso sul sito del Fatto Quotidiano. Stiamo parlando di una femminista di punta, autrice del celebre documentario “Il Corpo delle donne” e fautrice del movimento venato di antiberlusconismo “Se non ora quando”, nonché candidata alle ultime Europee per l’estrema sinistra con la Lista Tsipras. L’incipit è lineare e illuminante: “Una donna è stata violentata e picchiata brutalmente in Puglia qualche giorno fa. La donna versa in gravi condizioni in ospedale. Da più parti mi viene consigliato di non diffondere questa notizia: perché?”. Ebbene sì, certa sinistra lavora per occultare notizie sgradite alla “narrazione” immigrazionista. Che stranezza. “Contrariamente a quanto accade solitamente”, scrive la Zanardo, “in questo caso la notizia è stata riportata solo da qualche quotidiano e diffusa pochissimo”. Il motivo è semplice, anche se indicibile: “La reticenza di molti gruppi femministi e giornalisti è dovuta al fatto che la violenza sia stata commessa da un ragazzo rifugiato di un centro Cara. Questa e solo questa la ragione dell’occultamento del fatto”. La regista racconta che certa pulsione censoria e minimizzatrice, anche se di mezzo ci sono odiose violenze nei confronti delle donne, è un malcostume radicato nel tempo: “Anni fa partecipai a Milano a un incontro contro la violenza organizzato da un’importante organizzazione che di violenza si occupava. Si trattava dell’omicidio di una donna a Roma da parte di un cittadino rumeno. Con mio grandissimo stupore e rabbia – scrive la femminista - tutta la riunione fu spesa, ed eravamo solo donne, a valutare se fosse meglio diffondere o no la notizia perché trattavasi di cittadino dell’est Europa e non si voleva incentivare il razzismo. Solo poche parole furono pronunciate a memoria della vittima”. Una denuncia coraggiosa, controcorrente. “Come femminista e come donna di sinistra mi ribello a questo comportamento e lo ritengo responsabile dell’allontanamento di molti cittadini e cittadine dai partiti e movimenti di sinistra”. Zanardo fu una delle poche, pochissime femministe a condannare con forza e senza ambiguità di sorta le violenze sessuali di massa commesse da immigrati a Colonia, nel Capodanno 2016. “Il voler ‘proteggere’ i migranti responsabili di reati odiosi, così come il ritenere che diffondendo le notizie negative che li riguardano (…) si possa fomentare il razzismo, è alla base dell’attuale pensiero di una certa sinistra italiana: elitaria e profondamente discriminante”. Insomma i primi ad attuare discriminazioni in base alla provenienza delle persone, sono esattamente coloro che a parole combattono contro le discriminazioni: “Il popolo è pancia, mi disse fiera una nota intellettuale ‘di sinistra’ lasciandomi basita. E se il popolo è pancia, e dunque non in grado di ragionare con la propria testa, ecco che c’è chi si è autoeletto interprete di quel popolo incapace di intendere e volere”. E ancora: “E con la stessa attitudine tronfia ed elitaria si trattano gli emigranti, i richiedenti asilo: proteggendoli tutti indistintamente come fossero bambini o incapaci di intendere, discriminandoli davvero in questo modo considerandoli così inferiori a noi”. Zanardo parla della necessità di avviare programmi educativi sugli usi e costumi che regolano i rapporti tra i sessi “che, come sappiamo, sono in Europa profondamente diversi da quelli vissuti nei Paesi di origine dai cittadini migranti”. Dalla retorica alla pratica, bypassando i dettami del politicamente corretto: “Dopo la grande manifestazione per i migranti dello scorso maggio a Milano, quali sono stati i progetti educativi intrapresi per facilitare la convivenza?”.

La violenza contro le donne è sempre violenza, che la compia un italiano o uno straniero, scrive Lorella Zanardo il 31 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Una donna è stata violentata e picchiata brutalmente in Puglia qualche giorno fa. La donna versa in gravi condizioni in ospedale. Da più parti mi viene consigliato di non diffondere questa notizia: perché? Contrariamente a quanto accade solitamente, quando cioè le notizie che riguardano stalking e violenze vengono commentate e diffuse sui social network da molte donne e anche uomini, in questo caso la notizia è stata riportata solo da qualche quotidiano e diffusa pochissimo. La donna ha 76 anni e verrebbe da pensare che non se ne è scritto per una forma nemmeno tanto velata di discriminazione verso le anziane: “Tanto è vecchia”, pare essere il messaggio sotteso all’indifferenza; l’indignazione, quando c’è, è riservata al sopruso verso chi è giovane. Mi sono ribellata dunque a questa ipotesi e ho diffuso la notizia per scoprire, ancora una volta, che la reticenza di molti gruppi femministi e giornalisti è dovuta al fatto che la violenza sia stata commessa da un ragazzo rifugiato di un centro Cara. 

Questa e solo questa la ragione dell’occultamento del fatto. Anni fa partecipai a Milano a un incontro contro la violenza organizzato da un’importante organizzazione che di violenza si occupava. Si trattava dell’omicidio di una donna a Roma da parte di un cittadino rumeno. Con mio grandissimo stupore e rabbia, tutta la riunione fu spesa, ed eravamo solo donne, a valutare se fosse meglio diffondere o no la notizia perché trattavasi di cittadino dell’est Europa e non si voleva incentivare il razzismo. Solo poche parole furono pronunciate a memoria della vittima. Come femminista e come donna di sinistra mi ribello a questo comportamento e lo ritengo responsabile dell’allontanamento di molti cittadini e cittadine dai partiti e movimenti “di sinistra”. Che una violenza sia commessa da un uomo italiano o da un migrante, vecchio o giovane che sia, non deve assolutamente cambiare la nostra reazione: la denuncia va sempre e comunque espressa. Certo spiegando, certo motivando. Ma condannando sempre con fermezza. Già ebbi modo di esprimerlo a inizio 2016 in occasione delle violenze a Colonia che vennero archiviate con l’esilarante raccomandazione per difendere le donne dalla violenza, espressa della sindaca della città tedesca: “Se i ragazzi nordafricani o mediorientali si avvicinano a voi, state loro a distanza “eine ArmeLange”, cioè teneteli a distanza di un braccio. Il voler “proteggere” i migranti responsabili di reati odiosi, così come il ritenere che diffondendo le notizie negative che li riguardano, esattamente così come faremmo per i crimini commessi dai cittadini italiani, ritenendo che così facendo si possa fomentare il razzismo, stanno alla base dell’attuale pensiero di una certa sinistra italiana: elitaria e profondamente discriminante.

“Il popolo è pancia”, mi disse fiera una nota intellettuale di sinistra lasciandomi basita. E se il popolo è pancia, e dunque non in grado di ragionare con la propria testa, ecco che c’è chi si è autoeletto interprete di quel popolo incapace di intendere e volere. E allora quel popolo che viene valutato non in grado di comprendere con la propria testa che una violenza è sempre una violenza indipendente da chi la commetta, lo si mantiene al di fuori delle scelte democratiche. “Non diffondendo troppo questo tipo di notizie” come mi è stato più volte consigliato, perché non sarebbe in grado di comprendere. E con la stessa attitudine tronfia ed elitaria si trattano gli emigranti, i richiedenti asilo: proteggendoli tutti indistintamente come fossero bambini o incapaci di intendere, discriminandoli davvero in questo modo considerandoli così inferiori a noi. Mi ribello e invito a ribellarci al dualismo che ci viene oggi proposto come unica possibilità: o sei razzista o accetti tutti i migranti a prescindere dal loro comportamento. Esiste una terza possibilità ed è l’apertura e l’accoglienza mediata da regole e leggi, necessaria per qualsiasi democrazia che voglia davvero accogliere tutti e tutte senza alcuna discriminazione. Facciamo che questa opportunità esista e si diffonda, senza timore di essere criticate ed emarginate! C’è un ultimo punto, che è quello che mi sta più a cuore, ed è quello dell’educazione foriera di una buona convivenza. In Nord Europa e in Canada si stanno sviluppando ottimi moduli educativi per i cittadini migranti che oltre all’indispensabile introduzione alla lingua del Paese ospitante, mirano a far conoscere usi e costumi anche per quanto riguarda i rapporti tra i sessi, che, come sappiamo, sono in Europa profondamente diversi da quelli vissuti nei Paesi di origine dai cittadini migranti. Dopo la grande manifestazione per i migranti dello scorso maggio a Milano, quali sono stati i progetti educativi intrapresi per facilitare la convivenza? L’educazione, la conoscenza, l’abbattimento delle barriere linguistiche, il rispetto: tutti valori democratici e di sinistra sui quali invito a lavorare.

Vittorio Feltri su "Libero Quotidiano dell'1 Agosto 2017: più orsi e meno migranti, sarebbe l'ideale. È il momento degli orsi, bestioni meravigliosi e tutto sommato pacifici a una condizione: che vivano in un ambiente idoneo e nessuno li scocci nel territorio che considerano proprio. Indubbiamente, se sono a corto di cibo vanno a cercarselo dove c' è, esattamente come fanno i lupi, le volpi e perfino gli uomini che spesso sono più pericolosi di qualsiasi animale. In Trentino un bellissimo esemplare di plantigrado (non è una parolaccia) ha costretto un pensionato a tuffarsi in un dirupo per non avere con lui un contatto del secondo o terzo tipo. L' anziano non si è gravemente infortunato: se l'è fatta sotto dalla paura. Lo comprendiamo. Non capita tutti i giorni di imbattersi in un mammifero peloso e alto due metri il cui aspetto è poco rassicurante. Ovvio. Gli orsi da noi non circolavano da secoli. Eravamo impreparati ad incontrarne uno a due passi dal paese. Poi siamo andati a comprarne all' estero alcuni esemplari, per dimostrare che teniamo molto alla ripopolazione delle nostre aspre vallate, e ci siamo limitati ad ospitarli pensando che si sarebbero arrangiati per conto proprio a procurarsi il cibo e a garantirsi lo spazio necessario alla sopravvivenza. Errore. Un orso ha bisogno di godere di un vasto territorio ove sfogarsi, in altri termini chiede di non avere rotture di coglioni. Coglioni non si può dire per educazione, ma io lo dico lo stesso perché rende meglio l'idea. E me ne frego della buona creanza. A me piacciono assai i selvatici di ogni specie, compresi quelli burberi e scontrosi, pertanto sono contento siano rientrati sui monti. Ma suggerisco a coloro che li trasportano qui di rammentare agli abitanti delle zone nelle quali arrivano i giganti creati dalla natura che non si tratta di peluche, bensì animali che attaccano per difendersi, dai quali conviene girare alla larga onde evitare incidenti. Prendiamo i cinghiali. Li abbiamo voluti? Adesso spadroneggiano perfino a Roma. Le femmine con prole sono inavvicinabili e aggressive per un motivo semplice: proteggono i piccoli da noi che tendiamo a trasformarli in salsicce. Hanno ragione. Chi non lo capisce è meno provveduto dei suidi. Tornando agli orsi, eccone uno simpatico a Villavallelonga (Aquila). Si ignora perché, entra in una casa di proprietà di una coppia con due figli. Visita il pollaio, poi non sazio entra in cucina e si pappa un panettone, chiamalo cretino. Dopo essersi nutrito, tenta di andarsene ma non ci riesce. Si sente intrappolato e distrugge un divano. Capirai che danno. In ogni modo la famigliola piomba nel panico, finché non interviene un veterinario che seda il plantigrado e ne dispone il "rimpatrio" nel bosco. Quello che succederà ora non è ipotizzabile. La gente è terrorizzata. E sbaglia: teme di più l'orso dei migranti, trascurando che l'orso ci siamo recati all' estero per averlo con noi, salvo pentircene, mentre i profughi ci invadono senza chiederci il permesso. L' ideale sarebbe più orsi e meno immigrati. Ai primi magari spariamo, ed è accaduto, ai secondi paghiamo l'albergo anche se stuprano le vecchie, ed è accaduto pure questo. Vittorio Feltri

Immigrazione, protestano Forza Italia e Lega: "La Guardia costiera ridotta a taxi degli scafisti", scrive il 6 Agosto 2017 "Libero Quotidiano". Le aspettative degli italiani sul Codice di condotta della Ong si sono dissolte alla prima occasione, in particolare quando la nave di Medici senza frontiere ha potuto consegnare 130 migranti recuperati nel Mediterraneo alle navi militari italiane vicino Lampedusa. Un vero e proprio servizio taxi, con tanto di coinvolgimento dei mezzi della Guardia costiera contro la quale si è scagliato il presidente dei senatori di Forza Italia, Paolo Romani: "Che un corpo dello Stato sia il primo a non applicare il Codice di condotta del governo è inaudito e sintomo di un grave problema nella catena di comando e nel sistema di coordinamento con gli altri corpi dello Stato". Quella svolta da Msf e la Guardia costiera è stata secondo Romani: "Una procedura inusuale e due volte irregolare, che ha oltretutto esposto i migranti ad ulteriori rischi, assieme ai nostri uomini della Guarda Costiera costretti ad operare quotidianamente in situazioni difficili e al di fuori dei propri compiti precipui.  Tale avvenimento impone al governo di prendere provvedimenti nei confronti dei vertici di un corpo dello Stato che è tenuto ad uniformarsi alle disposizioni dell’esecutivo ma anche di valutare l’assorbimento della Guardia Costiera nella Marina Italiana". "Siamo oltre il ridicolo e oltre la decenza - ha rincarato l'ex ministro della Lega Roberto Calderoli - Adesso facciamo il servizio taxi aggiuntivo alle navi Ong andandoci a prendere con le nostre imbarcazioni gli immigrati che le Ong vanno a pescarsi in acque libiche. Ma ci rendiamo conto? Non solo non è cambiato nulla, da un punto di vista dell’invasione, ma al danno si aggiunge pure la beffa delle spese per il trasbordo di questi immigrati prelevati ieri dalla nave di MSF, una delle Ong che non ha firmato il codice di condotta, e portati nei nostri porti dalle imbarcazioni della nostra Guardia Costiera. Ma allora tanto valeva non fare nulla e lasciar fare il servizio taxi alle navi Ong. Il principio - spiega - deve essere quello di bloccare in toto l’attività di queste navi Ong, bloccando di conseguenza gli sbarchi, non fare la staffetta al largo per fargli risparmiare carburante e seccature. Assurdo, demenziale. Questi immigrati prelevati in acque libiche non dovevano arrivare in Italia ma finire a Malta o in Tunisia. Siamo veramente ridicoli". La risposta del governo però era già arrivata in mattinata, nessuna marcia indietro stando alle parole del viceministro degli Esteri, Mario Giro, in un'intervista alla Stampa: "Le nostre navi continueranno a raccogliere i migranti. Sarebbe auspicabile, anche quelli ospitati da imbarcazioni bloccate dalla Guardia costiera libica, quando le nostre imbarcazioni siano in condizione di poterlo fare. Perché riportarli in Libia, in questo momento, vuol dire riportarli all’inferno". Parole che arrivano dopo che la Marina militare libica ha annunciato l’arresto di 826 migranti in due diverse operazioni a Nord di Sabrata e Zawia. Riportare semplicemente queste persone in Libia non garantisce la loro incolumità e non risolve le situazioni. "Esatto - afferma Giro - i migranti finiscono in centri di detenzione nelle mani delle milizie, che ne approfittano per fare i loro commerci; questa politica non raggiunge nemmeno l’obiettivo di alleggerire la situazione, c’è molta gente che vive su questi traffici. Per ora non è stato possibile avere dei campi "normali" in Libia, sotto il controllo delle istituzioni internazionali, è un obiettivo da raggiungere, quello reale". Però dopo la sfida di uno dei vice del premier Sarraj, anche il governo riconosciuto della Libia sembra ora diviso sulla nostra missione navale? "Quello che è importante è quello che pensa la parte più forte, le milizie di Misurata e di Tripoli stessa, sappiamo ci sono diverse sensibilità anche nel governo di Tripoli", osserva il viceministro. Quanto alla questione Ong, Giro sostiene: "Può esserci dietro alcune Organizzazioni non governative un’ideologia ’no border’, una sorta di estremismo umanitario; ma va compreso, di fronte alla tragedia che sta avvenendo. Preferisco un estremismo umanitario ad altri tipi di estremismi". La collaborazione con le Ong continuerà? "Su questo tema non bisogna scaldarsi troppo. Ci vuole un atteggiamento pragmatico che riconosca come le Ong siano ormai divenute una componente imprescindibile del diritto internazionale umanitario".

Saviano: "Io sto con Medici senza frontiere. Un errore introdurre il reato umanitario". Le vite come la nostra perse nel Mediterraneo e le ragioni delle organizzazioni che non hanno sottoscritto le regole di condotta del Viminale, scrive Roberto Saviano il 5 agosto 2017 su "La Repubblica". Io sto con Medici senza Frontiere. Lo voglio dire ed esprimere chiaramente in un momento in cui sta avvenendo la più pericolosa delle dinamiche, ossia la criminalizzazione del gesto umanitario. Sto con Medici senza Frontiere nella decisione di non firmare il codice di condotta per le Ong che fanno salvataggi in mare voluto dal ministro Minniti. È una scelta importante e sostanziale, non un capriccio. Medici Senza Frontiere (Premio Nobel per la Pace 1999) difende un principio fondamentale: la neutralità. Questo significa che avere agenti armati sulle navi sarebbe la fine di questo principio. Il lettore forse ingenuo mi dirà: ma come? È una garanzia per tutti avere agenti armati sulle navi di Msf: per i migranti, per gli operatori volontari, per la sicurezza. Invece non è così e per capirlo basta conoscere le dinamiche di chi opera in situazioni difficili, di emergenza sanitaria, di guerra, dove l'assoluta assenza di armi nei luoghi del soccorso rappresenta la vera protezione. Il segnale di divieto che disegna il kalashnikov inserito nel cerchio rosso sbarrato è fuori di ogni laboratorio, ogni tenda, ogni presidio di Msf, Emergency e non solo. L'elemento fondante che permette alle Ong di agire in sicurezza e con la propria identità. Non avere armi in un luogo di soccorso non significa che sono luoghi dove la legge è sospesa, tutt'altro. Infatti qualsiasi sbarco di profughi che effettua Msf viene coordinato dalla Guardia costiera e una volta a terra c'è totale collaborazione con le forze di polizia. A Mosul, ad Haiti, in Congo i soldati di qualsiasi esercito lasciano le armi fuori dai presidi di Msf. Invece il governo italiano vorrebbe portare agenti armati sulle navi. Non firmando il codice Msf salva i suoi operatori e la sua condotta, tutte le parti in causa nei conflitti devono sapere che Msf non ha armi, mai, non nasconde soldati sotto le sue pettorine, non è un luogo utilizzato per indagini, ma solo di soccorso. Questi sono i motivi per i quali Msf non ha sottoscritto il codice. Altre Ong possono firmare il patto Minniti perché non hanno presidi in zone di guerra o perché facendolo sanno di non mettere a repentaglio la propria identità. Ma non Msf. In questa triste fase storica si sta configurando in Italia, come ha scritto Luigi Manconi su Il manifesto e come scrive da giorni Avvenire, il "reato umanitario". È il frutto di mesi di confusione, durante i quali tutte le parti politiche hanno soffiato - in un clima di perenne campagna elettorale - sul fuoco della paura. Dall'aberrante definizione di "taxi del mare" di Di Maio sino a chi pone sullo stesso piano gli affari criminali fatti da Mafia Capitale e il business dei trafficanti con l'attività di chi salva vite. Tutti luoghi comuni banali, semplici, veloci per configurare il "reato umanitario". L'indagine sulla Ong tedesca Jugend Rettet (che non ha firmato il protocollo Minniti) non c'entra nulla con le insinuazioni fatte sino ad oggi, tese a dimostrare che le Ong sono braccia operative dei trafficanti. Nonostante si cerchi di manipolare il più possibile - come tenta di fare l'aberrante (e come sempre ridicolo) post di Matteo Salvini che parla di Ong che hanno protetto scafisti - secondo la stessa procura di Trapani avrebbero agito "non per denaro" ma per "motivi umanitari". In ogni caso se gli appartenenti a Jugend Rettet hanno commesso reati, verranno processati e, qualora riconosciuti colpevoli, condannati. Quello che sappiamo sino ad oggi è che se hanno violato regole lo hanno fatto per realizzare un corridoio umanitario, come lo definisce Massimo Bordin di Radio Radicale. Null'altro che questo. Mi domando a questo punto dove nasce tutto questo odio? Siamo di fronte a dinamiche psicologiche semplici, basterebbe rileggere "Psicologia delle folle" di Gustave Le Bon. Di fronte al senso di colpa d'essere incapaci di agire, dinanzi a centinaia di bambini che annegano nel Mediterraneo, si accusa chi agisce. La stessa cosa avviene con le mafie. Spesso è più facile attaccare chi combatte la mafia piuttosto del mafioso. Un paese al collasso economico e demografico ha l'esigenza di trovare altrove i colpevoli: i migranti sono il capro espiatorio perfetto. Più è semplice la lettura più verrà adottato quel bersaglio. Manca il lavoro? Colpa degli immigrati. Aumentano i crimini? Colpa degli immigrati. Anche se i dati ci smentiscono, anche se si ha una falsa percezione del problema. Furbescamente chi soffia sulla paura, sul razzismo, vuole approfittare della enorme possibilità distraente del dramma immigrazione. Se il problema sono gli immigrati l'incapacità economica di far ripartire il paese, di snellire le dinamiche burocratiche, di contrastare il crimine organizzato diventa un corollario. La coperta dell'immigrazione protegge tutti. Per cui quando Renzi dichiara "pugno duro contro le Ong che hanno contatti con i trafficanti", senza conoscere i termini dell'indagine, bisognerebbe rispondere che ci sarebbe piaciuto sentirlo tuonare contro la vendita delle armi italiane ai paesi in guerra. Né abbiamo sentito insistere Minniti sulla necessità di aumentare la quota di Pil destinato ai paesi in via di sviluppo che oggi è appena dello 0,17%. Parole legittime le loro ma che li precipitano al di fuori della tradizione di sinistra del paese. Avverto i miei lettori: tutti coloro che non si inseriscono nella canea anti immigrazione e contro le Ong saranno soli. In questo momento l'odio verso le Ong e verso gli immigrati non ha pari, magari le mafie avessero avuto contro tutto questo impegno e questa solerzia. Facciamoci forza, io ne sono consapevole. Bersagliati dalle più basse menzogne, ci vedremo sui social sommersi dalle più comuni banalità. Sarà un profluvio di "portateli a casa tu", "vi fate pagare per fare le anime belle", "buonisti". Ma pazientemente, smontando il fuoco di fila delle bugie ne verremo fuori. Ricordo che non è solo il Mediterraneo a vivere il problema profughi, anzi sono quasi 3 milioni i rifugiati intorno al Lago Chad dove si sta consumando una delle peggiori crisi umanitarie del nostro tempo e che tocca l'intera regione compresa tra il Chad, il Niger, la Nigeria e il Camerun. Profughi e sfollati che vivono in condizioni infernali, a Diffa, ad Assaga, a Yebi e cito solo alcuni di questi luoghi. Dimenticati e infinitamente più numerosi di quelli che si affacciano sulle rive del Mediterraneo. In Uganda, i rifugiati arrivati in seguito al riaccendersi delle violenze in Sud Sudan sono oltre 900mila, molto al di sopra delle migliaia che l'Europa non riesce e non vuole gestire. Situazioni drammatiche e dimenticate, che Msf testimonia ogni giorno attraverso i suoi team impegnati a garantire un accesso dignitoso alla salute e all'acqua. Sono uomini, donne e bambini che non busseranno alla nostra porta e per i quali dovrebbero invece essere consentiti dei corridoi umanitari, soluzioni nuove che promuovano una cultura diversa dall'indifferenza. Le Ong stanno semplicemente supplendo all'assenza dell'Europa. Sono davvero ingenui utopisti che vogliono ancora salvare le vite umane mentre come dicono anche alcuni esponenti del Pd "non possiamo più permettercelo"? Non è così. In realtà pensare di presidiare il Mediterraneo con le navi da guerra per fermare questi flussi è la vera colpevole ingenuità. In verità il codice sottende un unico obiettivo: provare a limitare gli sbarchi. Quello che non si è riuscito ad ottenere politicamente si scarica sulle Ong e sui migranti. Questo è evidente con il divieto di trasbordare migranti su altre navi. Provo a chiarire: immaginate che ci siano due navi che possono riempirsi sino a mille profughi, ne raccolgono un giorno solo trenta, razionalmente li spostano su una nave e la si fa partire e l'altra resta a presidiare. Da oggi non si potrà più farlo, il codice costringe le imbarcazioni delle Ong a trascorrere moltissimo tempo in viaggio tra le coste libiche e quelle italiane raccogliendo meno persone, portandone meno in Italia e lasciandone di più in mezzo al mare. Questo è il secondo motivo per cui Msf non ha firmato il codice Minniti. E allora che cosa si può fare? Provare a razionalizzare partendo da un presupposto: come salvare vite umane, vite come la nostra. E imprimere nella nostra mente le parole di Loris De Filippi, presidente di Medici senza frontiere: "Ogni giorno migliaia di uomini, donne e bambini continuano a prendere il mare affidandosi a trafficanti senza scrupoli. Non lo fanno perché potrebbero esserci delle barche a salvarli al largo della Libia, ma perché non hanno altra scelta e le politiche europee non offrono loro alcuna alternativa. Non sono le organizzazioni umanitarie, ma le politiche europee a favorire i trafficanti". Ecco perché io sto dalla loro parte.

Ong e migranti, il ruolo di Medici Senza Frontiere. L'inchiesta di Panorama che raccontava come alcuni uomini dell'Ong fossero al centro della prima inchiesta della Procura di Trapani, scrive Carmelo Abbate il 6 agosto 2017 su "Panorama". Il 5 agosto sono tornate a far notizia le indiscrezioni sul fatto che Medici senza frontiere sarebbe inclusa tra le Ong finite nel mirino della Procura di Trapani che indaga sulle "consegne concordate" dei migranti in alto mare. Nelle ultime notizie di stampa, dicono a Msf, non c'è nulla di nuovo: solo vecchie accuse a cui non sono mai seguite azioni. E infatti è vero. Come spiegato nell'inchiesta di copertina del maggio scorso, Panorama aveva raccontato di un'indagine aperta contro ignoti con l'ipotesi di reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Al centro delle indagini il comportamento di una decina di appartenenti a Medici Senza Frontiere. "Fin da allora ci siamo messi a disposizione delle Procure per fornire qualunque spiegazione richiesta su ogni nostra attività e ribadiamo questa totale disponibilità, insieme all'auspicio di avere indicazioni precise sugli episodi eventualmente contestati. Auspichiamo che venga chiarito al più presto ogni dubbio per porre fine a questo stillicidio di accuse che continua ad avvelenare il clima". Ecco come era andata e i contenuti dell'inchiesta. L'organizzazione non governativa al centro dell'inchiesta della Procura di Trapani è Medici senza frontiere. L'ipotesi di reato è favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il fascicolo di indagine aperto dai magistrati siciliani agli inizi di febbraio è per il momento a carico di ignoti, ma una decina di appartenenti alla più importante organizzazione umanitaria al mondo sono oggetto di approfondimenti da parte degli uomini della polizia di Stato. Non si tratta di semplici operatori o marinai delle navi, vale a dire di figure di secondo piano, ma di esponenti che occupano ruoli decisionali. Alcuni italiani, altri stranieri. L'inchiesta non è circoscritta all'operato di una singola nave incappata in una maldestra o illecita operazione di salvataggio, ma coinvolge ruolo e missione di Medici senza frontiere nel Mar Mediterraneo. Gli inquirenti si sono mossi dopo aver accertato, con un valore indiziario tale da consentire l'apertura di un fascicolo d'indagine, un primo profilo di illiceità: ovvero operazioni di salvataggio sospette, nel senso che sono state condotte senza aver ricevuto un Sos da parte di natanti in difficoltà, e neppure una richiesta di intervento da parte del Centro di coordinamento del soccorso marittimo della Guardia costiera italiana. In buona sostanza, la Procura di Trapani riterrebbe sufficientemente provati diversi comportamenti anomali delle navi di Medici senza frontiere che si sarebbero mosse come per andare a un appuntamento a ridosso delle acque libiche, e dopo aver fatto salire a bordo i migranti avrebbero poi puntato dritto verso le coste siciliane, violando in questo modo le leggi che regolano il soccorso in mare e che prevedono lo sbarco nel porto più vicino e più sicuro. La forza dell'ipotesi investigativa deriva dal fatto che gli elementi concreti che hanno fatto partire l'indagine sono stati forniti dagli stessi operatori di Medici senza frontiere. Proprio così, i membri dell'equipaggio delle navi hanno raccontato ai poliziotti le anomalie nelle operazioni di salvataggio, delle quali avevano conoscenza diretta.

Cosa è successo. Perché lo hanno fatto? Tutto inizia da una rissa a bordo di una delle navi della Ong, sedata dagli uomini della polizia di Stato. Durante i colloqui per la stesura dei verbali gli investigatori captano delle anomalie su alcuni movimenti in mare poco chiari agli stessi marinai. Si procede con interrogatori incrociati ed emergono elementi messi a verbale su improvvise partenze in direzione della Libia, senza aver ricevuto una richiesta di soccorso e neppure un ordine di intervento da parte delle autorità italiane, e su strani incontri in alto mare con i migranti. Siamo ai primi di febbraio di quest'anno. La Procura di Trapani apre un fascicolo e delega la polizia di Stato. Parte ufficialmente l'indagine che passa al setaccio tutta l'attività di Medici senza frontiere, l'organizzazione non governativa più grande al mondo, con base a Ginevra, sedi operative in Belgio, Francia, Olanda, Spagna e Svizzera, e 21 sezioni territoriali tra le quali l'Italia, che è presieduta da Loris De Filippi. Medici senza frontiere ha iniziato le sue operazioni di salvataggio nel Mediterraneo nel maggio 2015. Fino a marzo di quest'anno ha soccorso e assistito in mare più di 56 mila persone, la maggior parte delle quali sbarcate in Italia. Nel solo 2016, rispetto al totale di 181.436 arrivi sulle nostre coste, ben 23.532 sono per mano di Medici senza frontiere: una persona su sette. L'organizzazione non governativa ha operato con diverse navi, i cui movimenti sono stati passati al setaccio dalla procura di Trapani.

La prima è Dignity I, attiva da giugno a dicembre 2015, poi da aprile a novembre 2016, quando è salpata da Malta in direzione della Spagna, dove si trova attualmente. Nel periodo in cui è stata impegnata nel Mediterraneo, la nave ha fatto registrare due avvicinamenti al limite delle acque territoriali libiche, il cui confine è a 12 miglia dalla Libia: il 28 agosto 2016 si è inoltrata fino a 13,4 miglia marine, mentre il 16 novembre è arrivata fino a 12,6 miglia. Ma il 6 luglio 2016 la nave si è spinta oltre il limite fino a 11 miglia.

La nave Bourgon Argos è stata operativa da maggio a dicembre 2015, poi da aprile a novembre 2016. Dai dati di bilancio emerge che Medici senza frontiere per la missione di questa imbarcazione ha speso 5.238.422 euro nel 2016, il 29 per cento dei quali coperto con le donazioni in dichiarazione dei redditi. Il 17 agosto 2016 è stata oggetto di un attentato mentre si trovava in acque internazionali a nord della costa libica: un motoscafo non identificato si è avvicinato con uomini a bordo che hanno iniziato a sparare in direzione della nave. Il mese prima, il 10 luglio, l'imbarcazione si era spinta fino a 12 miglia dalla costa. Dopo l'incidente è rimasta ferma per un periodo in Sicilia, attualmente è attraccata in Egitto. La nave Vos Prudence è entrata in azione il 21 marzo 2017, dopo aver lasciato il porto maltese di La Valletta. L'imbarcazione si è spinta molto a ridosso delle coste libiche, a 17 miglia circa, nelle giornate del 26 marzo, 1-2 aprile, 14 aprile, 19 aprile, 1-3 maggio.

Il 7 maggio ha passato il confine ed è arrivata fino a 8 miglia dalla Libia. Infine c'è Acquarius, barca gestita in collaborazione con Sos Mediterranéé (Ong fondata dal capitano della marina mercantile tedesca Klaus Foegel), che ha speso la media di 11 mila euro al giorno a partire dall'aprile dell'anno scorso. Acquarius è l'unica che opera anche durante la stagione invernale, e nel 2016 ha fatto registrare un costo complessivo di 4 milioni di euro. In alcune occasioni si è spinta fino a circa 12 miglia marine dalla costa libica: il 5 maggio di quest'anno, il 5 luglio e il 21 agosto 2016. L'inchiesta condotta dalla Procura di Trapani avrebbe accertato non soltanto l'anomalia di viaggi a ridosso delle coste libiche, in alcuni casi senza alcuna chiamata, ma starebbe valutando anche la consistenza investigativa di contatti tra personale della nave e soggetti situati sulla terraferma in Libia, la cui identità è in corso di approfondimento perché si ipotizza possano essere addirittura dei volontari della stessa organizzazione operanti nel Paese africano.

Poi si cerca di tracciare movimenti e origine dei finanziamenti. Nel 2016 Medici senza frontiere ha raccolto 38 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti oltre 9,7 dalle donazioni attraverso le dichiarazioni dei redditi, e 3,3 da agenzie e fondazioni come quella di George Soros, il filantropo con la passione per la geopolitica che combina guai.

Quell'armata buonista che invece dei disperati protegge i trafficanti. Da Saviano alla Boldrini: pur di schierarsi con il migrante si mettono contro chi, finalmente, combatte i criminali, scrive Gian Micalessin, Domenica 6/08/2017, su "Il Giornale". C'era una volta la Sinistra. Oggi - come dimostra la difesa di Ong e, implicitamente, dei trafficanti di uomini - è un gruppuscolo talebano affascinato dallo «scafismo umanitario», ma estraneo a realtà e buon senso. Purtroppo la galassia ideologica - da cui tracimano gli articoli di Roberto Saviano, le geremiadi di Laura Boldrini o le invocazioni di Emergency - continua ad affascinare milioni di svagati «Ecce Bombo» italiani figli di un paese dove scuole, università e media sono stati per 50 anni monopolio della sinistra. E così la tribù perduta degli «Ecce Bombo» pur di difendere lo «scafismo umanitario» arriva a lapidare un ex comunista come il ministro dell'Interno Marco Minniti colpevole di difendere l'interesse nazionale anziché vuote ideologie. Ma partiamo dall'alto, ovvero da quella presidenza della Camera occupata da Laura Boldrini. Il 7 luglio scorso, intervistata da Repubblica, la signora si scaglia contro il codice delle Ong appena sottoposto ai ministri europei riuniti a Tallin. «Vedo spiega la Boldrini - una profonda mancanza di coraggio e di visione, pensare di arginare i flussi di migranti rendendo più problematici i soccorsi non è solo cinico ed eticamente inaccettabile, ma è anche una misura che non funziona. Non sarò mai abbastanza grata alle Ong per quello che stanno facendo». A un mese di distanza quelle parole suonano paradossali. E non solo perché l'Unione Europea condivide, per una volta, la mossa italiana, ma anche perché - come dimostrano le inchieste giudiziarie - l'attività di alcune Ong spazia fino alla collaborazione con i trafficanti di uomini. In campo culturale, chiamiamolo così, Roberto Saviano è la novella Diche, un Dio della giustizia inesorabile nel liquidare come Mafia quel che non gli aggrada. «Spesso scrive su Repubblica - è più facile attaccare chi combatte la mafia piuttosto del mafioso. Un paese al collasso economico e demografico ha l'esigenza di trovare altrove i colpevoli, i migranti sono il capro espiatorio perfetto». Le misure per regolamentare le Ong e la missione in Libia sono, insomma, solo specchietti per le allodole e non atti imprescindibili di fronte a quell'emergenza migranti vissuta sulla propria pelle da chiunque non abbia il privilegio di vivere sotto scorta e lontano, grazie a lauti diritti d'autore, dal fastidio delle plebi. Prigioniero di questa dimensione comoda, ma onirica Saviano dimentica la vera mafia, quella dei trafficanti di uomini. Una mafia che grazie alla collaborazione delle Ong - pronte a raccogliere i migranti dentro le acque libiche - incassa ogni anno, come rivelano i dossier della missione Eunavfor Med, dai 250 ai 300 milioni di euro. Il meglio del Saviano-pensiero è però la difesa del diritto di Msf di non far salire a bordo delle proprie navi agenti di polizia giudiziaria regolarmente armati. «A Mosul, ad Haiti, in Congo i soldati di qualsiasi esercito scrive - lasciano le armi fuori dai presidi di Msf. Invece il governo italiano vorrebbe portare agenti armati sulle navi». Al Saviano, prigioniero del proprio immaginario letterario, sfugge che i cosiddetti «soldati» costretti a lasciare i kalashnikov davanti agli ospedali di Msf sono ribelli armati, tagliagole jihadisti e gruppuscoli criminali. Gli agenti che il Viminale vuole far salire sulle navi di Msf sono invece rappresentanti di uno stato di diritto. Ed in quanto agenti di polizia giudiziaria non sono neanche attori del governo, ma collaboratori di quella magistratura rappresentanti, come un esperto di «mafie» dovrebbe sapere, di un potere diverso da quello esecutivo. Dulcis in fundo arriva Emergency, inesorabile nel definire un atto di guerra la missione contro i trafficanti di uomini. E non poteva essere diversamente. L'organizzazione fondata da Gino Strada è, infatti, la vera battistrada di quell'umanitarismo ideologico che spinge l'Ong tedesca Jugend Rettet a collaborare con i contrabbandieri di uomini pur di difendere il diritto di qualsiasi migrante, regolare o irregolare, a raggiungere l'Europa. Esattamente l'insegnamento impartito da Emergency in Afghanistan, dove Gino Strada e i suoi preferivano colloquiare con i talebani anziché con la Nato.

Gli scafisti ringraziano i cattocomunisti e Saviano. "Avvenire" e lo scrittore contro le toghe che indagano sui rapporti con le Ong, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 6/08/2017, su "Il Giornale". Proprio non ci stanno a provare ad arginare la tratta di esseri umani. La rivolta contro l'imposizione di regole - umanitarie ma pur sempre regole - per gli interventi di salvataggio in mare dei disperati che tentano l'attraversata dalle coste libiche a quelle italiane cresce di giorno in giorno. È la solita compagnia di giro della sinistra radical chic cattocomunista, in questo momento la migliore alleata delle mafie che prosperano sul losco traffico. Ieri è sceso in campo uno dei pezzi pregiati, il jolly da usare quando le altre carte non girano. Ha parlato Roberto Saviano in persona: io - ha detto il vate - sto dalla parte delle Ong, hanno il diritto di agire senza controlli perché sono neutrali. Da oggi, scommetto, tutti i gonzi diranno: visto? L'ha detto pure Saviano... Sia chiaro, ognuno può pensare e dire quello che vuole, ci mancherebbe altro. Ma proprio in base a questo principio mi permetto il seguente pensiero: e se Saviano fosse semplicemente un cretino? È solo un dubbio, una domanda accademica che al puro scopo provocatorio mi pongo per almeno due motivi. Il primo è che organizzazioni umanitarie «neutrali» si muovono esclusivamente in scenari di guerre dichiarate tra Stati diversi o tra bande all'interno dello stesso Stato. In questo caso, dall'altra parte del fronte non vedo uniformi, esattamente come nella «guerra» alla mafia, alla camorra, al terrorismo e alla criminalità comune, che infatti non prevede zone o uomini neutrali, tanto è vero che chiunque, medici e soccorritori compresi, ha il dovere di denunciare ciò che sa, collaborare con la giustizia e non intralciarla pena l'arresto per favoreggiamento. Saviano non vuole che si aumenti la probabilità che si arrestino - ed è la seconda domanda - gli scafisti. Perché? In base a quale principio umanitario noi dovremmo incentivare il traffico di esseri umani e arricchire le mafie che lo dirigono? Non c'è alcuna risposta logica, se non il caldo che gioca brutti scherzi. Ma forse non è questo il problema perché, a pensarci bene, Saviano dice cose cretine anche in pieno inverno. Quindi il problema è Saviano in sé, e tutti quelli che come lui non vogliono bene al nostro Paese e con la loro superbia non fanno che aumentarne i problemi. Una difesa però c'è: basta non ascoltarli.

Vittorio Feltri, la verità brutale sui volontari delle Ong: salvano migranti per diventare ricchi, scrive il 5 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". Lo sapevamo già, ma adesso è ufficiale: i finti buonisti delle organizzazioni non governative (ci mancherebbe solo che fossero governative) corrono a salvare i migranti in mare per arricchirsi. Infatti sono d' accordo con gli scafisti i quali porgono loro su un piatto d' argento migliaia di disperati, che poi vengono smerciati nel Belpaese a buon prezzo e consentono alla filiera dei malandrini sfruttatori di guadagnare somme rilevanti. D' altronde anche la bontà e la generosità non sono gratis. Le navi addette alla pesca dei fuggiaschi non si muovono per spirito di carità bensì in base a calcoli di convenienza. Gli africani non scappano da nessuna guerra, figuriamoci. Sono incoraggiati a venire qui da una martellante pubblicità. Le televisioni del Continente nero predicano ogni dì: andate in Italia, sarete accolti a braccia aperte, nutriti e coccolati, poco lavoro e tanti soldi. In effetti cantano: «non pago affitto, non faccio operaio, scopiamo fighe bianche». Evviva. Essi, ingenui per posa, partono investendo denaro per essere trasportati e quando giungono sulla penisola sono presi in consegna dalle cooperative, molte cattoliche, che incassano dallo Stato 35 euro per ogni individuo ospitato. Fate il conto. Dato che gli stranieri sono milioni ormai, ballano cifre spaventose. Se si calcola che solo 3 euro e mezzo sono destinati quotidianamente agli sfigati, e che il rimanente finisce in tasca ai citati buonisti, i quali forniscono baracche e una mensa che distribuisce pasta scotta, si tratta di un business pazzesco a cui gli affaristi travestiti da angeli non vogliono rinunciare. Non c' è nulla quanto le palanche che intenerisca i cuori dei bastardi che agiscono in nome di nobili sentimenti e per scopi terra terra. Questa, al di là di ogni ipocrisia usata per intenerire papa Bergoglio, è la cruda realtà. Dei profughi non interessa un cavolo a nessuno se non quale occasione ghiotta onde accumulare quattrini con irrisoria facilità. Il nostro governo di sinistra, non potendo scontentare i farabutti che si spacciano per anime candide, chiude entrambi gli occhi e asseconda le loro pretese di passare per samaritani pietosi. Il risultato è evidente. Il Paese è continuamente invaso da orde di ragazzoni provenienti dalla savana e il povero Minniti, ministro dell'Interno, si sbatte in solitudine per risolvere un problema che non è nemmeno un problema, bensì una tragedia. Sorvoliamo sulle vicende libiche che ci fanno venire l'orchite. Abbiamo contribuito a far secco Gheddafi in omaggio alle (gelide) primavere arabe, e ora ce ne pentiamo perché, eliminato il rais, le cose sono peggiorate. L' Italia è diventata una discarica africana gestita da gente incapace di prendere l'unica decisione seria, cioè simile a quella adottata da altre nazioni europee: chiudere le frontiere, mandando al diavolo i pescatori di neri e dicendo apertis verbis che dal primo di ottobre eviteremo di salvare alcuno per mancanza di mezzi e di spazio dove accoglierlo. Avanti di questo passo saremo una dépendance dell'Africa. Fessi noi che stiamo al perfido gioco dei negrieri da superattico. Vittorio Feltri

Famiglia Cristiana: "Manovre occulte di Defend Europe sull'indagine Iuventa". La nave C-Star noleggiata dall'organizzazione di estrema destra Generazione identitaria. Ci sarebbe un collegamento tra l'organizzazione di estrema destra e il sequestro della nave della Ong tedesca Jugend Rettett. Il leader della Lega Salvini attacca Saviano: "Gode dei 600mila clandestini sbarcati, di scafisti, mafiosi e terroristi arricchiti". Msf: "Nessuna comunicazione dalla Procura, dai media vecchie accuse", scrive il 5 agosto 2017 "La Repubblica". Spunta un collegamento tra le attività dell'organizzazione di estrema destra Defend Europe contro i migranti e il sequestro della nave Iuventa della Ong tedesca Jugend Rettett, avvenuta il 2 agosto su ordine della procura di Trapani. Collegamento che - ricostruisce Famiglia Cristiana - prende due nomi e due volti specifici, quelli di Cristian Ricci e Gian Marco Concas. Il primo è alla guida della società di sicurezza privata Imi Security Service, ovvero il gruppo di mercenari che ha denunciato le 'anomalie' della nave Iuventa, facendo aprire il fascicolo della Procura di Trapani. Concas ("inserito nel gruppo social ufficiale della società" di Ricci) è, sempre secondo quanto ricostruisce il settimanale, un ex ufficiale della Marina militare e portavoce di Generazione identitaria, organizzazione multinazionale di estrema destra, francese, italiana e tedesca nata nel 2012, che appoggia l'iniziativa Defend Europe per "monitorare e denunciare l'attività illecita delle navi delle Ong" impegnate nel soccorso di migranti e "fermare i criminali che fanno affari con i trafficanti di uomini". L'Imi Security Service, scrive ancora Famiglia Cristiana, "nell'ottobre dello scorso anno inviò prima all'Aise (servizio segreto militare) e poi alla squadra mobile di Trapani la segnalazione sui movimenti 'sospetti' della nave dell'Ong tedesca. Il gruppo social della società non è aperto al pubblico, è collegato al sito web ufficiale della Imi e prevede l'approvazione della richiesta di iscrizione da parte degli amministratori. L'elenco degli iscritti è invece liberamente consultabile, e composto da diversi contractor, molti dei quali con esperienze militari attive nel curriculum. In sostanza si tratta dello stesso contesto di provenienza della società di mercenari inglese che ha fornito a Generazione identitaria la nave C-Star, ora in arrivo sulle coste libiche". Il Gip di Trapani, nelle carte dell'inchiesta sulla Iuventa (nave dell'ong tedesca Jugend Rettet) riporta il contenuto delle dichiarazioni di due contractor legati alla società Imi: "Montanino Lucio e Gallo Pietro, operatori a bordo della motonave Vos Hestia, assunti temporaneamente quali dipendenti dell'agenzia Imie le cui dichiarazioni hanno dato origine al presente procedimento penale...". Sono loro che per primi segnalano “talune anomalie del servizio della Iuventa. Lo fecero nel corso di un interrogatorio il 14 ottobre dello scorso anno. E da quel momento la Procura di Trapani inizia ad indagare sulla Iuventa. Ma intanto continua a tenere banco la decisione di alcune Ong di non firmare il codice di condotta voluto dal ministro Minniti. Tra queste organizzazione c'è Medici senza frontiere, che oggi dalle pagine di Repubblica incassa la solidarietà di Roberto Saviano: "Io sto con Msf. Lo voglio dire ed esprimere chiaramente in un momento in cui sta avvenendo la più pericolosa delle dinamiche, ossia la criminalizzazione del gesto umanitario". Per lo scrittore "Medici Senza Frontiere (Premio Nobel per la Pace 1999) difende un principio fondamentale: la neutralità". E da Facebook arriva, durissimo, l'attacco del segretario della Lega Nord. "Il "signor" Saviano, difendendo le Ong accusate di lavorare con gli scafisti, definisce me e i miei post su Fb "aberranti e ridicoli" - scrive Matteo salvini sul social - Saviano gode dei 600.000 clandestini sbarcati, di scafisti, mafiosi e terroristi arricchiti, di un'Italia sempre più insicura? Più sono ricchi, più se ne fregano", dice il leader del Carroccio che lancia oltre all'hastag #stopinvasione uno nuovo: #barconepersaviano".

Medici senza frontiere (Msf) "non ha ricevuto alcuna comunicazione ufficiale dalla Procura di Trapani né da altre Procure in merito alla presunta inchiesta sulla nostra attività di ricerca e soccorso in mare", dice in una nota l'Ong che interviene sulle notizie secondo cui anche le sue operazioni sarebbero oggetto dell'inchiesta della Procura di Trapani che ha portato al sequestro della nava Iuventa della Ong tedesca Jugent Restet. "Vediamo oggi negli organi di stampa sembra rilanciare accuse che già ci erano state rivolte alcuni mesi fa, a cui non erano seguite altre azioni o informazioni, continua Medici senza frontiere, "Fin da allora ci siamo messi a disposizione delle Procure per fornire qualunque spiegazione richiesta su ogni nostra attività e ribadiamo questa totale disponibilità, insieme all'auspicio di avere indicazioni precise sugli episodi eventualmente contestati. Auspichiamo che venga chiarito al più presto ogni dubbio per porre fine a questo stillicidio di accuse che continua ad avvelenare il clima in una situazione sempre più cupa".

"Non abbiamo firmato il Codice di Condotta - conclude la nota di Medici senza frontiere - perché non conteneva elementi indispensabili per garantire l'efficacia dei soccorsi e i principi umanitari, ma ci siamo impegnati formalmente a rispettare la maggior parte degli impegni prescritti, continuando a operare nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali e sotto il coordinamento della Guardia Costiera Italiana, ribadendo l'apertura a un confronto costruttivo con tutte le autorità competenti. Nel frattempo le nostre navi sono in mare e anche in questi giorni hanno effettuato soccorsi, su richiesta e sotto il coordinamento della Guardia Costiera Italiana, come è sempre stato".

Intanto cresce la mobilitazione contro la C-Star, la cosiddetta 'nave nera': "Facciamo appello a tutti gli attori della società civile, a tutti i responsabili, a tutti i marittimi, i guardacoste, a tutti i portuali, a tutte le parti interessate in Tunisia, Algeria, Libia ed Egitto, affinché si oppongano all'arrivo della nave C-Star in uno dei nostri porti, a impedire che entri nelle nostre acque territoriali e a rifiutarsi di trattare o comunicare con il suo equipaggio", si legge in un comunicato del neonato "Collettivo contro la C-Star in Tunisia". Il Collettivo segue con puntualità e apprensione gli spostamenti della nave in questione, poiché è forte la probabilità che la stessa possa attraccare in uno dei porti tunisini nei prossimi giorni per fare rifornimento. "Riportare i migranti verso le coste libiche dove già molti di loro sono detenuti in condizioni disumane e ostacolare le attività delle Ong e le operazioni di soccorso, mettendo così a grave rischio chi si mette in viaggio e, naturalmente, assicurarsi una chiassosa campagna di comunicazione". Questi gli obiettivi di queste organizzazioni fasciste si legge ancora nel comunicato. "Rigiriamo contro di loro lo slogan dell'operazione "Defend Europe": che se tornino a casa, qui non sono i benvenuti! In Egitto, in Grecia e anche in Sicilia, gruppi di cittadini/e antirazzisti/e hanno già debellato i tentativi d'approdo della C-Star e ridicolizzato la sua propaganda. Si stanno avvicinando alle coste tunisine, allora facciamo la stessa cosa qui! "Defend Europe" - go home!" Con questo slogan, si conclude il comunicato del Collettivo.

ECCO L'ANIMA VERA (E NERA) DELLA C-STAR, LA NAVE ANTI MIGRANTI. La figura centrale delle operazioni a bordo della nave che vuole intercettare i migranti in mare e riportarli in Libia è Alexander Schleyer, ex sergente della marina tedesca. Scavando nel suo curriculum emergono collegamenti con gruppi neonazisti, negazionisti e con le posizioni apertamente xenofobe. A partire da una maglietta, con la bocca di uno squalo spalancata verso i migranti caduti in mare. La scritta mette i brividi: “Defend Lampedusa”..., scrive Andrea Palladino su "Famiglia Cristiana" il 28/07/2017 . Quella rete di mercenari dietro la nave anti migranti della destra europea. Una Santa Barbara galleggiante: cos'è una "floating armoury". Che cos'è e che cosa vuole il movimento Generazione Identitaria. Una maglietta, con la bocca di uno squalo spalancata. E una scritta, che fa venire i brividi: “Defend Lampedusa”. L'immagine è un simbolo che gira da almeno due anni nei social e nei siti di riferimento della destra identitaria, il network a capo dell'operazione “Defend Europe” e della nave C Star, ora di nuovo in viaggio verso le acque libiche. È riportata sul testo di un’interrogazione parlamentare presentata l'11 gennaio scorso dal deputato austriaco dei Verdi Harald Walser, su uno dei personaggi più tenebrosi e oscuri della rete di Generazione Identitaria. Un tedesco di Bonn, residente da tempo a Vienna, ex sottoufficiale della marina in servizio su una nave particolarissima, la Alster, utilizzata dall'intelligence di Berlino in operazioni di comunicazione. Si chiama Alexander Schleyer ed è uno dei componenti dell'equipaggio della C Star. È l'esperto di navigazione che rappresenta l'organizzazione sulla nave, ripartita ieri, dopo un sequestro e un'inchiesta delle autorità cipriote terminata con l'espulsione dell'equipaggio. L'ex sergente della marina tedesca Schleyer è la figura centrale dell'operazione anti-migranti. Il suo nome appare negli atti dell'inchiesta avviata dalle autorità di Cipro dopo il fermo della C Star, come ha potuto verificare Famiglia Cristiana attraverso fonti che chiedono l'anonimato. Ma già molto tempo prima della partenza dell'operazione “Defend Europe”, Alexander Schleyer stava creando molta preoccupazione in nord Europa. I verdi austriaci si sono allarmati quando hanno scoperto che era stato assunto come assistente parlamentare di Christian Höbart, deputato del partito nazionalista e della destra populista FPÖ. Scavando nel suo curriculum sono emersi tanti collegamenti con gruppi neonazisti, con la propaganda negazionista e posizioni apertamente xenofobe. Schleyer ha esperienza di navigazione. Quando ha lasciato la marina militare tedesca con il grado di sergente – secondo quanto riportano alcuni giornali tedeschi e una sua breve biografia disponibile online – è passato subito sui cargo mercantili. Sulla nave dell'intelligence Alster si occupava di comunicazione, ruolo strategico in operazioni di guerra elettronica. Quella fortezza galleggiante per anni è stata utilizzata da Berlino per captare segnali radio in tutto il Mediterraneo, puntando le antenne soprattutto verso i paesi dell'Est Europa. L'interrogazione parlamentare del deputato Walser riporta un lungo elenco di post e commenti di Schleyer sui social. Ma sono soprattutto le immagini a colpire. C'è la foto di una pistola, quelle dei post xenofobi e le immagini degli squali con la bocca spalancata sui migranti che nuotano. La retorica della missione “per monitorare le Ong” in questo caso cade, smascherando l'anima più profonda del movimento identitario. Una delle due immagini è riprodotta su magliette vendute online da un sito con un nome cupamente evocativo, antisem.it, che mette come contatto una casella postale di Dortmund. Sullo stesso sito sono venduti diversi materiali di propaganda, tra i quali adesivi con la scritta “Nazikiez”, ovvero quartiere o città nazista. Un modo per dire “questa zona è nostra”. L'inchiesta del deputato verde austriaco Walser mostra tutti gli elementi classici del neonazismo e neofascismo europeo. Vicinanza con noti personaggi revisionisti inclusi, come l'ex vescovo inglese Richard Nelson Williamson, ex membro della Fraternità sacerdotale San Pio X, oggi sospeso a divinis, noto per la sua posizione negazionista sulla Shoa. Schleyer è oggi legato al mondo delle confraternite universitarie austriache, gruppi spesso di ispirazione di estrema destra, rigorosamente tradizionalisti. È membro della “Akad. Corps Hansea zu Wien” (citato anche nel documento del parlamento tedesco), che organizza incontri con costumi tradizionali, scuole di scherma e riunioni politiche. Nella loro pagina Facebook tra le altre foto spicca la scritta “Gott mit uns”, il motto delle SS naziste. La C Star nel frattempo ha ripreso il viaggio. Direttamente da Ankara è arrivato a Cipro l'ordine di espellere i membri dell'equipaggio sotto inchiesta e la stessa nave. Per la missione della destra xenofoba europea è stata la migliore uscita possibile, un assist che ha permesso la partenza e la ripresa della battaglia di comunicazione sui social. Al momento la C Star non indica – come dovrebbe – la destinazione sui transponder, che ancora rilanciano lo status di nave “in attesa di ordini”. La prua punta a Ovest, verso la zona delle operazioni di salvataggio dei rifugiati. A Catania – dove la nave secondo Generazione identitaria sbarcherà – la preoccupazione delle reti antirazziste è forte. Qual è il vero volto di questa nuova destra? 

C-Star: la strana epopea della nave anti-migranti di Generazione Identitaria, scrive Rosa Uliassi l'1 agosto 2017 su "Libero Pensiero. A Catania la stavano aspettando tutti da giorni, pronti a dare battaglia: il sindaco, gli attivisti, le associazioni anti-razziste. Ma la C-Star di Generazione Identitaria ha cambiato rotta ancora prima di attraccare e ora punta dritto verso la Libia per iniziare la sua operazione anti-migranti. I militanti di Generazione Identitaria la chiamano «beffa di Catania». Per gli attivisti anti-razzisti è invece «una vittoria dell’anti-razzismo». Un fatto, per il momento, è certo: la C-Star, la nave di 40 metri promossa dal gruppo di ultradestra per difendere l’Europa da quella che definiscono «un’invasione pianificata su larga scala», non attraccherà a Catania. Lo ha annunciato Gian Marco Concas, esponente di punta del movimento, attraverso un video-comunicato apparso su Facebook. Affiancato da altri due attivisti di Generazione Identitaria, si fa beffa di coloro che hanno tentato di ostacolarli: «Quando caricheremo questo video avremo già imbarcato, o forse trasbordato, magari a 15 miglia di distanza, fuori dalla zona Schengen. Passandovi sotto il naso. E quindi voi restate pure lì sul molo, ad aspettare questo video. E poi questa faccenda potrete chiamarla la nostra piccola beffa: la beffa di Catania». Della «bella notizia», invece, festeggia la Rete Antirazzista Catanese, che considera il comunicato di Generazione Identitaria soltanto «un modo per cadere in piedi». Questa nuova mossa a sorpresa è stata preceduta da alcune dichiarazioni di Lorenzo Fiato, portavoce italiano del movimento, che, in una video-intervista del giorno precedente, aveva accennato a «pressioni politiche», per lo più da parte di «black block e attivisti di sinistra», ma anche «dalla polizia» e «dal governo italiano», facendo il nome del Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Pressioni che avevano reso Catania «un porto non più sicuro». Anche il sindaco catanese Enzo Bianco prometteva battaglia pur di impedire alla C-Star di attraccare nel porto della città, mentre altre 50 associazioni, tra cui Rete Antirazzista Catanese, il Comitato NoMuos/NoSigonella, la Comunità di Sant’Egidio e l’ARCI Catania, si erano mobilitate con una manifestazione di protesta, unite nel concordare che l’iniziativa fosse soltanto «una provocazione da parte di coloro che sono coinvolti, con il solo scopo di combattere il conflitto versando combustibile sul fuoco». Non c’è dubbio che il mancato approdo della C-Star sia l’ennesimo intoppo di una strana “epopea”, per il momento più tragi-comica che epica. Dopo essere salpata dalla Repubblica di Gibuti (Africa orientale) a inizio luglio, la nave era stata bloccata a Suez per sottoporsi ad alcuni controlli da parte delle autorità egiziane. Ripartita alla volta di Catania, aveva dichiarato di volersi dirigere verso Tunisi, ma poi per motivi ancora da chiarire aveva fatto rotta verso la parte turca dell’isola di Cipro, decisione insolita data la distanza dalla meta siciliana. Poi, presso il porto di Famagusta, l’arresto del comandante e del proprietario della nave con l’accusa di traffico degli esseri umani. Le autorità turche, infatti, avevano trovato a bordo della nave “migranti” illegali provenienti dallo Sri Lanka, che sostenevano di aver pagato migliaia di dollari per essere portati in Europa. Successivamente, i membri dell’equipaggio erano stati liberati per insufficienza di prove e la C-Star aveva finalmente ripreso il viaggio verso la sua Itaca siciliana. A quanto sembra, invece, da domenica c’è un nuovo cambio di programma: ora la C-Star procede a gonfie vele verso la Libia, pronta a dare avvio alla seconda parte della missione, che durerà trenta giorni e avrà l’obiettivo di «contattare la Guardia Costiera libica e il governo libico in modo da sviluppare una collaborazione con loro e lavorare con loro al fine di fermare l’immigrazione massiva e il lavoro che le ONG stanno svolgendo in maniera criminale nel mar Mediterraneo». Per Generazione Identitaria, infatti, sono le ONG le prime responsabili di ciò che sta accadendo in Europa: una «frattura etnica e sociale» che corrisponde a una vera e propria dichiarazione di guerra contro la globalizzazione. E loro, che con spirito più che “nostalgico” si auto-definiscono «gli eredi delle Termopili», sono pronti a rispondere alla chiamata per difendere le tradizioni europee ad ogni costo. Giovani, bianchi, nazionalisti, militareschi, anti-islam ed esclusivamente europeisti, dove l’esclusività si riferisce a una precisa visione dell’Europa: quella delle frontiere rigorosamente chiuse («frontiere chiuse, città sicure!») e dell’identità immutabile («non è italiano chi nasce qua, è italiano chi appartiene alla continuità di cui noi facciamo parte»), rivolta soltanto alle proprie “antiche tradizioni”, fondate «grazie a quelle battaglie che hanno difeso l’integrità culturale delle nazioni [europee ndr], le Termopili, Poitiers, Lepanto, l’Assedio di Vienna». Da qui, la decisione di recuperare la Lamda, simbolo che ornava lo scudo degli Spartani quando scendevano in battaglia per difendere la loro terra dalle minacce esterne. Oggi, c’è solo un modo per “Rendere l’Europa di nuovo grande”: combattere tutto ciò che è estraneo a questa «entità millenaria». L’immigrazione, l’integrazione, il multiculturalismo, il «meticciato imposto». Così, su questa linea, nasce il progetto Defend Europe, nel quale, dopo aver raccolto 170 mila euro di crowdfunding per l’affitto della C-Star, i militanti di Generazione Identitaria in veste di “guerrieri” anti-migranti prendono di mira le ONG, «nemiche dell’Europa» e prime responsabili di una presunta «grande sostituzione». Lo scopo dell’operazione è chiaro: impedire alle ONG di svolgere l’«azione criminale» di portare gruppi di migranti verso il primo porto sicuro, e agire in accordo con la Guardia Costiera Libica, oggi in mano alle milizie armate locali, per riportarli verso le coste della Libia, rischiando, tra l’altro, di trasformarsi in veri e propri criminali, in quanto il Paese nord-africano non è senz’altro quel “porto sicuro” dei diritti umani di cui parla il diritto internazionale.

Rosa Uliassi. Studentessa di filosofia a Bologna, appassionata di eno-gastronomia e di viaggi. Mi interessano le questioni legate ai diritti umani e alla tutela delle minoranze, nel loro manifestarsi all’interno dei diversi contesti storico-politici.

Cipro, bloccata nave di destra: "Ong hanno corrotto marinai”. Arrestati a Cipro il comandante della nave C-Star di Defende Europe e il suo vice. L'accusa: "Documenti falsi". La replica: "Le Ong hanno corrotto i marinai", scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 26/07/2017, su "Il Giornale". Dopo il rallentamento al canale di Suez, ora il blocco a Cipro. Quello della nave anti-Ongmessa in mare da Generazione Identitaria è un viaggio pieno di incognite, con controlli e sgambetti forse inattesi (e politicamente sospetti). Le agenzie di stampa scrivono che C-Star, il natante di 40 metri affittato per 60mila euro da Gi, è stata bloccato dalle autorità turco-cipriote e il capitano arrestato nel porto di Famagusta. "Non ci fermeranno", fanno sapere immediatamente gli attivisti di Defend Europe, la missione degli identitari italo-franco-tedeschi che ha l'obiettivo di raggiungere il mare della Libia per "bloccare l'immigrazione massiva". La C-Star era partita alcune settimane fa da Gibuti alla volta di Tripoli. Il primo inconveniente si era materializzato nel canale di Suez. Il passaggio della nave era stato rallentato dai controlli delle autorità egiziane, forse imbeccate dalle Ong che accusavano C-Star di portare armi a bordo. Armi che gli egiziani non hanno trovato. La navigazione era ricominciata in questi giorni e ieri sui suoi canali social Defend Europe aveva mostrato la posizione dell'imbarcazione al suo ingresso nel Mediterraneo. Diversi attivisti attendono l'arrivo di C-Star a Catania per partire verso il mar della Libia e ostacolare il lavoro delle imbarcazioni umanitarie. Oggi però una nuova interruzione. La nave è stata bloccata a Cipro: comandante e vice-comandante sarebbero stati arrestati con l'accusa di avere documenti falsi. "A bordo - scrivono gli attivisti - vi erano 20 apprendisti marinai. I suddetti hanno pagato per fare miglia su quella nave al fine di conseguire il loro diploma. Una banale pratica del tutto legale. Questi marinai dovevano inizialmente sbarcare in Egitto, ma non è stato possibile. Dunque hanno approfittato del fatto che la nave passasse a Cipro per lasciare la barca definitivamente e tornare a casa. Da cosa ci è stato riferito dall’aeroporto, gli apprendisti stavano per tornare nel proprio Paese d’origine quando delle ONG gli hanno offerto di restare in Europa e di richiedere asilo a Cipro facendo loro promesse e donandogli soldi. Quindici apprendisti hanno rifiutato, tornandosene a casa, mente altri cinque si sono fatti corrompere ed ora stanno costruendo false accuse contro il proprietario della nave. Queste pratiche scandalose confermano che le ONG sono pronte a qualsiasi cosa al fine di non permetterci di far luce sulla situazione nel Mediterraneo. Purtroppo queste manovre ritarderanno ulteriormente la partenza e l’arrivo della C-Star da Cipro, ma non ci tratterranno mai dal recarci nei pressi della costa Libica al fine di svolgere la nostra missione. Ricordiamo inoltre che metodi calunniatori e diffamanti di questo genere sono già stati utilizzati per impedire alla C-Star di passare il Canale di Suez. Tutte le accuse erano ovviamente false e la barca era stata solamente ritardata dal tempo che ci è voluto per dimostrare la falsità di tali e prevedibili calunnie. Noi vogliamo muoverci in accordo con la legge, attendere il risultato delle investigazioni e nel frattempo ci prenderemo il tempo necessario per far partire la missione nel migliore dei modi.”.

Cipro, rilasciata nave di destra: "Smentite le bufale delle Ong". La nave anti Ong della missione Defend Europe di Generazione Identitaria è stata rilasciata dalle autorità turco-cipriote. Cade l'accusa di "traffico di esseri umani", scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 28/07/2017, su "Il Giornale".  Non è solo una battaglia navale. Ma anche mediatica. Notizie, arresti, accuse, sfottò. La missione di Defend Europe ha attirato l'attenzione di molti, anche di chi sotto sotto spera che la nave anti Ong in viaggio verso la Libia possa arenarsi su qualche scoglio. Ieri Repubblica e altri quotidiani si erano catapultati a riportare la notizia dell'arresto a Cipro del comandante Tomas Egestrom e del vice-comandante di C Star, il natante di 40 metri affittato a 60mila euro da Generazione Identitaria. "Contrordine camerati, il capitano è stato arrestato", titolava Famiglia Cristiana, esultando al tintinnio delle manette. L'accusa che le autorità turco cipriote avevano rivolto al comandante era di "traffico di esseri umani", perché alcuni marinai (cinque su venti) dello Sri Lanka hanno chiesto asilo a Cipro. Questi sarebbero dovuti scendere a terra in Egitto dopo aver viaggiato come apprendisti marinai, ma C Star non aveva potuto approdare in Africa per problemi nella tabella di marcia. E così aveva fatto rotta verso Cipro, dove i venti tamil avrebbero dovuto prendere un aereo per tornare nel loro Paese. Per Generazione Identitaria sarebbero state le Ong a convincerli a chiedere asilo e accusare il comandante di C Star. Da qui le manette e l'indagine delle autorità cipriote. Già nel pomeriggio di ieri, però, i media locali riportavano la notizia secondo cui "nulla di illegale è stato trovato a bordo". E infatti comandante ed equipaggio sono stati rilasciati e la nave è già nel Mediterraneo e fa rotta verso Catania. "La crew della Cstar è stata appena rilasciata - scrive su Twitter Defend Europe - Le bugie e le Fake News delle Ong sono state smentite! Rotta verso Catania!".

Tunisia, a decine protestano contro la nave anti-Ong. A decine protestano nel porto di Zarzis (in Tunisia) contro la C-Star, la nave di Defend Euope e Generazione identitaria che pattuglia il Mediterraneo per fermare le Ong, scrive Giuseppe De Lorenzo, Domenica 06/08/2017, su "Il Giornale". In Tunisia la nave anti Ong non è ben vista. Come non lo era a Catania, a Suez, a Cipro e in Grecia. Nei giorni scorsi la C-Star di Generazione Identitaria era stata costretta a fermarsi al largo di Creta senza poter entrare in porto, dopo che le autorità locali avevano negato il diritto all'attracco. Tanto che i militanti erano dovuti salire a bordo affittando una piccola imbarcazione per raggiungere il natante di 40 metri che li attendeva al largo. E oggi alcune persone si sono radunate al porto di Zarsis, in Tunisia, per protestare a loro volta contro l'arrivo in Africa della C Star. La nave anti Ong sta trovando più difficoltà ad entrare nei porti delle imbarcazioni cariche di clandestini. Paradosso di un'Europa è una politica internazionale che combatte chi si oppone alle azioni illegali del traffico di esseri umani. Proveniente dalle vicine coste libiche, la nave C-Star è arrivata al porto della città meridionale di Zarzis dove sindacalisti, militanti, pescatori e lavoratori portuali si erano mobilitati per impedirne l'entrata nel porto. Secondo il leader del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali Romdhane Ben Amor, quando hanno avvertito la mobilitazione a terra, gli uomini a bordo della C-Star si sono allontanati dal porto, probabilmente con l'intenzione di attraccare all'isola turistica di Gerba o nella città industriale di Sfax. Qualcosa di simile era successo a Catania, dove la Rete Antirazzista si era organizzata per impedire l'ingresso in porto degli Identitaria ma poi è stata beffata dalla scelta di Defend Europe di fare rotta su Creta. Intanto sul profilo Facebook i militanti di Generazione Identitaria fanno sapere di "desiderare per l'Europa una politica in stile "NO WAY" australiano": "Fin dal 2013 - spiegano - l'Australia ha implementato una chiara e rigida politica in tema d'immigrazione. Le imbarcazioni che trasportano i clandestini vengono sistematicamente intercettate, e i loro occupanti vengono dirottati verso la Papua Nuova Guinea, o verso le altre isole circostanti, dove sono liberi di fare richiesta d'asilo. Le imbarcazioni dei trafficanti vengono distrutte, e i loro proprietari perseguiti legalmente. Si attuano estese campagne informative in più lingue, per avvertire i potenziali "migranti" che qualsiasi tentativo non avrà possibilità di successo. Grazie a questa politica, non vi sono più né morti in mare né immigrazione illegale". 

PAGANO SOLO GLI ONESTI.

"Perseguitano solo gli onesti, l'Italia è una giungla". Scrive Antonio Socci il 15 Luglio 2017 su “Libero Quotidiano”. Finalmente si alzano altre voci a denunciare il naufragio in corso della nave chiamata "Italia". Almeno per una volta non solo noi, famigerati "populisti", ma perfino il Corriere della sera si accorge che questo Paese - che era già alla deriva - sta andando a picco. Va in malora. Lo dimostrano anzitutto la Caporetto quotidiana delle nostre frontiere violate (ieri 5.000 nuovi arrivati) e i dati dell'economia come il debito pubblico che aumenta (a maggio nuovo record, 2.279 miliardi di euro), come i 4,7 milioni di italiani che vivono in povertà assoluta (8,4 milioni in povertà relativa), la pressione fiscale che soffoca la ripresa, la disoccupazione giovanile a livelli tragici e il pil che boccheggia. Ma il Corriere di ieri - grazie alla penna di Ernesto Galli della Loggia - rappresenta il disastro da un altro punto di vista: la vita quotidiana degli italiani. Iniziando la sua lucida diagnosi, Galli si chiede quale immagine di sé stia dando l'Italia in questi mesi estivi. Ed ecco la sua desolata risposta: «quella di un Paese in cui il governo e con lui tutti i pubblici poteri appaiono sul punto di perdere il controllo del territorio». Poi stila un triste elenco di fatti e fenomeni di questa estate italiana: «decine di incendiari spinti da interessi criminali mettono tranquillamente a fuoco vastissime zone della Penisola», senza che nessuno di loro venga individuato e arrestato. Periferie («soffocanti e orribili») della grandi città con i servizi «al collasso», dove al crepuscolo scatta una sorta di coprifuoco, dove i mezzi pubblici diventano luoghi pericolosi o dove interi caseggiati o quartieri sono «nelle mani di bande di malavitosi abituati a farla da padroni». O dove il cielo si riempie di fumi tossici perché c' è chi brucia indisturbato materiali inquinanti. Stazioni ferroviarie e treni locali che di notte diventano luoghi infrequentabili se non a proprio rischio. Quindi tante zone delle nostre città in mano allo «spaccio», con «risse continue specialmente fra immigrati». Ma anche i quartieri residenziali o centrali delle città - secondo Galli della Loggia - sono una terra di nessuno, di giorno per il suk di «merci contraffatte» allestito impunemente dagli abusivi, di notte per il dilagare di «movide notturne» che poi significa per eserciti di giovani «la licenza di fare ciò che vogliono». Del resto in gran parte delle città italiane - grazie alla politica «panem et circenses» delle amministrazioni locali - le notti stanno diventando «letteralmente invivibili». Galli poi fa anche degli esempi particolari: da Torino, col «commercio clandestino di alcool» sulle rive del Po organizzato da «rivenditori bengalesi», a Milano, dove - il centralissimo corso Como, per esempio - la sera diventa il teatro abituale dello smercio di droga o si assiste ad aggressioni da parte di «bande di maghrebini a caccia di orologi e portafogli». Per non dire del mercato della prostituzione, «spessissimo minorile» scrive Galli, e perlopiù «collegata alla tratta», che in Italia ha proporzioni senza paragoni con gli altri paesi europei. Queste sono solo alcune pennellate del quadro micidiale di Galli il quale interpella esplicitamente ministro degli Interni e magistratura.

Ma molte altre pennellate si potrebbero aggiungere (pensiamo al senso di debolezza dello Stato e di insicurezza che danno certe evasioni dal carcere o certi latitanti che si eclissano). Soprattutto bisognerebbe notare che di fronte a questa desolante assenza dello Stato che costringe gli italiani a sentirsi sempre più stranieri in patria, c' è poi da registrare una presenza dello Stato che diventa occhiuta, assillante, inflessibile e anche vessatoria nei confronti dei semplici cittadini. Gli esempi sono innumerevoli e sono cronaca quotidiana. Dalla multa (anche salata) per le mamme che, durante una festa, spalmano la marmellata sul pane ai bambini in violazione di non so quali norme per la sicurezza alimentare, alla multa per divieto di sosta inflitta all' operatrice ecologica che si era fermata per salvare la vita a un signore investito da uno scooter. Dalla multa al commerciante che ha riparato a sue spese un pezzo di acciottolato davanti al suo negozio (dopo averlo chiesto più volte, invano, al Comune), fino al verbale fatto a quel salumiere che offrì in regalo (quindi senza scontrino) un panino a un invalido indigente. Ormai - parafrasando il titolo di un noto film - potremmo dire che l'Italia non è più un paese per italiani. L' Italia è asfissiata leggi assurde (con una burocrazia spesso priva di buon senso). E soprattutto è da tempo in mano a classi dirigenti che non amano la loro patria (anzi, hanno orrore della parola "patria"), né servono il popolo che governano, visto che perlopiù considerano i cittadini dei "sudditi". L' Italia è vittima un po' dell'incapacità, un po' dell'ideologia. Così hanno umiliato e stravolto questo Paese, o hanno permesso che venisse stravolto, facendone una terra di nessuno. Antonio Socci

La realtà di un’Italia che sta scappando di mano. Per un numero crescente di cittadini il nostro Paese sta diventando un luogo sempre più difficilmente abitabile e che appare addirittura ostile, scrive Ernesto Galli della Loggia il 13 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". L’Italia è di chi se la vuol prendere, da noi chiunque può fare quello che vuole. E quasi sempre lo fa. Oggi, nei giorni di una torrida estate che sembra conferire a ogni cosa i colori e i calori di un non troppo metaforico inferno, questa è l’immagine che il nostro Paese da di sé. Quella di un Paese in cui il governo e con lui tutti i pubblici poteri appaiono sul punto di perdere il controllo del territorio. Sono parole pesanti, lo so, e non prive anche di precisi echi ideologici, ma a un certo punto bisogna convincersi che la realtà non è né di destra né di sinistra. È la realtà e basta. Una brutta realtà. Dalla Sicilia alla Calabria, alla Basilicata, a Napoli, decine di incendiari spinti da interessi criminali mettono tranquillamente a fuoco vastissime zone della Penisola. Da giorni, sotto la minaccia delle fiamme, città, paesi, centri turistici devono essere sgombrati precipitosamente senza che per ora si sappia di uno solo di questi delinquenti scoperto, arrestato e incriminato. Nelle periferie delle grandi città, in questa stagione ancora più soffocanti e orribili, dove i servizi sono perlopiù al collasso, può capitare benissimo — come capita a Roma — che dopo il tramonto sia virtualmente in vigore il coprifuoco, che viaggiare su un autobus la sera rappresenti un pericolo, che il cielo si copra per giorni e giorni dei fumi tossici dei materiali più inquinanti bruciati illegalmente; o — come capita a Milano — che interi caseggiati, interi gruppi di palazzi, e piazze e vie, siano di fatto nelle mani di bande di malavitosi abituati a farla da padroni. Dappertutto nelle periferie dei grandi centri urbani della Penisola regnano praticamente indisturbati lo spaccio, la prepotenza, le risse continue specialmente fra immigrati. In questa stagione più che mai le classi meno favorite della popolazione sentono la loro esistenza quotidiana abbandonata dai poteri pubblici in una vera e propria terra di nessuno. Le zone centrali e/o cosiddette residenziali non se la passano meglio. Sindaci pusillanimi e preoccupati solo dei loro interessi elettorali (percepiti peraltro con la miopia tipica di una classe di nani politici quali sono in larghissima maggioranza quelli di questi anni infausti) hanno lasciato dovunque dilagare le movide notturne: in pratica la licenza di fare ciò che vogliono rilasciata a coorti di giovani perlopiù desiderosi di ubriacarsi e di schiamazzare all’aperto, ma essendo sempre pronti alla rissa, al vandalismo, al gesto teppistico. Di fatto molte zone centrali (ma non solo) di un gran numero di città italiane stanno diventando di notte letteralmente invivibili. Ma sempre più spesso lo sono anche di giorno. Numerose strade del centro di Roma sono ridotte ad esempio a una sorta di suk con decine e decine di luride lenzuola stese per terra a mostrare impunemente le più varie merci contraffatte, mentre schiere di altri abusivi non si stancano di circondare dappresso i turisti con la loro mercanzia. Sempre a Roma può capitare che per tutta l’estate un club privato organizzi per i festini dei suoi soci illustri spettacoli di fuochi artificiali e di botti assordanti che si prolungano anche dopo la mezzanotte: il tutto a poche centinaia di metri dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri. A Torino, sui lungo Po e dintorni nulla e nessuno sembra in grado di fermare il commercio clandestino di alcool ad opera specialmente di rivenditori bengalesi, all’occasione protetti contro le forze dell’ordine dalla complicità omertosa della collettività dei loro clienti. A Milano, dopo una certa ora il centralissimo corso Como si tramuta da luogo di abituale rifornimento della droga in una specie di zona di caccia libera dove, come riportano le cronache, è altissima la probabilità di essere aggrediti da bande di maghrebini a caccia di orologi e portafogli. Sia a Roma che a Torino che a Milano e in altre decine di città d’Italia, poi, la prostituzione — spessissimo minorile, spessissimo collegata alla tratta e a reti criminali africane o est europee — occupa impunemente di notte le zone urbane che più le aggradano: un fenomeno che per vastità non trova paragone in nessun’altra città dell’Europa occidentale. Dappertutto infine, per dirne ancora una, specie dopo una certa ora le stazioni ferroviarie sono luoghi frequentabili solo a proprio rischio e pericolo, così come dappertutto o quasi le corse serali o notturne sui treni vicinali o regionali sono altamente sconsigliabili per le donne. La realtà, dicevo all’inizio, non è né di destra né di sinistra, è la realtà e basta. E la realtà odierna dell’Italia è questa: una realtà che sta scappando di mano. Di fronte alla quale viene da chiedersi se il ministro degli Interni — cui spetta principalmente l’onere di provvedere in prima persona nonché istruendo e sollecitando prefetti, questori ma anche i sindaci e i corpi di polizia urbana — viene da chiedersi, dicevo, se il ministro Minniti sia informato adeguatamente di questa grigia realtà capillarmente diffusa. Se egli si rende conto che agli occhi di un numero crescente di italiani il loro Paese sta diventando un luogo sempre più difficilmente abitabile, un luogo tale da apparire addirittura ostile. Se egli si rende conto che anche l’allarme che in tanti nostri concittadini suscitano le ondate di immigrati è enormemente accresciuto dalla loro percezione di questa precarietà ambientale che monta, dalla sensazione di un degrado dei contesti urbani prodotta da incontrollati fenomeni di illegalità. Se non gli venga il sospetto, infine, al nostro Ministro, che pure la difficoltà dell’Italia di farsi ascoltare quando si tratta d’immigrazione, di farsi prendere sul serio dai suoi partner europei, forse dipenda per l’appunto dalla sua immagine di un Paese che, si sa, è abituato al disordine, al tirare a campare, alla prassi di un comando della legge sempre elastico e contrattabile. Ma non basta. Di fronte all’Italia così malmessa di oggi è pure inevitabile chiedersi quale sia stata l’azione della magistratura. Se essa sia stata effettivamente all’altezza del suo compito di tutela giuridica della comunità tutte le volte, ad esempio — le non poche volte, direi — che è parsa indulgere a interpretazioni dei delitti e delle pene ottimisticamente irreali. Una magistratura che prontissima e ferratissima nel criticare l’azione legislativa dell’esecutivo quando si tratta di quella che essa ritiene la propria sfera d’interessi e di prerogative, è viceversa timidissima quando si tratta di proporre, lei, leggi o procedure efficaci per difendere gli interessi elementari dei cittadini.

Condanna e multa milionaria. Ma gli scafisti non pagheranno, scrive Domenica 16/07/2017 "Il Giornale". Condanna esemplare per il tunisino Makki Hanshfasar, accusato di essere lo scafista di un barcone che nel 2015 trasportò dalla Libia in Sicilia un gruppo di 750 immigrati. La Quarta sezione del tribunale di Palermo, in accoglimento della richiesta dei pm Geri Ferrara, Alessia Sinatra e Claudio Camilleri, lo ha condannato a 8 anni e mezzo di carcere e al pagamento di una maxi multa di 18,7 milioni di euro, ossia 25mila euro per immigrato trasportato sul barcone della speranza. Si tratta di una cifra record tra quelle ingenti che dovrebbero pagare i caronte condannati. Ma, alla fine, chi pagherà? Neanche a dirlo. Nessuno sborserà nulla. Basti pensare che in genere lo scafista è arruolato tra le fila degli aspiranti viaggiatori tra quelli che hanno qualche nozione di mare e si mette al timone in cambio della traversata gratis e talvolta di una ricompensa minima. Gli scafisti che in questi anni sono stati condannati, dunque, non possiedono le cifre ingenti che dovrebbero pagare secondo sentenza. In fondo non sono loro a far soldi con l'incessante business della tratta di esseri umani, ma le consorterie criminali che si occupano dell'organizzazione dei viaggi, dalla detenzione nelle «safe house» in Libia, in attesa del pagamento del riscatto da parte delle famiglie, al viaggio vero e proprio. Ma c'è di più. Perché talvolta subiamo anche la beffa di dovere accompagnare alla frontiera, e dunque di dovere pagare, per chi è stato condannato. È accaduto, tanto per citare un esempio, nel 2015, quando, dopo la condanna nel febbraio a Salerno per due scafisti a un anno e 8 mesi di reclusione su patteggiamento e a un milione e 400mila euro di multa, i due sono stati scarcerati ed espatriati a spese degli italiani, accompagnati alla frontiera per scontare la pena nel Paese d'origine. Ed è anche accaduto di ritrovarsi le stesse persone condannate ed espatriate al timone di qualche altro barcone, carpendo al volo la prima occasione utile per rimettere piede in Italia. La Quarta sezione penale di Palermo ha emesso un'altra condanna nei confronti di Hassan Mamhud e Magdy Ahmed a 7 anni e 6 mesi di reclusione, oltre a una multa da 8,5 milioni di euro a testa. Una volta scontata la condanna, saranno espulsi dall'Italia. Sono accusati di essere stati al comando di un natante con 350 passeggeri salpato da Alessandria d'Egitto.

CHI SONO GLI IMMIGRATI?

L'esperta di Africa smonta le balle di Boldrini e Ong: "Ecco chi sono davvero gli immigrati che vengono in Italia", scrive Alessandro Giorgiutti il 7 Agosto 2017 su "Libero Quotidiano". Tracciare l'identikit dell'immigrato che arriva in Italia attraverso il Mediterraneo vuol dire confutare parecchi luoghi comuni. Ha i titoli (e il coraggio) per farlo Anna Bono, dodici anni di studi e ricerche passati in Kenya, già docente di Storia e Istituzioni dell'Africa all'Università degli Studi di Torino, recente autrice del saggio Migranti!? Migranti!? Migranti!? edito dalla friulana Segno.

Da dove partono gli immigrati che sbarcano nel nostro Paese? 

«Soprattutto dall'Africa subsahariana, in particolare dall'Africa Occidentale. Nigeria in testa, seguita da Senegal, Ghana, Camerun e Gambia. Africa a parte, un numero consistente viene da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan. Siriani e iracheni in fuga dalla guerra sono una minoranza». 

Si può farne un ritratto? 

«Quasi il 90% sono maschi, hanno perlopiù dai 18 ai 34 anni, con una percentuale importante di minorenni (stando almeno alle dichiarazioni al momento dell'arrivo). E viaggiano da soli. Pochissime sono le famiglie, a differenza di quanto accade per siriani e iracheni». 

Quali sono le loro condizioni economiche? 

«Per affrontare un viaggio clandestino - clandestino, va precisato, dalla partenza all'arrivo, e non soltanto nell'ultimo tratto via mare - bisogna affidarsi ai trafficanti. I costi sono elevati, nell'ordine delle migliaia di dollari. Ecco perché a partire sono persone del ceto medio (ormai più o meno un terzo della popolazione africana) con un reddito discreto». 

Ma se hanno un reddito discreto perché partono? 

«In Africa c'è una percentuale di popolazione giovane convinta che l'Occidente è talmente ricco che basta arrivarci per fare fortuna». 

E non li frenano i rischi del viaggio, la paura di morire prima di arrivare a destinazione? 

«Non so quanto sia chiara in Africa la consapevolezza di questi rischi. E in effetti un modo per diradare il flusso di partenze sarebbe promuovere campagne informative in loco sui pericoli e i costi del viaggio, e su cosa ci si deve aspettare una volta arrivati in Europa, in termini di disoccupazione giovanile e reali opportunità d' impiego. C'era un senegalese che aveva una mandria di mucche e dei tori. Tutto sommato una buona posizione. Ha venduto tutto per venire in Europa ed è morto in mare. Ma se anche ce l'avesse fatta, uno come lui, un semplice possidente, senza esperienze lavorative e senza conoscere la lingua, quale lavoro avrebbe potuto fare?». 

Chi dà queste informazioni sbagliate sull'Europa? 

«C'è un'immagine positiva dell'Europa veicolata dai mass media. Ma pesano anche altri fattori. Gli europei, agli occhi dell'africano medio, sono tutti ricchi. L'europeo è il turista che frequenta alberghi di lusso, oppure il dipendente dell'azienda occidentale che frequenta buoni ristoranti, ha una bella casa, l'automobile, magari l'autista. C'è poi un altro elemento. Da decenni in Africa arriva dall'Occidente di tutto: medicine, cibo, vestiti. Le Ong scavano pozzi e costruiscono (ottimi) ospedali. Tutto gratis. Questo contribuisce all'idea di una prosperità senza limiti dell'Occidente. Per concludere, c'è il ruolo dei trafficanti, che per alimentare il loro business hanno tutto l'interesse ad illudere le persone sul futuro roseo che troveranno in Europa». 

Non esiste una controinformazione? 

«In Mali dal 2014 il governo tenta una campagna di sensibilizzazione, anche con cartelloni nelle città, per far capire ai giovani che l'emigrazione non è una soluzione. Altri governi fanno lo stesso. E le conferenze episcopali locali organizzano incontri con i ragazzi per dissuaderli dal partire, presentando le testimonianze di chi è tornato indietro. Un lavoro non semplice, ma i governi europei potrebbero collaborare, magari promuovendo spot o finanziando alcune iniziative. Anche se poi, se un giovane si mette in testa di partire. Lo scorso settembre è partita dal Gambia una ragazzina di 19 anni: era il portiere della nazionale femminile di calcio. È annegata nel Mediterraneo. Chi la conosceva era sconvolto: quella giovane donna aveva realizzato in patria il sogno di molte ragazzine, eppure se ne era andata lo stesso, senza dir niente a nessuno. Sempre dal Gambia, a novembre è partito un famoso wrestler. Anche lui è morto in mare. Eppure guadagnava bene, e aveva ammiratori anche fuori confine, in Senegal. Si vede che qualcuno gli avrà messo in testa che, se in Gambia era famoso, in Europa sarebbe diventato milionario». 

Le istituzioni internazionali vedono un'economia africana in forte crescita. 

«Da oltre vent'anni il Pil continentale cresce a medie altissime. Nel 2017 la crescita media sarà del 2,6%. Grazie al petrolio, l'Angola ha conosciuto picchi del 17% e vanta un record di crescita del Pil tra il 2003 e il 2013 di quasi il 150%. Ma la crescita economica di per sé non coincide con lo sviluppo. Scarseggiano ancora gli investimenti in settori produttivi, infrastrutture, servizi». 

Cosa frena lo sviluppo? 

«Prima di tutto la corruzione, presente a tutti i livelli sociali, non solo al vertice, che fa sprecare risorse enormi. Pensi che nel 2014 in Nigeria l'ente petrolifero nazionale avrebbe dovuto incassare 77 miliardi di dollari, invece ne ha incassati solo 60. I governi, inoltre, hanno puntato per convenienza politica su una crescita eccessiva del settore pubblico. A tutto questo si accompagna il tribalismo, altro freno allo sviluppo». 

È giusto dire «aiutiamoli a casa loro»? 

«Ma l'Occidente già lo fa: da decenni trasferisce grandi risorse finanziarie, umane e tecnologiche in Africa. Gli aiuti alla cooperazione internazionale nel 2015 hanno toccato i 135 miliardi di dollari. Ma la Banca Mondiale qualche anno fa, parlando della Somalia, aveva calcolato che su ogni 10 dollari consegnati alle istituzioni governative, 7 non arrivavano a destinazione». 

Abbiamo parlato della maggioranza degli immigrati. C' è poi la minoranza di chi fugge da guerre e dittature. 

«Su 123 mila domande di status di rifugiato nel 2016 ne sono state accolte 4.940». 

Da dove arrivano? 

«Dalla Somalia, in preda alla guerra civile. Dall'Eritrea, dove c'è una delle dittature peggiori del pianeta. Un po' dal Sudan. Ma in realtà dalle zone più in difficoltà non arrivano tante persone. Dal Sudan del Sud, in guerra dal 2013, arrivano in pochissimi. Dalla Repubblica Centrafricana e dalla Repubblica Democratica del Congo non arriva praticamente nessuno. Quanto alla Nigeria, gli immigrati partono dal Sud, dove non ci sono pericoli, e solo pochissimi dal Nord Est, dove imperversa Boko Haram». 

Come si spiega? 

«La maggior parte dei profughi non vuole allontanarsi troppo da casa, dove spera di tornare. Chi fugge dalla guerra in Somalia, per esempio, si sposta in Kenya o in Etiopia, e ci pensa bene prima di allontanarsi di più. Insistere sulla integrazione dei rifugiati significa dimenticare che chi scappa dalle bombe chiede una protezione temporanea. Centinaia di migliaia di profughi iracheni e siriani stanno tornando o sono già tornati alle loro case. Emblematico il caso di Mosul: non era ancora stata liberata del tutto dall'Isis, gli abitanti scappavano ancora da alcuni quartieri, ma già nelle aree sicure rientravano alcuni sfollati». 

La sorprendono le notizie sulle complicità Ong-scafisti? 

«Per niente. La prassi era nota da mesi. Indicativa è la qualità dei nuovi gommoni usati dagli scafisti: dovendo fare un percorso molto più breve di un tempo, si usa materiale di pessima qualità proveniente dalla Cina. Dopo il trasbordo degli immigrati, il gommone viene gettato via. Si conserva solo il motore, che poi si usa per altri gommoni».

Chi sono gli immigrati? Quelli descritti dai comunisti e dal Papa? Quelli descritti dai populisti? Diamo voce ad entrambi per darci una risposta.

Dodici No Ai Luoghi Comuni Sugli Immigrati. Il favoloso dodecalogo delle cazzate sugli immigrati, scrive Ettore Ferrini il 14 luglio 2017 su “Ultima Voce".

No, gli immigrati clandestini non vengono in Italia “coi barconi”, solo il 12% dei migranti clandestini viene via mare; il 73% via aerea, il 15% via terra.

No, non sono tutti clandestini. Gli stranieri in Italia sono 5 milioni e mezzo e si calcola che solo 300.000 siano irregolari.

No, non li manteniamo noi, anzi casomai è vero il contrario. Gli immigrati contribuiscono al Pil italiano per l’11%mentre lo Stato stanzia per loro meno del 3% dell’intera spesa sociale. L’età media dei lavoratori non italiani è 31 anni, mentre quella degli italiani 44 anni, questo significa letteralmente che ci stanno pagando le pensioni.

No, non c’è nessuna correlazione con la criminalità. In dieci anni la presenza di stranieri in italia è aumentata del 250% eppure la delinquenza è invariata.

No, non serve fuggire da una guerra per avere diritto d’asilo, è sufficiente scappare da un regime, infatti i Paesi di origine più rappresentati sono l’Eritrea e la Somalia, in questi paesi l’aspettativa di vita oscilla fra i 50 e i 60 anni.

No, non è vero che vengono tutti in Italia, i paesi che ne ospitano di più sono nell’ordine: il Regno Unito, la Germania e la Spagna. Il rapporto fra popolazione e rifugiati in Italia è dell’1,2%, in Svezia è dell’11,5%

No, non li stiamo neanche aiutando a casa loro, nella legge di bilancio 2017 (fatta da Renzi, il tizio che “accoglierli sarebbe un disastro etico, vanno aiutati a casa loro”) quelli che dovrebbero essere i fondi destinati alla cooperazione e allo sviluppo, vanno per metà all’accoglienza e alla gestione dei migranti, quindi quei soldi restano in Italia.

No, non ci rubano le case: in nessun criterio di assegnazione delle case popolari può comparire la nazionalità, inoltre essendo perlopiù giovani e senza familiari a carico al limite sono svantaggiati.

No, se vai “a casa loro” le chiese ci sono eccome. In Marocco i cattolici sono meno dello 0,1% della popolazione eppure ci sono 3 cattedrali e 78 chiese. Ci sono 32 cattedrali in Indonesia, 7 in Senegal, 5 in Egitto, 4 cattedrali e 2 basiliche in Turchia, 4 cattedrali in Bosnia, 3 monasteri in Siria, 7 cattedrali in Pakistan e perfino una cattedrale negli Emirati Arabi.

No, non sono loro a portare malattie, ma casomai rischiano di contrarle visto che l’Italia, su tetano, pertosse e difterite, ha una copertura vaccinale del 93%, mentre in Ruanda e Tanzania è al 98%.

No, non sono tutti islamici, al primo posto fra gli stranieri presenti ci sono i rumeni che sono oltre un milione. I rumeni per la maggior parte sono ortodossi. In seconda posizione ci sono gli albanesi, quasi totalmente atei.

No, non bisogna difendere da loro le nostre donne (“nostre” una sega, fra l’altro), perché il 90% degli stupri avviene in famiglia.

Ora se non avete altre domande andatevene pure affanculo. Grazie.

Migranti, dieci bufale che alimentano il razzismo, scrive Gianfranco Mascia il 3 maggio 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Il mio post precedente ha sollevato un acceso dibattito tra i frequentatori di questo blog e sui social. (Per fortuna la sacrosanta politica de ilfattoquotidiano.it, che modera i commenti, ha evitato i toni più beceri che altrove hanno accompagnato questo tipo di riflessioni). Cosa dicevo sostanzialmente? Che noi italiani siamo un popolo di emigranti (nel passato e ancora oggi), che spesso non siamo stati accolti benissimo nei relativi paesi di destinazione, che purtroppo nelle traversate dalla fine dell’ottocento fino alla metà del novecento sono morti migliaia di italiani, che capitani e armatori si comportavano spesso da veri delinquenti. E proponevo che questa parte della storia venisse insegnata ai nostri figli a scuola. Noto con piacere che le condivisioni in rete e gli apprezzamenti al mio articolo precedente sono stati superiori ai commenti “di pancia”. Ho letto puntualmente ogni critica.  Per questo ho pensato che fosse giusto preparare queste prime 5 risposte alle 5 bufale dei lettori più accaniti nei confronti dei clandestini (seguiranno le altre 5). Con relativi link per poter approfondire.

1) Non si può confrontare l’immigrazione selvaggia di oggi con l’immigrazione degli italiani nelle Americhe. Gli italiani erano ben accetti. Se si conosce la storia degli Stati Uniti, si deve sapere che non è vero che quella civiltà era accogliente e ben disposta rispetto agli immigrati. “A partire dalla fine degli anni 1880, inizia un conflitto a livello del Congresso, che tende a limitare, contenere, respingere, espellere quegli immigrati, costruendoli sul piano sociale come “invasori” o “distruttori della cultura statunitense”, determinando allarme e preoccupazione, mettendo in movimento reazioni di tipo razzista.” Nel 1921 fu approvata una ulteriore restrizione, che limitava il flusso immigratorio da un paese al 3 % del numero complessivo della popolazione statunitense. E ancora “le leggi che vanno dal 1921 al 1924 segnano un drastico giro di vite, introducendo il sistema delle quote che limiterà gli sbarchi dai paesi “arretrati” dell’Europa sudorientale (italiani, slavi) oltre che di islamici ed ebrei.” (Fonte: Libro US Waste. Rifiuti e sprechi d’America. Una storia dal basso.)

2) L’America era una nazione che iniziava la sua crescita ed aveva territori immensi da trasformare. L’Italia di oggi è una nazione piccina super popolata. Infatti i migranti si dirigono in molti paesi europei. E l’Europa ha un’estensione territoriale maggior degli Usa (10.180.000 km² contro 9.857.306 km²). Solo il 10% dei migranti che sbarcano si ferma in Italia. Secondo i dati Eurostat relativi al 2014 un rifugiato su 3 ha chiesto di asilo in Germania, paese che ha ricevuto 202 mila richieste, pari al 32% del totale, seguita da Svezia con 81 mila (13%), Italia con 64.600 (10%), Francia 62mila (10%) e Ungheria 42mila (7%).

3) Noi non facevamo come i clandestini che rubano i servizi e le case destinati agli italiani. Questa è una bugia abbastanza diffusa. Peccato che non sia vero che gli stranieri siano privilegiati rispetto agli italiani, anzi. L’Osservatorio provinciale delle immigrazioni a Bologna ha stilato un dossier sull’abitare degli stranieri a Bologna e provincia” ed è emerso che a vedersi assegnare un alloggio, sono più spesso gli italiani rispetto agli stranieri, con il rapporto di 1 a 5 per le famiglie italiane e 1 a 10 fra gli stranieri che ne fanno richiesta. Ovviamente fra i criteri per l’assegnazione delle case popolari non compare la nazionalità. Gli immigrati di solito sono svantaggiati perché giovani, in buona salute e con piccoli gruppi famigliari (poiché non ricongiunti).

4) I nostri connazionali contribuivano alla crescita economica, mentre i clandestini sono a carico degli italiani. Il rapporto tra la spesa pubblica per l’immigrazione, da una parte, e i contributi previdenziali e le tasse pagate dagli immigrati, dall’altra, mostra che nel 2011 gli introiti dello Stato riconducibili agli immigrati sono stati pari a 13,3 miliardi di euro, mentre le uscite sostenute per loro sono state di 11,9 miliardi, con una differenza in positivo per il sistema paese di 1,4 miliardi. (Fonte: RAPPORTO UNAR)

5) Noi italiani paghiamo i clandestini 40 euro al giorno, uno schiaffo in faccia a chi muore di fame. La diaria giornaliera concessa ai migranti è di 2,5 euro. E’ questo il lusso? Il costo stimato per straniero che sbarca è di circa 35 euro al giorno. Questi soldi però non finiscono in tasca agli ospiti dei centri ma tornano in circolo nell’economia italiana perché vengono erogati alle cooperative, di cui i comuni si avvalgono per la gestione dell’accoglienza. E servono a coprire le spese per il vitto, l’alloggio, la pulizia dello stabile e la manutenzione. Una piccola quota copre anche i progetti di inserimento lavorativo.  (Fonte: Redattoresociale). Bisogna ricordare che sono soldi coperti dai fondi che ci vengono erogati dalla Unione Europea (ai quali noi contribuiamo in piccola parte): “per il periodo 2013-2020: con 310.355.777 di euro l’Italia è il secondo Paese con più alta remunerazione per quanto riguarda il fondo per l’asilo e l’integrazione degli stranieri (Amif)” Fonte: HuffingtonPost).

6) All’epoca dei nostri migranti molti italiani sono partiti, ma molti altri hanno resistito alla guerra, la fame e la dittatura. Non siamo in grado di dare asilo a milioni di profughi. A parte che non sono milioni ma, come abbiamo visto al punto 2, i profughi che nel 2014 hanno fatto domanda di asilo in Italia sono 64.600. Il paragone comunque non regge. Basta chiedere ai migranti libici, eritrei, siriani delle loro famiglie e dei loro amici trucidati. In Siria, ad esempio, in quattro anni di guerra si contano 215 mila morti di cui 66 mila civili. (Fonte: Repubblica) Tra l’altro la nostra costituzione all’articolo 10 stabilisce il diritto d’asilo in Italia allo straniero al quale nel suo Paese non è garantito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione.

7) I clandestini rubano il lavoro agli italiani. Gli stranieri non solo non hanno rubato posto agli italiani, ma hanno incentivato per loro un lavoro più qualificato. “La crescita della presenza straniera non si è riflessa in minori opportunità occupazionali per gli italiani”, è la Banca d’Italia a parlare. Secondo modelli econometrici e analisi dei dati statistici dei Paesi di riferimento è dimostrato “che persino un raddoppio dei flussi immigratori, al contrario di quanto ritengono in molti, non ha impatti significativi, a livello statistico, sui livelli di occupazione. Chi dunque teme che gli extracomunitari tolgano il lavoro agli italiani ha un falso timore. Non solo: analizzando 15 anni di immigrazione in Europa i due autori sono giunti alla conclusione che questa ha «spostato» i lavoratori nazionali verso lavori meno manuali e più qualificati e determinato un aumento medio delle buste paga pari allo 0,7%.” (Fonte: Corriere della Sera)

8) Ci stiamo facendoci invadere dai mussulmani. Gli immigrati italiani erano cattolici e andavano in paesi cattolici. Prova a costruire una chiesa nei loro paesi. Peccato che la maggioranza degli stranieri presenti in Italia sia cristiana e non musulmana. Questi sono i dati delle religioni tra gli stranieri: Musulmani 1.200.000; Cattolici 860.000; Altri cristiani 1.100.000; Altre confessioni (induisti, buddisti, sikh) 200.000; Atei 230.000; Non dichiarati 80.000. Quanto alla bufala delle chiese, nei paesi islamici i cristiani sono un numero molto esiguo, ma è comunque loro garantito un luogo di culto. Ancora una volta i dati sono eloquenti: ad esempio in Marocco i cattolici sono circa 27 mila, pari a meno dello 0,1%, su una popolazione di 33.757.750 abitanti. Il Marocco ospita 3 cattedrali e 78 chiese. Citando solo i principali paesi islamici, dove è il caso di ricordare che spesso i cristiani costituiscono una piccolissima minoranza: si contano trentadue cattedrali in Indonesia, una cattedrale in Tunisia, sette cattedrali in Senegal, cinque cattedrali in Egitto, quattro cattedrali e due basiliche in Turchia, quattro cattedrali in Bosnia, una cattedrale negli Emirati Arabi Uniti, sette cattedrali in Pakistan, sei cattedrali in Bangladesh. (Fonte: Dossier «Mandiamoli a casa» i luoghi comuni)

9) Non possiamo accogliere gli immigrati perché non siamo un paese multietnico. La loro presenza rovina le nostre scuole. Ma questo non è un vantaggio, anzi. E’ paradossale che il continente africano, dalla quale provengono la maggior parte dei clandestini, sia quello più multietnico e accogliente nei confronti degli stranieri del mondo. (Fonte: Washington Post). L’Italia, nonostante il suo passato di emigranti, inspiegabilmente non accetta di esserlo perché fa gioco ad alcuni settori politici alimentare la paura (inesistente) dell’invasione etnica.  “La multietnicità a scuola non è uno svantaggio, tutt’altro. La presenza di bambini stranieri a scuola deve essere considerata come un vantaggio e un punto di partenza per crescere insieme e per insegnare ai bambini a non essere razzisti e a saper convivere con altre culture. Inoltre statisticamente è dimostrato che le scuole con tanti studenti stranieri sono le migliori d’Italia.” (Fonte: Pianeta Mamma)

10) Il razzismo nasce perchè agli italiani restano i doveri e i diritti sono tutti dei migranti. Io invece credo che il razzismo nasca dalle semplificazioni e dal populismo. Quali sarebbero i diritti che verrebbero concessi ai migranti a discapito degli italiani. Il diritto di morire nei barconi? Il diritto di venire segregati in centri di accoglienza? Il diritto di vivere nei settori più poveri della società italiana? Il diritto a non avere cittadinanza neanche per i loro figli che nascono sul nostro suolo? La verità è che la stragrande maggioranza degli stranieri che sbarcano in Italia poi si dirigono in altri paesi europei dove gli vengono concessi diritti che qui da noi non trovano. (Fonte: Repubblica)

Ne ho scritte dieci, ma mi rendo conto che ne potrebbe servire solo una: basterebbe pensare da essere umani. Vedendo che se ci sono migliaia di persone che muoiono, la risposta non può essere tentare di giustificare la loro morte. Ma intervenire con umanità, solidarietà, leggi e tutele per far sì che da domani questo non accada più.

Dieci falsi miti sugli immigrati a cui i populisti vogliono farvi credere. “Portano le malattie, non scappano dalla guerra, sono trattati meglio degli italiani”. Ecco dieci leggende metropolitane sull'immigrazione, smontate una per una, scrive il 3 Aprile 2017 "TPI News". “Portano le malattie, non è vero che scappano dalla guerra, vengono trattati meglio degli italiani, ci rubano il lavoro”. Ecco alcuni dei falsi miti sui migranti che non fanno altro che alimentare la xenofobia, sia quella palese che quella strisciante. “Non sono razzista, ma…”, è la frase che nel migliore dei casi accompagna queste credenze, ormai entrate nell’immaginario collettivo. I social network sono il luogo per eccellenza in cui queste leggende non solo si creano, ma si propagano a macchia d’olio, condivisione dopo condivisione. E si sa, un titolone a effetto e la conseguente valanga di click, che fanno girare la macchina della pubblicità, sono specchietti per le allodole che in questo periodo storico stanno vivendo l’età dell’oro.  Medici senza frontiere ha raccolto le bufale più diffuse, le mezze verità e gli slogan populisti sull’immigrazione, provandoli a smentire e a contestualizzare.

1. “Lo Stato mette gli immigrati negli hotel di lusso e non si interessa degli italiani che soffrono”. Nei mesi scorsi si è spesso polemizzato contro i contributi per i migranti, in particolare dopo il terremoto nel centro Italia. Il populismo di certi politici ha cavalcato l’onda di un’indignazione che ha trovato la sua massima manifestazione nella frase: “Non è giusto che in Italia ci siano tanti disoccupati mentre ai profughi vengono dati 40 euro al giorno senza che facciano nulla”. Nella maggior parte dei casi le notizie di queste accoglienze dei richiedenti asilo in hotel a quattro stelle sono bufale montate ad arte, riprese e ricondivise sui social network senza alcuna cognizione di causa. In Italia le strutture di accoglienza sono articolate in centri di primo soccorso e accoglienza (Cpsa), centri di accoglienza (Cda), centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e centri di identificazione ed espulsione (Cie). E poi ci sono i centri di seconda accoglienza destinata ai richiedenti e ai titolari di protezione internazionale come gli Sprar. L’accoglienza in strutture ricettive come gli alberghi è gestita direttamente dal ministero degli Interni, attraverso una serie di rigidi bandi. Il costo medio per l’accoglienza di un richiedente asilo o rifugiato in Italia è di 35-40 euro al giorno, che non vengono dati direttamente ai migranti ma alle strutture di accoglienza, tranne due euro circa di diaria giornaliera, il cosiddetto pocket money. Questi soldi servono a coprire le spese per il vitto, l’alloggio, l’affitto e la pulizia dello stabile, gli stipendi dei lavoratori e altri progetti collaterali. Molti migranti non ricevono accoglienza e finiscono per alimentare la popolazione dei tanti insediamenti informali nati in tutta Italia, dove si vive ai margini della società. Sono almeno 10mila, secondo Medici senza frontiere i rifugiati (Msf) e i richiedenti asilo che vivono in condizioni degradanti. 

2. “I migranti portano le malattie”. “Nel corso di oltre dieci anni di attività mediche in Italia, Msf non ha memoria di un solo caso in cui la presenza di immigrati sul territorio sia stata causa di un’emergenza di salute pubblica”, scrive la Ong. Spesso, associate all’arrivo dei migranti, vengono citate malattie come tubercolosi, ebola e scabbia. La tubercolosi è presente in Italia da decenni, non ha a che fare con i flussi migratori. Per quanto riguarda l’epidemia dell’ebola, anche in questo caso non c’entra con i migranti. “Sono almeno 5.000 i chilometri da percorrere per arrivare alle coste del Nord Africa dai paesi dove si manifesta il virus ebola ed è impensabile percorrerli per via terrestre in meno dei 21 giorni che rappresentano il periodo d’incubazione della malattia”, scrive ancora Msf. “Il virus Ebola è molto letale e nella maggior parte dei casi provoca malattia sintomatica e poi morte nell’arco di pochi giorni dall’infezione”. La scabbia è una malattia della pelle ed è più facile contrarla in condizioni igieniche scarse. Si diffonde con contatti ravvicinati. Questa malattia è in Italia da sempre e il trattamento per curarla è semplicissimo, basta una pomata. Non è vero che dopo lo sbarco sulle coste italiane, i migranti non subiscono alcun controllo sanitario. Il ministero dell’Interno e il ministero della Salute attuano procedure di screening sanitario. Le condizioni precarie in cui vivono i migranti dopo il loro arrivo in Italia contribuiscono a esporli a diverse malattie, e il fatto di vivere ai margini della società rende loro più difficile accedere a cure mediche. In relazione ai casi di meningite in Toscana è intervenuto Roberto Burioni, professore ordinario di microbiologia e virologia al San Raffaele di Milano. “Una delle bugie che più mi infastidiscono è quella secondo la quale gli attuali casi di meningite sarebbero dovuti all’afflusso di migranti dal continente africano”, scrive sulla sua pagina Facebook Burioni. “In Europa i tipi predominanti di meningococco sono B e C, ed in particolare i recenti casi di cui si è occupata la cronaca sono stati dovuti al meningococco di tipo C; al contrario, in Africa i tipi di meningococco più diffusi sono A, W-135 ed X. Per cui è impossibile che gli immigrati abbiano qualcosa a che fare con l’aumento di meningiti in Toscana. Per cui chi racconta queste bugie è certamente un somaro ignorante”.

3. “Dovremmo aiutarli a casa loro”. Questa obiezione sembra facile a dirsi, e anche condivisibile per certi versi dal momento che sarebbe un mondo ideale quello in cui nessuno fosse costretto a lasciare la sua terra. Ma è del tutto fuori dalla realtà attuale. La guerra in Siria, paese dal quale proviene una consistente quota di migranti, è iniziata nel 2011 e non accenna a smettere, nonostante sforzi diplomatici, più o meno efficaci. “L’Unione Europea, invece di estendere la protezione e l’assistenza a chi ne ha più bisogno, sta concentrando la sua attenzione sulla deterrenza, l’esternalizzazione dei controlli di frontiera e il respingimento verso i paesi di origine o terzi”, scrive Medici senza frontiere. “Questo approccio inumano non impedirà alle persone di raggiungere l’Europa, ma aumenterà soltanto le reti di trafficanti, mettendo ancora più a rischio la vita di chi fugge. Il solo modo per far fronte a questa crisi umanitaria è garantire vie legali e sicure per raggiungere l’Europa, favorendo l’accesso al diritto di asilo e alle misure di ricongiungimento familiare, e allo stesso tempo migliorando le condizioni di accoglienza”. È impensabile risolvere da un giorno all’altro le crisi decennali in corso in Africa o in Asia e bloccare il flusso migratorio che si muove da quelle terre, spinto dalla forza inarrestabile della disperazione. Ancora una volta si tratta di propaganda populista che niente a che fare con la realtà geopolitica attuale.

4. “Sono troppi quelli che arrivano in Italia, è una vera invasione”. Non è vero. Non c’è alcuna emergenza né catastrofe in corso. Le statistiche ufficiali dicono che la maggior parte delle persone in fuga si sposta verso i paesi limitrofi al proprio. Il numero di siriani rifugiati in Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto ha superato i 5 milioni dall’inizio del conflitto in Siria nel 2011. A rivelarlo sono i dati diffusi dall’agenzia per i rifugiati della Nazioni Unite, l’Unhcr. Degli oltre 65 milioni di persone nel mondo costrette alla fuga nel 2015, ben l’86 per cento resta nelle regioni più povere del pianeta. Il 39 per cento si trova in Medio Oriente e Nord Africa, il 29 per cento in Africa, il 14 per cento in Asia e Pacifico, il 12 per cento nelle Americhe, solo il 6 per cento in Europa. Il numero dei rifugiati che sono ospitati nei paesi europei è pari a 1,8 milioni, mentre i richiedenti asilo sono circa 1 milione. In Italia si trovano 118mila rifugiati e 60mila richiedenti asilo. A livello globale, i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono nell’ordine la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,6 milioni) e il Libano (1,1, milioni). I dati non giustificano in alcun modo l’allarmismo.

5. “Hanno lo smartphone, non stanno poi così male”. “Quelle persone che fuggono dalla guerra non sono povere. Guarda, hanno tutti gli smartphone!”. Questa è la denuncia che ciclicamente ribolle sui social network. Possedere un telefono cellulare, a quanto pare, dovrebbe togliere a una persona il diritto di asilo politico e costringerla a morire, insieme alla famiglia, in guerra. Perché dovremmo essere sorpresi che queste persone, provenienti in larga parte dalla Siria, possiedano gli smartphone? La Siria non è un paese ricco ma non è nemmeno un paese povero. Secondo il report della World Bank si classifica come paese a “reddito medio-basso”. È difficile pensare a una cosa più utile di uno smartphone se si sta fuggendo di casa per raggiungere una meta sconosciuta e lontanissima. Anche perché oggi si può acquistare uno smartphone – dotato di telecamera, fotocamera e collegamento a internet – per meno di 100 dollari. Il succo del discorso è che chiunque, “persino” un rifugiato siriano, può permettersi di possedere uno smartphone. Quindi non c’è da motivo per essere sorpresi nel guardare quelle foto che ritraggono migranti alle prese con i loro cellulari.

6. “Rubano il lavoro agli italiani”. Davvero gli italiani sarebbero disposti a lavorare alle condizioni degradanti dei braccianti stranieri nei campi agricoli del sud Italia? Già questo servirebbe per porre fine al discorso. Eppure c’è dell’altro. Un recente rapporto del Centro Studi di Confindustria ha evidenziato gli effetti positivi dell’immigrazione sul mercato del lavoro italiano: al crescere dell’occupazione straniera, cresce anche l’occupazione italiana, sia nell’industria sia nelle costruzioni. Nei settori dell’agricoltura e dei servizi, gli immigrati spesso svolgono mansioni che gli italiani non sarebbero comunque disponibili a svolgere, al punto che molte attività agricole devono la loro sopravvivenza alla disponibilità di manodopera straniera. I dati più recenti del ministero del Lavoro evidenziano come tra i lavoratori stranieri sia maggiore lo squilibrio tra livello d’istruzione e impiego svolto: solo l’1,3 per cento dei lavoratori italiani con laurea svolge un lavoro manuale non qualificato, mentre questa percentuale si alza all’8,4 per cento nel caso dei lavoratori extra-comunitari. Anche la finanza pubblica gode per la presenza di lavoratori immigrati, che rappresentano una ricchezza secondo quanto rilevato dall’Inps. Ogni anno gli immigrati versano 8 miliardi di euro di contributi sociali, e ne ricevono tre in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa 5 miliardi. Secondo i calcoli dell’Istituto, gli immigrati hanno finora “donato” al nostro paese circa un punto di Pil di contributi sociali, spiega Medici senza Frontiere. Il tasto dolente rimane lo sfruttamento dei braccianti stranieri nelle regioni del Sud Italia, per i quali niente è stato fatto, come denuncia Medici senza frontiere, secondo cui i migranti sono costretti a subire condizioni degradanti rispetto agli italiani per la loro situazione estremamente precaria che li rende ricattabili.

7. “Non è vero che scappano dalla guerra”. Non vi è una divisione in compartimenti stagni tra i motivi che spingono un uomo e una donna a fuggire dai loro paesi. I motivi sono diversi e spesso correlati tra loro: guerre (Siria, Iraq, Nigeria, Afghanistan, Sud Sudan, Yemen, Somalia), instabilità politica e militare (Mali), regimi oppressivi (Eritrea, Gambia), violenze (lago Chad), povertà estrema (Senegal, Costa d’Avorio, Tunisia), crisi umanitarie (Nigeria, Camerun, Niger e Ciad). Le guerre portano con sé mancanza di cibo adeguato, acqua potabile, strutture sanitarie e servizi di prima necessità, e le crisi spesso si allargano anche a paesi limitrofi, non strettamente legati ai conflitti in corso. La situazione non è tanto diversa in Sud Sudan, con oltre un milione di persone sfollate e centinaia di migliaia scappate oltre confine, per fuggire a scontri a fuoco, saccheggi, devastazioni, violenze e soprusi di ogni tipo.

8. “Tra i migranti si nascondono i terroristi”. La maggior parte dei lupi solitari che hanno commesso attentati in Europa erano stranieri di seconda generazione, a tutti gli effetti cittadini europei, radicalizzati online. Certamente episodi di terrorismo hanno interessato anche richiedenti asilo, ma non si tratta di numeri che giustificano neanche lontanamente la frase: “Sono tutti terroristi”. La maggior parte dei migranti sono persone vulnerabili che fuggono da guerre e violenza. Anzi, in relazione al terrorismo è vero il contrario: chi arriva in Italia nella maggior parte dei casi non è un terrorista, ma vittima del terrorismo. “In molte circostanze, sono persone che sono state costrette ad abbandonare le loro case da quegli stessi gruppi terroristici a cui erroneamente intendiamo associarli”, spiega Msf.

9. “Sono criminali, le carceri sono piene di immigrati”. Numerosi studi internazionali hanno evidenziato l’inesistenza di una corrispondenza diretta tra l’aumento della popolazione immigrata e l’incremento del numero di denunce per reati. É vero che sono molti i detenuti stranieri nelle carceri italiane (il 34% dei reclusi, al 30 settembre 2016), ma ciò è dovuto a una serie di fattori precisi. In particolare, a parità di reato gli stranieri sono sottoposti a misure di carcerazione preventiva molto più spesso degli italiani, che ottengono invece con maggiore facilità gli arresti domiciliari (o misure cautelari alternative alla detenzione, una volta emessa la condanna). La stessa azione di repressione opera con più frequenza nei confronti degli stranieri, che con maggiore facilità sono sottoposti a fermi e controlli di routine da parte dalle forze di polizia. Uno studio dell’American Economic Review, condotto da Paolo Pinotti dell’Università Bocconi di Milano, ha mostrato che la legalizzazione degli immigrati riduce il crimine. Analizzando il tasso di criminalità di oltre 100mila stranieri prima e dopo il decreto flussi del 2007, si nota che l’incidenza si dimezza l’anno successivo, per chi è stato accettato e messo in regola, mentre resta invariata fra chi è rimasto “irregolare”. La regolarizzazione allontana subito dalla delinquenza, in particolare per i reati economici. 

10. “Sono tutti uomini, forti e muscolosi”. Non si capisce perché, secondo la propaganda populista, il fatto che i migranti siano spesso uomini giovani e forti basti a non far godere loro del diritto di chiedere accoglienza. La maggioranza delle persone che arrivano in Europa è rappresentata da giovani uomini perché hanno una condizione fisica migliore per poter affrontare un viaggio così duro, che spesso conduce alla morte. Tuttavia, il numero di famiglie, donne e minori non accompagnati è in aumento. Nel 2015, secondo l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), di circa un milione di persone arrivate in Grecia, in Italia o Spagna via mare, il 17 per cento è costituito da donne e il 25 per cento da bambini.

Uomini soli verso l’Europa. In Italia 9 su 10 sono di sesso maschile, scrive Sara Gandolfi il 17 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Troppi uomini, soli e arrabbiati, bussano alla porta dell’Europa? La domanda si rincorre da giorni, dopo il caso Colonia. Scemata l’indignazione del momento, ora tocca ai ricercatori analizzare statistiche e precedenti, e i primi risultati sono allarmanti: l’Europa del futuro rischia di essere troppo «maschile» e di soffrire così, inevitabilmente, un brusco aumento del tasso di criminalità. Un pericolo non necessariamente dovuto alla fede dei profughi ma allo squilibrio di genere: il 73% degli 1,2 milioni di richiedenti asilo in Europa, secondo gli ultimi dati disponibili, pubblicati dall’Economist, sono maschi contro il 66% del 2012. E l’Italia guida la lista, con il 90% di richiedenti asilo uomini.

Le statistiche dei crimini. In generale, l’80-90% dei crimini — con lievi differenze da Paese a Paese — è commesso da giovani uomini adulti. «Non sappiamo ancora abbastanza della situazione demografica attuale per trarre delle conclusioni sui fatti di Colonia», mette le mani avanti Andrea Den Boer, docente di politica e relazioni internazionali alla University of Kent. «Finora non è stata compiuto alcuno studio specifico nelle popolazioni migranti, ma le mie ricerche in India e in Cina (dove la politica del figlio unico ha provocato un netto calo nella nascita di femmine, ndr) confermano che gli squilibri di genere nelle popolazioni più giovani conducono a una maggiore instabilità sociale, tra cui un aumento della criminalità e della violenza, in particolare contro le donne».

La miccia dell’emarginazione. La ricerca di Den Boer ha provato anche che, sul lungo periodo, le società con un alto numero di uomini che rimangono ai margini della società — perché impossibilitati a sposarsi o a ricongiungersi con le famiglie, o perché disoccupati — sono più instabili e soffrono di un crescente numero di crimini, abuso di droga, gang fuorilegge. Il rischio di ripercussioni negative aumenta nelle società in cui il passaggio alla vita di coppia è ritardato — come avviene tra i profughi e i migranti soli in Europa. «I celibi sono più propensi a commettere atti criminali rispetto agli uomini sposati o impegnati sentimentalmente», conferma Den Boer. In più «i giovani uomini soli tendono ad unirsi in gruppo e, inevitabilmente, il comportamento di un gruppo è più antisociale di quello di un individuo solo». Come hanno dimostrato i fatti di Colonia.

L’allarme in Svezia. La Svezia ha accolto tre richiedenti asilo ogni 1000 abitanti tra settembre 2014 e 2015, in percentuale il Paese più «accogliente». Il 17% di questi sono giovanissimi, tra i 14 e i 17 anni (in Germania questa fascia contribuisce per il 6%); un numero che potrebbe alterare in modo permanente gli equilibri di genere nel Paese nordico: attualmente ci sono 106 teenager maschi ogni 100 femmine, se tutte le richieste di asilo saranno accolte la proporzione diventerà 116 a 100.

Gli esempi positivi. La migrazione di massa non è necessariamente un problema, e sono numerosi gli esempi nel passato di Paesi che sono stati in grado di assorbire un alto numero di uomini senza soffrire di instabilità sociale. La Germania, ad esempio, negli anni Settanta accolse oltre 2,6 milioni di lavoratori stranieri, in gran parte uomini: perlopiù si fermarono un paio di anni per poi tornare in patria e contribuirono enormemente alla crescita dell’economia tedesca. «La chiave è far sì che i migranti possano compiere la transizione, diventare partecipanti a pieno titolo della vita sociale ed economica dello Stato in cui vivono — conclude Den Boer —. La maggior parte dei migranti in Europa, invece, sta ancora cercando di ottenere l’asilo politico, o addirittura non rientra neppure nelle statistiche ufficiali dei richiedenti asilo. La Germania ad esempio sostiene di aver accolto un milione di migranti nel 2015, ma finora ha registrato solo circa 400.000 richieste di asilo». In base alle cifre di Eurostat sui richiedenti asilo, l’Italia ha la più alta percentuale di richieste «maschili», rispetto agli altri Stati europei. «Ad ottobre 2015, il 90% delle 82 mila richieste erano di uomini, per la maggior parte giovani tra i 18 e i 34 anni — conferma Den Boer —. Ma l’Italia dovrebbe essere in grado di assorbire i nuovi arrivati e mitigare le conseguenze di questi numeri». Sebbene di più, insomma, gli arrivi nel nostro Paese non dovrebbero alterare gli equilibri di genere come in Svezia, dove il numero di profughi è in percentuale molto più alto rispetto al totale della popolazione.

Sassari, capotreno molestata dal branco di nigeriani. La donna accerchiata da un gruppo di ragazzi a Porto Torres Mare. Aggredita, ora è sotto choc, scrive il Domenica 16/07/2017 "Il Giornale". Stranieri scatenati: ancora un'aggressione a bordo di un treno. Questa volta la vittima è una capotreno che alla Stazione marittima di Porto Torres (Sassari) è stata aggredita e molestata sessualmente da un gruppo di nigeriani. Subito dopo l'aggressione la donna si è rivolta ai medici del pronto soccorso di Sassari e ora è ancora in stato di choc. L'episodio è avvenuto ieri mattina su un treno diretto a Sassari. La capotreno ha subito l'aggressione durante un controllo dei biglietti. La Polizia ferroviaria ha identificato gli aggressori. La violenza è scattata dopo la richiesta dei ticket di viaggio. I ragazzi erano senza biglietto e così hanno deciso di accerchiare la donna per poi aggredirla e palpeggiarla. A denunciare quanto accaduto sono stati i rappresentanti sindacali della Fit Cisl: «Non si può continuare così, con i lavoratori dei trasporti in balia dei violenti - dichiara Antonio Piras, segretario generale di categoria -. Ormai registriamo un episodio di violenza al giorno e le lavoratrici e i lavoratori non possono essere lasciati soli. Chiediamo a Protezione aziendale di Trenitalia un incontro urgente per valutare ulteriori azioni e iniziative da mettere in campo per meglio tutelare l'incolumità fisica del personale di front-line». Insomma il personale che lavora a bordo dei treni tutti i giorni deve fronteggiare questi rischi che di fatto espongono i controllori a violenze gratuite. Gli fanno eco il segretario Fit Cisl Sardegna, Valerio Zoccheddu, e la responsabile del Coordinamento donne della stessa sigla, Claudia Camedda. Viene denunciata la sempre più crescente «solitudine» del personale di bordo e si chiede con forza alla direzione di Trenitalia Sardegna di farsi carico, con iniziative di prevenzione, «di salvaguardare l'incolumità dei lavoratori e delle lavoratrici che quotidianamente sono vittime di aggressioni fisiche e verbali». E a poche ore dalla diffusione della notizia dell'aggressione si rincorrono le reazioni politiche. «Anche oggi registriamo gravissime delinquenze perpetrate da clandestini. Tristi fatti ormai all'ordine del giorno. Questa volta la vittima è una capotreno aggredita e molestata sessualmente da nigeriani mentre svolgeva il suo lavoro. Non se ne può più, la situazione è insostenibile ma i colpevoli non sono solo chi concretamente ha commesso questi i reati, ma anche chi ha favorito l'invasione» dichiara il capogruppo alla Camera della Lega, Massimiliano Fedriga. «Una brutale aggressione nei confronti di una donna, un episodio gravissimo, purtroppo non l'unico, dinanzi al quale occorre una risposta con la massima determinazione» dice il coordinatore regionale di Forza Italia in Sardegna, Ugo Cappellacci che chiede il blocco degli sbarchi degli extracomunitari sull'Isola e il loro immediato rimpatrio.

Stupri, gli stranieri commettono più violenze sessuali: il record ai romeni, scrive Fausto Carioti il 23 Ottobre 2016 su "Libero Quotidiano". Si può invocare una maggiore apertura delle frontiere italiane, come fanno la presidente della Camera, Laura Boldrini, e altri esponenti della nostra classe dirigente, fingendo di non sapere che gli stranieri residenti nel nostro territorio, pari all’8% della popolazione, sono accusati del 39% degli stupri? È giusto che il dibattito sulla libera circolazione dei cittadini comunitari prescinda dal fatto che sui romeni, pari all’1,8% della popolazione residente in Italia, ricadono ben l’8,6% degli arresti e delle denunce per violenza sessuale? Poche cose riescono a essere più politicamente scorrette delle statistiche sulla criminalità, ma chi sceglie di non vederle lo fa sulla pelle della popolazione. L’istituto di ricerca Demoskopika ieri ha pubblicato un’indagine sulla violenza sessuale in Italia, che attingendo ai dati del ministero dell’Interno analizza gli episodi commessi nel quinquennio 2010-2014. Il documento si conclude con un sondaggio sull’orientamento degli italiani, un terzo dei quali chiede la linea dura - inclusa la castrazione chimica - nei confronti degli autori degli stupri. È un documento interessante, che lo diventa ancora di più se si mettono a confronto le nazionalità dei colpevoli e delle vittime con le statistiche sulla popolazione presente nel nostro Paese. È quello che ha fatto Libero, incrociando i numeri pubblicati da Demoskopika con le statistiche Istat relative al primo gennaio 2014. I risultati impressionano. Nel quinquennio 2010-2014 sono state commesse sul territorio italiano 22.864 violenze sessuali (questo è il numero desunto dalle denunce presentate: quello vero, ignoto, è inevitabilmente superiore). Solo in 16.797 casi è stato scoperto il violentatore, che quindi è riuscito a farla franca il 27% delle volte. Denunce e arresti hanno interessato gli italiani nel 61% dei casi e gli stranieri nel restante 39%. Sono quote molto distanti da quelle della popolazione residente in Italia, che nel 2014 era pari a 60,8 milioni di individui, dei quali italiani il 91,9% e stranieri l’8,1% (circa 4,9 milioni). Da un punto di vista statistico, significa che la popolazione straniera ha una propensione a commettere questo tipo di reato assai maggiore di quella degli italiani. Ovviamente la responsabilità criminale è individuale, non collettiva, ma è un dato di fatto che alcune nazionalità abbiano un peso nelle statistiche degli stupri di gran lunga superiore alla loro incidenza sulla popolazione. È il caso dei romeni, che in Italia risultano essere circa 1,1 milioni, pari all’1,8% del totale dei residenti. Sono la comunità d’immigrati più numerosa, ma i reati di stupro che vengono loro addebitati sono addirittura l’8,6% del totale. La seconda nazionalità straniera più rappresentata è quella degli albanesi, che sono lo 0,8% del totale della popolazione: anche nel loro caso, la percentuale dei responsabili di stupri è particolarmente alta, visto che su loro ricadono l’1,9% degli arresti e delle denunce. Statistiche peggiori le ha la comunità dei marocchini: sono lo 0,7% dei residenti e il 6% dei denunciati ed arrestati per violenza carnale. Discorso simile per i tunisini: la loro presenza in Italia è pari appena allo 0,2% della popolazione, ma l’1,3% delle accuse di stupro ricade su di loro. Per contro cinesi, ucraini e filippini, pur rappresentando quote importanti della popolazione immigrata, non hanno un peso rilevante nelle statistiche dei presunti responsabili di reati sessuali. Anche i numeri delle vittime confermano che la violenza sessuale è particolarmente diffusa in alcune comunità. Il 68% delle vittime sono italiane e il 32% straniere. E tra queste le più colpite sono le persone di nazionalità romena (il 9,3% degli stupri denunciati è commesso su di loro), marocchina (2,7%) e albanese (0,5). Non si tratta solo di donne, ovviamente: i numeri dicono che in Italia uno stupro su quattro avviene ai danni di un minorenne. Sotto l’aspetto territoriale è la Lombardia, con il 17,5% dei casi, la regione con il triste primato del maggior numero di violenze sessuali. Seguono Lazio (9,8%), Emilia Romagna (9,1%), Piemonte (8,3%) e Toscana (7,7%). Ma se il calcolo viene fatto in rapporto alla popolazione femminile residente, la classifica cambia molto: in questo caso, avverte Demoskopika, in testa c’è il Trentino Alto Adige, con 88 episodi di violenza sessuale ogni 100mila donne residenti. Seguono l’Emilia Romagna con 79 casi, la Toscana con 78, la Liguria con 75 e il Piemonte con 72. Il sondaggio conferma che gli italiani sono sempre più convinti che occorra la linea dura. Il 12% oggi è favorevole alla castrazione chimica degli stupratori, senza differenze rilevanti di opinione tra uomini e donne. Un altro 24,1% degli interpellati chiede pene comunque più severe. L’approccio morbido, orientato alla «riabilitazione» di chi ha commesso una violenza sessuale, è condiviso solo dal 3,6% dei nostri concittadini.

Non sappiamo nemmeno come chiamare i milioni di giovani che paghiamo per invaderci e sottometterci, scrive il 5/02/2017 Magdi Cristiano Allam. (Il Giornale, 5 febbraio 2017) - Ma come li dobbiamo chiamare? Possibile che gli stessi soggetti li indichiamo indistintamente immigrati, migranti generici, migranti economici o in fuga dalla guerra, migranti ambientali o transitanti, richiedenti asilo, profughi, rifugiati e solo raramente clandestini? Se non siamo neppure in grado di rappresentare correttamente il soggetto di cui ci occupiamo, come possiamo immaginare di poter risolvere adeguatamente i problemi che la sua presenza tra noi comporta? Il fenomeno epocale dell'afflusso in Europa di milioni di stranieri provenienti dall'Africa, Medio Oriente e Asia è una tragedia dell'assurdo. Prendiamo atto che il padrone di casa e l'ospite dissimulano la propria identità e ignorano reciprocamente l'identità altrui. Gli europei hanno perso la certezza di chi sono sul piano delle radici, fede, identità, valori, regole e leggi, si vergognano di ciò che sono al punto da presentarsi come fossero una terra di nessuno, pur trovandosi a casa propria, non si vogliono più bene anteponendo le istanze altrui rispetto ai propri legittimi interessi. Gli stranieri sbarcano quasi tutti senza documenti, in molti entrano senza essere identificati, siamo noi a concedere loro un'identità sulla base delle generalità che declinano a piacimento, un contesto di arbitrio in cui non sappiamo neppure come debbano essere indicati. Prendiamo atto che sia gli europei sia gli stranieri sono inconsapevoli della vera ragione che li ha indotti ad accogliere e a essere accolti. I governi e i mezzi di comunicazione di massa allineati ci dicono che sono in fuga dalle guerre e dalla povertà. Ebbene la quasi totalità di chi accogliamo non proviene da Stati in guerra e, comunque, trattandosi prevalentemente di giovani maschi dai 20 ai 30 anni, avrebbero dovuto restare a combattere e non disertare fuggendo. Così come questi giovanotti non mostrano segni di deperimento fisico, sono di sana e robusta costituzione, taluni hanno i pettorali da palestrati, più simili ai soldati e non a chi ha patito la fame. Prendiamo atto che sia gli europei sia gli stranieri hanno trasformato la cosiddetta "accoglienza" nel più lucroso giro d'affari al mondo alimentato da un fiume ininterrotto di denaro pubblico, di cui beneficiano governi, chiese, imprenditori, associazioni e cooperative, criminalità organizzata straniera e autoctona, gruppi terroristi islamici. Ed è a questo punto che è doveroso chiederci: ma se la versione ufficiale non regge alla prova dei fatti, chi sono veramente quelli che accogliamo? La verità è che sono lo strumento umano con cui promuoviamo una auto-invasione che culminerà nella sostituzione delle popolazioni europee, omologandole in una umanità meticcia, nel contesto di un Nuovo Ordine Mondiale sottomesso alla grande finanza speculativa globalizzata. Questi giovanotti incarnano la vocazione al suicidio dell'Europa. Una prospettiva che non è un bene né per noi né per loro, i cui paesi declineranno ugualmente spogliati della propria risorsa umana rigeneratrice della vita.

Non sono poveri e non scappano dalla guerra né dalla fame, ecco perché i profughi vengono in Italia, scrive il 24 ottobre 2016 "La Voce del Trentino". Anna Bono, (nella foto) docente di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università di Torino, conoscendo a fondo la materia, ribalta un bel gruzzolo di luoghi comuni. Al giornalista Marco Dozio in un’intervista molto interessante, spiega che chi sbarca o viene traghettato sulle nostre coste, arrivando prevalentemente dall’Africa subsahariana, per la stragrande maggioranza dei casi non è un profugo. E nemmeno un povero in fuga dalla fame. Ma un giovane maschio, spesso appartenente al ceto medio, che non scappa da guerre o persecuzioni. “La maggior parte di chi lascia l’Africa subsahariana per l’Europa non scappa né dalla guerra né dalla povertà estrema”.

Professoressa, ci raccontano che gli immigrati che arrivano in Italia sono profughi.

«I dati dicono che dall’inizio dell’anno il numero di persone che hanno fatto domanda di asilo politico, e che hanno ottenuto risposta positiva, si assesta intorno al 4%. Significa che tutti gli altri non rientrano nei parametri previsti dalla convenzione di Ginevra, quindi non sono persone che hanno lasciato il loro Paese sotto la minaccia di perdere la libertà o la vita: non sono persone perseguitate».

E ci raccontano che chi non scappa dalla guerra però scappa dalla fame.

«I costi elevatissimi dell’emigrazione clandestina contraddicono questa tesi comune. Ormai è risaputo che chi vuole venire in Europa deve mettere insieme 4mila, 5mila o 10mila dollari per potersi appoggiare a un’organizzazione di trafficanti che provveda all’espatrio. Cifre appunto elevatissime soprattutto se rapportate ai redditi medi dei Paesi di provenienza. Chi arriva generalmente appartiene al ceto medio o medio basso, comunque per la gran parte non si tratta di indigenti. C’è chi risparmia, chi si fa prestare il denaro dai parenti, chi paga a rate, chi vende una mandria, però i soldi ci sono, i trafficanti vogliono essere pagati in contanti. È gente che ha una disponibilità economica. Certo c’è la delusione di vivere in Paesi dove avanzano prevalentemente i raccomandati: la spinta può arrivare anche da lì, da delusioni lavorative, come succede per chi parte dall’Italia».

Per quale motivo chi è eventualmente coinvolto in un conflitto dovrebbe far rotta dall’Africa subsahariana verso l’Europa?

«Infatti non succede questo. In Africa i profughi sono milioni e milioni ma la quasi totalità di coloro che ottengono asilo non lascia il continente. I profughi sono più di 60 milioni, dato del 2015, di cui 41 milioni sono profughi interni, sfollati. Quando si vive in uno stato di conflitto o di pericolo ci si allontana solo il minimo indispensabile per mettersi al sicuro, pensando di poter fare ritorno a casa propria. La maggior parte delle persone si allontana restando all’interno dei confini nazionali, mentre un’altra porzione di persone oltrepassa i confini per essere ospitata nei campi dell’Unhcr anche per lungo tempo, come per il caso della Somalia. Benchè la diaspora somala sia una delle più numerose al mondo, a causa di vent’anni di instabilità e del terrorismo di Al Shaabab, solo una parte dei profughi è fuggita all’estero: la gran parte ha oltrepassato i confini nazionali riparando nel vicino Kenya».

Qual è la situazione nei Paesi di partenza?

«Molti emigranti arrivano per esempio da un Paese come il Senegal che non è in guerra, non vive gravi problemi di conflitti e come tutti i Paesi africani, con poche eccezioni, vive un periodo positivo dal punto di vista economico. Da anni quasi tutta l’Africa presenta una crescita del prodotto interno lordo costante e in certi casi consistente. Il problema è che questa crescita non si traduce in vero e proprio sviluppo economico o umano, anche a causa della corruzione endemica e del malgoverno».

Per quale motivo telegiornali, grande stampa e larga parte della politica insistono nel parlare erroneamente di “sbarchi di profughi o rifugiati”?

«Mass media, politici, chiunque parli di immigrazione utilizza emigrante, profugo o rifugiato come fossero sinonimi. Ma ovviamente non lo sono. In parte ciò è frutto di una confusione involontaria. In parte però si tratta di un errore voluto, perché c’è la tendenza ad affermare che chiunque lasci il proprio Paese abbia una forma di disagio e dunque abbia il diritto di essere ospitato. Questo approccio si traduce in ciò che vediamo: centinaia di migliaia di persone in marcia per arrivare in Europa. Molti dei quali non sono indigenti e per la maggior parte, circa l’80%, sono giovani uomini di età non superiore ai 35 anni. Poi c’è una fetta crescente di minori non accompagnati, metà dei quali non si sa che fine faccia. Si parla tanto di accoglienza e poi lasciamo sparire 5mila bambini nel nulla».

L’esodo è favorito da una sorta di propaganda?

«Nei Paesi dell’Africa subsahariana esistono pubblicità che incitano ad andare in Italia, spiegando che qui è tutto gratis. E in effetti lo è. Mi immagino le telefonate di questi ragazzi ai loro amici, in cui confermano che effettivamente tutto viene assicurato loro gratuitamente».

Come vede la questione in prospettiva?

«Se continuiamo ad andarli a prendere a poca distanza dalle coste africane, come illustrava una vignetta satirica di Krancic, (sotto) la situazione non potrà che peggiorare. In Grecia non sbarca quasi più nessuno da quando è stato siglato l’accordo con la Turchia. Se chi pensa di venire in Italia ha la certezza di essere rimandato indietro, non avendo le caratteristiche per ottenere l’asilo, alla fine desiste. Manca la volontà politica. Che ci sia un divario notevole tra le condizioni di vita dell’Africa, del Sudamerica o di una parte dell’Asia rispetto all’Occidente è evidente. Però noi abbiamo 4 milioni e 600mila poveri assoluti e il 40% dei giovani senza lavoro, numeri di cui tenere conto».

In molti si chiedono perché i migranti non raggiungono gli stati europei in aereo visto che costa anche meno. Ebbene, per poter fare domanda di asilo politico o di asilo umanitario in uno stato europeo bisogna essere fisicamente presenti sul territorio di questo stato. Questo vuol dire che non è possibile inoltrare una richiesta di asilo ad uno stato europeo da un’ambasciata di questo paese in uno stato terzo. Non esiste neanche la possibilità di avere un permesso temporaneo per giungere nel paese di propria scelta per poter chiedere asilo. L’unico modo per raggiungere un paese europeo che promette di garantire diritti e assistenza, come ha fatto la Svezia per prima nel 2013, è quello di usufruire di mezzi illegali e pericolosi e di affidare se stessi e la propria famiglia ai trafficanti di persone. Questo, per chi è in Egitto ed in Libia e per la maggior parte dei siriani, significa arrivare via mare. I trafficanti di esseri umani hanno come primo ed unico interesse il profitto economico e cercano quindi di guadagnare il più possibile stipando fino al limite centinaia di persone in barconi in pessime condizioni. Chi arriva via mare in Europa e sulle coste italiane rischiando la vita, non lo fa né perché è conveniente né per nascondersi dalle autorità, lo fa perché le leggi europee sull’immigrazione non gli permettono di fare altrimenti. In Trentino il costo dell’immigrazione per la comunità è altissimo e la gestione non prevede un vero e proprio piano di accoglienza e di integrazione. Per ogni immigrato la provincia autonoma di Trento mette a disposizione 35 euro al giorno, più 2,5 euro in contanti per ogni richiedente asilo. Inoltre i benefit per i migranti presenti sul nostro territorio sono molto importanti e vanno dai trasporti gratis, le visite e tutte le medicine in forma gratuita, le card per le ricariche telefoniche e per la spesa al supermercato. È plausibile pensare che per ogni richiedente asilo la provincia autonoma di Trento spenda oltre 1.500 euro ogni mese, questo per circa 24 mesi, cioè il tempo per decidere se sarà rilasciato lo status di profugo al migrante. Tempo che spesso viene raddoppiato visto che quasi tutti i richiedenti asilo a cui non viene riconosciuto lo status di profugo presentano un ricorso, che viene preso in considerazione dopo altri 24 mesi che nel frattempo il rifugiato passa sul nostro territorio naturalmente mantenuto dai contribuenti. Lo stesso ricorso viene patrocinato dallo stato italiano, quindi tutti coloro che depositano il ricorso hanno diritto alla difesa gratuita, per loro, che però paga la comunità italiana. Oltre a questo da tenere in seria considerazione sono i professionisti che ruotano intorno al fenomeno, cioè psicologi, mediatori culturali, operatori, medici ecc ecc.. tutti pagati dalla comunità. Pare che intorno al fenomeno dell’immigrazione solo in Trentino ruotino circa 3.000 dipendenti. Per la ristrutturazione dei campi profughi di Marco di Rovereto e dell’ex caserma Damiano Chiesa la Provincia autonoma di Trento ha speso quasi un milione di euro. Ad oggi sul territorio trentino sono presenti quasi 1.500 richiedenti asilo, numero destinato a salire molto in fretta visto i quasi 3.000 stranieri che sbarcano a Lampedusa ogni giorno. Purtroppo solo una piccola parte avranno diritto allo status di profugo.

I NUMERI NON MENTONO. La verità sull'immigrazione in Italia: sono quasi tutti clandestini. In base ai dati ufficiali forniti dalle istituzioni, moltissimi degli immigrati che sbarcano nel nostro paese non sono affatto profughi, poiché non scappano da nessuna guerra, scrive Francesco Vozza il 29 Novembre 2016 su “Il Populista". La matematica non è un'opinione, si diceva una volta. E se il detto vale ancora, possiamo a questo punto affermare che moltissimi degli immigrati sbarcati negli ultimi anni nel nostro paese non sono affatto profughi, bensì clandestini. Infatti, basandosi sui dati ufficiali forniti dalle istituzioni, si scopre che ben il 77% degli stranieri entrati in Italia tra il 2014 e il 2016 non ha avuto concesso il diritto d'asilo; questo è avvenuto in quanto la maggior parte dei migranti proviene da paesi africani che non sono in guerra: Nigeria, Gambia e Guinea. In tutto ciò di siriani non se ne vede nemmeno l'ombra (sono solo poche centinaia quelli entrati nel nostro paese in due anni). Ma non è soltanto questo ad emergere dai numeri ufficiali: infatti, è dimostrato dati alla mano che quasi l'80% degli immigrati giunti recentemente è costituito da maschi, buona parte dei quali dichiara di essere minorenne. Quest'ultimo particolare non è affatto secondario, poiché spesso si tratta di una menzogna per ottenere condizioni migliori di accoglienza. I migranti che adottano questa strategia giocano sul fatto che è difficile dimostrare la reale età di una persona e l'esame delle ossa che viene effettuato in proposito ha sempre un ampio margine di errore. Insomma, a conti fatti i migranti che accogliamo sono quasi sempre maschi, adulti e soprattutto clandestini. 

Maschi, giovani, ignoranti e pazzi: il rapporto che azzera le balle sugli immigrati, scrive Adriano Scianca il 27 giugno 2017 su “Riscatto Nazionale”. Sono maschi, sono giovani, non hanno istruzione ma, in compenso, hanno un sacco di problemi mentali. L’identikit degli immigrati ospitati a spese dello Stato italiano è impietoso, ma non arriva da qualche sito populista, bensì dal nuovo “Atlante Sprar 2016”. Tale sigla, come noto, sta per “Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati”. Una rete che nel 2003 contava su 1.365 posti dislocati sul territorio nazionale, mentre lo scorso anno ha accolto 34.039 persone. Nel 2016, infatti, solo il 9,6% di loro ha ottenuto lo status di rifugiato. Per il resto, il 47,3% degli accolti è richiedente protezione internazionale, il 28,3% è invece titolare di protezione umanitaria, il 14,8% di protezione sussidiaria. Tutte formule che implicano situazioni di rischio molto più vaghe rispetto a quella del rifugiato che “scappa dalla guerra”. Vediamo poi la mitologia delle “donne e bambini” da soccorrere: ebbene, l’86,6% degli accolti è di genere maschile. Spicca, per presenze femminili, il solo gruppo nigeriano, anche se il rapporto si guarda bene dal dire che si tratta di schiave destinate al mondo della prostituzione, soggiogate da una vera e propria mafia che fa uso anche di riti vudù per abbrutire le sue vittime. Per quanto riguarda l’età degli stranieri accolti, la componente maggiormente rappresentata è quella della fascia d’età che va dai 18 ai 25 anni (46,5%); diminuisce quella immediatamente successiva, che comprende le persone fra i 26 e i 30 anni che si attesta al 22,1%. E i “minori non accompagnati”? Il 47% di loro, al momento della rilevazione, era già neo maggiorenne. Il 44,6% dei minori è invece compreso nella fascia d’età tra i 16 e i 17 anni, il 7,3% tra i 14 e i 15 anni mentre i più piccoli, tra 0 e 13 anni, sono poco più dell’1%. Eccoli, quindi, i “bambini” da salvare. Va sottolineato anche che l’84,4% degli ospiti è stato accolto singolarmente, solo il 15,6% fa parte di un nucleo familiare. Circa il livello di istruzione delle “risorse”, il 62% degli immigrati degli Sprar ha un titolo di studio corrispondente alla scuola primaria (elementari e medie), il 19% è in possesso di diploma di scuola secondaria, solo il 7% di titolo di studio universitario, mentre il 12% non ha proprio alcuna istruzione. Quanto ai Paesi di provenienza, al primo posto ritroviamo la Nigeria con il 16,4%, al secondo posto il Gambia (con il 12,9%). Al terzo posto troviamo il Pakistan con l’11,7%, mentre il Mali mantiene la quarta posizione con il 9,3%; a queste nazionalità seguono l’Afghanistan con l’8,7% e il Senegal con il 6,3%. Seguono poi, tutte al di sotto del 4%, Somalia, Costa d’Avorio, Ghana e Bangladesh. Nel 2016, tra le prime 10 nazionalità presenti, figura la Costa d’Avorio (con il 3,4%). Aumenta anche la quota di coloro che hanno “caratteristiche di vulnerabilità”, dato al quanto bizzarro per una categoria che viene continuamente presentata sotto l’aspetto della “risorsa”: si tratta addirittura del 22%. L’8,3% comprende persone disabili, con disagio mentale o con necessità di assistenza domiciliare, sanitaria specialistica e prolungata. Le segnalazioni di casi di vulnerabilità psichica per l’anno 2016 sono aumentate del 33% rispetto al 2015. Sono questi quelli che dovrebbero “pagarci le pensioni”?

Minori non accompagnati, chi sono? Soprattutto adolescenti maschi, scrive Rachele Bombace, giornalista professionista, il 23 febbraio 2016 su "Dire". Chi sono i minori non accompagnati? “Il 95% degli 11.800 minori sono maschi; l’80% ha dai 16 ai 17 anni. Sono ragazzi che nutrono una speranza di inserimento lavorativo di cui bisogna tener conto”. Parte da qui Luigi Maria Vignali, direttore centrale per le questioni migratorie del Ministero degli Esteri, intervenendo al seminario sui "Minori non accompagnati". Da dove vengono? “Uno su 5 viene dall’Egitto– continua l’esponente della Farnesina- il 12% è albanese, il 10% eritreo e un altro 10% viene da un paese che oggi fronteggia una grave crisi: il Gambia”. Per quelli che si trovano a chiedere lo status di rifugiato “la nazionalità cambia- afferma Vignali- provengono perlopiù da Gambia, Senegal, Nigeria, Bangladesh e Mali”. Si tratta quindi di un cambiamento di rotta rispetto al passato: “Prima c’era una maggiore affluenza migratoria dal Corno di Africa, oggi abbiamo una maggiore provenienza di persone dall’Egitto, dal Medioriente e dai paesi dell’Africa occidentale. Poniamoci il problema di ciò che accade durante il loro viaggio verso l’Europa- sottolinea l’esponente della Farnesina- perché è lì che sono più vulnerabili”. Sono molte le iniziative interessanti. Vignali ricorda la Carta di San Gimignano del 2015, l’appello di Palermo del gennaio 2016, ma “si fermano all’arrivo in Italia. Invece un interessante progetto attivato dai ministeri dell’Interno e degli Esteri con le Comunità di Sant’Egidio, Valdese e le chiese evangeliche, dal titolo ‘Corridoi umanitari‘- continua il relatore- mira ad identificare i rifugiati nei paesi di transito e farli arrivare in Italia evitando la rotta marittima o l’attraversamento del deserto, che possono portare alla morte”. “Il 50% dei migranti sono bambini che viaggiano con le loro famiglie ed è difficile identificarli già nel transito. L’Italia può avere un ruolo leader nello stabilire lo status di minori non accompagnati”, afferma Vignali al convegno promosso da Paola Binetti. Altre iniziative dell’International Organization for Migration (IOM) hanno puntato a realizzare programmi di tutela per i minori non accompagnati, per individuarli, assisterli e verificare se possono essere ricondotti dalle famiglie di origine. “Non è facile perché sono sempre minori che scappano o sono fatti partire dalle famiglie di origine. In questo reintegro dovrebbero essere tutelati- ricorda Vignali- è un punto della carta di Palermo: verificare la possibile di inclusione sociale nel processo di reinserimento scolastico, di assistenza psicologica e di formazione professionale. Non dovrebbe essere un viaggio di ritorno senza prospettive di vita”. L’Italia fa la sua parte nel lavoro di cooperazione allo sviluppo. “Il progetto Salem finanziato dall’Unione europea si focalizza sul rimpatrio in Senegal attraverso forme di tutela scolastica, sociale e psicologica. L’iniziativa è partita due anni fa e può essere replicata in altri paesi. C’è molto da fare sul piano internazionale, è importante avviare un dialogo con i paesi di origine e di transito. L’Italia in questo periodo ha una leadership nella capacità di accoglienza- conclude- dovrebbe averla anche nel dialogo con questi paesi”.

IN 3 ANNI SBARCATI 13.000, ITALIA NE PUÒ ACCOGLIERE SOLO 11.800 – I minori non accompagnati sono un fenomeno in crescita e le modalità di arrivo sono differenti rispetto al passato. “Negli ultimi tre anni, in 13.000 minori sono sbarcati in Sicilia ma il sistema italiano ne può accogliere solo 11.800”: lo fa sapere il prefetto Angelo Malandrino, responsabile del Servizio immigrazione del ministero dell’Interno, presente al convegno promosso alla Camera dei deputati su ìI minori non accompagnati’. Il ministero dell’Interno sta realizzando Centri di alta specializzazione per i minori non accompagnati, “all’interno dei quali questi soggetti non possono rimanere più di 60 giorni. Qui devono essere identificati, anche per età, curati e tutelati prima di passare nelle comunità di accoglienza”. Quindi, “assieme al Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) per adulti, ci saranno gli Sprar per i minori. Per il momento sono disponibili 700 posti per la prima accoglienza- aggiunge Malandrino- adesso diventeranno 1.200. Gli Sprar contano su un totale di 1.850 posti”. Nel meccanismo di accoglienza “i sindaci restano i principali protagonisti- prosegue il prefetto- anche se nel recente tentativo di riforma, riguardo al Fondo nazionale per l’accoglienza dei minori stranieri, ci sono state intese su tutti i livelli, proprio a partire dalle Regioni. Stiamo realizzando un rapporto stretto su questa parte di accoglienza, anche per sollevare i sindaci da una difficile situazione finanziaria. Loro non hanno molte risorse e lo Stato ha deciso di subentrare per il sostegno finanziario relativo all’accoglienza dei minori. Resta però ai primi cittadini- sottolinea l’esperto di immigrazioni- la responsabilità sul percorso dei minori stessi”. Il secondo obiettivo del ministero dell’Interno “è qualificare l’accoglienza dei minori. Ci sono situazioni nazionali differenziate- fa sapere il prefetto- perché l’accompagnamento è legato al sistema di Welfare che esiste in ogni realtà”. In questo contesto, “il nostro obiettivo è migliorare e rendere l’accoglienza omogenea”. Con il contributo di “Save the Children” e dell’Unhcr “abbiamo realizzato un monitoraggio sulle attività svolte nei Centri di accoglienza, producendo report significativi. Abbiamo dato una proroga alle strutture esistenti per sviluppare un solido e robusto sistema di monitoraggio”. Qual è secondo lei il problema principale? “L’allontanamento- ammette il prefetto- su 11.600 minori, 6.500 sono stati allontanati”. Come si può prevenire questo fenomeno? “Aprendoci all’ascolto del minore già nelle prime fasi dello sbarco”. Malandrino ricorda che si tratta di ragazzi che si sono allontanati “spesso per sostenere le famiglie da un punto di vista economico. Per loro restare nelle comunità può essere una perdita di tempo- conclude- vogliono lavorare e finiscono per finire a lavorare in nero”.

Dove sono finiti i 28mila minori stranieri non accompagnati scomparsi nel 2016? Scrive il 10 maggio 2017 "Vita". Nel 2016 in Italia sono scomparsi 27.995 minori stranieri non accompagnati, il 45% in più dell'anno prima. Da soli rappresentano l'80% dei casi di scomparsa verificatisi in Italia. Nel 2016 in Italia sono scomparsi 27.995 minori stranieri non accompagnati. L’anno prima erano 21.881 i minori stranieri arrivati soli in Italia e poi irreperibili: l’aumento sfiora il 45%. I dati sono stati diffusi ieri mattina dal Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, Vittorio Piscitelli, che ha presentato al Viminale la sua relazione semestrale sul fenomeno, relativa al secondo semestre del 2016: il numero delle persone straniere scomparse e da rintracciare nel nostro Paese erano al 31 dicembre 2016 34.891 (+22,81% rispetto al primo semestre). «Si tratta di un dato che va letto con riferimento all’aumento dei flussi migratori nel 2016 - ha sottolineato il sottosegretario all’Interno Domenico Manzione, intervenuto alla presentazione - e che riguarda, per l’80% dei casi, minori non accompagnati». Manzione ha citato la recente approvazione della legge quadro sui MSNA e ribadito come «su questo fenomeno l’attenzione dovrebbe essere massima, perché partenze così massicce di minori destano forte preoccupazione». È la Sicilia la regione in cui si verificano il maggior numero delle scomparse e sulle cui strutture grava il maggior lavoro per il recupero e riconoscimento dei migranti naufragati in mare (1.607 al 31.12.2016 su un totale di 1.802). «La sottoscrizione di protocolli consentirà di dare un nome alle persone ritrovate, restituendo dignità a loro a e ai loro parenti», ha concluso il commissario Piscitelli. Il monitoraggio quadrimestrale sui MSNA del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali contava al 31 dicembre 2016 il numero di 17.373 presenti in Italia il 45,7% in più rispetto alle presenze registrate al 31 dicembre 2015 e il 25,3% in più rispetto alle presenze relative al 31 agosto 2016. Al 31 dicembre, erano 6.561 i minori non accompagnati che risultavano irreperibili, la grande maggioranza dei quali di cittadinanza egiziana (22,4%), eritrea (21%) e somala (19,1%). Più volte le associazioni hanno denunciato con preoccupazione la scomparsa di tanti minori dai centri di prima accoglienza: alcuni proseguono certamente il loro viaggio, ma per altri c’è il rischio sempre più forte che vengano immessi nella tratta di esseri umani, a cominciare dalla prostituzione.

Migranti, ora è legge: i minori stranieri soli non potranno essere respinti. Approvata alla Camera con 375 la norma che protegge i ragazzi che arrivano senza famiglia nel nostro paese scappando da fame, guerra e violenze. Avranno gli stessi diritti dei loro coetanei. "Italia apripista in Europa" dice la relatrice Barbara Pollastrini, scrive "La Repubblica" il 29 marzo 2017. Via libera definitivo dell'Aula della Camera alle norme volte a proteggere i minori stranieri non accompagnati. Il testo, in base al quale i bambini e i ragazzi non ancora maggiorenni che arrivano in Italia senza una famiglia non potranno essere respinti ma avranno gli stessi diritti dei loro coetanei Ue, è stato approvato a Montecitorio con 375 voti a favore, 13 contrari (la Lega) e 41 astenuti. Allo stesso tempo il Senato ha votato la fiducia posta dal governo sul decreto di contrasto all'immigrazione clandestina. A favore del provvedimento, che ora va quindi alla Camera, si sono espressi 145 senatori, 107 i contrari e un astenuto. Ma torniamo alla legge sui minori non accompagnati. Di bambini e ragazzi soli ne sono arrivati in Italia sui barconi più di 25mila nel 2016, secondo i dati del ministero dell'Interno. Fino ad oggi la normativa prevedeva che i servizi sociali del comune di approdo prendessero in carico i minorenni sbarcati, da ospitare in apposite strutture di prima accoglienza. Ma in molti casi, come dimostrato anche dal recente monitoraggio in Sicilia fatto dalla garante dell'Infanzia e adolescenza Filomena Albano, l'approccio emergenziale e la mancanza di organizzazione lasciavano i piccoli immigrati in uno stato di abbandono. La conseguenza è che oltre 6mila minori risultano irreperibili per le istituzioni: scomparsi nel nulla, con il rischio che diventino prede dei circuiti di illegalità, vittime di tratta o di sfruttamento lavorativo. "Minori non accompagnati: è legge dello Stato. Lo dico con emozione, l'Italia è apripista in Europa con un provvedimento umano e di civiltà". Lo afferma la deputata del Pd, Barbara Pollastrini, relatrice del progetto di legge. "Lo so, si è sempre in ritardo rispetto ai diritti umani ma oggi, finalmente, è stato raggiunto un traguardo atteso da molto tempo. Solo l'anno scorso - spiega la relatrice - sono stati 25.846 i migranti adolescenti “senza famiglia” giunti nel nostro paese. Sono bambini, ragazzi, ragazze che scappano da fame, guerra e violenze, oppure per cercare di avere un futuro migliore. Lo fanno con una parola nel cuore: speranza. Eppure molti di loro scompaiono, sono “missing” e finiscono nel girone terribile di sfruttamento, prostituzione, tratta, organizzazioni criminali". "E' una legge importante - prosegue Pollastrini - anche perché scritta a più mani. "L'Italia può dirsi orgogliosa di essere il primo paese in Europa a dotarsi di un sistema organico che considera i bambini prima di tutto bambini, a prescindere dal loro status di migranti o rifugiati" dichiara Raffaela Milano, direttore dei Programmi Italia-Europa di Save the Children. "La sfida ora è rappresentata dall’individuazione di strategie in grado di dar seguito ad azioni concrete e risposte" ha detto Ernesto Caffo, Presidente di Telefono Azzurro e docente di Neuropsichiatria infantile. "C'è la necessità di sviluppare un progetto a lungo termine in grado di andare al di là del sistema di prima accoglienza, occupandosi della tutela psicologica, educativa, legale e giuridica dei minori migranti, per un percorso di inserimento nel tessuto sociale e formativo italiano”. Cosa cambia: per la prima volta vengono disciplinate per legge le modalità e le procedure di accertamento dell'età e di identificazione, garantendone l'uniformità a livello nazionale. Prima dell'approvazione del ddl non esisteva infatti un provvedimento di attribuzione dell'età, che d'ora in poi sarà invece notificato sia al minore che al tutore provvisorio, assicurando così anche la possibilità di ricorso. Cosa viene garantito.  Viene garantita inoltre maggiore assistenza, prevedendo presenza di mediatori culturali durante tutta la procedura. Viene regolato il sistema di accoglienza integrato tra strutture di prima accoglienza dedicate esclusivamente ai minori, all'interno delle quali i minori possono risiedere non più di 30 giorni, e sistema di protezione per richiedenti asilo e minori non accompagnati (Sprar), con strutture diffuse su tutto il territorio nazionale, che la legge estende ai minori stranieri non accompagnati. Viene poi attivata una banca dati nazionale dove confluisce la "cartella sociale" del minore, che lo accompagnerà durante il suo percorso). Viene prevista per tutti la necessità di svolgere indagini familiari da parte delle autorità competenti nel superiore interesse del minore e vengono disciplinate le modalità di comunicazione degli esiti delle indagini sia al minore che al tutore. I permessi: Il minore potrà richiedere direttamente il permesso di soggiorno alla questura competente, anche in assenza della nomina del tutore. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge, ogni Tribunale per i minorenni dovrà istituire un elenco di "tutori volontari" disponibili ad assumere la tutela anche dei minori stranieri non accompagnati per assicurare a ogni minore una figura adulta di riferimento adeguatamente formata. La legge promuove poi lo sviluppo dell'affido familiare come strada prioritaria di accoglienza rispetto alle strutture. Istruzione e salute. Sono previste maggiori tutele per il diritto all'istruzione e alla salute, con misure che superano gli impedimenti burocratici che negli anni non hanno consentito ai minori non accompagnati di esercitare in pieno questi diritti, come ad esempio la possibilità di procedere all'iscrizione al servizio sanitario nazionale, anche prima della nomina del tutore e l'attivazione di specifiche convenzioni per l'apprendistato, nonché la possibilità di acquisire i titoli conclusivi dei corsi di studio, anche quando, al compimento della maggiore età, non si possieda un permesso di soggiorno. Particolare attenzione viene infine dedicata dalla legge ai minori vittime di tratta, mentre sul fronte della cooperazione internazionale l'Italia si impegna a favorire tra i Paesi un approccio integrato per la tutela e la protezione dei minori, nel loro superiore interesse.

Minori stranieri non accompagnati: la legge in Gazzetta. Legge, 07/04/2017 n° 47, G.U. 21/04/2017. E' stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 93 del 21 aprile 2017 la legge 7 aprile 2017, n. 47, recante "Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati". Vediamo quali sono le principali novità previste dal provvedimento, che entrerà in vigore il 6 maggio 2017, scrive "Altalex".

Ambito di applicazione della legge. La legge si applica al "minore straniero non accompagnato": tale è il minorenne non avente cittadinanza italiana o dell'UE che si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato o che è altrimenti sottoposto alla giurisdizione italiana, privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell'ordinamento italiano.

Divieto di respingimento. E' stabilito il divieto di respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati. Con una modifica al T.U. sull'immigrazione (d.lgs. n. 286/1998) si prevede che, quando debba essere disposta in base al t.u. l'espulsione di un minore straniero, il provvedimento potrà essere adottato dal tribunale per i minori, su richiesta del questore, “a condizione comunque che il provvedimento stesso non comporti un rischio di danni gravi per il minore”.

Colloquio e identificazione del minore. Nel momento in cui il minore entra in contatto o è segnalato alle autorità di polizia o giudiziaria, ai servizi sociali o ad altri rappresentanti dell'ente locale, il personale qualificato della struttura di prima accoglienza dovrà svolgere con il minore un apposito colloquio, con l'ausilio possibilmente di organizzazioni, enti o associazioni di comprovata esperienza nella tutela dei minori. Un apposito D.P.C.M. dovrà regolare la procedura del colloquio, nel quale comunque sarà assicurata la presenza di un mediatore culturale. Quando sussistono dubbi fondati sull'età dichiarata dal minore, ferma restando l'accoglienza da parte delle apposite strutture di prima accoglienza per minori, l'autorità di pubblica sicurezza procede all'identificazione con l'ausilio di mediatori culturali e, se già nominato, con la presenza del tutore o tutore provvisorio. All'identificazione del minore si procede solo dopo che è gli stata garantita un'immediata assistenza umanitaria. L'età è accertata in via principale attraverso un documento anagrafico, anche avvalendosi della collaborazione delle autorità diplomatico-consolari. L'intervento delle autorità consolari è escluso nei seguenti casi:

quando il presunto minore abbia dichiarato di volersene avvalere;

quando abbia espresso la volontà di chiedere protezione internazionale;

quando all'esito del colloquio sia emersa una possibile esigenza di protezione internazionale;

quando ciò possa causare pericoli di persecuzione.

Se permangono dubbi fondati sull'età dichiarata, la procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni potrà disporre esami socio-sanitari volti all'accertamento dell'età, previa informativa al diretto interessato in una lingua a lui nota e con l'ausilio di un mediatore culturale. Particolari accorgimenti sono poi previsti per lo svolgimento dell'accertamento socio-sanitario dell'età e per la comunicazione del risultato. Se anche all'esito dell'accertamento socio-sanitario residuano dubbi sulla minore età, questa si presume ad ogni effetto di legge. Contro il provvedimento di attribuzione dell'età è ammesso reclamo secondo le norme del c.p.c. in tema di volontaria giurisdizione; in attesa della decisione ogni procedimento amministrativo e penale conseguente all'identificazione come maggiorenne è sospeso.

Indagini familiari. Nei 5 giorni successivi al colloquio, su consenso del minore e nel suo esclusivo interesse, colui che esercita anche in va temporanea la responsabilità genitoriale sul minore deve inviare una relazione all'ente convenzionato, che avvia immediatamente le indagini. Il risultato delle indagini è trasmesso al Ministero dell'interno. Se sono individuati familiari idonei a prendersi cura del minore straniero non accompagnato, questa soluzione dovrà essere preferita al collocamento in comunità.

Affidamento familiare. Gli enti locali potranno promuovere la sensibilizzazione e la formazione di affidatari, allo scopo di favorire l'affidamento familiare dei minori, in via prioritaria rispetto al ricovero in una struttura di accoglienza.

Rimpatrio assistito e volontario. Il rimpatrio assistito e volontario di un minore straniero non accompagnato può essere adottato quando il ricongiungimento con i suoi familiari nel Paese di origine o in un Paese terzo corrisponde al superiore interesse del minore. Il provvedimento è disposto dal tribunale per i minorenni, sentiti il minore e il tutore e sulla base dei risultati delle indagini familiari e la relazione dei servizi sociali circa la situazione del minore in Italia.

Sistema informativo nazionale dei minori stranieri non accompagnati e la cartella sociale. Presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali è prevista l'istituzione del sistema informativo nazionale dei minori non accompagnati. Subito dopo il colloquio con il minore la struttura di accoglienza dovrà provvedere alla compilazione di una cartella sociale, nella quale confluiranno tutti i dati e gli elementi utili a determinare la migliore soluzione di lungo periodo nell'interesse del minore; la cartella sociale è trasmessa ai servizi sociali del comune di destinazione e alla procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni.

Permessi di soggiorno per minori stranieri non accompagnati. Nei casi in cui la legge dispone il divieto di respingimento o di espulsione, è previsto il rilascio da parte del questore del permesso di soggiorno per minore età (valido fino al compimento della maggiore età) o per motivi familiari.

Elenco dei tutori volontari. Entro 90 giorni presso ogni tribunale per i minorenni dovrà essere istituito un elenco dei tutori volontari: all'elenco possono essere iscritti privati cittadini, selezionati e adeguatamente formati da parte dei garanti regionali e delle province autonome per l'infanzia e l'adolescenza, disponibili ad assumere la tutela di un minore straniero non accompagnato (o di più minori, quando la tutela riguarda fratelli o sorelle). Per promuovere la nomina dei tutori volontari saranno stipulati appositi protocolli d'intesa tra i garanti per l'infanzia e l'adolescenza e i presidenti dei tribunali per i minorenni.

Diritto all'assistenza legale. Il minore coinvolto a qualsiasi titolo in un procedimento giurisdizionale ha diritto di essere informato dell'opportunità di nominare un legale di fiducia e di avvalersi, se ne ricorrono le condizioni, del gratuito patrocinio a spese dello Stato in ogni stato e grado del procedimento.

Misure in favore di minori vittime di tratta. Una "particolare tutela" deve essere garantita nei confronti dei minori stranieri non accompagnati vittime di tratta: in particolare, un programma specifico di assistenza dovrà assicurare adeguate condizioni di accoglienza e di assistenza psico-sociale, sanitaria e legale, prevedendo soluzioni di lungo periodo, anche oltre il compimento della maggiore età.

Misure per i minori richiedenti protezione internazionale. Si prevede l'inserimento dei minori non accompagnati nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Nella scelta del posto, tra quelli disponibili, in cui collocare il minore, occorre tenere conto delle esigenze e delle caratteristiche del minore risultanti dal colloquio, in relazione alla tipologia dei servizi offerti dalla struttura di accoglienza. Le strutture di accoglienza devono soddisfare gli standard minimi dei servizi e dell'assistenza forniti dalle strutture residenziali per minorenni e devono essere debitamente autorizzate o accreditate.

Intervento in giudizio delle associazioni di tutela. Alle associazioni iscritte nell'apposito registro è attribuita la legittimazione ad intervenire nei giudizi riguardanti i minori stranieri non accompagnati e a ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi. (Altalex, 27 aprile 2017)

L'ultima truffa dell'accoglienza i profughi che si fingono bimbi. Non hanno documenti e si dichiarano minorenni incassando così benefici economici e legali. Sfruttando i paradossi della legge, scrive Giovanni Masini, Mercoledì 03/02/2016, su "Il Giornale". Non hanno l'età. Si spacciano per quei minorenni che non sono e l'Italia finisce sempre per crederci. Pagando loro ogni spesa. Sono i falsi minori immigrati: presunti ragazzini con i capelli bianchi che affollano le comunità di mezza Italia, usufruendo di benefici di cui non potrebbero godere e togliendo risorse a chi invece ne avrebbe diritto. Nelle comunità del nord-est si tratta purtroppo di una pratica diffusa: arrivano dal Pakistan e dall'Afghanistan senza documenti, si dichiarano puntualmente minorenni e attendono l'affidamento a una comunità. Dove viene loro garantita ogni comodità grazie ai fondi elargiti dall'Europa e dal Viminale, almeno cento euro per persona al giorno contro i circa trenta necessari per mantenere un immigrato adulto. Una differenza che dà diritto anche a maggiori tutele legali: ai minorenni (o presunti tali) non si applicano infatti le restrizioni previste dalla legge Bossi-Fini per gli immigrati senza lavoro. Attivissimo nel denunciare questa impressionante catena di abusi è Renato Garibaldi, del centro per minori «Bosco di Museis» di Cercivento, in provincia di Udine: «La pratica è diffusissima ci spiega Gli immigrati possono avere anche i capelli bianchi, ma se non hanno i documenti e dichiarano di essere minori, noi siamo costretti a crederci. Se abbiamo dei sospetti possiamo richiedere l'esame antropometrico del polso, ma le tabelle indicano al massimo l'età di diciannove anni, quando la crescita dell'osso si ferma. Eppure, grazie alla normativa che ammette fino a due anni di margine di errore, anche chi ha venticinque anni viene dichiarato come diciannovenne o più vecchio e classificato d'ufficio come diciassettenne. Tutti rientrano nelle strutture d'accoglienza, dove almeno la metà degli ospiti sono falsi minori». E non è tutto. Perché ai falsi minori che cercano di «abbassarsi» l'età si sommano quei diciassettenni che soprattutto dall'Albania e dal Kosovo, ma anche dal Bangladesh giungono in Italia poco prima della maggiore età proprio per ottenere il permesso di soggiorno riservato ai minori non accompagnati. Al compimento del diciottesimo anno ne chiedono la conversione in permesso di soggiorno per motivi di studio o di lavoro. La normativa che consente questa conversione solo a chi si trovi in Italia da almeno due anni viene aggirata grazie all'intervento del Comitato per i minori stranieri istituito presso il governo. Che quasi sempre concede parere positivo, trasformando i minori veri e falsi in maggiorenni abilitati a risiedere sul territorio nazionale. Infine, per chi non è o non vuole dichiararsi minorenne c'è sempre la richiesta d'asilo. La commissione territoriale di Gorizia difficilmente non concede qualche forma di protezione internazionale; comunque, gran parte di chi non riceve risposta positiva presenta ricorso grazie al gratuito patrocinio. «Solo in provincia di Udine spiega l'ispettore Claudio Spangaro, della questura del capoluogo friulano nel 2015 abbiamo avuto oltre duemila richieste d'asilo, quando in piena guerra di Iugoslavia ci attestavamo su una media di poche decine all'anno. Il paradosso è che per far giungere in Italia un lavoratore straniero con un contratto già in mano bisogna fare i salti mortali, perché dal ministero insistono che il lavoro non c'è, mentre gli immigrati clandestini vengono accolti e pagati di tutto senza aver nemmeno bisogno di lavorare».

La fabbrica dei finti minori. Indagati duecento migranti. A Bologna scoperta organizzazione che falsificava le identità. Venivano mantenuti e ottenevano visti facili, scrive Giuseppe Marino, Sabato 29/10/2016, su "Il Giornale". «Veniva accompagnato in Questura dichiarando falsamente di essere minore, beneficiando così della collocazione nella comunità minorile di Bologna, veniva poi sottoposto ad esame auxologico da cui risultava un'età superiore a 18 anni». Nella carte dell'inchiesta dell'Antimafia di Bologna frasi così si ripetono per decine di casi, più di settanta. Il copione è sempre lo stesso: un giovane immigrato si presenta in Questura o viene accompagnato da un connazionale o a volte anche da un italiano, che riferisce di aver trovato il ragazzo che vagava per la città. Lo straniero dichiara di essere minorenne e per lui si aprono le porte dell'assistenza più generosa, quella che l'Italia riserva ai migranti minorenni. Per tutti questi casi l'esame delle ossa del polso rivela che la crescita si è arrestata, dunque il soggetto ha almeno 18 o 19 anni. Ma anche questo non bastava, perché l'esame lascia un margine di errore. Margine che veniva sempre pesato a favore del migrante. L'organizzazione avrebbe legami a livello governativo e di intelligence nel proprio Paese, tanto che Consolato del Bangladesh, Paese da cui provengono la maggior parte dei migranti, finiva sempre col rilasciare il passaporto con l'età dichiarata dal concittadino. Il fenomeno stava diventando così ampio da mettere in difficoltà la Irides, l'Azienda speciale del Comune di Bologna che gestisce i servizi sociali. E da sollecitare l'attenzione del sostituto procuratore antimafia Stefano Orsi che, attraverso il lavoro della Squadra mobile di Bologna, ha scoperto che dietro l'ondata di falsi minori ci sarebbe un gruppo criminale con appoggi internazionali. Un'organizzazione che, in cambio di cifre consistenti, in un caso è emerso un pagamento di dodicimila euro, garantiva ai migranti tutto il sostegno necessario a ottenere la corsia preferenziale verso il permesso di soggiorno garantita in Italia ai minorenni. Che Bologna fosse diventata la porta spalancata per questo traffico era diventato così noto che nelle carte si ricostruisce il caso di un falso minore che, sbugiardato a Latina, viene indirizzato a Bologna dall'operatore di una comunità assistenziale. La Procura è anche riuscita a ottenere da alcuni dei finti minori l'ammissione della vera età e quest'estate ha chiuso l'inchiesta a carico di 199 indagati. Dell'elenco fanno parte anche parecchi italiani. Inclusi un'agenzia per stranieri di Bologna che si chiama «Free world», un medico, un commercialista e un avvocato. Tutti pronti in cambio di denaro, secondo la Procura, a produrre ogni genere di falsa documentazione. Una fabbrica del falso che lavorava a pieno regime anche per far rientrare decine di stranieri nella sanatoria del 2012 varata dal governo Monti, tutte persone che non ne avrebbero avuto diritto. In un'Italia che affida l'accertamento della verità solo ai certificati e alla burocrazia, i veri minorenni e i veri lavoratori stranieri faticano a trovare una strada legale. Ai disonesti basta una stampante e un po' di astuzia per trasformare il tarocco in verità su carta bollata. La parola falso è quella che ricorre di più nelle carte dell'inchiesta. La «fabbrica» produceva false testimonianze, false nozze, false parentele, falsi datori di lavoro, falsi documenti. I costi a carico dell'erario sono enormi, se si pensa che per i minori i programmi di sostentamento e inserimento nel mondo del lavoro costano da 80 a 120 euro al giorno. Dall'inchiesta escono invece puliti i vertici dell'Asp Irides, difesi dall'avvocato Paolo Trombetti di Bologna, che sono riusciti a dimostrare di essere estranei al traffico e, al contrario, di aver invece cercato di denunciarlo. Resta il fatto che gli enti locali appaiono indifesi di fronte a operazioni come questa, costretti a subire il raggiro. E a pagare.

CENTRI PER L'IMMIGRAZIONE IN ITALIA. CPSA, CDA, CARA, CIE. SPRAR, CAS. IL GRANDE AFFARE DEI CENTRI DI ACCOGLIENZA.

Migranti, quando l’emergenza è un alibi per il business. Mentre nei Cas esiste poca trasparenza negli Sprar, invece, oltre alla assistenza sono previsti una serie di servizi per favorire l’integrazione, scrive Damiano Aliprandi il 29 giugno 2018 su "Il Dubbio". Il business sui migranti non si elimina chiudendo i porti, ma creando condizioni dove nessuno possa lucrarci sopra. La condizione ideale per lucrare è parlare di una emergenza che non c’è. Il ‘ business accoglienza’ si è sviluppato perché negli ultimi anni sono stati circa 130mila i migranti che si sono fermati in strutture temporanee, i famosi centri di accoglienza straordinaria (Cas) da sempre saliti agli onor di cronaca per truffe, maltrattamenti, carenze di personale e mancanza di servizi essenziali. Centri nati, appunto, con la scusa emergenziale. A questi si contrappongono i Sistemi di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) dove la rendicontazione delle spese è molto precisa, ci sono dei criteri fissati e qualsiasi variazione deve essere autorizzata. È tutto controllato, monitorato, blindato. Mentre nei Cas questo tipo di trasparenza non esiste: vince il bando della preespulsione) fattura chi presenta la migliore offerta economica. Per le spese basta fare una fattura, come vengono spesi i soldi non è rendicontato. E i controlli sono disomogenei e spesso fatti a campione. Lo Sprar, invece, ha il pregio di non essere solo assistenziale, ma oltre al vitto e alloggio, deve erogare servizi come la mediazione linguistica e culturale, corsi di lingua italiana, percorsi di formazione e professionali, orientamento e assistenza legale al fine di favorire l’integrazione. L’accoglienza è prevista per sei mesi, rinnovabili per altri sei ed è comunque garantita fino alla decisione della Commissione territoriale oppure, in caso di ricorso, fino all’esito dell’istanza sospensiva. Ma quanti comuni italiani hanno aderito al progetto Sprar? Basta andare a verificare i dati aggiornati a Marzo del 2018 e si evince che sono 1200 i coinvolti, però su un totale di 7.982 comuni. Una questione che sollevò Emma Bonino, la leader di “+ Europa”, sottolineando l’importanza della presa a carico dello Sprar da parte di tutti i comuni. Infatti, nel piano nazionale di ripartizione Richiedenti Asilo e Rifugiati presentato all’inizio del 2017, viene spiegato che 3.493 comuni al di sotto dei duemila abitanti dovrebbero accogliere 6 migranti ciascuno, mentre gli altri 4.491 comuni al di sopra dei duemila abitanti dovrebbero ospitarne in numero variabile in rapporto al numero di cittadini. Discorso a parte per 14 comuni capoluogo, che dovrebbero accogliere 2 rifugiati ogni 1.000 cittadini. Una gestione perfetta che, oltre a risollevare l’economia dei comuni (crea lavoro attraverso l’assunzione del personale e indotti), non ci sarebbe la percezione di essere “invasi” visto la distribuzione omogena dei migranti. Non a caso, con un decreto del ministero dell’Interno del 2016, era stata avviata una fase caratterizzata dalla valorizzazione e dal rafforzamento degli Sprar come modello di accoglienza diffusa incentrato sul ruolo degli Enti locali e imperniato sulla loro capacità di progettare servizi di accoglienza integrati in partenariato con il terzo settore e in rete col territorio. A partire dai primi mesi del 2017 l’associazione nazionale comuni italiani (Anci) ha realizzato e messo a disposizione degli enti locali una serie di iniziative e di strumenti specifici di supporto per sostenere in modo stabile e fattivo i percorsi territoriali di adesione allo Sprar. Gli Enti locali hanno avuto la possibilità di inviare domande e ricevere risposte puntuali su una vasta gamma di argomenti relativi all’attivazione di uno Sprar, incluso il nuovo Codice degli appalti in relazione all’affidamento dei servizi e al reperimento delle strutture. Tutto in modo trasparente e funzionale all’integrazione dei migranti. Vale la pena ribadire e che il sistema Sprar prevede un approccio integrato all’accoglienza finalizzato a inserire il migrante non in un circuito meramente assistenziale ma in un percorso che, insieme ai servizi minimi materiali, lo accompagna verso l’integrazione sul territorio, a partire da un progetto personalizzato, promuovendo forme di ospitalità in piccoli centri nei quali i rifugiati gestiscono personalmente i loro spazi e sperimentano forme di autonomia. Tale modalità di accoglienza risulta estremamente più efficace rispetto alle grandi strutture collettive rappresentate dai Cas o da altre tipologie di centri. Ma finora il primato dell’accoglienza ce l’hanno ancora quest’ultimi. Negli ultimi anni sono stati circa 130mila i migranti che si sono fermati in queste strutture, mentre solo 30mila i migranti accolti negli Sprar. Quindi il business continua.

Truffe e maltrattamenti nei Centri migranti. Dopo la vicenda di Benevento arrestati i responsabili di Onlus che gestivano se centri di accoglienza straordinari per migranti, scrive Damiano Aliprandi il 27 giugno 2018 su "Il Dubbio". Immigrati maltrattati, truffe, frode nelle pubbliche forniture. Che i centri di accoglienza in convenzione con privati presentano molto spesso condizioni cattive lo si sapeva da sempre. Ma ieri, dopo la presunta frode sull’accoglienza dei migranti a Benevento che avrebbe avuto la complicità di un funzionario della Prefettura, grazie ad una operazione della polizia, ne abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione. La squadra mobile di Latina ha arrestato sei persone responsabili di Onlus operanti nella gestione di diversi Centri di accoglienza straordinaria ( Cas) nella provincia pontina. I reati ipotizzati sono, a vario titolo, falso, truffa aggravata, frode nelle pubbliche forniture, maltrattamenti. Nel corso dell’indagine gli uomini della squadra mobile di Latina e quelli del Commissariato di Fondi hanno effettuato diversi sopralluoghi all’interno dei Centri, riscontrando gravi situazioni di sovraffollamento e carenze di natura igienico- sanitaria. Analizzando la documentazione depositata dai responsabili delle Onlus per la partecipazione ai bandi di gara indetti per l’accoglienza dei migranti, inoltre, i poliziotti hanno scoperto una serie di «gravi e sistematiche» violazioni nell’esecuzione degli obblighi assunti dai gestori dei Cas in sede di aggiudicazione delle gare. Dalla intercettazione è infine emerso che una delle Onlus, di fatto, si spartiva la gestione dei richiedenti asilo con un’altra Onlus, senza alcuna comunicazione alla Prefettura di Latina. La gestione dei Cas, tramite privati, è un problema denunciato non solo dalla campagna LasciateCIEntrare o da varie organizzazioni che si occupano dei diritti umani. Basterebbe leggere la relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sul trattamento dei migranti, consegnata il 21 dicembre del 2017 alla Camera, dopo due anni di lavori. L’anomalia più grave che era emersa dalla relazione riguarda proprio i Cas, i Centri di accoglienza straordinaria. A dicembre del 2017 hanno ospitato l’81 per cento dei richiedenti protezione internazionale presenti in Italia, cioè 151.239 persone su un totale di 186.833. Il ricorso ai Cas cresce con un tasso doppio rispetto all’incremento delle presenze. «Dovevano essere una soluzione momentanea e transitoria, invece è diventata permanente», aveva spiegato Federico Gelli, l’allora presidente della Commissione in quota Pd. Quando parliamo di Cas intendiamo casali, alberghi, affittacamere, residence, ostelli, tensostrutture, case famiglia, caserme: i gestori, o gli affittuari, hanno ottenuto l’appalto dalle prefetture e si sono presi i migranti. Sono quasi tutti privati, ad eccezione di quelli aperti in edifici militari e religiosi che però coprono una parte minima dei flussi. Grosso modo, sette centri su dieci sono gestiti da privati, che li mandano avanti grazie al contributo dello Stato. Secondo la Commissione d’inchiesta, si annidano qui i problemi maggiori riguardo alla mediazione culturale, alla integrazione, alla professionalità degli operatori. Oltretutto i Cas sfuggono più facilmente ai controlli, a differenza della rete Sprar. «Non dobbiamo generalizzare – aveva spiegato Gelli – ma il rischio di sprecare denaro pubblico a beneficio di soggetti che non offrono i servizi per cui sono pagati è concreto. Per questo ha fatto bene Minniti ad attivare una task force per monitorare il meccanismo di affidamento delle prefetture». Il generale della Finanza Stefano Screpanti davanti alla Commissione il 29 novembre dell’anno scorso, parlò di casi di «omessa effettuazione delle procedure di gara a favore di chi è sprovvisto di requisiti necessari», e di «forme di illegalità contigue tra il settore pubblico e il privato».

Appello pro-migranti alla maturità. Lega: "Pressioni da prof che fa saluto comunista". Polemica della Lega dopo l'appello pro-migranti alla maturità di un gruppo di liceali: "Palese la pressione psicologica degli ispiratori dell'iniziativa contro l'operato governo italiano". Ma gli studenti negano le pressioni, scrive Luca Romano, Giovedì 28/06/2018, su "Il Giornale". Gli studenti del liceo Classico Torricelli-Ballardini di Faenza durante la prima prova dell'esame di maturità avevano consegnato un "appello" diretto a Mattarella, Conte e Salvini. Un messaggio contro le politiche sui migranti del governo giallo-verde. La loro iniziativa ha scatenato a Faenza una nuvola di polemiche con la Lega sulle barricate. Nel testo, secondo quanto riportato anche da Michele Serra su Repubblica, c'era scritto: "Io sottoscritto, in riferimento alla situazione delle persone migranti, pretendo il rispetto dell'articolo 2 della Costituzione, che recita: la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Chiedo che questo mio messaggio sia recapitato al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio, al ministro degli Interni e al ministro dell'Istruzione". L'appello ha incuriosito i consiglieri della Lega che ora vogliono vederci chiaro. E così è scoppiata la polemica. Proviamo a ricostruire la storia. Il Resto del Carlino nei giorni scorsi ha pubblicato la notizia secondo cui il suggerimento ai ragazzi sarebbe arrivato da una professoressa. Agli studenti sarebbe arrivato un messaggio vocale, spiegano gli esponenti della Lega, "nalla chat forumisti”, ovvero i ragazzi che hanno partecipato qualche mese fa al forum sulla destra e la sinistra". Nell'audio, secondo quanto riporta il Resto del Carlino, si sentirebbero le seguenti parole: "Un gesto... Se migliaia, spero che ci siano migliaia di maturandi, fossero disposti a scrivere nella prima prova di maturità: 'Io sottoscritto pretendo che venga rispettato l' articolo 2 della Costituzione della Repubblica italiana che recita' e poi lo scrivete, e chiedete che questa vostra richiesta sia comunicata al ministro dell'Interno, al ministro dell'Istruzione, al primo ministro e al presidente della Repubblica... Dopodiché c'è sempre nei verbali lo spazio per eventuali comunicazioni da fare al Miur, e comunque è chiaro che se io mi trovo nella mia commissione anche solo 10 persone che hanno scritto questa cosa mi rivolgo agli organi di stampa e lo comunico". Per la Lega ci sono tutti i presupposti per una interrogazione al Consiglio comunale. A rinfocolare la polemica c'è anche "una foto della prof in pieno saluto comunista in posa con i suoi studenti. Segnaleremo il tutto al Provveditorato, perché la scuola deve essere apolitica e i professori devono insegnare non indottrinare". A parlare sono i due consiglieri della Lega Gabriele Padovani e Jacopo Berti. "È proprio con i "forumisti" che la professoressa si fa ritrarre in posa comunista", continuano i leghisti in una nota. "Mi sembra strano - ha spiegato Padovani - che a fronte di una prova d’esame che viene ricevuta in busta chiusa dal Ministero, diversi ragazzi eseguano lo stesso tema, recitando tutti la richiesta di applicazione dell’articolo 2 della Costituzione. Qua c’è qualcosa che puzza, i ragazzi sono stati indirizzati da una docente nella redazione di una parte dell’esame di Stato. Segnaleremo il tutto al Provveditorato, e speriamo che chi indottrina invece di insegnare, venga punito". Da parte loro gli studenti, contattati dal quotidiano locale, negano ci sia stata una "pressione" da parte della docente: "Anzi - hanno detto - l'insegnante ci ha lasciati liberi di scegliere se scrivere quell' appello o meno. L' idea era già venuta fuori al forum della filosofia". "A fronte dell’interrogazione comunale - continua la nota leghista - la risposta dell’Assessore è stata invece vaga e inconcludente. Anche i nostri amministratori non si vogliono esprimere. Prima tutti a lodare l’iniziativa umanista dei ragazzi, ora invece silenzio". E ancora: "Aspetteremo i risultati delle prove scritte per sapere se questi studenti saranno premiati per questa loro strumentalizzazione o se i loro temi saranno valutati oggettivamente, tenendo conto della non attinenza alla traccia dell’appello al Presidente della Repubblica e della curiosa coincidenza del fatto che, senza poter comunicare tra loro durante l’esame, più studenti abbiano scritto esattamente la stessa cosa, come se conoscessero preventivamente le tracce. Richiederemo tutti gli accertamenti del caso". Poi concludono: "Prima la foto con i ragazzi con il saluto comunista, poi i messaggi pre esame di Stato con richieste verso gli studenti. La professoressa non si è mossa in maniera limpida e segnaleremo il tutto agli enti preposti. La scuola deve essere sempre apolitica e deve aiutare i ragazzi a comprendere quale idea sposare, non deve indottrinare forzatamente". Non solo. Perché i leghisti Gianluca Pini e Samantha Gardin hanno presentato anche un esposto alla procura. "Tale iniziativa - hanno scritto i due nell'esposto -, volta a far sottoscrivere ai maturandi una sorta di appello-condanna all' operato dell' attuale governo in materia di contrasto all'immigrazione clandestina, parrebbe, secondo quanto riportato dai maturandi, originarsi da un'idea dei docenti delle stesse scuole superiori della provincia di Ravenna, i quali avrebbero insistentemente chiesto agli allievi di sottoscrivere tale appello-condanna prima dell' inizio degli esami, il tutto sempre secondo quanto affermato dagli stessi maturandi". Per i leghisti "risulterebbe palese la pressione psicologica degli ispiratori dell'iniziativa contro l'operato governo italiano nei confronti dei maturandi, i quali si troverebbero, nella migliore dell'ipotesi, in evidente imbarazzo a rifiutare una proposta di sottoscrizione di un documento da parte di chi, da lì a pochi giorni, deciderà delle sorti di un esame che segna a vita il curriculum di una persona".

Il grande affare dei centri d’accoglienza, scrive Stefano Liberti, per Internazionale il 3 dicembre 2014. “È vero e altrettanto necessario che siano per tempo predisposti e periodicamente aggiornati, con il concorso di tutte le amministrazioni istituzionalmente competenti, adeguati piani di accoglienza, per evitare che il paese sia colto alla sprovvista da tali fenomeni di massa”.– Margherita Boniver, commissario straordinario del governo per gli interventi resi necessari dall’eccezionale afflusso di albanesi in Italia, giugno 1992. Semhar aveva tutt’altra idea dell’Italia. Quando è arrivata con la figlia neonata, dopo una traversata in barca che racconta ancora tra le lacrime, credeva di essersi lasciata alle spalle tutti i guai. “L’Europa è la patria dei diritti. La mia vita ripartirà”, ricorda di aver pensato quel giorno di tre anni fa quando è stata salvata in mare e scortata verso “Lambedusa”, quel luogo dal suono sgangherato e magico che già aveva sentito correre di bocca in bocca sul camion nel deserto del Sahara. Semhar è eritrea. Ha lasciato il suo paese clandestinamente per sfuggire a un servizio militare che per tutti – uomini e donne indistintamente – comincia un giorno e non si sa quando finisce. È fuggita in Sudan, ha attraversato il deserto ed è arrivata in Libia. Qui ha vissuto un anno, è rimasta incinta di un uomo che aveva conosciuto in viaggio e che ha poi sposato a Tripoli. Ha partorito in un ospedale tra le bombe della Nato – era l’aprile del 2011, nel pieno dell’offensiva contro Gheddafi – e poi col marito ha deciso di partire. La Libia non era più sicura; hanno preso un barcone verso “Lambedusa”. Duemila euro per tutti e tre, rifarsi una vita, offrirne una migliore alla loro bambina. Sono arrivati, stremati ma salvi. La piccola ha mostrato di essere forte, non ha mai pianto e anzi ha dormito parecchio durante i quattro giorni passati in mare. Sull’isola hanno passato poche ore; li hanno portati rapidamente a Mineo, il grande centro per richiedenti asilo in provincia di Catania. Gli hanno preso le impronte digitali e gli hanno detto di aspettare. E loro hanno aspettato. “Le giornate lì erano sempre uguali; non c’era nulla da fare”, ricorda Semhar, che racconta come un giorno il marito sia uscito dal campo per andare a cercare dei medicinali e non è più tornato. “Forse si era scocciato, forse si è sentito male”, gli occhi le si inumidiscono, lasciando trasparire una ferita che solo il pudore non le fa mostrare in tutta la sua ampiezza. Semhar ha trascorso un anno all’interno del centro d’accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Mineo, ha contato i giorni che passavano uno uguale all’altro, ha tentato di scacciare il ricordo del marito scomparso. Poi ha avuto lo status di rifugiata ed è andata a Roma. Qui credeva di poter ricevere un aiuto da quello stato italiano che aveva riconosciuto il suo bisogno di protezione – qualche facilitazione per trovare un alloggio, un inserimento professionale, un sostegno per la bambina piccola. Ma ha capito presto che nulla di tutto ciò era previsto. O meglio: che qualcosa del genere era forse previsto per un numero molto esiguo di persone e che i tempi di attesa erano lunghi. Semhar si è stancata di aspettare e ha deciso di far da sé. Oggi vive in via Curtatone, in uno dei palazzi occupati dai rifugiati eritrei nella capitale, un edificio di nove piani già sede dell’Istituto superiore di protezione ambientale. Vivendo della solidarietà dei compagni, o di qualche lavoretto che ogni tanto capita. Non è ovviamente l’Italia che si era immaginata, è quella in cui è costretta a vivere: le sue impronte digitali sono nel database Eurodac e, se volesse andare all’estero per cercare condizioni migliori, sarebbe rimandata indietro per effetto della convenzione di Dublino, secondo cui un rifugiato deve chiedere asilo e stabilirsi nel primo paese sicuro e non può andare altrove nell’Unione europea. Prigioniera della non-accoglienza, ragazza madre in fuga dalla dittatura, Semhar ha solo la tenacia a salvarla dalla disperazione. E sua figlia con gli occhi vispi che sta crescendo da sola. Nella stanza al primo piano di questo palazzo al centro di Roma, a due passi dalla stazione Termini, ha poche cose: un televisore, un letto e una Bibbia in lingua tigrina. Il libro dalla copertina blu ha le pagine consumate, ha attraversato con lei il deserto e il mare. Semhar se l’è trascinato dietro per tutto il viaggio. Come un salvagente, a cui si è aggrappata e si aggrappa nei momenti di maggiore sconforto. La sua storia è il paradigma del sistema di accoglienza Italia, fatto di attese interminabili, costi sproporzionati e un approccio sempre e comunque basato sull’emergenza. Nel 2011, l’anno in cui è arrivata, il numero dei cosiddetti sbarchi è stato definito “eccezionale”: la rivoluzione in Tunisia prima, la guerra in Libia poi, avevano fatto lievitare gli arrivi fino alla cifra mai toccata prima di 63mila persone. Questo aveva spinto il governo di allora – alla presidenza del consiglio Silvio Berlusconi, al ministero dell’interno Roberto Maroni – a decretare la cosiddetta emergenza Nordafrica e approntare un sistema d’accoglienza straordinario, in cui accanto a quello “ordinario” si dava mandato alle prefetture di identificare palestre, alberghi, palasport e luoghi di vario genere da adibire a strutture per i migranti arrivati via mare. In tutta la penisola si è sviluppato un sistema diffuso di centri, con cooperative, associazioni, soggetti vari già operanti nel terzo settore oppure del tutto improvvisati che hanno risposto all’appello, accogliendo migranti a fronte di una retta media di 45 euro al giorno. L’emergenza è stata chiusa per decreto il 28 febbraio 2013 dal ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri, durante il governo presieduto da Mario Monti. I migranti che ancora erano dentro le strutture sono stati invitati ad andar via, con una buonuscita di 500 euro. Arrivederci e grazie. Sono passati tre anni dall’inizio dell’“emergenza Nordafrica” e oggi siamo al punto di partenza. Nell’ultimo anno – complici la guerra in Siria e la situazione drammatica sul terreno in Libia – i flussi via mare sono ricominciati. Dall’inizio del 2014 a oggi, in Italia sono arrivati 160mila immigrati, la maggior parte soccorsa dai mezzi navali dell’operazione Mare nostrum, inaugurata il 18 ottobre 2013 dal governo italiano dopo la morte di circa 600 migranti in due naufragi al largo di Lampedusa e chiusa ufficialmente il 1 novembre scorso. Di quelli che sono arrivati, molti si sono dispersi in giro per l’Europa, anche grazie a un’applicazione permissiva da parte del governo italiano dell’obbligo di identificarli mediante le impronte digitali. Ma per gli altri si è approntato un sistema del tutto analogo a quello del 2011. Oltre alla cosiddetta accoglienza ordinaria, è stato chiesto alle prefetture di identificare luoghi temporanei dove piazzarli: di nuovo alberghi, palestre, palazzetti dello sport e altre strutture palesemente inadeguate – come il Tropicana, un night club a Ragusa dove le brandine per gli ospiti sono state collocate sulle piste da ballo in disuso. Centri di accoglienza straordinaria (Cas), come sono stati chiamati, sono stati aperti sia per i migranti adulti sia per i minori stranieri non accompagnati, che in quest’ultimo periodo sono arrivati in numero molto più alto del solito – 11.507 dal gennaio all’ottobre 2014, secondo i dati di Save the Children. E. è uno dei minori arrivati da soli. Alto e slanciato, una voce impostata e una padronanza di linguaggio che lo fanno sembrare molto più grande dei suoi 17 anni, questo ragazzo del Gambia si è sobbarcato un viaggio estenuante dal suo paese attraverso tutta l’Africa occidentale e la Libia. Si è imbarcato a Tripoli, è stato soccorso dalla marina militare italiana ed è arrivato nel porto di Augusta. Da qui l’hanno trasferito al centro Papa Francesco di Priolo Gargallo, in provincia di Siracusa, una palazzina a due piani con un bel giardino, in cui convive con un’altra novantina di minori stranieri. Sarebbe dovuto rimanere al massimo 72 ore in questa struttura; invece langue qui da quattro mesi, trascorrendo i giorni tra partite di calcetto, i corsi di italiano forniti da alcuni volontari e altre attività messe in piedi dagli operatori, che fanno del loro meglio per dare una parvenza di senso alla quotidianità altrimenti monotona degli ospiti. Il suo destino è simile a quello di gran parte delle migliaia di minori non accompagnati arrivati nel 2014: parcheggiati nei centri, in attesa dell’assegnazione di un tutore e del trasferimento in una comunità di assistenza. E. non capisce perché ci voglia tanto e non si sente a suo agio in questa situazione sospesa. “Qui mi danno da mangiare e da vestire, ma io sono giovane e forte. Vorrei lavorare. Vorrei guadagnarmi il pane che mangio con il sudore della mia fronte”, dice nel suo inglese forbito. L’inazione, l’incertezza del futuro, la mancanza di spiegazioni sono elementi strutturali di buona parte del sistema d’accoglienza, tanto per i minori che per gli adulti. “Questa sospensione temporale crea problemi inattesi ai migranti. Riattiva in loro i traumi delle violenze subite durante il viaggio. Arrivati in Italia, vivono infatti un nuovo disagio, che non avevano previsto: li portano in centri di primo soccorso dove dovrebbero stare massimo tre giorni e dove finiscono per passare anche sei mesi. In questo modo, si trasmette loro l’impressione di un paese che non li vuole e che non è pronto ad accoglierli”, spiega Lilian Pizzi, psicologa di Terres des hommes che lavora in questo e in altri centri per minori in Sicilia. I centri di assistenza straordinaria sono l’esempio di come è gestito il fenomeno immigrazione nel nostro paese: lo straordinario che diventa ordinario; l’emergenza che diventa strutturale e la continua deroga alle normative, che finisce per penalizzare il migrante e trasformarlo in soggetto passivo di decisioni che non riesce a capire.

Una cipolla a più strati. Accanto e parallelamente a questi centri straordinari, rimangono e si sviluppano i livelli dell’accoglienza ordinaria per quanti decidono di chiedere asilo: i Cara – come quello di Mineo, dove Semhar ha passato un anno senza fare granché – o i centri del cosiddetto sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), un servizio più articolato che almeno in linea teorica accompagna il migrante in un percorso di inclusione nella società fatto di apprendimento della lingua e di formazione professionale. Ed è così che si presenta oggi l’accoglienza made in Italy. Una cipolla a più strati: i Cas, parcheggi in cui il migrante vive in una dimensione d’indeterminatezza e di servizi scarsi o inesistenti. I Cara, luoghi in cui i richiedenti asilo dovrebbero stare fino a 35 giorni in attesa che la loro pratica sia esaminata dalla commissione territoriale competente e dove invece rimangono in media tra i 9 e i 12 mesi. E i centri dello Sprar, che sono considerati il fiore all’occhiello di un sistema altrimenti del tutto deficitario. Per quale ragione una persona finisce in una struttura piuttosto che in un’altra? “Pura questione di fortuna”, dice Ivan Mei, operatore sociale e membro di Laboratorio 53, un’associazione attiva a Roma nel sostegno e nell’inclusione dei migranti. L’analisi delle cifre mostra come la fortuna bacia meno di un terzo dei pretendenti: delle 61.238 persone attualmente in accoglienza, più della metà (32.335) sono in centri temporanei, 10.206 nei Cara e 18.697 in strutture afferenti allo Sprar. “Il destino dei richiedenti asilo è affidato al caso: per ragioni puramente congiunturali, la disponibilità di posti o persino l’umore del funzionario di turno, la prefettura può inviare una persona in un centro straordinario, in un Cara, oppure in un centro Sprar”, osserva Mei. “È una specie di lotteria”. Le falle del sistema d’accoglienza italiano sono state oggetto di varie denunce e condanne internazionali. Ultima in ordine di tempo, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha dichiarato, in una sentenza del 4 novembre, che la decisione della Svizzera di rimandare in Italia una famiglia afgana di otto persone in base alla convenzione di Dublino doveva essere bloccata finché l’Italia non avesse dato sufficienti garanzie sul loro alloggio. Secondo i giudici, “non è infondato ritenere che i richiedenti asilo rinviati adesso in Italia da altri paesi europei, in base al regolamento di Dublino, corrano il rischio di restare senza un luogo dove abitare o che siano alloggiati in strutture insalubri e dove si verificano episodi di violenza”.

Le strutture insalubri cui fanno riferimento i giudici di Strasburgo sono i palazzi occupati come quello dove vive Semhar o i Cara, gli enormi centri dove sono dislocati i richiedenti asilo, senza grandi prospettive, in attesa di essere ascoltati dalla commissione territoriale che deve decidere se assegnare loro la protezione internazionale. Ce ne sono 13 in giro per la penisola, per lo più al sud, con capienze variabili che vanno dai cento ai mille posti. E poi c’è Mineo. Ex comprensorio utilizzato dai marines statunitensi di stanza nella base di Sigonella, il “villaggio degli aranci” sorge nel bel mezzo della statale che da Catania va a Gela, una distesa di pianure baciate dal sole e di campi coltivati. È una teoria di villette a schiera color pastello con giardinetti dotati di giochi per bambini, larghi viali e campi di calcetto e di basket. Quando i soldati statunitensi l’hanno abbandonato, alla fine del 2010, è rimasto sfitto. Ma non per molto: nel pieno dell’emergenza Nordafrica, il governo di Silvio Berlusconi ha avuto l’idea di riutilizzarlo per ospitare i richiedenti asilo. Con i suoi circa quattromila abitanti, è il centro d’accoglienza più grande d’Europa. Un vero e proprio villaggio a parte, con le sue dinamiche sociali, i suoi rapporti di potere e tensioni permanenti tra le diverse comunità che sono costrette a conviverci. Gli “ospiti” rimangono all’interno per tempi infiniti: l’anno che ci ha passato Semhar non è un caso eccezionale. Lì dentro, si consumano in un limbo d’indeterminatezza e incomprensione, in un non luogo in cui l’unico contatto con il paese d’accoglienza è rappresentato dagli operatori e dai soldati in tuta mimetica che ne pattugliano l’ingresso.

Mineo è l’emblema del sistema Cara: lontano dai centri abitati, è un mondo a sé, in cui il richiedente asilo vive una situazione di spaesamento e di distanza dalla realtà. Perché, se è vero che questo centro le condensa all’eccesso, è anche vero che quasi tutte queste strutture presentano le stesse caratteristiche. Da Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, a Castelnuovo di Porto, vicino a Roma, dal centro di Crotone a quello di Bari Palese, i Cara sembrano rispondere nel loro insieme a una precisa strategia – tenere i richiedenti asilo lontani dalla “popolazione autoctona”, ridurre al massimo ogni commistione con la società d’accoglienza, impedire di fatto la tanto acclamata “integrazione”. I migranti hanno la possibilità di uscire, ma la posizione di gran parte di questi centri li confina di fatto al loro interno, senza possibilità di spostamento. Il “villaggio degli aranci” dista da Catania circa 50 chilometri, su una strada servita da scarsissimi mezzi pubblici.

“La convenzione di Dublino è una camicia di Nesso”. “Mineo è un tumore, va chiuso”. Il prefetto Mario Morcone non usa mezzi termini quando parla del Cara catanese. Capo del dipartimento libertà civili e immigrazione al ministero dell’interno, l’uomo è un veterano: ricoprendo lo stesso incarico tra il 2006 e il 2010, ha dovuto gestire i flussi in arrivo a Lampedusa e il delicato periodo dei respingimenti in mare, al termine del quale l’Italia è stata condannata senza appello dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Morcone è esperto e pragmatico. Va dritto al punto. Senza usare la lingua felpata dei funzionari ministeriali, riconosce i problemi e le disfunzioni del sistema, chiama le cause con il loro nome. “Spesso la gestione dell’immigrazione è stata strumentalizzata dalla politica”. Mentre parliamo nel suo ufficio al primo piano del Viminale, il suo telefono tintinna di messaggi che lo aggiornano in tempo reale sulle operazioni di salvataggio in mare. “Questi mi disturbano perché ne hanno salvati cento. Ma cento me li porto a casa mia!”. Morcone è tornato al suo vecchio incarico nel giugno scorso, e oggi è uno degli ideatori di un nuovo sistema di accoglienza che sulla carta ha l’obiettivo di superare la “logica puramente emergenziale”. Il progetto si propone di fare un primo esame rapido dei migranti arrivati via mare in una serie di centri dislocati in ogni regione, dove dovrebbero rimanere solo alcuni giorni e poi essere instradati verso centri più strutturati. “Stiamo cercando di rafforzare lo Sprar e ridurre al minimo l’utilizzo dei Cara e dei centri straordinari”. Il progetto è lodevole, ma i conti non sembrano tornare: i posti negli Sprar, che pure sono aumentati notevolmente nell’ultimo anno, sono comunque insufficienti e rappresentano appena un terzo della capacità di accoglienza necessaria per gestire questo flusso. E allora? Morcone allarga le braccia. “Faremo quello che riusciremo a fare. È un work in progress. Intanto, per la prima volta, abbiamo istituito un tavolo al ministero a cui partecipano tutti gli attori coinvolti nel sistema d’accoglienza: il Viminale, le regioni, i comuni e l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr)”. Lo stesso cauto ottimismo si respira dalle parti della sede dell’ufficio centrale di coordinamento Sprar. “Si stanno facendo passi avanti”, sostiene Daniela Di Capua, direttrice del programma. “Il tavolo riunito al Viminale e l’aumento dei posti nelle strutture che fanno capo al nostro servizio sono segnali più che incoraggianti”. Già fanalino di coda dell’accoglienza a strati, i posti nello Sprar nell’ultimo anno sono aumentati dai circa tremila del 2013 all’attuale picco di 20.952 per il triennio 2014-2016. Il che vuol dire che forse oggi Semhar otterrebbe il posto che non ha trovato nel 2011. Cosa ha spinto il governo a questa inversione di rotta? Di Capua non ha dubbi: “L’emergenza Nordafrica del 2011-2013 è stata gestita così male e con un tale dispendio inutile di risorse che è servita da monito”. Ma quante sono le risorse sperperate in quel periodo? Non poche: 1,3 miliardi di euro, un importo pro capite per migrante accolto tra i quindicimila e i ventimila, come si può leggere nel Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2014. Quanti di questi soldi sono serviti per attivare percorsi positivi d’integrazione? “Quasi zero”, risponde sconsolata Di Capua. “L’emergenza Nordafrica è stata un vero e proprio disastro”.

Una gallina dalle uova d’oro. Un disastro sì, ma forse non per tutti, perché “il punto tuttavia non è quanti soldi si spendono, ma come sono investiti”. La direttrice dello Sprar insiste su questo: il tema dei fondi destinati all’accoglienza di migranti e richiedenti asilo “è mal posto”. “Non si tratta di un lusso che possiamo permetterci o meno. È un obbligo sancito dalla Costituzione e dalle normative internazionali”. Anche Morcone è perentorio su questo punto: “A meno che non vogliamo uscire dalla comunità internazionale, non possiamo derogare ai nostri obblighi in merito all’accoglienza”. Poi, certo, secondo lui come secondo il ministro dell’interno Angelino Alfano e buona parte delle organizzazioni che si occupano di asilo, bisognerebbe riformare quella convenzione di Dublino che intrappola i rifugiati in Italia anche quando hanno parenti in altri paesi europei. “Si tratta di una contraddizione in termini: in un’Europa dove persone e merci circolano liberamente, blocchiamo solo i rifugiati. È una camicia di Nesso”. Ma quanto costa oggi e chi ci guadagna dall’accoglienza a cipolla all’italiana? Attualmente per ogni richiedente asilo lo stato versa in media 35 euro al giorno agli enti gestori dei centri, con cui questi assicurano vitto, alloggio, vestiti, qualche corso e una somma di 2,5 euro fornita agli ospiti per le piccole spese. “Durante gli scontri di Tor Sapienza, abbiamo sentito di tutto: residenti inferociti convinti che lo stato versa 35-40 euro direttamente ai migranti. Una bufala mostruosa e pericolosa, perché alimenta il razzismo”, precisa Di Capua. Questi 35 euro sono corrisposti agli enti gestori di tutti i centri. Per le strutture con grande capienza e pochi servizi, come i Cara e buona parte dei Cas, si tratta di un’opportunità di business non indifferente: il centro di Mineo, che ha ufficialmente duemila posti ma che arriva a ospitare anche quattromila persone, frutta a chi lo gestisce tra i 70mila e i 140mila euro al giorno. Il contratto di assegnazione, recentemente confermato, prevede una spesa di 97,9 milioni di euro per tre anni, da corrispondere all’ente gestore, un consorzio di aziende e cooperative che vanta forti legami con la politica siciliana, tanto a destra che a sinistra. Avere un’emergenza, parlare di emergenza, alimentare l’emergenza è utile a molti e la recente inchiesta aperta a Roma mostra in modo lampante come il business dell’accoglienza sia diventato strumento di spartizione di potere. Grandi ditte, consorzi di vario genere, piccoli e medi imprenditori si sono gettati nel settore dell’accoglienza, traendone profitti considerevoli. La gestione straordinaria dell’emergenza si è rivelata in questi anni una gallina dalle uova d’oro. Come ha sintetizzato Salvatore Buzzi, presidente del consorzio di cooperative Eriches che gestisce molti luoghi per l’accoglienza a Roma, nelle intercettazioni emerse dall’inchiesta Mafia Capitale, “si fanno più soldi con gli immigrati che con il traffico di droga”.

Grandi colossi, come la Domus Caritatis (legata all’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e Trifone e vicina a Comunione e Liberazione) o la Cascina, azienda già specializzata in servizi di catering in ospedali e mense in mezza Italia, hanno ottenuto appalti importanti nella gestione di diversi centri. Insieme ad altri, sono presenti nel consorzio che gestisce il Cara di Mineo. Due anni fa, nel pieno dell’emergenza Nordafrica, la Domus Caritatis è finita in mezzo a uno scandalo di adulti spacciati per minori non accompagnati per ottenere rette più alte, denunciato da Save the Children. Quali sono le cifre che ruotano intorno all’accoglienza? “Tra i 700 e gli 800 milioni all’anno”, afferma Morcone. Di questi, una porzione minima arriva dall’Unione europea, attraverso il Fondo asilo, migrazione e integrazione (Fami), che destina all’Italia per il periodo 2014-2020 poco più di 320 milioni di euro, ossia circa 45 milioni l’anno. Il resto lo mette il governo centrale. Visti i numeri è facile capire perché, come sostiene Buzzi, gli immigrati fruttano più del traffico droga. E forse anche perché il sistema dell’emergenza sia stato tenuto in piedi per tutto questo tempo nonostante la sua palese inadeguatezza e la consapevolezza che l’immigrazione non è una casualità imprevista ma un fenomeno che investe strutturalmente il nostro paese da almeno vent’anni. Avere un’emergenza, parlare di emergenza, alimentare l’emergenza è utile a molti e la recente inchiesta aperta a Roma mostra in modo lampante come il business dell’accoglienza sia diventato strumento di spartizione di potere, creazione di clientele e gestione di influenze politiche. Non sarà anche per questo che lo Sprar è rimasto fino a oggi la Cenerentola del sistema? Sono infatti soprattutto i centri con più capienza, come i Cara e i Cas, che garantiscono i profitti più alti, per la legge dei grandi numeri e per gli scarsi controlli a cui sono sottoposti, che diventano del tutto inesistenti in un periodo d’emergenza. Gli Sprar sono invece in generale strutture più piccole, dove richiedenti asilo e rifugiati sono seguiti secondo percorsi individuali. Si potrebbe pensare che i posti di questo sistema, con tutti i servizi che vi sono garantiti, costino molto di più. E che, in un momento di austerità e di tagli alla spesa, sia per questo che il modello non è generalizzato. Ma non è così. Lo Sprar costa esattamente la stessa cifra dei Cas e dei Cara: 35 euro per ospite. Perché allora non si smantellano questi ultimi a vantaggio di quello che tutti – anche in Europa – ritengono un sistema molto più efficiente? Perché si perpetua il circolo dell’emergenza e dei Cara, che non solo non produce risultati positivi, ma è anche occasione di malaffare e di profitti illeciti? Morcone dà una risposta tecnica: “Per i posti Sprar ci vuole l’accordo degli enti locali. Alcune regioni e comuni recalcitrano a ospitare rifugiati e richiedenti asilo”. Mentre i Cara e i Cas sono aperti dalle prefetture per lo più in aree demaniali dismesse o in edifici privati per lo più lontani dai centri abitati, gli Sprar rispondono alla logica opposta: devono essere integrati nel territorio, avere con il quartiere circostante una relazione, garantire un percorso di scambio e d’inclusione. “Gli enti locali devono fare uno sforzo e capire che per loro gli Sprar sono un’opportunità, sia perché sul medio periodo gli immigrati si rivelano una risorsa sia perché nell’immediato questi garantiscono occupazione nel territorio. La gran parte dei posti di lavoro in Calabria e in Sicilia in questi ultimi anni è stata creata grazie all’accoglienza dei migranti”, esclama Morcone. Ma non sempre la prassi segue il buon senso e, in un momento come questo di recessione e crisi, lo straniero “indolente e parassita” diventa il facile capro espiatorio di tutte le frustrazioni, come dimostrano le recenti rivolte nelle periferie romane contro i centri di accoglienza. E la politica finisce per seguire e cavalcare le retoriche di pancia, invece di proporre una visione a più lungo termine. Così capita che il ministro dell’interno Angelino Alfano giustifichi gli attacchi razzisti di Tor Sapienza con “l’eccesso d’accoglienza”.

Così i sindaci e i governatori di molte regioni si oppongono alla creazione dei posti Sprar. E così i grandi – e più che ragionevoli – piani del Viminale rischiano di rimanere lettera morta e la gestione dell’immigrazione finisce per essere occasione di business per imprenditori e faccendieri con pochi scrupoli. Con buona pace degli immigrati che potrebbero essere una “risorsa per un paese che invecchia”, alza le spalle Morcone. Domani, passata l’ennesima emergenza, quelli che arrivano e che arriveranno spereranno solo una cosa: sfuggire all’identificazione e proseguire verso mete più accoglienti. O, in subordine e se identificati, vincere un posto in prima fila nella lotteria dell’accoglienza made in Italy. A Semhar e agli altri, invece di garantire dei diritti, non ci resta che augurare buona fortuna.

CENTRI PER L'IMMIGRAZIONE IN ITALIA.

CPSA, CDA, CARA, CIE. Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I centri per l'immigrazione in Italia offrono accoglienza ai cittadini stranieri arrivati nel paese irregolarmente in vista della loro identificazione ed eventuale richiesta di asilo o espulsione. I centri, gestiti dalla Direzione centrale dei servizi civili per l'immigrazione e dell'asilo del Ministero dell'Interno, sono di quattro tipologie: Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA), Centri di accoglienza (CDA), Centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA), Centri di identificazione ed espulsione (CIE).

Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA). I CPSA accolgono gli stranieri al loro arrivo nel paese, ricevendo assistenza medica. Sul luogo si procede alla prima identificazione e gli ospiti possono chiedere la protezione internazionale. In base alle loro condizioni sono destinati verso un'altra tipologia di struttura. I CPSA sono quattro e si trovano a Lampedusa, Elmas, Otranto e Pozzallo.

Centri di accoglienza (CDA) e per richiedenti asilo (CARA). CDA offrono ospitalità allo straniero che arriva in Italia in attesa di essere identificato, affinché si accerti la possibilità della sua permanenza. Chi richiede la protezione internazionale ha come destinazione dei centri specifici, i Centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA), dove vengono avviate le procedure per l'asilo. I centri di questo tipo sono quattordici e sono nei comuni di Gradisca d'Isonzo, Arcevia, Castelnuovo di Porto, Manfredonia (Borgo Mezzanone), Bari (Palese), Brindisi (Restinco, Don Tonino Bello), Crotone (Località Sant'Anna), Mineo, Pozzallo, Caltanissetta (Contrada Pian del Lago), Lampedusa, Trapani (Salina Grande), Elmas.

Centri di identificazione ed espulsione (CIE). Nel caso in cui un cittadino straniero sia arrivato irregolarmente in Italia, privo dei requisiti utili per l'ottenimento della protezione internazionale, la persona è trattenuta nei Centri di identificazione ed espulsione (CIE). Lo straniero può restare per un massimo di 18 mesi all'interno della struttura, prima di essere espulso e rimpatriato. I CIE sono cinque e si trovano nelle città di Torino, Roma, Bari, Trapani, Caltanissetta.

CAS. Centri di Accoglienza Straordinaria. Sono immaginati al fine di sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza o nei servizi predisposti dagli enti locali, in caso di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti.  Ad oggi costituiscono la modalità ordinaria di accoglienza. Tali strutture sono individuate dalle prefetture, in convenzione con cooperative, associazioni e strutture alberghiere, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici, sentito l’ente locale nel cui territorio la struttura è situata. La permanenza dovrebbe essere limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nelle strutture seconda accoglienza.

SPRAR. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) è il servizio del Ministero dell'interno che in Italia gestisce i progetti di accoglienza, di assistenza e di integrazione dei richiedenti asilo a livello locale. Negli anni '90, in Italia, si sono adottati grandi interventi concernenti l'accoglienza dei richiedenti asilo e i rifugiati, perché era forte il bisogno di diffondere esperienza, competenze e i progetti promossi in tutti i comuni italiani che dovevano fronteggiare i problemi riguardanti la prima accoglienza e l'avvio dei processi di integrazione per i richiedenti asilo che giungevano e che attendevano di essere riconosciuti come rifugiati Nel 2000, viene stipulato un protocollo di intesa tra l'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI), l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e il Ministero dell'interno, che danno vita al Programma nazionale asilo (PNA). Il programma ha l'obiettivo di creare con il coinvolgimento di oltre 200 Comuni e 63 progetti territoriali, un'unione integrata di interventi volti all'accoglienza e all'appoggio dell'integrazione. Il PNA è stato inserito nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). A partire dalle esperienze di accoglienza decentrata e in rete, realizzate tra il 1999 e il 2000 da associazioni e organizzazioni non governative, nel 2001 il Ministero dell'Interno Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione, l'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e l'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR) siglarono un protocollo d'intesa per la realizzazione di un "Programma nazionale asilo". Nasceva, così, il primo sistema pubblico per l'accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, diffuso su tutto il territorio italiano, con il coinvolgimento delle istituzioni centrali e locali, secondo una condivisione di responsabilità tra Ministero dell'Interno ed enti locali. La legge n.189/2002 ha successivamente istituzionalizzato queste misure di accoglienza organizzata, prevedendo la costituzione del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). Attraverso la stessa legge il Ministero dell'interno ha istituito la struttura di coordinamento del sistema - il Servizio centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico agli enti locali - affidandone ad ANCI la gestione.

Migranti, grande abbuffata sugli Sprar: altri milioni alle (solite) coop​. Ad accaparrarsi i bandi del Viminale le stesse coop che già gestiscono la prima accoglienza dei migranti. Così piovono milioni sulle cooperative, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 13/07/2017, su "Il Giornale". In teoria dovrebbe essere il fiore all’occhiello del sistema di accoglienza italiano. È il cosiddetto Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), il programma che fornisce seconda assistenza ai migranti che rimangono per più tempo in Italia. Se i Centri straordinari (Cas) spesso diventano parcheggi affollati per clandestini, lo Sprar dovrebbe occuparsi della (vera) integrazione dei rifugiati. Tutto molto bello. E pure lodevole. Il fatto è che i finanziamenti del Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell’Asilo (Fnpsa) sono notevoli e in molti vorrebbero una fetta della torta. C’è da capirli: nel 2014 sono stati spesi 196milioni di euro, lievitati l’anno dopo a 208milioni euro e per i nuovi progetti del triennio 2017-2020 saranno ancora di più. Come rimanerne fuori? Il gioco funziona così: il ministero dell’Interno emette una gara, i comuni partecipano e poi girano una quota delle sovvenzioni governative alle cooperative che gestiranno il centro. Semplice e lineare. Peccato che spesso le fortunate aggiudicatarie siano le stesse associazioni che già controllano i Cas prefettizi. E visto che nulla vieta di incassare sia i fondi per prima che quelli per la seconda accoglienza dei migranti, le (solite) coop fanno festa doppia. Facciamo qualche esempio. Il Gruppo Umana solidarietà venne alla luce nel lontano 1993 in una parrocchia di Macerata. Da allora ha fatto passi da gigante fino a convincere ben 24 Comuni ad assegnargli l’amministrazione degli Sprar nel 2016. Non soddisfatto, ha collezionato pure incarichi prefettizi: Cagliari (54mia euro), Ancona, Ascoli Piceno (1.245.312 euro), Piacenza (332.235), Macerata, Roma, Latina, Fermo e il più ricco da 1,6 milioni a Teramo. Per avere un’idea del giro di danaro, basti considerare che nell’ultimo bilancio il Gus ha iscritto “9.319.399 di crediti verso le Prefetture” e “7.250.387 di crediti Sprar”. Totale: oltre 16 milioni da incassare. E se cercate qualcuno davvero abile nel destreggiarsi tra Cas e appalti comunali, quella è la Camelot di Ferrara, vero dominus dell’accoglienza nella pianura emiliana. Appare tra i gestori dello Sprar di Bologna e nella città estense aveva vinto il bando nel 2014. Poi nel 2015 scoppiò un polverone quando s’interessò del caso l’Anac di Raffaele Cantone. L’accusa era di appalti un po’ opachi (inchiesta archiviata) e il Comune decise di revocare l’affidamento (poi vinto di nuovo da Camelot). Il contrattempo non fu un problema, perché la coop aveva già diversificato gli introiti: dalla prefettura di Bologna, tra il 2015 e il 2016, si è vista liquidare 1.132.453 euro tra affidamenti diretti e fiduciari in ambito Cas. Non sono tutte uguali, ovvio. Di Sprar ne sa qualcosa anche la Nuova Ricerca. AgenziaRes(Coopres), cooperativa fondata più di trenta anni fa nelle Marche. In provincia di Fermo coordina ben sei strutture di seconda accoglienza. Ma loro, a quanto pare, non si sono fatti ingolosire dai Cas e questo è un merito che va riconosciuto. Discorso diverso per la coop Badia Grande di Trapani, che dopo essersi assicurata la gestione del centro comunale cittadino, si è allargata a Generosa, Trapani e Alcamo, fino ad ottenere nel 2017 il maxi-appalto per l’hub di Bagnoli di Sopra a Padova (in due anni importo previsto di 13,6 milioni di euro). Dalla Sicilia al Veneto, l’accoglienza è davvero senza confini. Ogni tanto viene da chiedersi per quale motivo piccoli centri come Alice Bel colle, 744 anime vicino ad Alessandria, anelino tanto ad avere 15 profughi e 635.108 euro di finanziamento. Poi finisce che a qualcuno sorgano sospetti. Come a Vasto, dove il M5S è andato all’attacco contro l’assegnazione del progetto Sprar alla coop “Pianeti Diversi” per il triennio 2017-2019 (1,6 milioni di euro e 50 immigrati). Perché? Uno degli assessori dopo l’aggiudicazione della gara è stato assunto dal “Consorzio Matrix”, nella cui “compagine sociale” appare proprio la coop vincitrice dell’appalto. Il diretto interessato nega ogni conflitto di interessi, ma i dubbi grillini rimangono. Peraltro Matrix è lo stesso consorzio che gestisce migranti a Palmoli, Schiavi d’Abruzzo, San Salvo, Lentella e Carunchio. Tutte a Chieti. E poi ha altre strutture nelle provincie di Foggia, Barletta, Andria, Trani. Quanto incassa? Nel 2016 a Chieti si è classificata prima nel bando prefettizio da 9,6 milioni di euro e nel 2015 a suo nome compaiono altri 3.344.684 euro. Vi sembrano pochi? Non bisogna stupirsi di quanto siano appetibili i progetti di seconda accoglienza. I fondi sono tanti, generosi e pure in crescita. Basti pensare che nel 2003 i profughi nel circuito Sprar erano appena 2mila e quest’anno toccano quota 25.743 tra adulti, minori e migranti con disagi particolari. I titolari dei 638 progetti sono 544 enti locali tra Municipi, province, comunità montane e unioni di comuni: le cooperative fanno a gomitate pur di ottenere l’assegnazione dalla giunta cittadina. Nel lungo elenco ci sono circoli Arci, la Croce Rossa, un’infinita serie di coop bianche, rosse e associazioni cattoliche. Quasi tutte impegnate alacremente sia nell’accoglienza straordinaria che in quella ordinaria. Per una grande collettiva abbuffata.

La cooperativa prenditutto che fa affari con i profughi. In pochi anni la Ecofficina si è aggiudicata la maggior parte dei centri di accoglienza del Veneto. La Procura vuole vederci chiaro, scrive Sabato 07/05/2016, "Il Giornale". Bandi sospetti, truffa aggravata, falso, bilanci esponenziali, cooperative che diventano società di capitali e generano un vero e proprio business dell'accoglienza. Questo il ciclone che sta investendo la Ecofficina, cooperativa padovana, divenuta un grande impero nel Veneto, con sede a Battaglia Terme. Una cooperativa che nel giro di quattro anni si è aggiudicata i centri di accoglienza di mezza regione, da Venezia a Vicenza, da Padova a Rovigo e ora anche a Treviso. Più di 1000 i richiedenti asilo ospitati e un bilancio cresciuto in modo straordinario, che nel 2015 ha toccato i due milioni e mezzo di euro. La Ecofficina che operava negli asili e nelle biblioteche è un ricordo ormai lontano; ora sembra un giro di affari senza fine che, visti i bandi del 2016, potrebbe addirittura quadruplicare. A capo della cooperativa c'è Gaetano Battocchio che l'altro giorno è finito nel registro degli indagati insieme a Simone Borile con l'accusa di truffa aggravata e falso. Sono sospettati di aver contraffatto carte ufficiali di un bando di accoglienza profughi. Il sospetto della Procura di Padova è che i due abbiano presentato falsi documenti al comune di Due Carrare, nel padovano, dove la cooperativa si è aggiudicata il bando Sprar 2016, cioè la gestione del sistema di protezione per i richiedenti asilo. Nel mirino degli inquirenti è finita una convenzione tra la Prefettura di Padova e la cooperativa che porta la data del 6 gennaio 2014 (giorno dell'Epifania) con decorrenza dall'8 gennaio 2014. Un documento fondamentale per la partecipazione della cooperativa al bando Sprar dato che uno dei requisiti per l'ammissione è l'esperienza continuativa nell'accoglienza pari a due anni e un giorno. Ma Ecofficina comincia a ospitare i primi profughi l'8 maggio 2014, dopo che l'allarme migranti a Padova scatta il 17 febbraio 2014. Che motivo c'era di firmare una convenzione a gennaio? La convenzione che risulta depositata in Prefettura, inoltre, è firmata il 14 maggio 2014 con decorrenza dall'8 maggio 2014. Due documenti quindi identici, a parte la data che è la discrepanza rilevante, e che hanno anche lo stesso codice di identificazione ma evidentemente una delle due carte è falsa. In sostanza la convenzione presentata da Ecofficina per partecipare al bando discosta da quella depositata in Prefettura. I Carabinieri giovedì mattina sono andati in Prefettura a Padova e si sono fatti consegnare dal vicario, Pasquale Aversa, tutta la documentazione per le indagini. Prelevate e acquisite poi, in municipio a Due Carrare, le fotocopie degli atti relativi al bando di gara. Perquisite le abitazioni di Battocchio e Borile e sequestrati computer, file, corrispondenza e schede. Ora si tratterà di capire se la cooperativa può ancora lavorare con la pubblica amministrazione. Non è la prima volta che finisce sotto indagine. Un mese fa la Procura di Rovigo, come riporta Il Mattino di Padova, ha aperto un'inchiesta per truffa aggravata ai danni dello Stato e maltrattamenti a carico di Battocchio e Sara Felpati (moglie di Simone Borile) per dei fatti avvenuti nel 2014 in un centro di accoglienza a Montagnana, nel padovano. Intanto ieri in serata la nota della Prefettura di Padova dove si attesta che «è emersa la difformità dell'atto in possesso del Comune di Due Carrare rispetto a quello effettivamente sottoscritto». Insomma una spirale che rischia di inghiottire uno dei grandi imperi dell'accoglienza.

Rifugiati, accoglienza a doppio binario. Costi segreti e gestioni opache per i 137mila ospitati nei centri “Cas”. Dei richiedenti asilo che arrivano in Italia, solo il 15% entra nel circuito "Sprar", più controllabile in fatto di conti e gestione. La stragrande maggioranza finisce nei "Cas", strutture emergenziali intorno alle quali le prefetture fanno muro. Le associazioni denunciano decine di casi di servizio sotto la soglia richiesta dai bandi, ma spesso rimuovere i gestori inadempienti è impossibile, scrive Lorenzo Bagnoli l'1 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Due sistemi di accoglienza paralleli: uno “ordinario”, l’altro “d’emergenza”. Uno dà maggiori garanzie di trasparenza, ma ospita il 15% dei migranti. L’altro è il regno dell’opacità, ma alle sue strutture viene affidato oltre il 80% dei migranti. Il primo si chiama Sistema di protezione richiedenti asilo (Sprar): nel 2017 il Ministero dell’Interno ha rinnovato la convenzione dei suoi oltre 600 centri, con il progetto di potenziare ulteriormente il sistema. L’altra metà del cielo è il sistema dei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria. Su circa 175mila migranti in strutture d’accoglienza, 23mila sono negli Sprar, 137mila nei Centri di accoglienza straordinaria, secondo i dati del Viminale del 12 gennaio. Gli altri sono in centri di prima accoglienza e hotspot. “Questo comporta una serie di problematiche operative nella gestione del fenomeno sul territorio, vista la necessità delle Prefetture di individuare strutture straordinarie – spiega Enrico Di Pasquale della Fondazione Leone Moressa, che studia gli effetti economici dell’immigrazione – l’altro elemento di spicco è relativo alla distribuzione dei migranti sul territorio nazionale: se è vero che negli ultimi anni le regioni del Nord hanno aumentato notevolmente il numero di migranti accolti, questo è avvenuto soprattutto attraverso i Cas, con una scarsa partecipazione dei Comuni alla rete Sprar”. A oggi la concentrazione di migranti in centri Sprar per ogni comune è di 0,39 ogni mille abitanti, mentre il Viminale vorrebbe arrivare ad una soglia massima di 2,5 richiedenti asilo ogni mille abitanti ed eliminare (o ridurre al minimo) i Cas. Per i quali “non c’è trasparenza nemmeno sul numero dei posti attivati”, spiega Laura Liberto dell’associazione Cittadinanzattiva, che insieme alla campagna LasciateCIEntrare e a Libera, ha lanciato a febbraio 2016 un monitoraggio nazionale. Hanno spedito 106 richieste alle Prefetture per avere accesso ai dati, negato del tutto o in parte in oltre 9 casi su 10: “C’è ancora pendente da oltre un anno e mezzo un ricorso al Tar del Lazio rispetto al diniego della Prefettura di Roma”, spiega Liberto. Il motivo? Il dato è sensibile. Al contrario degli Sprar, i cui dati sono facilmente reperibili. Dallo scoppio del caso Mafia Capitale, anche l’Autorità nazionale anticorruzione ha cominciato a monitorare gli appalti degli enti gestori dell’accoglienza (che spaziano dalle cooperative agli hotel) soprattutto “in emergenza”. Le ultime irregolarità le ha rilevate in Campania: 67 contratti stipulati tra il 2011 e il 2012, tramite affidamenti diretti con strutture alberghiere. Era il tempo dell’Emergenza Nord Africa: le modalità di affidamento degli appalti sono cambiate ben poco.

I CONTROLLI CHE NON CI SONO – Per legge, sono le Prefetture a dover controllare le strutture di accoglienza, di qualunque genere. Un lavoro immane: nel caso di quella di Milano, per esempio, ci sono tre persone che dovrebbero coprire circa 20mila posti. Il risultato è che si esce quasi solo su segnalazione di irregolarità. A meno che non si deleghi il controllo a qualcuno. Come accade per gli Sprar, dove esistono visite annuali che il Ministero delega al Servizio centrale, il quartier generale dello Sprar. Nel caso dei Cas, le visite sono spesso concordate in precedenza e si limitano a un colloquio con il gestore. L’effetto è nullo.

CAS: CONTI SEGRETI E SPAZIO AGLI ABUSI – Nei Cas – calcola la Fondazione Leone Moressa – la rendicontazione dei costi è pressoché inesistente. “Si chiede quanti sono i richiedenti asilo presenti nelle strutture. Punto”, spiega un esperto di immigrazione che preferisce restare anonimo. Ogni presenza corrisponde ad un prezzo corrisposto dalla Prefettura a seconda del capitolato dei lavori, che parte da 35 euro e premia molto chi contiene i costi. Anche se a discapito della qualità dei servizi. Per chi vuole fare dell’accoglienza un business, il gioco è facile: basta scrivere nel progetto una serie di attività che poi non vengono svolte. E i soldi entrano in cassa. I conti delle strutture esistono “ma non è possibile avere accesso dall’esterno”, dice ancora Liberto. E il discorso vale non solo per i flussi economici, ma anche per i corsi di italiano e le altre attività previste nei centri.

SEGNALANO CARENZE, MA SI TENGONO LA STESSA COOP – Il procedimento per le segnalazioni non è “standard”. Di solito si manda una mail di posta certificata alla Prefettura, che in quel caso dovrebbe intervenire. E non accade spesso. Ma anche le volte che accade, poi, la Prefettura si trova con le mani legate. E l’appalto torna a chi è stato denunciato. Questo paradosso si è visto ad esempio, con la KB srl, società gestita nel varesotto da Katia Balasino e dal marito Roberto Garavello. Da maggio dell’anno scorso i migranti lamentavano condizioni igieniche ingestibili. Balasino a settembre ha detto di essere pronta a lasciare tutto: trattasi di 600 posti su 1.800. Impossibile trovare un’alternativa. Così, nonostante la stessa Commissione parlamentare d’inchiesta sui centri d’accoglienza abbia certificato, ad inizio novembre, l’inadeguatezza delle strutture, a ora sono le uniche soluzioni possibili.

MAFIA CAPITALE E L’ACCOGLIENZA – Milano, 12 ottobre 2016. Dopo un anno e mezzo dalla prima segnalazione, il prefetto Marangoni fa chiudere il centro di accoglienza straordinario da 110 persone della cooperativa InOpera per le condizioni igieniche inadeguate. Era stato già sospeso nel marzo 2015, poi la stessa Prefettura aveva dovuto reintegrarlo. “Tuttora, a Milano, prova a partecipare, ma fino adesso mi risulta che la cooperativa per ora sia stata esclusa”, continua l’esperto di immigrazione. Ma InOpera agisce anche a Roma, dove ha vita più semplice. Tra il 2014 e il 2016 lavorava spesso in associazione temporanea di impresa con le cooperative del consorzio La Cascina, gruppo controllato da Salvatore Buzzi, l’uomo di Mafia Capitale. Le strutture non gestivano solo Cas, ma anche posti Sprar, di cui uno – riporta il report di Lunaria intitolato “Il mondo dentro”, uscito a novembre – è stato anche chiuso. Altri continuano a restare aperti. Il paradosso è che, con la stessa cooperativa, i posti Sprar riescono a mantenere un certo standard, mentre i Cas no.

Tra gli esempi negativi segnalati da Lunaria c’è quello di Integra, altra cooperativa che gestisce centri in tutta Italia. Nel 2015 viene sospesa temporaneamente dalla Prefettura di Milano: i suoi ospiti vengono trasferiti in altri centri milanesi. Eppure, a febbraio 2016, gestisce nove centri di accoglienza. Il Naga, associazione che si occupa di assistenza ai migranti, ha pubblicato nel febbraio 2016 un rapporto in cui emerge come uno degli enti gestori peggiori: affitti di strutture non pagati, pocket money non erogati, lezioni inesistenti. Fin dal 2015 è oggetto di numerose segnalazioni. Eppure continua a ricevere centri in gestione.

Sistema dell'accoglienza sotto inchiesta tra Firenze, Roma e Catania. Dalla legge di Stabilità spuntano altri tre milioni per il Cara di Mineo, scrive il 21/04/2015 Claudia Fusani su L'Huffington Post. Inchieste già aperte. Sviluppi clamorosi di cui si vocifera negli ambienti giudiziari, da Firenze a Roma passando per Catania e Agrigento. Fatti che, messi in fila, portano ad evidenti ipotesi di reato. Il sistema dell’accoglienza può assumere contorni criminogeni? Il dubbio comincia a togliere il sonno ai tanti, la maggior parte, che di certo sono in buona fede. Il punto è che in questo momento una delle poche fonti sicure di reddito è proprio quella che origina del meccanismo dell’assistenza agli immigrati. Un giro d’affari di circa 63 milioni al mese, volendo restare cauti. Cifra che si ottiene sommando i 30 euro assegnati giornalmente per ciascuno dei circa 70 mila immigrati assistiti tra Cara, Sprar e altri centri minori, comprese abitazioni private, piccoli hotel e pensioni. Trenta euro infatti è la cifra media stanziata giornalmente per vitto e alloggio e generi di prima necessità per ciascun immigrato. Domenica, nel pieno della tragedia del naufragio, il premier Renzi ha tenuto fermo soprattutto un punto: “Nessuna procedura d’emergenza, avanti con il sistema ordinario”. Non è un caso. I fascicoli delle procure parlano chiaro. Il giro d’affari dell’accoglienza produce corruzione, favoritismi, posti di lavoro, consenso politico. Era il primo di dicembre quando le intercettazioni di Buzzi, a capo della Cooperativa 29 ottobre, fecero sobbalzare l’opinione pubblica. “Ma lo sai te quanti soldi ci faccio con gli immigrati?”, chiedeva Buzzi al socio Carminati. “Molti di più che con il traffico di droga”. Le carte dell’inchiesta Mafia Capitale sono state il primo segnale di un sistema probabilmente già marcio. Alcune di quelle carte sono state trasmesse a Catania. Nel frattempo la procura di Firenze, che a dicembre scorso attendeva le decisioni del gip sull’inchiesta che ha travolto il vertice del ministro delle Infrastrutture, ha a sua volta trasmesso carte a Roma. Perché poi alcuni nomi, soprattutto di cooperative, tornano sempre. Il Cara di Mineo, ad esempio, il più grande di tutta Europa, oltre 3.500 posti. A fine febbraio diventa ufficiale l’inchiesta della procura di Catania (ma i riflettori li aveva già accesi Roma) che ha messo sotto inchiesta la gara d’appalto del valore di 100 milioni con cui la Commissione centrale dedicata all’accoglienza e nei fatti guidata da Luca Odevaine (uomo punta dell’inchiesta Mafia Capitale) ha affidato la gestione del Cara. Il commissario anticorruzione Raffaele Cantone l’ha definita “una gara d’appalto “lesiva della concorrenza”, “senza alcuna trasparenza”, “cucita addosso ai vecchi gestori” capaci di aggiudicarsi nuovamente quel bando a nove cifre nel giugno 2014. Il cosiddetto “faldone Mineo” spicca da tempo sulla scrivania del procuratore di Catania Giovanni Salvi e le carte arrivate a dicembre scorso dai colleghi di Roma che indagano su “mafia capitale” sono state solo l’ennesimo ma non ultimo tassello di un’indagine che fa tremare i polsi a molti politici. E a gruppi di cooperative legate a determinate aree politiche. Nonostante questo, stupisce scoprire come tra le pieghe della legge di Stabilità a fine novembre 2014 il governo abbia concesso, su richiesta di Ncd, altri tre milioni di euro per il Centro di Mineo. La Sicilia è regione leader nel sistema dell’accoglienza, 14.450 persone, pari al 22% del totale. Un discreto giro d’affari, dunque, soprattutto sicuro visto che gli arrivi aumentano a vista d’occhio. Le procure siciliane vigilano. Dopo Catania, si sono mossi anche i pm di Caltagirone dove c’è uno SPRAR (centri più piccoli, in questo caso di circa 25 posti). Il Centro è gestito dalla cooperativa Sol Calatino, consorzio bipartisan che, oltre a Caltagirone, gestisce Mineo con il consorzio Sisifo, iscritto a Legacoop e coinvolto nello scandalo delle docce antiscabbia del Cie di Lampedusa, ma anche con Cascina Global Service (nome che torna spesso nelle carte del Ros a Firenze) vicina a Comunione e Liberazione. Indiscrezioni mai confermate dicono che il sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione (Ncd) sia indagato in queste inchieste. E che il sistema dell’accoglienza sia un bacino di voti importanti per l’Ncd di Alfano. Dalle scrivanie dei pm di Caltagirone emergono anche altri scandali legati al business immigrati. S’indaga su un giro di assunzioni pilotate che sta coinvolgendo ben nove comuni del catanese, una torta che vale circa 97 milioni di euro. Tra gli assunti nel Cara di Mineo e negli Sprar della provincia ci sarebbero parenti di amministratori, consiglieri comunali o candidati non eletti o rimasti disoccupati. E s’indaga anche sul fatto che parte dei soldi destinati all’accoglienza sarebbero invece finiti a sagre locali, spettacoli, mercatini, sagre e illuminazioni. Ma il lato più oscuro dei centri è emerso proprio in questi giorni. È quello che va oltre la corruzione e racconta di vere e proprie strutture criminali che ingrassano protette nei Centri pur trafficando in essere umani. La procura di Palermo ha arrestato 14 persone per traffico di esseri umani. Molti di loro frequentavano con regolarità il Cara di Mineo. Anzi, il centro era diventato l’ufficio di smistamento da dove coordinare arrivi e partenze per le destinazioni più varie. Almeno sei i terminali dell’organizzazione di trafficanti all’interno del Centro di Mineo e di Siculiana. Le intercettazioni raccontano come i profughi arrivano nei Centri – talvolta sono agganciati appena sbarcati –, sono subito contattati dalla banda che opera in Italia, tra Catania, Agrigento, Milano e Roma (il capo sarebbe un eritreo in contatto con i trafficanti africani e libici) e poi fatti partire per le destinazioni desiderate, nord Italia o nord europa. Il tutto in cambio di soldi, una cifra che varia dai 250 ai 1.000 euro a persona. Una vera e propria associazione a delinquere transnazionale attiva tra il Centro Africa (Eritrea, Etiopia, Sudan), i paesi del Magrheb (soprattutto la Libia), l’Italia (Lampedusa, Agrigento, Palermo, Catania, Roma, Milano) ed il Nord Europa (Scandinavia, Regno Unito, Olanda e Germania). Sul business dell’emergenza indaga anche l’antimafia. E da un mese è attiva la Commissione parlamentare d’inchiesta sui Cie e sui Cara. Istituita il 17 novembre, si è riunita per la prima volta il 26 marzo. Il problema è che non sa da che parte cominciare. 

IMMIGRATI: AIUTATI A CASA LORO...

Immigrazione: la grande lezione di Roma (antica). Corsi e Ricorsi di Massimo Manzo su “La Voce di New York" l'8 ottobre 2015. La distruzione dell'Impero romano, di Thomas Cole. Dipinto allegorico (ispirato molto probabilmente al sacco di Roma dei Vandali del 455), quarto della serie. L'Europa cerca ancora una formula coerente per far fronte alle masse di migranti che dal Sud fuggono da guerre e povertà "in cerca della felicità" verso Nord. Duemila anni fa accadeva l'esatto contrario, dalle regioni settentrionali popolazioni "barbare" cercavano rifugio nell'Impero romano. Per lo storico Alessandro Barbero finchè Roma - come poi gli Stati Uniti -  ebbe una politica di integrazione, i flussi migratori rafforzarono l'Impero, ma poi, con la corruzione e l'inefficienza, arrivò il disastro. “Poiché molti appartenenti ai popoli stranieri sono venuti nel nostro Impero inseguendo la felicità romana e a essi bisogna assegnare le terre degli immigrati, nessuno riceva assegnazione di questi campi senza precise istruzioni, e poiché alcuni ne hanno occupata più di quella che spettava loro o se ne sono fatta assegnare più del giusto per la complicità dei funzionari o con documenti falsi, si mandi un ispettore per revocare le assegnazioni illegali”. Se non risalisse a duemila anni fa, questo passo del 399 d.C. tratto da una legge dell’imperatore Onorio sembrerebbe scritto ieri, magari al termine di una delle tante riunioni in cui i capi di governo europei cercano affannosamente un’intesa sulle questioni legate all’immigrazione. Negli ultimi tempi gli stati dell’occidente si sono infatti dimostrati incapaci di gestire i flussi migratori con politiche diverse da quelle dettate dall’emergenza e dalla paura. Eppure, quello che i media dipingono come un dramma esclusivo del mondo contemporaneo è un fenomeno con cui tutte le civiltà hanno dovuto prima o poi fare i conti. Anche i Romani, come noi, dovettero fronteggiare il problema dell’immigrazione, e per secoli lo gestirono con risultati molto migliori dei nostri, traendone linfa vitale per la sopravvivenza del loro immenso Impero. Fino a quando, in conseguenza della gigantesca crisi politica, anche le organizzatissime strutture preposte al suo controllo crollarono, inaugurando quelle che a scuola ci hanno insegnato a chiamare invasioni barbariche. Certo, c’erano differenze profonde tra il mondo antico e quello in cui viviamo. Visti con la sensibilità moderna, alcuni dei metodi utilizzati nell’antichità sono oggi improponibili, ma è altrettanto vero che il modello romano di integrazione fu in certi casi più inclusivo di quello adottato da alcune moderne nazioni “evolute”.

Ma quali sono le somiglianze, e quali le differenze? E soprattutto, cosa possiamo imparare su questi temi dal più grande impero della Storia? «Fino a pochissimo tempo fa, avrei detto che i flussi migratori con cui ebbe a che fare Roma erano molto diversi da quelli contemporanei, perché l’immigrazione moderna, a partire dall’Otto-Novecento fu composta da singoli che decidevano individualmente di emigrare, magari con la famiglia, mentre le migrazioni antiche erano movimenti di interi popoli che si spostavano tutti insieme e chiedevano accoglienza alla frontiera, negoziando collettivamente con le autorità romane. Nondimeno, alcune migrazioni a cui assistiamo oggi, in particolare quella dei siriani, forse si stanno di nuovo avvicinando al modello antico…» rivela Alessandro Barbero, storico, divulgatore di fama (conosciuto anche dal pubblico televisivo per la conduzione del programma Rai a.C.d.C) e autore, tra gli altri, del saggio Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano (Laterza). Capitava dunque abbastanza spesso che spinti da guerre, fame, carestie e cataclismi naturali, masse di disperati si presentassero al confine chiedendo di entrare. Un contesto che ha molti punti in comune con la cronaca attuale, in cui l’instabilità di alcuni territori del Medio Oriente determina lo spostamento di migliaia di profughi verso l’Europa. «Nei riguardi di chi domandava accoglienza nelle province imperiali, i Romani agivano con modalità figlie di un contesto politico e morale immensamente lontano dal nostro» precisa Barbero «in sostanza, si accoglievano tutti quelli di cui si aveva bisogno, respingendo, anche con metodi brutali, coloro che non si intendeva accogliere. A quel punto, le autorità imperiali ricollocavano gli immigrati sul territorio là dove il governo giudicava utile, senza minimamente prendere in considerazione né i desideri degli immigrati, né eventuali opposizioni locali» aggiunge lo storico. Anche qui, è evidente che in un mondo come quello romano, governato in modo autocratico e dove l’opinione pubblica contava poco, erano possibili comportamenti che per fortuna la civiltà contemporanea ha dimenticato. A ben vedere, però, brutalità a parte, c’era dell’altro: oltre alla spietata organizzazione con cui si selezionava chi fare entrare e chi lasciare fuori, esisteva infatti un disegno lungimirante, volto alla piena assimilazione dei nuovi arrivati nel contesto romano: «L’ultimo passaggio della strategia romana prevedeva l’integrazione degli immigrati, ai quali individualmente veniva attribuita una posizione giuridica precisa – quella di coloni o soldati ad esempio – che preludeva alla cittadinanza e alla piena assimilazione, tanto culturale quanto giuridica. In sostanza – conclude lo storico – il modello romano era al tempo stesso aperto e fortemente autoritario, e tendeva a incoraggiare i singoli ad adottare l’identità etnica romana». Una volta entrati, gli immigrati iniziavano un percorso di integrazione che nel giro di una o due generazioni li portava a sentirsi a tutti gli effetti parte dell’impero. Per intenderci, non era inconsueto (soprattutto a partire dal III secolo d.C.) che cittadini romani alti e biondi, e dunque di chiare origini barbariche, occupassero posizioni di rilievo nell’esercito o nell’amministrazione pubblica. L’esempio classico è quello di Stilicone, generale dipinto dai libri di scuola come uno degli ultimi difensori dell’impero, il cui padre era nientemeno che un Vandalo (il quale aveva prestato servizio nell’esercito romano). D’altronde, nell’Urbe non mancarono nemmeno imperatori di origini barbare. Avete mai visto un primo ministro di origini africane nella civilissima Gran Bretagna?

Esistono poi delle similitudini incredibili tra l’immagine che l’impero voleva dare di sé e la rappresentazione universalmente riconosciuta di alcune nazioni, come gli Stati Uniti: «l’analogia più vistosa tra il modello americano e quello romano è ideologica» spiega Barbero. «Nel corso del IV secolo, l’impero si presenta sempre più, nelle dichiarazioni ufficiali, come una terra promessa, e gli imperatori si rallegrano che molti popoli barbari vengano a cercare “la felicità romana”». Quasi due millenni dopo, riuniti a Philadelphia, i padri fondatori degli USA coniarono la stessa espressione (pursuit of happiness), rendendola uno dei punti più alti della Dichiarazione di Indipendenza. Tra l’esempio romano e quello degli Stati Uniti ci sono anche punti di contatto più pratici, come il ruolo che alcune strutture statali svolgono nel processo di integrazione: «un altro parallelismo è dato dal fatto che il servizio nell’esercito e la carriera militare sono una via importante di assimilazione e promozione sociale per gli immigrati. Non c’è invece documentazione nell’impero di quella situazione, tipica degli USA, per cui gli immigrati restano a lungo uniti fra loro in base all’origine, formano comunità etniche, e vivono negli stessi quartieri, ma può anche darsi che questa apparente assenza sia dovuta soltanto alla scarsità delle fonti», conferma Barbero. Ma se è vero che per molto tempo la strategia romana di integrazione funzionò alla grande, perché, viene spontaneo chiedere, a un certo punto iniziarono le invasioni barbariche? «Il collasso delle strutture preposte al controllo dell’immigrazione è riconducibile con precisione a una specifica congiuntura: l’ingresso dei Goti nel 376. In condizioni di estrema emergenza, un intero popolo “in fuga dalla guerra” come si dice oggi, venne fatto entrare nell’impero – spiega lo storico – e le strutture destinate all’accoglienza collassarono sia per il peso eccessivo dei profughi, sia perché l’operazione umanitaria, in un’epoca in cui non esisteva il controllo dei mass media, venne gestita nel modo più corrotto da generali che intravidero la possibilità di intascare grossi profitti in nero, costringendo i Goti a pagare le razioni che avrebbero dovuto essere distribuite gratuitamente e per cui il governo aveva stanziato i fondi». Ancora una volta il pensiero corre alle terribili inefficienze del nostro sistema, all’interno del quale permettiamo a losche cooperative di intascare grossissime somme troncando sul nascere qualsiasi seria politica di integrazione. Aprire un centro di accoglienza, è per molti un modo come un altro di lucrare alle spalle della comunità, incentivando le tensioni tra popolazione locale e immigrati. Per dirla alla Salvatore Buzzi, noto malavitoso coinvolto nello scandalo “Mafia Capitale”, è un business che “rende più del traffico di droga”.

Tornando ai romani (antichi), la disastrosa gestione dell’ingresso dei Goti segnò l’inizio della fine. Dopo essere entrati in gran numero nell’impero e aver subito abusi eccessivi da parte delle autorità, i Goti si ribellarono. La conseguenza fu la sanguinosa battaglia di Adrianopoli (378 d.C.) con cui sconfissero l’imperatore Valente, costringendo il governo a stringere accordi in base ai quali potevano restare nel territorio imperiale, ma a condizioni ben diverse da quelle fino ad allora riservate agli immigrati. I Goti, da quel momento, avrebbero potuto vivere tutti insieme, armati e stipendiati dallo stato romano: «dopo anni di conflittualità più o meno latente, di ostilità e sospetto da una parte e dall’altra, di continui incidenti, la soluzione fu alla fine trovata nello stanziamento dei Goti in una provincia romana, la Gallia del sud, che di fatto si distaccò dall’impero, costituendo il primo regno romano-barbarico. Su quel modello, nel corso del V secolo tutto l’Occidente venne assegnato a popoli barbari e di fatto si frantumò» conferma lo storico. L’epilogo, è vero, non è dei migliori. L’impero d’Occidente cadde, anche perché di gran lunga più povero e disorganizzato rispetto alla parte orientale, che invece sopravvisse ancora per secoli (fino al 1453). Nessuna civiltà, nemmeno quella romana, è eterna. Tuttavia, nell’ovvia diversità di contesti storici e culturali, possiamo trarre delle preziosissime lezioni dall’esperienza dell’antica Roma. «L’immigrazione è una risorsa indispensabile quando è gestita bene, con regole chiare e diritti e doveri chiaramente stabiliti; mentre una società può collassare sotto il suo peso se manca una salda direzione politica. È anche molto importante che la piena assimilazione sia percepita dagli immigrati come possibile e concretamente molto vantaggiosa: i barbari sono stati una risorsa per Roma finché non hanno desiderato altro che diventare Romani, il disastro è cominciato quando i Goti hanno sentito che era più vantaggioso rimanere Goti anziché diventare Romani» è la saggia conclusione di Barbero.

Immigrazione, il generale Pasquale Preziosa: "Trattiamo con le tribù come facevano i Romani", scrive il 9 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Se la storia è davvero maestra di vita, sull'emergenza immigrazione gli italiani con la loro lunga tradizione e il patrimonio storico di cui è fatto il loro Dna non possono fare gli smemorati. Il richiamo del generale Pasquale Preziosa, ex Capo dello Stato maggiore dell'Aeronautica militare, è un monito da scolpire sul marmo: "L'Italia sta sbagliando politica e l'Europa ci lascia soli - ha detto al Giornale - E, allora, per bloccare l'invasione bisogna usare gli stessi metodi che usavano i romani". Gli interessi degli altri Paesi europei secondo il generale lasceranno l'Italia sempre più isolata, non c'è altro modo quindi che fare da soli e riprendere antichi, ma sempre validi insegnamenti: "La soluzione è quella di muoversi velocemente e fare politica attiva. Il problema della migrazione si risolve con un atteggiamento diverso da quello attuale". La chiave di volta sta proprio in Nord Africa: "Bisogna cambiare atteggiamento con i Paesi di quell'area e con l'Europa. I risultati dell'attuale politica si vedono e sono negativi, ma soprattutto, continuando in questa direzione si va verso la catastrofe". La soluzione passa da una trattattiva diretta, in Libia innanzitutto: "I tre governi esistono e bisogna trovare una soluzione. Pochi, ad esempio, stanno dialogando con le tribù del sud della libia, ma il problema è ancora più grosso perché bisogna stabilizzare i Paesi intorno a quella Nazione. Prima ci pensava Gheddafi, che finanziava i Paesi intorno, quali Sudan, Ciad e anche Mali, in maniera tale che gli eserciti avessero un regolare salario tutti i mesi. Da quando è caduto, quegli eserciti sono diventati milizie, che altro non fanno che traffici di esseri umani o di altro. Quindi, come si vede, il problema è ancora più grosso."

Laura Boldrini come Matteo Renzi: aiutare gli africani a casa loro. E Giorgia Meloni la demolisce, scrive "Libero Quotidiano" il 9 Luglio 2017. Dopo il Matteo Renzi in salsa leghista che chiede che gli immigrati siano aiutati a casa loro, è il turno di Laura Boldrini. Incredibile, ma vero. Anche la presidenta dell'accoglienza, ora, in buona sostanza, afferma che sì, vanno aiutati ma a casa loro. Lo ha fatto con un - sorprendente - cinguettio su Twitter, quello che potete vedere nella foto: "Dobbiamo affrontare questione africana con un piano di investimenti se non vogliamo essere destabilizzati dal fenomeno migratorio". Che, tradotto, significa: "Aiutiamoli a casa loro". Piuttosto incredibile, da parte della paladina dell'invasione. E non a caso, Giorgia Meloni manifesta tutto il suo stupore su Facebook, dove si chiede: "Chi sarà il prossimo esponente del Governo o della sinistra ad aprire gli occhi?". Dunque, lancia un simpatico sondaggio, in cui si può scegliere tra Paolo Gentiloni, Cécile Kyenge (molto improbabile) ed Angelino Alfano.

Immigrazione, altra bomba di Emma Bonino su Matteo Renzi: "Vi rivelo la sua menzogna", scrive il 9 Luglio 2017 Elisa Calessi su "Libero Quotidiano". Può piacere o no, ma Emma Bonino ha una grande esperienza di politica internazionale. Ministro degli Esteri nel governo di Enrico Letta, nel secondo governo Prodi era stata ministro del Commercio internazionale e delle politiche europee. Come dirigente radicale, poi, ha combattuto per anni all’Onu contro le mutilazioni genitali femminili. E conosce bene gli organismi sovranazionali, essendo stata Commissario europeo per gli Aiuti umanitari. Non può essere accusata di ostilità nei confronti del Pd, che l’ha candidata nelle sue liste in Parlamento, dopo averla sostenuta nei diversi ruoli di ministro nei governi di centrosinistra e come candidato alla presidenza del Lazio. Ecco perché quando Bonino ha accusato Matteo Renzi di essere corresponsabile dell’impennata degli sbarchi e della pressione dei richiedenti asilo sull’Italia, è scoppiato il caso. «Abbiamo chiesto noi di occuparci dei migranti», aveva detto. Il leader Pd nega. Ancora ieri, quando, su Facebook, tale Patrizia Moscatelli, gli ha chiesto sul suo profilo se fosse «vera la storia che ha detto la Bonino sugli immigrati?», l’ex premier ha risposto secco: «Ovviamente no». L’ex ministro degli Esteri, però, abituata a ben altre battaglie, non si è tirata indietro. «Non capisco le polemiche, manco avessi rivelato un segreto di Stato... Forse i parlamentari, o Matteo Renzi o qualcuno deve essersi distratto», ha detto a margine di una iniziativa dei Radicali a Roma. «Il Comitato Schengen ha discusso del protocollo Triton, come dice anche la presidente Laura Ravetto», ha aggiunto. «È stato fatto quell’accordo che prevede che è l’Italia che coordina tutta l’operazione e che tutti devono sbarcare in Italia». Ha spiegato di avere trovato strana, già allora, quell’intesa. Perché «vuol dire una violazione di regole: una barca spagnola che batte bandiera spagnola, come noto dalla convenzione del mare, è territorio spagnolo, quindi quelli che vengono salvati su una nave spagnola» dovrebbero avere come «primo paese di ingresso la Spagna». Perciò, «sono pregati in teoria di portarli in Spagna». E invece no: «L’accordo scrive che devono essere tutti portati in Italia». Anche la forzista Laura Ravetto ha smontato la versione di Renzi. «La sottoscritta sin dal 2014 ha criticato apertamente la scelta del governo di derogare al principio della “nave di bandiera” nell’ambito dell’operazione Triton/Sophia», ha ricordato. Da quel dì, il governo avrebbe potuto scegliere una strada diversa. L’attuale segretario del Pd è stato premier dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016. «Renzi non può certo far finta di essere estraneo a tutto questo in quanto era premier durante Triton/Sophia e oggi è segretario del Pd». Il capogruppo di Fi, Renato Brunetta, ha accusato l’ex premier di avere «svenduto nel biennio 2014-2015 l’Italia all’Ue con il solo scopo di avere mani libere nel fare deficit per comprarsi il consenso». Brunetta chiederà al ministro dell’Interno, Marco Minniti, di rendere «noti i contenuti degli accordi». Anche Silvio Berlusconi è intervenuto: «Fino al 2011 avevamo azzerato gli sbarchi, da quando abbiamo lasciato il governo è un disastro. La migrazione va fermata, dobbiamo imporre all’Ue di bloccare con accordi gli scafisti alla partenza», ha detto.

Gli aiuti all'Africa finiscono in tasche alle cooperative. Scoperto il bluff degli "aiuti a casa loro": dei 4,8 miliardi stanziati da Renzi, ben 1,6 sono serviti per l'accoglienza nei Cie, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 10/07/2017, su "Il Giornale". Tra la realtà dell'emergenza migratoria e la sterile querelle per stabilire se il copyright «dell'aiutiamoli a casa loro» sia di destra o di sinistra, c'è un mare di slogan. Dietro a quello della cooperazione internazionale, il capitolo degli aiuti ai Paesi d'origine dei migranti rivendicato ogni due per tre da Matteo Renzi come risultato del suo governo e come ricetta universale per fermare l'esodo, ci sono bilanci risicati e soldi spesi non per le finalità sbandierate dall'ex premier. «Aiutarli a casa loro è un principio di buonsenso, non è né leghista né di sinistra - ha ribadito anche ieri Renzi dopo gli attacchi ricevuti per le assonanze dei suoi proclami con i toni del Carroccio - C'è un abisso tra noi e la Lega. Noi pensiamo sia fondamentale investire sulla cooperazione internazionale e lo abbiamo fatto». Sì. Ma sulla carta. Perché negli anni del suo governo una buona fetta di quelle risorse stanziate per migliorare le condizioni di vita nei territori di provenienza degli oltre 180mila tra profughi e migranti economici sbarcati in Italia solo l'anno scorso, in realtà non ha mai varcato le nostre frontiere. Altro che Niger, Sudan, Gambia. Rivelano i dati pubblicati dall'Ocse riferiti al 2016, che il 34% dei fondi destinati dall'Italia alla cooperazione internazionale non sia mai arrivato ai Paesi beneficiari. Una consistente fetta della torta «Aiuto pubblico allo sviluppo», è stata impiegata sul suolo italiano per la crisi migratoria sotto l'etichetta «rifugiati nel paese donatore», che raccoglie il budget per i rifugiati in Italia. Insomma, anziché aiutarli «là», li abbiamo aiutati «qua», con i soldi che dovevano entrare «a casa loro». Un circolo vizioso dovuto alla necessità di far fronte a numeri da record. Così dei 4,8 miliardi di euro previsti nel 2016, ben 1,6 si sono dileguati nella voragine finanziaria dell'accoglienza, sono serviti per mantenere centri e strutture gestite dalle cooperative e per affrontare arrivi in costante aumento. Renzi ha ragione quando rivendica gli investimenti in cooperazione deliberati sotto il suo esecutivo, ma non sono serviti a disincentivare le partenze. Tra il 2015 e il 2016, quando il segretario dem era a Palazzo Chigi, i fondi sono aumentati del 20%, da 3,9 miliardi a 4,8, passando dallo 0,22% allo 0,26% del Pil, registrando un trend positivo sebbene ancora lontano dall'obiettivo fissato allo 0,7% del Pil di ogni Stato Ue entro il 2020. Ma è salita anche, e ben del 69%, la quota di denari che anziché raggiungere scuole, ospedali, villaggi, zone di povertà tramite i progetti delle organizzazioni non governative operanti in Africa, è rimasta qui a finanziare la costosa macchina dell'accoglienza. L'Italia è in buona compagnia, nella classifica Ocse, insieme ad Austria, Germania e Grecia, che con lo stesso sistema hanno dirottato una vasta porzione dei fondi dello sviluppo all'assistenza domestica dei rifugiati. Un meccanismo consentito da una clausola del regolamento Dac dell'Ue, che permette di conteggiare le spese per i profughi sotto la voce «aiuto allo sviluppo» se spesi entro l'anno del loro arrivo. E che ha fatto sì che nonostante gli annunci rimbalzati come un mantra a ogni vertice dei leader europei, a conti fatti le risorse ricevute effettivamente dalle zone epicentro delle migrazioni siano scese del 3,9% rispetto al 2015. Nel complesso con lo stesso «trucco», la parte sottratta ai 142 miliardi stanziati da 22 Paesi nel 2016, supera oltre il 10%. Tanto che il segretario generale dell'Ocse Angel Gurría ha lanciato l'allarme: «Le nazioni principali dei donatori si sono impegnate a concentrarsi nuovamente sui paesi meno sviluppati. Ora è giunto il momento di trasformare questi impegni in azione. Insieme, dobbiamo prestare molta attenzione a dove sta andando il denaro e ciò che viene incluso nell'aiuto estero». Ma i numeri degli sbarchi del 2017, 85mila persone da gennaio a oggi, non promettono un'inversione di rotta. Nemmeno quella degli slogan.

Gioia Tauro, la Cgil costringe gli africani a cantare Bella Ciao, scrive Azzurra Noemi Barbuto il 9 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". «Non sopravvive la specie più forte, ma quella che si adatta al cambiamento». Avrà fatto riferimento alla legge di Darwin Susanna Camusso che, in un Paese in cui diminuiscono i lavoratori - causa immigrazione - ed aumentano gli immigrati - causa accoglienza di chiunque -, per evitare l’estinzione del sindacato da lei presieduto, ossia la Cgil, diventato ormai un contenitore vuoto ed inutile, ha deciso di prendere a cuore le ragioni dei braccianti di colore trasformando la Confederazione Generale Italiana del Lavoro in una cassa di risonanza dei bisogni degli immigrati, meglio se irregolari. I doveri, ancora una volta, li mettiamo da parte, di questi non si parla mai. In Italia non contano. Insomma, la Cgil è diventato un sindacato posto a tutela del lavoro nero, e non soltanto dei neri, come abbiamo potuto evincere giovedì scorso a Gioia Tauro, in Calabria, dove la confederazione ha organizzato un evento, una sorta di manifestazione contro il caporalato, da anni piaga della piana calabrese. Peccato che questa genialata abbia segnato l’ennesimo tristissimo flop, suscitando il malcontento, oltre che la rabbia, dei 380 lavoratori portuali che di recente sono stati licenziati senza ricevere nessuna forma di tutela da parte del sindacato e che giovedì si sono recati in piazza solo per rivolgere alla Cgil fischi ed insulti. Sprizzavano gioia da tutti i pori, di contro, i numerosi immigrati ai quali l’evento è stato dedicato, tutti dotati di cappellino rosso e maglietta bianca e intenti a cantare a squarciagola e allegramente l’inno comunista per eccellenza: «Ciao bella, ciao bella, ciao ciao ciao», che non avranno avuto difficoltà ad imparare dato che sono le prime parole che apprendono quando arrivano in Italia e che tutte noi, donne belle e anche brutte, ci sentiamo rivolgere per strada tutti i giorni. I partigiani si saranno rivoltati nella tomba. Qualcuno ballava, qualcuno gridava «Africa, Africa», qualcun altro addentava un panino, dubitiamo che gli immigrati abbiano capito che non si trattava di una sagra di paese, molto frequenti da quelle parti in questa stagione. Ciò che è certo è che fare cantare «Bella ciao» agli immigrati senza che questi sappiano nulla della nostra storia né conoscano il significato del testo, è ridicolo almeno quanto fare camminare un elefante sulle due zampe reggendo una pallina in cima alla proboscide. Insomma, roba da circo. Ma né Orfei né Togni erano in città, bensì solo Susanna Camusso. È proprio vero: oggi in Italia se non sei nero non vali un cappero. Nei mesi scorsi i lavoratori licenziati in Calabria hanno bloccato l’autostrada, hanno indetto scioperi, hanno manifestato, ma nessuno è intervenuto in aiuto di ben 380 padri di famiglia rimasti all’improvviso senza lavoro. Sono stati abbandonati anche dalle istituzioni. L’evento di Gioia Tauro, benché sia stato un fallimento totale, ha rivelato le intenzioni della sinistra, che vuole ora strumentalizzare gli immigrati perché paghino quote e portino iscrizioni ad un sindacato che assomiglia ormai ad un circolo di pensionati, affinché esso possa continuare ad esercitare una funzione che fino a ieri era misteriosa.

Immigrazione, il clandestino confessa: "Ci dicono di andare in Italia, perché tanto non ci respingono", scrive l'11 Luglio 2017 Azzurra Noemi Barbuto su "Libero Quotidiano". È un inganno, una falsa promessa, a condurre schiere di immigrati dal continente africano all’Italia, facendo loro credere che qui li aspetti una vita comoda, ricca, luminosa. Se fino a qualche anno fa tale visione era un miraggio, oggi è sempre più concreta per i giovani africani, ai quali viene raccontato da loschi personaggi che su di loro lucrano ma anche dai loro amici che vivono già in Europa che sia sufficiente acquistare un biglietto di viaggio per mettersi in marcia verso la Libia e da qui prendere il largo in direzione dell’Italia, la quale garantisce a ciascun immigrato giunto dal mare una somma di 30 euro al giorno, vitto, alloggio e protezione, in attesa che questi ottenga i documenti ed il permesso di soggiorno e si trovi un bel lavoro. Non sono supposizioni, ma è quanto ci ha raccontato Ibrahim, senegalese di 24 anni, giunto in Italia da poco più di un anno e passato dal centro di accoglienza alla strada, dove vive dallo scorso inverno. Come lui, sono migliaia e migliaia gli africani che, non godendo del diritto di asilo e di nessuna altra forma di protezione sussidiaria per il fatto di essere semplici migranti di tipo economico, hanno fatto delle vie delle nostre metropoli la loro casa e dei nostri marciapiedi i loro giacigli, troppo caldi in estate e troppo freddi in inverno. Da qui nessuna speranza di tornare indietro né di andare avanti. L’Italia è una trappola, un imbuto stretto che ti risucchia e che non ti lascia uscire più. Ed in questa sorta di purgatorio permanente che non conosce una fine gli immigrati sostano per sempre. Certo, non è l’Africa, con la sua fame, il suo sfruttamento di manodopera, le malattie, la mancanza di tutto, ma non è un bel vivere. Non è di certo quel sogno, il sogno europeo, quello che ogni immigrato aveva prima di accorgersi che, attraversato il mare, non si arriva nel Paese dei balocchi, ma in un limbo stagnante.

Ibrahim è uno di questi ragazzi usati e gettati via. Uno di quegli immigrati irregolari che questo sistema bulimico e vorace non sa più dove collocare. Eppure ne chiede ancora e ancora: li inghiottisce e li vomita. Mentre il giovane ci racconta la sua storia non possiamo non provare sentimenti contrastanti: pena e tenerezza perché Ibrahim è solo un ragazzo preso in giro e perché ognuno di noi ha diritto di andare incontro ad una vita migliore, di sfruttare quella occasione unica che si presenta; ma proviamo anche rabbia, perché qualcuno ha ingannato lui e anche noi. In fondo, siamo tutti sulla stessa barca. A noi è stato detto che accogliere è un dovere, che dobbiamo essere buoni e salvare queste vite umane, salvo poi abbandonarle al loro destino. A Ibrahim e ai suoi «fratelli», così chiama i suoi connazionali, hanno raccontato, invece, un altro tipo di menzogna, ossia che esiste un accordo tra l’Italia, che per lui coincide con l’Europa, e il suo Paese, patto in base al quale tutti i senegalesi che arrivano nel Belpaese partendo dalle coste libiche godono del trattamento economico di 30 euro al giorno. Colpisce tanta ingenuità: credere che ci sia un premio per avere affrontato questo lungo viaggio ed essere sopravvissuti. Del resto, si tratta di bambini e ragazzi abituati a vivere all’interno di tribù e la cui scarsa istruzione li espone al rischio di credere troppo facilmente a ciò che gli viene raccontato. Ma ora comprendiamo meglio il perché spesso gli immigrati che sono accolti nelle nostre strutture si ribellino, manifestando insoddisfazione per le condizioni in cui sono costretti a vivere. Sì, anche noi ci incazzeremmo se non venissero rispettati gli accordi presi a monte. Non vogliamo giustificare la violenza, ma solo comprendere i motivi di tanta rabbia. Ed il motivo è semplice: Ibrahim ha pagato un biglietto di viaggio con tanto di ricevuta, che purtroppo è andata persa durante il tragitto; tale ticket gli dava diritto al trasferimento dal Senegal all’Italia, passando per la Libia. Una volta giunto in Italia, avrebbe trovato il paradiso, così come previsto nel presunto accordo che in realtà non esiste. Per gli immigrati l’Italia non è ottemperante. Ecco perché protestano. Non abbiamo rispettato i patti. Da qui scaturisce l’insofferenza, che si trasforma anche in pericoloso odio. Proviamo a spiegare a Ibrahim che questo accordo tra il suo Paese e il nostro non è mai stato stipulato. E lui ci chiede incredulo: «Ma se non esiste, perché l’Italia continua ad accogliere tutti coloro che si mettono in viaggio per raggiungerla?». Non sappiamo cosa rispondere. Nella sua visione puerile e semplicistica, Ibrahim ci mette davanti a una verità che sta lì da sempre ma che pure non riusciamo ad accettare: qualcuno ha ordito un piano, qualcuno ha voluto che tutto questo accadesse, qualcuno lo ha permesso e continua a permetterlo. «Io vedevo i miei fratelli tornare dall’Europa vestiti bene, ricchi, e desideravo andare via. Un mio amico che vive in Germania mi raccontava che lì lo Stato gli regala 600 euro al mese. Ero stanco di lavorare tutto il giorno come operaio per un compenso di un euro per ogni ora. Io sognavo una vita migliore. In Italia mi avrebbero dato 30 euro al giorno, una sistemazione, da mangiare, da bere, e poi anche un lavoro. Io ho rischiato tutto per realizzare questo sogno, persino la mia vita», racconta Ibrahim, che afferma di volere essere utile, di volere lavorare, ma per ora, non avendo documenti, l’unico modo che ha per procurarsi qualche spicciolo è vendere libri per le strade di Milano, alimentando il lavoro nero, suo malgrado.

«La vita in strada è difficile. Mi tengo lontano dai “mori”, dai magrebini, che non hanno il mio stesso cuore. Loro ci considerano degli schiavi, il vero razzismo l’ho trovato in loro e non negli italiani che, invece, hanno sempre un gesto gentile nei miei confronti», ci spiega Ibrahim.

Persino il ragazzo è convinto che ormai il problema immigrazione in Italia sia diventato un’emergenza, tuttavia afferma di non poter sostenere che l’Italia farebbe bene a chiudere le porte ai suoi fratelli, coloro che, come fece lui stesso, si mettono in viaggio con la certezza di una vita prospera al di là del mare. Secondo il giovane senegalese, lo Stato italiano ha dimostrato anche all’estero una grave debolezza. «Non abbiamo mai visto atterrare in Senegal voli di Stato italiani carichi di nostri connazionali rimpatriati. Abbiamo visto sulla tv nazionale scendere dagli aerei tedeschi numerosissimi senegalesi rimandati in patria. Questo ci ha fatto capire che l’Italia non solo accoglie tutti, ma non ci rispedisce a casa. Un motivo in più per partire», continua il ragazzo. Ibrahim è diventato un invisibile. Nessuno si cura di lui. Vende i suoi 4 libri per strada, sperando di guadagnarsi almeno un pasto, e la polizia non lo ferma mai, non gli chiede i documenti, come se sapesse già che lui, come tutti i suoi fratelli, i documenti non ce li ha. Non può restare. Non può andare. Non può tornare indietro. Non gli resta che aspettare. «Io sono un bravo ragazzo e cerco di darmi da fare in modo onesto, senza fare del male a nessuno. Ma tanti altri non sono come me e la vita in strada li peggiora. Accogliere queste persone e non controllarle è un pericolo», ci avverte Ibrahim, il quale ha ancora un sogno che resiste: avere i documenti per poter trovare un vero lavoro. Egli non sa che anche questo desiderio andrà in frantumi: in Italia il lavoro manca per tutti. Azzurra Noemi Barbuto

Perché aiutare gli africani è un'idiozia, scrive Vittorio Feltri l'11 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Leggo qua e là, con crescente insistenza, che bisogna aiutare i Paesi africani ad emanciparsi economicamente e civilmente. Buona intenzione e parole bellissime che, però, alimentano soltanto l’illusione che si possano stroncare le immigrazioni in Europa e soprattutto in Italia. In realtà il Continente nero è depresso per antichissima tradizione, non si è mai sforzato nei secoli di svilupparsi, essendo privo completamente di cultura del lavoro. La gente è abituata a tirare a campare con quel poco che ha, non ha né la voglia né la forza di liberarsi dalla miseria. Subisce la propria condizione e non si dà da fare per migliorarla. Quando l’Occidente ha cercato di darle una mano, inviando laggiù capitali nel tentativo di stimolare l’economia, i satrapi locali si sono impossessati del denaro e si sono arricchiti senza preoccuparsi di andare in soccorso al popolo. Questo è un fenomeno accertato ed è velleitario continuare a pensare che si debbano inviare finanziamenti, più o meno importanti, in una terra incapace di utilizzarli a fini sociali. Da oltre un secolo l’Italia, e non solo l’Italia, foraggia le tribù africane d’ogni tipo senza ottenere il benché minimo risultato concreto. Coloro che insistono a predicare che i potenziali migranti si potrebbero far diventare stanziali sostenendoli con iniezioni di quattrini sbagliano di grosso, non conoscono l’inettitudine dei neri ad intraprendere qualsiasi attività produttiva. Essi sono da sempre impegnati a farsi la guerra per assicurarsi il dominio delle varie regioni. Nei loro programmi prevalgono motivi tribali e viene trascurato il benessere popolare, del quale capi e stregoni con ambizioni dittatoriali se ne infischiano bellamente. Quindi è da ingenui e da ignoranti seguitare ad affermare che i migranti economici, se fossero invogliati a rimanere dove sono grazie al nostro sostegno, eviterebbero volentieri di prendere la via del mare allo scopo di trasferirsi in Italia. La penisola attrae aborigeni e selvaggi perché li affascina con i suoi bagliori di bella vita, promettendo a tutti accoglienza e assistenza gratuita, cibo e alloggi, poco lavoro e ottime retribuzioni. Essa inoltre è tollerante con chi commette reati, pochi delinquenti finiscono in galera e comunque non ci rimangono a lungo. Meglio di così... Sui marciapiedi delle città non si contano gli ambulanti abusivi che vendono di sfroso qualsiasi mercanzia contraffatta, facendo concorrenza sleale ai commercianti regolari e muniti di licenza. Chi li persegue? Chi li punisce? La magistratura è inflessibile con chiunque ed è larga di manica con gli stranieri, finge di non vederli. La polizia locale ti strangola se parcheggi in zona vietata, ma perdona i vu’ cumprà. Ovvio che gli africani non cessino di imbarcarsi avendo quale meta il Bengodi. Gli uomini neri che incontriamo ogni volta scendiamo in strada ovvio ci facciano pena. Mia moglie mi obbliga a dare un euro a ciascuno di essi, ai quali si sono aggiunti i venditori di rose, insistenti e rompicoglioni. Io abbozzo, ma mi chiedo se sia questo il modo migliore per risolvere il problema dell’immigrazione. Un’ultima riflessione. Come mai i cinesi si sono arrangiati per conto proprio? La Cina fino a trenta anni fa era un mortorio, peggio dell’Africa. Poi si è svegliata e si è comprata mezzo mondo, è diventata una potenza mondiale, ha acquistato perfino le migliori squadre di calcio italiane, insomma minaccia di conquistarci. Significa che hanno il lavoro nel sangue. Lo sanno fare bene e ci battono. I neri invece sono gli stessi poveracci di un secolo fa. Ci sarà un perché? Crediamo di sì. Vittorio Feltri

Le 15 coop dalle "uova d'oro": 100 milioni lucrati sui profughi. Aprono centri di accoglienza straordinari con appalti dati dalle prefetture. E partecipano a più bandi in tutta Italia, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". La storia insegna che quando la miniera rivela una vena d’oro, i cercatori ci si fiondano. Gli affari sono affari e vale anche per il business dell’immigrazione. Gli 85mila profughi sbarcati in Italia quest’anno sono già nel circolo delle cooperative e altri ancora ne arriveranno. Il piatto è ricco e fa gola a molti. E così alcune associazioni, più di altre, hanno capito che con l’emergenza migranti i fatturati si possono gonfiare. Come? Partecipando ai bandi di più regioni contemporaneamente. Sono loro i veri “polipi dell’accoglienza”. Un pugno di coop cui lo Stato assegna circa 100 milioni di euro all’anno. Nel sistema malfermo dell’emergenza italiana, il vero pozzo senza fondo sono i Centri di accoglienza straordinari (Cas) coordinati dalle prefetture. Le coop più voraci nell’accaparrarsi i finanziamenti sono una quindicina. Impossibile citarle tutte. Prendete laLiberitutti di Torino: nata nel 1999, dice di aver come obiettivo “il rilancio di territori in forte crisi”. Sarà per questo che il suo nome appare sulle scrivanie di sette diversi prefetti. Gli incassi percepiti sono da capogiro. Da Torino, solo nel 2015, nelle sue tasche sono finiti 893.400 euro. Netti. L’importo nel 2016 si è fatto più grosso: 4.945.017 euro (in parte da spartire con la “sorella” Crescere Insieme). Ad oggi la prefettura dichiara di averne versati “solo” 237.322, ma per far lievitare il fatturato basta attendere. Oppure allargare i propri confini. Quest’anno infatti Liberitutti dal Nord è scesa fino a Palermo come Garibaldi con i Mille. Mille motivazioni per farlo, anzi: migliaia. Come i soldi che ruotano attorno ai centri profughi che ha sparsi in tutto il Paese: Alessandria (56.000 euro), Genova (267.597 euro) e Cuneo (218.396 euro). Il totale? In due anni 1.301.389 euro già incassati e ancora in ballo altri 7,6 milioni. Per carità: ci sono anche le cooperative cui non serve spostarsi molto per generare fatturati invidiabili. La Pietra alta da Biella si è allargata solo a Cuneo e Torino e nel 2016 ha messo insieme appalti del valore di 2,2 milioni. Oppure Caleidos di Modena, che rimanendo legata al suo territorio si è vista assegnare 8.450.729 euro. Ma la strategia che paga di più è quella della Versoprobo di Vercelli. Il motto: puntare su “strutture che possano ospitare numeri considerevoli di persone” e rivolgersi a più regioni. Chi più profughi ha, più ne prenda. E così nel 2016 conquista appalti da Savona a Palermo, passando da Verbano, Biella e Asti. Poi ci sono gli importi stellari: 1,1 milioni a Torino, 1.6 milioni ad Alessandria, 444mila a Varese e 668mila euro incassati da Novara. Sommando solo i dati resi pubblici da alcune prefetture, Versoprobo l’anno scorso si è aggiudicata oltre 4,4 milioni di euro. Una vera fortuna. La dea bendata da anni bacia senza sosta anche Domus Caritatis (investita da Mafia Capitale), Tre Fontane e Senis Hospes. Le prime due fanno parte del consorzio “Casa della Solidarietà”, che a sua volta rientra nel circuito di “La Cascina”. Un castello di società attorno a cui ruotano ancora diversi milioni di euro l’anno. Sono gli affari d’oro dei consorzi e delle loro consorziate. Codeal, per citarne uno, oltre all’importo da 1.406.590 vinto a Torino, con la sua rete ha messo le mani pure sull’accoglienza nei dintorni di Lodi e Asti e nel 2017 ha tentato la fortuna a Piacenza. Tra le associate spicca la Leone Rosso, coop di giovani che ad Aosta registra circa 133 migranti e che a Torino nel 2016 aveva una convenzione da 542mila euro. Per non farsi mancare nulla, la prefettura di Modena gli aveva riservato (in coppia con “L’Angolo”) 1milione e 360mila euro (518mila già liquidati). Il consorzio Agorà, invece, solo a Genova si è aggiudicata oltre 5,8 milioni di euro, incassandone per ora 2,8 milioni. L’anno precedente era stato altrettanto prolifico, con 2.505.513 euro portati a casa. Sarà un caso che nel 2015 il fatturato aggregato è cresciuto del 15% rispetto al 2014? E’ il magico potere dei profughi. Ne sa qualcosa la Lai Momo di Sasso Marconi, ridente cittadina alle porte di Bologna. La società nasce come casa editrice “di comunicazione sociale e educazione al dialogo interculturale”. Poi però da dieci anni “in modo progressivo” ha incrementato l’attività “nel campo dei servizi per l’immigrazione”. E che incremento! Nel 2016 coordinava (con altri) l’Hub Regionale “Centro Mattei”, gestiva 31 Cas nell’hinterland bolognese, collaborava con altre coop alla gestione di ulteriori due centri e partecipava pure al progetto Sprar. Facciamo i conti? L’anno scorso dalla prefettura ha ricevuto 832.339 euro e si è dovuta spartire con altre colleghe 6,8 milioni di euro. In fondo il bilancio parla chiaro: il fatturato è passato da 3,2 milioni di euro nel 2015 a 5,3 milioni nel 2016. Con un utile di esercizio di 883.992 euro. Perché nell’affare dell’accoglienza si distingue chi ha le mani in più piatti. E in questo sport alcune coop non hanno rivali.

Tutte le bugie di Emergency sull'immigrazione. Teresa Mannino, comica di professione, si è messa addosso una maglietta di Emergency per spiegarci com’è che funziona l'accoglienza. Ma siamo sicuri che ha ragione lei? Scrive Elena Barlozzari, Lunedì 10/07/2017, su "Il Giornale". “Sono troppi, l’Italia non ce la fa più”. Una verità gridata che, adesso, non fa più scandalo. Forse perché quando a pensarla così si è in troppi c’è sempre qualcuno che soffia sul fuoco del populismo. Snocciolando quei pregiudizi piccolo borghesi che offuscano le menti della gente incapace di distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Così Teresa Mannino, comica di professione, si è messa addosso una maglietta di Emergency per spiegarci com’è che funziona il mondo. Destinatari della lezione di buonismo sono soprattutto studenti ed insegnanti delle scuole superiori. Noi, punto per punto, abbiamo provato a risponderle.

Le sette bugie di Emergency sui migranti:

Migranti e smatphone. Quei costosissimi “gingilli tecnologici” sono davvero l’unico modo che gli immigrati hanno per restare in contatto con casa? A sentire la Mannino sì, ma a noi risulta che viene fornito un kit di tre schede telefoniche da cinque euro l’una che vengono rimpiazzate da un’altra dello stesso valore ogni dieci giorni.

Migranti ed invasione. No, no l’Italia non è invasa. Non si capisce proprio perché, nei giorni scorsi, qualcuno ha pensato persino di ricorrere all’extrema ratio della chiusura dei nostri porti. E poi in Europa cosa si affannano a darci soldi a fare? Eppure, secondo i dati diffusi dal Ministero dell’Interno, dal 1 gennaio al 10 luglio 2017, sono 85.200 i migranti sbarcati nel Belpaese. Con un aumento del 9.61% rispetto all’anno precedente. Di questi solo 7.396 sono stati ricollocati in altri Stati membri.

Migranti e business. “Ogni giorno – sostengono i populisti – prendono 35 euro senza lavorare” . Di lavoro, si sa, nelle strutture di accoglienza non se ne partica in grandi quantità. Non è colpa dei migranti ma è un dato di fatto. Tanto che i giovani ospiti spesso ciondolano da un marciapiede all’altro mentre i più volenterosi sembra si siano rimboccati, più o meno spontaneamente le maniche, per dedicarsi – ramazze alla mano – alla pulizia dei quartieri italiani. Sappiamo perfettamente, come ci ricorda la “maestrina di Emergency”, che a loro va solo una piccola percentuale di quello che si mettono in tasca le cooperative rosse e bianche che si dedicano alla filantropia. E ci mancherebbe. Così come sappiamo bene che l’accoglienza è diventata un affare, come diceva il signor Buzzi di Mafia Capitale. Ed anche questo è un problema.

Migranti e malattie. Provengono da aree del mondo in cui alcune malattie sono endemiche ma, tranquilli, al momento dello sbarco vengono immediatamente visitati e curati. Di avviso diverso rispetto alla testimonial di Emergency è un operatore del settore. “Gli accertamenti sanitari sono minimali – ci ha rivelato – perché è impossibile fare uno screening accurato di masse continue di persone”. Non a caso, infatti, chi opera a contatto con loro viene sottoposto ai test anti tubercolari e deve indossare i dispositivi di protezione individuale quali guanti in lattice, mascherine ed occhiali.

Migranti e cittadini. Aiutare gli immigrati non penalizza gli italiani. Basterebbe consultare le graduatorie per le casi popolari, ad esempio, per porre alla signora Mannino una domanda. Come mai vengono assegnati dei punti ad hoc per la condizione di richiedente asilo che spesso fanno la differenza per ottenere l’alloggio popolare?

Migranti e Piddì. “Aiutiamoli a casa loro”. Questa proprio non è andata giù ai professionisti dell’accoglienza. Forse proprio perché, adesso, lo dice anche uno degli ex testimonial politici della filosofia no-border: Matteo Renzi. Ma se è vero che i migranti sono costretti a lasciare le loro case – come sentiamo spesso ripetere – allora promuovere la stabilità e l’economia dei paesi di origine non sarebbe forse il miglior servizio che possiamo offrirgli? Ma per la Mannino è giusto così. Dobbiamo scontare le conseguenze del becero sfruttamento coloniale di cui si macchiò anche il nostro Paese. Siamo sicuri però che, almeno per l’Italia, le cose non andarono diversamente? Come ebbe a dire un inglese di ritorno dall’Abissinia nel 1936: “L’idea di lavorare invece che starsene sdraiati a oziare come padroni, tutto questo era estraneo ai pensieri inglesi, e invece è il principio che sta alla base dell’occupazione italiana”.

Migranti e terrorismo. I terroristi non viaggiano sui barconi. Ne è sicura l’attrice che, però, ancora non ci ha spiegato se vengono volando su lussuosi aerei di linea oppure atterrano con navicelle aerospaziali. Di avviso diverso, infatti, è l’Europol. Secondo un allarme lanciato a gennaio scorso dall’agenzia europea, sarebbero 34mila i migranti già sbarcati in Europa – provenienti da Africa, Siria, Pakistan e Afghanistan – legati all’estremismo islamico. Possibile che a “casa Emergency” si siano dimenticati di Anis Amri, l’attentatore di Berlino arrivato in Sicilia a bordo di un barcone? Oppure di Osman Matammud, trafficante e torturatore somalo arrestato alla stazione Centrale di Milano dopo essere stato riconosciuto da alcune sue ex vittime?

Arriviamo così allo stereotipo conclusivo, il numero otto. E stavolta, con grande sorpresa, la Mannino – siciliana doc – si trova d’accordo. Volete sapere qual è? “I siciliani parlano solo di mangiare”. Ma allora, Teresa, perché la prossima volta non ci dispensi pillole di cucina?

Emergency, “silurata Cecilia Strada”. L’Espresso ricostruisce il caso, ma Gino Strada: “Querelo per tutelarmi”. Eletta presidente Rossella Miccio. Secondo il giornale il cambio è riconducibile agli scontri sulla linea politica per i finanziamenti e la successione. Ma il fondatore della ong contesta le ricostruzioni della stampa: "Darò mandato al mio avvocato", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 10 luglio 2017. Cecilia Strada non è più la presidente di Emergency, l’associazione fondata dal padre, Gino. Il sito de l’Espresso scrive che “è stata sfiduciata dal direttivo della Ong e sostituita da Rossella Miccio, assistente di Gino Strada e fino a ieri occupata nell’ufficio umanitario”. I motivi del “siluramento”, secondo il giornale, sono da ricondurre agli scontri sulla linea politica per il finanziamento dell’associazione e la successione dopo il ritiro del medico fondatore. Ricostruzioni che lui stesso contesta, annunciando querela per “tutelare la reputazione mia e di Emergency”. “Le ragioni per cui è avvenuto l’avvicendamento alla Presidenza del Consiglio direttivo di Emergency riportate nell’articolo non corrispondono alla realtà e gettano discredito su Emergency, a cui ho dedicato la mia vita, e sul gruppo dirigente che la sta guidando con fatica e responsabilità – ha scritto Strada in una nota- . In questo modo abbiamo potuto curare 8 milioni di persone in 23 anni. Per questa ragione, darò mandato al mio avvocato per tutelare la reputazione mia e di Emergency”, conclude la nota. E anche le pagine del sito hanno ospitato la replica di Emergency: “Normale dinamica di confronto interno”. A confermare il cambio ai vertici anche un breve comunicato pubblicato sul sito dell’associazione. Cecilia Strada, si legge, “ha iniziato a lavorare nell’associazione nel 2000, occupandosi di Afghanistan. Nel 2007 è diventata co-direttore dei Programmi umanitari, curando in particolare i rapporti con le istituzioni internazionali, e si è occupata dello sviluppo di Emergency fuori dall’Italia. Rossella Miccio succede a Cecilia Strada, che è stata Presidente dal 2009 a oggi e che rimarrà membro del Consiglio direttivo. Ringraziamo Cecilia Strada per gli anni passati insieme e auguriamo buon lavoro a Rossella Miccio”. La ricostruzione de L’Espresso – “Sorpresa a Emergency: silurata Cecilia Strada”. E’ questo il titolo dell’articolo con cui il sito de l’Espresso ha annunciato il cambio dei vertici dell’associazione. Secondo il giornale, all’origine del cambio al vertice ci sono gli scontri interni all’associazione sulla linea politica da tenere per ricevere finanziamenti. Cecilia Strada, come la maggior parte dei volontari, continua l’Espresso, era schierata a favore di un'”impostazione più “idealista” (cultura di pace, denuncia degli orrori delle guerre, distanza da qualsiasi governo e istituzione)”, mentre metà del direttivo (“costruito con i nuovi innesti a misura del fondatore e padre di Cecilia, dopo svariate epurazioni”) era per metà favorevole ad accettare la linea della normalizzazione, e “fare come la gran parte delle altre Ong, accettando i soldi dei governi e delle grandi imprese, come Eni e Impregilo, che sembrano interessate a utilizzare il logo di Emergency per migliorare la propria reputazione”. Una linea che con l’elezione della nuova presidenza ha vinto. E oltre all’aspetto dei finanziamenti secondo l’Espresso ci sono anche le lotte interne per la successione, una volta che Gino Strada deciderà di lasciare. Un secondo punto che ha portato al siluramento della figlia. Allo stato attuale, infatti, si legge ancora sull’Espresso, “la gestione della associazione è affidata ad un organo esecutivo di otto persone, tra cui gli stessi Gino e Cecilia Strada, che come il consiglio direttivo è stato costruito tra i fedelissimi del fondatore. Secondo alcuni rumors interni, alcuni dirigenti temevano che con il consolidamento di Cecilia alla guida dell’associazione i loro ruoli venissero messi in discussione”. Da qui la decisione di eleggere Rossella Miccio.

Le reazioni in rete – Il cambio dei vertici ha suscitato decine di reazioni sui social, dove molti utenti si sono schierati dalla parte di Cecilia Strada.

Sorpresa a Emergency: silurata Cecilia Strada. La presidente della più famosa associazione umanitaria italiana è stata sostituita con una dirigente interna. All'origine dello scontro, le scelte per il futuro: accettare i soldi dei governi e delle grandi aziende private oppure rimanere indipendenti da qualsiasi istituzione e corporation? La replica di Emergency: «Normale dinamica di confronto interno», scrive Adriana Botta il 10 luglio 2017 su "L'Espresso". Cambio ai vertici di Emergency. Cecilia Strada, che ne era presidente dal 2009, è stata sfiduciata dal direttivo della Ong e sostituita da Rossella Miccio, assistente di Gino Strada e fino a ieri occupata nell’ufficio umanitario. Il cambio al vertice della più famosa organizzazione umanitaria italiana ha rapidamente suscitato interrogativi e polemiche sui social network e non solo, anche perché non è stato spiegato dal brevissimo comunicato che l’Associazione ha mandato ai soci e ai volontari. La decisione trova le sue ragioni principalmente in due aspetti, il principale dei quali è il grande bivio della linea politica che l’associazione deve tenere: cioè se ritornare all'impostazione originaria più “idealista” (cultura di pace, denuncia degli orrori delle guerre, distanza da qualsiasi governo e istituzione) oppure "normalizzarsi" e fare come la gran parte delle altre Ong, accettando i soldi dei governi e delle grandi imprese, come Eni e Impregilo, che sembrano interessate a utilizzare il logo di Emergency per migliorare la propria reputazione. Su questo, negli ultimi mesi, la discussione è stata accesa. Con Cecilia Strada e quasi tutti i volontari schierati contro collaborazione con governi e corporation private; e il direttivo - costruito con i nuovi innesti a misura del fondatore e padre di Cecilia, dopo svariate epurazioni - schierato per metà dalla parte della “normalizzazione”. Le prime avvisaglie pubbliche dello scontro al vertice della Ong si ebbero quando venne annunciata la discesa in campo, alla partita del cuore di Firenze 2014 organizzata da Emergency, del Presidente del Consiglio di allora, Matteo Renzi. Partecipazione poi ritirata proprio a seguito delle polemiche interne. Ma evidentemente il gran rifiuto di Cecilia, che non voleva che fosse data visibilità al capo di un governo che pure la guerra la stava facendo (e proprio in Afghanistan, dove Emergency gestisce tre ospedali), non è stata digerita da diversi dirigenti e forse neppure dal padre-fondatore. Il secondo aspetto del conflitto interno è su chi erediterà l’associazione quando il suo fondatore Gino Strada, 69 anni, deciderà di lasciare le leve dei comandi. Attualmente la gestione della associazione è affidata ad un organo esecutivo di otto persone, tra cui gli stessi Gino e Cecilia Strada, che come il consiglio direttivo è stato costruito tra i fedelissimi del fondatore. Secondo alcuni rumors interni, alcuni dirigenti temevano che con il consolidamento di Cecilia alla guida dell'associazione i loro ruoli venissero messi in discussione. Di qui il siluramento della Strada. Una decisione, in ogni caso, che ha stupito i moltissimi, anche tra gli stessi volontari, che non si erano accorti dello scontro al vertice. Il problema è che tanto Emergency è trasparente nella gestione dei progetti e del bilancio, quanto invece è poco chiara nella gestione della governance. E anche quest’ultima, la governance, è stata oggetto di discussione e di scontro. Con una parte del direttivo e Cecilia Strada da una parte e dall’altra l’esecutivo (che, governando, non voleva essere messo in discussione). Adesso, probabilmente la palla passerà alla prossima assemblea dei soci. Vedremo se anche lì prevarranno quelli che Teresa Sarti, moglie di Gino e madre di Cecilia, chiamava con amara ironia «i cagnolini da lunotto di Gino». 

Di seguito la precisazione di Emergency: "In seguito alle speculazioni che abbiamo letto sulla stampa, ci teniamo a sottolineare che la decisione dell’avvicendamento alla carica di Presidente del Consiglio Direttivo di Emergency è stata maturata nell’ambito di una normale dinamica di confronto interno, teso a cercare sempre l’assetto più adatto alla crescita dell’organizzazione, come avviene ogni giorno in ogni realtà associativa".

Emergency cambia Strada: Gino risponde, ma la polemica continua. Il fondatore si difende in un'intervista: «Non ho silurato mia figlia, normali le differenze di vedute». Nell'associazione però ci si chiede perché la presidente è stata rimossa un anno prima della scadenza. E si discute del contributo di Salini Impregilo a un progetto in Uganda, scrive il 12 luglio 2017 "L'Espresso". A due giorni dalla notizia data dall'Espresso sulla rimozione di Cecilia Strada dalla presidenza di Emergency e sulle sue motivazioni, il fondatore dell'associazione Gino Strada ha rilasciato una lunga intervista a Repubblica, che fa seguito al comunicato ufficiale di Emergency e al post su Facebook in cui Gino Strada ha risposto al nostro articolo minacciando anche querele. Nell'intervista a Repubblica Gino Strada dice che nell'associazione possono esserci «differenza di vedute» ma assicura che «non c'è nessun dissidio»; per quanto riguarda il cambio alla presidenza sostiene che «è una decisione presa per motivi interni, sui quali non abbiamo l'obbligo di questionare», pertanto non ne spiega le motivazioni. Gino Strada smentisce che la figlia sia stata «silurata», anche se è un fatto che il mandato di Cecilia Strada doveva durare ancora un anno e che quindi la rimozione è avvenuta in modo anticipato rispetto alla scadenza naturale, così come è un fatto che è avvenuta in modo improvviso e inaspettato, a seguito di una aspra discussione. Si è dunque trattato sotto ogni aspetto di un siluramento e non di un avvicendamento programmato. L'Espresso, nel suo articolo, aveva rivelato alcuni elementi del confronto interno, soprattutto la questione principale: accettare o no i soldi dei governi e delle grandi aziende private oppure rimanere indipendenti da qualsiasi istituzione e corporation? In merito Gino Strada risponde a Repubblica: «È un crimine discutere se ricevere finanziamenti da grandi imprese che ci propongono fondi? Io non credo. Fa parte del normale dibattito», così confermando nella sostanza quanto scritto dall'Espresso. Tuttavia il fondatore sostiene che Emergency «non ha preso nemmeno un centesimo» dalle imprese citate nel pezzo dell'Espresso, cioè Eni e Impregilo, ricordando come i bilanci dell'associazione siano trasparenti e le liste dei contributori siano pubbliche. In effetti, proprio la (indubbia) trasparenza in merito di Emergency consente di verificare i contributori in una delle vicende più discusse di recente all'interno dell'associazione, cioè il centro di chirurgia pediatrica in Uganda di cui è stata posata la prima pietra nel febbraio scorso dallo stesso Gino Strada insieme all'architetto Renzo Piano, che ha disegnato l'ospedale. È lo stesso sito di Emergency che ringrazia le aziende e le fondazioni che hanno finora aderito al progetto, tra cui Enel, Mapei e Salini Impregilo. La presenza di quest'ultima azienda è stata tra le più discusse all'interno di Emergency in quanto principale attore nella costruzione della maxi diga sulla valle dell'Omo, in Etiopia, che suscita molte perplessità perché minaccia l'ecosistema e la vita stessa di decine di migliaia di persone. Per quanto riguarda i contributi di Eni invece è vero che non ci sono stati finora aiuti concreti, anche se all'interno dell'associazione è stata messa in discussione l'ipotesi di una collaborazione relativa a un progetto in Libia. Si tratta ovviamente di scelte su cui L'Espresso non intende in alcun modo prendere posizione né ha alcuna intenzione polemica: Emergency è un'associazione di straordinario e indubitabile valore che ha salvato e continua a salvare milioni di vite umane e ha diritto a fare tutte le scelte che crede. Semplicemente L'Espresso - specie a fronte di una minaccia di querela - conferma e ribadisce la piena e totale autenticità di quanto ha scritto, e cioè che c'è stata e c'è ancora all'interno di Emergency una discussione sulle politiche rispetto ai finanziamenti e che questa discussione è stata tra le cause principali della rimozione anticipata della presidente Cecilia Strada. A tutta Emergency e ai suoi volontari L'Espresso - che fa il suo dovere giornalistico di informare, anche su quanto accade nella principale Ong italiana - esprime ogni segno di stima e di affetto.

Lobbisti con la tessera, alla Camera sono 125. Nasce l’elenco dei «rappresentanti di interesse» di industrie e associazioni. C’è anche Emergency, scrive Fausta Chiesa il 13 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Ci sono tutte le controllate dello Stato quotate in Borsa. Big come Eni ed Enel. I gruppi della telefonia come Tim e Vodafone e le tv come la Rai e Sky. Non potevano mancare le industrie del tabacco, come Imperial Tobacco e Japan Tobacco. Ci sono le associazioni di categoria, come Confindustria, Confcooperative e i costruttori con l’Ance e Confedilizia. E ovviamente le società di consulenza che svolgono una pura attività di lobbying. Nel neonato registro ufficiale dei lobbisti — pardon, dei «rappresentanti di interessi», come si chiama il registro istituito presso la Camera dei deputati con un portale apposito — spunta anche l’associazione umanitaria Emergency. Complessivamente, a oggi sono 125 i rappresentanti di interessi approvati e quindi iscritti regolarmente al Registro, per la precisione 90 persone giuridiche e 35 persone fisiche. Poi, ci sono una trentina circa di richieste in corso di valutazione. «Proprio stamattina (ieri ndr) ho ritirato il mio tesserino», dice Roberto Falcone, presidente dell’Associazione nazionale tributaristi Lapet. «Prima ho dovuto fare domande per via telematica, attraverso la mia identità digitale. Poi sono dovuto andare agli uffici della sicurezza alla Camera. Dopo l’identificazione e la foto, mi hanno creato e consegnato il badge». Il Registro è attivo, ma rimane aperto: chi non si è ancora iscritto può sempre farlo. Ma per essere un «lobbista con la tessera» è necessario non aver subìto negli ultimi dieci anni condanne definitive per reati contro la pubblica amministrazione, come la concussione o l’abuso d’ufficio e non essere stato, nell’ultimo anno, parlamentare oppure al governo. Chi non si fosse ancora iscritto può comunque accedere a Montecitorio, come spiega la vicepresidente della Camera Marina Sereni: «Non soltanto i rappresentanti di interessi, ma qualsiasi cittadino può entrare alla Camera, purché abbia un appuntamento con un deputato e ci sono aree in cui può transitare e aree che invece sono off limits. Il badge consente l’ingresso anche se non si ha un appuntamento con un parlamentare». Insomma, per entrare non si dovrà più andare a braccetto con un deputato, pratica che aveva dato origine al soprannome «sottobraccisti». Una volta dentro, la vita diventa più facile. Già in passato era stato vietato l’accesso a zone quali lo spazio antistante le Commissioni e il Transatlantico. «Attualmente — spiega Sereni — chi ha il badge può stare nel corridoio dei presidenti al piano Aula. Ma in futuro è previsto che si apra una sala dedicata ai rappresentanti di interessi, anche se non è ancora stata attrezzata. Riteniamo che sarà pronta prima della discussione della prossima legge di bilancio». Quello della Camera è il primo vero albo italiano dei lobbisti, dopo il «Registro trasparenza» del ministero dello Sviluppo economico. «Volevamo far emergere il tema del lobbismo, anche perché il ruolo delle lobby può essere positivo quando si tratta di soggetti che operano in modo trasparente quando interloquiscono con la politica. Vogliamo portare una maggiore consapevolezza non soltanto tra i portatori di interessi, ma anche nell’opinione pubblica».

CASA LORO… HOTEL AFRICA.

Migranti, sindaca Pd di Codigoro: “Tasse più alte per chi ospita profughi? Una provocazione. Sono di sinistra”, scrive Gisella Ruccia il 7 agosto 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Alice Zanardi, sindaca Pd di Codigoro (Ferrara), entrata nell’occhio del ciclone per il suo discusso comunicato, fa un passo indietro e riceve in diretta, nel corso de L’Aria che Tira Estate(La7), la “benedizione” del deputato Pd, David Ermini. L’esponente dem era finita alla ribalta delle cronache per aver diramato una nota con cui annunciava aumenti fiscali e controlli sanitari nelle abitazioni di quei cittadini che avessero ospitato profughi. E corregge il tiro su La7: “Non mi aspettavo questo clamore e non era mia intenzione creare un caso mediatico riguardante, tra l’altro, una comunità che sta accogliendo. E’ anche per questo motivo non vedo il motivo per cui questa notizia debba apparire a livello nazionale. La mia era semplicemente una provocazione. Volevo mettere un punto a una situazione che stava diventando ingestibile quando abbiamo superato la soglia in modo esagerato, anche secondo i miei cittadini. Forse non ci si rende conto dell’impatto che ha il numero di profughi che arrivano nelle piccole comunità”. E assicura: “Il mio pensiero e i miei principi sono di sinistra. Io vengo dal mondo del volontariato, sono sempre stata a favore della solidarietà e dell’accoglienza. Nessuno può mettere in dubbio questa cosa. Sono andata dal prefetto perché avevo un problema nella mia comunità, chiedendo aiuto e cercando di risolvere questo problema. Se c’è una regola” – continua – “questa va rispettata da tutti. I Comuni che in Italia fanno il proprio dovere con l’accoglienza, come ho fatto io, sono davvero pochi. E io non solo sto accogliendo, ma a Codigoro vengono tutti i profughi dei Comuni limitrofi per frequentare i corsi di alfabetizzazione in una mia associazione di volontariato. Non possono arrivare, però, tutti da me, ci sono dei Comuni vicino al mio che non accolgono”. Poi rivela: “Non ho sentito Renzi. Probabilmente ho sbagliato con questa provocazione, però anche Renzi stesso dice: Aiutiamoli a casa loro. M5s? Io veramente non sono d’accordo a prescindere col pensiero dei 5 Stelle”.

Oltre 260 euro al giorno per mantenere un minore. Minori non accompagnati a peso d’oro, anzi al prezzo di un hotel a 5 stelle. Una follia? No, è la realtà, scrive Fabrizio Tenerelli il 7 agosto 2017 su “Il Giornale”. Basti pensare che il Comune di Ventimiglia (al trenta per cento) e l'Asl (al settanta per cento) spendono assieme 260 euro al giorno per mantenere un minore non accompagnato, in una comunità terapeutica di Genova: la "Tuga", di via Creto. Se a questa cifra aggiungiamo l'Iva al cinque per cento, i conti sono presto fatti. Questo ragazzo costa alla comunità: 273 euro al giorno e il Comune frontialiero ha messo a bilancio 17.500 euro per il suo mantenimento, fino al 31 dicembre del prossimo anno. Moltiplichiamo questa cifra per chissà quanti altri minori stranieri in tutta Italia, nelle sue stesse condizioni, e poi facciamoci due domande. Ma non finisce qui. Se questo può essere considerato un caso limite, il Comune di Ventimiglia proprio oggi ha messo a bilancio 142mila euro per l'assistenza di altri quattordici minori non accompagnati, sempre con scadenza la fine dell'anno. Una spesa che si aggiunge a tutte quelle già avvenute in precedenza. E' il 3 gennaio del 2017, quando il Comune di Ventimiglia assume un impegno di spesa di 42.510 euro per l'ospitalità di minori non accompagnati, nel periodo da marzo a dicembre. Il 2 febbraio, l'impegno di spesa sale a 182.500 e il periodo di riferimento è quello che va da gennaio al 30 giugno 2017. Il 17 febbraio, una nuova determina, con il il Comune che stanzia 102.396,31 euro per minori stranieri non accompagnati, con periodo di riferimento da settembre a dicembre del 2016. Il primo marzo 2017, ancora una delibera, questa volta pari a 141.176,05 euro e il periodo di riferimento è (così recita la delibera) "mesi diversi". Ma dove vengono assistiti questi ragazzi? Per quanto riguarda, quest'ultima delibera: 3 dei minori sono stati affidati al "Centro di aiuto alla vita - Miracolo della Vita", di Sanremo; 1 a "Casa Bea - Il Volo della Gabbianella", di Ortovero (Savona); 3 alla "Opera Nazionale per il Mezzogiorno - Istituto Padre Semeria", di Coldirodi, a Sanremo; 4 a "Il Cortile", di Ventimiglia; 1 alla "Casa dell'Angelo - Opera Don Guanella", di Genova; 2 alla "Comunità L'impronta", di Genova.

La strana scelta di Salsomaggiore: “No a Miss Italia, sì ai 34 euro per i migranti”. Gli albergatori: solo così riusciamo a guadagnare, scrive Alberto Mattioli il 21/07/2017 su "La Stampa". Per rilanciare il turismo, meglio i migranti di Miss Italia. È un paradosso, l’ennesimo, di questa Italia stralunata del 2017. Succede a Salsomaggiore, località termale nel parmense di glorioso passato e incerto presente. Gli albergatori hanno detto di no al ritorno del concorso di bellezza, troppa spesa per poca resa. E intanto alcuni, scatenando grandi polemiche nella categoria, si sono riciclati nel business degli immigrati.  Meglio i famosi o famigerati 35 euro al giorno per ospitare i disperati che rincorrere una clientela sempre più volatile, specie dopo che il welfare all’italiana ha dato una stretta alle vacanze alle terme a carico di Pantalone. A Tabiano, frazione altrettanto termale di Salso, alcuni vivono al Grand hotel Astro, occupato dalle bellone prima che il concorso emigrasse a Montecatini e poi a Jesolo. Dalle miss ai migranti, quasi una metafora dell’Italia.  Salsomaggiore, nel suo genere un po’ sbiadito, non è male. Ci sono una bella stazione ferroviaria fascista, roba da far andare di traverso le acque miracolose alla Boldrini, pasticcerie con dolcetti tipici, le sensazionali terme Berzieri, di un déco smodato e delirante, ma attualmente in restauro (luglio, per il turismo termale, è bassa stagione), albergoni fin-de-siècle abbandonati e in rovina, e dei rari villeggianti sui cent’anni ma vispissimi. L’amministratore è invece un baby sindaco di 33 anni, già in carica da quattro, Filippo Fritelli, «renziano dubbioso», parole sue. Nel suo ufficio vegliato dai ritratti dei numi tutelari locali, Maria Luigia e Verdi, racconta la crisi del turismo delle cure, la situazione delle Terme in attesa di privatizzazione e magari di essere vendute a un gruppo milanese per l’immancabile rilancio, e il gran rifiuto degli albergatori al ritorno delle Miss: «L’organizzazione aveva chiesto 7500 presenze gratuite, pernottamento e pensione completa, su una quindicina di giorni, troppe. Una volta pagava il Comune. Io adesso, raschiando il fondo del barile e chiedendo aiuto alla Regione, posso mettere insieme 100 mila euro, pochi. E poi sì, è vero, in tutta Italia vale l’equazione Miss Italia uguale Salsomaggiore. Però il concorso non ha più la popolarità di una volta. Gli esercenti hanno fatto due conti e hanno detto di no». Sì, invece, ai migranti. «Il problema riguarda Tabiano. Lì c’erano circa 60 alberghi, ne sono rimasti una quarantina, quattro hanno vinto il bando della prefettura. A Salsomaggiore gli immigrati sono una settantina su 16 mila abitanti, e non è un problema. A Tabiano, 150 su 500, e lì invece il problema c’è. Ho cercato di dare lo stop, è venuto il ministro Minniti, ha fatto la promessa che non ne arriveranno altri e finora l’ha mantenuta. Il problema è che troppi albergatori sono abituati a farsi mantenere dallo Stato, ieri con le vacanze alle terme pagate, oggi con i migranti. Ma anche gli esercenti sono divisi». Non resta che andare a Tabiano a chiedere a loro. Il presidente degli albergatori si chiama Francesco Ravasini, proprietario dell’hotel Rossini, tre stelle superiore, 50 camere, tre dipendenti che diventano sette con la famiglia tutta impegnata nel business, pensione completa a 65 euro, occupazione media, negli ultimi duri tempi, «a voler essere ottimisti», del 30%: «a fine mese si fa fatica». Spiega: «È semplice: o crediamo che il turismo termale abbia un futuro, oppure no. Io ci credo, alcuni colleghi no e allora si riciclano con i migranti. Altri ancora, mi risulta, ci stanno pensando. Chi viene qui è una clientela anziana, non è contenta di vedere i migranti che bivaccano sulle panchine. Sia chiaro: non siamo razzisti e incidenti non ne sono mai capitati. Non dico nemmeno che se non ci fossero qui sarebbe tutto pieno. Ma forse nemmeno così vuoto». Altro giro, altre opinioni. Gian Paolo Orlandelli, ex presidente della Pro Loco di Tabiano, proprietario dell’hotel Terme, ospita 33 migranti, 34,5 euro al giorno per ognuno, «ma fra tasse, spese, pagamenti in ritardo nelle nostre tasche resta non più del 15-20%. Perché ho deciso di cambiare lavoro? Perché io ho questo albergo da quarant’anni, costruito da mio padre con le sue mani, e non voglio farmelo portare via per pagare le tasse. E non vorrei nemmeno lasciare ai miei quattro figli solo dei debiti. Ho provato di tutto, ho costruito la piscina e il centro benessere, mi sono proposto come residence all’Università di Parma, ho cercato perfino di vendere ai cinesi. Niente da fare». Dicono che, riempiendolo di migranti, rovinate il paese. «Tabiano era già rovinato. Il termalismo è finito. Nell’ultimo anno le Terme hanno fatto 18 mila presenze. Dieci anni fa, erano 50 mila. Nessuno qui ha mai investito un euro. Poi quando si tratta di pulire il parco vengono a chiedermi i miei ragazzi». Già, ma crede che il business dei migranti possa durare per sempre? «A me bastano altri due anni, poi vado in pensione. E sa cosa le dico? La mia è stata una scelta imprenditoriale, ma il contatto con questi ragazzi ingenui ma buoni mi ha arricchito soprattutto spiritualmente. Altro che Miss Italia, che qui a Tabiano non ha mai fatto arrivare una lira».  

Migranti, la cresta delle coop: cibo, salari e servizi fantasma. Ogni 50 profughi il profitto può arrivare a 10mila euro al mese. Ecco come società e cooperative possono guadagnare con l'immigrazione, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Ospitare profughi è un vero affare. E non si tratta di slogan o insinuazioni senza prove: lo dicono i numeri. Basta affittare una struttura in cui accatastarli oppure riaprire un vecchio hotel abbandonato, partecipare alla ripartizione degli immigrati e il gioco è fatto. Reddito garantito. Per valutare quanto profitto gli imprenditori dell’accoglienza possono trarre dai 30-35 euro a migrante pagati dallo Stato, ci siamo fatti aiutare da un esperto contabile. Abbiamo preso il bando emesso dalla prefettura di Bologna, lo abbiamo analizzato e infine ipotizzato di partecipare alla gara come una cooperativa. La chiameremo “Affari per tutti”. Ci sono due ipotesi. Nella prima immaginiamo di gestire un Cas da massimo 16 persone. Piccolo, ma comunque remunerativo. Nella seconda, puntiamo su una struttura media da 50 immigrati da piazzare in hotel. Il capitolato d’appalto obbliga (o meglio, obbligherebbe) le coop a fornire determinati servizi e dotarsi di un personale idoneo a garantirli: un direttore, un numero di operatori in funzione degli ospiti, lo psicologo, l’assistente sociale, un mediatore linguistico e un infermiere per un totale di 352 ore alla settimana (178 per il centro più piccolo). I costi fissi da affrontare sono l’affitto dello stabile e il mantenimento di un mezzo per scarrozzare i migranti all’occorrenza. Il primo è stato calcolato assegnando ad ogni ospite la metratura minima che, per legge, deve essere garantita per un domicilio. Il secondo è stimato in 8,77 euro al giorno. I costi variabili dipendono invece dal numero di presenze nel Cas: il consumo di acqua, luce, gas e rifiuti (0,94 euro al giorno a profugo) e gli appalti per la lavanderia e per la pulizia dei locali (1,93 euro al giorno pro capite). Infine, c’è la spesa una tantum per i beni di prima accoglienza da fornire ai nuovi arrivati: abiti e scarpe (spesso presi già usati), il kit d’igiene personale e la scheda telefonica da 15 euro. Oneri che spalmati su un anno si riducono ad un’inezia: circa 20 centesimi di euro al giorno. Adesso vi chiederete: dove sta l’inganno? Come si fa a guadagnarci? Semplice: giocando sul costo del personale e sui pasti. “Tutto dipende dalla moralità di chi guida i centri”, ci spiega un operatore che di queste cose se ne intende. Perché pagando i collaboratori secondo il “contratto collettivo nazionale delle cooperative sociali” e fornendo un servizio mensa di qualità, i costi schizzano. E alla fine del mese il rischio è di non rientrarci. Ma più di un lavoratore assunto da associazioni che sguazzano nell’emergenza sbarchi ci ha confermato - sotto anonimato - di ricevere molto meno rispetto a quanto gli spetterebbe con la paga oraria garantita dal Ccn. Impiegati a tempo pieno e pagati per un part-time: circa 700 euro al mese contro uno stipendio netto che dovrebbe essere intorno ai 1.100 euro. "In un colloquio come assistente legale un mese fa mi hanno offerto 950€ circa. Ho rifiutato per principio", ci racconta un operatore. E non è solo un caso: quando esplose il caso di Mafia Capitale a Roma, l'Assemblea dei Lavoratori dell'Accoglienza lamentò le condizioni in cui erano costretti a sfacchinare tra "precarietà, sfruttamento e demansionamento". Senza contare che spesso i primi a risentire dei ritardi nei pagamenti da parte dello Stato sono loro, che finiscono col rimanere senza stipendio per mesi. Discorso simile vale per i pranzi e le cene: un buon servizio mensa richiede mediamente 16 euro al giorno a immigrato, ma le coop tirano la cinghia sulle pietanze riducendo le spese ad appena 10 euro. Per calcolare il dato ci siamo basati su diversi casi pratici. Basti pensare che nel sistema Sprar, secondo il rapporto annuale del Ministero, "l’importo del contributo economico a persona per l’approvvigionamento del vitto si aggira da 4.1 a 5 euro". Vi sembra troppo poco? Non lo è. A confermarci tutto è il direttore di un Cas per minori: "Ho visto altri centri di accoglienza limitarsi a un piatto di pasta, un’aletta di pollo e a colazione solo un po’ di the con una mela. E alcuni vanno pure a fare la spesa alla Caritas". Non è corretto, direte. Certo. Bisognerebbe seguire il capitolato d’appalto. Ma le cooperative non sono obbligate dalla legge a dichiarare come utilizzano i soldi pubblici e i controlli delle prefetture latitano: “In tre anni - ci spiega un coordinatore - da noi non sono mai venuti”. E così si sprecano i casi in cui nei centri profughi si fa fatica a trovare anche un solo operatore, con i migranti abbandonati a loro stessi e senza alcuna attività da fare. In barba ai contratti e ai progetti di integrazione presentati in Prefettura. Tanto nessuno verifica. Non tutte le coop lo fanno, ma per i furbi l’affare diventa immediatamente remunerativo. Anche se le prestazioni non vengono erogate, infatti, lo Stato paga comunque. Per risparmiare ancora basta ridurre il personale: su Youtube una giovane spiegava di essere stata assunta come operatrice legale, ma "nella cooperativa svolgo qualsiasi mansione, dalla distribuzione dei pasti alla pulizia dello stabile". E così se lo psicologo fa anche il lavoro dell’assistente sociale e il mediatore culturale si occupa pure del supporto legale, in cassa rimangono altri 136 euro al giorno. Un tesoretto in mano alle coop. Il conto finale è da capogiro. Nella struttura di accoglienza da 16 persone, lesinando su pasti e operatori, si comincia a guadagnare già dal secondo profugo accolto. Quella da 50 ospiti è una miniera d’oro. Dei circa 34,5 euro al giorno a migrante pagati dallo Stato, possono rimanere in tasca alle cooperative (e agli albergatori) tra i 6 e gli 8 euro al giorno a immigrato. Che moltiplicati per 50 persone significano tra i 300 e i 400 euro al giorno. Ovvero 10mila euro al mese di profitto. E se si considera che molte coop, hotel e Srl arrivano a gestire anche 300 richiedenti asilo, il guadagno può arrivare a 60mila euro al mese. Cioè 720mila euro all'anno. Un business da nababbi.

Migranti: protesta per pocket money, sit-in a Taranto, scrive Lunedì 5 Dicembre 2016 "Il Quotidiano di Puglia". Una delegazione di migranti ospiti nel centro di accoglienza ex Bel Sit di Taranto ha manifestato sotto la sede della Prefettura lamentando un ritardo di cinque mesi nella corresponsione dei pocket money da parte dell'Associazione Salam, che gestisce la struttura. "Ancora una volta - è detto in una nota dello Slai Cobas per il sindacato di classe, a cui i migranti si sono rivolti - la Salam è l'unica associazione su Taranto che non rispetta questo diritto dei migranti; tutte le altre associazioni, pur con le stesse difficoltà di fondi, corrispondono regolarmente questo pocket money, che è un sostegno, sia pur minimo, per le spese urgenti dei migranti. Già nel recente passato abbiamo sollevato questo problema". La delegazione dei migranti, accompagnata dalla responsabile dello Slai cobas, Fiorella Masci, chiede "che questa situazione venga risolva subito e che ai migranti vengano dati tutti i pocket money arretrati in modo da evitare ulteriori iniziative di lotta".

Giugliano, niente pocket money: sommossa dei migranti nel centro di accoglienza, scrive Mariano Fellico su "Il Mattino" Mercoledì 20 Gennaio 2016. Non percepiscono i pocket money da mesi, protesta di un centinaio di migranti fuori al centro di accoglienza dell’albergo Le Chateau sulla Domiziana. A scendere in strada sono stati una trentina di immigrati che erano ospitati nel centro del Resort San Martino all’interno della struttura Di Francia sgomberato e sequestrato qualche giorno fa e altri che risiedono nell’albergo. La manifestazione alle otto di questa mattina, quando una trentina di stranieri che ora si trova in altri centri di accoglienza a Napoli si sono dati appuntamento fuori alla struttura alberghiera, centro di accoglienza gestito dalla cooperativa Family. Sul posto sono giunti gli agenti del Commissariato di polizia di Giugliano. Una decina di poliziotti con a capo il primo dirigente Pasquale Trocino che hanno mediato con i manifestanti ed evitato che la protesta degenerasse con blocchi stradali o altro. La promessa è stata quella che in breve tempo i migranti otterranno i tanto attesi pocket money.

TRICASE, PROTESTA DEI MIGRANTI, MANCA IL “WI-FI” E RITARDA IL “POCKET MONEY”, scrive il 2 novembre 2016, "Tricasenews". Una trentina di migranti ospiti di una struttura non lontana dalla chiesa della Madonna del Gonfalone si sono recati in tarda mattinata presso il Comando della Polizia Locale di Tricase in via Leonardo Da Vinci. Nella stesso stabile c’è anche la sede dei Servizi Sociali del Comune di Tricase. Sul posto per calmare gli animi sono intervenuti Carabinieri della locale Compagnia e la Polizia del Commissariato di Taurisano. Da quanto si è saputo sembra che il gruppo di cittadini extracomunitari abbia protestato per la mancanza della connessione wi-fi nella struttura che li ospita e per il ritardo nell’erogazione del pocket money. Successivamente i migranti si sono diretti a piedi verso il Comune da dove poi sono stati fatti disperdere dall’intervento delle forze dell’ordine. Che cos’è il pocket money? Il pocket money è l’unica parte dei 35 euro di bonus che viene erogata ai beneficiari direttamente, in mano. A volte la cifra viene data in contanti, altre volte attraverso delle carte prepagate ricaricabili e spendibili dappertutto. In ogni caso è un diritto del richiedente asilo. Perché viene erogato il pocket money? Questa piccola quota giornaliera serve ai richiedenti asilo per le piccole spese quotidiane. Innanzitutto per potersi comperare una scheda telefonica con cui chiamare i familiari, che molto spesso sono rimasti a casa e aggiornarli sulle proprie condizioni di salute. Ma anche per comprarsi un pasto o le sigarette.

35 euro al giorno per vitto, alloggio e gestione dell’accoglienza. Il costo medio per l’accoglienza di un richiedente asilo o rifugiato è di 35 euro al giorno. Un importo non definito per decreto, ma da una valutazione sui costi di gestione dei centri. Gli enti locali che decidono di partecipare al bando Sprar (Sistema di protezione e accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo), hanno l’obbligo infatti di presentare un piano finanziario che deve essere approvato dalla commissione formata da rappresentati di enti locali (comuni, province e regioni), del ministero dell’Interno e dell’Unhcr. I 35-40 euro, sono ormai una sorta di costo standard, che viene erogato anche per i centri di accoglienza non Sprar gestiti dalle prefetture. Questi soldi servono a coprire le spese per il vitto, l’alloggio, l’affitto e la pulizia dello stabile, ma anche a pagare lo stipendio alle persone che ci lavorano e, in qualche caso, ad avviare progetti di inserimento lavorativo per i migranti.

Protesta dei migranti a Portula. Il Comune chiede spiegazioni alla cooperativa, scrive il 21-07-2017 "Notizia Oggi". Niente pocket money da mesi: e i migranti del centro di accoglienza straordinaria di Portula protestano. Mercoledì mattina un gruppo di ospiti ha quasi bloccato un tratto di strada a Granero, più o meno all’altezza dell’ex cinema Radar con oggetti di fortuna: c’erano bidoni, sedie, un divano e tavolini. E qualche residente ha interpellato gli amministratori della zona. Il primo a intervenire è stato il sindaco di Coggiola Gianluca Foglia Barbisin, avvisato da alcuni cittadini: «I ragazzi mi hanno spiegato che non volevano creare problemi, ma solo far sentire la propria voce. Da tempo non ricevono il pocket money, la diaria di 2,50 euro al giorno che dovrebbe servire loro per le piccole spese. Poi hanno sollevato anche altre questioni relative alle condizioni in cui vivono. Li ho convinti che protestare in strada creando disagi non è il modo giusto di fare». Presente anche il sindaco di Portula Fabrizio Calcia Ros: «La situazione si è risolta in qualche ora, però così non va. Capisco le loro questioni, ma l’associazione Nuvola che gestisce il centro deve prendersi le proprie responsabilità. Se deve pagare il pocket money allora lo faccia». Calcia Ros ha chiesto anche un incontro con i responsabili della struttura. «E’ ora di fare un po’ di chiarezza - spiega -. Aspetto il confronto perchè situazioni del genere non si ripetano». Presenti sul posto anche i funzionari della prefettura, oltre a carabinieri e polizia.

PROTESTE MIGRANTI, POCKET MONEY E IL NETWORK DELL’ODIO, scrive il 2 Novembre 2016 Effe Pi su "Itenovas". Come la notizia delle protesta di oggi a Narcao è nella realtà e come si trasforma sui social in mano a un vero e proprio "network" che include giornali, siti internazionali e utenti. La guerra dell’informazione corre sempre più sul web e soprattutto sui social, ormai quello che una volta erano controspionaggio e controinformazione si fanno su Twitter, Facebook e Youtube. I dettagli sulla forza e l’organizzazione (nonché i finanziatori più o meno occulti) di questi veri e propri network, spesso non dichiarati, sono ormai a disposizione di chiunque voglia vederle, e proprio di oggi sono la pubblicazione di un’inchiesta sul web di estrema destra in Francia (legato al successo del Front National della Le Pen) e un approfondimento de “La Stampa” sui legami tra la propaganda web della Russia e di Putin e quella grillina e leghista in Italia. Insomma, ormai è difficile credere non solo all’imparzialità dei media (notoriamente inesistente), ma perfino alla buona fede della “gente” che posta i contenuti sui social, tra cosiddetti influencer e veri e propri attivisti più o meno disinteressati. Per analizzare con un esempio “sardo” questa tendenza abbiamo preso la notizia (riportata dall’Ansa e da molti altri media “ufficiali”) della protesta dei migranti a Narcao, nel Sulcis, scattata oggi per richiedere il pagamento del Pocket money, quei pochi euro al giorno che gli immigrati ospitati nelle strutture pubbliche ricevono per piccole spese.

L’agenzia di stampa riporta quanto segue: “Nuova protesta dei migranti a Narcao, nel Sulcis. Un gruppo di profughi, ospiti della struttura di accoglienza di Rosas sono scesi in strada e hanno bloccato il traffico sulla provinciale, non troppo distante dal luogo in cui stanno soggiornando, in località Terrubia alla periferia del paese. All'origine della protesta, il rilascio del pocket money. Il 20 ottobre scorso, i profughi avevano manifestato per la stessa ragione, bloccando per qualche minuto la strada. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della Compagnia di Carbonia”. Fino a qui la notizia, da cui comprendiamo (fino a prova contraria) che la protesta è stata pacifica, di breve durata, sotto controllo (vista la presenza dei Carabinieri) e anche come in parte sia una non-notizia, essendo la riproposizione di proteste per una situazione probabilmente non risolta. Per vedere come diventa su quello che possiamo definire un vero e proprio network, bisogna andare sui social, e abbiamo scelto Twitter che è il più adatto alla condivisione delle news.

L’odio su Twitter contro Islam e negri. Tra i cinguettii ci sono quelli di chi riporta la notizia pura e semplice, ma si notano subito anche coloro che la “interpretano “ a modo loro: ad esempio, l’utente Jihadi Kermit (6838 follower), che come foto di profilo ha un uomo con un coltellaccio pronto a sgozzare innocenti, ma con la testa della simpatica rana dei Muppet, e nonostante scriva in inglese è probabilmente italiano, visto che il suo profilo riporta la frase “Maometto disse: Diventerò vittorioso grazie al terrore” e il link al sito Stop Islam (che peraltro non si apre). Su Narcao, sotto una foto della protesta scrive (in inglese) “le solite proteste e blocchi di migranti: viviamo in hotel di lusso ma non abbiamo il Wi-Fi”. Ci sono poi vari account legati alla Lega Nord, come quello omonimo, quelli di Noi con Salvini e Radio Padania Libera che scrivono “++ ANCORA! >>> NIENTE POCKET MONEY, I MIGRANTI OSPITI A NARCAO BLOCCANO LA STRADA ++”, riportando un link della Nuova Sardegna che pubblica correttamente la notizia, mentre l’utente di lingua francese Battine (7162 follower) che nel profilo ha scritto “A destra, molto semplicemente…”, parla di un “nuovo blocco” dei migranti per reclamare i “loro” (tra virgolette anche nel tweet a sottolineare che non lo sono) spiccioli. Un utente di lingua polacca invece pubblica il link all’account Onlinemagazin (44200 follower) che parla ancora delle “solite proteste e blocchi”: il sito linkato al profilo è di un quotidiano online tedesco che nel pezzo di apertura cerca di smentire un sondaggio della tv Ard, secondo cui i tedeschi “vogliono ospitare più migranti”, su Twitter invece il primo post è il video di un (presunto) Imam secondo cui “dire buon Natale è peggio che commettere un omicidio”.

Agenzie e quotidiani uniti nella lotta. Il sito dell’agenzia di stampa NEWSAGIELLE.IT (con relativo account) riporta la dichiarazione del deputato leghista Grimoldi, secondo cui i protagonisti della protesta andrebbero “espulsi subito”, mentre altri utenti mettono un link dal sito del quotidiano “Il Giornale”, dall’esplicito titolo “Strade bloccate e sit in violenti: gli immigrati incendiano la Sardegna”. Violenza e incendio relativi, visto che basta leggere lo stesso articolo per capire che la protesta (come anche quelle precedenti citate) non ha avuto queste caratteristiche, mentre il quotidiano online “Il Populista” fa copia e incolla dell’articolo dei più famosi colleghi e ha sul sito categorie come “L’incazzato”, “Il buonista” o “Il samurai”. Gli account personali di chi condivide parlano di “nazisti rossi”, odio per l’euro e in molti casi sono schierati per il No al referendum costituzionale (che d’altronde è condiviso da Lega ed estrema destra): del resto, il titolo del quotidiano della famiglia Berlusconi è riportato in modo acritico anche dall’account di SardegnaToday (1935 follower) che come link sul profilo ha il gruppo chiuso di Facebook “Zona franca Gallura liberiamoci dall’embargo” (7580 membri) e tra i post ha video Youtube di Osho (titolo: RIBELLATI INSORGI & RESISTI!), link a dichiarazioni di Salvini sull’invasione e dichiarazioni del giornalista Paolo Barnard (sul sito stopeuro.org), che afferma come ”Il nazismo non è morto, si è solo modernizzato”, a cui nel post viene aggiunto “ieri con le camere a gas, oggi con la finanza”.

Calabria: migranti in protesta per la mancata erogazione del rimborso spese. In Calabria una quindicina di migranti hanno protestato per la mancata erogazione del rimborso spese, scrive il 2 agosto 2017 Ilaria Quattrone su StrettoWeb. Una quindicina di migranti, ospiti delle strutture di accoglienza di Joppolo, hanno protestato dinanzi ai cancelli di un centro in cui soggiornano. L’iniziativa è stata promossa per la mancata corresponsione, o i ritardi nell’erogazione, del cosiddetto “Pocket money”, il rimborso destinato ai migranti per le spese quotidiane.  “Una bottiglia d’acqua – ha detto uno dei migranti – dobbiamo dividerla in cinque persone. Il cibo che ci viene fornito, inoltre, non va bene per le persone”.

Ritardi nei pocket money, esplode la protesta dei migranti a Joppolo, scrive il 2 agosto 2017 G.B. su "Il Vibonese". Rivolta di migranti a Joppolo sul lungomare per protestare contro la mancata corresponsione - o comune ritardi nell’erogazione - del cosiddetto “Pocket money”, piccolo rimborso per le spese quotidiane. A mettere in atto un vero e proprio blocco stradale sono stati alcuni minori accompagnati, da qualche tempo ospiti in una struttura di accoglienza del luogo gestita dalla cooperativa "Da Donna a donna". I ragazzi hanno spostato di peso un’auto per ostruire il passaggio sul lungomare. Sul posto per evitare ulteriori disordini si è quindi portata la polizia municipale ed i carabinieri della locale Stazione di riportare tutti alla calma ed ascoltare le ragioni della protesta. In pratica per ogni rifugiato in Italia lo Stato spende circa 35 euro al giorno, di cui una buona parte sono finanziati dall’Unione Europea. Soldi che non vengono però dati direttamente ai singoli migranti, ma che sono utilizzati per finanziare le spese sostenute dalle cooperative che si occupano della loro accoglienza. Quindi nei 35 euro al giorno sono compresi i costi del vitto e dell’alloggio, ma anche le spese mediche. Una piccola quota copre inoltre anche i programmi per l’inserimento lavorativo. Ad ogni migrante resta così una somma decisamente esigua. È il cosiddetto pocket money, la cifra che hanno a disposizione per finanziare i loro bisogni giornalieri, come ad esempio le ricariche telefoniche per chiamare a casa o semplicemente per acquistare una bottiglia d’acqua al bar. Proprio i ritardi nell’erogazione di tale “pocket money” ha fatto stamane scattare la protesta, sedata solo dal pronto intervento dei carabinieri. Non è la prima volta che nel Vibonese esplode la protesta contro cooperative ed associazioni che si occupano dell’accoglienza dei migranti a causa dei ritardi nell’erogazione del pocket money.

Migranti protestano contro la coop a Lodi: vogliono soldi e migliori condizioni. Sono stati 83 i migranti scesi in strada per chiedere alla coop che li gestisce un miglioramento delle condizioni di accoglienza, scrive Carlo D'Elia il 3 agosto 2017 su "Il Giorno". La protesta dei migranti ha mandato nel caos la piccola frazione dell’Olmo. È stata una mattinata di tensione nella comunità di appena 197 abitanti alle porte di Lodi. Ieri, intorno alle 12.30, sono stati 83 i migranti che sono scesi in strada per chiedere alla cooperativa che li gestisce un miglioramento delle condizioni di accoglienza. E non solo. A fare scoppiare la protesta anche il presunto mancato pagamento del pocket money, circa 2,5 euro al giorno, che i migranti ricevono per poter pagarsi qualche spesa. Fondamentale l’intervento di quattro volanti della Polizia di Stato che fatto rientrare la protesta e riportato la tranquillità nella frazione. Gli agenti hanno bloccato la via ed un paio di stranieri avrebbero tentato di scappare nella campagna. Sulla questione è intervenuto anche il sindaco di Lodi, Sara Casanova, che ha chiesto e ottenuto un incontro urgente che si terrà stamattina col prefetto Patrizia Palmisani. «Mettere in una piccola frazione 83 presunti profughi è deleterio per la nostra comunità – commenta il primo cittadino –. Era chiaro che prima o poi accadesse qualcosa. Il prefetto dovrebbe garantire l’ordine pubblico, a me pare, invece, che corriamo il rischio reale che in città e in ogni angolo della provincia si crei uno scontro tra cittadini residenti e ospiti». E ha aggiunto: «Nel merito della vicenda ritengo inaccettabile che la cooperativa non sorvegli adeguatamente gli ospiti permettendo proteste. Il fatto che protestino in modo organizzato ci preoccupa molto». Ha infatti spiegato: «Per noi è prioritaria la sicurezza dei residenti della frazione Olmo che meritano tranquillità. Per questo chiedo ufficialmente al prefetto che intervenga immediatamente. A tal proposito ho richiesto e ottenuto un incontro urgente che si terrà già domani mattina (stamattina per chi legge, ndr)».  Nel giro di pochi mesi sono raddoppiati i profughi accolti nella struttura. Provengono dal centro Africa, Nigeria, Mali, Gambia, Togo e Pakistan. La maggior parte sono giovani uomini, poche le donne. Per la minuscola frazione alle porte della città, che conta 197 abitanti, è sempre stato un numero rilevante di richiedenti asilo. Un migrante ogni due abitanti. I nuovi residenti da quasi due anni vivono in due palazzine private. Il tutto a due passi dall’antica chiesetta dell’Olmo. Ad occuparsi della gestione dei migranti sono i collaboratori della onlus lodigiana Area Solidale. 

Migranti, il Viminale ha 408 milioni di debiti coi centri di accoglienza dal 2016. “Con i fondi in ritardo taglio ai servizi”. I fondi alle cooperative che gestiscono i Cas vengono erogati dalle Prefetture. Ognuna di queste, tuttavia, ha le sue regole di rendicontazione e i suoi tempi per girare alle associazioni i soldi dovuti. Che arrivano con in media 4-5 mesi di ritardo. Parte di quelli dello scorso anno non sono ancora arrivati, scrive Lorenzo Bagnoli il 3 agosto 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il Viminale ha 408 milioni di “spese da pagare” per la gestione dei centri di accoglienza straordinaria nel 2016. Il debito ormai è diventato cronico: sono due anni che i soldi alle cooperative arrivano con in media quattro-cinque mesi di ritardo (nelle migliori delle ipotesi). Così le cooperative faticano a garantire l’accoglienza. Il sistema dei pagamenti – I soldi alle cooperative vengono erogati dalle Prefetture, che ricevono tutte insieme il bonifico dal Ministero dell’Interno. Solo che ogni Prefettura, spiegano gli operatori, ha le sue regole di rendicontazione e i suoi tempi per girare alle cooperative i soldi dovuti. Sistemi diversi producono disparità nei tempi di consegna: nel caso migliore, a metà luglio la Prefettura ha versato ai gestori dei Cas i primi quattro mesi del 2017. Nei peggiori stanno ancora aspettando il primo pagamento. Il caso di Roma – Emanuele Petrella è responsabile di Idea Prisma 82, una cooperativa che gestisce sia posti Sprar (sistema ordinario di accoglienza, finanziato dal Servizio centrale e dai Comuni) che centri Cas, che passano dalle Prefetture. La sua cooperativa ha progetti a Roma, Rieti e Latina. “Non ho dubbi che la situazione peggiore sia per i Cas a Roma”, afferma. Al 28 luglioancora non aveva ricevuto un euro per il 2017. A Latina e Rieti invece il pagamento fino ad aprile era già stato fatto, mantenendo così l’ormai canonico ritardo di tre-quattro mesi sui pagamenti. “Gli enti gestori fanno molta fatica ad anticipare i costi alle cooperative, che sono così costrette a rivolgersi a istituti bancari per avere un anticipo”, racconta. L’effetto è che gli interessi di questi prestiti sono a carico delle coop, che sono costrette a tagliare i servizi. “Questi soldi invece che essere spesi per la gestione dei profughi vengono dati alle banche. Se non si dovessero ricorrere agli anticipi, andrebbero in servizi d’accoglienza”. Senza quegli anticipi, però, alcune cooperative avrebbero già chiuso. “Credo che la stessa Prefettura dovrebbe aprire linee di credito per pagare degli anticipi”, ragiona Petrella. Il sistema in questo modo potrebbe contenere anche gli interessi rispetto ai prestiti, visto che a chiederli sarebbe lo Stato. Il problema strutturale: Cas contro Sprar – “Io sono un grande tifoso del sistema Sprar, lo dico apertamente”, spiega Petrella, secondo cui il sistema ordinario ha il vantaggio di coinvolgere gli enti locali nella programmazione dell’accoglienza e in più programma con esattezza le spese, a differenza dei centri straordinari. Spesso, infatti, i Cas vengono aperti all’interno di strutture che hanno prima bisogno di una ristrutturazione e che vanno comunque aperti in tempi rapidi. Il risultato è che il conto diventa spesso salato. Solo di ristrutturazioni il Ministero per il 2017 ha messo a bilancio 52 milioni di euro. In più, con lo Sprar i ritardi sono più gestibili: non si va – di solito – oltre i quattro mesi. Almeno nel Lazio. “Fosse per me, farei gestire interamente l’accoglienza al sistema Sprar: non si può ragionare ancora in emergenza”. Il problema è che l’adesione al programma di accoglienza ordinaria è su base volontaria e solo un Comune su otto, in media, ha accettato. Brescia e Taranto – Agostino Zanotti ed Enzo Pilò sono responsabili di centri Sprar e Cas il primo a Brescia e il secondo a Taranto. Zanotti spiega che proprio l’ultima settimana di luglio la Prefettura ha erogato il pagamento dei primi quattro mesi del 2017. E ha promesso per metà agosto altri due mesi: sarebbe un risultato molto migliore dell’anno scorso, quando “le difficoltà sono state anche maggiori”, spiega Zanotti. A Taranto Pilò racconta invece di una situazione paradossale: la prefettura paga con quattro mesi di ritardo, mentre a sette mesi paga lo Sprar. “Abbiamo un progetto per minori stranieri non accompagnati che costa 500mila euroe finora ne abbiamo ricevuti 40mila”, spiega. A conferma che anche il meccanismo dello Sprar non sempre funziona. Le cooperative chiedono soldi al Comune di Agrigento – Il 7 luglio a Villaggio Mosè, vicino Agrigento, dieci profughi subbsahariani minorenni hanno cominciato una protesta per chiedere i loro 2,5 euro giornalieri di pocket money, una delle misure previste per l’accoglienza. Sempre ad Agrigento, il Comune si è visto recapitare a ottobre 2016 una richiesta di pagamento da 440mila euro da parte di una cooperativa per minori stranieri non accompagnati per il lavoro mai pagato del 2015. Sono i Comuni tenuti a pagare le strutture, ma con denaro che proviene dal Viminale. A maggio 2017, un’altra cooperativa, la Antares, ha chiesto oltre 135mila euro sempre per lo stesso motivo. Il Tribunale agrigentino ancora non si è pronunciato. IlFattoQuotidiano.it ha chiesto un commento al Comune, che però non ha risposto.

Ecco gli incassi milionari di chi apre hotel ai migranti. "Ospitando i migranti incassavo più o meno 1.500 euro al giorno". Ecco i profitti degli hotel che hanno chiuso gli alberghi ai turisti, scrive Giuseppe De Lorenzo, Sabato 15/07/2017 su "Il Giornale". “Rivoglio i miei profughi, altro che i turisti”. Viso imbronciato, maglietta estiva con la scritta “Miami 06”, Giancarlo Pari due anni fa si lamentava così dell’arrivo della stagione estiva in quel di Rimini. Cosa strana, per un albergatore della riviera romagnola. Ma Giancarlo aveva scoperto un nuovo business per il suo Hotel Gelso di Igea Marina, sicuro e remunerativo come neppure la movida riminese era mai riuscito a garantirgli. “Ospitando i migranti, e ne ho avuti fino a 42, incassavo più o meno 1.500 euro al giorno”, raccontava al Resto del Carlino. Fanno 45mila euro al mese, centesimo più, centesimo meno. Da allora non è cambiato molto. Anzi: nulla. Nel senso che sulle coste italiane sono continuati gli sbarchi (181mila arrivi nel 2016, 85mila quest’anno) e tanti altri proprietari d’hotel hanno scelto la via dell’immigrazione. In fondo sono loro stessi ad ammetterlo: “Con i migranti un margine di guadagno c’è”. Ed è pure sostanzioso. Ospitando 50 profughi, un imprenditore desideroso di fare affari, tirando la cinghia e pagando poco i collaboratori, può arrivare ad un profitto di 10mila euro al mese. E così nel tempo si sono moltiplicati gli albergatori decisi finalmente a fare il grande salto. Balzo da più di un milione di euro, in qualche caso. L’hotel Ramè di Marene (CN) nel 2016 ha preso 1.125.600 euro. L’Eden di Campobasso il milione lo ha superato pochi giorni fa, a giugno, quando il registratore di cassa ha annotato 1.307.566 euro per i primi sei mesi del 2017. Non si lamentano neppure i proprietari dell’hotel Monaco di Verona, che all’ombra dell’Arena hanno messo a disposizione la struttura a circa 100 richiedenti asilo. La prefettura gli ha liquidato per un anno di appalto ben 1.052.400 euro. Tanti, tantissimi soldi. Volete un confronto? Un tre stelle sul mare con 60 unità (non sempre al completo) arriva a 850mila euro l’anno di fatturato, 950mila nei periodi di vacche grasse. Avere 100 ospiti fissi per 365 giorni sì che è un bell’affare. Da non farsi scappare soprattutto in bassa stagione. La Sardegna sembra averne fatta una sorta di nuova rivoluzione economia. “La Nuova Sardegna” racconta che “tre anni fa i primi esperimenti erano guardati come marziani” e invece oggi a Sassari “tra i 120 Cas della Prefettura, circa l’80 per cento sono stati aperti in strutture di tipo turistico-ricettivo”. Non solo gli hotel, pure gli agriturismi hanno sposato la “riconversione economica che porta lavoro e fa girare l’economia”. In provincia di Oristano fanno a gara per accaparrarsi lo straniero di turno. E così il “Cortillaris" si becca 623mila euro, il “Sa Scrussura 365mila, il “Sa Tanchitta” 551mila, il “Pittinuri” 203mila e “Is Procilis” si aggiudica 484mila euro. L’affare maggiore lo fanno i proprietari di alberghi in zone poco appetibili, magari prossimi alla chiusura o già con le serrande abbassate. Di certo il paesino di Beinette, poco più di 3mila anime sull’altipiano di Cuneo, non ha lo stesso flusso turistico del Colosseo. E così Yu Weixue, imprenditore cinese finita qualche anno fa nei guai per aver fatto ristrutturare lo stabile ad alcuni connazionali senza permesso di soggiorno, deve aver pensato che la soluzione migliore fosse trasformare il suo hotel in un centro di accoglienza. Detto fatto, da luglio 2015 ha già incassato 247.905 euro. Imprenditoria cinese. I paesani di Beinette sembrano contenti, ma non sempre le cose vanno così bene. Chiedetelo a Fiorenzo Scarsini, direttore dell’Ostello della gioventù di Verona. Sul suo sito la struttura pubblicizza posti letto a basso prezzo e lenzuola piegate a mano. Oltre a pellegrini e turisti ci sono però anche i profughi. Nessun problema. Neppure per la gestione dell’Ostello, che nel 2016 ha incassato 975.444 euro per i servizi offerti a circa 92 richiedenti asilo. Poi a gennaio sono arrivate le seccature: gli ospiti stranieri sono scesi in piazza per protestare contro la "mala accoglienza" fornita dai volontari del Centro di cooperazione giovanile internazionale. Tutto falso, in realtà. Ma per un momento, preso dallo sconforto, il direttore aveva pensato di “chiudere tutto”. Perché il problema a volte è proprio questo: come gestire i facinorosi e il rapporto turista-immigrato. Dilemma complesso, che molti albergatori hanno risolto nella maniera più semplice possibile: chiudendo l’hotel al mercato. Perché cercare visitatori tedeschi o inglesi, se la prefettura manda migranti africani? “La gente dica quello che vuole - ha detto a marzo Giulio Salvi, 59enne proprietario dell’hotel Ballevue in Valtellina - io sono contento, ho più soddisfazioni a livello economico e umanitario”. E si capisce: l’importo del contratto per il 2016 era di 508.455 euro. Più soddisfazioni di così…

"Il mio hotel è vuoto. Con i profughi incassavo 45mila euro al mese". Un albergatore rimpiange gli ospiti africani, scrive Mario Gradara su “Resto del Carlino” il 18 luglio 2015.  «Rivoglio i miei profughi». E’ un appello disperato quanto insolito quello che lancia Giancarlo "Caco" Pari, albergatore di lungo corso.

Che cosa è successo?

«Guardi, guardi lei – attacca il gestore dell’hotel Gelso, tre stelle sul mare in zona colonie a Igea Marina –. La sala da pranzo dell’albergo è semideserta in pieno orario di servizio, ci sono pochissimi turisti».

Come mai, visto che la stagione è al giro di boa?

«Troppo chiasso di notte per certi locali sulla spiaggia, troppi ubriachi spesso minorenni».

Ci sono suoi colleghi che lavorano a pieno ritmo...

«La situazione è a macchia di leopardo. Qui non va per niente bene, siamo a zero».

Insomma, rimpiange gli ospiti "rifugiati".

«Sicuramente».

Che percentuale di riempimento aveva?

«Con il mio albergo ho lavorato in pieno fino all’inizio di giugno».

Quando aveva cominciato a ospitare, a pagamento coi fondi del ministero dell’Interno, i profughi?

«Da inizio inverno, visto che l’albergo è annuale, e per parecchi mesi fino a primavera inoltrata».

Quanto incassava mediamente al giorno?

«Ospitando i profughi, e ne ho avuti fino a 42, incassavo più o meno 1.500 euro al giorno».

Un bell’andare.

«Stavano bene loro, con molti sono anche diventato amico, e andava bene a me, visto che con il turismo quest’anno e da queste parti butta decisamente male».

A quanto arrivava il "fatturato profughi" su scala mensile?

«Arrivavo anche a 45mila euro al mese».

Cifre che con i turisti, par di capire, al momento si vedono col binocolo, o no?

«Proprio così. Era una bella somma, lo ammetto. Ci si pagavano tutta la marea di bollette di acqua, luce e gas, nonché fornitori e dipendenti».

E le restava un buon utile?

«Sì, avevo margini, inoltre svolgevo anche una sorta di servizio sociale».

Da dove arrivavano i suoi "turisti"?

«Venivano da diverse nazioni africane, Mali, Costa d’Avorio, Senegal, Nigeria, Ghana e altri Paesi. Giunti in Italia dopo traversate rocambolesche e drammatiche su barconi stipati all’inverosimile. Poveretti».

Ha avuto problemi con loro?

«Assolutamente no. Tutta gente per bene, bravissimi ragazzi tra i 20 e i 25 anni alcuni dei quali mi vengono a trovare in bicicletta».

Erano diventati "di casa"...

«Per me sono stati come dei figli. Mi aiutavano a fare lavoretti, e non chiedevano niente in cambio. Hanno restituito due cellulari trovati in spiaggia. Mi chiedo quanti di noi italiani avrebbero fatto altrettanto».

Come era arrivato a intercettarli?

«Su richiesta del Comune e in coordinamento con la prefettura, ho accettato di ospitare vari gruppi di profughi».

Si è pentito di averli lasciati spostare altrove?

«Alla grande. Gli ultimi 14 sono andati via il 2 giugno, in altre strutture del Riminese».

Li riprenderà finita la stagione balneare?

«Certamente, a partire dal mese di ottobre, se le autorità saranno d’accordo l’hotel Gelso tornerà a disposizione per accogliere i ragazzi africani. Rivoglio i miei profughi, altro che turisti!»

Migranti negli ex hotel, dal turismo al business. Si moltiplicano i casi di riconversione delle strutture turistico-ricettive. Un giro d’affari a molti zeri che genera occasioni di lavoro, scrive Silvia Sanna il 22 maggio 2017 su “La Nuova Sardegna”. I primi, alcuni anni fa, furono guardati come marziani: un hotel che diventa centro d’accoglienza per migranti, sembrava fantascienza. Ora è quasi la normalità. Nell’isola si sono moltiplicate le strutture turistiche che abbandonano sogni di gloria e si gettano a capofitto nell’accoglienza. Con due certezze: c’è bisogno di spazi per ospitare i profughi e il guadagno è sicuro. C’è chi grida allo scandalo, denunciando i business che si fanno sui migranti. E c’è invece chi plaude alla riconversione economica che porta lavoro e fa girare l’economia. Tre anni fa i primi “esperimenti” guardati con sospetto. Oggi, tra i 120 Cas – Centri d’accoglienza straordinaria – della Prefettura, circa l’80 per cento sono stati aperti in strutture di tipo turistico-ricettivo che hanno voltato pagina. Il fenomeno è diffuso in tutta l’isola: dagli hotel a quattro stelle agli alberghi finiti all’asta, dall’agriturismo che faticava a far quadrare i conti al bed & breakfast che funzionava soltanto d’estate. Ma nel lungo elenco ci sono anche strutture polivalenti (per esempio ristorante e spazi per attività sportive) che dopo un breve periodo di gloria hanno conosciuto un rapido declino. E poi le discoteche: regni del divertimento negli anni 80 e 90, poi abbandonate. Ora si inventano una nuova vita. La mappa. Tra i primi a inaugurare il nuovo corso, furono i gestori del Baja Sunaiola, un centro vacanze all’ingresso di Lu Bagnu, frazione di Castelsardo. La struttura lavorava con le colonie estive ma i guadagni non erano soddisfacenti. Dal 2014 l’ex albergo è gestito da una cooperativa e accoglie 200 migranti. A una ventina di chilometri di distanza, lungo la litoranea di Platamona, ecco il Toluca: hotel e ristorante che ha vissuto tempi d’oro, location amatissima sino al 2000 per ricevimenti di nozze. Poi il declino. Anche qui, dopo un intermezzo come residenza per anziani, ora ci sono i migranti. Anche a Sorso il nuovo corso ha interessato agriturismo e B&B. Situazione fotocopia in Gallura: oltre a due hotel ad Aglientu e a Santa Teresa di Gallura, nella frazione Paduledda a pochi chilometri dall’Isola Rossa, il numero di migranti supera quello dei residenti. Anche nell’Oristanese e nel Nuorese il fenomeno è diffuso. C’è l’ex hotel Summertime a Cabras, di recente a Bonarcado qualcuno ha cercato di bloccare con il fuoco il progetto di trasformazione dell’hotel Su Lare in un centro d’accoglienza integrato aperto anche a un gruppo di migranti. A Nuoro le storie simili arrivano da Dorgali e da Ilbono, centro di duemila abitanti che conta due centri d’accoglienza, di cui uno in un ex agriturismo. Più giù, nel Cagliaritano e nel Sulcis, i casi si moltiplicano. Dall’hotel I Lecci di Villanovaforru al Janas di Sadali sino al lussuoso Antas di Fluminimaggiore, quattro stelle e un sogno di gloria mai realizzato. Il business. È stato valutato che nel 2016 l’accoglienza migranti ha prodotto in Italia un giro d’affari che supera i 4 miliardi di euro. Una fetta di questo fiume di denaro è arrivata in Sardegna. Dove, al momento, dei circa 5500 migranti presenti sul territorio territoriale, poco più di 200 vivono in centri Sprar di seconda accoglienza: si tratta di minori, prevalentemente, ospitati in strutture più piccole, spesso con i genitori, in grado di garantire un livello di integrazione superiore rispetto ai mega centri prefettizi. Qualche calcolo: per ogni migrante il gestore delle strutture riceve dai 33 ai 35 euro, 45 se si tratta di un minore. Moltiplicando 35 euro per 5300 (il numero di migranti nei Cas) per 365 giorni viene fuori un totale di quasi 68 milioni di euro. È questo il giro d’affari – comprensivo naturalmente di vitto e alloggio e del pocket money, l’importo mensile per gli ospiti – che ruota intorno ai migranti e alle cooperative in Sardegna. Le offerte di lavoro. Molti soldi che producono molto lavoro: basta dare una occhiata ai principali siti di annunci per rendersi conto che da un anno a questa parte le figure più richieste sono quelle dei mediatori, degli interpreti ma anche degli psicologi indispensabili per offrire un supporto a chi arriva in Sardegna dopo un lungo viaggio e lasciandosi alle spalle storie dolorose. A queste persone serve anche assistenza legale: ecco allora la richiesta di avvocati che possano affiancarli nella fase di richiesta dello status di rifugiato. I bandi delle prefetture, con il passare dei mesi e il moltiplicarsi dei numeri, sono diventati molto più dettagliati: non è più sufficiente offrire spazi per l’accoglienza, quegli spazi devono essere riempiti di figure professionali in grado di dare assistenza e sostegno. Ecco allora che ex hotel, ex ristoranti e agriturismo si popolano di figure in camice, di inservienti e di insegnanti. Le strutture turistiche in declino rinascono. E non esistono più le stagioni, ora si resta aperti tutto l’anno.

Profughi, il prefetto requisisce un hotel. Castel d’Azzano, libero dal 30 ottobre. «Applicata la circolare del Viminale». I proprietari: «Scelta subita, dovremo spostare i turisti», scrive il 19 ottobre 2016 "Il Corriere Veneto". «Albergo requisito per i profughi». La «bomba» esplode lunedì sera sulla bacheca Facebook del sindaco di Castel d’Azzano (Verona), Antonello Panuccio. La proprietà della struttura puntualizza: «Si tratta di una decisione che stiamo subendo». E hai voglia a spiegare che si tratta dell’unica soluzione rimasta alla prefettura scaligera dopo i ripetuti «no» arrivati dai sindaci della quasi totalità dei 98 comuni veronesi (in Veneto 250 municipalità su 576 continuano a rifiutare l’accoglienza). Perché gli sbarchi non si fermano e la ricerca di alloggi non può arrestarsi. I nuovi posti racimolati con l’ultimo bando estivo sono andati esauriti nel giro di poche settimane. E lo scorso weekend, in 4 giorni, nella sola provincia di Verona sono stati registrati 300 nuovi arrivi che hanno portato a sfiorare quota 2.500 (nelle prossime ore ne sono previsti 31). La situazione impensierisce il prefetto Salvatore Mulas, che ha deciso di ricorrere alla misura straordinaria della requisizione di un edificio privato, l’hotel Cristallo di Castel d’Azzano. È la legge, come ricordato più volte nelle circolari del Viminale, a imporre alla singola prefettura di «attivarsi» per reperire strutture in previsione di nuove ondate. Ed è una legge in vigore dal 1865 a prevedere la possibilità della requisizione per «gravi e urgenti necessità pubbliche» (opzione già adottata dalla prefettura in altre due occasioni negli ultimi quattro anni). La scelta, però, spiegano dagli uffici dei Palazzi Scaligeri, non è stata frutto di una reazione estemporanea di fronte all’emergenza, né tanto meno una «prova di forza» di fronte alle continue porte chiuse da parte dei sindaci. L’hotel Cristallo, elegante 4 stelle con 93 stanze, è stato scelto perché in prefettura da tempo si ha avuto modo di testare la qualità del gruppo proprietario della struttura. Si tratta infatti del gruppo Clap Hotels della famiglia Poiani che gestisce anche l’hotel Monaco in città dove, da febbraio, sono ospitati un centinaio di richiedenti asilo (oltre ad altri due hotel). «Si è trattato di una decisione imposta che noi subiamo – spiegano le titolari tramite l’avvocato Agostino Rigoli -. Già nei mesi scorsi ci era stato chiesto di mettere a disposizione la struttura per i richiedenti asilo, ma ci eravamo sempre rifiutati nonostante l’ottima esperienza con le persone ospitate all’hotel Monaco. Lo prova il fatto che abbiamo sempre proseguito con le prenotazioni e per Fiera- Cavalli (ai primi di novembre, ndr) avevamo il tutto esaurito. Ora dovremo pensare anche a gestire il riposizionamento delle prenotazioni». Perché, almeno al momento, l’ipotesi di presentare ricorso al Tar contro l’ordinanza prefettizia, sembra remota. In concreto, i profughi a Castel d’Azzano (comune che, insieme ad altri 46 in provincia, non ha mai ospitato nemmeno un profugo) potrebbero iniziare ad arrivare a partire dal 30 ottobre (il provvedimento del prefetto indica come termine il 31 gennaio), nel caso in cui la prefettura dovesse trovarsi costretta a gestire nuove emergenze. Per quella data, inoltre, dovrebbero essere rese note anche le nuove linee guida del Viminale anticipate nei giorni scorsi dal prefetto Mario Morcone che prevedono una ripartizione comune per comune dei richiedenti asilo, al posto della vecchia su base regionale (sarebbero in teoria 3 ogni mille abitanti). In attesa di conoscere i dettagli, sembra però che tale suddivisione valga solo per quelle amministrazioni che decideranno di impegnarsi nell’accoglienza aderendo al circuito Sprar. Nel territorio di questi comuni, poi, non potrebbero coesistere i cosiddetti Cas (Centri assistenza straordinaria gestiti da cooperative in convenzione con la prefettura). In altre parole, se il comune si attivasse con un proprio centro di accoglienza, automaticamente la prefettura dovrebbe provvedere a ricollocare i profughi presenti nelle strutture posizionate in quel paese. Con effetti dirompenti sull’equilibrio dell’accoglienza: se, per fare un esempio, il comune di Grezzana decidesse di aprire un centro Sprar, tutti i profughi ospitati a Costagrande andrebbero ricollocate altrove. E in uno scenario del genere, la prefettura non può farsi trovare impreparata: oltre a continuare a chiedere ai Comuni di collaborare, si è dovuto intervenire con operazioni «meticolosamente circoscritte».

Petizione on line contro la chiusura dell’ostello, scrive il 07.07.2017 “L’arena". Una petizione online per salvare dalla chiusura l’ostello della gioventù di villa Francescatti, a San Giovanni in Valle. L’ha lanciata Giorgio Pasetto, ex consigliere comunale tosiano, con le associazioni «Area Liberal» e «Verona si muove» da lui presiedute. E per i prossimi giorni si prepara anche un sit-in davanti alla struttura. Il veemente motto «Vescovo Zenti, molla l’ostello di Verona!» sbarca in queste ore sui social network, con l’obiettivo di raccogliere mille firme. Per aderire basta connettersi al sito dell’ong Avaaz attraverso il proprio profilo Facebook, Twitter o Whatsapp e cliccare sulla sottoscrizione. Ma Pasetto non si limita ad un’iniziativa virtuale: «La raccolta di firme serve a dimostrare l’interesse dei cittadini nei confronti dell’unico ostello della gioventù di Verona. È un servizio indispensabile per una città turistica come la nostra, e non lo si può abbandonare al suo destino. Perciò stiamo preparando anche un sit-in, una manifestazione che nei prossimi giorni ci vedrà schierati davanti all’ostello, con chiunque vorrà unirsi». All’ostello restano pochi mesi di «vita». Alla fine dell’anno scadrà definitivamente la convenzione tra l’associazione che lo gestisce, il Centro di cooperazione giovanile internazionale presieduto da Fiorenzo Scarsini, e la Curia, proprietaria della cinquecentesca dimora, adibita ad albergo 40 anni fa. Il comodato d’uso è già stato prorogato una volta, tramite arbitrato fino al 31 dicembre 2017. È risaputo che il suo destino sarà la chiusura, o al massimo il trasferimento altrove, forse in un immobile comunale. Il vescovo Giuseppe Zenti, da anni non fa mistero di voler mettere in vendita la villa per tamponare la «voragine di debiti» della Curia. Ma Pasetto protesta: «Sarebbe un’operazione a dir poco discutibile, perché villa Francescatti, grazie alla sua funzione sociale di ostello della gioventù, finora ha potuto godere di finanziamenti regionali e addirittura europei, che, altrimenti, non sarebbero stati concessi. In più sulla villa, frutto dell’antico lascito della nobile famiglia Francescatti alle Sorelle della Sacra Famiglia, che a loro volta lo hanno donato alla Diocesi, ricade il vincolo dell’utilizzo a beneficio dei giovani». Il responsabile Scarsini ha già ricordato che «la tariffa per pernottamento e colazione, 18 euro, è la più bassa del Veneto: serve solo a coprire le spese, perché l’attività ha come unico scopo l’accoglienza, non il lucro». L.CO.

L'hotel non accetta più turisti: "Con i migranti più guadagni". Niente più turisti per l'hotel Ballevue in Valtellina. È pieno di migranti. Il titolare: "Sono contento, ho più soddisfazioni a livello economico e umanitario", scrive Rachele Nenzi, Venerdì 10/03/2017, su "Il Giornale". L'albergo in questione è di tre stelle e di solito ogni estate offriva ai suoi clienti tutto l'occorrente per passare una ottima vacanza con "calcio, tennis e wellness". Un sogno. Peccato che ora sarà aperto soltanto agli immigrati. La struttura infatti è piena e il titolare Giulio Salvi (59 anni), secondo quanto scrive il Corriere, "ha deciso di rinunciare ad avere altri clienti". "Continuo a fare il mio lavoro, far dormire e mangiare i clienti, chiunque essi siano", ha detto l'albergatore al quotidiano di via Solferino. Gli ospiti al momento sono 70 e non ci sono altre stanze per i turisti. "La gente dica quello che vuole - afferma - io sono contento, ho più soddisfazioni a livello economico e umanitario". L'uomo dice di non fare "business sui profughi", ma ammette che "i clienti nell’ultimo periodo sono diminuiti in modo esponenziale". Ben venga quindi l'alternativa dei migranti, che ad oggi non mancano mai. E infatti se prima dell'emergenza migratorio l'hotel "accumulava debiti", adesso "i bilanci quadrano" tanto che sogna di aprire un nuovo albergo. "Ho provato a lasciare spazio anche agli altri client - dice Salvi -, ma molti non accettavano la presenza dei profughi, colpa di una campagna di odio che peggiora solo le cose". Il dubbio arriva quando si chiede cosa accadrà quando i migranti non ci saranno più. Ma non è il momento di pensarci. Pero ora l'albergatore di gode la nipotina che uno dei migranti gli ha regalato dopo essere diventato il compagno della figlia.

IMMIGRATI. QUELLO CHE NON SI DICE. LA BUONA ITALIA DELLE ZONE FRANCHE E I “PROFUGHI TAKE AWAY”.

Tutte le accuse contro l’ong Proactiva Open Arms, scrive Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale, il 19 marzo 2018. La sera del 18 marzo 2018 la nave dell’ong spagnola Proactiva open arms – ormeggiata al porto di Pozzallo dopo aver sbarcato 216 migranti – è stata sequestrata dalla polizia italiana nell’ambito di un’inchiesta aperta dalla procura di Catania. L’organizzazione umanitaria, impegnata nel soccorso in mare di migranti al largo della Libia, è accusata di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Tre persone dell’equipaggio, tra cui il capitano Marc Reige e la capomissione Anabel Montes, hanno ricevuto un avviso di garanzia.

Le accuse. Gli spagnoli sono accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per non aver riconsegnato ai guardacoste libici i migranti soccorsi il 15 marzo 2018 e per non aver interrotto i salvataggi, perché secondo la centrale operativa della guardia costiera di Roma i libici avevano assunto il coordinamento delle operazioni e reclamavano il controllo sulla zona di ricerca e soccorso (Sar). Sia per iscritto sia con una comunicazione verbale, i libici avevano comunicato a Roma che erano i coordinatori di tutte le operazioni in corso nelle acque internazionali tra Malta e la Libia. Per gli spagnoli la centrale operativa di Roma ha avuto una condotta contraddittoria: prima ha chiesto di intervenire e poi, invece, di rimanere in attesa dell’intervento dei libici. Ma l’avvocata di fiducia del capitano, Rosa Lo Faro, ha dichiarato a Internazionale che l’accusa sarebbe quella di aver violato gli accordi previsti dalla missione europea Themis, che da febbraio assegna la competenza delle acque internazionali a nord della Libia alla guardia costiera libica. Sarebbe stato violato anche il codice di condotta per le ong voluto dal governo italiano e sottoscritto da Open arms la scorsa estate. “Tuttavia i termini dell’accordo europeo nessuno li ha potuti vedere”, spiega l’avvocata. “E in ogni caso si tratterebbe della violazione di regole amministrative, non di norme di diritto internazionale”, conclude. Per l’avvocata, gli spagnoli hanno agito in uno stato di necessità come previsto dalle leggi internazionali che regolano il soccorso in mare. In Italia il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è stato introdotto nel 1998 e colpisce chiunque aiuti dei cittadini stranieri a entrare nel paese in maniera irregolare, anche a scopi umanitari e senza lucro. Secondo l’impianto dell’accusa, i migranti soccorsi da Open arms non erano in uno stato di necessità tale da giustificare l’intervento dei volontari spagnoli, perché i guardacoste libici erano nelle vicinanze e avevano dichiarato che sarebbero intervenuti. Inoltre, secondo l’accusa, dopo i soccorsi l’ong spagnola ha insistito per sbarcare i migranti in un porto italiano. “Ci siamo comportati come al solito”, afferma Riccardo Gatti, portavoce dell’organizzazione. “Se sono cambiate delle regole o dei protocolli noi non siamo stati informati da Roma”, aggiunge. La procura contesta anche che l’ong spagnola non abbia chiesto di sbarcare a Malta, ma abbia fatto numerose richieste di arrivare in un porto italiano. Il fondatore dell’organizzazione, Oscar Camps, il 18 marzo ha scritto su Twitter: “Si tratta solo di un’ipotesi di reato e anche il sequestro della nave è solo preventivo. Però ci accusano di associazione a delinquere per il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver disubbidito ai libici e non aver restituito donne e bambini”. E poi ha aggiunto: “Impedire il soccorso di vite in pericolo in alto mare con il fine di restituirle a un paese non sicuro come la Libia, equivale a un respingimento e contravviene alla convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite”. In una conferenza stampa a Barcellona, il 19 marzo 2018, Camps ha confermato le accuse rivolte al comandante della nave e alla capomissione, che rischiano pene severe che vanno da cinque a sette anni di carcere. Nella conferenza stampa, a cui ha partecipato anche la sindaca di Barcellona Ada Colau, Camps ha accusato la procura di Catania “di voler bloccare” i soccorsi di migranti nel Mediterraneo centrale. “Ci sono sempre meno barche per fare questo lavoro e l’obiettivo è che non ne resti nessuna”, ha detto Camps.

Non è immaginabile che esista un reato di solidarietà umana. L’avvocata Rosa Lo Faro ha definito l’ipotesi di reato contro l’ong spagnola “reato di solidarietà”, perché “il decreto legge 286 del 1998 dice chiaramente che non commette reato chi soccorre persone”. Per questo ha aggiunto: “Devo dedurre che abbiano istituito il reato di solidarietà”. Rosa Lo Faro spiega però di non aver ancora potuto leggere il provvedimento, “perché nonostante io sia la legale del comandante hanno notificato il fermo e l’avviso di garanzia a un legale d’ufficio”.

Intorno alle 19.30 del 18 marzo la squadra mobile di Ragusa ha consegnato il provvedimento di sequestro della nave al comandante, Marc Reig, a cui è stato notificato anche un avviso di garanzia. Non era presente un interprete e all’equipaggio è stato concesso di passare la notte sulla barca ormeggiata al porto di Pozzallo. Il giorno precedente, il 17 marzo, Reig e la coordinatrice dell’operazione, Anabel Montes, erano stati interrogati per cinque e sei ore nel commissariato di polizia all’interno dell’hotspot di Pozzallo, senza che fosse presente un avvocato e un interprete.

L’ultimo salvataggio. Intorno alle 7 del 15 marzo la centrale operativa della guardia costiera italiana ha contattato la Proactiva Open Arms per segnalare un gommone con più di cento persone a bordo in difficoltà a 25 miglia dalle coste libiche. La nave si è diretta verso l’obiettivo indicato, ma dopo venti minuti un’altra chiamata da Roma ha chiesto agli spagnoli d’interrompere la missione e di lasciare il campo alla guardia costiera libica, che avrebbe dovuto coordinare l’operazione. Mezz’ora dopo un’altra chiamata da Roma ha segnalato un barcone in difficoltà, molto vicino al precedente: a 27 miglia dalla Libia, in acque internazionali. Le lance di soccorso di Open arms sono intervenute e hanno trovato un gommone con 117 persone a bordo che stava per affondare, con diversi migranti in mare e alcuni che avevano bisogno di un rapido intervento dei medici di bordo. Sono stati soccorsi 109 uomini e otto donne. Intorno alle 10.30, quando i soccorsi erano ormai conclusi, l’imbarcazione di Open Arms è stata contattata via radio dalla guardia costiera di Tripoli, che ha intimato di consegnare i migranti soccorsi alla nave libica. Gli spagnoli hanno rifiutato. “Sappiamo che i libici hanno compiuto numerose azioni illegali, abusi e maltrattamenti ai danni dei migranti. Sappiamo anche che i libici non hanno giurisdizione in acque internazionali, anche se collaborano con l’Italia e l’Europa, quindi non abbiamo obbedito alla loro richiesta di trasferire i migranti”, spiega Riccardo Gatti, portavoce di Proactiva Open Arms.

La tensione è durata un paio di ore fino a quando i libici si sono ritirati. Più tardi, nel corso della giornata, la nave ha partecipato ad altri soccorsi e nel pomeriggio si è trovata di nuovo in difficoltà con la guardia costiera libica, a 73 miglia dalle coste nordafricane. Dopo essere intervenuti in soccorso di un’imbarcazione in alto mare, i gommoni di salvataggio degli spagnoli sono stati bloccati dai libici, che hanno minacciato di ricorrere alla forza se i migranti non fossero stati consegnati alle motovedette di Tripoli. Alcuni guardacoste libici sono saliti sulle lance di soccorso di Open Arms, rendendo la situazione ancora più difficile. La motovedetta libica 648 Ras Jadir, donata dall’Italia, si è posizionata tra l’imbarcazione dei migranti e la nave dell’ong, impedendo alle lance di soccorso, che stavano distribuendo i giubbotti di salvataggio, di continuare il recupero. Molti migranti si sono gettati in mare, perché non volevano essere soccorsi dai libici. La situazione di tensione è durata due ore, fino a quando i libici si sono ritirati. Sono state soccorse in tutto 218 persone, tra cui una neonata in condizioni gravissime, che qualche ora dopo è stata trasportata in emergenza a Malta insieme con la madre. La nave dell’ong è rimasta al largo per 48 ore prima di ricevere un porto di sbarco dalle autorità italiane. L’Italia per la prima volta nella storia dei soccorsi in mare ha chiesto all’organizzazione umanitaria che fosse il proprio stato di bandiera, cioè la Spagna, a chiedere l’autorizzazione per lo sbarco.

Chi coordina i soccorsi? Una delle questioni più spinose che si sta riaccendendo rispetto ai soccorsi nel Mediterraneo centrale riguarda la zona di ricerca e soccorso (Sar) affidata alla guardia costiera libica. Dal 2013 le operazioni nelle acque internazionali di fronte alle coste libiche erano state affidate alla guardia costiera italiana in seguito all’operazione Mare nostrum, ma dalla scorsa estate le autorità italiane vogliono che il coordinamento torni in mano ai guardiacoste libici. La guardia costiera libica nell’agosto del 2017 ha reclamato la sua sovranità sulle acque internazionali e ha chiesto l’attribuzione della propria zona Sar alle autorità marittime internazionali. Questa autorizzazione non gli è stata mai concessa. Tuttavia in un comunicato il 16 marzo 2018 la guardia costiera italiana per la prima volta afferma che i soccorsi avvenuti il 15 marzo erano sotto il coordinamento di Tripoli e implicitamente critica la condotta dell’organizzazione umanitaria che ha rifiutato di riconsegnare alla Libia i migranti appena salvati. Per l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) le autorità marittime internazionali non hanno ancora concesso ai libici la giurisdizione su quel tratto di mare. “Anche in ragione della mancanza di adeguati requisiti per essere riconosciuta dall’International maritime organisation (Imo) si deve ritenere che un’area Sar libica non esista”, scrive l’Asgi in un comunicato. “Non sussistendo la responsabilità di alcuno stato sull’area del mar libico a sud di quella maltese e confinante con le acque territoriali della Libia, la prima centrale contattata ha la responsabilità giuridica di attivarsi per salvare le barche dei migranti e dei rifugiati in pericolo e per condurli in un porto sicuro”, conclude l’Asgi.

L'Ong attacca dopo il sequestro: "Strana coincidenza post-voto". Il sequestro della nave di Proactiva Open Arms, la Ong spagnola che ha portato in Italia 218 migranti, fa discutere. Arriva la reazione del capo-missione, scrive Franco Grilli, Martedì 20/03/2018, su "Il Giornale". Il sequestro della nave di Proactiva Open Arms, la Ong spagnola che ha salavato a largo delle coste libiche 216 migranti portandoli in Italia fa discutere. La procura di Catania ha posto sotto sequestro l'imbarcazione con l'accusa di "associazione a delinquere". Open Arms di fatto ha ignorato l'ordine della Guardia Costiera libica di consegnare i migranti per farli rientrare a Tripoli. La nave dopo aver vagato per 24 ore nel Mediterraneo ha attraccato nel porto di Pozzallo. Ma adesso Open Arms passa al contrattacco e in un'intervista a InBlu Radio, Riccardo Gatti, capo missione afferma: "Casualmente una settimana dopo le elezioni italiane è successo questo. E chi ha preso più voti alle urne porta avanti un discorso contro l’immigrazione. È sicuramente una strana coincidenza". Poi Gatti aggiunge: "Alla fine siamo stati vittime di un attacco armato e una violenza da parte dei libici nel tentativo di farsi consegnare le persone a bordo. Ci è sembrato un eccesso di zelo l’incriminazione, è qualcosa che ci lascia sorpresi". Insomma Open Arms non accetta il sequestro della nave. Ma di fatto l'accusa per i membri dell'equipaggio è di aver portato in Italia 218 immigrati in modo illegale.

Il tracciato della nave della Ong Open Arms, scrive Fausto Biloslavo, Martedì 20/03/2018, su "Il Giornale". Il tragitto della Open Arms dal 14 marzo al 19 marzo. Il 14 marzo è salpata da Malta prima che partissero i gommoni con i migranti dalla Libia, come se puntasse con una rotta perpendicolare, a velocità costante e sostenuta a un "appuntamento" davanti alle coste. Il 16 marzo trasborda a Malta una mamma con il figlio piccolo in difficoltà, ma non gli altri migranti. E prosegue verso Pozzallo dove arriva il 17 marzo. Il giorno dopo la nave è stata sequestrata dalla procura di Catania per associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.

Sbarchi fermi per le elezioni: la clamorosa rivelazione dell'ex generale. C'è davvero una regia dietro gli sbarchi dall'Africa? Secondo il generale di Corpo d'Armata Vincenzo Santo parrebbe di sì, scrive Francesco C. Soro, Esperto di Cronaca Autore della news (Curata da Federico Gonzo) il 03/03/2018 su "Blasting News". L'ultima bomba di una campagna elettorale tra le più combattute la scaglia a poche ore dal voto Vincenzo Santo, ex Generale di Corpo d'Armata già Comandante delle forze Nato in Afghanistan. Non uno qualunque, ma uno dei militari italiani più esperti. In un dettagliato editoriale pubblicato dalla rivista ReportDifesa si chiede perchè nell'ultimo mese non siano avvenuti sbarchi di migranti. La sua riflessione è giustificata dai fatti: effettivamente le cronache non hanno registrato notizie di nuovi arrivi e le pessime condizioni meteo non sono una scusante, visto che oramai è assodato che le mega navi delle Ong li raccolgano a pochissime miglia dalle coste africane.

Quel dubbio che ci sia davvero una regia degli sbarchi. Senza allusioni e senza nascondersi dietro l'anonimato l'esperto militare riflette sul fatto che nell'ultimo mese, corrispondente con la campagna elettorale per il rinnovo delle camere, siano spariti gli sbarchi di migranti sulle nostre coste. Lo scrive chiaramente, senza mezzi termini, aggiungendo il sospetto che dietro a tutto questo vi sia una regìa, volta ad evitare che questi fenomeni possano influenzare negativamente il parere degli italiani proprio a ridosso del voto. La sua riflessione è una vera e propria bomba, proprio per l'autorevolezza sia dell'ex militare che potrebbe avere quelle informazioni riservate che altri non hanno, che della rivista di studi geopolitici che ha pubblicato le sue rivelazioni. Molti lo hanno spesso sospettato, ma non era mai accaduto prima che lo dichiarasse qualcuno che ha ricoperto incarichi di vertice nella macchina dello Stato. Il Generale Santo motiva questo suo sospetto sostenendo che il fattore climatico non sia più determinante per l'arrivo di migranti poichè oramai è assodato che le navi delle Ong li raccolgano a poche miglia dalla partenza, per cui - sempre secondo lui - è facile che in queste ultime settimane il blocco delle partenze sia stato per così dire deciso dall'alto. Ma non è tutto: la sua riflessione si conclude poi con un pesante affondo contro chi ha gestito in Italia il fenomeno dell'immigrazione. Secondo il Generale l'Italia non ha una vera strategia sull'integrazione delle centinaia di migliaia di stranieri che sono giunti negli ultimi anni, spingendosi addirittura a sospettare che si voglia mettere davvero in pratica il famigerato piano Kalergi, con una politica volta ad aprire le porte a chiunque per poter costruire una nuova popolazione europea. 

L’accusa alla Ong: 7 ore di trattativa ma i migranti non erano in pericolo. La sindaca di Barcellona difende la ProActiva: garantiremo l’assistenza legale, scrive Fiorenza Sarzanini il 19 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". È durata oltre sette ore la trattativa tra il Centro di coordinamento della Guardia costiera a Roma e la nave Open Arms della Ong spagnola ProActiva che venerdì scorso ha soccorso nel Mediterraneo 218 migranti. E alla fine l’Italia ha concesso il via libera allo sbarco a Pozzallo, segnalando però alla magistratura di aver inutilmente comunicato che «la richiesta di sbarco doveva essere presentata al proprio Stato di bandiera perché il soccorso era avvenuto fuori dall’area di coordinamento». È stata questa circostanza a convincere i magistrati di Catania a far scattare l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina contro la coordinatrice della missione, il comandante della nave e il responsabile della Ong. E soprattutto a ordinare il sequestro della Open Arms facendo scoppiare una polemica internazionale con l’Unione Europea che chiede «a tutte le parti il rispetto del codice di condotta» mentre il Comune di Barcellona garantirà l’assistenza legale alla Ong.

Le comunicazioni. Il provvedimento dei pubblici ministeri ricostruisce quanto accaduto a partire dal 15 marzo quando «nonostante il reiterato messaggio da parte del Centro che la Guardia costiera libica avesse assunto la direzione delle operazioni di soccorso, il capo missione Ana Isabel Monte Mier e il comandante Marc Reig Creus procedevano comunque al soccorso adducendo come scusa di aver perso il contatto radio con i loro gommoni che si trovavano ad oltre 20 miglia». Elenca le successive comunicazioni con Roma a partire dalle 17.30 quando «la nave si trova ancora in acque internazionali e chiede il Pos (luogo di sbarco) a Roma ma gli viene risposto che non ha competenza perché il coordinamento è libico». Ma è decisiva soprattutto la trattativa del giorno successivo, venerdì 16 marzo: «7.30: il medico di bordo informa Montes che bisogna sbarcare con urgenza un neonato di 3 mesi e sua madre perché il piccolo è in condizioni critiche. 9.20: Open Arms è in acque maltesi o ottiene l’autorizzazione allo sbarco dei due migranti dall’Isola dei Cavalieri. 13.50: le autorità maltesi chiedono al comandante le intenzioni e lui riferisce di voler procedere con la navigazione. 14.01: il centro di Roma suggerisce a Open Arms di chiedere il Pos a Malta perché sono vicini al porto dell’isola. 14.30: la nave chiede il Pos all’Italia. 15.07: il centro di Roma risponde che la richiesta va fatta al proprio Stato. 15.36: Open Arms rifiuta di fornire informazioni sulle proprie intenzioni. 15.41: il centro spagnolo chiede a Open Arms di contattare Malta per ottenere il Pos. 16.06 teleconferenza tra i centri di Roma, Madrid e il comandante della nave che rifiuta di chiedere il Pos a Malta immaginando un loro rifiuto. Alla fine Roma autorizza il Pos a Pozzallo».

La denuncia. «Non esisteva alcuna situazione di pericolo, come ha confermato il comandante dopo lo sbarco del neonato escludendo criticità. Il loro unico scopo era l’approdo in Italia», è l’accusa della Procura di Catania che rimbalza in Spagna. E le reazioni non si fanno attendere. Podemos chiede al premier spagnolo, Mariano Rajoy, un intervento sul presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per fare rilasciare la nave che «ha salvato persone che morivano nel Mediterraneo». Cauto il ministro degli Esteri Alfonso Dastis: «Dobbiamo chiarire quali siano le accuse nei confronti dell’Ong e quali giustificazioni abbia l’organizzazione».

Nave Ong sequestrata, il gip: "Unico scopo arrivare in Italia". Anche i tracciati dei radar confermano: l'imbarcazione è arrivata nel punto all'ora giusta: era un appuntamento, scrive Fausto Biloslavo e Valentina Raffa, Martedì 20/03/2018, su "Il Giornale". Gli umanitari «hanno agito con l'unico scopo di approdare in Italia» per fare sbarcare i migranti «benché non fosse necessario né imposto dalla situazione» accusa la procura di Catania. E bisognerà fare luce anche su come la nave dell'Ong spagnola Open arms sia arrivata all' «appuntamento» con i barconi di fronte alla Libia. Il 14 marzo, un giorno prima del recupero dei migranti, quando i barconi non avevano ancora preso il mare dalle coste libiche, la nave umanitaria Open arms, sequestrata domenica dalla procura di Catania, era salpata nel pomeriggio a grande velocità dal porto della Valletta, capitale maltese. La rotta era perpendicolare a Homs, l'area di partenza dei gommoni zeppi di migranti, che avrebbero preso il mare appena durante la notte. E alle cinque del mattino del 15 marzo la nave dell'Ong spagnola era arrivata davanti alle coste libiche, come se fosse «un appuntamento». Lo dimostra il tracciato dell'Ais, il sistema satellitare che registra gli spostamenti delle navi (guarda il video sul sito del Giornale). Nessuno fra i migranti aveva lanciato l'Sos. Come faceva l'Ong spagnola a sapere che era proprio il punto giusto in mezzo al mare per recuperare i migranti a tutti i costi, anche intralciando le operazioni della guardia costiera libica? Solo all'alba del 15 marzo il centro di coordinamento di Roma (Mrcc), allertato da un elicottero militare italiano, cominciava a segnalare «2 unità in difficoltà con a bordo migranti nel Mediterraneo centrale». Secondo il decreto di sequestro firmato dal sostituto procuratore di Catania, Fabio Regolo, gli umanitari hanno deciso «arbitrariamente di continuare la ricerca e poi il soccorso degli eventi per i quali la Guardia costiera libica aveva assunto il comando e quindi la responsabilità chiedendo esplicitamente e per iscritto di non volere nessuno nella zona per gestire in sicurezza le fasi di soccorso». Inascoltato anche l'invito dal centro di Roma di farsi da parte «adducendo come scusa di avere perso il contatto radio con i gommoni di salvataggio che si trovavano oltre 20 miglia più avanti». Gommoni lanciati apposta per intralciare i libici. Non solo: una volta recuperati 218 migranti la Open arms ha fatto rotta verso nord fermandosi nei pressi di Malta per far sbarcare una donna e suo figlio piccolo in condizioni precarie. Gli umanitari «non hanno seguito nemmeno le indicazioni di rivolgersi alle autorità di Malta che avrebbe senz'altro costituito un approdo comodo e sicuro per le vite dei migranti e dell'equipaggio» scrive il pm. Al contrario «hanno proceduto ostinatamente con la navigazione verso le acque italiane». Malta è una base delle Ong talebane dell'accoglienza. Il patto non scritto è che nessun migrante deve sbarcare sull'isola. Così Open arms è proseguita fino a Pozzallo, dove è stata messa sotto sequestro. Per la procura di Catania i responsabili della Ong «hanno agito con l'unico scopo di approdare in Italia benché non fosse necessario né imposto dalla situazione in quanto avrebbero potuto e dovuto attenersi alle indicazioni tempestivamente e reiteratamente fornite» dal centro di soccorso di Roma della Guardia costiera. Gli indagati per associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina sono il comandante della nave, la responsabile della missione e il capo delle operazioni della Ong.

Linea dura sui barconi senza perdere l'umanità, scrive Giordano Bruno Guerri, Martedì 20/03/2018, su "Il Giornale". Siamo tutti d'accordo: la legge dev'essere rispettata, per una convivenza civile che sia davvero civile e per sperare se non garantire che ognuno abbia un trattamento uguale. Eppure credo e non sono il solo che Socrate ci abbia tradito, sbagliando, quando ha accettato di morire per rispettare una legge ingiusta. Dobbiamo rispettare le leggi, sì, ma in questo caso il verbo «rispettare» si mostra nel suo affascinante doppio senso: osservare, obbedire alla legge, non significa necessariamente provare rispetto per quella legge, cioè trovarla bella, buona, sensata. Essendo fatte dagli uomini, sono spesso contraddittorie, imperfette, fallaci, malfatte. Se vi si incappa non resta che sperare in un avvocato bravo (e già qui cessa il principio «La legge è uguale per tutti»), e nel buonsenso di chi la applica, forze dell'ordine e magistrati. Speriamocheilcielomelamandibuona, insomma. Ma c'è poco da sperare, in una società che appare schizofrenica, di una schizofrenia moltiplicata e resa palese da internet e dai suoi social. Per esempio. A fronte della minaccia di povertà per quasi un terzo degli italiani - e della povertà in atto per molti milioni - si discute accanitamente sul reddito di cittadinanza, di inclusione, di qualsiasi genere. Bene, se ne discuta. Nel frattempo il comune di Genova - la civilissima, amata Genova ha deciso di infliggere una multa di 200 euro a chi verrà scoperto mentre fruga nei cassonetti, di solito in cerca di cibo scartato, vecchio, masticato. In genere barboni, ma anche pensionati, disoccupati, poveri ridotti allo stremo. Un mio cinguettio risentito, offeso, ha subito raccolto molte migliaia di adesioni, ma anche le proteste di qualcuno pronto a sostenere che, sì, la norma è giusta, perché spesso si tratta di zingari in cerca di metalli, o di gente che per mangiare non avrebbe bisogno di frugare nei cassonetti, o dei soliti extracomunitari. L'assessore genovese addetto ha «garantito che la regola verrà applicata con intelligenza e umanità». Vorrei avere la sua certezza. Metti che il vigile, il poliziotto, il magistrato sia uno di quelli convinti che siano i ricchi a depredare di frutta marcia i cassonetti, oppure uno della diffusa genia dei deboli con i forti e forti con i deboli. Meglio sarebbe non averla scritta, quella norma, oppure avere il coraggio civile in entrambi i sensi - di ritirarla. Socrate aveva torto, gli affamati infrangano la legge genovese, se proprio non si riesce a dar loro un panino da 2 euro, invece di 200 euro di multa che comunque non potranno pagare. Altro esempio, ugualmente straziante. In questi mesi c'è stato uno scoppiettio di #metoo qui #metoo là per gli abusi sessuali, di orrore e sdegno per i femminicidi. Tutto più che giustificato, per carità. Com'è giustificato fermare la nave spagnola che - invece di salvare la gente in mare, com'è previsto dagli accordi internazionali incrementa il traffico di esseri umani. Ma come possiamo sopportare, poi, quello che è accaduto sulle Alpi italo-francesi? Una donna, insieme al marito e a due figli piccoli, stava entrando clandestinamente in Francia. È un reato, certo, deve essere impedito. Se non che la signora era incinta di otto mesi, la sua pancia smisurata era resa ancora più vasta da tutto quanto si sarà messa addosso per coprire sé e il suo bambino. Una guardia forestale l'ha vista, l'ha caricata in auto e portata all'ospedale. Ora la magistratura francese per fortuna stavolta non è qualcuno dei nostri lo sta indagando per violazione delle leggi sull'immigrazione. Rischia 5 anni di carcere, senz'altro il posto di lavoro. E noi tutti qua a commuoverci per il bambino siriano nella valigia, che nella sua tremenda disgrazia ha avuto la fortuna di incontrare un bravo fotografo. Se siamo così forti da protestare contro l'immonda, feroce, guerra di Siria, forse potremmo trovare anche la forza di premere sulla magistratura francese, ricordare che sono il Paese dei Lumi eccetera. Perché stavolta hanno ragione Socrate e la guardia forestale: meglio subire un'ingiustizia che commetterne una.

Magdi Allam: “Si privilegiano gli altri, mai gli italiani”. Intervista del 12/09/2017 di Emanuele Beluffi su "Il Giornale". Magdi Cristiano Allam (Il Cairo, 1952) è stato il primo giornalista a subire un procedimento disciplinare per islamofobia da parte dell’Ordine Dei Giornalisti e l’ha vinto facendo valere il principio secondo cui è lecito criticare l’Islam. Magdi Cristiano Allam, uomo coraggioso e giornalista controcorrente, afferma una verità evidentemente scomoda: la sacralità della vita di tutti, la dignità delle persone e la libertà di scelta. Compresa quella religiosa: un punto di riferimento, prima da musulmano e poi da cristiano, che ha portato Allam, da musulmano, a prendere atto dell’incompatibilità tra ciò che Allah prescrive nel Corano, tra ciò che ha detto e fatto Maometto e questa sua fede interiore e da cristiano a prendere atto dell’errore alla base della legittimazione dell’Islam politico e dell’invasione di giovani musulmani che mina alle fondamento la società laica, liberale e cristiana del Vecchio Continente. Ne ha parlato con Edoardo Sylos Labini al Teatro Manzoni di Milano in occasione della rassegna “Manzoni Cultura”, durante la quale il fondatore ed editore de IlgiornaleOFF ha presentato il neonato network Cultura Identità, una rete che unisce operatori culturali, artisti, imprenditori e singoli cittadini che hanno a cuore il futuro e l’identità del nostro Paese.  Rischiare la vita per difendere le proprie idee «E’ giusto battersi affinché i nostri figli possano avere sempre la certezza di continuare ad essere se stessi nella nostra casa comune, sapendo che la vita, la libertà e la dignità umane saranno sempre un patrimonio inalienabile».

Una vita blindata «Nel 2003, a Kuwait City, durante la guerra contro Saddam Hussein, ricevetti una comunicazione da parte del Sisde che mi comunicava un’informativa attendibile secondo cui Hamas mi aveva condannato a morte per la mia denuncia del terrorismo islamico suicida palestinese. Da allora vivo sotto scorta ed è grazie a questa tutela se posso continuare a scrivere liberamente. Sono grato allo Stato italiano».

La madre babysitter, il primo incontro con la civiltà italiana «Mia madre faceva la babysitter presso una ricca famiglia italiana; il padre era un imprenditore nel ramo tessile. Avevano una bambina di due anni. Avevano la necessità che mia madre si occupasse di lei, 24 ore su 24, e dato che ero figlio unico da parte di mia madre, questa famiglia consentì, aiutandola economicamente, di mettermi in un collegio delle suore Comboniane a Il Cairo. All’età di 4 anni. E quello fu l’inizio di un mio percorso in seno a questo microcosmo d’italianità e di cristianità presente in Egitto. Poi ho continuato dall’asilo alle Elementari, sono stato i miei primi 4 anni di Elementari dalle suore Comboniane e poi dalla 5 elementare fino alla maturità scientifica sempre in collegio dai salesiani. Al Don Bosco a Il Cairo. Quindi complessivamente sono stato 14 anni in collegio e questo mi ha consentito di conoscere bene dall’interno sia la realtà dell’Italia che quella del Cristianesimo».

La conversione «Dai Salesiani, da ragazzino, sentii il bisogno di immedesimarmi in quel mondo cristiano cattolico: un giorno decisi di entrare in una chiesa e al momento della Comunione mi misi in fila come gli altri. Fu un gesto con un sottinteso più psicologico che religioso, volevo far parte di un mondo che mi affascinava per quello che avevo visto allora: le opere buone di laici e religiosi cristiani, i quali si comportavano in modo affabile con noi ragazzini a prescindere dalla nostra religione e dalla nazionalità. Toccai con mano la bontà del Cristianesimo».

22 marzo 2008. L’abbraccio di Cristo e la rinuncia all’Islam «Un giorno memorabile per me, uno spartiacque, il più bello della mia vita: la mia conversione vera e propria, quando ho ricevuto il battesimo, la cresima e l’eucaristia da Papa Benedetto XVI. Ho abiurato l’Islam come conseguenza della presa d’atto non solo dell’incompatibilità di Allah e Maometto con questa mia fede interiore, ma anche come conseguenza delle continue minacce di morte che ho ricevuto, non solo da Hamas, ma anche da sedicenti musulmani italiani, secondo i quali ciò che dico sarebbe in contrasto con le prescrizioni di Allah (indicando dei versetti del Corano che dal loro punto di vista legittimerebbero l’odio e la morte nei confronti dei miscredenti, coranicamente tutti i non musulmani).  Per questa ragione mi sono trovato costretto ad approfondire la mia conoscenza del Corano (di cui si è cominciato a parlare un po’ di più solo in questi ultimi anni) e soprattutto di Maometto (di cui invece si sa meno, pur essendo la figura che scioglie ogni dubbio nei confronti dell’Islam). Maometto non fu un sant’uomo: negli ultimi dieci anni della sua vita fu anzi un guerriero che uccise, sgozzò e decapitò personalmente migliaia di persone. Maometto rappresenta la legittimazione di coloro che oggi perpetrano efferati crimini avendo in lui l’unico e solo esempio principale. Per questo i Cristiani d’Oriente, che conoscono meglio di noi l’Islam e il Corano e Maometto, ci dicono che i terroristi islamici sono quelli che più di altri ottemperano integralmente a quel che Allah prescrive nel Corano e soprattutto a ciò che ha detto e fatto Maometto».

Faremo la fine dell’impero romano «L’immigrazione è una strategia pianificata per sostituire la nostra civiltà e condurla alla morte […] Oriana Fallaci aveva capito tutto. Faremo la fine dell’impero romano. Crollato a causa del calo della natalità, del venir meno dei costumi e per le condizioni economiche dei romani, vessati dalle alte tasse. Solo il 5% dei migranti sono rifugiati».

Il business dell’immigrazione, superiore a quello della droga «Dobbiamo prendere atto che oggi, la cosiddetta accoglienza, è diventata il business più lucroso che c’è in Italia. Chiunque oggi abbia la disponibilità di uno spazio, di una struttura per accogliere i clandestini, traduce la sua attività in un business che non ha pari con nessun’altra attività imprenditoriale; perché beneficia di soldi che vengono elargiti dallo Stato, senza alcun limite, cifre che partono da 35 euro al giorno per ciascun clandestino, e dove il tornaconto è garantito, dove non c’è nessun obbligo. Sono, tra virgolette, attività imprenditoriali a cui lo Stato non chiede nulla. Non sono neppure tenuti a rendicontare la loro attività. Questo è quello che poi portò Buzzi, braccio destro di Massimo Carminati, il boss di Mafia Capitale, a dire in una registrazione fatta dalle Forze dell’Ordine che ormai il business degli immigrati è il più proficuo, superiore persino a quello della droga. Noi oggi abbiamo una rete sempre più ampia di Ong, di cooperative, di associazioni, di fondazioni che guarda caso sono prevalentemente cattocomuniste che beneficiano di un fiume di denaro, di miliardi e miliardi di Euro, destinati a questa accoglienza, indifferenti alle conseguenze nefaste che ci sono poi per i cittadini italiani, non solo sul piano strettamente economico, poiché ci sono 12 milioni di italiani poveri, che non hanno ciò che lo Stato accorda ai clandestini».

Gli italiani hanno paura «anche sul piano della sicurezza, oramai sempre più italiani, ovunque in Italia, anche nei più piccoli paesini che io visito giorno dopo giorno, hanno paura; la paura è diventato un tratto diffuso perché a partire da una certa ora non si può più andare in giro, ci sono fette di territorio che vengono controllate da loro, da questi giovanotti prevalentemente di sesso maschile, tra i 20 e i 30 anni, confortati dal comportamento di uno Stato che accorda loro diritti senza chiedere loro in cambio doveri».

L’Egitto (ieri e oggi)… «E’ un Egitto molto diverso da quello in cui sono nato e in cui ho vissuto i miei primi venti anni. Era un Egitto laico, dove ad esempio le donne godevano di una grande emancipazione, potevano accedere a qualsiasi carica pubblica, non c’erano donne velate nelle strade del Cairo, mi ricordo che quando d’estate si andava al mare in colonia con le suore e i sacerdoti salesiani, sulle spiagge frequentate dalla popolazione autoctona le donne egiziane musulmane non avevano alcuna remora a indossare il costume da bagno o il bikini. Oggi c’è un’involuzione, che per la verità è iniziata con la sconfitta degli eserciti arabi nella guerra del 5 giugno 1967 che ha rappresentato uno spartiacque: da un lato il tramonto l’ideologia laica e socialista del panarabismo che si illudeva di fondere in un’unica nazione i 22 stati arabòfoni (dal Marocco a ovest all’Iraq a est), dall’altro l’ascesa dell’alternativa dell’ideologia del panislamismo che mira invece a fondere in un’unica nazione islamica, la Umma, tutti i paesi di fede islamica con la volontà di sottomettere all’Islam l’intera umanità. E’ quindi un Egitto con molta più intolleranza nei confronti di chi non è musulmano e dove la donna vive in una condizione di subordinazione e in generale c’è molta meno libertà».

Regeni? Il governo egiziano non c’entra nulla «Il ritrovamento del cadavere orribilmente mutilato di Giulio Regeni che, ricordiamolo, era un ragazzo di 28 anni, giovane ricercatore universitario, avvenne nelle stesse ore in cui all’interno della sede dell’ambasciata italiana a Il Cairo era arrivata l’allora ministro per lo Sviluppo Federica Guidi, con un gruppo di imprenditori italiani che si apprestavano a firmare dei nuovi contratti col governo egiziano anche sulla scia del ritrovamento, un anno prima, a largo delle coste egiziane del più importante giacimento offshore di gas del medio oriente. Questa concomitanza che ha portato subito alla sospensione della visita di Federica Guidi, del suo rientro in Italia, senza incontrare i responsabili egiziani, senza sottoscrivere alcun accordo, quindi con un danno immediato alle eccellenti relazioni tra i due Paesi, considerando che l’Egitto, dopo la perdita della Libia di Gheddafi, è diventato il primo partner economico, commerciale ed energetico dell’Italia in Africa, dove per energetico s’intende petrolio e gas. Già di per sé questo danno è un fatto che ci deve far riflettere, su chi abbia avuto interesse a far trovare il corpo di Regeni in quelle circostanze, in quel preciso momento. È da escludere che possa essere stato il governo egiziano. Sarebbe stato autolesionismo, un farsi del male da sé. La tesi verosimile è che il responsabile dell’eccidio, dell’uccisione barbara di Regeni sia stato un professionista della tortura presente all’interno di una branche dei tre servizi segreti egiziani legato verosimilmente ai Fratelli Musulmani che avevano preso il potere per un anno, fra il 2012 e il 2013, quando il presidente della Repubblica, Mohamed Morsi, fu costretto a rassegnare le dimissioni sull’onda di una rivolta popolare, interpretata dai militari come una necessità di intervenire per riportare l’ordine e la sicurezza all’interno del Paese». I segreti di Regeni «Qualunque segreto potesse essere nella disponibilità di Giulio Regeni era certamente noto alle autorità egiziane. Non reggerebbe la tesi secondo cui Regeni sarebbe stato ucciso dal regime perché è una spia di tizio, caio o sempronio. I contatti che Regeni aveva in Egitto con dei sindacati degli Ambulanti, che sono politicamente ostili al regime, i contenuti di questi contatti sono ben noti alle Forze di sicurezza egiziane. Non avrebbero mai ucciso un giovane che di fatto a loro non comporta nessun danno. Mentre il danno è stato enorme con la sua uccisione, con il ritrovamento del suo corpo in quella condizioni di tremenda mutilazione corporale a seguito di una disumana tortura a cui è stato sottoposto»

…e l’Italia «Che non venga considerata da nessuno come terra di conquista. Siamo arrivati al punto in cui quasi ci vergogniamo di indicarci come italiani e di considerare l’Italia la nostra casa. Siamo arrivati al punto in cui si privilegiano gli altri rispetto agli Italiani».

La donna nell’Islam «Ha prevalso ciò che Maometto ha detto delle donne.  Lui sostiene che la donna è antropologicamente inferiore rispetto all’uomo e manchevole sul piano dell’intelletto. Allah prescrive che la testimonianza della donna vale la metà dell’uomo (anche la sua eredità). Mentre l’uomo può sposare fino a quattro donne contemporaneamente e ripudiarle a proprio piacimento, la donna può essere segregata in casa fino alla morte se disubbidisce al marito. Il Corano legittima la violenza nei confronti delle donne, il che ha comportato un comportamento oscurantista di cui la donna subisce le conseguenze più pesanti: è per questo che in Italia dobbiamo imporre il rispetto delle leggi laiche dello Stato, le regole per la civile convivenza, i valori che sostanziano la nostra civiltà compresa la parità fra uomo e donna, a prescindere da ciò che Allah dice nel Corano. Solo la laicità ci garantisce che le donne musulmane in Italia possano beneficiare degli stessi diritti e della stessa emancipazione». Le spose bambine «Anche qui ci troviamo di fronte all’esempio di Maometto. La sua sposa prediletta, Aisha, era la figlioletta del suo migliore amico, che gli succedette come primo califfo. La sposò a sei anni e consumò il matrimonio quando lei ne aveva nove: per tutti i teologi islamici ortodossi, quindi, una bambina di nove anni può prestarsi in sposa sessualmente. Nei bordelli dell’Isis le donne prigioniere di guerra, prevalentemente yazide e cristiane, sono ridotte in schiavitù e proprio in quanto donne possono essere comprate: c’è un vero e proprio tariffario, il cui prezzo è inversamente proporzionale alla loro età.  A nove anni il prezzo è il più alto: anche questo è un fatto incompatibile con le nostre leggi e la nostra civiltà».

L’autoritarismo culturale «Siamo totalmente in balia del relativismo. Benedetto XVI coniò l’espressione dittatura del relativismo, un autoritarismo culturale che ci ha spogliato della nozione stessa di verità. Oggi viviamo in un contesto dove non crediamo alla verità ma ciascuno si sente depositario della propria verità. Il risultato è che tutte le verità sono messe sullo stesso piano e i fondamentali della nostra civiltà vengono coniugati tutti al plurale, un disorientamento che porta soprattutto i giovani a non aver più punti di riferimento che si traducano in certezze. Questo relativismo diventa una moda e produce fenomeni in cui si segue qualcuno che riesce a manipolare le coscienze. E’ questa la realtà del conformismo di chi ha messo in soffitta la propria ragione. Di conseguenza, oggi la nostra missione più importante è quella di riscattare la nostra ragione per entrare nel merito dei contenuti; in parallelo dobbiamo anche riscattare la certezza di chi siamo per poter essere veramente noi stessi».

Triste l'America che ha paura del bikini di una bimba. L'America è impazzita, e non già perché ha eletto come suo presidente un maverick come Trump. Al contrario è proprio in risposta a questo impazzimento delle élite americane che Trump ha vinto, scrive Nicola Porro, Domenica 03/09/2017, su "Il Giornale". Soltanto chi ama l'America e quel grande spirito di libertà che i suoi padri fondatori ci hanno regalato, si può davvero dolere della follia culturale dominante in cui si sta immergendo. L'America è impazzita, e non già perché ha eletto come suo presidente un maverick come Trump. Al contrario è proprio in risposta a questo impazzimento delle élite americane che Trump ha vinto. Oggi ci stupiamo di quella follia nevrotica che porta alle distruzioni delle statue di Cristoforo Colombo. Ma all'inferno culturale gli Stati Uniti sono scesi un passo alla volta. I tagliatori di teste, di marmo, s'intende, sono gli stessi che un lustro fa occupavano Wall Street con il movimento più inconcludente della storia. Sono un piccolo circolo amato dagli editorialisti del New York Times, alla rincorsa delle felpette californiane. In uno dei parchi acquatici più famosi degli Stati Uniti, peraltro come in ogni spiaggia, mi è successo un piccolo episodio che dovrebbe fare riflettere. E mi scuso per il caso personale. Mia figlia, che non ha sette anni, è stata obbligata ad indossare un bikini perché, nonostante la giovane età, la sua nudità superiore avrebbe potuto turbare il pudore collettivo. La cosa non sarebbe cambiata se di anni ne avesse avuto quattro o cinque. Si assiste così, nei bagni americani, a quella ridicola circostanza di imbattersi in migliaia di piccole barbie, oscene e volgari approssimazioni di adolescenti che non sono. Si sarebbe potuta derubricare come una patetica concessione al puritanesimo a stelle e strisce. Quello che non ti impedisce di bere alcolici in luoghi pubblici, a patto che siano nascosti da un cartoncino senza logo. Ma in quel medesimo parco c'erano centinaia di donne completamente fasciate da opprimenti burkini: costumi che coprono dai piedi alla testa. In omaggio a una religione che la laica America non si permette di censurare. E allora, da padre europeo, mi chiedo e chiedo ai gestori delle spiagge americane, a Walt Disney e ai suoi parchi, con quale arroganza vi permettete di censurare una mia tradizione (le bambine non indossano il pezzo di sopra del costume) ben ancorata nella cultura occidentale, mentre siete così rispettosi di una tradizione religiosa ben più lontana da voi? Forse dovremmo inventarci una religione che come precetto abbia il bikini libero per le bimbe, dovremmo avere qualche fanatico che cerchi di imporlo a tutti, con tutti i mezzi a disposizione? Per potere rivendicare un costume, è il caso di dire, della nostra tradizione. In sintesi, nella patria del primo emendamento, della libertà difesa costituzionalmente, le élite culturali sembrano imbambolate, incapaci di produrre un'idea che sia una, tutte impegnate, come sono, a fare dimenticare la propria storia e le proprie tradizioni. In un generale sforzo di annichilimento di ogni simbolo e tradizione che hanno reso la nostra cultura e la nostra società più libere.

La disfida del bikini tra chi può scegliere e chi lotta per averlo, scrive Annalisa Chirico, Lunedì 07/08/2017 su "Il Giornale". Da una costa all'altra del Mediterraneo tutto cambia. Stavolta non parliamo di gommoni carichi di migranti e di giovani «salvatori» che fanno ciao ai trafficanti di esseri umani. Da una sponda all'altra del «mare di mezzo» mutano i dilemmi estivi di noi donne. Sulle spiagge di Porto Cervo, Forte dei Marmi e Gallipoli le bagnanti si arrovellano attorno al dilemma di questa rovente estate: bikini o costume intero? È noto che, più di francesi e tedesche, le donne italiane, circa 8 su 10, prediligono il due pezzi inventato poco più di 70 anni fa dal sarto francese Louis Réard. L'accoppiata di reggiseno e mutanda che consente di abbronzarsi con l'ombelico in vista è da sempre la più amata dalle donne. Eppure mai come quest'anno il costume intero che fascia fianchi e addome sembra aver stregato il gentil sesso: su Instagram pullulano le foto di vip che sfoggiano modelli one piece. Più confortevole e raffinato, l'intero conferisce un tocco chic, avvolge le rotondità delle curvilinee e mette in risalto la silhouette definita delle atletiche. Sgambato e con le spalline sottili, è il must della stagione. Certo, per le patite dell'abbronzatura non è la soluzione ideale ma gli esperti di stile suggeriscono il rimedio dell'alternanza: bikini nelle ore di elioterapia e pezzo intero per l'aperitivo. Invece sulla sponda opposta del Mediterraneo, ad Annaba, litorale Nord-Est dell'Algeria, quest'anno il bikini è il simbolo della rivolta. La legge non vieta il due pezzi ma l'intolleranza degli islamici conservatori ha reso necessario l'intervento della polizia per proteggere alcune decine di ragazze ribelli che hanno osato sfidare i divieti. Al termine del Ramadan, attraverso un gruppo segreto su Facebook le sediziose si sono date appuntamento in spiaggia per affermare il sacrosanto diritto di esporsi al sole in libertà. Da allora gli appuntamenti a sorpresa si ripetono, talvolta gli agenti della polizia devono intervenire per richiamare all'ordine qualche marito scandalizzato dall'esibizione di tanta epidermide. Non mancano insulti e offese, ma tutte insieme si sentono più forti. Del resto, se va garantito il diritto di quante vogliono stare in spiaggia in burkini (la muta da sub che copre il corpo intero), va ugualmente preservata la libertà delle donne islamiche che invece prediligono il due pezzi senza sentirsi per questo meno devote. «Non vogliamo cambiare i punti di vista - ha dichiarato una delle organizzatrici - ma inculcare la tolleranza perché ogni donna si senta libera di indossare quello che vuole». Nel frattempo i bagni collettivi si sono moltiplicati e le bagnanti ribelli sono diventate quasi 4mila. Una bella lezione per chi strumentalizza la religione al fine di comandare sul corpo, e sull'esistenza. «Le donne sono come le banane ha spiegato una volta un imam Se togli la buccia, dopo un paio di giorni cominciano a marcire». Il pudore come ricatto permanente è l'architrave di una visione oscurantista destinata a essere spazzata via dalla modernità. Per questo diciamo «brave» alle sediziose algerine. Siamo con voi. In bikini, se volete.

"Sulle donne sinistra peggio dei talebani". L'autrice di Siamo tutti puttane: "Anche le Olgettine sono state strumentalizzate solo per colpire Berlusconi", scrive Anna Maria Greco, Mercoledì 07/05/2014, su "Il Giornale". Annalisa Chirico, ma perché Siamo tutti puttane, come dice il titolo del tuo libro? Suona un po' offensivo.

«E invece non lo è, perché uso questo termine in senso lato per indicare le persone che vogliono farsi strada, riuscire nella vita. E per farlo usano le doti avute dalla sorte come meglio possono, che siano del corpo o della mente».

Ma metti sullo stesso piano un carisma innato, una mente brillante o un invidiabile decolletè. 

«Credo che ci sia eccessiva attenzione al corpo, troppa pruderie. Usare un bel seno non è più disdicevole che sfruttare una mente intelligente. Non c'è una gerarchia. Ma in Italia negli ultimi 20 anni per rispondere alla variabile imprevista Berlusconi il dibattito si è incancrenito. Tutta colpa di un femminismo talebano con il quale la sinistra spostava lo scontro dal piano politico a quello morale, per potersi affermare non per quello che faceva ma per ciò che presumeva essere: moralmente superiore».

Eppure, la portavoce della Lista Tsipras Paola Bacchiddu per raccogliere voti come candidata alle europee ha postato su Facebook e Twitter la sua foto in bikini, scrivendo: io uso qualunque mezzo.

«Ed è stata criticata per questo anche da sinistra. Invece la sua è una trovata goliardica e va d'accordo con la tesi del mio libro: il rifiuto di ogni stereotipo della sinistra femminista bacchettona, che ci ha fatto credere di dover scegliere tra Belen e una dotta professoressa, tra madonne e puttane. Non può essere così. Ricordo Bersani che diceva: Belen non potrà essere mai un modello per mia figlia. Come lui parlano tanti esponenti di sinistra, opponendo al berlusconismo il boldrinismo. Mentre Renzi ha capito che è un errore e si è smarcato».

Il libro è nato quando seguivi il «pornoprocesso» alle Olgettine, come l'hai definito...

«Da cronista ho visto lì confondere il reato con il peccato. Ho provato rabbia e incredulità sentendo fare alle 33 ragazze, non imputate ma testimoni, domande piccanti sulla lingerie e i comportamenti sessuali. Mentre giornaliste di sinistra facevano credere di difendere la dignità della donna quando strumentalizzavano quelle ragazze in chiave anti Berlusconi. Come se l'unico assillo delle donne italiane fosse l'indomito fallo dell'allora premier».

A te che impressione hanno fatto le Olgettine?

«Non sono certo 33 timorate di Dio, ma ragazze che inseguono i loro sogni. Chi siamo noi per giudicarle, per negare il sacrosanto diritto di ciascuno di farsi strada come può? Il letto è un luogo invalicabile. Bisognerebbe ripristinare il rispetto per la privacy delle persone».

Hai detto di essere una femminista pro sesso, pro porno, pro prostituzione. Perché?

«Perché il mio è un femminismo libertario, opposto a quello salottiero che vorrebbe imporre modelli da Arabia Saudita, dice alle donne di coprirsi, censura la pubblicità che usa il corpo femminile».

Dagospia ha messo a confronto la foto della Minetti che sfila in biancheria intima e quella della Bacchiddu, scrivendo sulla prima: Questo era un c.... E sulla seconda: Questo è una provocazione. Tu con chi stai?

«Sto con entrambe, con tutte le donne che sanno giocare con il proprio corpo».

Piazzapulita, Rula Jebreal vs Nicola Porro: «Uomo bianco che urla addosso ad una donna come me», scrive venerdì 15 settembre 2017 Marco Leardi su "Davide Maggio". Chi ha paura dell’uomo bianco? Se la domanda vi sembra surreale (ed in effetti lo è), forse non avete assistito all’altrettanto incredibile scontro verbale avvenuto ieri sera a Piazzapulita tra Rula Jebreal e Nicola Porro. Nel corso del dibattito su La7, la giornalista palestinese se l’è presa con il vicedirettore de Il Giornale rivolgendogli un rimprovero alquanto bizzarro: quello di essere “un uomo bianco”. Durante il confronto, Rula Jebreal si è rivolta a Porro – che in quel momento la stava pungolando sul tema della Brexit – così: “Chiedi i dati della Banca mondiale, ma non solo questo. Intanto non devi arrabbiarti e diventare rosso quando parli di diritti della donna e poi sei un uomo bianco che urla addosso ad una donna come me. Quindi ti prego, abbassa i toni”.

L’argomentazione, di per sé immotivata, ha suscitato il sorriso del conduttore Corrado Formigli e qualche comprensibile brusio in studio. A quel punto, Porro ha restituito il colpo alla collega: “Guarda che se qualcuno non è d’accordo con te non è sessista!” ha esclamato il giornalista. Ma la Jebreal doveva ancora scatenarsi: di seguito, infatti, Rula ha accusato Il Giornale (per cui Porro lavora) di aver fatto una campagna contro lo ius soli perché dietro c’era “un’idea di razza pura, di persone che assomigliano a te, che parlano come te, che ascoltano te”.

“Sei sessista, non mi fai parlare!” le ha replicato Porro, provocandola. Poco più tardi, però, la giornalista palestinese ha assestato (a se stessa) il colpo di grazia, regalando alla prima puntata stagionale di Piazzapulita un momento quasi spassoso. Facendosi tutta seria, infatti, ad un tratto la Jebreal si è lamentata così: “Sono in minoranza qui, unica donna musulmana di colore contro tre, quattro uomini bianchi”.

E aridaje con la storia dell’uomo bianco. “Non fare la vittima” ha chiosato lo stesso conduttore Formigli, che ieri sera – al di là di questo episodio – ha messo in onda una puntata valida nei contenuti. Ci riferiamo soprattutto al pregevole reportage iniziale girato a Raqqua dallo stesso giornalista: un documento che, nell’ambito dei talk, ha confermato il primato di Piazzapulita nella trattazione degli esteri.

Musulmani in Italia, il sondaggio esclusivo di Ipr Marketing. Ecco la nostra inchiesta sui musulmani d’Italia realizzata sulla base di un sondaggio esclusivo Ipr Marketing effettuato attraverso interviste ‘face to face’ a un campione di cinquecento immigrati residenti nel nostro Paese. I dati sono stati poi disaggregati per le categorie sesso, età e area di residenza in modo da poter essere rappresentativi dell’universo di riferimento. I questionari presi in considerazione sono stati somministrati tra l’8 e il 15 settembre 2017. L’argomento di questo primo capitolo, attorno al quale ruota tutta l’analisi numerica, è l’integrazione degli stranieri musulmani nel contesto sociale italiano: le difficoltà con il mondo del lavoro, il flop nell’imparare la lingua italiana sono tra le criticità che hanno reso ardua fino a oggi l’adesione degli islamici ai valori occidentali.

Un islamico su 3 ammette: non voglio integrarmi. La ricerca Ipr Marketing: il 60 per cento non si è ambientato in Italia. Oltre la metà si mantiene senza lavorare, scrive Antonio Noto il 19 settembre 2017 su "Il Quotidiano.net". Oggi in Italia non esiste un profilo standard dell’immigrato, ma il comportamento dei musulmani è fortemente condizionato dall’età. Si dividono, infatti, in due macro gruppi: gli over 54 sono oltranzisti, conservatori e non hanno intenzione di integrarsi. Nei più giovani, invece, la spinta verso l’Italia è un po’ diversa: circa la metà si sente integrata (45%) e l’altra metà si divide tra chi vuole integrarsi (ma non ci riesce) e chi proprio non vuole. Due universi di riferimento complementari, decisioni generazionali: i giovani non sono apertissimi verso la cultura occidentale, ma risultano più incuriositi. Col crescere dell’età c’è una vera chiusura verso l’occidente. Sei immigrati su dieci si dichiarano non integrati (58%), ma il dato critico è che il 31% (un terzo del totale) non vuole integrarsi, mentre un ulteriore 28 per cento vorrebbe, ma non ci riesce. I motivi di queste difficoltà e ritrosie sono legati al lavoro e alla lingua, due temi spinosi per gli stranieri in Italia. Il processo di inserimento nella nostra società è condizionato dall’età: i più giovani ci provano, i meno giovani no. Le porte dell’Italia verso altri immigrati sono chiuse da parte degli islamici: solo il 43% sostiene che l’Italia dovrebbe accogliere altri profughi, mentre il 33% è convinto che serve un freno. Quasi a confermare che gli immigrati percepiscono la loro posizione di difficoltà: «Se arrivano altri stranieri, per noi che già facciamo fatica è un problema ulteriore». Nel Centro Italia vive gran parte della popolazione musulmana, lì si trova anche lo zoccolo più conservatore. La spiegazione? Si tratta di una zona vista come un paradiso politico per gli immigrati, il Centro storicamente era il territorio più tollerante verso i nuovi arrivati. I più adulti comunque hanno un dna oltranzista e restano ancorati alla propria ideologia: si concentra, infatti, una sacca di musulmani chiusi. Il luogo comune secondo cui gli immigrati nel Belpaese sono di passaggio viene abbattuto: chi è qui, vuole rimanere. Circa la metà pensa di restare per sempre (43%) e fra questi prevale la quota degli over 54, gli ‘ortodossi’ (80%). Solamente il 13% degli immigrati dichiara di essere di passaggio (andarsene entro 3 anni). Circa la metà dei musulmani è nel nostro Paese da più di 5 anni: se non si è già integrato, è difficile che possa farlo in futuro. Dall’altro lato, il giudizio sull’Italia è positivo: il 62% afferma di trovarsi bene nel nostro Paese. I più positivi risiedono al Sud, mentre al Centro molti (il 41%) dicono di trovarsi male. Un’altra criticità è il lavoro, vero problema dell’immigrazione, che genera difficoltà a integrarsi: chi non lavora, fa più fatica e ha meno voglia di essere parte di un progetto, di una cerchia sociale. Solo il 27% dei musulmani ha un lavoro stabile e il 24% dice di non lavorare: la disoccupazione in Italia è circa all’11%, all’interno del popolo degli immigrati raddoppia. Se a questi si aggiunge il 33% che sostiene di non avere un lavoro stabile, la forbice di immigrati che non riesce a mantenersi con il proprio lavoro si allarga al 50-60%. E’ importante l’area di residenza, perché la professione degli immigrati rispecchia le problematiche dell’Italia: chi non ha un posto di lavoro stabile risiede maggiormente al Sud (57%), al Nord prevale la quota di chi ha un lavoro stabile (42%). Indicatore indiretto della volontà di integrazione è anche l’amicizia: uno su due (55%) dice di avere amici italiani ed è molto forte la risposta in relazione all’età. Tra i giovani l’amicizia con italiani sale al 61%, mentre tra gli anziani arriva solo al 19%, a conferma di una sorta di chiusura di degli over 54. Anche il fatto di avere amici italiani prevale per immigrati al Sud, rispetto al Centro. IL 64% degli immigrati svolge la propria vita sociale nella comunità islamica: il 92% degli over 54 dice di avere relazioni solo nel proprio clan, quota che scende al 73% tra i 35-54enni e cala a chi ha fino a 34 anni. I più giovani cercano relazioni fuori dalla comunità, i più adulti sono bloccati. Rispetto alla lingua italiana, altra importante criticità, uno su due afferma di conoscerla bene (47%): gli anziani sono ancora indietro nella classifica (23%). Il 38% sostiene che un suo figlio dovrebbe sposare solo una persona musulmana, quota non maggioritaria ma importante. Significa che quattro su 10 sono chiusi verso altre religioni: si trovano più al Nord (40%) che al Sud (12%).

Importiamo casalinghe, scrive il 15 Settembre 2017 Filippo Facci su "Libero Quotidiano". Parte dei migranti è necessaria al nostro mercato del lavoro, certo: ma le migranti, le donne? Dovrebbero esserlo a loro volta. Ma a pagina 4 del rapporto annuale sui migranti, curato dal ministero del Lavoro, ci sono dei dati sconcertanti. Si parla dell'alto tasso di disoccupazione di alcune comunità (marocchini 25%, pakistani 24%, tunisini 23%, albanesi 20%) ma si rileva che questo tasso è molto più alto per le donne (pakistane 67%, egiziane 62%, tunisine 44%, ghanesi 37%) nonostante una forte richiesta in determinate professioni: e vien da sospettare, da una parte, che lo status «disoccupata» talvolta possa essere una facciata. Poi, però, ci sono le percentuali di chi ammette tranquillamente una conclamata inattività: parliamo dell'80% delle donne di Pakistan, Egitto, Bangladesh e India, donne cioè non hanno lavoro né lo cercano. È una percentuale di 20 punti più alta rispetto ai loro paesi d'origine. Significa, non fosse chiaro, che importiamo non solo un numero spropositato di disoccupate e di inattive, ma che importiamo anche una cultura: quella della donna che non deve lavorare, o che deve farlo un po' così, arrangiandosi, in subordine a un ruolo di inferiorità che spesso la religione di riferimento contempla e giustifica. Chissà che cosa ne pensa il progressismo nostrano. Chissà se avrebbe voglia di spiegare, a questi migranti, che in certe cose noi e loro non siamo semplicemente «diversi»: noi siamo più avanti, e basta.

Antonio Socci il 18 Settembre 2017 su "Libero Quotidiano": il patto tra chiesa e Pd per riempire l'Italia di immigrati. A giugno scorso la politica italiana ha svoltato ed ha cominciato la volata dell’ultimo chilometro. Da allora tutto quello che accade va letto in chiave pre-elettorale, cioè in vista delle elezioni politiche. Tutto è finalizzato a quell’esame. Perché è stato decisivo giugno? Perché alle elezioni amministrative parziali l’Italia (ancora una volta) ha mandato al Palazzo un segnale forte e chiaro che si potrebbe riassumere nello slogan di Beppe Grillo del 2007. In sostanza un “Vaffa”. Infatti il Paese si è rivelato molto diverso da come viene rappresentato sui media e da come lo pensano nel Palazzo della politica dove spesso credono alla loro stessa propaganda. In sintesi, nei Comuni con più di 15 mila abitanti in cui si è votato il centrosinistra governava in 81 Comuni e - dopo giugno - ne ha ripresi solo 50, il centrodestra da 42 è passato a 54 e i grillini sono passati da 3 a 8 amministrazioni municipali. Si è scoperto, di nuovo, che in Italia il centrodestra rappresenta la formazione con più consensi. E per il Pd non vale nemmeno invocare la menomazione dovuta alla scissione perché in quei Comuni di solito il centrosinistra si presentava unito. D’altra parte - se si ricorda l’esito delle ultime elezioni politiche - lo stesso esecutivo a trazione Pd non ha mai avuto una maggioranza nel Paese. Adesso poi - dopo anni di governo - il Pd paga la crisi economica nella quale - nonostante i dati sbandierati come “ripresa” - si è sempre più impantanati (con un debito pubblico che cresce) e soprattutto lo stato maggiore piddino ritiene di aver pagato la propria sconsiderata politica dell’emigrazione che ha creato molto malcontento e allarme sociale. Dall'esito elettorale di giugno perciò hanno pensato di correre ai ripari e per tutta l’estate hanno provato a mandare all’opinione pubblica segnali di una inversione di rotta. Prima Matteo Renzi ha rottamato lo slogan “Restiamo umani” che aveva usato per anni, per giustificare l’apertura dell’Italia all’immigrazione di massa. Lo ha rottamato - dicevo - sostituendolo con la parola d’ordine che era di Salvini, di cui Renzi si è disinvoltamente appropriato: «Aiutiamoli a casa loro». Era il segnale della marcia indietro. Così il ministro dell’Interno Minniti - nel volgere di qualche giorno - ha sostanzialmente fatto cessare gli sbarchi o almeno li ha fortemente ridotti. Di colpo. Cosa che - a ben vedere - ha fatto ancora più irritare gli italiani, dal momento che per anni, dalle parti del Pd e del governo, hanno ripetuto che la migrazione di massa è un fenomeno storico inevitabile, che non si può fermare, perché sarebbe come illudersi di fermare il vento con le mani. E quindi si poteva solo subire. Di colpo si è scoperto che invece si poteva fermare e anche molto velocemente, quindi tanti italiani hanno concluso che per anni sono stati presi in giro, mentre erano sottoposti all’assalto migratorio. Per non scoprirsi a sinistra, soprattutto dopo la scissione dalemiana, Gentiloni e Minniti hanno visto bene di chiedere aiuto alla Chiesa da dove - le frange più estremiste - già cominciavano a bombardare il governo per lo scontro con le Ong. Così, incontrando la Segreteria di Stato della Santa Sede e lo stesso papa Bergoglio hanno ottenuto una specie di legittimazione vaticana. Perché oltretevere hanno accordato questa copertura politica? Per almeno tre motivi. Primo: la Segreteria di Stato vaticana ha così potuto correggere l’ossessiva campagna migrazionista che Bergoglio ha fatto da quattro anni, dal viaggio a Lampedusa del 2013, che ha creato grande sconcerto pure tra i fedeli e ha fatto crollare il consenso attorno al papa argentino (peraltro l’arrivo di tanti migranti islamici nelle nostre città non può far piacere agli uomini di Chiesa più consapevoli). Secondo. Bergoglio si è fatto convincere perché ha come sua bussola il consenso (come i politici) e voleva recuperare un po’ del gradimento che ha perduto nell’opinione pubblica con i suoi reiterati comizi sull’emigrazione. Inoltre (terzo) il governo ha garantito al Vaticano bergogliano che varerà lo “Ius soli” e - dopo le elezioni - riaprirà agli sbarchi sottoforma di “canali umanitari”. A volerla tradurre in parole povere la richiesta del governo piddino dev’essere suonata così: voi ci coprite le spalle adesso che abbiamo bloccato gli sbarchi, così possiamo recuperare voti e - dopo le elezioni, una volta tornati al governo (perché vi assicuriamo che senza Pd non è possibile nessuna maggioranza) - facciamo lo “Ius soli” (se non siamo riusciti a farlo prima) e riapriamo le frontiere, chiamandole “canali umanitari”. Così “passata la festa gabbato lu santo” (e il santo gabbato è il popolo italiano). Il Pd ha anche altre frecce al suo arco, con cui cerca di recuperare consensi. A cominciare dalla solita vecchia politica delle mance pre-elettorali. È una trovata di questo tipo il cosiddetto “reddito di inclusione”, anche se - come si è scritto su queste colonne - a ben vedere stanzia per gli italiani poveri un terzo di quanto il governo ha stanziato per gli immigrati e dunque non sarà tanto facile convincere gli elettori. Ma ne vedremo altre dello stesso tipo. L’obiettivo del Pd, che di certo non può ambire a conquistare la maggioranza, è quello di essere - dopo le elezioni - indispensabile per qualunque governo e la legge elettorale deve essere funzionale a tale scopo fotografando la divisione dell’elettorato in tre blocchi. Però le elezioni regionali siciliane potrebbero essere l’incidente che destabilizza la leadership renziana e spariglia le carte. Anche perché gli oppositori di Renzi già scaldano i motori per lanciare la candidatura Minniti. Inoltre non è affatto detto che il Pd - dopo le elezioni - sia sicuramente indispensabile per mettere insieme una maggioranza di governo. In realtà ci sono delle alternative. Attenti alle sorprese. Al Pd rischiano di fare i conti senza l’oste che sarebbe l’elettorato italiano, nel quale - senza tanti ragionamenti politologici - sta crescendo una voglia matta di mandare a casa il Pd. Questa è l’aria che tira. Antonio Socci

Altri 410 migranti arrivati in un giorno. E ora è allarme per gli sbarchi "fantasma". In decine raggiungono le piccole spiagge e fanno perdere le proprie tracce, scrive Valentina Raffa, Martedì 19/09/2017, su "Il Giornale".  In controtendenza rispetto all'estate, gli sbarchi sono ripresi. Dallo scorso fine settimana circa 1.800 immigrati hanno calpestato il suolo italiano, trasportati dalle navi militari e dalle Ong ancora operanti nel Mediterraneo. Gli ultimi 410 sono attraccati a Palermo ieri. Tra loro donne incinte e un bimbo di due giorni nato su un barcone. Certo, nulla a che vedere rispetto ai numeri record registrati prima di rendere esecutivo il codice Minniti. E tra accordi ufficiali e qualcuno anche ufficioso scende ancora il numero degli arrivi, con 4.500 sbarchi ad agosto, che rappresentano un calo del 60% rispetto luglio, «il livello totale mensile più basso da gennaio», come rileva Frontex. Agli sbarchi «ufficiali» si aggiungono quelli «fantasma», con decine e decine di immigrati che raggiungono piccole spiagge a bordo di natanti a motore o vecchi velieri, per poi disperdersi senza sottoporsi ai controlli sanitari e delle forze dell'ordine. Sono gli sbarchi alla vecchia maniera, ma resi sistematici con partenze dalla Tunisia e dall'Algeria. Negli ultimi due mesi sono arrivati dalla Tunisia circa 3mila migranti, in maggioranza uomini, con 1.500-1.800 arrivi sulla costa meridionale della Sicilia e il resto sulle isole di Lampedusa e Linosa. E numerosi sono i tunisini che affollano i centri di accoglienza e che l'Italia deve rimpatriare. La ripresa degli sbarchi fa temere infausti risvolti, dal momento che gli accordi tra l'Italia e la Libia per fermare la trasmigrazione dell'intera Africa sulle proprie sponde e a spese degli italiani non è stata ben digerita da qualcuno. Del resto cosa aspettarsi visti i grossi interessi in gioco. Sarà anche un caso, ma la ripresa degli sbarchi coincide con l'invito dell'Italia a Khalifa Haftar per il 26 settembre per incontrare il ministro della Difesa Roberta Pinotti e alti ufficiali dello Stato maggiore. «Denunciamo l'invito giunto, specie perché la Corte penale internazionale ha chiesto ripetutamente l'arresto degli affiliati (del generale) colpevoli di aver commesso crimini di guerra». Lo scrive in una nota il Consiglio militare di Sabratha. E già sabato ci sono stati i primi arrivi. In 371 sono giunti a Trapani raccolti in mare da Sos Mediterranee. «Dopo un calo significativo negli ultimi due mesi, il totale degli arrivi» registrati tra gennaio e agosto 2017 dice Frontex «è rimasto a 99.800, in calo del 13% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno». Le due principali nazionalità degli arrivati nel corso dell'anno sono Nigeria e Guinea. La rotta del Mediterraneo centrale conta per i due terzi degli ingressi illegali complessivi nell'Ue. In agosto ci sono stati 12.200 transiti illegali sulle principali rotte migratorie. Secondo Frontex, la Spagna è sotto «forte pressione» a causa di 2.400 ingressi illegali di agosto, il doppio rispetto a un anno fa. Gli arrivi in Grecia sono stati in leggero aumento in agosto.

Immigrazione, la denuncia della Lega Nord: "Nel mediterraneo aperta una nuova rotta che porta gli stranieri in Italia", scrive il 18 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Possibile che, con tutti i riflettori ormai puntati sulla Libia, nelle ultime settimane stia prendendo piede una nuova rotta dell'immigrazione attraverso il Mediterraneo? Una rotta che, tra l'altro, porta gli stranieri non sulle navi e da lì nei centri di raccolta ed identificazione, ma direttamente sulle coste della Sicilia e di lì, senza controllo alcuno, nel nostro Paese? Lo chiedono, in una interrogazione, due deputati della Lega a seguito delle segnalazioni effettuate di recente dal prefetto di Agrigento. "C’è o no una nuova rotta tunisina di clandestini verso la Sicilia? Il Governo che dice dei numerosi 'sbarchi fantasma' avvenuti nelle ultime settimane nell'agrigentino? Esiste o no il rischio che tra questi ci siano infiltrati terroristi 'invisibili'? Quali sono gli interventi che sta adottando l’Esecutivo? Il Viminale deve rispondere presto a queste domande. Nei giorni scorsi abbiamo già presentato un’interrogazione al ministro Minniti. L’allarme del procuratore di Agrigento, ribadito ancora oggi, deve essere subito colto. Del resto lo stesso scenario tracciato dal sindaco di Lampedusa, ormai invasa da tunisini è un segnale che qualcosa di diverso sta avvenendo nel Mediterraneo, e bisogna capire in fretta a quale logica risponde". Così i deputati Alessandro Pagano e Angelo Attaguile della Lega-Noi con Salvini.

Gli sbarchi fantasma dei migranti in Sicilia. Negli ultimi due mesi, circa 800 persone sono arrivate di nascosto dal mare, scomparendo nel nulla. Siamo andati nei luoghi dove avvengono questi sbarchi, scrive il 15 Settembre 2017 Davide Lorenzano. Viaggiano su yacht di lusso, attraversano il canale di Sicilia come spettri e giungono sulle coste sicule eludendo i controlli della guardia costiera e delle ong che prestano soccorso in mare: sono i migranti degli “sbarchi fantasma”. Attraccano sulle spiagge più impervie da raggiungere a piedi e fuggono via disperdendosi nella macchia mediterranea dell’isola. Altri, secondo testimoni, scendono dalle barche vestiti in modo elegante, portando valigie e borse costose. Dopo aver completato le procedure di registrazione, vanno a cena nei raffinati ristoranti del posto. Ma chi sono, da dove vengono e, soprattutto, come fanno? Negli ultimi due mesi circa 800 persone sono clandestinamente arrivate in Italia secondo questa modalità. Se poi si considerano quelle sbarcate a Lampedusa e Linosa in numero sale a 1300. Sono pochi rispetto agli oltre 120mila giunti in Europa nel 2017. Sono anche in questo caso migranti che abbandonano i loro paesi per motivi economici o politici, o che fuggono da regimi brutali o terribili guerre. La differenza è che possono sborsare cifre ingenti per cercare un luogo più sicuro in cui vivere. “Ogni passeggero paga fino a 8mila euro per il viaggio”, racconta uno scafista al giornalista del Guardian Lorenzo Tondo. Alcune famiglie hanno pagato fino a 100mila euro per raggiungere l’Europa dal medio Oriente, riporta il quotidiano. Si muovono dalla Tunisia, dalla Turchia, dal Marocco e dalla Libia senza farsi intercettare dai controlli dei rispettivi paesi e giungono sulle coste della Sicilia, ma anche della puglia, come accaduto a Santa Maria di Leuca. Sono dottori siriani, magistrati e avvocati afghani, professori e imprenditori iracheni. A confermarlo è Carlo Parini, commissario di Polizia responsabile del gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina della procura di Siracusa. Il giornalista Davide Lorenzano è andato per TPI nei luoghi dove avvengono questi sbarchi. Ecco cosa ha visto: Pare il canovaccio di un’opera di Daniel Dafoe. Con un gruppo di personaggi smarriti e il loro destino al centro della vicenda. E anche l’azione, piuttosto priva di dialoghi. Lo si deduce guardando un filmato dove si staglia un’imbarcazione sulla battigia e, poco distante, un flusso di uomini senza nome intenti solo a correre e confondersi nella sterpaglia dissolvendosi.

Dalla spiaggia della Riserva Naturale di Torre Salsa, a pochi chilometri da Agrigento, non è poi così raro individuare piccole barche affollate di gente sbarcare in modo del tutto indisturbato e silenzioso. Ultimo l’episodio di domenica 27 agosto, quando due natanti hanno attraccato con a bordo una quarantina di persone. Li chiamano sbarchi “fantasma” e si stima che, solo negli ultimi due mesi, con queste modalità siano immigrate clandestinamente nella provincia circa 800 persone, senza considerare quelle arrivate Lampedusa e Linosa: circa 1300. Ma come fanno gli equipaggi a eludere le navi di soccorso e gli altri controlli del Canale di Sicilia? È questa la domanda delle domande. E perché il litorale di Torre Salsa non è presidiato da terra?

Realizzando il servizio si è potuto constatare la difficoltà nel raggiungimento a piedi della riva e, in particolare, del luogo dove è avvenuto lo sbarco. E neanche i veicoli di terra possono giungervi facilmente. Le autorità che volessero intervenire tempestivamente sarebbero perciò facilmente aggirate. Probabilmente, solo i mezzi aerei potrebbero garantire un efficace pattugliamento. Dal racconto di testimoni, nell’ultimo periodo sono stati più volte avvistati lungo le strade statali corridoi di uomini disperati. Spesso è in questo modo che si viene a conoscenza dello sbarco nelle vicinanze; altre volte, invece, con il solo rinvenimento di indumenti abbandonati al suolo. Dai filmati di questi attracchi, diffusi online, i viaggiatori che cercano di disperdersi corrono agilmente e non paiono provati dalla traversata del mare aperto. Bottiglie rimaste a bordo dei barchini e sulla sabbia paiono dispensare ancora acqua, e riserve di carburante rimangono sigillate. Tante le stravaganze che farebbero pensare a nuove ipotesi. “Ci sembra molto difficile che queste barche possano attraversare il Mediterraneo. Si sta iniziando a diffondere l’idea che ci possa essere una barca madre che li porti a riva. Per esempio, questa barca che vediamo qui e che ha trasportato qualche giorno fa 15 migranti è lunga 6 metri ed ha un motore di 15 cavalli: sembra ben difficile che possa arrivare dalla Tunisia anche se ci sono solo 200 chilometriˮ, ha detto a TPI Claudio Lombardo, medico con la passione per l’ambiente e membro di Mareamico, l’associazione ecologica che spesso per prima ha denunciato diversi casi di sbarchi fantasma grazie anche alle numerose segnalazioni dei sostenitori, e che adesso denuncia l’inquinamento, anche paesaggistico, derivante dai relitti arenati da giorni su una spiaggia di forte interesse per i turisti.

Le traversate hanno caratteristiche diverse dalle tratte in gommone dalla Libia. Per questo motivo si ritiene che le imbarcazioni provengano dalla Tunisia, come dimostrano alcuni documenti di riconoscimento tunisini, talvolta distrutti, rinvenuti nelle vicinanze delle barche. Viaggi sicuri – spesso conclusi in orari notturni con i passeggeri che, messi i piedi a terra, si fanno luce con l’ausilio dei cellulari – cui costo potrebbe in tutta probabilità essere superiore a quello delle tratte tradizionali poiché non necessitano di soccorsi e sono in grado di sottrarsi ai controlli, così da eludere il sistema di accoglienza che prevede la necessaria identificazione dei migranti. Ma perché questa premura a non essere identificati e quindi precludersi la possibilità di accedere a circuiti di integrazione? Nei giorni scorsi, il procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, in un’intervista a Repubblica non ha escluso la presenza tra i migranti di uomini che hanno problemi con la giustizia nei paesi d’origine, o di individui già espulsi dall’Italia o, peggio, qualcuno legato al terrorismo internazionale. Sul posto, proprio mentre TPI effettuava le riprese delle immagini che vi proponiamo nel servizio, anche l’inviato delle Iene Cristiano Pasca che, ispezionando i vestiti abbandonati sul terreno dai migranti, ha fatto la preoccupante scoperta della felpa nera con la scritta bianca “Haters #Paris”, Odiatori di Parigi, con in mezzo un’immagine della Tour Eiffel capovolta.

Pasca ha rinvenuto il capo d’abbigliamento accanto a un cartone del latte e a un sacco nero utilizzato per contenere abiti asciutti che i migranti indossano nel momento dell’arrivo sulla terra ferma. Con la consegna dell’oggetto alla procura della Repubblica di Agrigento da parte della iena, è stata avviata un’indagine. La vicenda è spinosa e parlarne richiede non poca cautela. Il confine tra l’essere tacciati per allarmisti o per buonisti, per noi giornalisti, è molto sottile. Non si può dire che il ritrovamento non desti preoccupazioni che suscitano nuovi interrogativi, come non si può neppure dire che rappresenti un reale segnale di pericolosità. È inoltre possibile che qualcuno abbia adagiato volontariamente l’indumento per terra, affinché fosse ritrovato. L’articolo non sarà facilmente reperibile in Italia ma attraverso una veloce ricerca online ci si imbatte in diversi modelli. Il portale Meridionews ha fatto notare come dal sito di e-commerce cdiscount.com, per esempio, è possibile visualizzare una galleria di articoli uguali o molto simili alla felpa incriminata, appartenenti al marchio “Jeans Industry”. Dal sito della ditta – incredibilmente francese – l’articolo non risulta però in elenco. L’ipotesi che possa essere stata posizionata ad arte può trovare strada a seguito delle forti tensioni nella vicina Porto Empedocle per via dell’apertura, alla vigilia di ferragosto, di un nuovo centro di prima accoglienza per minori migranti non accompagnati e dove ignoti hanno danneggiato il citofono della struttura.

Aizzare le folle all’odio non è mai stata la soluzione giusta, in nessuna epoca storica. Se l’opinione pubblica condanna le indicibili stragi perpetrate a danno di innocenti, la stessa non può ricorrere a quelli stessi comportamenti che le originano. Il malcontento popolare rischia di riversarsi, con atti estremamente violenti, su altrettanti deboli. Il fenomeno degli sbarchi fantasma si è acuito nelle coste meridionali della Sicilia da qualche mese, ma gli episodi si verificano con sospetta abitualità già da un paio di anni. La notte del 14 giugno, sulla spiaggia di Drasy, a ridosso di Punta Bianca, hanno attraccato due imbarcazioni di legno di circa 7 metri. Sparsi intorno sono stati ritrovati vestiti, scarpe, beni di consumo e altri oggetti precari. Abbandonate a bordo, diverse taniche di benzina.Dei circa 30 migranti che si ritengono essere sbarcati la polizia ha potuto intercettarne 11, tra cui una donna condotta all’ospedale San Giovanni di Dio.

Nel pomeriggio del 3 agosto, un altro sbarco ha interessato le spiagge agrigentine, a Capo Rossello, nei pressi di Realmonte. Quando le autorità sono giunte sul posto, dei 12 migranti non c’era più traccia. La notte del 4 agosto, a Torre Salsa, sono approdate circa 90 persone. Erano a bordo della Bochra (“Bella notizia”), un peschereccio di undici metri in buone condizioni. Giovedì 17 agosto, nell’incredulità dei bagnanti di Villa Romana, tra Porto Empedocle e Realmonte, due barche solitarie sono state individuate sulla secca a pochi metri dall’arenile: una decina di passeggeri si sarebbero allontanati immediatamente dopo l’arrivo. Nella stessa giornata, la spiaggia di Torre Salsa accoglieva un’altra imbarcazione. Circa 30 dei viaggiatori sono stati catturati da carabinieri e guardia di finanza, mentre i restanti 10 si sarebbero dileguati nelle campagne di Siculiana. Lo sbarco – che di “fantasma” ha ben poco – è avvenuto alla luce di molti testimoni. È stato un diportista infatti ad avere ripreso in video il momento dell’approdo, trasmettendo il documento alla delegazione di Agrigento di Mareamico che lo ha pubblicato online. Immagini già viste, pochi giorni prima, sulla spiaggia di Zahara de los Atunes, in località Cadice, in Spagna, e diffuse dall’emittente Todo Radio: un gommone affollato di individui provenienti dal continente africano è sbarcato fra i turisti che hanno filmato la scena con lo smartphone. Il 18 agosto, a seguito di un furioso inseguimento in mare, le motovedette della guardia costiera di Porto Empedocle hanno intercettato una novantina di migranti che, giunti sulla terra ferma, sono stati fermati nel tentativo di fuga. Uomini, donne e minori provenienti dall’area del Maghreb che hanno sete. Sete di libertà.

La rotta segreta degli scafisti italiani: "Con loro non rischi di affondare in mare". Sari racconta il suo viaggio verso la Sicilia: "Le bande di trafficanti in Tunisia sono molte", scrive Fabio Tonacci il 18 settembre 2017 su "La Repubblica". Gli scafisti italiani sono una garanzia. "Con loro non rischi di affondare in mezzo al mare ". Gli scafisti italiani puntano sulla qualità. "Il gommone è nuovo, dentro è fatto di legno e ha un motore potente". Gli scafisti italiani viaggiano con un coltello lungo un braccio, e si sono messi in affari con criminali tunisini a cui non frega niente di chi portano in Sicilia. "Se fossi un jihadista ", osserva Sari, involontariamente lanciando un monito a chi si occupa di Antiterrorismo, "userei questa rotta per penetrare in Europa".

IL CONTATTO COI TRAFFICANTI. Sari, per fortuna, un jihadista non è. È un quarantenne tunisino, intelligente e dai modi cortesi, che dopo la Primavera Araba si è convinto che l'unica soluzione sia lavorare in Italia, dove ha già vissuto negli anni Novanta. Parla bene la nostra lingua, ha fatto il pellegrinaggio alla Mecca e non disdegna l'alcool: con calma ordina un paio di birre, al bancone di un bar di una cittadina del Basso Lazio, prima di attaccare il suo racconto. "All'inizio dell'anno una mia conoscenza di Tunisi mi dice che ci sono italiani che stanno facendo le traversate fino in Sicilia con i motoscafi ". È la rotta tunisina, la storica via dei contrabbandieri di sigarette e dei latitanti in fuga. E, da qualche tempo, anche la rotta di migranti irregolari come Sari. "Trovo il contatto giusto, un mio connazionale che mi spiega come funziona: il viaggio costa 7.000 dinari (circa 2.400 euro, ndr) e i soldi li vogliono in anticipo. Se accetto, entro una settimana riceverò una telefonata e da quel momento avrò un'ora di tempo per presentarmi in un luogo prestabilito dove incontrerò l'italiano. Di lui non mi viene spiegato niente, solo che è un siciliano di poche parole ".

L'ITALIANO TACITURNO. Il cellulare di Sari squilla alle 18 di una serata tiepida della scorsa Primavera. "Mi precipito all'appuntamento, portando uno zainetto con dentro il salvagente giocattolo di mia figlia. Appena mi vede l'italiano, un uomo grosso che avrà avuto 35-40 anni, si incazza per lo zaino... ma che ci posso fare, non so nuotare! ". Si ritrova in un gruppo di otto passeggeri, tutti tunisini: la comitiva vale quasi 20.000 euro. Un furgone senza finestrini li scarica su una spiaggia deserta, a un'ora di macchina da Tunisi. "Credo fosse la zona di Plage Ejjehmi, perché vedevo una collinetta con delle antenne. Il gommone era già lì, smontato, nascosto nelle sterpaglie". Sari e gli altri, al buio, seguono gli ordini dello scafista italiano che ora è accompagnato da un tunisino che funge da traduttore: prima trasporteranno le taniche di benzina per una cinquantina di metri fin sulla battigia, poi il gommone, infine il motore. Insieme a loro, viaggeranno dodici scatoloni di sigarette di contrabbando che i due scafisti sistemano a prua.

IL VIAGGIO FINO A MARSALA. "Ci impongono di spegnere i cellulari e poco prima di mezzanotte partiamo. Il mare è piatto, neanche una motovedetta della guardia costiera mentre lasciamo la Tunisia". È l'italiano a pilotare il gommone. Davanti a sé ha messo una borsa frigo di plastica blu, il cui contenuto non è sfuggito a Sari: "Bottiglie d'acqua e un grosso coltello, forse un machete". Il gommone accelera e rallenta di continuo. "L'italiano si orienta seguendo tre stelle ", intuisce Sari. La notte sul Mediterraneo sembra non passare mai, gli otto passeggeri muti e intabarrati nei giacconi, i borbottii in dialetto siciliano dello scafista, il rumore del motore, il vento. "All'alba scopriamo che c'è una nave militare in lontananza, e per fortuna non ci avvista. L'italiano appoggia sulla borsa frigo una tavoletta di legno, con una bussola: l'ago punta tra i 58 e i 59 gradi. Il motore spinge al massimo, arriviamo nelle acque italiane che sono le 17, ma non attracchiamo: rimaniamo a largo, a motore spento, fino a dopo il tramonto. Con l'oscurità appaiono le luci delle automobili, sbarchiamo su una spiaggia dove ci sono delle persone. In un attimo i due scafisti riprendono il mare, io mi incammino solo tra gli alberi. Dopo qualche ora ho capito dov'ero: a nord di una città chiamata Marsala. In Italia. In Europa".

LA ROTTA DEI JIHADISTI? Chi fossero i due scafisti, e chi tra loro comandasse, Sari non l'ha capito. "Ma a Tunisi di bande di trafficanti formati da italiani e tunisini ce ne sono molte", giura. Chi sono? Hanno legami con la Mafia? Trasportano terroristi? Una prima risposta l'ha data a giugno l'operazione della finanza "Scorpion Fish", e non sono buone notizie. L'inchiesta del pool di pm palermitani Gery Ferrara, Claudia Ferrari e Francesca La Chioma ha portato all'arresto di 15 persone, tra cui diversi italiani, accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e contrabbando di tabacchi. "Nella banda, che ha organizzato almeno cinque viaggi dalla Tunisia, gli italiani erano in posizione subordinata: pescatori, piccoli criminali non legati a Cosa Nostra", sostengono gli inquirenti. I gommoni usati, al massimo della velocità, potevano coprire la tratta anche in meno di quattro ore. I vertici del gruppo, invece, avevano legami con sospetti jihadisti. Forse a qualcuno hanno anche fornito un passaggio. La rotta scoperta era esattamente la stessa percorsa da Sari. Ce ne sono almeno altre due utilizzate, che partono dalle spiagge tunisine e arrivano a Mazara Del Vallo o più a est, nell'Agrigentino. Percorribili in poche ore. Sari mostra sul telefonino filmati di suoi amici tunisini arrivati in tutta sicurezza, a bordo di questi gommoni moderni che non sono le carrette che partono dalla Libia, sono mezzi sicuri. Sembrano turisti, bivaccano e sorridono. "Se fossi un terrorista - ribadisce Sari - utilizzerei questa rotta".

L'indagine sulla ong tedesca e la nave Iuventa. Le accuse, l'infiltrato e i rapporti tesi con Roma, scrive Salvo Catalano il 5 agosto 2017 su "MedioNews". Tre giorni fa l'imbarcazione è stata sequestrata dalla Procura di Trapani. Le 150 pagine del dispositivo passano in rassegna le contestazioni, partite da due dipendenti di una società di sicurezza e da un agente sotto copertura. Secondo il giudice però «trafficanti e appartenenti alle ong sono agli antipodi». Il 2 agosto la nave Iuventa della ong tedesca Jugend Rettet è stata scortata nel porto di Lampedusa e posta sotto sequestro su richiesta della Procura di Trapani che indaga ipotizzando il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, anche se nessun membro dell'equipaggio risulterebbe iscritto nel registro degli indagati. È il culmine di approfondimenti che coprono un periodo di tempo compreso tra settembre 2016 e giugno 2017, partiti dalla denuncia di due dipendenti di una società di sicurezza, la Imi Security Service, imbarcati sulla nave di Save the children. I due contractors riferiscono sia ai servizi segreti, all'Aise, che agli investigatori di Trapani. Ma nelle 150 pagine del dispositivo di sequestro della Iuventa c'è molto altro: dall'infiltrato del Servizio centrale operativo della polizia a bordo della nave di Save the children, alle foto che dimostrerebbero come la ong tedesca abbia riportato indietro, in acqua libiche, i barconi vuoti, fino a uno scontro all'interno del mondo delle organizzazioni non governative su alcuni punti fondamentali della loro attività in mare. 

DA DOVE ARRIVANO LE ACCUSE ALLA NAVE IUVENTA. Le indagini di Trapani, come detto, partono dalla denuncia di due dipendenti dell'agenzia di sicurezze Imi Security Service, Pietro Gallo e Lucio Montanino, imbarcati sulla nave Vox Hestia di Save the children. Sono loro i primi a segnalare anomalie nelle fasi di soccorso in mare. Lo fanno sia alla squadra mobile di Trapani con dichiarazioni rese il 12 settembre del 2016, subito dopo uno sbarco, sia con un'email all'Aise (l'agenzia informazioni e sicurezza esterna), cioè il servizio segreto per l'estero, indirizzata a Paolo Scotto di Castelbianco, responsabile della comunicazione istituzionale e direttore della Scuola di formazione del Comparto Intelligence, di cui sostengono di aver recuperato nominativo e indirizzo email su internet. Denunciano che la Iuventa «si avvicinerebbe eccessivamente alle coste libiche durante le operazioni di recupero, fornendo supporto logistico agli scafisti». Ieri il giornalista Andrea Palladino, su Famiglia Cristiana, ha parlato dei legami tra la Imi Security Service e uno dei membri di Generazione Identitaria, il gruppo di estrema destra che, a bordo della C-Star, proprio in questi giorni si dirige verso la zona di soccorso per aiutare i libici. Nel prosieguo delle indagini viene infiltrato un agente dello Sco a bordo della Vox Hestia. È lui che, a partire dal 19 maggio del 2017, racconta e fotografa il recupero da parte degli esponenti della ong Jugend Rettet di tre imbarcazioni utilizzate dai migranti soccorsi, che, una volta vuote, sarebbero state trainate dall'organizzazione tedesca verso le acque libiche, «consentendone - scrive il Tribunale di Trapani - il recupero ad opera di alcuni soggetti che si trovavano già all'altezza di quelle acque». Altre accuse vengono mosse dal comandante della nave Diciotti della guardia costiera, Gianluca D'Agostino. In una relazione al termine di un servizio di soccorso, scrive che «durante le fasi di recupero dei migranti presenti a bordo di un gommone, la nave Iuventa ha fatto ingresso, mediante i propri Rhibs (gommoni di supporto), nelle acque territoriali libiche a massima velocità». Infine, alle accuse alla Iuventa contribuisce anche un medico, Stefano Spinelli, che fa parte della onlus Rainbow for Africa e partecipa alle missioni a bordo della Iuventa, garantendo supporto medico. Spinelli, nel maggio del 2017, prima che la nave della ong tedesca rientrasse al porto di Lampedusa, inviaun'email alla sala operativa della guardia costiera di Roma in cui «si dissocia formalmente da eventuali condotte poste in essere dagli esponenti della Jugend Rettet, non conformi alle disposizioni impartite dalla Guardia Costiera italiana». Successivamente il suo telefono viene intercettato e dalle sue conversazioni emergono numerosi elementi utili alle indagini. 

COSA VIENE CONTESTATO ALLA IUVENTA. LE ACCUSE DA PARTE DELL'INFILTRATO DELLO SCO. Le accuse più pesanti alla ong tedesca arrivano dall'infiltrato dello Sco. Il poliziotto partecipa a diverse operazioni di soccorso ma due in particolare, entrambe avvenute nella mattina del 18 giugno del 2017, vengono ritenute molto interessanti dagli inquirenti, perché dimostrerebbero l'impegno di alcuni membri della Jugend Rettet nel rimettere i barconi nella disponibilità dei trafficanti. Poco dopo le sei del mattino, la nave di Save the children su cui è imbarcato l'agente sotto copertura arriva nell'area di intervento, tra le 12 e le 20 miglia dalle acque libiche. Insieme alla Vox Hestia ci sono la Iuventa, una motovedetta della Guardia costiera libica, tre barconi in legno con migranti a bordo e un barchino con alcuni trafficanti. Il barchino e i libici si allontanano e inizia il recupero dei migranti. Finita l'operazione, uno dei gommoni in uso alla Iuventa «si è avvicinato a due dei tre barconi in legno ormai vuoti, sono stati legati tra loro con una cima e gli operatori che si trovavano a bordo del gommone li hanno trainati verso le coste libiche, lasciandoli poi alla deriva. All'orizzonte - scrivono i magistrati - l'operatore sotto copertura ha avuto modo di constatare la presenza di alcuni barchini, verosimilmente in uso ai trafficanti, che stazionavano in quello specchio acqueo in stato di attesa». Poco dopo la stessa operazione sarebbe stata effettuata anche con il terzo barcone, trainato verso le coste libiche. Quest'ultimo mezzo, di colore rosso e contrassegnato dalle lettere KK, è stato poi usato dai trafficanti otto giorni dopo (il 26 giugno) per un altro trasporto di migranti. «I movimenti descritti - si legge ancora nel dispositivo di sequestro - sono stati osservati dall'operatore undercover attraverso lo zoom della propria macchinetta fotografica». Nella stessa mattina del 18 giugno, intorno alle 11, il poliziotto assiste e documenta con fotografie a un incontro tra uno dei gommoni della Iuventa e un barchino con a bordo presunti trafficanti. «Dopo essersi incontrati, sono restati affiancati per qualche minuto; dopo qualche istante, il Rhib (il gommone di soccorso ndr) si è diretto verso la Iuventa, mentre l'altro natante ha proceduto verso le coste libiche; successivamente quest'ultima imbarcazione è riapparsa sullo scenario, scortando un gommone carico di migranti e fermandosi solo vicino alla Iuventa». Mentre i migranti vengono soccorsi, i trafficanti si sono avvicinati al gommone, portando via il motore. Gli inquirenti sottolineano come, prima di andare via, i trafficanti abbiano rivolto un gesto di saluto alla Iuventa. 

LE ACCUSE DEI DIPENDENTI DELL'AGENZIA DI SICUREZZA IMI SECURITY SERVICE. Pietro Gallo e Lucio Montanino sono i due dipendenti dell'agenzia di sicurezza a denunciare della anomalie che riscontrano mentre sono imbarcati sulla Vox Hestia di Save the children. «C'erano dei gommoni con i migranti a bordo che scaricavano le persone su una nave chiamata Iuventa - dicono -. La stranezza la vedevamo nel fatto che il personale della Iuventa, dopo aver fatto salire i migranti a bordo, restituiva i gommoni ad altri soggetti che stazionavano nella zona dei soccorsi a bordo di piccole imbarcazioni di vetroresina o legno». Altra accusa riguarda la presunta esistenza di una chat tra i referenti delle ongin cui sarebbero state comunicate, in via informale, quindi senza passare dalla Guardia costiera, le posizioni esatte dei migranti da soccorrere. Ne parlano sia Gallo e Montanino tra di loro, sia Gallo con il titolare della Imi Security Service, Christian Ricci. Eppure nessuno di loro ha mai visto i contenuti della chat. «Te l'hanno chiesto se tu sapevi se loro ricevevano messaggi o qualcos'altro?», chiede Gallo, intercettato al suo superiore facendo riferimento a un interrogatorio a cui era stato sottoposto Ricci. «Sì, si - replica quest'ultimo - gli ho detto: "c'era tipo una community"». «Una chat!», insiste l'altro. «Eh, una chat, una cosa del genere, però io non l'ho mai vista! So che c'era però a me non mi hanno mai permesso neanche di vedere chi ci facesse parte - continua Ricci -. Io non ho mai visto il comandante vedere quella chat, so che ce l'aveva e arrivava sul telefono del team leader di Save the Children! Gli ho detto che noi ci andavamo perché arrivava il messaggio lì a quello di Save the Children e noi andavamo dove diceva lei». Su questo punto MeridioNews si riserva di pubblicare la versione di Save the children a cui ha chiesto una replica. 

LE ACCUSE DA PARTE DELLA GUARDIA COSTIERA. Il 10 maggio del 2017 i gommoni della Iuventa sarebbero entrati in acque territoriali libiche senza il permesso della centrale operativa della Guardia costiera di Roma. A documentarlo sarebbe stato un aereo della stessa Guardia costiera nel corso di una ricognizione. Questa circostanza sarebbe stata prima negata dal comandante della Iuventa al personale della nave Diciotti, intervenuta nell'area dei soccorsi. E poi ammessa parzialmente dallo stesso comandante, interrogato dopo essere sbarcato a Lampedusa. In questa sede l'uomo avrebbe sottolineato di essere entrato in acque libiche ma a motore spento, trascinato dalle correnti marine. 

LA MANCANZA DI COLLABORAZIONE CON LE AUTORITA' E IL CARTELLO FUCK IMRCC. Dalle carte emerge la resistenza fatta dall'equipaggio della Iuventa a rientrare nei porti italiani, spinti dalla volontà di rimanere sempre in prima linea nei soccorsi. Gli sbarchi a Lampedusa di maggio e giugno del 2017 avvengono dopo numerose richieste. A testimoniare l'atmosfera poco serena c'è anche un cartello che viene appeso alla prua della Iuventa con la scritta: Fuck Imrcc (Fanculo al Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo). Un cartello che non è passato inosservato al comandante della capitaneria di Lampedusa che, alla fine dell'ispezione, avrebbe risposto: «Però magari il cartello toglietelo». In realtà il principale motivo di scontro è rappresentato dalla richiesta di fornire elementi utili alle indagini, cioè video e foto, e informazioni sui trafficanti. Domande a cui la ong tedesca non risponde. Su questo aspetto, il giudice ricorda anche un'intercettazione in cui una donna di nome Katrin, a bordo della Iuventa, spiega «che loro (riferendosi ai suoi collaboratori), in caso di escussioni da parte delle autorità di polizia, si preparano a "tenere pulito tutto", evitando di consegnare materiale videofotografico relativo alle fasi dei soccorsi. La stessa ha aggiunto che non avrebbero mai fornito le immagini relative ai soggetti che conducono le imbarcazioni dei migranti, in quanto la polizia potrebbe arrestarli». 

L'ESCLUSIONE DI QUALSIASI FINALITA' DI LUCRO DA PARTE DELLA ONG. Nelle conclusioni, il giudice per le indagini preliminari Emanuele Cersosimonon ha dubbi nell'individuare gli estremi del reato di favoreggiamento all'immigrazione clandestina nelle azioni dell'equipaggio della Iuventa, ma ci tiene a sottolineare l'enorme distanza che c'è tra quest'ultimo e i trafficanti libici. Le azioni della ong tedesca avvengono «in una prospettiva di tutela esasperata dei migranti che accetta, prevede e vuole anche la violazione della norma penale italiana. Il che - continua il gip - non esclude che i membri della ong operino anche in vista di un ritorno economico, ma si tratta in ogni caso di una prospettiva che nulla ha in comune con quella delle organizzazioni operanti sul territorio libico». Per il giudice quindi sono «motivazioni agli antipodi rispetto a quelle delle organizzazioni criminali libiche» e quindi «gli appartenenti alla ong tedesca non vanno in alcun modo considerati come affiliati ai gruppi criminali operanti in territorio libico non condividendone né metodi, né finalità».

Approdo sbagliato, stavolta, per Gabanelli. Milena Gabanelli è stata autrice e conduttrice di Report, scrive Filippo Miraglia Vice Presidente dell’Arci il 16.07.2017 su “Il Manifesto".  In molti ci siamo chiesti come mai Milena Gabanelli, tra le poche giornaliste a fare in questi anni inchieste di valore su vicende scomode, abbia scelto di intervenire, da tempo ormai, su una questione complessa come l’immigrazione con un approccio ambiguamente «pragmatico». Nell’articolo apparso venerdì scorso, ancora una volta sulle pagine del Corriere della Sera, Gabanelli richiama le organizzazioni umanitarie, che operano in accordo con la nostra guardia costiera per fare operazioni di salvataggio, a forzare i porti di altri Paesi dell’Ue. In pratica invita quelle associazioni che salvano vite umane nel rispetto delle leggi, a fare ciò che il governo italiano non è riuscito ad ottenere: obbligare Francia e Spagna ad accogliere i migranti salvati davanti alle coste della Libia. La giornalista sembra ignorare che le Ong sono tenute a portare i naufraghi nel porto più vicino più sicuro, ossia in un porto italiano. Sembrerebbe un appello alla disobbedienza, giustificato dall’atteggiamento di chiusura dei governi dell’Ue, se non fosse che Gabanelli usa argomentazioni palesemente non vere e che, per l’ennesima volta, sostiene le politiche del Ministro Minniti, interprete della linea dura del governo sull’immigrazione. Colui che, secondo la giornalista, «si fa in quattro», per promuovere accordi con le tribù libiche per bloccare i porti, «con soldi dell’Ue». Si suggerisce così che i soldi non siano del contribuente italiano, perché Minniti fa gli interessi nazionali. Informazione non veritiera perché spendiamo soldi italiani per fornire servizi e strumenti ai libici: 200 milioni il fondo per l’Africa, più il finanziamento di motovedette alla guardia costiera libica. Non si dice inoltre che le stesse tribù sono quelle che, secondo testimonianze dirette e secondo l’Onu, torturano, ricattano, violentano e uccidono i migranti prima di metterli in mare con imbarcazioni precarie. Ovvero si trascura il piccolo dettaglio che il governo italiano stia promuovendo, con molta probabilità, accordi con dei veri e propri criminali. L’articolo poi inanella un’altra serie di amenità incredibili. A partire dalla considerazione che l’Italia sarebbe l’hub dell’Ue e omettendo che la Germania nel 2016 ha avuto più di 700 mila richieste d’asilo a fronte delle nostre 121 mila. Inoltre sostenendo, con lapidaria leggerezza e intrepida ignoranza, che il 90% di quelli che arrivano non sarebbero richiedenti asilo. I dati dello stesso Ministero dell’interno dicono tutt’altro. Quelli che arrivano in Italia sono quasi tutti richiedenti asilo, salvo alcune nazionalità che otterrebbero certamente asilo (eritrei, somali, siriani, sud sudanesi), ma che preferiscono andare nel nord Europa violando il regolamento Dublino per raggiungere familiari o amici. Ma soprattutto è necessario ricordare alla giornalista che anche negli ultimi mesi, il 40% circa dei richiedenti ottiene un titolo di soggiorno (protezione internazionale o umanitario) dalle Commissioni competenti. Chi non lo ottiene e fa ricorso, secondo i dati disponibili, almeno nella metà dei casi ottiene un titolo di soggiorno dalla sentenza di un magistrato. Quindi non meno di 7 richiedenti asilo su 10 alla fine ottengono un permesso di soggiorno. Altro che 10%. Purtroppo, i recenti interventi di Milena Gabanelli sull’immigrazione appaiono sempre più «organici», se si considera che quasi tutti oramai, da Renzi a Minniti, ai sindaci democratici, dal razzismo grillino alla destra xenofoba forza leghista, sostengono tesi simili: «c’è l’invasione», «aiutiamoli a casa loro», «l’Italia è sola», «blocchiamo le partenze», «chiudiamo i porti», «la colpa è delle Ong». Se è vero che i buoni sentimenti non potranno mai sostituire competenza e correttezza amministrativa, resta il fatto che le cose non vere, per quanto provengano dalla voce o dalla penna di personaggi autorevoli, non potranno mai ribaltare la verità e che è obbligo per tutti, anche per i «ministri che si fanno in quattro», il rispetto delle leggi e della Costituzione.

Le Ong possono forzare i blocchi negli altri porti, scrive Milena Gabanelli il 13 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". La dichiarazione universale dei diritti umani prevede per ogni cittadino il diritto ad uscire dal proprio Stato, ma non quello di entrare in un altro, l’ingresso è una concessione. In anni più recenti è stato introdotto l’obbligo di accogliere chi sta fuggendo da una persecuzione. Dove va tracciato il confine per attivare tale obbligo? Un problema complicato con il quale tutti stiamo facendo i conti. L’Italia è di fatto l’hub d’Europa da anni e lo sarà per decenni, e negli ultimi mesi il 90% non sono richiedenti asilo. Per impedire le partenze possiamo mettere un blocco navale davanti alla Libia? Sì. Può deciderlo il nostro Governo? No, serve l’esplicita richiesta di Tripoli. Potrebbe farlo? Forse, ma solo il giorno in cui le agenzie dell’Onu, che hanno già intascato dall’Ue 90 milioni, saranno in grado di allestire campi di accoglienza e identificazione. Per fare questo servono condizioni di sicurezza che ora non ci sono. Solo il nostro Ministro dell’Interno sta provando a farsi in quattro per costruire dialoghi e accordi con fazioni e tribù, formando e pagando (con i soldi dell’Ue) guardie costiere e di frontiera. Per il momento l’unica organizzazione che funziona è l’industria dei trafficanti di uomini, e il nastro trasportatore umanitario verso la Sicilia. Per frenare le partenze bisognerebbe ritirare le navi di soccorso. Opzione difficile da praticare. Possiamo invece chiudere i nostri porti alle Ong che battono bandiera non italiana? Sì, usando la stessa modalità con cui gli stati membri si rifiutano di accogliere le loro quote di richiedenti asilo, in violazione degli accordi Ue, senza che l’Ue abbia attivato alcuna sanzione. Alternativa: le Ong stesse potrebbero «forzare» la mancata condivisione delle responsabilità da parte degli Stati membri, poiché vivono di azioni «dimostrative» che sono all’origine del fundraising. Cosa accadrebbe se la Prudence di MSF, che è ben attrezzata, entrasse nel porto di Nizza con un carico di 500 migranti? Cosa farebbe Macron? Per saperlo bisognerebbe osare. Lo scenario è prevedibile: centinaia di volontari andrebbero in soccorso dei migranti a bordo, con cibo, indumenti, medicinali. Più l’attesa si prolunga e più il caso si allarga alla stampa mondiale. La stessa cosa si può replicare a Barcellona o a Malta. Alla fine qualcosa sui tavoli di Bruxelles succederà!

Alle Ong converrebbe «diversificare» le destinazioni, anche per non correre il rischio di contribuire, inconsapevolmente, ad una crisi sistemica, che qualche Fondo speculativo capitalizzerà. Crisi inevitabile, poiché sulla terra ferma si va avanti con il volontariato, le cooperative e associazioni, senza un progetto complessivo e controllato che solo una gestione pubblica può garantire. Il Prof Sciortino scrive: «L’immigrazione è un problema da gestire, al pari di tanti altri. Dove i buoni (o malvagi) sentimenti non potranno mai sostituire la competenza e la buona amministrazione».

CAOS MIGRANTI/ Tra siciliani incavolati e tedeschi ragionieri, ci sarà posto per il piccolo Cristo? Una nave di Sos Méditerranée ieri è sbarcata a Brindisi con 860 africani recuperati in mare. Tra loro anche il piccolo Cristo, camerunense, partorito in viaggio, scrive il 16 luglio 2017 Maurizio Vitali su "Il Sussuidiario". L'altroieri, 14 luglio, festa nazionale francese, e anche ieri, l'Italia è sembrata come la Bastiglia quando brigate di gente d'ogni risma vi penetravano come nel burro. Allons enfants! Qui adesso arrivano via mare, con navi che battono bandiere le più diverse, ed entrano nei porti senza remissione come chi ci passeggiasse ingioiellato sui tacchi a spillo. A Bari approda la Marina di Sua maestà britannica, con la nave Hms Echo che ce ne scarica 648, feriti, donne incinte e minori compresi. Poveri cristi africani sub-sahariani che hanno dato l'anima, i soldi e chissà cos'altro ancora per convergere sulla Libia e strapagare i negrieri dei barconi per arrivare sin qui in cerca di una vita. Un po' più a Sud, Corigliano Calabro, arrivano i tedeschi. Sempre nave della Marina militare, che si chiama Rhein, che sarebbe un fiume ma suona come un comando delle SS, e di sub-sahariani ne rovescia 923. I crucchi sono gente precisa: 595 uomini, 121 donne delle quali 14 incinte e 203 minori, è specificato nel rapporto, non si sa quanti accompagnati e quanti no. Londra o Berlino, sempre un cospicuo numero di donne incinte, va a sapere se per amore nonostante tutti i guai passati presenti e imminenti o per chissà che cos'altro. Ma è pur sempre vita che continua. Bellezza e, forse, speranza del generare. Sulle banchine c'erano tutti, dal commissario al sacrestano, come sul marciapiedi della stazione da cui partiva la Bocca di rosa di De André, forze dell'ordine, Asl, Ussl, Arpa, protezione civile, Ong, chissà se con gli occhi rossi e il cappello in mano. Che se non ci fossero bisognerebbe inventarli, perché qui ci sono due cose che forse solo in Italia possono convivere: quelli che ti vengono dentro come nel burro, senza una vera politica (per ora) in grado di governare ragionevolmente il fenomeno, e quelli che gli tocca farsi in quattro per evitare il peggio, cioè per mettere una pezza alla politica assente e metterci l'anima per curare degli uomini bisognosi. Occhio alle cifre. Quando fu chiusa, pagando, la rotta balcanica, l'Italia fece spallucce. Gestì male, parrebbe ormai evidente, la cosa e in cambio di 655 milioni dell'Ue si prese il coordinamento di tutto dal centro di Roma. Le cose andrebbero guardate di fino, e qui non c'è lo spazio. Resta che tutto il flusso viene dalla Libia, interessa il canale di Sicilia essendo la via più breve agli approdi, e chiunque vi passeggi col suo naviglio, marine militare o Ong che siano, salva i profughi e ce li rifila. Chi scrive è assolutamente favorevole all'accoglienza dei profughi. Nel limite del possibile. Senza accettazione del limite la politica è sbagliata o demagogica; e comunque la gente che si vorrebbe aiutare, così non la si aiuta. Nessuno può augurarsi di essere nei panni del ministro Minniti, chiamato a una "mission impossible". Che è quella di trattare con la Libia (lui sostanzialmente da solo) mentre l'Europa raccomanda, esorta e offre indirizzi non vincolanti ai paesi membri, tipo: mi raccomando, contribuite per quanto dovuto al fondo "aiutiamoli a casa loro" (aiuto all'Africa sub-sahariana: sarebbero 2,8 miliardi di euro, i membri hanno scucito solo 378 milioni, il 13 per cento). Deve trattare con la Libia... che non c'è più, perché al Serraj — l'uomo riconosciuto dall'Onu e dalla Ue — comanda, sì e no, alcuni quartieri di Tripoli; a Tobruk c'è il generale Haftar che non è riconosciuto ma comanda un bel pezzo di Libia, molto più grande. E poi tutti gli altri capi fazione e capi tribù che spezzettano il territorio come un bottino di guerra. Chi passeggia alla grande, ormai è chiaro, sulle inchieste di diverse Procure sono certe Ong: divenute, alcune, un radio-taxi a chiamata dei barconari dalle acque libiche alle nostre, un Huber dei nuovi negrieri. Sono non italiane e agiscono come se fossero sussidiarie del governo di Roma. Non va bene. Non hanno un mandato italiano, non lavorano neanche in outsourcing. E comunque basta confondere l'outsourcing ben pagato con la sussidiarietà; e questa con il volontariato; e il volontariato (stipendiato) con solidarietà o addirittura carità. Qui sarebbe meno impossibile cambiare rotta. Poi c'è l'Italia brancaleonica che non si smentisce mai. Ieri il prefetto di Messina ha mandato 50 profughi in un ex-hotel, Il Canguro, che — attenzione — è nel territorio di  Sinagra, provincia di Messina, ma molto vicino al comune di Castell'Umberto, il cui sindaco ha deciso di sbarrare l'ingresso dell'ex hotel con la propria fascia tricolore e la propria auto privata, sbagliando territorio di competenza, e trascinandosi poi un gruppo di castellumbertesi incavolati come dei Salvini ad assediare la struttura ex-alberghiera (della quale si trovano le recensioni su Tripadvisor e simili). No pasaràn. Peccato che i profughi fossero già dentro. E allora, niente luce: visto che l'energia elettrica era tagliata per morosità da cinque anni, picchetto duro contro l'introduzione di un generatore. No pasarà il generatore. Un casino simile c'era forse nella Palestina del 750 dalla fondazione di Roma. Gli Erodi si ruffianavano con la Siria romana, i romani arricchivano gli esattori per drenare denari, molti invocavano il salvatore ma non avevano la minima idea di chi dovessero attendere. Nacque un bimbo, tra una migrazione e l'altra: quella verso Betlemme per il censimento e quella in Egitto per salvare la pelle dalla furia del re. Beh, ieri, nel passaggio tra un gommone stracarico e un guardapesca denominato Acquarius di una Ong francese, la Sos Mediterranée, che ha depositato a Brindisi 860 africani, una giovane camerunese ha partorito felicemente un bel bimbo e l'ha chiamato Christo, o Chris, o senza la acca... non è questione di sottigliezze. Embé? E se le forze che cambiano la storia fossero quelle che cambiano il cuore dell'uomo?

Guinzaglio alle Ong Sbarchi vietati in Italia a chi non firma il codice. Le nuove regole del Viminale approvate dalla Ue Per alleggerire la Sicilia si valutano altri porti, scrive Chiara Giannini, Sabato 15/07/2017, su "Il Giornale". Il ministro dell'Interno, Marco Minniti, non ha perso tempo e, in pochi giorni, ha presentato il codice di condotta per le Ong impegnate nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo. Codice che è stato approvato dalla Commissione europea e che ora passa nuovamente al Viminale in attesa che da lunedì, su invito dello stesso ministro, le organizzazioni non governative possano rispondere all'appello sottoscrivendo il testo completo. Chi deciderà di non firmare non potrà sbarcare migranti nei porti italiani. E per alleggerire la pressione su quelli della Sicilia, ieri Minniti ha espresso l'intenzione di utilizzare anche altri approdi, tra cui quello di Civitavecchia, oltre Salerno e Reggio Calabria. La misura sulle Ong è stata presa proprio per regolamentare gli sbarchi. La guerra ai trafficanti di esseri umani è iniziata sul serio. Lo ha dimostrato il vertice dell'altro ieri in Libia, dove lo stesso ministro ha incontrato alcuni sindaci per chiedere loro di collaborare, in cambio di futuri investimenti, per annientare il fenomeno del traffico di migranti. Il testo, voluto anche dai ministri dell'interno europei, che regolamenta il lavoro delle Ong nel Mediterraneo, è chiaro. Nessuna loro nave potrà più entrare in acque territoriali libiche. Un punto, questo, che creerà non pochi problemi alle organizzazioni più grandi. Save the children ha ammesso a più riprese di averlo fatto. Un comportamento che aveva sollevato polemiche anche in seguito all'indagine conoscitiva del procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, il cui lavoro sta andando avanti e che, insieme a quello dei colleghi delle altre tre procure che stanno operando in questa direzione, porterà sicuramente a dei risultati. Tra i divieti anche quello di spegnere il transponder di bordo, di accendere le luci per farsi individuare dai barconi e di invogliare, attraverso telefonate, la partenza degli immigrati. Inoltre, le Ong dovranno collaborare con le autorità sia italiane che europee fornendo tutte le indicazioni utili all'individuazione di scafisti e trafficanti di uomini, acconsentendo a far salire la polizia italiana a bordo per controlli e verifiche, producendo l'elenco dettagliato dei finanziatori, notificando immediatamente i soccorsi appena avvenuti e, infine, recuperando il motore dei barconi da cui vengono salvati i migranti. Che cosa accadrà a chi non firmerà e, di conseguenza, non accetterà le regole? Oltre al divieto di ingresso nei porti italiani, le Ong potranno essere segnalate alle autorità dei Paesi di appartenenza e subire delle ispezioni a bordo. Un documento che è stato fortemente apprezzato dall'Europa che, nonostante abbia lasciato sola l'Italia nell'accoglienza migranti, almeno mostra vicinanza nelle norme di deterrenza del fenomeno immigrazione. «L'obiettivo - ha detto la portavoce della Commissione europea per le migrazioni, Natasha Bertaud - è di fornire un chiaro insieme di regole per come le imbarcazioni private che portano a termine operazioni di ricerca e soccorso operano e interagiscono con le operazioni marittime dell'Ue e con le autorità di altri Stati rivieraschi». Intanto, dopo una settimana di stop, forse dovuto al maltempo, i migranti in arrivo nei porti italiani sono oltre seimila. Un dato che evidenzia che, almeno per ora, non è cambiato niente.

"Dalla passione alla rabbia". Daniele Contucci racconta lo scandalo migranti, scrive, Mercoledì 28 giugno 2017, "Affari Italiani”. "Esiste una morsa che schiaccia chi non vuole stare nel calderone della reticenza. C’è chi ha voluto (e ancora vuole) schiacciarmi, umanamente e professionalmente. Ha avuto piccole vittorie, questo è vero, ma non mi ha sconfitto. E questo vuol dire che, la Libertà, è uno spazio concesso solo a chi è capace di resistere". E' disponibile il libro di Daniele Contucci, "Dalla passione alla rabbia", che svela tutto quello che non funziona nella gestione del business dei migranti.

Immigrati, il poliziotto Daniele Contucci racconta tutta la verità. Daniele Contucci, assistente capo della Polizia di Stato in forza presso la Direzione centrale immigrazione e Polizia delle Frontiere, ora dirigente sindacale Consap, racconta la sua esperienza sul campo in tema di migranti in una lunga intervista a Lorenzo Lamperti su Affaritaliani.it di Sabato, 9 maggio 2015.  Daniele Contucci, assistente capo della Polizia di Stato in forza presso la Direzione centrale immigrazione e Polizia delle Frontiere, ora dirigente sindacale Consap, racconta la sua esperienza sul campo in tema di migranti in una lunga intervista ad Affaritaliani.it.

Daniele Contucci, quando comincia la "scomoda" vicenda che ti riguarda?

«Comincia quando facevo parte dell'U.R.I., l'unità specializzata di rapido intervento sull'immigrazione, dipendente dalla Direzione centrale di polizia di frontiera che coordina tutti gli uffici immigrazione in Italia e la missione Mare Nostrum ora Triton. Si tratta di un'unità creata dal prefetto Ronconi quando il ministro dell'Interno era Roberto Maroni per velocizzare le pratiche degli uffici immigrazione, poco prima dell'emergenza legata alla primavera araba e gli sbarchi dal Nordafrica, anche se gli arrivi di allora sono niente rispetto a quelli che ci sono adesso».

Di che cosa vi occupavate?

«Venivamo impiegati in tutte le località italiane per emergenza immigrazione. Il nostro intervento è stato fondamentale per velocizzare le pratiche dei permessi di soggiorno che avevano un arretrato incredibile. Eravamo in una ventina, spesso impiegati al centro di accoglienza del Cara di Mineo, uno dei centri richiedenti asilo più grandi d'Europa. Facevamo "interviste" che duravano circa 20 minuti durante le quali ricostruivamo tutta la storia del migrante: generalità, stati attraversati e tutto il resto. Di fianco a noi c'era un interprete e veniva compilato un modello chiamato C3, che veniva poi inserito nel database e inviato alla commissione territoriale locale che dopo una serie di accertamenti decideva se concedere o meno l'asilo politico».

Quanto tempo faceva risparmiare il vostro intervento?

«Moltissimo. I tempi della procedura di richiesta asilo si erano abbassati da 18 a 6 mesi. Tutto ciò ha comportato anche un grosso risparmio. Considera che ciascun migrante costa circa 45 euro al giorno. Moltiplicando la cifra per 4 mila volte, la capienza del Cara di Mineo (con una presenza media costante di 3500 migranti), si potrà avere un'idea di quali cifre stiamo parlando».

Si parla di cifre altissime...

«Esatto, peccato che l'emergenza faccia business. Lo hanno dimostrato recenti inchieste giudiziarie: c'è chi lucra sull'emergenza dei migranti. Ormai è diventato un business più redditizio di quello della droga».

Per chi è un business?

«Per i trafficanti di esseri umani innanzitutto. Ma anche per i posti che ospitano un centro come il Cara di Mineo, dove si crea anche un notevole indotto economico. Ci sono poi anche alcuni albergatori che sono felici di riempire i loro hotel».

Poi che cosa è successo a questa unità?

«E' successo che è stata praticamente smantellata. Io e i miei colleghi siamo stati tutti demansionati e mandati a svolgere altri compiti. Io ormai sono malvisto in Polizia. Tutto perché ho avuto il coraggio di denunciare fatti concreti e molto gravi».

A che cosa ti riferisci?

«Ho partecipato con altro personale allo sbarco di Augusta dello scorso giugno. Siamo stati un giorno e mezzo a trattare circa 1200 migranti, dei quali 66 con la scabbia e diversi con tubercolosi conclamata. Siamo entrati in contatto per 36 ore con queste persone senza l'equipaggiamento necessario. Nonostante i protocolli scandissero chiaramente i presidi da adottare per tutelare e preservare gli operatori dal contagio di agenti patologici infettivi quali scabbia, tubercolosi e altro, venivamo mandati allo sbaraglio con dei semplici guanti in lattice e mascherine monouso. Non ho nemmeno potuto vedere mio figlio appena nato fino al compimento del suo secondo mese di vita per evitare ogni possibile contagio. Finito tale periodo ogni incubazione si sarebbe conclamata, per cui solo allora e dopo essermi sottoposto ad analisi private ho potuto riabbracciare mio figlio. Una cosa che mi ha davvero creato una grande rabbia».

Quando avete denunciato l'accaduto?

«Il 2 luglio ho convinto i colleghi a fare richiesta al direttore centrale per un controllo sanitario. Due giorni dopo il capo della Polizia Pansa emette una circolare dove si dice di sottoporre i colleghi a contatto con i flussi migratori a un test tubercolare, ribadendo in realtà due circolari esistenti del 2002 e del 2009, applicate da alcune questure ma non dalla Direzione centrale della Polizia di frontiera. Il 25 luglio poi il caso è diventato mediatico grazie alla Lega Nord e all'onorevole Molteni che ha presentato un'interrogazione parlamentare, alla quale il ministro Alfano non ha ancora risposto. Nel frattempo noi siamo stati fermati e demansionati. E' un momento difficile, per fortuna c'è il sostegno che mi ha dato la Lega che ha fatto esplodere mediaticamente il caso. Anche su Facebook tante persone mi seguono e mi sostengono».

Facebook è stata un'ancora di salvezza?

«Per me sicuramente, per altri invece è diventato un tribunale. Il grande Antonio Adornato è stato trasferito solo per aver messo un "mi piace" a un posto del mio amico Fabio Tortosa sulla Diaz. Un post nel quale non si diceva che aveva picchiato qualcuno ma solo che avrebbe sempre obbedito agli ordini».

Come avete preso all'interno della Polizia il trasferimento di Adornato?

«Male, molto male. Ci è apparso un contentino a chi protesta. E quello che è successo a Milano coi black bloc è una conseguenza di quello che è successo, perché si è dovuto per forza far vedere che la Polizia non fa violenza. Non abbiamo potuto fare nulla altrimenti sarebbe scoppiato l'inferno».

Tornando un attimo al deficit di tutela sanitaria, perché pensi che, come tu sostieni "vi mandassero allo sbaraglio"?

«Ci sono dei costi per fare le cose come andrebbero fatte. Semplicemente si opera come al solito all'italiana pensando che tanto alla fine vada sempre tutto bene e nessuno si lamenti. La realtà è che, anche se nessuno lo dice, in tanti poliziotti hanno la tubercolosi latente. Finché nessuno avesse avuto il coraggio di denunciare la situazione non sarebbe cambiato nulla. Ora per fortuna è stato diramato un vademecum e le cose sembrano migliorate. Ma per una cosa del genere in un paese normale si chiede conto a qualche pezzo grosso, qui da noi no».

Ma i filtri sanitari sui migranti in arrivo funzionano?

«Le visite mediche duravano in media 3-4 minuti a testa. Come si può pensare che si facesse un'analisi sanitaria seria e approfondita? E' chiaro che si vedono solo le cose più evidenti, ma delle malattie in incubazione non te ne potevi accorgere. Ora hanno aumentato un po' la durata delle visite ma il discorso cambia poco».

E il filtro per la sicurezza?

«Nel 2014 sono sbarcate 170 mila persone e 100 mila sono sparite nel nulla. L'80% circa di queste persone non è nemmeno stato fotosegnalato. Non sappiamo chi sono e quali sono le loro intenzioni. Esiste un serio pericolo terrorismo, anche dalla Francia hanno lanciato l'allarme. Il problema è con quei numeri di arrivi è impossibile fotosegnalare tutti. Ora il trattato di Dublino imporrà la fotosegnalazione obbligatoria, con conseguenze incredibili dal punto di vista dei tempi e dei costi, che rischiano di espandersi a dismisura».

Quanto sono adeguate le politiche comunitarie?

«In realtà Mare Nostrum e Triton hanno creato e stanno creando delle conseguenze negative. Con Mare Nostrum si andavano a prendere i migranti a 10 miglia dalle coste libiche (vale a dire 16 chilometri). Ora con Triton le miglia dovrebbero diventare 30. Il problema è che come ho sentito con le mie orecchie prima di questi progetti un migrante pagava 4-5 mila euro per il viaggio verso l'Italia, ora ne paga 700-800 perché ovviamente i rischi, sempre altissimi, sono diminuiti».

Come si potrebbe risolvere la situazione?

«Fermare il singolo scafista non serve a nulla, sono come i pusher. Bloccato uno ne arrivano altri 10. Bisogna arrivare alle origini del fenomeno, facendo lavorare le diplomazie. All'estero ci sono consolati e ambasciate italiane. Si potrebbe gestire la cosa nei paesi d'origine organizzando e gestendo le richieste d'asilo direttamente presso le nostre diplomazie all'estero. In quel modo la gente potrebbe sapere che c'è una strada normale e ordinaria per arrivare in Italia e si toglierebbe un business mortale dalle mani dei trafficanti di esseri umani. Poi servirebbe un'operazione "cuscinetto" sotto l'egida dell'Onu creando dei campi sosta per selezionare da lì i richiedenti asilo. Purtroppo invece si preferisce la politica delle lacrime di coccodrillo e delle morti annunciate.»

Che cosa significa oggi essere un poliziotto in Italia?

«Oggi purtroppo tanti poliziotti non si sentono tutelati. E purtroppo anche i vertici non ci hanno sempre difeso nella maniera adeguata. Per tante persone sembra quasi che indossare una divisa sia una colpa. Ma dietro la divisa c'è Daniele Contucci, un ragazzo normale, libero nel pensiero e con una famiglia. Io posso parlare grazie al fatto che sono un dirigente sindacale Consap altrimenti non potrei farlo. In Italia c'è un partito dell'antipolizia e capita che davanti a certe cose ti cadono le braccia e ti chiedi: "Ma perché lo sto facendo?"»

"Immigrati, così funziona il business". Parla il poliziotto Daniele Contucci. Daniele Contucci, assistente capo della Polizia di Stato in forza presso la Direzione centrale immigrazione e Polizia delle Frontiere, ora dirigente sindacale Consap, racconta, Giovedì 4 giugno 2015, a Lorenzo Lamperti su Affaritaliani.it la sua esperienza al Cara di Mineo alla luce dell'inchiesta Mafia Capitale sul business dei migranti. Daniele Contucci, assistente capo della Polizia di Stato in forza presso la Direzione centrale immigrazione e Polizia delle Frontiere, ora dirigente sindacale Consap, racconta ad Affaritaliani.it la sua esperienza al Cara di Mineo alla luce dell'inchiesta Mafia Capitale sul business dei migranti.

Daniele Contucci, qual è la tua esperienza sul campo al Cara di Mineo?

«Facevo parte di questa task force specializzata in materia di immigrazione, l'U.R.I. (unità specializzata di rapido intervento sull'immigrazione). Venivamo impiegati in tutte le località italiane per emergenza immigrazione. Eravamo in una ventina, spesso impiegati al centro di accoglienza del Cara di Mineo, il centro richiedenti asilo più grande d'Europa».

In che cosa consisteva il vostro lavoro?

«Facevamo "interviste" che duravano circa 20 minuti durante le quali ricostruivamo tutta la storia del migrante: generalità, stati attraversati e tutto il resto. Di fianco a noi c'era un interprete e veniva compilato un modello chiamato C3, che veniva poi inserito nel database e inviato alla commissione territoriale locale che dopo una serie di accertamenti decideva se concedere o meno l'asilo politico».

Come è organizzato il Cara di Mineo?

«Dentro è una vera e propria città, è immenso. A pieno regime è adibito alla ricezione di 4 mila migranti. Col tempo dentro si era creata una vera e propria casba, con tanto di negozi ma anche microcrminalità e sfruttamento della prostituzione. Spesso lì dentro lasciavano fare per non creare tensioni».

Ti ha sorpreso quanto è emerso dall'inchiesta di Roma?

«Per niente, sembra anzi che abbiano letto la nostra precedente intervista... E' evidente che si tratta di un grande business. Me ne sono accorto quando la nostra unità è stata praticamente smantellata dopo che avevamo velocizzato le pratiche di ricezione e richiesta di asilo politico abbassando il tempo medio dai 18 mesi precedenti a 6-7 mesi. Il tutto con un risparmio molto grande, se si considera che tenere un immigrato al Cara di Mineo costa 45 euro al giorno, persino 90 se si tratta di un minorenne. Se si moltiplicano questi numeri per 10 mesi si capisce di che cosa si sta parlando e della portata del business».

Quali altri aspetti bisogna considerare per comprendere il business?

«Bisogna pensare che dentro a questi centri ci sono vere e proprie città. All'inizio il Cara non lo voleva nessuno ma poi è stato capito il tornaconto economico che genera. Dentro ci lavorano 200-300 persone tra servizi di alloggio, mensa, idraulica, giardinaggio e tutto il resto. Per non parlare dell'indotto economico o degli aspetti legali. Sono cifre che fanno gola. Il risultato è che si è creata una situazione molto difficile da sradicare».

Pare che l'Anticorruzione avesse segnalato la gestione degli appalti e ora si parla di commissariamento.

«Sì, ma qui si lavora sempre sull'emergenza per quanto riguarda l'immigrazione e grazie a questo c'è fretta nell'assegnare gli appalti e per forza di cose si saltano alcuni step. Il risultato, non secondo me ma secondo chi sta indagando su questi fatti, è che anche Mafia Capitale ci ha messo su gli occhi».

Mentre lavoravi al Cara di Mineo hai avuto la sensazione che c'era chi non volesse velocizzare le pratiche?

«La nostra unità era nata proprio per quel motivo, ma ciò che è successo dopo mi ha fatto pensare che in effetti questa volontà non c'era, o quantomeno non c'era più».

Dalla tua esperienza credi che l'Italia sia in grado di rispondere alle richieste dettate dell'Ue per la redistribuzione degli immigrati?

«Il punto è che l'Ue vuole solo immigrati di un certo tipo. Si potranno spostare solo rifugiati, soprattutto eritrei e siriani, che scappano dalla guerra, mentre tutti gli altri clandestini resteranno in Italia».

Daniele Contucci paga per aver detto la verità su C.A.R.A. e immigrati. L'agente Daniele Contucci paga sulla sua pelle l'aver voluto raccontare la verità sul C.A.R.A. di Mineo, scrive Martedì 13 ottobre 2015 "Affari Italiani".  La Task Force della Polizia di Stato specializzata in materia di immigrazione denominata URI, Unità Rapida Intervento, di cui faceva parte Daniele Contucci, ASSISTENTE CAPO DELLA POLIZIA DI STATO, in forza presso la DIREZIONE CENTRALE IMMIGRAZIONE E POLIZIA DELLE FRONTIERE, ora Dirigente del Sindacato di Polizia Consap, ha deciso di raccontare la verità su C.A.R.A di Mineo con voce chiara e forte facendo luce su Mafia Capitale e nel traffico illecito degli immigrati, carne umana che raccoglie miliardi di euro tra loschi trafficanti e non solo, Uomo di provata esperienza, Daniele Contucci, grida per ottenere giustizia e libertà a scapito della propria persona e a noi ha dato prova di grande fiducia nel rilasciarci una intervista che portiamo a vostra informazione affinché sappiate verità su C.A.R.A di Mineo che vengono taciute e per questo chi osa ribellarsi alle Autorità costituite subiscono ritorsioni e vessazioni. Nella sua intervista ad Affaritaliani.it, Daniele Contucci spiega come la Task Force demansionata e resa non operativa, in pratica chiusa e attualmente ora lui stesso sta subendo vessazioni e ritorsioni a questo punto ci si pone delle domande interessanti da farsi e ben tre interrogazioni parlamentari di diversi gruppi politici diversi sono stata inoltrate ed in attesa di risposta, tra cui una proprio per causa della loro esposizione ad agenti patogeni e sono diversi i casi di agenti della polizia con ipotesi di positività di malattie infettive; che potrebbero aver contratto, mentre le altre due contemplano il motivo per il quale i Vertici di Sicurezza hanno disabilitato la Task Force di C.A.R.A. di Mineo, un reparto che comunque ha dato ottimi risultati con considerevoli risparmi considerando l'alto costo degli immigrati che grava sulle spalle dei cittadini oppure quali altri interessi occulti si celano dietro a queste persone che hanno fatto un viaggio della speranza e che comunque sono assistiti dal governo italiano con tanto di villini con parabola, aria condizionata, cellulari ultima generazione. Interrogazioni parlamentari a cui si dovrà dare un seguito e chiarire una situazione inammissibile e inaccettabile per chi è stato in prima linea in questo luogo che a quanto pare è un centro sul quale speculare non solo sugli agenti di polizia preposti ma anche sugli esseri umani che ci vivono e ci ripetiamo sulle spalle di cittadini italiani che forse avrebbero più bisogno di un aiuto che i migranti; risposte che sono attese da chi ha rischiato infezioni e vita insieme.

Terrorismo. Una parola che ha sempre angosciato e messo in guardia chiunque ne sia soggetto, attualmente tutto il mondo è sotto questa minaccia drammatica che l'organizzazione Isis ha messo in pratica in Francia con due attentati di una gravità eccezionale, con vittime innocenti e distruzione, ma l'inizio è stato il terrificante 11 settembre 2001, dove la strage è stata immensa, già da allora si doveva iniziare una capillare sorveglianza senza aspettare ulteriori drammatici eventi che si sono verificati, ma chi ha la responsabilità di tutto questo e cioè la mancanza di attenzione, dove sta la negligenza delle istituzioni che sono al Vertice della sicurezza di ogni singola Nazione, cosa ha permesso all'organizzazione Isis questo eccidio di massa? proviamo con l'aiuto di un addetto ai lavori, Daniele Contucci, a capire e svelare delle verità nascoste ai cittadini che ignari non sanno quali giochi di potere occulti si celano dietro a queste grandi tragedie e sono costretti a subire l'egemonia della morte e del terrore. In un nostro precedente post C.A.R.A. DI MINEO: DANIELE CONTUCCI PAGA SULLA SUA PELLE RACCONTANDO LA VERITA' SUL CENTRO RICHIEDENTI ASILO POLITICO! GIUSTIZIA E LIBERTA' NON HANNO PIU' VALORE PER IL POTERE MA LO HANNO PER I CITTADINI!, Daniele Contucci,ASSISTENTE CAPO DELLA POLIZIA DI STATO, in forza presso la DIREZIONE CENTRALE IMMIGRAZIONE E POLIZIA DELLE FRONTIERE, ora Dirigente del Sindacato di Polizia Consap, ha voluto svelare, mettendo a rischio la sua persona, le verità che non tutti sanno su C.A.R.A. di Mineo, infatti ha subito ritorsioni, da chi lo doveva sostenere e proteggere, dando luogo, per questo motivo, a interrogazioni parlamentari per difendersi e difendere il suo senso di giustizia e onestà nel rivelare situazioni occulte che hanno permesso a personaggi dei Vertici di Sicurezza ad avere avanzamenti di carriera piuttosto che essere colpevolizzati dalle situazioni che andremo a spiegare qui di seguito.

Dai dati raccolti si sa che nel 2014 sono sbarcati in Italia ben 170 mila migranti di cui 55 mila non fotosegnalati e nel 2015 da gennaio a settembre 120 mila immigrati sbarcati di cui 40 mila non fotosegnalati, e qui vi rimandiamo all'articolo apparso al 9 maggio 2015 su AffariItaliani Immigrati, il poliziotto Daniele Contucci racconta tutta la verità, dove Daniele Contucci racconta in un'intervista ciò che ha dovuto subire e a seguire il demansionamento e successiva chiusura della Task Force URI, di cui faceva parte,  dove si operava per la procedura per i richiedenti asilo politico, anche secondo le vigenti disposizioni del Trattato Dublino, che obbliga il primo Paese di approdo, accogliente i migranti di farsi carico dell'asilo e di conseguenza essere ben fotosegnalati. Quindi quasi 100 mila migranti in Italia non sono stati fotosegnalati, si sono sparsi per tutta Europa, e chissà se qualcuno tra questi potrebbe essere infiltrati in organizzazioni i terroristiche e di conseguenza pericolosi per la sicurezza nazionale ma anche in quella europea, ma i Vertici di Sicurezza, attualmente, son sempre gli stessi e i Responsabili, che dovevano attenersi alle regole e non lo hanno fatto, in alcuni casi invece di essere penalizzati sembra addirittura avanzati di grado, intollerabile e inammissibile alla luce degli ultimi eventi, d'altra parte il rischio di infiltrazioni terroristiche non sono aleatorie e senza consistenza considerati gli allerta dei Servizi Segreti italiani. Piangere i morti per atti terroristici è giusto, prima però bisogna prevenire per non avere altre tragedie ormai già viste, il pericolo dei mancati fotosegnalamenti con la dispersione dei migranti a macchia d'olio per tutta Europa è una minaccia da non sottovalutare né da prendere sotto gamba, infiltrati nei circuiti delinquenziali mettono in serio pericolo non solo l'Italia ma l'intera Sicurezza Europea e non basta,  attualmente l'Italia non è più credibile per il motivo su citato ma per i tempi lunghi per la definizione di domanda d'asilo, dallo sbarco alla decisione della Commissione intercorrono ben 18 mesi che, attualmente, si sono ridotti a 12, come si rileva da una intervista su Affari Italiani e sulle interrogazioni parlamentari si Angelo Tofalo e Paolo Grimoldi su C,A,R,A. di Mineo.

Anche per quanto riguarda gli hotspot abbiamo ampiamente discusso il tema su un nostro post pubblicato il 24 settembre 2015: MIGRANTI: GESTIONE DELLA UE CON HOTSPOT RICOLLOCAMENTI RIENTRI MATTEO RENZI SODDISFATTO ANGELA MERKEL PIU' CAUTA NON ESISTE ANCORA SOLUZIONE COMPLETA; in effetti l'Ue ha commissariato anche l'Italia per strutture rivolte alla identificazione rapida e uno smistamento urgente, dopo una breve intervista, ai migranti cd economici da rimpatriare e questo sotto l'egida dell'Europol (ufficio polizia europea), Easo (agenzia europea diritto asilo), inoltre si innesca anche l'Eurojust (cooperazione giudiziaria tra autorità nazionali contro criminalità), Frontex (agenzia europea gestione cooperazione internazionale frontiere esterne stati membri), strutture che servono ad arginare e controllare personaggi delinquenziali che possono infiltrarsi e creare morte e distruzioni con attentati, e ci si impone una domanda lecita: come hanno fatto ben 100 mila migranti a sfuggire a queste maglie di controllo e prevenzioni diramandosi in tutto il territorio europeo? Hotspot estesi a Lampedusa, Trapani, Pozzallo, Porto Empedocle, Augusta e Tarantro i cui Centri dovrebbero ospitare solo 1500 migranti; ma anche in Grecia funzionano gli hotspot mentre l'Ungheria si oppone, la Turchia invece che è un porto di transito della rotta balcanica, l'Unione Europea stanzierà ingenti fondi per creare campi profughi e per il contenimento dei flussi migratori.

Ma si deve anche analizzare la sicurezza delle forze dell'ordine italiane che attualmente sono poco attrezzate e male equipaggiate per far fronte alla minaccia del terrorismo, e non saranno certamente gli 80 euro di bonus promessi a salvar loro la vita ma strumenti e auto in grado di sbarrare gli atti terroristici, ma con auto con più di 200 mila chilometri e auto con batterie scariche (significativa foto di un auto in panne davanti a Palazzo Chigi con cavi elettrici collegati ad altra auto Polizia per caricarne la batteria, foto che ha fatto il giro del web!); o con le pistole Beretta semiautomatica Beretta 92FS calibro 9 mmm con caricatore 15 colpi prodotta nel 1975, Pistola mitragliatrice Beretta PM12 calibro 9 mmm con caricatore da 32 colpi prodotta nel 1961 cosa possono fare contro il fucile d’assalto KALASNIKOV calibro 7,62 x 39 mm 600 colpi al minuto usati nell'attentato in Francia? Senza contare i giubbotti antiproiettili in dotazione alle forze dell'ordine: Livello 2 protegge da proiettili 9 mm, 357 Magnum ma non da colpi 7,62 di Kalasnikov, dove in questo caso servirebbe giubbetto livello 3 con lastra interna, sapendo poi che questi giubbotti hanno una scadenza, dopo 5 anni dalla produzione non sono più in grado di proteggere l'agente durante un attacco come avvenuto a Parigi, sapendo poi che le forze dell'ordine non hanno una preparazione specifica, un addestramento mirato a contrastare il terrorismo, di cosa possiamo parlare a questo punto? di una forte negligenza, di una noncuranza dei Vertici di Sicurezza che non hanno assolutamente a cuore né le forze dell'ordine, salvaguardando loro la vita, né tanto meno la sicurezza, per cui sono profumatamente pagati, dei cittadini; e qui ci si pone un'altra domanda: ma quali interessi occulti si celano dietro a queste inammissibili e inqualificabili negligenze?

La storia dei “taxi per migranti”. Cosa c'è di vero nelle teorie per cui le Ong collaborano con gli scafisti (e complottano per destabilizzare l'economia italiana), scrive “Il Post” il 27 aprile 2017. Nelle ultime settimane alcune organizzazioni non governative che operano servizi di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale sono state accusate di essere dei “taxi per i migranti”: in maniera più o meno inconsapevole, queste organizzazioni benefiche aiuterebbero scafisti e trafficanti di esseri umani a trasportare migliaia di migranti in Italia. La questione è nata dopo che Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere europee, ha accusato alcune ong di aver indirettamente aiutato gli scafisti. Le accuse sono state riprese da numerosi giornali e politici di centrodestra e questa settimana ne ha parlato anche il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio del Movimento 5 Stelle, il primo a usare l’espressione “taxi per migranti”. A Di Maio ha risposto Roberto Saviano con un articolo su Repubblica e giovedì sulla questione si è espresso anche il procuratore di Catania, che da tempo sta indagando sui finanziatori delle ong e alla trasmissione Agorà ha confessato una serie di sospetti piuttosto originali, diciamo.

Quali sono le accuse?

Tutta la questione nasce alla fine del 2016, quando il Financial Times pubblicò alcuni stralci di un rapporto di Frontex in cui veniva segnalato il comportamento di alcune ong non specificate. In particolare venivano citati tre episodi, senza date, nomi o altri dettagli. In un caso, scriveva Frontex, alcuni migranti avevano ricevuto indicazioni al momento della partenza dalle coste libiche su dove avrebbero potuto trovare una nave delle ong. Nel secondo, Frontex dice di aver ricevuto informazioni su un caso di trasbordo diretto di migranti da un’imbarcazione di trafficanti a una nave delle ong. Nel terzo si parla di alcuni migranti che sarebbero stati avvertiti dal personale di una ong di non collaborare con la guardia costiera italiana o con gli uomini di Frontex. Tre mesi dopo l’articolo del Financial Times, il capo di Frontex, Fabrice Leggeri, ha dato un’intervista a Die Welt in cui è stato molto critico nei confronti delle ong, ma senza ripetere nessuna delle tre specifiche accuse pubblicate dal Financial Times. Leggeri sostiene che le ong che operano a largo della costa libica costituiscono un incentivo indiretto ai trafficanti, che li spinge a utilizzare barconi in condizioni sempre peggiori e tentare la traversata anche con il brutto tempo, nella certezza che le ong arriveranno in loro soccorso. Inoltre, Leggeri accusa le ong di non collaborare a sufficienza con Frontex. Queste accuse, più indirette di quelle contenute nel rapporto per uso interno pubblicato dal Financial Times, sono state espresse anche nel rapporto ufficiale di Frontex, pubblicato negli stessi giorni. In particolare, nel rapporto di febbraio Frontex sostiene che l’attività delle ong a ridosso della costa libica produce «conseguenze non volute». Secondo Frontex le benintenzionate operazioni sotto costa delle ong rischiano di «attrarre i trafficanti» che organizzano viaggi con imbarcazioni stracariche e pericolanti, con lo scopo di farsi avvistare dalle imbarcazioni di soccorso. Frontex conclude il capitolo precisando che «tutte le parti coinvolte nelle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo centrale contribuiscono senza volerlo ad aiutare i criminali a raggiungere i loro obiettivi». Tutte le parti significa le ong ma anche la Guardia costiera italiana, Frontex e le altre navi militari impegnate in operazioni di pattuglia, per le stesse ragioni.

Perché se ne parla ora?

Nel rapporto, Frontex spiega che le modalità di soccorso dei migranti sono cambiate molto nel corso del 2016. Fino a maggio 2016 gran parte delle operazioni di salvataggio iniziava in seguito a richieste di soccorso che provenivano dagli stessi barconi di migranti, i quali si mettevano in comunicazione con il centro di soccorso di Roma e chiedevano aiuto, spesso mentre si trovavano già in alto mare. In queste circostanze, le imbarcazioni delle ong prestavano assistenza in circa il 5 per cento degli incidenti. A partire dall’estate le chiamate sono diminuite molto e una grossa fetta delle operazioni ha iniziato a essere svolta da imbarcazioni di ong che operano a ridosso delle acque territoriali libiche. Nella seconda parte del 2016, secondo Frontex, le ong hanno partecipato al 40 per cento dei salvataggi. Nel 2016 14 imbarcazioni gestite da ong hanno svolto operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Alcune di queste organizzazioni sono molto famose, come Medici Senza Frontiere; altre invece sono utilizzate da piccole ong, alcune nate nel corso del 2016. Queste ong, che hanno sede in paesi come Francia e Germania, si finanziano come tutte le altre, cioè tramite donazioni di benefattori (importante: non vengono pagate per ogni migrante che trasportano in Italia, come è stato sostenuto da alcuni siti noti per diffondere notizie false). Secondo le ong, il loro intervento si deve in parte al fatto che le navi di soccorso militare si sono ritirate dal Mediterraneo centrale e oggi operano principalmente a ridosso delle acque territoriali italiane (sono le navi che fanno parte dell’operazione Triton, a cui sovrintende Frontex). Non sempre, quindi, è possibile rispondere rapidamente alle chiamate di soccorso e spesso le navi cargo – poco adatte ai salvataggi – devono essere inviate sul posto per cercare di recuperare i migranti. Fino al 2014, quanto terminò l’operazione Mare Nostrum iniziata nel 2013, erano invece le navi della Marina militare italiana a pattugliare il Mediterraneo centrale, arrivando spesso molto lontano dalle coste italiane. Le ong sostengono che operando a ridosso dalle coste libiche è molto più facile intervenire rapidamente per cercare di salvare i migranti.

Cos’è la storia dei “taxi”?

Gli stralci del rapporto interno pubblicato da Frontex, quello che ipotizzava possibili complicità tra trafficanti e ONG (accuse, come abbiamo visto, non più riprese successivamente), hanno portato giornalisti e politici, soprattutto di centrodestra e di estrema destra, a trarre conclusioni personali sull’operato delle varie ong coinvolte nelle operazioni di soccorso. È quello che ha fatto ad esempio uno studente di Comunicazione in un video che ha oltre due milioni di visualizzazioni su Facebook. Dopo aver riassunto alcuni punti del rapporto Frontex e aver mostrato su una cartina come le ong operino a ridosso delle coste libiche, lo studente fornisce la sua spiegazione al fenomeno, sostenendo che le ong aiutino migranti e trafficanti per fare affari; lo studente rimanda quindi alla lettura di un libro del giornalista Mario Giordano. Numerosi politici di centrodestra hanno ripetuto accuse simili. Una delle più dure ed esplicite è arrivata questa settimana da Luigi Di Maio, importante dirigente del Movimento 5 Stelle, che ha detto: «Le organizzazioni non governative sono accusate di un fatto gravissimo, sia dai rapporti Frontex che dalla magistratura, di essere in combutta con i trafficanti di uomini, con gli scafisti, e addirittura, in un caso e in un rapporto, di aver trasportato criminali». Di Maio è stato anche uno dei primi a definire le ong dei “taxi” per i migranti. In realtà, come abbiamo visto, l’unico elemento su cui basare questa presunta complicità tra ONG e trafficanti arriva dai rapporti di Frontex per uso interno, privi di data e altri riscontri (nulla toglie che potrebbero emergere nuove prove in futuro, ma al momento nessuno ha ancora prodotto elementi più concreti). Nei suoi rapporti Frontex ha criticato le ong per le conseguenze non intenzionali della loro azioni, e per una generica mancanza di collaborazione con le forze di Frontex (critiche a cui diversi responsabili di ong hanno risposto molto duramente). A Di Maio ha risposto questa settimana anche lo scrittore Roberto Saviano.

Cosa c’entrano i tribunali italiani?

Secondo la Stampa, sulla questione “taxi per migranti” stanno indagando tre diverse procure: Palermo, Trapani e Catania. Quest’ultima sembra la più attiva. Il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, ha dato diverse interviste a stampa e televisione. La sua indagine, ha spiegato, per il momento è solo “conoscitiva”: non ci sono indagati né ipotesi di reato. Il suo sospetto principale, ha raccontato, è che alcune di queste ong siano state finanziate in maniera illecita poiché, sostiene, hanno equipaggiamenti e veicoli troppo costosi e che, a suo dire, non si potrebbero permettere. In un’intervista alla trasmissione Agorà il procuratore ha spiegato meglio i suoi sospetti e ha lasciato intendere che, a suo avviso, l’intera questione potrebbe nascondere un complotto molto più grande e surreale: «A mio avviso alcune ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti e so di contatti. Un traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga. Forse la cosa potrebbe essere ancora più inquietante. Si perseguono da parte di alcune ong finalità diverse: destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi. Se l’informazione è corretta, questo corto circuito non si può creare salvo per effetto di persone che vogliono creare confusione». L’intervista al procuratore ha suscitato le reazioni di diversi esponenti del governo, come il ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha detto: «La Procura di Catania parli attraverso le indagini e gli atti. Ricostruire la storia delle ong come la storia di collusi con i trafficanti è una menzogna». Oggi, il procuratore Zuccaro ha confermato le sue accuse in un’intervista a Repubblica. Zuccaro dice di essere certo che alcune piccole ONG facciano affari con gli scafisti, ma di non avere prove che si possano usare in tribunale. Ad esempio dice di aver ascoltato una misteriosa intercettazione in arabo in cui alcuni scafisti si accordavano con il capitano di un’imbarcazione di una ONG per raccogliere alcuni migranti. Quando sia stata fatta questa intercettazione e da chi, non è chiaro e non è chiaro se i giornalisti di Repubblica che hanno intervistato il procuratore abbiano avuto modo di verificarne l’esistenza.

Il pm: «Scafisti nelle Ong!» Ma l’indagine non esiste, scrive Errico Novi il 28 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro rilancia su Rai3 le accuse contro le organizzazioni umanitarie: «Destabilizzano il paese». Poi ammette: «Devo fare accertamenti». Naturalmente il processo mediatico è capace di ogni mirabilia. Ma il record stabilito dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro promette una sorte analoga a quello di Beamon nel salto in lungo, rimasto imbattuto per un quarto di secolo. Intervistato ad “Agorà” su Rai 3, il magistrato ieri mattina ha ribadito le accuse già fatte trapelare nei giorni scorsi: «A mio avviso alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti, e so di contatti: un traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga». Esiste un fascicolo, e va bene, ma contro ignoti. Non esiste un avviso di garanzia, evidentemente neppure un’indagine in notevole stato di avanzamento altrimenti qualche nome a registro sarebbe già stato iscritto, non è quindi mai stato chiesto un rinvio a giudizio e neppure consumato un processo, non ci sono sentenze né di primo né di secondo grado. Eppure il pm da cui dovrebbe prendere le mosse tutta questa sequenza, normalmente detta procedimento giudiziario, ha già emesso la sua condanna. In tv. «So di contatti», tra trafficanti di carne umana e organizzazioni umanitarie, dice. E se i contatti ci sono, è fatta. Il reato è accertato. In tv, almeno. Naturalmente non ha detto solo questo, il dottor Zuccaro. Ha descritto una possibile scena del crimine: «Dalla Libia partono telefonate in cui si chiede "possiamo mantenere in mare queste imbarcazioni anche con mare agitato?" E si risponde "fatelo tranquillamente, tanto noi siamo a ridosso"». O sono supposizioni o sono atti d’indagine e, nel caso, sarebbe curioso se a svelarli fosse lo stesso pm. Ma c’è un quadro accusatorio molto complesso, che non si limita al trasporto di disperati. Ci sono altri reati, ascrivibili alla spaventosa categoria delle cospirazioni: «Forse la cosa potrebbe essere ancora più inquietante», ha infatti aggiunto il capo della Procura etnea, «si perseguono da parte di alcune Ong finalità diverse: destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi». Quali Ong? Ci sono i nomi? I nomi dei loro referenti? E quali sono i vantaggi? Si sa chi è parte del complotto? Il modo di procedere della magistratura catanese ha già innescato un corto circuito politico tremendo, con il cinquestelle Luigi Di Maio che ha subito cavalcato le ipotesi accusatorie, Matteo Salvini che chiede di «affondare le navi» e il resto del mondo politico, e la Cei, che cercano di fermare la deriva. Ci deve pensare il ministro della Giustizia Andrea Orlando, titolare dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe, a riportare la questione nella cornice dell’ordinamento giudiziario: «Spero che la procura di Catania parli attraverso le indagini, gli atti, perché credo sia il modo migliore». Dovrebbe essere anche l’unico, ma si sa che il guardasigilli non è uno che usa le parole o le sue prerogative come una clava. Certo la vicenda è disarmante anche dal suo punto di vista. Il tornado andato in onda in mattinata travolge anche il ministro dell’Interno Marco Minniti che, durante il question time, prega di «evitare generalizzazioni», visto che «le indagini della Procura di Catania sono ancora in corso» (ma è dura se a generalizzare è la Procura stessa). Il Capo del Viminale cita anche l’attività conoscitiva del comitato Schengen e della commissione Difesa del Senato, i «contatti con Frontex» aperti dal governo per vederci chiaro. Ma prove di reati e complotti non sembrano emergere. Tanto che timidamente un deputato pd, Giovanni Burtone, propone: «Il dottor Zuccaro ne riferisca alla commissione d’inchiesta sui Migranti». Lui, il magistrato, ricorda che non tutte le Ong sono uguali (e cattive): «Ci sono quelle che hanno certamente scopi umanitari, come Medici senza frontiere o Save the children». Lo stesso direttore di quest’ultima Ong, Valerio Neri però chiede: «Se ci sono prove rispetto alle gravissime accuse sulle operazioni e sui finanziatori delle Ong che operano nel Mediterraneo, chiediamo che emergano quanto prima». Anche lui vorrebbe insomma che i magistrati «parlassero con gli atti»: proprio come Orlando o come ha spesso ripetuto Matteo Renzi nelle sue polemiche coi pm.

Il dottor Zuccaro, al momento, può dire questo: «Sono ipotesi, devo fare degli accertamenti» Cioè alla fine ammette che non ci sono prove. Solo ipotesi, le sue. Ma bastano, eccome se bastano, per una condanna in tv.

Ong e presunte collusioni con i trafficanti. Il fact-checking di Repubblica. Il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro rilancia con un nuovo sospetto: organizzazioni umanitarie potrebbero essere anche finanziate dai trafficanti per un obiettivo eversivo: destabilizzare l'economia italiana. Necessario fissare qualche punto fermo nell'inchiesta, scrive Francesco Viviano ed Alessandra Ziniti il 27 aprile 2017 su "La Repubblica".

1) Cosa sappiamo dell’inchiesta della Procura di Catania sulle Ong?

Il procuratore Carmelo Zuccaro a febbraio scorso annuncia di avere aperto una “indagine conoscitiva” sulle Ong che operano nel Canale di Sicilia sulla base di un rapporto di Frontex dove si ipotizza che le modalità operative delle navi umanitarie finiscono con il favorire i trafficanti.

2) Quali sono i dati acquisiti dall’inchiesta?

Il procuratore Zuccaro dice di essere in possesso di “evidenze” su contatti diretti tra trafficanti ed esponenti di alcune ong e di dati che proverebbero ripetuti interventi all’interno delle acque territoriali libiche e di episodi in cui alcune navi spengono i trasponder (un segnale radar che segnala il tracciato delle navi e il loro punto nave).

3) Quali sono le Ong nel mirino?

Zuccaro ha affermato che al momento il fascicolo aperto non ha ipotesi di reato né indagati. Fin dal primo momento il procuratore ha sottolineato che non c’è alcun dubbio sulla correttezza dell'operato di ong di fama consolidata (Medici Senza Frontiere e Save the Children) e di nutrire invece sospetti su altre organizzazioni umanitarie nate da poco e che conterebbero su importanti disponibilità finanziarie. Non escludendo l’ipotesi che alcune Ong siano “finanziate” dagli stessi trafficanti di esseri umani.

4) Ma esistono prove di questi contatti tra trafficanti e ong?

Zuccaro ha sempre parlato di “materiale probatorio non utilizzabile giudiziariamente”, probabilmente proveniente da segnalazioni dei servizi segreti e della stessa Frontex, ma si è spinto a parlare di intercettazioni di telefonate di trafficanti che avvertirebbero le ong dell’imminente partenza di gommoni con migranti a bordo.

5) Ci sono altri riscontri ai sospetti di cui parla Zuccaro?

Al momento non ci sono altri riscontri noti. La Procura di Catania sta verificando i bilanci di alcune Ong che denunciano donazioni private molto consistenti e spese di centinaia di migliaia di euro al mese per la gestione delle navi. Altre due inchieste sono aperte a Palermo e Trapani e una indagine conoscitiva è in corso davanti alla Commissione Difesa del Senato.

Perché difendo le Ong che salvano i migranti. Dalle leggi travisate alla parola taxi citata a sproposito: solo bugie sulle navi, così la solidarietà diventa un reato, scrive Roberto Saviano il 25 aprile 2017 su "La Repubblica". Per capire bisogna prendersi del tempo. Per capire bisogna leggere le fonti e verificarle. La tristissima vicenda che riguarda la polemica del Movimento5Stelle sulle Ong che nel Mediterraneo si occupano di soccorrere i migranti mostra come, a partire da Beppe Grillo per finire con il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, i 5Stelle parlino su questo argomento per sentito dire, riportando affermazioni senza verificarle, dandole per vere e proponendo interrogazioni parlamentari che hanno il sapore di strumento di propaganda fine a se stessa. Luigi Di Maio dichiara: “Definire taxi le imbarcazioni delle Ong non è un mio copyright. Prima di me, e a ragione, lo ha detto l'agenzia dell'Ue Frontex nel suo rapporto Risk analysis 2017”. Basterebbe leggerlo davvero il rapporto (leggi in pdf) per verificare che non paragona mai, in nessun punto, le imbarcazioni delle Ong che si occupano di search and rescue nel Mediterraneo a taxi, e non lo fa perché sarebbe scorretto, e non lo fa perché “taxi” significa lusso, significa comodità. E comodità e lusso sono parole che con le storie di chi attraversa il Mediterraneo per raggiungere l’Europa non c’entrano nulla. E allora, se la parola taxi non si trova nel rapporto Frontex – anche se Di Maio dice di aver letto il rapporto ed è convinto che vi sia la parola “taxi” – chi l’ha pronunciata per primo? Nemmeno il Procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, che Di Maio indica come altra sua fonte. Ma vale la pena analizzarle le parole di Zuccaro, perché sono comunque la fonte primaria della comunicazione che sull’argomento hanno fatto il Movimento5Stelle e Luigi Di Maio. La procura di Catania viene infatti citata in un articolo pubblicato sul blog di Grillo e trattato come fosse un documento dirimente sull’argomento, quasi pietra miliare. Carmelo Zuccaro in un’intervista dice testualmente: “Tra il settembre e l’ottobre 2015 nascono numerose Ong. Cinque tedesche, una spagnola e una maltese, che quindi nascono dal nulla e che dimostrano di avere subito disponibilità di denari per il noleggio delle navi, per l’acquisto di droni ad alta tecnologia e per la gestione delle missioni, che sembra molto strano che possano aver acquisito senza avere un ritorno economico”. Quindi la domanda che la procura di Catania si pone è: chi paga le missioni? Il Procuratore apre un fascicolo conoscitivo, senza indagati né capi di accusa, su sette Ong che, con tredici navi, salvano migranti nel Mediterraneo. Le Ong rivendicano la trasparenza dei loro bilanci che si basano su finanziamenti privati e infatti Zuccaro non ha alcuna certezza che le missioni umanitarie nel Mediterraneo siano in realtà dei “taxi per migranti” e parla di “sospetto” e ribadisce di “un mero sospetto”, se non fosse ancora abbastanza chiaro. Un mero sospetto che nelle dichiarazioni del Movimento5Stelle e di Di Maio diventa una quasi certezza, lanciata come sempre in pasto ai social, dove si sa, l’approfondimento non è di casa. Dove ci si affida al pensiero di terzi perché il proprio vi si adegui. Ma quello che mi ha colpito delle dichiarazioni di Zuccaro è la riflessione sul pericolo che corre l’Italia ad accogliere migranti in maniera incontrollata. Ed è proprio qui che si collega l’articolo pubblicato sul blog di Beppe Grillo dal titolo: “Più di 8mila sbarchi in 3 giorni: l’oscuro ruolo delle Ong private”. Dove si fermano le ipotesi della procura di Catania, arrivano le certezze dei Cinque Stelle, dove la procura di Catania non si inoltra per mancanza di prove, lo fanno Grillo e Di Maio: le Ong, prima di qualsiasi indagine o processo, sarebbero “colpevoli” di portare migranti in Italia. Ma perché in Italia? Perché non nei porti fisicamente più vicini? Semplice: perché l’Italia è il porto più sicuro, perché chi fugge dalla Libia o dalla Tunisia non può tornare in Libia o in Tunisia. Intanto perché la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui Rifugiati e poi “nei soccorsi in mare”, come riporta Annalisa Camilli in un fondamentale articolo sul tema, “viene applicata la convenzione di Amburgo del 1979”. “Porto sicuro” non è infatti semplicemente un luogo che sia terraferma, ma sicuro anche e soprattutto per la garanzia dei diritti delle persone che si trovano in mare. Perché se è illegale favorire l’immigrazione clandestina è altrettanto illegale non prestare soccorso in mare. Spesso poi si fa riferimento alla distanza tra le imbarcazioni delle Ong che effettuano salvataggi in mare e la costa, come a insinuare questo dubbio: “Perché quelle navi si trovavano così vicino alle coste? Perché a 12 miglia?”. Si omette però di dire che è lecito avvicinarsi fino a 12 miglia nautiche se serve per salvare vite umane. Medici Senza Frontiere, per esempio, nel 2016 in cinque occasioni ha prestato soccorso a circa 11.5 miglia dalla costa dopo aver avuto l’ok delle autorità libiche. Le Ong agiscono dove altri non arrivano e mai senza il via libera delle autorità competenti. Ma veniamo all’articolo che è stato la base teorica per i post di Di Maio. Se è vero, come è vero, che le prime righe di un testo contengono il messaggio che si vuole veicolare, ecco il messaggio che il blog di Beppe Grillo vuol farci arrivare: “Negli ultimi giorni l'Italia ha registrato un record di sbarchi senza precedenti. In poco più di 72 ore circa 8mila migranti sono approdati in Sicilia dopo una lunga traversata in mare”. Ergo: il problema sono gli arrivi. E poi, dato che come è noto, nessuno di noi ha tempo da perdere per leggere ed approfondire, l’articolo ci rende la vita facile e mette alcune frasi chiave in evidenza cosicché quello che ci troviamo davanti è un articoletto di poche righe, che facilmente ci resteranno impresse. Eccole: “Con l'aumento degli sbarchi aumenta ovviamente anche la spesa interna dell'Italia.” “È la solita solfa, con un'Europa che ci è totalmente estranea e indifferente”. “Ma c'è un nuovo capitolo che sta emergendo in queste ore e che merita attenzione”. Qui vale la pena riportare l’intero paragrafo perché aggiunge liberamente informazioni alle dichiarazioni ipotetiche della Procura di Catania: “Parliamo di circa una dozzina di Ong tedesche, francesi, spagnole, olandesi, e molte di queste battono bandiere panamensi o altre bandiere ombra”. Zuccaro parlava di sette Ong e tredici imbarcazioni attenzionate dalla Procura di Catania, ma nell’articolo sul blog di Grillo il loro numero lievita. In un’altra intervista sullo stesso argomento, Zuccaro precisa che non tutte le ong che recuperano migranti sono uguali: «Ci sono quelle buone e quelle cattive». Nel dubbio, però, Grillo e Di Maio hanno pensato di gettare fango su tutte: prima che ci sia un processo e che si possa accertare cosa accade, meglio disincentivare le donazioni alle Ong che salvano vite e che portano migranti in Italia. Ora, terminato il fact checking alle dichiarazioni di Grillo e Di Maio, ci tengo a fornire una serie di strumenti utili a capire qual è la situazione. Se le navi delle Ong Proactiva open arms, Medici senza frontiere, Sos Méditerranée, Moas, Save the Children, Jugend Rettet, Sea watch, Sea eye e Life boat si trovano anche vicino alle coste libiche è perché è lì che serve la loro presenza allo scopo di salvare vite. Le Ong non si sono messe a fare un "servizio taxi" per i migranti di punto in bianco, ma riempiono un vuoto umanitario lasciato dalle istituzioni europee. Ma Di Maio afferma ancora: “La verità è che in Italia in questi ultimi 20 anni ci sono stati due generi di sfruttamento dell'immigrazione. Il primo è quello della Lega, che ha lucrato elettoralmente sul problema, senza mai risolverlo. L'altro invece è quello del centrosinistra, che ha anche preso soldi dalle cooperative che sfruttavano il business dei migranti. Non a caso Salvatore Buzzi finanziò una cena elettorale di Matteo Renzi. Destra e sinistra hanno già fallito”. Bene, se è così, allora il M5S ha capito che vale sicuramente la pena, in questo momento, aderire alla prima strada, ovvero a quelli che la questione migranti la sfruttano per motivi elettorali. E sono i numeri a parlare: nel 2016 su 178.415 migranti salvati nel Mediterraneo, le Ong ne hanno salvati 46.796, a fronte dei 35.875 salvati dalla Guardia Costiera, dei 36.084 salvati dalla Marina Italiana, dei 13.616 salvati da Frontex (dati della Guardia Costiera Italiana). Se le Ong fossero spazzate via da diffidenza e sospetti, se si interrompesse il sostegno economico privato, calcolate quanti migranti in meno arriverebbero in Italia, e non perché ne partirebbero di meno, ma perché morirebbero in mare, seppelliti dalle acque, e noi saremmo circondati da un cimitero più cimitero di quanto non lo sia già. E in tutto questo, come ha reagito il Partito democratico alla polemica sulle Ong? Parole vuote e di circostanza. Dichiarazioni smentite dai fatti, con il Decreto Minniti che sta progressivamente criminalizzando la solidarietà. Invece di eliminare, come sarebbe ovvio, giusto e conveniente, il reato di immigrazione clandestina si sta subdolamente introducendo il reato di solidarietà.

Migranti, le domande della vergogna: "Ti hanno stuprata? E perché sei fuggita in Italia?" Terzo grado ai familiari delle vittime di terrorismo, interrogatori a donne che hanno subito abusi: siamo andati a vedere cosa succede nelle commissioni che decidono sulle richieste di asilo, scrive Antonello Mangano il 26 aprile 2017 su "L'Espresso". «Sei stata violentata? Perché hai cambiato paese e non quartiere?». M. è una donna eritrea. Sta raccontando la sua storia alla commissione territoriale, una di quelle che decidono quali migranti possono restare in Italia e quali no. Ha studiato ad Addis Abeba, dove voleva fare il meccanico. «In quel paese si può fare un lavoro da uomo», spiega. Nel 2010 sposa un etiope col matrimonio tradizionale. Ma tradizionale è pure la famiglia di lui, che la rifiuta. Per gli etiopi è e sarà sempre una spia eritrea. Non può proseguire gli studi né lavorare e così decide di partire e raggiungere la sorella in Sudan. Da sola. Ed è proprio a Khartum che il cognato la violenta: «Se avessi parlato mi avrebbe ucciso», dice. Ha paura di rivolgersi alla polizia e scappa in Libia. Qui iniziano i dubbi del suo intervistatore. Perché ha lasciato il Sudan? Khartum è molto grande. Poteva semplicemente cambiare quartiere. Perché ha deciso di cambiare nazione? Le linee guida Unhcr consigliano un tono rassicurante e domande pertinenti. Invece l’audizione per M. diventa un interrogatorio. «Non riesco a capire, perché ha lasciato suo marito dopo pochi mesi di matrimonio? Perché non si è sposata ufficialmente prendendo la cittadinanza etiope? Perché non conosce i motivi dell’arresto di sua madre? In Etiopia la consideravano una spia? E quindi che problema c’era?». La stupreranno anche il padrone di casa dove lavora come domestica e i trafficanti. Il tono dell’intervista però non cambia: «Perché non è rimasta in Libia?». M. arriva finalmente ad Agrigento nel 2013. Un anno dopo la commissione non la riconosce come rifugiata. Consiglia solo di «fare visite mediche». Ci vorranno due anni perché il tribunale ribalti la decisione. Si tratta di un caso isolato? Non proprio. Siamo entrati nel mondo chiuso - e finora inesplorato - delle commissioni che decidono sulle domande di asilo. Abbiamo letto centinaia di pagine di documenti ufficiali. È venuta fuori una lotteria: domande da telequiz, errori di copia-incolla, una vera e propria inquisizione. Le donne nigeriane sono spesso vittime di tratta. Le aspettano interrogazioni del tipo: «Anche oggi sono morte cento persone nel Canale di Sicilia, l’altra opzione era fare la prostituta in Libia. Capisce che non ha molto senso che sia venuta in Italia solo perché glielo ha consigliato un uomo che conosceva da due mesi?». Quelle del Corno d’Africa scappano da dittatori e guerre endemiche. Subiscono numerose violenze di ogni tipo prima di arrivare in Europa. Una donna ha visto una collega uccisa dai terroristi nello spiazzo di un supermarket. In commissione le chiedono: perché è venuta in Italia? «Non esistono posti sicuri in Somalia?». I profughi dell’Africa occidentale si lasciano alle spalle epidemie e conflitti inter-etnici. Per loro la diffidenza è fortissima. C’è chi si sente dire: «Puoi ritornare al tuo paese, temi solo l’Ebola». Oppure: se tua moglie vive ancora lì, allora il tuo paese è sicuro.

F. ha visto il fratello morire sotto i colpi dei ribelli in Mali. Fuggito dal colpo di Stato, ha superato nell’ordine i militari a caccia di disertori, il deserto algerino, il mare che lo separava dall’Europa. È un sopravvissuto. Ma non aveva previsto l’ultimo ostacolo, i quiz della commissione. «Come si chiama lo stadio di Goa?», «Non lo so». «E il ponte sul fiume», «Non lo so». «E il fiume?», «Niger». Il commissario si fida sempre meno. «Quali sono i nomi dei paesi che ha incontrato per andare in Algeria?», «Non so, erano località piccolissime». Arriva il diniego, soltanto «i positivi segnali di integrazione» lo salvano dall’espulsione e gli consegnano un permesso temporaneo.

Gambia, agosto 2013. Un uomo denuncia alla polizia che il fratellastro ha violentato la sorella. In quel paese non è facile denunciare un militare. E infatti non gli credono. Gli amici del fratello lo minacciano di morte. Senza parenti e protezione, scappa in Senegal, Mauritania, Mali e Algeria. Infine riesce a imbarcarsi dalla Libia all’Italia. La sua odissea non è finita. Per un «clamoroso errore di copia - incolla nella stesura della motivazione», la commissione territoriale gli nega l’asilo. Infatti nel testo si parla di un cittadino del Bangladesh. Hanno incollato la motivazione di un altro. Il giudice, dopo dieci mesi, concede lo status di rifugiato e riconosce: «La grave situazione in cui versa il Gambia». Nel complesso, tre anni bruciati a scappare e aspettare.

Le domande si basano spesso sulla credibilità del soggetto intervistato. La Convenzione di Ginevra parla invece dell’oggetto, cioè il fondato timore di subire una persecuzione in patria. Da poco si sta imponendo un nuovo criterio, quello dei «positivi segnali di integrazione». Un concetto non definito dal diritto e spesso arbitrario.

Prendiamo il caso di G., che si salva dall’espulsione per un paio di parole in italiano. In un’ora spiega che il padre faceva politica in Costa d’Avorio, nel paese devastato dalla guerra; che è stato ucciso dai sostenitori dell’ex presidente; che tornare lì significa rischiare la vita perché ci sono aree in conflitto di cui non si parla. La commissione non gli crede. Citando qualche sito web, dice che la guerra è finita. Il destino sembra segnato. Tra lui e l’espulsione c’è solo un’ultima domanda. Frequenta corsi? Questa volta non risponde nel dialetto bambara, ma in italiano. È la sua salvezza. Tutto il resto viene rigettato, ma i «positivi segnali d’integrazione» gli valgono un permesso umanitario.

L’integrazione è un criterio soggettivo, ma piace sempre più sia ai tribunali che alle commissioni. J., per esempio, pur scappando dalla guerra ucraina vive in una bella casa («un appartamento idoneo») e la madre ormai parla italiano. Ha anche fatto politica nel suo paese rischiando la pelle, ma questo non è preso in considerazione. Alcune risposte sono decisive. Per esempio, quelle alla domanda-chiave: «Cosa teme tornando al suo paese?». Un nigeriano risponde: «Non so cosa potrebbe accadermi» e si auto-condanna all’espulsione. Poi ci sono decisioni che sembrano già prese. Lo schema è questo: se la tua storia è credibile, allora il tuo paese è sicuro. Se il tuo paese è pericoloso, allora la tua storia è contraddittoria. Ci sono commissioni che hanno considerato paesi sicuri anche la Libia in fiamme del post-Gheddafi, le zone curde militarizzate dai turchi e la Costa d’Avorio in guerra civile. C’è poi chi ama le domande di controllo. Sono quelle che servono a capire se l’intervistato sta mentendo. Ma possono diventare un tribunale delle scelte personali: «Perché è andato a vivere da solo?». Oppure: «Se suo padre era benestante, perché non l’ha fatta studiare?» E ancora: «Hai avuto altre donne prima di tua moglie?». Infine ci sono le sottigliezze giuridiche. N. è al centro di una faida in Pakistan. In questo caso le linee guida delle Nazioni Unite dicono che si tratta di un rifugiato. Tuttavia, nota la commissione, non si può parlare esattamente di faida perché non è un’intera famiglia a volerlo morto ma un singolo membro.

Nel 2016 le commissioni hanno respinto il 60 per cento dei migranti arrivati in Italia. Per il senso comune è la prova che si tratta di finti profughi. Ma è davvero così? Secondo il prefetto Angelo Trovato, presidente della Commissione nazionale asilo, nel 2014 il 65 per cento dei rifiutati ha presentato ricorso. E nel 75 per cento dei casi ha vinto. In tre casi su quattro, la magistratura ha ribaltato le decisioni delle commissioni. Di queste strutture ce ne sono venti in tutta Italia. Ognuna è composta da quattro membri: un funzionario di prefettura, uno di polizia, un delegato degli enti locali e uno dell’Unhcr. Poi c’è l’interprete, decisivo se il colloquio si svolge in un dialetto africano che nessuno comprende. L’intervista spesso è condotta da un solo membro, ma nel verbale non è indicato di chi si tratta. Nel 2016, circa 150 persone hanno giudicato 123.600 richiedenti. C’è chi fa questo lavoro con preparazione e dedizione, ma le decisioni delle commissioni ribaltate dai tribunali hanno creato un contenzioso enorme. Al Tribunale di Catania, ad esempio, un giudice è stato incaricato di un preciso compito: smaltire 3.200 fascicoli di ricorsi pendenti. Alcuni risalgono al 2012. Se rispettasse la media record di quattro al giorno, finirebbe tra due anni. Il decreto Minniti - Orlando, recentemente approvato dal Parlamento, affronta il problema dei tribunali intasati cancellando il ricorso in appello. Si potrà ricorrere solo in Cassazione entro 30 giorni. «Sono norme manifesto di nessuna utilità pratica che creano solo marginalizzazione sociale e costi per un sistema giudiziario già precario», protesta Lorenzo Trucco, presidente dell’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Si crea così un «diritto processuale civile speciale» basato sulla nazionalità. Alcune norme sembrano inoltre complicate da applicare. Per esempio, la videoregistrazione: due-tre ore di audizione da inviare ai giudici in caso di ricorso. Oppure i responsabili dei centri di accoglienza che diventano “pubblici ufficiali” e dovranno gestire le notifiche giudiziarie ai richiedenti asilo. Un’altra novità che ha già suscitato le proteste degli operatori.

Di Maio: "Regole d'ingaggio per le navi delle ong". Legnini: "Caso Zuccaro al Csm". "Ma l'azione disciplinare spetta al ministro della Giustizia e al procuratore generale della Cassazione" precisa il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Adombrato anche il sospetto che i trafficanti possano finanziare le ong per obiettivi eversivi, il procuratore di Catania a Repubblica: "Non ho prove ma certezze. E il dovere di denunciare perché la politica intervenga tempestivamente", scrive il 28 aprile 2017 "La Repubblica". "Sulle dichiarazioni del procuratore della Repubblica di Catania Carmelo Zuccaro, comunico che, dopo aver sentito i capi di Corte e il presidente della prima commissione consiliare, avvocato Giuseppe Fanfani, sottoporrò il caso all'esame del Comitato di presidenza alla prima seduta utile fissata per mercoledì 3 maggio. Fermo restando che, come é noto, spetta al ministro della Giustizia e al procuratore generale della Cassazione di valutare se sussistono o meno i presupposti per l'esercizio dell'azione disciplinare". Dalle parole del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, le prime avvisaglie di un prossimo accertamento sulle modalità con cui il procuratore capo di Catania sta gestendo l'indagine conoscitiva avviata dai suoi uffici sulle attività delle ong nelle operazioni di salvataggio dei migranti nel Mediterraneo. Ovvero facendo intendere, con dichiarazioni quotidiane ai media nazionali, di una presunta collusione tra alcune ong e i trafficanti di esseri umani. Fino ad adombrare il sospetto che le organizzazioni criminali libiche arrivino a finanziare alcune sigle umanitarie per finalità eversive. Ma perché, è la domanda, un magistrato si lancia pubblicamente in scenari così inquietanti quando la sua inchiesta conoscitiva è aperta, invece di lasciar parlare le carte, formulando accuse precise e nomi e cognomi, al momento giusto? A Repubblica, Zuccaro afferma di non poter ancora produrre prove, ma di avere comunque maturato certezze. Per questo, "da magistrato, ho il preciso dovere di denunciare un gravissimo fenomeno, criminale, per arginare il quale la politica deve intervenire tempestivamente. Se si dovessero aspettare i tempi lunghi di un'indagine che sarà complessa e per la quale ho bisogno di uomini e mezzi di cui al momento non dispongo, sarebbe troppo tardi. E a ragione, tra qualche tempo, mi si potrebbe rimproverare: ma dov'eri tu mentre succedeva tutto questo?". I richiami a evitare giudizi affrettati e a lasciar parlare gli atti, giunti nella durissima giornata di ieri dai ministri dell'Interno e della Giustizia, Marco Minniti e Andrea Orlando, non hanno evidentemente persuaso alla moderazione quanti da giorni animano lo scontro sulle attività delle organizzazioni non governative nel Mediterraneo. Il capo della Procura di Catania, Carmelo Zuccaro, che ha infiammato il dibattito adombrando sospetti in serie sui veri obiettivi delle ong che raccolgono disperati in mare fino a disegnare un piano eversivo finanziato dagli stessi trafficanti di uomini, non indietreggia a spiega a Repubblica le ragioni delle sue esternazioni. Mentre Luigi Di Maio, che ha cavalcato politicamente le esternazioni del procuratore, ora chiede che alle navi delle ong sia imposto un regime di regole d'ingaggio paragonabile a quello osservato dalla Marina militare. E si concretizza la grande preoccupazione espressa dalle ong più affidabili e trasparenti per illazioni che rischiano di compromettere il rapporto di fiducia con la società civile su cui il mondo del volontariato fa leva per raccogliere contributi e donazioni. Sondaggio di Ixè per Agorà: oggi crede nelle ong solo il 34% degli italiani, il 48% non si fida, il 18% non si è espresso. Non bastasse, a nome "dei cittadini che sono i principali finanziatori delle ong", il Codacons annuncia di costituirsi come parte offesa nell'inchiesta aperta dalla Procura di Catania: "Dovere della magistratura fare chiarezza". Non solo: l'associazione dei consumatori scarica su "soggetti come Roberto Saviano" la responsabilità di polemiche che sono "un insulto verso quei cittadini che si privano di denaro per sostenere le attività di organizzazioni che devono essere al di sopra di ogni sospetto". "Le ong devono seguire i protocolli di ingaggio di Triton e Sophia, cioè delle navi della Marina militare: arretrare, tornare nel Canale di Sicilia. Poi, quando vengono lanciati i may-day, si interviene. Se andiamo a prendere i migranti a portata di acqua-scooter, a 8 miglia nautiche dalle coste libiche, non si tratta di salvataggi". Così, dunque, Di Maio ad Agorà, su Raitre. "Voglio salvare le vite nel Mediterraneo - aggiunge l'esponente del Movimento 5 stelle - ma non stimolare l'esodo, perché abbiamo fatto un altro record di migranti in Italia, che ci costano 5 miliardi di euro all'anno di business sull'immigrazione da parte di cooperative e società". Nei giorni scorsi Di Maio è stato pesantemente criticato, soprattutto da Saviano, per aver strumentalizzato un Rapporto Frontex in cui non si lanciano accuse alle ong, men che meno quella di contiguità con i trafficanti (Di Maio ha usato l'espressione "taxi del mare"), ma viene definito "involontarie conseguenze" il fatto che i mercanti di uomini traggano profitto dalla presenza in mare in prossimità delle acque libiche delle navi umanitarie. Ma ieri il vice presidente della Camera è potuto tornare all'attacco rilanciando su Twitter le nuove affermazioni del procuratore Zuccaro su alcune ong che "potrebbero" essere finanziate dalle organizzazioni criminali per finalità ben oltre il business. Sempre usando il condizionale, Zuccaro ha indicato in un possibile obiettivo la "destabilizzazione della nostra economia". Ancora ad Agorà, il laconico commento di Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa premio Unesco per la pace. "La Procura di Catania sta facendo il suo dovere e aspettiamo che l'inchiesta sulle ong faccia il suo corso, ma mi addolora e mi fa tristezza il dibattito politico, lo scandalo, montato dalla politica. Mi sembra che si stia capovolgendo il mondo. Perché le ong sono lì a coprire un vuoto lasciato dall'Europa, non dell'Italia. E cosa fa la politica italiana? Critica e accusa le ong.  Mi piacerebbe che si riportassero le cose al loro posto. Bisognerebbe preoccuparsi di quelli che muoiono. I partiti che oggi si scagliano contro le ong sono gli stessi che nel 2013, dopo la strage di Lampedusa, piangevano e dicevano: mai più stragi". Poi, rivolgendosi a Di Maio: "Se pensate che l'arrivo dei migranti sia aumentato per la presenza delle ong, non siete in grado di governare il Paese".

Ecco chi è Zuccaro, il procuratore che punta il dito contro le Ong. Catanese, alle dieci di sera è ancora in ufficio. Disponibile, ma riservato e solitamente misurato nelle sue dichiarazioni, guida i pm etnei dal giugno del 2016, scrivono Chiara Marasca e Vincenzo Barbagallo il 27 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Alle dieci di sera, solitamente, è ancora chiuso nel suo ufficio, a piazza Verga. Riservato, estremamente attento a evitare sovraesposizioni e partecipazioni pubbliche - non c’era nemmeno alla Festa di Sant’Agata, la patrona della città - Carmelo Zuccaro gode di grande stima negli ambienti giudiziari. È diventato procuratore della Repubblica di Catania nel giugno del 2016 ottenendo al Csm 16 voti contro i 7 andati all’altro candidato, Carmelo Petralia. Una soluzione di piena continuità visto che Zuccaro era, come aggiunto, praticamente il braccio destro dell’ex capo dei pm Giovanni Salvi. Le sue recenti dichiarazioni su possibili legami tra i trafficanti di migranti e alcune Ong stanno sollevando molte polemiche, ma Zuccaro non è magistrato che cerca i riflettori: predilige il lavoro di squadra e non manca mai di elogiarlo durante gli incontri con la stampa. Profondo conoscitore del territorio etneo, è proprio a Catania che Zuccaro è nato, ha studiato Giurisprudenza e poco dopo è diventato ufficiale di complemento nella Guardia di Finanza, privilegio concesso soltanto ai 50 migliori laureati. Da magistrato Zuccaro inizia la carriera a Caltanissetta, poi sarà pretore a Paternò fino al 1989, anno in cui entra a far parte della procura di Catania, dove nel 1991 viene istituito, affidandogli il coordinamento, il gruppo della Direzione Distrettuale Antimafia. Nel 1996 ritorna a Caltanissetta, per presiedere la Corte D’Assise. Sono gli anni dei processi sulla strage di Capaci e su via D’Amelio Ter. Dal 2001 al 2009 Zuccaro guida la Procura di Nicosia, poi diviene aggiunto a Catania, dove continuerà la carriera fino a diventare capo dei pm. Quando è stato nominato procuratore capo a Catania, Zuccaro ha dichiarato: «Sono orgoglioso per l’incarico di dirigere uno degli uffici giudiziari più importanti, ma anche consapevole delle responsabilità che ci sono e del lavoro da fare: nonostante la grande opera fatta negli anni scorsi c’è ancora da fare per diffondere il senso di legalità».

Luca, il blogger che ha tracciato le barche. "I giornali cattolici e di sinistra mi attaccano". Additato come complice dei morti nel Mediterraneo: «Il mio video visto 10mila volte», scrive Chiara Giannini, Venerdì 28/04/2017, su "Il Giornale". «I giornali di sinistra e quelli cattolici ce l'hanno con me, puntano a sminuire il mio lavoro»: Luca Donadel è il 23enne che un paio di mesi fa ha realizzato un video, poi diventato virale sui social, con cui, attraverso un sistema gps di rilevamento dei tracciati delle navi, è riuscito a ricostruire i movimenti dei natanti delle Ong attraverso il Mediterraneo verso le coste libiche. «Sono partito dal video di Gefira - spiega Luca -, che aveva fatto l'esperimento prima di me. Ma ho visto che era stato visto da poco più di 10mila persone, ho deciso che bisognava fare di più. Allora ho ricostruito le rotte e poi ho postato il risultato sulla mia pagina Facebook. In poco tempo è stato visualizzato da un numero impressionante di contatti». Luca ha raccontato ciò che già al Giornale avevamo sostenuto parlando delle navi delle Ong che entrano nelle acque territoriali libiche. «Solo che - prosegue - finché lo scrivono alcuni quotidiani nessuno dice niente perché, a volte, sulla versione cartacea passa inosservato. I video, invece, sui social prendono forza e questo per qualcuno costituisce un problema. L'unico modo che hanno per denigrare il mio lavoro è quello di attaccare a livello personale. Perché non fanno loro un video in cui provano a controbattere a ciò che ho detto? D'altronde - tiene a dire ancora - i tracciati di un gps non si possono smentire, sono inequivocabili visto che sono dati e numeri». Il giovane, studente di scienze della comunicazione all'università di Torino, è stato preso di mira da più giornali, la maggior parte dei quali schierati dalla parte di chi pratica l'accoglienza e punta a far sì che in Italia arrivi sempre un maggior numero di migranti. In un articolo da Avvenire, il video del giovane è stato definito «immorale». l'Unità ha parlato di «video bufala che anche la destra cavalca», mentre il Manifesto ha titolato «La bufala rilanciata da Striscia prepara nuove stragi in mare». Insomma, ora un 23enne diventa, almeno per alcuni giornali, complice delle morti nel Mediterraneo per aver anche solo provato a denunciare che le Ong entrano nelle acque territoriali libiche per recuperare i migranti. Un controsenso non di poco conto, visto che da quando le organizzazioni non governative operano tra il canale di Sicilia e la Libia il numero dei migranti che arrivano sulle coste italiane è sensibilmente lievitato. I dati parlano di un'aspettativa di 250mila immigrati per il 2017 contro i 181mila del 2016. «Mi dà fastidio - specifica Luca - che molti dicano che il mio video è una bufala solo perché è apparsa su internet. Ricordo che ci sono le indagini aperte dalle varie procure siciliane a confermare ciò che ho detto. Peraltro, ho citato anche altri dati oltre ai rilevamenti gps, quali il numero dei morti in mare nel corso dei mesi passati, indicando un aumento, come confermato di recente anche dal procuratore di Catania Zuccaro». E poi chiarisce: «Ben vengano le critiche costruttive, se aiutano a migliorare un prodotto, ma che siano argomentate e non basate su attacchi personali. Cercano di sminuirmi dicendo che, in fondo, ho 23 anni e sono un blogger. Perché, invece, non provano a tirare fuori argomenti concreti?». Donadel assicura che continuerà a fare i suoi reportage. «Per adesso mi aiutano i miei follower - conclude -, qualcuno mi ha anche regalato un nuovo microfono. Un giorno vedremo. Fare il giornalista? Chissà».

Luca Donadel, il blogger che traccia le rotte dei migranti: "La sinistra mi attacca", scrive il 28 Aprile 2017 “Libero Quotidiano”. Luca Donadel, studente di Scienze della Comunicazione di 23 anni, ha realizzato un video con cui, attraverso un sistema Gps di rilevamento dei tracciati delle navi, è riuscito a ricostruire i movimenti dei natanti delle Ong attraverso il Mediterraneo verso le coste libiche. "I giornali di sinistra e quelli cattolici ce l'hanno con me, puntano a sminuire il mio lavoro", accusa ora il blogger in un colloquio con il Giornale, che partendo da un video "di Gefira che aveva fatto l'esperimento prima di me" ha poi tracciato le rotte e "postato il risultato sulla mia pagina Facebook. In poco tempo è stato visualizzato da un numero impressionante di contatti". Un lavoro quello di Luca che non è piaciuto a cattolici e comunisti. In un articolo di Avvenire, il video del giovane è stato definito "immorale", l'Unità ha parlato di "video bufala che anche la destra cavalca", il Manifesto ha titolato "La bufala rilanciata da Striscia prepara nuove stragi in mare". "Cercano di denigrare il mio lavoro attaccandomi a livello personale. Perché non fanno loro un video in cui provano a controbattere a ciò che ho detto? D'altronde i tracciati di un gps non si possono smentire, sono inequivocabili visto che sono dati e numeri". E i dati dicono che da quando le organizzazioni non governative operano tra il canale di Sicilia e la Libia il numero dei migranti che arrivano sulle coste italiane è sensibilmente lievitato. Si parla di un'aspettativa di 250mila immigrati per il 2017 contro i 181mila del 2016.  "Ricordo che ci sono le indagini aperte dalle varie procure siciliane a confermare ciò che ho detto - conclude Luca - e ho citato anche altri dati oltre ai rilevamenti gps, quali il numero dei morti in mare nel corso dei mesi passati, indicando un aumento, come confermato di recente anche dal procuratore di Catania Zuccaro". 

L'invasione della Libia continua: quasi 37mila arrivi in soli 4 mesi. Rotta nel Mediterraneo in forte crescita. Frontex: "Pericolose traversate per farsi soccorrere da navi Ue e Ong", scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 27/04/2017, su "Il Giornale".  Il disastro continua con il 36% in più di arrivi di migranti dalla Libia rispetto allo scorso anno. Il ministero dell'Interno ha reso noto ieri che sono sbarcati in Italia, in gran parte «accompagnati» dalle navi militari e delle Ong, 36.882 persone dall'inizio dell'anno. Il 36,31% in più rispetto al 2016, e il boom estivo non è ancora iniziato. Le organizzazioni umanitarie, l'intelligence e la diplomazia internazionale stimano che siano pronte a partire verso l'Italia da un minimo di 150mila persone a 250mila. Le stime massime indicano, però, che in Libia ci sarebbero dai 700mila al milione di migranti. Da gennaio la parte del leone la fanno i nigeriani (5229). Sicuramente alcuni, soprattutto cristiani, fuggono dalle regioni del nord est infestate da Boko Haram, la costola africana del Califfato, ma le bandiere nere sono in ritirata e relegate in una zona ristretta del Paese. Molti nigeriani sono migranti economici, come quelli che lasciano il Bangladesh, la seconda nazionalità (4504) arrivata in Italia dall'inizio dell'anno. I terzi classificati sono giunti dalla Guinea (4107) seguiti dai 3854 della Costa D'Avorio, 2910 del Gambia, 2529 dal Senegal e 2415 dal Marocco. Tutti Paesi dove non c'è alcuna guerra. Il direttore di Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere, Fabrice Leggeri, ha confermato che sta crescendo in maniera sensibile il flusso attraverso la rotta centrale del Mediterraneo. Non a caso ieri e oggi i ministri della Difesa Ue riuniti a Malta stanno affrontando anche il tema dell'ondata di barconi dalla Libia. Ieri pomeriggio l'ammiraglio Enrico Credendino li ha accolti a bordo della nave ammiraglia della missione EunavforMed, ribattezzata Sofia, nel porto de La Valletta. L'alto ufficiale italiano ha illustrato lo stato dell'arte della missione, che scadrà in luglio, ma probabilmente verrà rinnovata. L'operazione Sofia schiera cinque navi, sei elicotteri e 1545 militari. Fino ad oggi ha arrestato 109 scafisti e distrutto 414 barconi utilizzati dai trafficanti. Ben 34mila migranti provenienti dalla Libia sono stati tratti in salvo e fatti sbarcare in Italia. La stessa Frontex ha rivelato che i trafficanti costringono i migranti «a traversate pericolose su imbarcazioni non idonee alla navigazione e sovraccariche, che sono state organizzate con lo scopo palese di essere soccorse dalle navi EunavforMed e delle Ong». La «fase 2 bravo» e la terza del contrasto vero ai trafficanti e all'ondata di barconi dentro le acque libiche e sulle coste non sono ancora iniziate e potrebbero non vedere mai la luce verde. Credendino e l'Italia puntano, per ora, sulla guardia costiera libica con la consegna di 10 motovedette «che dovrebbero arrivare il mese prossimo». L'Italia a terra e a bordo di nave San Giusto e l'Olanda hanno addestrato il primo centinaio di libici, che dovranno contrastare il traffico di esseri umani. Peccato, che fino ad ora, la guardia costiera della Tripolitania, da dove parte il grosso dei barconi, sia sospettata di pesanti collusioni con i trafficanti. Ieri l'agenzia statistica europea (Eurostat) ha reso noto i dati sulla parallela impennata delle concessioni di asilo nella Ue nel 2016, più che raddoppiate rispetto al 2015. Su 710.400 rifugiati il 57% sono siriani. La Germania ha fatto la parte del leone concedendo la protezione internazionale a 445.210 persone, il triplo rispetto al 2015. L'Italia è al terzo posto fra i Paesi europei con 35.450 richieste accolte, in crescita del 20% rispetto all'anno precedente.

"Così le Ong vogliono destabilizzare l'economia italiana coi migranti". L'accusa del pm di Catania, Carmelo Zuccaro: "A mio avviso alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti. Si perseguono da parte di alcune finalità diverse: destabilizzare l'economia italiana per trarne dei vantaggi", scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 27/04/2017, su "Il Giornale". Nuovo affondo del procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro. Dopo aver confermato l'esistenza di "contatti tra Ong e trafficanti" e aver messo in dubbio le modalità di finanziamento di alcune tra le più attive associazioni umanitarie, oggi ai microfoni di Agorà su RaiTre il pm ha lanciato nello stagno delle polemiche un sasso che rischia di provocare un maremoto. "A mio avviso - afferma Zuccaro - alcune organizzazioni potrebbero essere finanziate dai trafficanti e so di contatti. Un traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga". E aggiunge: "Forse la cosa potrebbe essere ancora più inquietante. Si perseguono da parte di alcune Ong finalità diverse: destabilizzare l'economia italiana per trarne dei vantaggi". Un'ipotesi allarmante. Il procuratore invita a "non fare di tutta l'erba un fascio", come peraltro aveva già fatto in passato escludendo dal raggio dell'azione investigativa Medici Senza Frontiere e Save The Children. Ma vuole vederci chiaro perché "alcune non rispettano le regole" e sui finanziamenti compaiono più luci che ombre, tra 5x1000 milionari e ricchi assicuratori diventati filantropi. Doveroso dunque pretendere trasparenza. Ma non è solo una questione economica o giuridica. Bisogna fare anche una valutazione politica: come abbiamo già provato a spiegare su queste colonne, dietro l'attività di SAR (ricerca e soccorso) di tutte (e ripeto, tutte) le Organizzazioni Non Governative c'è la volontà di creare corridoi umanitari per permettere ai migranti di arrivare in Italia. Eppure quella di istituire "vie legali" per l'approdo in Europa è una scelta che spetta agli Stati e non certo ad enti di diritto privato che operano in mare aperto su imbarcazioni che battono bandiere di Paesi noti più per i conti offshore che per la limpidezza fiscale. Per questo Zuccaro fa aleggiare "finalità" che vanno oltre il semplice salvataggio di vite umane. Se alcune di esse cercano davvero la "destabilizzazione economica dell'Italia" ci sarà da divertirsi seguendo il prosieguo della vicenda. La politica ha già sollevato un polverone, con il M5S ad attaccare le Ong e il governo (Pd compreso) che vede "regie dietro gli sbarchi" ma si schiera con i giganti dell'immigrazione. Le indagini di Catania, Palermo, Cagliari e Reggio Calabria vanno avanti. Per il pool catanese "di prove si può parlare soltanto a fronte di conoscenze che possano essere utilizzate processualmente e queste al momento mancano". Ma elementi per scoperchiare il vaso di Pandora ci sono tutti. Quali? "Contatti diretti con soggetti che si trovano in Libia e annunciano la partenza di barconi", navi che accendono fari per indicare la rotta, gommoni "scortati" dai trafficanti vicino ai vascelli delle onlus, operazioni di recupero all'interno delle acque libiche, trafficanti che forniscono ai migranti i numeri di telefono degli operatori umanitari e via dicendo. Forse le evidenze non basteranno per un processo, ma sono sufficienti ad una valutazione generica dei fatti. Da quando le Ong operano nel Mediterraneo, gli scafisti fanno affari, la marina non riesce più ad arrestare i criminali e i morti in mare aumentano. Tutto questo merita risposte. Infine, in serata, sempre Zuccaro, incontrando i giornalisti, prova a raddrizzare il tiro: "La Procura di Catania - dice - ha delle ipotesi di lavoro, che non sono al momento prove, neppure quella sui loro finanziamenti". Il capo della procura etnea spiega di avere denunciato un "fenomeno", e non "singole persone" perchè se "si aspetta troppo tempo, rischia di produrre elementi deleteri non più controllabili e che questa è una deroga al riserbo, ma anche un dovere per chi deve fare rispettare la legalità".

Ecco il piano occulto delle Ong: fare da ponte per portarci tutti i migranti. Nei siti internet le Ong lo dicono chiaramente: "Vogliamo vie legali per far arrivare i migranti". Ma visto che l'Ue le nega, per adesso ci pensano loro

Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 26/04/2017, su "Il Giornale". Il ritornello è sempre lo stesso e potrebbe essere riassunto più o meno così: poiché l'Europa non si adopera per far arrivare tutti i migranti comodamente in Italia, ci pensano le Ong.  Che con la scusa dei salvataggi combattono la loro personale battaglia per costringere il Vecchio Continente a trasformarsi in un porto accogliente per chiunque voglia sbarcare in cerca di un futuro. Senza alcuna regola. Sia chiaro: non è certo un crimine sottrarre dall'annegamento persone che rischiano di morire su un gommone alla deriva. Ben diverso il discorso se, come sospettano le procure di Catania, Palermo, Cagliari e Reggio Calabria, le organizzazioni umanitarie in qualche modo (anche involontariamente) "incentivano" le partenze allo scopo di migliorare e aumentare i flussi migratori. Perché lo fanno? Il motivo è semplice: non condividono le politiche europee e non credono dunque ci sia nulla di male a fare quel che fanno. Medici Senza Frontiere, Save The Children, Moas, Sea-Eye e via dicendo pretendono la creazione di "canali legali" per le migrazioni ed è per questo che si impegnano così alacremente nel traghettarli in Italia. Finché l'Ue non aprirà le porte agli immigrati attraverso "vie istituzionali", loro continueranno a piazzarsi a poche miglia dalle coste libiche e ad intercettare i barconi. A scriverlo sono loro stesse nei propri siti internet: "Considerata la mancanza di operazioni di ricerca e soccorso dedicate e su vasta scala, abbiamo deciso di attivarci in prima persona", scrive MSF. E poi aggiunge: "Siamo consapevoli di come le operazioni di ricerca e soccorso non costituiscano affatto una soluzione: solo l’istituzione di vie legali e sicure per raggiungere l’Europa potrebbe ridurre o eliminare del tutto le morti in mare". Simili le parole usate da Save The Children: "Tra le raccomandazioni presentate alla UE e agli Stati Membri - si legge online - chiediamo di attivare e garantire vie sicure e legali attraverso le quali i migranti, e in particolare i bambini, possano raggiungere l’Europa evitando di affidarsi a trafficanti spregiudicati". Life Boat, con la sua nave Minden, non è da meno e accusa l'Ue di avere politiche di "preclusione" del Mediterraneo. Stesso identico ritornello per tutte le altre associazioni caritatevoli.

In sintesi, le Ong vorrebbero che l'Ue accettasse legalmente tutti gli stranieri, annullando così le rotte dei trafficanti, ma producendo immigrazione di massa. Sembra vogliano sostituirsi agli Stati, costringendo l'Italia e l'Europa ad accogliere indistintamente chiunque domandi cittadinanza. A dirlo non è un populista qualunque, ma il pm di Catania Carmelo Zuccaro. Il quale nella sua audizione di fronte alle commissioni parlamentari si è chiesto se sia "consentito ad organizzazioni private sostituirsi a forze politiche e alla volontà delle Nazioni". Non esiste infatti l'obbligo all'accoglienza. Esiste il dovere morale, politico e giuridico di dare assistenza ed asilo a chi fugge da guerre e persecuzioni. Ma questo non comprende i migranti economici, stranieri i cui flussi ogni Stato al mondo regola in base alle proprie capacità finanziarie e politiche. Nonostante ciò, le Ong stanno de facto sostenendo un afflusso incontrollato di uomini senza diritto all'accoglienza. Ne volete una prova? Nel 2016 delle 91mila domande di asilo esaminate in Italia, appena 17mila (il 19%) hanno avuto esito positivo. Gli altri non erano dunque profughi e "spingerli" ad arrivare in Italia per poi ottenere un giusto diniego li ha soltanto esposti ad inutili rischi in mare. Le organizzazioni umanitarie diranno che non è così, che loro pattugliano le coste libiche al solo scopo di salvare vite umane. Beh: qualcosa non sta funzionando allora. Da quando hanno iniziato le loro operazioni di SAR (ricerca e soccorso) i morti in mare non sono diminuiti. Sono aumentati.

Nomi, finanziatori e intrighi. Ecco tutti i segreti delle navi Ong. Da Soros al tifoso di Hillary Clinton, ecco dove prendono i soldi e come li spendono le Ong che portano migranti in Italia, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 21/04/2017, su "Il Giornale". Le Ong di nuovo nell'occhio del ciclone. Dopo le accuse di Frontex, le indagini di tre procure e il sospetto di "affari sporchi", ieri anche Matteo Renzi ha accusato le organizzazioni umanitarie di "non rispettare le regole". È vero? Chissà. Di certo ci sono molti lati oscuri su cui è doveroso fare un po' di luce.

Medici Senza Frontiere. Partiamo dalle associazioni più grandi. In cima alla lista va messa ovviamente Medici Senza Frontiere, che nel 2016 poteva contare su tre navi: la Dignity I, la Bourbon Argos e Aquarius. Oggi è rimasta attiva solo la Aquarius, a cui però è stato affiancato il nuovo acquisto "Prudence", un'imbarcazione commerciale da 75 metri e 1000 posti a bordo. Un gigante del salvataggio. Niente da ridire sulle attività che Msf porta avanti nel mondo. Anzi. Fa però sorridere il fatto che tra i suoi fondatori compaia Bernard Kouchner, medico francese che ha visto più palazzi della politica che sale operatorie. Nel 2007 infatti è stato nominato ministro degli Affari Esteri da Nicolas Sarkozy, ovvero di quel governo che ha bombardato Muhammad Gheddafi e trasformato la Libia nel porto senza regole da cui oggi partono i barconi carichi di immigrati. E così, in qualche modo, persone collegate a Msf sono al tempo stesso causa e palliativo della crisi migratoria. Oggi l'associazione per salvare stranieri dalle bagnarole sostiene spese ingenti, ma i fondi non sembrano essere un problema. Nel 2016 ha raccolto 38 milioni di euro grazie al contributo di 319.496 donatori, 9,7 milioni di euro dal 5x1000 (di cui 1,5 andati per la nave Bourbon Argos) e 3,3 milioni da aziende e fondazioni. Tra queste chi appare? La Open Society Foundation di George Soros, il magnate ungherese col vizio del buonismo. Peraltro, la Open Society e Msf sono soliti scambiarsi collaboratori come se facessero le cose in famiglia. Un esempio? Marine Buissonnière, per 12 anni dipendente Msf, poi direttrice del programma per la Sanità pubblica di Soros e ora di nuovo consulente per le migrazioni della Ong.

Save The Children. Guarda caso, Soros ha finanziato (anche se per altre iniziative) pure un’altra organizzazione attivissima nel recupero clandestini: Save The Children. La nota associazione internazionale ha nel suo parco navi la Vos Hestia, un’imbarcazione da 62metri, che batte bandiera italiana e si avvale di due gommoni di salvataggio. I soldi? No problem: nel 2015 a bilancio sono segnati 80,4 milioni di euro di incassi.

Proactiva Open Arms. Un anno fa a gestire il famoso peschereccio Golfo Azzurro, “beccato” dai radar a raccogliere stranieri vicino alle coste libiche, ci pensava l’olandese Life Boat Refugee Foundation. Da inizio 2017 la fondazione non organizza più salvataggi in mare, ma la Golfo Azzurro continua la sua opera al servizio della Ong spagnola Proactiva Open Arms, che una volta usava il vascello di lusso Astral. Per le loro navi gli spagnoli spendono 1,4 milioni di euro, di cui il 95% usati per le azioni di salvataggio (700mila euro al largo della Libia e 700mila euro a Lesbo) e il restante 5% in strutture, comunicazione e via dicendo. L’incasso però è più alto, con una raccolta fondi che supera i 2,1 milioni di euro. Secondo il direttore Oscar Camps, la Golfo Azzurro può ospitare 400 persone a bordo e un giorno di navigazione costa "solo" 5mila euro.

SOS Mediterranée. Spende invece almeno il doppio la Ong italo-franco-tedesca Sos Mediterranée, fondata dall’ex ammiraglio Klaus Vogel. Per sostenere 24 ore di mare, alla Acquarius servono circa 11mila euro. E se desiderate fare una donazione sappiate che con 30 euro si riesce a mettere in mare per un’oretta solo la lancia di salvataggio.

Sea Watch Foundation. Il mistero dei costi si infittisce osservando le attività della Sea Watch Foundation. Nel 2014 Harald Höppner investe con un socio 60.000€ nell’acquisto di un vecchio peschereccio olandese. Oggi vanta attrezzature di tutto rispetto: oltre alle due unità navali (una battente bandiera olandese e l’altra neozelandese), a breve dovrebbe essere operativo il “Sea Watch Air”, un aereo col compito di pattugliare dall'alto il Mediterraneo. Da dove vengono i soldi? Non è dato sapere.

Life Boat. Sia Sea Watch che la sorella Life Boat condividono una curiosità interessante. Tra i loro partner spicca la Fc St. Pauli, una società sportiva di Amburgo più famosa per sposare cause buoniste che per meriti calcistici. Per dirne una, è stata la prima squadra a vietare l’ingresso allo stadio ai tifosi di destra. Altro che accoglienza. La base operativa sarebbe a Malta, ma l’equipaggio della Minden sembra preferire i porti italiani per “scaricare” i migranti. Solitamente effettuano missioni da 10 giorni per 24 ore di navigazione e il costo giornaliero del carburante ruota attorno ai 25 euro. Sulla piattaforma betterplace.org sono riusciti a raccogliere 6mila euro per radar e comunicazioni satellitari, 7.500 euro per comprare un gommone di salvataggio e 12 mila euro per il combustibile. Troppi pochi per gestire così tante missioni. Gli altri da dove arrivano? Lecito chiederselo, visto che a breve dovrà comprare una barca tutta sua e per ora i generosi sostenitori hanno versato solo 1.800 euro.

Sea-Eye e Jugend Rettet. All’appello delle cinque Ong tedesche mancano la Sea-Eye e la Jugend Rettet. La prima è stata fondata nel 2015 da Michael Buschheuer, conta circa 200 volontari e sul sito è scritto che gli bastano 1.000 euro per pagare un’intera giornata alla ricerca di clandestini. La seconda invece è formata da un gruppo di ragazzi che per 100mila euro ha comprato il peschereccio Iuventa. Ogni missione in mare costa circa 40 mila euro al mese e viene finanziata con donazioni private. La loro raccolta fondi funziona molto bene, visto che da ottobre 2016 ad oggi hanno racimolato 166.232 euro.

Moas. Il caso più curioso è però quello della Migrant Offshore Aid Station, associazione maltese con due imbarcazioni (Phoenix e Topaz responder), diversi gommoni Rhib e alcuni droni. Moas è stata fondata nel 2013 da due imprenditori italo-americani, Christopher e Regina Catambrone, diventati milionari grazie alla Tanghere Group, agenzia assicurativa specializzata in “assistenza nelle emergenze e servizi di intelligence”. Tra i vari (e ricchi) partner, ha ricevuto 500mila euro da Avaaz.org, cioè la comunità riconducibile a Moveon.org, che a sua volta fa capo all'onnipresente George Soros. Non è tutto. Perché Christopher appare tra i finanziatori (416mila dollari) di Hillary Clinton durante l’ultima deludente campagna elettorale e negli anni si è contornato di personaggi a dir poco particolari. Nel circolo di amici appare tal Robert Young Pelton, proprietario di un’azienda (Dpx) che produce coltelli da guerra. Esatto: armi bianche già testate in zone di conflitto come Afghanistam Somalia, Iraq e Birmania. Non basta? Una seggiola del Consiglio di Moas è riservata a Ian Ruggier, ex ufficiale maltese famoso per aver represso con la violenza le proteste dei migranti ospitati sull’isola. Strano, no? Professano accoglienza e poi usano il pugno duro. Oltre ad avere alcuni lati oscuri, pare che lo Ong pecchino anche di coerenza.

Indagine sulle Ong al di sopra di ogni sospetto. Le navi delle organizzazioni umanitarie soccorrono ormai i migranti a poche miglia dalle coste libiche. Questo sta di fatto agevolando i trafficanti di uomini e i flussi di disperati diretti in Italia, scrive il 3 aprile 2017 Carmelo Abbate su "Panorama". (Con la collaborazione Annamaria Angelone, Fausto Biloslavo, Oscar Puntel). Sul ruolo delle Organizzazioni non governative (Ong) che soccorrono i migranti a ridosso delle coste libiche e li scaricano in Italia si sono accesi i fari di diverse procure. E non è vero che siamo ancora fermi nel campo delle indagini conoscitive. Secondo quanto risulta a Panorama, sulle Ong e sull’operato in molti casi ritenuto anomalo delle loro navi, c’è un’inchiesta penale condotta da diversi uffici giudiziari della Sicilia. Ci sono fascicoli aperti con l’affidamento da parte dei pubblici ministeri di deleghe di indagine alla polizia giudiziaria, che nel riserbo più assoluto stanno anche cercando di capire se e chi finanzia davvero queste missioni umanitarie. I magistrati vogliono far luce anche sul complicato sistema di scatole cinesi che porta molte delle navi impegnate nei soccorsi ad avere sedi nei Paesi off-shore. Questo lavoro investigativo dovrebbe servire a ricostruire la strada dei finanziamenti e ad accertare eventuali intrecci illeciti. Proprio in questi giorni si deve decidere quale procura verrà chiamata a coordinare le diverse inchieste. Che la materia sia spinosa lo dimostrano il riserbo degli investigatori e alcune indiscrezioni su accertamenti che riguardano anche gli enti preposti alla gestione dell’emergenza. Le ipotesi di reato su cui si sta lavorando vanno dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina all’associazione per delinquere. Alcuni aspetti intanto sono certi, come ha spiegato il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, nel corso della sua audizione al Comitato Schengen di palazzo San Macuto a Roma. Le navi delle Ong vanno a raccogliere i migranti fin dentro le acque territoriali libiche. Sono diminuite in maniera vertiginosa le chiamate di aiuto con telefono satellitare che partivano dai barconi all’indirizzo del comando generale delle Capitanerie di porto. Fattore che lascia pensare che gli scafisti conoscano le rotte da seguire per incrociare le imbarcazioni umanitarie, oppure che le stesse navi delle Ong siano dotate di un sistema di controllo del mare in grado di intercettare i natanti. Fatto sta che il 2016, con 181.436 arrivi, ha fatto segnare il record storico di migranti approdati sulle nostre coste. Con un picco di 27.384 sbarchi nel mese di ottobre, tre volte superiori rispetto allo stesso periodo del 2015. Approdo principale, i porti siciliani: Augusta in testa, poi Pozzallo, Catania, Messina e Palermo. I migranti recuperati dalle navi delle Ong sono stati 46.796, circa il 25 per cento del totale, che secondo quanto riferito da Zuccaro si sono concentrati soprattutto nei mesi di settembre e ottobre, quando la flotta non governativa è cresciuta fino a raggiungere 13 unità navali. Il procuratore di Catania riferisce che nei primi mesi del 2017 questa percentuale sarebbe già salita al 50 per cento. Lasciamo perdere per un attimo la capacità di accoglienza da parte dell’Italia e rimaniamo sui salvataggi di vite umane. La domanda è semplice: il soccorso vicino alle coste libiche ha portato a una diminuzione del numero dei morti durante le traversate? No, tutt’altro. Secondo i dati ufficiali dell’Unhcr, il 2016 si è concluso con il peggior bilancio di sempre: oltre 5 mila decessi e dispersi, più 23 per cento rispetto al 2015. E nei primi due mesi del 2017 siamo già a 485 morti tra uomini, donne e bambini, contro i 425 dell’anno scorso. Nessuna efficacia dunque, da un punto di vista umanitario. Ma l’impegno delle Ong non produce effetti neppure nel provare a sottrarre i disperati dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani. Anzi, le indagini delle procure siciliane hanno registrato quello che Zuccaro chiama un «azzeramento» dell’attività di contrasto dei criminali. Anche perché, essendo diventato il tragitto molto più breve, i trafficanti non mettono più un loro uomo a guidare i barconi. E infatti è calato il numero di criminali arrestati. Significativo poi l'atteggiamento reticente dei migranti che sbarcano dalle navi delle Ong, meno disposti a rispondere e collaborare alle indagini rispetto a quelli trasportati sulle navi militari, dove fra l'altro è prevista la figura del facilitatore alle indagini. Intanto i costi per la collettività aumentano. Nel 2016 la spesa complessiva per l'immigrazione è arrivata alla cifra record di 4,2 miliardi di euro. E per il 2017 sono già stati stanziati 3,8 miliardi (senza tener conto dei 200 milioni del Fondo per l'Africa), 860 milioni solo per il soccorso in mare. Un autentico pezzo di economia per tanti piccoli e grandi centri d'affari che vivono di immigrazione clandestina. La denuncia clamorosa del procuratore di Catania è solo l'ultimo tassello di un mosaico la cui costruzione è iniziata lo scorso anno. È il 3 marzo, il generale austriaco Wolfgang Wosolsobe, capo dello staff militare dell'Unione europea, durante una audizione a porte chiuse al Parlamento inglese, suona il primo campanello di allarme: "I migranti sembrano ricevere istruzioni e linee guida su come evitare di dare informazioni" alla polizia italiana riguardo alla rete dei trafficanti da "almeno una delle Ong che operano nella zona" dichiara l'alto ufficiale, che dipende dall'ufficio di Federica Mogherini, l'Alta rappresentante per la politica estera europea. Davanti allo sbigottimento dei Lord di Londra, il generale conferma: "Abbiamo le prove". Un ammiraglio italiano che ha avuto un impegno diretto nell'area, conferma a Panorama: poi l'atteggiamento reticente dei migranti che sbarcano dalle navi delle Ong, meno disposti a rispondere e collaborare alle indagini rispetto a quelli trasportati sulle navi militari, dove fra l'altro è prevista la figura del facilitatore alle indagini. Intanto i costi per la collettività aumentano.

Nel 2016 la spesa complessiva per l'immigrazione è arrivata alla cifra record di 4,2 miliardi di euro. E per il 2017 sono già stati stanziati 3,8 miliardi (senza tener conto dei 200 milioni del Fondo per l'Africa), 860 milioni solo per il soccorso in mare. Un autentico pezzo di economia per tanti piccoli e grandi centri d'affari che vivono di immigrazione clandestina. La denuncia clamorosa del procuratore di Catania è solo l'ultimo tassello di un mosaico la cui costruzione è iniziata lo scorso anno. È il 3 marzo, il generale austriaco Wolfgang Wosolsobe, capo dello staff militare dell'Unione europea, durante una audizione a porte chiuse al Parlamento inglese, suona il primo campanello di allarme: "I migranti sembrano ricevere istruzioni e linee guida su come evitare di dare informazioni" alla polizia italiana riguardo alla rete dei trafficanti da "almeno una delle Ong che operano nella zona" dichiara l'alto ufficiale, che dipende dall'ufficio di Federica Mogherini, l'Alta rappresentante per la politica estera europea. Davanti allo sbigottimento dei Lord di Londra, il generale conferma: "Abbiamo le prove". Un ammiraglio italiano che ha avuto un impegno diretto nell'area, conferma a Panorama: "Gli stessi sopravvissuti ci raccontavano del personale umanitario che li aveva soccorsi in mare che li istruiva a non collaborare con la polizia e non fare i nomi dei trafficanti". Il rapporto con le rivelazioni di Wosolsobe viene pubblicato sul sito del Parlamento britannico il 13 maggio dello scorso anno, prova evidente che la situazione era formalmente nota a tutte le più alte cariche istituzionali, a cominciare dalla stessa Mogherini. Passano i mesi. La fondazione indipendente Gefira, con sede a Nijmegen in Olanda, effettua un monitoraggio delle imbarcazioni umanitarie sul Mediterraneo attraverso il sito Marine traffic, che traccia i percorsi e le posizioni delle navi. Il 12 ottobre Gefira scopre che una giornalista olandese, Eveline Rethmeier, dell'emittente Rtl nieuws, si trova a bordo della nave Golfo azzurro dalla quale fa partire una cronaca in diretta, anche su Twitter, dell'attività di bordo. Gefira incrocia i tweet della giornalista con i relativi movimenti in mare delle imbarcazioni. Scrive Rethmeier: "Alle 8 del mattino riceviamo la notizia che una barca è in difficoltà a circa 30 miglia da noi. La Guardia costiera italiana richiede assistenza". La giornalista pubblica un video con un uomo che lei qualifica come il responsabile della nave, che dice testualmente in inglese: "C'è tanta chat sulla radio questa mattina, ed è la Guardia costiera che parla. Sembra che qualcosa stia succedendo: non abbiamo ancora il segnale, non abbiamo ancora il lavoro, ma ci stiamo muovendo verso la posizione, quindi preparatevi, state pronti". Golfo azzurro si trova a 30 miglia di distanza dal punto dove poi avverrà il salvataggio, in acque territoriali libiche. Alle 19 della sera, secondo l'agenzia Ansa, il "Maritime rescue coordination centre di Roma contatta le navi Phoenix, Golfo azzurro, Astra e Juventa, per una operazione di recupero". Alle 20, un rimorchiatore registrato in Italia, il Megrez, lascia il porto libico di Mellitah e si porta fino a 6 miglia fuori dalla costa. Alle 20,40 il rimorchiatore si ferma a due miglia dal punto dove avviene il salvataggio, e torna indietro. Non si registra nessun altro movimento nella zona, solo questo rimorchiatore che esce a fare una passeggiata in mare di notte. Alle 21,20 un drone della nave Phoenix identifica un gommone a 8,5 miglia da Mellitah, in acque libiche. Vengono soccorse 113 persone. Il porto più vicino è Zarzis, in Tunisia, ma vengono portate a Pozzallo. Taco Dankers è il responsabile di Gefira, una sorta di think tank paneuropeo. Lo raggiungiamo al telefono in Olanda e ci pone questa domanda: "Come è possibile che secondo quanto riferisce la giornalista olandese si sapesse 10 ore prima cosa sarebbe successo in acqua territoriali libiche?" Siamo a novembre dello scorso anno. Anche l'agenzia europea Frontex nota alcune anomalie sulle modalità di trasporto dei migranti: imbarcazioni senza acqua, cibo, coperte.

Carburante ridotto al minimo. Niente più barconi ma solo gommoni, sui quali il numero dei viaggiatori da 100 arriva fino al doppio. Partenze anche in condizioni del mare avverse e in ore notturne. In un rapporto interno pubblicato dal Financial Times, Frontex parla di migranti che al momento della partenza hanno ricevuto "chiare indicazioni sulla direzione da seguire per raggiungere le imbarcazioni delle Ong". L'atto d'accusa si formalizza nel rapporto annuale 2017, nel quale Frontex scrive di "involontario aiuto" ai trafficanti di esseri umani. Le anomalie certo non mancano a bordo delle 13 unità navali che operano nel Mediterraneo per conto di organizzazioni no profit, alcune delle quali sono parte di progetti finanziati dalla fondazione del miliardario americano George Soros. Ci sono Save the children e Medici senza Frontiere, che opera con due unità: Bourbon argos e Dignity1. Ci sono poi ben cinque Ong tedesche: Sos Mediterranée, fondata dall'ex ammiraglio Klaus Vogel, con la nave Acquarius, i cui costi di missione ammontano a 11 mila euro al giorno. Sea watch foundation, con due unità navali, una battente bandiera olandese l'altra neozelandese, e alcune unità aeree. Sea eye, con un peschereccio che batte bandiera olandese e un motoscafo. Life boat con la nave Minden, bandiera tedesca. Jugend Rettet, con il peschereccio Iuventa. Una Ong è spagnola, la Proactiva open arms, con due unità: Astral e Golfo azzurro. Infine c'è l'organizzazione maltese Moas, con le due navi Phoenix e Topaz responder, fondata e finanziata da una coppia di miliardari italo-americani, Regina e Chris Catrambone, che gestiscono il Tangiers group, specializzato in "assicurazioni, assistenza nelle emergenze e servizi di intelligence". Ed è quantomeno curioso che nel consiglio di Moas sieda Ian Ruggier, ex ufficiale maltese, che ha represso duramente le proteste dei migranti sbarcati in passato sull'isola. Come appare curioso che la maggior parte delle Ong abbiano la base operativa a Malta, vadano a prendere i migranti fin dentro le acque territoriali libiche per poi passare alla larga dalla stessa Malta e "scaricare" in Sicilia. Il guaio è che possono farlo, lo consentono le norme internazionali sottoscritte anche dall'Italia, come afferma Giuseppe Nesi, preside della facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Trento, docente di diritto internazionale, già consigliere giuridico del presidente dell'assemblea generale delle Nazioni Unite.

"La Convenzione Search and rescue (Sar), Ricerca e salvataggio, stipulata nel 1979 in sede di Organizzazione marittima internazionale, ha diviso il mondo in 13 aree di soccorso" spiega Nesi, che fa riferimento anche alle successive modifiche normative. "Chi presta soccorso deve verificare qual è il porto più vicino e più sicuro". Non solo vicinanza, dunque, ma anche sicurezza. "Valutazione che spetta al comandante della nave e al coordinatore dell'area, che è sempre uno Stato. E nel caso del basso Mediterraneo, guarda caso, è proprio l'Italia. Malta invece è l'unico Paese che ha addirittura rifiutato di aderire alla convenzione". Ecco come riesce a lavarsene le mani. Mentre l'Italia se l'è legate da sola, insieme con i piedi. (Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale Panorama in edicola il 30 marzo 2017; pubblicato sul sito web Panorama.it il 3 aprile 2017)

Come si vede su un tema delicato come quello dell’invasione dei cosiddetti migranti non ci si capisce un cazzo. Forse dovuto alla parzialità delle fonti di informazione o alla limitata libertà di stampa che vi è in Italia.

Libertà di stampa, così i giornali si dividono sulle accuse a Grillo, scrive l’Agi il 27 aprile 2017. Dal rapporto 2017 di Reporters sans Frontieres, l’organizzazione internazionale che ogni anno fa il punto sullo stato di salute dell’informazione nel mondo, emerge che l'Italia nella classifica annuale guadagna 25 posizioni passando dal 77/o al 52/o posto. Restano però "intimidazioni verbali o fisiche, provocazioni e minacce", e "pressioni di gruppi mafiosi e organizzazioni criminali". Tra i problemi indicati anche l'effetto di "responsabili politici come Beppe Grillo che non esitano a comunicare pubblicamente l'identità dei giornalisti che danno loro fastidio". La reazione del leader M5s al rapporto non si è fatta attendere: "Oggi ho scoperto di essere io la causa del problema di libertà di stampa in Italia. Lo afferma il rapporto di Reporters Sans Frontieres appena pubblicato", scrive Grillo sul suo blog. Ecco come hanno commentato i quotidiani italiani la vicenda:

"Chi di rapporto colpisce, di Rapporto perisce". Per poter dare più autorevolmente dei servi ai giornalisti che non la pensano come lui, Grillo ha spesso usato il Rapporto di "Reporter senza frontiere" sulla libertà di stampa che colloca l'Italia nelle posizioni di bassa classifica. Quest'anno le cose vanno un po' meglio. Ma se non vanno ancora bene, dicono gli estensori della ricerca, è anche per colpa delle liste di proscrizione che Grillo è solito pubblicare sul proprio blog con i nomi dei cronisti sgraditi. Insomma, chi di Rapporto colpisce, di Rapporto perisce. Ma ecco l'ennesima giravolta del grand'uomo. Trovandosi per una volta lui dentro la lista dei cattivi, prende cappello e ne attacca gli autori, fino a ieri portati a modello, accusandoli di essere passati al soldo dei giornali. Massimo Gramellini - Il Corriere della Sera 

Reporters sans Report. Resta da capire come mai, quando le opposizioni criticavano la Rai occupata da B., gli organismi internazionali si preoccupavano non per chi la criticava, ma per chi la occupava, mentre oggi che le critiche vengono dai 5Stelle e dalle sinistre sciolte, cioè dagli esclusi dalla spartizione, il monopolio governativo sull'informazione non è più un vizio da combattere, ma una virtù da difendere. Il guaio è che ormai la percezione della realtà è talmente falsata dai gargarismi propagandistici sul populismo, le post-verità e le fake news, che anche chi la osserva dall'esterno è costretto a indossare occhiali deformanti. E giunge a conclusioni paradossali: se il pericolo per la stampa libera viene da chi critica la propaganda governativa, da sempre principale produttrice ed esportatrice di fake news, e non dal partito di governo che caccia la Berlinguer dal Tg3 perché non allineata, chiude Ballarò di Giannini perché non allineato e bombarda Report perché non allineato, allora anche in Turchia e in Russia la libera stampa è minacciata non da Erdogan e da Putin che arrestano i giornalisti scomodi (quelli che hanno la fortuna di non crepare in circostanze misteriose con largo anticipo sulla tabella di marcia) e chiudono i giornali di opposizione, ma da chi protesta contro gli arresti e le serrate. C'è una bella differenza - o almeno dovrebbe esserci - fra le opposizioni che criticano i Minculpop governativi e i governi che attaccano i pochi giornalisti e testate che sfuggono al loro controllo. Marco Travaglio - Il Fatto quotidiano

Prima era il verbo ora non vale più. Si capisce che a Beppe Grillo non faccia piacere, scoprire che nel rapporto annuale di Reporters senza frontiere sulla libertà di stampa in Italia c'è finalmente il suo nome, ma purtroppo tra le cause e non tra i rimedi della malattia dell'informazione. Grillo naturalmente non ci sta, a essere indicato come l'unico politico che condiziona la libera stampa. Lui che da otto anni a questa parte cita il rapporto di Rsf a ogni suo comizio, lui che al primo vaffa day ci spiega che la nostra informazione è inquinata, lui che promette notizie pulite e anzi pulitissime quando i Cinquestelle andranno al potere, non accetta di essere additato come il principale responsabile delle minacce ai giornalisti, addirittura accanto alla mafia e all'Isis. Sebastiano Messina - La Repubblica

La libera stampa? Chi la minaccia non è (solo) Grillo. Non ho mai avuto troppa fiducia in questa speciale classifica, né oggi mi sento minacciato da Beppe Grillo nonostante mi onori di ospite quasi fisso nella sua personale lista di giornalisti da mettere all'indice. Anche perché per passare dalle parole ai fatti è necessario sedere nella stanza dei bottoni, cosa che oggi, per fortuna non è. Semmai - come ho già avuto modo di dire - a limitare la libertà siamo noi giornalisti, soprattutto i colleghi che fanno tv che accettano, immagino liberamente, di trattare grillini a condizioni vergognose (niente contraddittorio, domande spesso concordate, ospiti in studio al massimo se scelti da loro in quanto simpatizzanti). Personalmente ho scritto di tutto su Beppe Grillo, compreso ricordare il suo passato di evasore fiscale, e non ho mai ricevuto una querela. A differenza di quanto accade con i magistrati, con i quali siamo in perenne contenzioso legale. Alessandro Sallusti - Il Giornale

Che cosa cela la baruffa politica su Libia, Ong e migranti, scrive Stefano Vespa il 28 aprile 2017 su "Formiche". Sul ruolo di alcune Ong nell’opera di soccorso dei migranti nel Mediterraneo il quadro giudiziario e politico è ormai piuttosto chiaro, nonostante alcune cronache qualche volta preferiscano cogliere le parole che piacciono di più anziché valutarle nel loro insieme. Riassumiamo gli elementi di fatto. Primo: è ormai certo che ci sono contatti tra trafficanti libici e alcune Ong. Ripetiamo: “alcune” Ong. Secondo: tutti sanno che il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, dice la verità quando parla di questi contatti ammettendo indirettamente che si tratta di informazioni di intelligence e non di polizia giudiziaria, e dunque inutilizzabili processualmente, come ha detto da ultimo in un’intervista al sito Live Sicilia. Terzo: l’ipotesi avanzata da Zuccaro in un’intervista ad Agorà su Raitre di Ong finanziate dai trafficanti, addirittura con lo scopo finale di destabilizzare l’economia italiana, è indubbiamente una bomba che ha costretto il governo a intervenire anche per non lasciare un tema così scottante alle sole opposizioni di centrodestra e del M5s. Quarto: non è vero che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e quello dell’Interno, Marco Minniti, abbiano commentato allo stesso modo le parole di Zuccaro, come fanno intendere alcuni giornali quasi fosse una difesa d’ufficio di tutte le Ong. Anzi, le diversità tra i due confermano che i fatti sono veri e che creano disagio in certi ambienti. Orlando non è solo il Guardasigilli, ma anche il candidato dell’ala più a sinistra del Pd alle primarie del 30 aprile e quindi deve fare attenzione agli umori della sua base elettorale, storicamente pacifista e geneticamente incapace di porsi dei dubbi su qualunque attività di volontariato, come quello attuato dalle organizzazioni non governative. Minniti, sulla cui storia di sinistra nessuno può eccepire, è invece uomo pragmatico e nel question time alla Camera del 27 aprile la sua frase più importante non è stata quella sulla necessità di “evitare generalizzazioni” (che infatti Zuccaro non ha mai fatto, anzi), bensì quella per cui “le questioni sollevate in queste interrogazioni non possono essere sottovalutate”, riferendosi alla posizione di Forza Italia. Traduzione per chi a sinistra non vuol capire: attenti, perché c’è materiale preoccupante, e viene da ricordare che un ministro dell’Interno abbia ogni tipo di informazione riservata, a prescindere dai procuratori della Repubblica. Se restiamo a ciò che concretamente può entrare nel fascicolo di un’inchiesta, ha ragione Orlando quando invita ad attenersi ai fatti mentre l’Ong maltese Moas sfida la procura di Catania a dimostrare le accuse. Proprio la Moas, infatti, sembra particolarmente nel mirino di Zuccaro quando ricorda che le sue spese ammontano a 400 mila euro al mese e che “aveva due droni ad altissima tecnologia, forniti da un’industria austriaca. Adesso li hanno rimpiazzati con un aereo da ricognizione che è più performante e costa di più” come ha detto in quell’intervista a Live Sicilia. La grande domanda, quindi, è da dove arrivino questi soldi perché finora non ci sono prove su provenienze illecite. A questo punto tutti dovrebbero rendersi conto che la confusione non conviene a nessuno: il procuratore Zuccaro ha lanciato una montagna, più che un sasso, nello stagno e ora potrebbe non rilasciare interviste per un po’ di tempo; il governo alle prese con la difficilissima stabilizzazione in Libia dovrebbe anche aumentare gli sforzi investigativi e di intelligence; le Ong non “compromesse” e le associazioni umanitarie in genere dovrebbero smetterla di alzare un muro respingendo le accuse a prescindere dai fatti perché ormai i cittadini italiani hanno capito che qualcuno non fa il proprio dovere. Un campanello di allarme arriva da un sondaggio Ixè per la trasmissione Agorà: solo il 34 per cento degli italiani ha fiducia nelle Ong, il 48 per cento non si fida, mentre il 18 per cento non si è espresso. Chi lavora onestamente e salva migliaia di vite umane dovrebbe capire che la confusione e le speculazioni politiche danneggiano proprio loro: prendano le distanze da chi è opaco e avranno tutto da guadagnare.

Ong, migranti e Libia, ecco verità, tartufismi e frottole, scrive Stefano Vespa il 27 aprile 2017 su "Formiche". Quando la “notizia” dovrebbe essere nota a tutti, ma ancora non viene masticata dalla politica, resta confinata alla stampa più attenta; quando la politica se ne accorge e ne fa un cavallo di battaglia, la confusione aumenta sia per colpa del politico che la sfrutta, sia per colpa di importanti testate (come radio e telegiornali) che si limitano a copiare i quotidiani con un’aggiunta di “politicamente corretto” che prescinde dai dati di fatto. Quando infine l’accusa diventa sempre più circostanziata non si può più fare finta di niente. Il salvataggio dei migranti nel Mediterraneo ha portato alla luce da molto tempo il ruolo delle Ong impegnate in mare e, dopo aver sparato nel mucchio contro “le” Ong, solo da poco si comincia a distinguere. L’ultima bomba è stata sganciata dal procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, intervistato il 27 aprile ad Agorà su Raitre: “A mio avviso alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti e so di contatti. Un traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga. Forse la cosa potrebbe essere ancora più inquietante, si perseguono da parte di alcune Ong finalità diverse: destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi”. Cerchiamo di ricostruire gli eventi. La polemica politica si è accesa il 21 aprile quando sul blog di Beppe Grillo è stato pubblicato un duro attacco alle “Ong private” e al loro “oscuro ruolo” nel traffico di migranti: nel week end precedente erano state salvate circa 8.500 persone. Due giorni dopo, il 23 aprile, il quotidiano La Stampa (fonte quasi mai citata da radio e tv) ha pubblicato un’intervista al procuratore Zuccaro, che indaga sulle operazioni di soccorso come i colleghi di Palermo e Cagliari. Zuccaro è stato chiarissimo: “Su Ong come Medici senza frontiere e Save the children davvero c’è poco da dire. Discorso diverso per le altre come la maltese Moas o le tedesche, che sono la maggior parte”. E ha aggiunto: “Abbiamo evidenze che tra alcune Ong e i trafficanti di uomini che stanno in Libia ci sono contatti diretti, non sappiamo ancora se e come utilizzare processualmente queste informazioni, ma siamo abbastanza certi di ciò che diciamo; telefonate che partono dalla Libia verso alcune Ong, fari che illuminano la rotta verso le navi di queste organizzazioni, navi che all’improvviso staccano i trasponder sono fatti accertati”. Evidenze e fatti accertati. Ma nel mese precedente a quell’intervista dov’erano certi politici e certi autorevoli giornalisti? Il 22 marzo, infatti, Zuccaro era stato ascoltato in audizione dal Comitato parlamentare Schengen e aveva espresso gli stessi dubbi e le stesse accuse. Il 12 aprile, poi, era stato il direttore dell’agenzia europea Frontex, Fabrice Leggeri, dinanzi alla commissione Difesa del Senato a dire chiaramente di avere le prove di contatti diretti tra scafisti e Ong, prove che avrebbe fornito solo all’autorità giudiziaria competente. Era noto tutto da tempo; poi il 23 aprile, giorno di quell’intervista alla Stampa, il vicepresidente della Camera ed esponente del M5s, Luigi Di Maio, ha sparato a zero dicendo che “le Ong trasportano criminali in Italia” ed è cominciato un (presunto) dibattito che è servito solo ad aumentare la confusione. Nell’intervista ad Agorà Zuccaro ha detto altre cose importanti. Intanto, che i contatti diretti tra trafficanti e alcune Ong sono inequivocabili: se dalla Libia telefonano chiedendo se possono far partire i barconi nonostante il mare grosso, ha detto Zuccaro, e la risposta è sì perché certe navi sono a ridosso della Libia, “la Convenzione di Amburgo non è applicabile”. E all’obiezione che certe frasi dette da un magistrato senza mostrare prove creano confusione e un corto circuito mediatico, il procuratore ha risposto in modo altrettanto chiaro: “Se l’informazione è corretta, come fanno tutti i giornalisti seri, questo corto circuito non si può creare, salvo che per effetto di persone che vogliono creare confusione. Se io dico chiaramente che non tutte le Ong lavorano correttamente, il corto circuito si crea se le distinzioni non vengono fatte”. Anche alcuni intervistati non aiutano a fare chiarezza. Se Medici senza frontiere e Save the children respingono le accuse hanno ragione: il primo ad averlo detto è stato Zuccaro e Valerio Neri, direttore generale di Save the children, nell’audizione del 19 aprile fu il più trasparente, spiegando anche che l’85 per cento dei loro investimenti è destinato ai Paesi di origine dei migranti e dimostrando di voler risolvere lì il problema. Neri onestamente aggiunse anche che «quando girano così tanti soldi, non si può escludere qualche affare sporco». Se però le stesse Ong “in regola” difendono d’ufficio tutte le Ong, senza distinzione, si avventurano in un terreno inesplorato: che ne sanno delle altre? A Radio anch’io del 26 aprile si è parlato anche di “presunti trafficanti libici” che avrebbero avuto contatti con un’Ong spagnola (una correttezza linguistica che ricorda quando le Brigate rosse erano “sedicenti”) e Regina Catrambone, fondatrice con suo marito dell’Ong maltese Moas accusata dalla procura di Catania, ha respinto l’accusa di aver ricevuto telefonate dagli scafisti: ben venga l’inchiesta, ha detto, attendiamo le prove. Al quotidiano La Sicilia di Catania il procuratore Zuccaro aveva già descritto l’enorme flusso pasquale dicendo che «a Pasqua sulle coste libiche c’erano tante navi pronte a partire che sembrava lo sbarco degli Alleati in Normandia» anche se «bisogna trasformare le conoscenze in prove e non è facile». Frontex, però, non molla. La portavoce dell’agenzia europea, Izabella Cooper, ha detto che “salvare vite è un obbligo internazionale per chi opera in mare, è chiaro che i trafficanti in Libia se ne approfittano”. Cooper, dopo aver ricordato che dall’anno scorso la ricerca e soccorso si spinge fino al limite delle acque libiche mentre in precedenza le barche dei migranti arrivavano a Lampedusa, ha spiegato come i trafficanti sappiano che il salvataggio sarà pressoché immediato visto che cibo e acqua a bordo sono ridotti e che vengono tolti i motori dalle barche quando i soccorsi sono nelle vicinanze. Eppure perfino queste dichiarazioni sono state strumentalizzate: secondo la portavoce dell’Unhcr, Carlotta Sami, intervistata dal Tg1 del 26 aprile, Frontex avrebbe affermato di non avere evidenze di collusione tra scafisti e Ong, ma che c’è chi approfitta dei salvataggi in mare. Detto che nelle parole di Izabella Cooper non c’è traccia di “assenza di evidenze di collusione”, era stato proprio il direttore di Frontex, Leggeri, a sostenere di avere quelle prove: che un’agenzia delle Nazioni Unite importante e meritoria come l’Alto commissariato per i rifugiati lo abbia “dimenticato” serve solo ad alzare la nebbia su come stanno le cose. Nel frattempo i numeri restano impietosi: 36.883 arrivi, il 36,3 per cento in più dell’anno scorso (dati ministero dell’Interno al 27 aprile) mentre secondo Eurostat nel 2016 l’Ue ha concesso l’asilo a 710.400 persone, il doppio del 2015: prima è la Germania con 445.210, terza l’Italia con 35.450. In attesa di altre audizioni previste in Parlamento, tocca alla magistratura fare finalmente chiarezza, magari con l’aiuto di giornalisti e portavoce più precisi e attenti.

Trafficanti, affari e politica. “Tutta la verità sulle Ong”. Intervista di Antonio Condorelli, Giovedì 27 Aprile 2017, su "Live Sicilia". Lunga intervista al procuratore capo di Catania Carmelo Zuccaro. “Stiamo per mettere in mare i gommoni, intervenite!”. E' il contenuto dell'intercettazione carpita dagli uomini dei servizi segreti pochi mesi fa, un'intercettazione inutilizzabile processualmente che documenta il contatto tra scafisti e Ong, non un patto. Ma ci sono anche le Ong che staccano i transponder per arrivare a poche miglia dalle coste libiche. Tutta la verità sulle Ong raccontata dal procuratore capo di Catania Carmelo Zuccaro.

A che punto sono le indagini?

«Noi seguiamo la pista dei soldi – esordisce il procuratore - ci stiamo muovendo con dei poteri che non sono quelli dell'autorità giudiziaria, perché un'indagine penale vera e propria, almeno per le fonti di finanziamento, non esiste. Noi cerchiamo di capire chi finanzia alcune di queste Ong. Alcune sono fuori discussione, hanno dei finanziamenti tracciabili storicamente. Medici senza frontiere e Save the children, per esempio, operano per scopi sicuramente umanitari, ma tutte quelle che sono nate da poco, con lo scopo di svolgere questa attività, hanno dei finanziatori che non rispondono ad esigenze di filantropia e quindi non sembrano proprio dei benefattori internazionali. Lì dobbiamo cercare di capire meglio i retroscena e io ho richiesto alle forze di polizia di poter fare degli sforzi investigativi più intensi, perché una delle preoccupazioni che ho è che i tempi dell'acquisizione della prova possano essere incompatibili con l'esigenza di agire presto e bene. E' una ricerca che va fatta, ma se non ci sarà questo sforzo investigativo rischiamo di prendere troppo tempo».

Avete la prova di contatti con le organizzazioni di trafficanti?

«Alcune agenzie che non svolgono attività di polizia giudiziaria (servizi segreti, ndr), hanno documentato i contatti ma si tratta di atti che non posso utilizzare processualmente, anche se mi danno la conoscenza certa che questo avviene. Ci sono dei natanti di Ong che superano i confini delle acque internazionali, staccano i transponder per non farsi localizzare e rendersi invisibili a chi li deve monitorare. Vi sono Ong che prendono chiamate dalla Libia in cui si dice <<Stiamo per mettere in mare i gommoni, intervenite!>>”. Il Moas, per esempio, ci risulta che aveva due droni ad altissima tecnologia, forniti da un'industria austriaca, adesso li hanno rimpiazzati con un aereo da ricognizione che è più performante e costa di più».

Sapete da dove provengono questi soldi?

«Abbiamo capito che i costi che sostiene il Moas, 400mila euro al mese, sono costi che devono avere delle provenienze su cui dobbiamo fare accertamenti che ci portino a prove sicure. Oggi queste prove non le abbiamo».

E' quindi ipotizzabile la collaborazione delle Ong con i trafficanti di migranti?

«E' possibile ma è solo un'ipotesi che al momento non ha riscontro. I contatti ci sono, che vi siano, oltre ai contatti per avvisare della partenza non lo posso escludere, ma non lo posso neanche sostenere. Di questo non ho neanche le conoscenze utilizzabili processualmente».

E' vero che alcuni scafisti hanno scortato i migranti fino alle navi delle Ong?

«Questo oggi non è strettamente necessario, tenuto conto che queste navi si fanno notare con radiofari, riflettori, altre segnalano la loro posizione. In questo momento l'accompagnamento da parte dei facilitatori del traffico è diventato inutile. Un tempo c'era».

La politica che ruolo ha e che ruolo dovrebbe avere in questo sistema?

«Le Ong migliori che rispondono solo alla solidarietà stanno mettendo in mora la politica, che non sta facendo il suo lavoro per salvare le vite umane. La politica buona deve dare una risposta immediata, se ci sono corridoi umanitari da creare li devono creare i politici e non le organizzazioni private, altrimenti il flusso migratorio diventerà ingestibile».

Col rischio che in questo business ci finisca qualche Ong?

«C'è il rischio di creare situazioni economiche non gestibili dall'Italia, il rischio di alimentare un business di organizzazioni criminali che stanno aprendo centri di accoglienza solo allo scopo di intercettare il denaro. I rischi sono tanti, come la prostituzione minorile che a Catania è rilevantissima. Adesso servono concrete risposte politiche.»

Questione di migranti, scrive il 2 maggio 2017 Piccole Note de “Il Giornale”. La questione migranti tiene banco. Ad accendere nuovamente i toni della controversia le parole del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che si è detto convinto che vi sia un qualche legame tra gli scafisti e alcune ong votate al salvataggio in mare dei migranti, legame che sarebbe impossibile accertare per mancanza di mezzi. Le parole del procuratore siciliano hanno suscitato un’accesa contesa tra quanti sentono le loro ragioni suffragate dalla sua denuncia e quanti invece rifiutano quella che ritengono una vergognosa criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie. Sul tema è intervenuto anche l’Osservatore romano, giornale di certo alieno da pulsioni anti-migranti. Così il giornale della Santa Sede: «Sulla pelle dei migranti sta emergendo un ennesimo scandalo: il sospetto, che purtroppo non sembra totalmente privo di fondamento, di una manipolazione a fini economici e politici anche delle operazioni di salvataggio. La paura che venga meno lo sforzo generoso di molti per il salvataggio dei migranti non deve portare a semplificare il problema negandone l’esistenza». Posizione intelligente, che va al di là delle dispute ideologiche e politiche. A titolo di esempio della complessità del problema (anche se di basso profilo), quanto pubblicato da Giuliano Foschini sulla Repubblica del 30 aprile, il quale si sofferma ad analizzare il problema di queste ong. Una di esse, la Moas, ha annoverato tra i suoi membri «l’ex capo di Stato Maggiore maltese, Martin Xuareb, e uno dei suoi principali assistenti, Ian Ruggie, che hanno sempre lavorato per tenere lontani i migranti da Malta». Insomma, c’è il sospetto che tale ong sia nata per evitare a Malta di essere sommersa dai migranti (cosa peraltro che ha una sua ragionevolezza). Né si può dimenticare come la questione migranti sia stata agitata come un’arma di distruzione di massa contro l’Europa da parte della Turchia. Arma disinnescata, con scelta infelice, dalle generose donazioni indirizzate dal Vecchio continente verso Ankara. Questione complessa quella dei migranti, che poi sono donne, uomini e bambini con un carico di dolore che dovrebbe indurre almeno a un doveroso rispetto. Certe semplificazioni sono offensive dell’umano. E però le ragioni dell’accoglienza, più che imprescindibili, dovrebbero aiutare a realizzare politiche lucide e lungimiranti, al di là di semplicistiche quanto apodittiche affermazioni in merito.

Ong e migranti, scontro Alfano-Orlando. E Grasso a Di Maio: «Hai grosse lacune, studia». Continua a tenere banco la polemica sui rapporti tra organizzazioni e scafisti. Il ministro degli Esteri: «Procuratore di Catania ha posto questione vera. Rischio c’è». Il responsabile della Giustizia Orlando replica: «Distratto quando era agli Interni». Il presidente del Senato Grasso bacchetta l’esponente 5 Stelle: «Qualche lezione ti farebbe bene», scrive Paolo Decrestina il 29 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Sulle frasi del procuratore di Catania sui rapporti tra alcune Ong e il traffico dei migranti scoppia la polemica in seno al governo. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha infatti replicato all’appoggio manifestato dal responsabile degli Esteri, Angelino Alfano, a Carmelo Zuccaro. Alfano si era schierato con il procuratore di Catania: «Ha ragione Al 100%». Zuccaro, parlando di migranti, nei giorni scorsi aveva denunciato «che alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti di uomini». L’ennesima sortita del procuratore di Catania aveva già portato alla reazione di due ministri del governo: prima Marco Minniti e poi Andrea Orlando lo avevano invitato a «non trarre conclusioni affrettate» e soprattutto a «parlare con gli atti». Nella mattinata di sabato, poi, la presa di posizione di Alfano. «Io do cento per cento di ragione al Procuratore Zuccaro perché ha posto una questione vera. Tutti coloro i quali devono sapere sanno che questo rischio c’è. Ha il cento per cento di ragione lui». Non solo, secondo il ministro degli Esteri, intervenuto a Taormina, sono degli «ipocriti e dei sepolcri un po’ imbiancati tutti quelli che si indignano a comando. Cioè, se i magistrati dicono delle cose che a loro piacciono, allora i magistrati possono parlare. Se dicono cose che a loro non piacciono, i magistrati devono stare zitti». «Non credo si debbano sostenere le tesi del procuratore di Catania - ha replicato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando - Bisogna sostenere le inchieste del procuratore di Catania e sulla base di queste trarre delle conclusioni. Se Alfano è convinto che abbia ragione nel descrivere quel quadro di insieme che il procuratore indica, e che io non sono in grado di confutare, non essendomi occupato del tema, c’è da chiedersi perché non se n’è accordo quando faceva il ministro degli interni. Probabilmente - aggiunge - è una distrazione di Alfano». La replica di Alfano: «Non cercavo polemica con il collega Orlando. Ma evidentemente il Guardasigilli, ormai, è in campagna elettorale permanente ed è assente da via Arenula».

Sul caso è intervenuto anche il presidente del Senato Pietro Grasso che con un post su Facebook bacchetta Luigi Di Maio dei 5 stelle: «Caro Luigi, sei giovane, ma faresti bene a ricordarti che a tutte le età si può e deve imparare. Hai già dimostrato più volte di avere grosse lacune in storia, geografia e diritto: qualche lezione ti sarebbe utile». Anche qui non si è fatta attendere la replica: «Caro Grasso, io non smetto mai di imparare nella vita, ma dal suo partito che prendeva soldi dal business degli immigrati non ho proprio nulla da apprendere. Anni e anni di magistratura eppure le è sfuggito». Infine si è fatto sentire anche Matteo Salvini, leader della Lega Nord: «Alfano e Orlando, Grasso e Boldrini, Renzi e Gentiloni tutti complici e tutti saranno denunciati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina». «Il procuratore Zuccaro non ha generalizzato, non ha sparato genericamente su tutte le Ong - aveva aggiunto Alfano - ma occorre andare fino in fondo e penso, e spero, che non sia solo la Procura di Catania a occuparsi di questa vicenda perché noi abbiamo fatto un grande sacrificio nel salvataggio di vite umane ed ogni vita umana che si salva e sempre un risultato per l’umanità intera». «Però - ha sottolineato Alfano - bisogna anche capire come fanno alcune ong, e non tutte, neanche la mia è una generalizzazione, a spendere tutti questi soldi solo con i finanziamenti dei sostenitori. Boh, vediamo. Bisognerà accertarlo e spero che siano alcune, e non una sola, le Procure che lavorano su questo».

Più cauta invece la posizione del premier Paolo Gentiloni. «Se ci sono da parte della magistratura delle informazioni attendibili e credibili, non sarà certo il governo a contrastarle, ma distinguiamo questo dal fatto che per noi l’attività delle organizzazioni di volontariato è preziosa e benvenuta», ha detto il presidente del consiglio arrivando al vertice Ue straordinario sulla Brexit. L’attività delle Ong, per Gentiloni è «preziosa e benvenuta». E se ci sono traffici «la magistratura indagherà. I volontari che salvano vite umane «sono benvenuti».

Dopo la denuncia del procuratore di Catania, si era espresso anche Luigi Di Maio: «Non so se è chiaro: Ong forse finanziate dagli scafisti. Gli ipocriti continuino pure ad attaccarmi, io vado fino in fondo». Una posizione sulla linea del leader della Lega Matteo Salvini secondo il quale «bisogna arrestare i trafficanti e affondare tutte le navi usate».

Migranti, Salvini al governo "Fuori il dossier scafisti-Ong". Il Guardasigilli Orlando cerca di evitare il problema Il leghista: «Esecutivo vittima dello scafismo di Stato», scrive Jacopo Granzotto, Lunedì 1/05/2017, su "Il Giornale". Ci sono arrivati i grillini e gran parte della Destra. Persino il neopopulista Alfano. Manca ancora qualcuno. Il ministro della giustizia Andrea Orlando, ad esempio, che sembra non comprendere quanto l'immigrazione di massa sia un problema e che la rotta del Mediterraneo centrale tra Italia e Libia sia un problema ancora maggiore con i suoi cinquemila morti l'anno. Il Guardasigilli attacca Angelino Alfano che soffia sul fuoco e, parlando al Corriere della Sera, si trincera dietro «indagini ancora in corso sulle Ong e sui trafficanti di migranti» e spostando il problema sulla Nigeria, «che tra trent'anni avrà più abitanti di tutta l'Unione europea». A suo parere l'immigrazione è un «fenomeno del nostro tempo, epocale», inevitabile come le zanzare in estate. Peccato però che l'invasione buona e giusta, benedetta dalle Ong e voluta da certa sinistra populista di Saviano, dell'europarlamentare Barbara Spinelli ed Erri de Luca abbia i numeri contro: nel 2016, l'anno in cui le Ong sono entrate in piena attività in mare, la mortalità tra i migranti in mare è aumentata del 30%. Come se non bastasse la flotta delle varie organizzazione, tra cui «giganti» della solidarietà come Medici senza frontiere, conta 14 navi e un aereo. E, spiega il rapporto di Frontex, si muove anche all'interno delle acque territoriali libiche e interviene anche senza chiamata di soccorso. Secondo l'agenzia, questo atteggiamento (e la mancanza di coordinamento con le autorità navali), finisce per creare un effetto traino, facendo aumentare le partenze, che in effetti nel 2016 hanno segnato un record, con quasi 182mila migranti sbarcati sulle coste italiane. Da questi dati vuole partire Matteo Salvini che annuncia di voler denunciare Alfano, Orlando, Boldrini e Grasso per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il leader della Lega, intervenuto alla trasmissione di Raitre In Mezz'ora, attacca duramente un «esecutivo vittima di uno scafismo di Stato». «Mi risulta che ci sia un pingue dossier dei servizi segreti italiani - dice - che certificano i contatti tra trafficanti, militanti, scafisti e alcune associazioni Ong. Ora se esiste questo dossier ed è in mano del premier Gentiloni e il presidente del Consiglio lo tiene nel cassetto, sarebbe una cosa gravissima. Se esiste, lo dia al procuratore Zuccaro e lo renda pubblico agli italiani. Qualunque cretino può intuire che c'è gente che aiuta gli immigrati perché è fondamentalmente buona e ci crede, ma che c'è anche qualcuno che paga 400mila euro al mese per fare affari. Non era Mafia Capitale a dire che l'immigrato rende più dello spaccio della droga? Fanno soldi con la carne umana. E i ministri del governo esercitano uno scafismo di Stato». Matteo Salvini che ieri a Genova è tornato a parlare del difficile rapporto tra gli immigrati e il lavoro che non c'è. Tema caldissimo alla vigilia del primo maggio. «Tenere l'immigrazione sotto controllo - fa notare - significa fare gli interessi dei lavoratori, non di chi ha la villa con piscina. L'immigrazione è funzionale a tagliare i diritti dei lavoratori. Camionisti, muratori, camerieri che si sentono dire a 50 anni: se vuoi, il lavoro è a quattro euro l'ora, e in nero. Se no c'è un esercito di diseredati a Lampedusa pronto ad accettare, fai come credi. Noi aiutiamo quegli ultimi che, una volta, era la sinistra ad aiutare. Io ho un figlio che fa 14 anni e sogno che vada all'estero, che impari l'inglese dopo aver imparato il milanese, ma non per necessità e disperazione, per vocazione, ambizione».

Ong-scafisti, il pm di Siracusa: "Non ci risultano contatti illeciti". La Commissione Difesa del Senato indaga sul business dell'immigrazione. Ma la Cei difende le Ong: "Fuoco politico ipocrita e vergognoso", scrive Sergio Rame, Martedì 2/05/2017 su "Il Giornale". Ong e trafficanti di esseri umani. Adesso la Commissione Difesa del Senato vuole vederci chiaro. "Non abbiamo alcun riscontro investigativo di legami", sottolinea il procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano. Ma le rivelazioni fatte nei giorni scorsi dal procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, hanno scoperchiato il vaso di Pandora del business dell'immigrazione. Un business che tocca gli interessi e i traffici delle organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo e che scaricano in continuazione migliaia di immigrati sulle coste italiane. Dalla loro parte, nel frattempo, tornano a schierarsi i vescovi: "Il fuoco politico indistintamente sulle nove Ong che operano nel Mediterraneo per salvare le vite umane è un atto ipocrita e vergognoso". Negli ultimi tre anni la percentuale di soccorsi dalle navi delle Ong è cresciuta in modo esponenziale. Nel 2015 era il 12,6% nel 2015, l'anno scorso è salita al 14,3%, nei primi mesi di quest'anno si è impennata al 28,1%. Dopo le dichiarazioni di Zuccaro sui possibili legami tra le organizzazioni non governative e i trafficanti di esseri umani, la Commissione Difesa del Senato ha avviato una indagine conoscitiva sul contributo dei militari italiani al controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo e l'impatto dell'attività delle organizzazioni non governative. "A noi come ufficio - ha spiegato Giordano - non risulta di asseriti collegamenti, obliqui o inquinanti, tra ong e trafficanti, eppure abbiamo sentito centinaia di persone in proposito. Certo, c'è ong e ong, c'è struttura e struttura: ci sono organizzazioni che si servono di imbarcazioni perfette, conformi ai codici di navigazione, e che hanno un atteggiamento collaborativo con la polizia giudiziaria, e organizzazioni che si servono di imbarcazioni molto meno efficienti e che hanno un atteggiamento molto meno collaborativo". Alla procura di Siracusa competono tutti gli sbarchi nel porto di Augusta, il primo in Italia per numero di arrivi. Solo nel 2016 si contano oltre 100mila clandestini sbarcati e 740 scafisti arrestati. Al momento, però, Giordano non ha in mano gli stessi elementi che hanno portato il collega di Catania a denunciare presunti contatti diretti tra Ong e trafficanti e a disporre, quindi, accertamenti sulle fonti di finanziamento delle nove organizzazioni umanitarie impegnate nel Mediterraneo. "Ma questo - ha ammesso il procuratore - non lo interpretiamo come una volontà di ostacolo alle indagini o un favoreggiamento di altri reati ma come un atteggiamento ideologico, coerente con chi svolge un tipo di lavoro umanitario e che di per sé è a favore del migrante". Le audizioni in commissione Difesa andranno avanti anche nei prossimi giorni. Domani toccherà all'ammiraglio Vincenzo Melone, comandante generale delle Capitanerie di porto che coordinano le attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. A lui toccherà fare maggiore chiarezza sulle reali regole di ingaggio con cui si muovono le navi delle Ong. Chiuderà le audizioni una delegazione del Moas, la Ong maltese che, grazie anche ai finanziamenti di George Soros, ha riversato oltre 33mila immigrati sulle nostre coste. Senza aspettare le conclusioni a cui arriverà la commissione di Palazzo Madama, il direttore di Migrantes, Giancarlo Perego, si è già schierato al fianco delle Ong. Eppure è ormai conclamato che il loro intervento nel Mediterraneo non ha fatto altro che aumentare il numero dei morti in mare. Per il numero uno della fondazione della Cei i 175mila immigrati accolti fino ad oggi sono un aiuto per "un Paese che sta morendo" e che "può trovare un suo futuro in percorsi di meticciato".

Ora è scontro tra procuratori: Siracusa smentisce Catania. Giordano: "Non risultano collegamenti tra trafficanti e Ong sugli immigrati". Oggi il Csm processa Zuccaro, scrive Anna Maria Greco, Mercoledì 3/05/2017 su "Il Giornale". Il procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano, non conferma i sospetti del collega di Catania Carmelo Zuccaro, sul soccorso ai migranti delle ong. «Non ci risultano - spiega nell'audizione alla commissione Difesa del Senato - asseriti collegamenti obliqui o inquinanti con trafficanti, né per quanto riguarda ong, né parti di ong». Il capo della procura siracusana dice di non aver «alcun riscontro investigativo», anche su legami «con cooperative che gestiscono servizi di accoglienza». Sulla stessa linea il responsabile del Gruppo interforze di contrasto all'immigrazione clandestina, spiega il sostituto commissario Carlo Parini. Ma il caso scoppiato dopo le dichiarazione ai media di Zuccaro è già politico, con uno scontro che sembra dividere il governo, malgrado le smentite del ministro Roberta Pinotti e oppone Pd e M5S alla Lega. Del procuratore di Catania si occuperà oggi il comitato di presidenza del Csm, per valutare l'apertura di una pratica in prima commissione chiesta dal vicepresidente Giovanni Legnini e di una, con fine opposto di tutela del magistrato, proposta dal laico di Fi Pierantonio Zanettin. «Se il Csm sanziona disciplinarmente Zuccaro, andiamo a Roma», avverte Matteo Salvini. Il presidente leghista del Copasir Giacomo Stucchi deve smentire quel che ha detto domenica il leader del Carroccio: «notizie prive di fondamento», quelle su un dossier dei servizi segreti italiani che attesti rapporti tra scafisti e ong. Ma il leghista Gian Marco Centinaio chiede che il premier Paolo Gentiloni riferisca nell'aula del Senato, Salvini chiama «nuovi schiavisti del Duemilla» quelli che «fanno quattrini con i migranti» e Gianluca Pini preannuncia una mozione per chiedere un intervento del governo. Perchè i migranti, chiede, «vengono scortati nei porti italiani e non in quelli più vicini di Tunisia e Malta, in palese violazione del codice della navigazione?». Il M5S attacca la Lega, come il Pd, ma oggi depositerà in parlamento una proposta di legge per dare più poteri di polizia giudiziaria a marina e guardia costiera. «Mai con la polizia giudiziaria a bordo», reagisce Loris De Filippi, presidente di Medici Senza Frontiere Italia. L'ong, che si dice «indignata» per le accuse, ieri ha partecipato all'audizione in Senato, con Amnesty international, mentre tre organizzazioni tedesche hanno rifiutato l'invito a chiarire chi siano i loro finanziatori. Giordano nell'audizione ricorda che negli ultimi tre anni è «cresciuta la percentuale di soccorsi dalle navi delle ong: era il 12,6% nel 2015, è stata il 14,3% l'anno scorso, si è impennata al 28,1% nei primi mesi di quest'anno». Precisa: «Certo, c'è ong e ong, alcune hanno un atteggiamento molto collaborativo, altre meno, ma non l'abbiamo interpretato come un ostacolo alle indagini, più ma come atteggiamento ideologico, di coerenza col loro essere favorevoli al migrante e non alla polizia». Il procuratore parla anche del «nuovo flusso migratorio di 50-60 persone alla volta, che viaggiano su barche a vela di 14-15 metri, molto ben equipaggiate, governate da scafisti ucraini o russi, che partono dalle coste della Turchia e arrivano in Calabria e Puglia». Sono professionisti soprattutto siriani che hanno denaro per non rischiare troppo sui gommoni. Nel 2016 gli arrivi sono stati almeno 20. Al pm non risulta di transponder spenti a bordo delle navi delle ong, nè di strumenti di intelligence estranei al salvataggio dei migranti in particolare sui mezzi della Moas, l'organizzazione più sospetta per Zuccaro. «L'unico coordinamento è con la Guardia costiera italiana. Esiste uno scambio di informazioni, di buone pratiche, con le altre ong. Alcune sono dotate di strumenti per conoscere il posizionamento di navi non militari, come droni o trasponder», dice un rappresentante di Msf. E denuncia il crollo «vorticoso» delle donazioni alle ong. Insorge la Cei, parlando di «fuoco politico ipocrita e vergognoso».

Perché il Csm non può punire il pm anti Ong, scrive Pierantonio Zanettin, Lunedì 1/05/2017 su "Il Giornale". Perché il procuratore Zuccaro non ha commesso nessun illecito né disciplinare, né deontologico? Ho consultato, come peraltro può fare ogni comune cittadino perché pubblico, il resoconto dell'audizione del procuratore Zuccaro avanti il Comitato Schengen, risalente addirittura al 22 marzo scorso. In quella occasione il dottor Zuccaro ha svolto, su richiesta della presidente, una relazione nell'ambito di un'indagine conoscitiva sul fenomeno migratorio. La stessa presidente Ravetto ha chiesto al dottor Zuccaro di parlare del ruolo delle Ong. Proprio rispondendo alle domande dei parlamentari il procuratore della Repubblica di Catania ha parlato, ad esempio, della Ong Moas dei coniugi Catrambone e del possibili rapporti tra alcune Ong e gli organizzatori del traffico di migranti senza destare in quella occasione alcuno scandalo. Lo scandalo è sorto invece quando i medesimi concetti sono stati esposti nella trasmissione televisiva Agorà. È del tutto evidente che le opinioni del dottor Zuccaro avevano anche carattere latamente politico, ma questo è ovvio accada quando un magistrato viene ascoltato da un comitato parlamentare. Potrà quindi un magistrato essere censurato dal suo organo di autogoverno per il solo fatto che i suoi argomenti hanno trovato, a distanza di qualche settimana, risalto mediatico? Che, come dice taluno, sono stati strumentalizzati da alcune parti politiche? Personalmente sono convinto di no. Il ministro della Giustizia ha già escluso di potere avviare un'azione disciplinare. Rimane il trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale. Sarebbe tuttavia davvero surreale che il Csm, dopo avere archiviato nel tempo casi clamorosi di intromissioni di magistrati nella vita politica, di inchieste sballate che hanno segnato le esistenze di comuni cittadini, finisse col punire il dottor Zuccaro solo perché ha formulato delle tesi «eretiche» sul ruolo delle Ong nel fenomeno migratorio.

Zuccaro, arrestali invece di parlarne, scrive Barbara Di su “Il Giornale" il 28 aprile 2017. Guarda caso solo oggi al CSM viene il dubbio che un PM non possa parlare delle indagini in corso. È dal 1992 che qualcuno lo ripete invano, ma evidentemente di certe indagini si può parlare, di altre no. Se, quindi, in linea di principio concordo che Zuccaro non avrebbe dovuto parlare delle indagini in corso sulle ONG che trasportano in Italia i clandestini, oggi mi permetto di consigliare a questo volenteroso procuratore di fare qualcosa di molto più efficace e mediaticamente dirompente: arrestali e confiscagli le navi. Non serve volare tanto alto, cercare prove tramite i servizi segreti stranieri di complotti con gli scafisti libici, collegamenti misteriosi alla Spectre dei lucrosi guadagni sulla pelle dei clandestini. Capisco che sia affascinante e lo abbiamo capito tutti che c’è una regia destabilizzante dietro, ma, ripeto, tieniti a un livello più basso. Parti dalle basi, fai il tuo mestiere e applica la legge alla lettera. La conosci sicuramente, ma mi permetto di rinfrescarti la memoria sull’art. 12 del T.U. sull’immigrazione, ossia l’ex art. 10 della legge Turco-Napolitano (ché diamoglielo almeno un merito a questi due fenomeni, invece di attribuirli tutti a Bossi e Fini).

"Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona".

E già con il primo comma direi che non ci sono dubbi sul fatto che stiano commettendo questo reato a ripetizione. "Fermo restando quanto previsto dall’articolo 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato". Il sottolineato è mio giusto per ricordarti che questo comma non si può applicare perché le navi li vanno a prendere fuori dalle acque territoriali e sono proprio loro a portarli in Italia.

"Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona nel caso in cui:

a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone; (Direi che 8.500 solo il giorno di Pasqua sono più di 5 persone).

b) la persona trasportata è stata esposta a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale; (Pure questa mi pare evidente e basta guardare l’aumento vertiginoso dei morti proprio da quando hanno cominciato a fare da traghettatori le ONG).

c) la persona trasportata è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale; (Idem come sopra, con il loro comportamento li ammassano e li trasportano come merce per pietire l’opinione pubblica).

d) il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti; (Che siano più di tre e che usino navi straniere è pacifico).

e) gli autori del fatto hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti". (Basta salire a bordo a verificarlo).

"3-bis. Se i fatti di cui al comma 3 sono commessi ricorrendo due o più delle ipotesi di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del medesimo comma, la pena ivi prevista è aumentata. (Le beccano praticamente tutte per cui applichiamo pure l’aumento).

3-ter. La pena detentiva è aumentata da un terzo alla metà e si applica la multa di 25.000 euro per ogni persona se i fatti di cui ai commi 1 e 3: a) sono commessi al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento; b) sono commessi al fine di trarne profitto, anche indiretto".

(Ora, vogliamo essere garantisti, buonisti e fare finta di essere pure fessi? Facciamolo e cerchiamo di dimenticarci per un momento delle coop che lucrano più di 4 miliardi di euro l’anno sfruttando i clandestini, facciamo finta di non voler credere che ci sia la famosa Spectre dell’immigrazione. Ebbene, questa è solo un’aggravante. Se anche non riesci a trovare le prove di questo perché sei tu da solo contro il sistema, vai avanti e puniscili per i reati di cui ai commi precedenti che ci stanno tutti. Se poi sei tanto bravo da riuscire a trovare i collegamenti e le prove anche di questo, ben venga, sarai il nostro eroe, ma non ti fossilizzare su questo se non hai i mezzi per farlo. Invece di lamentarti sui giornali, dammi retta, attieniti alla base che già ne hai a sufficienza di prove. Perché poi arriva il bello): "Nei casi previsti dai commi 1 e 3 è obbligatorio l’arresto in flagranza.

4-bis. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari.

4-ter. Nei casi previsti dai commi 1 e 3 è sempre disposta la confisca del mezzo di trasporto utilizzato per commettere il reato".

Volevi lo scoop? Eccotelo servito dalla legge su un piatto d’argento. Non servono le interviste, fai parlare i fatti. Arresta questi “presunti” delinquenti appena entrano in porto, sequestragli le navi e finirai sulla prima pagina dei giornali di mezzo mondo senza proferire verbo. Poi si sa, la giustizia italiana è lenta, il dibattimento è lungo, le prove vanno portate al processo, magari qualcuno riuscirà pure a farsi assolvere con le dovute “difese”, ma stai sicuro che così il traffico di schiavi lo interrompi subito. E sarai per sempre il nostro supereroe.

Zuccaro e l’ipocrisia della politica, scrive il 29 aprile 2017 Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. È vero. I giudici, ancor più se pubblici ministeri, devono (dovrebbero) parlare con gli atti. È un principio fondamentale, di civiltà ancor prima che di correttezza, che non dovrebbe avere colore politico, anche se nell’ultimo quarto di secolo la sinistra lo ha lasciato nelle mani del centrodestra nel tentativo vano di azzoppare – attraverso le Procure chiacchierone – i propri avversari politici, Berlusconi in primis. Ma si può chiedere ad un magistrato di parlare con gli atti se quello stesso magistrato lo si è convocato, in forza di una legge e dunque legittimamente ed anzi con obbligo a suo carico, per riferire in Parlamento degli stessi fatti sui quali oggi gli si contesta il diritto di parola? Il caso è quello di Carmelo Zuccaro, procuratore capo di Catania finito nell’occhio del ciclone per aver sollevato la questione degli ipotetici rapporti tra le Ong (alcune, non tutte) ed i trafficanti di uomini che dalle coste africane spediscono migranti in Italia. Un coro di critiche, e di più o meno interessati apprezzamenti, ha travolto il magistrato. Nessuna o quasi credibile (e si darà in seguito ragione delle eccezioni) per una ragione banale e documentabile: Zuccaro il suo allarme lo ha lanciato non quando – qualche giorno fa – il M5S se ne è appropriato, trasformandolo in caso nazionale per lo scontro col Governo, ma più d’un mese fa. E non nei salotti televisivi, ma in Parlamento. Dunque, c’è un punto certo dal quale partire: a marzo Zuccaro viene ascoltato da un Comitato parlamentare che si occupa di immigrazione, e parla nei dettagli dell’inchiesta conoscitiva aperta dalla Procura. Ma nessuno gli dà retta, fosse pure per fare un uso strumentale delle sue parole. Il suo racconto (e qui parliamo delle eccezioni) viene rilanciato solo da tre deputati: Laura Ravetto, Giorgia Meloni, Trifone Altieri. Sono loro a chiedere con tanto di interrogazione al Governo – qualora non ne avesse avuto notizia – di valutare quanto esposto dal procuratore, senza però ricevere risposta (generica), se non a caso ormai esploso. Tra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama, quindi, non c’era nessuno che potesse non sapere. Ma tutti (o quasi, come detto) hanno preferito tacere. Per un mese e più. Il segno chiaro ed evidente dell’ipocrisia della politica, o per lo meno di gran parte di essa. La riprova dell’incapacità dell’Esecutivo di trattare col dovuto coraggio una faccenda, quella dei flussi migratori, che sarebbe falso e sciocco definire fuori controllo. Qualcuno, in effetti, sembra essersene preso cura. Nella sua audizione marzolina Zuccaro non s’è nascosto dietro un dito: le Ong che operano nel Mediterraneo sono per lo più tedesche (e poco importa che poi la Germania rifiuti l’ingresso nel proprio territorio ai migranti d’Africa), proprietarie di navi che costano centinaia di migliaia di euro al mese e che sono sempre presenti sulle rotte migratorie, anticipando ogni volta l’intervento della Marina Militare. Situazioni dimostrate e provate, penalmente non rilevanti (per il momento) ma politicamente dirimenti. Per un motivo semplice: neppure la Procura (Zuccaro dixit) crede che le Ong si muovano per far soldi sulla pelle dei migranti, ma semplicemente per aprire un corridoio tra le due sponde del Mare nostrum. Aprendo di fatto un varco attraverso i confini italiani che, altrimenti, non ci sarebbe stato. E che non avrebbe portato in Italia la moltitudine di disperati che invece, con incerta lungimiranza, l’hanno eletta a proprio approdo e terra di passaggio. Dire questo, dirlo in Parlamento dati alla mano, facendo anche attenzione a non criminalizzare le Ong (Zuccaro tiene espressamente fuori dal calderone, ad esempio, Msf e Save the Children), equivale a prevaricazione del potere giudiziario su quello esecutivo e legislativo? Piuttosto, sembra servire a fare chiarezza. A smascherare il Governo Renziloni e attestarne, una volta ancora, l’incapacità di trattare – senza pregiudizi e con capacità – il tema dell’immigrazione, nell’interesse degli italiani e di quei poveri cristi che scelgono questa Italia per ricostruirsi una vita. Buona fortuna a tutti.

Donatori e interessi nascosti: ecco i misteri della Ong Moas. Ecco tutte le spese, le entrate e i misteri di Moas: l'Ong di due milionari che ha portato in Italia circa 33mila immigrati in due anni, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 2/05/2017 su "Il Giornale". Due ricconi, una flotta di tutto rispetto e qualche domanda a cui rispondere. La scheda di Migrant Offshore Aid Station potrebbe essere riassunta più o meno così. Una Ong dalle mille nazionalità (italo-americani i fondatori, maltese la base operativa e bandiere di Stati offshore sulle imbarcazioni) che negli ultimi giorni ha destato molti sospetti. Dietro il viso pulito di Regina e Christopher Catrambone, i due fondatori milionari di Moas, in molti hanno intravisto loschi interessi capaci di andare ben oltre il dichiarato desiderio di mettere al sicuro chi affida alle onde il proprio futuro. Se si trattano di illazioni o verità, è ancora tutto da stabilire. Ma sul ponte delle navi Ong passeggiano ombre che fanno ipotizzare alla Procura di Catania possa esserci dietro qualche "sporco affare". Base operativa La Valletta (Malta), Moas nasce nel 2014 dall'idea della coppia italo americana arricchitasi grazie ad un'agenzia di assicurazioni specializzata in zone ad alto rischio, la Tangiers Group. In due anni di attività hanno tratto in salvo 33.455 migranti al largo della Libia e li hanno traghettati allegramente nei porti italiani. Spesa annuale: 3 milioni e 694mila euro, più gli spiccioli. Dove trovino il denaro, non è dato sapere fino in fondo. Il bilancio pubblicato online fornisce qualche risposta, ma non tutte. Al 31 dicembre 2015 il pallottoliere delle donazioni contava 5,7 milioni euro raccolti grazie a finanziatori privati. Tanti rispetto al 2014, quando in cassa arrivarono appena 56mila euro e il resto (1,7milioni) li versò la società dei Catrambone. Inutile chiedere le generalità precise dei donatori: non li forniscono, se non alcuni nomi famosi tra cui i Coldplay. Di certo tra loro compare Avaaz.org, cioè l'associazione riconducibile a Moveon.org, che a sua volta fa capo al "filantropo" milionario George Soros. E tra i partner ci sono l'azienda austriaca Schiebel (la stessa che poi gli affitta i droni) e la Unique Maritime Group (specializzata in "attrezzature per il settore marino, subacqueo e subacqueo"). A guardarlo bene, il bilancio racconta di una Ong nata dal nulla e diventata in breve tempo un colosso. In soli 24 mesi le attività di SAR si sono moltiplicate: per la sola benzina nel 2015 ha speso 232mila euro, il triplo dell'anno precedente. Poi ci sono 200mila euro per lo staff, 163mila per marketing e quasi 11mila per le telecomunicazioni. L'anno scorso non sono servite riparazioni particolari ai natanti, visto che alla voce "manutenzione" appaiono appena 354 euro. In fondo nel 2014 i Catrambone si erano privati di una bella cifra pur di mettere in piedi Moas e hanno fatto le cose in grande: la Tangiers International Limited, una delle divisioni di Tangiers Group, aveva provveduto a pagare 1,5miloni di euro per mettere in acqua la Phoenix, una nave commerciale da 40 metri e battente bandiera di Belize. Oggi a bilancio appaiono anche i costi per il funzionamento della Topaz Responder, un natante da soccorso di 51 metri battente bandiera delle Isole Marshall. Chiudono il capitolo sui "mezzi di soccorso" due droni usati per visionare dall'alto il mare e che pesano sul partafoglio la "modica" cifra di 1,2 milioni di euro. Troppi, visto che la marina italiana ne spende meno della metà. Ma tant'è. Somma finale dei costi operativi: 3,6 milioni di euro. Ingenti sono state pure le spese amministrative (249mila euro), cui bisogna aggiungere 139mila euro di attività di Pr, 65mila per lo staff, 51mila di onorari per gli amministratori e poi ci sono i viaggi, gli affitti, le consulenze professionali e legali. Totale: 701mila euro. Mettendo insieme le spese operative e quelle amministrative la colonna delle uscite di Moas supera i 4,3 milioni di euro. Un numero ragguardevole, ma pur sempre inferiore a quanto incassato, tanto da generare un surplus di 1.307.828 euro. Non male per una Ong. Possibile che a muovere gli animi umanitari della coppia di filantropi sia soltanto il desiderio di "salvare vite umane"? Forse. Ma alcuni sospettano ci sia dell'altro. Christopher ha collaborato con il Congresso americano, ha finanziato con 416mila euro la campagna elettorale di Hillary Clinton e la sua società di assicurazioni ha risentito non poco i naufragi nel Mediterraneo. A spiegarlo a Repubblica è stato Fulvio Vittorio Paleologo, giurista e collaboratore di molte Ong. Quando nel 2014 l'Italia chiuse Mare Nostrum, molti mercantili furono coinvolti dalla Guardia Costiera nelle operazioni di salvataggio dei barconi alla deriva. Il cambio di rotta produceva ritardi e costringeva le compagnie di assicurazione ("come quella dei Catrambone") a pagare "ricchi risarcimenti" secondo "quanto previsto dalle polizze" per la modifica delle tabelle di marcia delle navi. Parliamo di un costo non indifferente e che forse avrà pesato sui conti della Tangiers Group. Non a caso con l'arrivo di Moas, See-Eye, Msf e via dicendo, le navi commerciali hanno diminuito drasticamente gli interventi: dalle 40mila persone salvate nel 2014, sono scesi ad appena 13mila nel 2016. Con il conseguente risparmio delle società assicurative. Come si dice: a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

I conti delle tre Ong tedesche che si rifiutano di collaborare. Tre Ong tedesche rifiutano il confronto: Jugend Rettet, Sea Watch e Sea Eye non saranno ascoltate dalla Commissione parlamentare, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 2/05/2017 su "Il Giornale".  "Mi avvalgo della facoltà di non rispondere". Sembrano queste le parole usate da tre Ong per respingere la convocazione della Commissione Difesa del Senato, che ha indetto audizioni speciali per ottenere delucidazioni in merito alle domande poste in questi giorni dalla politica, dai media e dal pm di Catania, Carmelo Zuccaro: "Ci sono contatti tra Ong e scafisti?"; "Come ottengono i fondi le associazioni?"; e ancora: "Cosa le spinge a investire tanto denaro nelle opere si salvataggio?". Tra le nove organizzazioni non governative attive nel Mediterraneo, tre di loro hanno deciso di disertare l'invito del Parlamento e mantenere un velo di sospetto sulle loro attività. Si tratta di Jugend Rettet, Sea Watch e Sea Eye. Tutte tedesche, tutte di piccole dimensioni e con molti interrogativi per quanto riguarda i finanziamenti con cui riescono a gestire operazioni in mare da migliaia di euro al giorno. Jugend Rettet ha sede a Berlino e a fondarla è stato un gruppo di ragazzi che per 100mila euro ha comprato il peschereccio Iuventa. Ogni missione in mare realizzata sotto un vessillo olandese costa circa 40 mila euro al mese e viene finanziata con donazioni private. La loro raccolta fondi funziona bene, visto che da ottobre 2016 ad oggi sulla piattaforma betterplace.org risulta abbiano hanno racimolato 166.232 euro. Online si trova il report annuale del 2015, in cui però vengono dichiarati appena 21.650 euro di entrate e 3.648,93 di uscite. Troppi pochi per giustificare attività SAR in mezzo al Mediterraneo. La seconda Ong "ribelle" è Sea Eye. Fondata nell'autunno del 2015 da Michael Buschheuer insieme ad un gruppo di familiari e amici, ha sede legale a Regensburg, in Germania, e sul sito sostengono gli bastino 1.000 euro per pagare un’intera giornata alla ricerca di clandestini. "L’organizzazione - si legge sul sito - ha comprato due navi, la Sea-Eye e la Seefuchs – due vecchi pescherecci lunghi 26 metri- e le ha equipaggiate per le missioni di soccorso in mare". Da aprile è attiva anche l'imbarcazione Seefuchs, un tempo utilizzata per il turismo e ora come traghetto per immigrati. A completare il parco navi c'è Speedy, un piccolo gommone per il primo approccio ai barconi. O meglio, c'era: il 9 settembre del 2016, infatti, Speedy è stato catturato dalla Guardia Costiera libica per aver oltrepassato la linea delle acque territoriali di Tripoli. Online dichiarano di aver già ricevuto 11.979 euro di donazioni, il 48% dell'obiettivo fissato a 25mila. Sea Watch, invece, nasce nel 2014 quando Harald Höppner e altri quattro imprenditori tedeschi investono circa 70.000€ nell’acquisto di un vecchio peschereccio olandese. Oggi l'Ong può contare su due unità navali (Sea Watch 1, battente bandiera olandese; e Sea Watch 2, con vessillo neozelandese), e a breve dovrebbe essere operativo il Sea Watch Air, un piccolo aereo con cui i nostri dovrebbero riuscire ad ampliare la loro area di salvataggio. Tra i partner compare Watch the Med, un portale telefonico con lo scopo di aiutare chi salpa sui barconi e vuole raggiungere l'Europa. Tra i fondatori la onlus Habeshia di padre Mussie Zerai, un parroco eritreo che si crede Mosé e ha più volte confermato di aver aiutato i migranti ad approdare in Italia. Sui conti di Sea Watch permane tutt'ora una densa nube di mistero. I rappresentanti rifiutarono già ad aprile l'invito della Camera dei Deputati a presentarsi di fronte alla commissione parlamentare. In una lettera spiegarono le loro motivazioni, sostenendo di non aver ricevuto la convocazione all'ufficio giusto e di non aver ottenuto spiegazioni sul "contenuto e la finalità dell'evento". Non certo il tipo di risposta che ci si attende da chi non ha nulla da nascondere.

Ecco le prove in tre foto: le ​Ong rimpiazzano gli scafisti. Le immagini nei dossier della Guardia Costiera. Una conferma ai sospetti dei pm: gli scafisti non devono più salire sui barconi. Ci pensano le Ong, scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 1/05/2017, su "Il Giornale". Al posto degli scafisti, le Ong. Dal 2015 ad oggi i flussi migratori sono cambiati. Di molto. Una volta al centro dell'attenzione degli investigatori italiani trovavamo criminali libici, mafie internazionali e trafficanti vari. Oggi ci sono le organizzazioni umanitarie. Non perché gestiscono direttamente i traffici illeciti, ci mancherebbe. Ma perché (indirettamente) favoriscono i contrabbandieri di uomini, rendendogli il lavoro sempre più facile e redditizio. È questo che il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, sta provando a far capire a chi non ha orecchie per ascoltare. E lo stesso ha fatto il portavoce di Frontex, Izabella Cooper, ricordando che "i trafficanti libici si approfittano dell'obbligo di salvataggio" e gli interventi delle Ong hanno "conseguenze involontarie". Va bene salvare vite, ma se stazionare al largo della Libia agevola "sporchi affari" e aumenta i morti in mare, qualcosa non funziona. Oppure c'è sotto del marcio. Fino al 2014 gli scafisti erano costretti a salire sulle imbarcazioni per accompagnare i loro "clienti" il più vicino possibile a Lampedusa. Un viaggio rischioso, che spesso permetteva alla polizia italiana di mettere i bastoni tra le ruote alle mafie dei traghettatori di immigrati. Adesso arrestare criminali è diventato un miraggio e il business dei trafficanti ne trae vantaggio. Il pm nella sua audizione alla Camera fu molto chiaro, affermando che la "presenza di Ong" a poche miglia da Zuwārah provoca "una sorta di scacco all’attività di contrasto" perché la giustizia non è più in grado di identificare i cosiddetti facilitatori. Ovvero quei malviventi che un tempo "accompagnavano i barconi nei primi tratti delle acque internazionali". Come mai oggi non si scomodano più? "Perché le Ong - spiegò il pm - indubbiamente hanno fatto venir meno quest'esigenza". In sostanza, le Organizzazioni non Governative parcheggiate al largo della Libia hanno di fatto rimpiazzato gli scafisti. I quali non devono più intraprendere i pericolosi viaggi sulle chiatte, ma si limitano a "gettare" in mare i migranti "tanto ci sono quelli delle missioni" a traghettarli fino in Sicilia. A che servono i trafficanti se ci pensano le Ong? Sono loro ormai i nuovi ponti per l'immigrazione clandestina in Italia. Da quando pattugliano il Mare Nostrum (2015-2016), infatti, l'area di attività delle operazioni di soccorso si è gradualmente spostata verso Tripoli, provocando il cortocircuito di cui parlava Zuccaro: incentivare le partenze e rendere più facile la vita ai criminali. A dimostrarlo c'è un dossier della Guardia Costiera italiana. Nel documento intitolato "Attività Sar nel Mediterraneo Centrale connesse al fenomeno migratorio" si legge che "la presenza di numerosi assetti navali in area" (le Ong, Ndr) ha comportato "che dal 2012 ad oggi la distanza dalle coste libiche dei punti di intercetto delle unità di migranti da parte delle unità soccorritrici sia diminuita arrivando fino al limite delle acque territoriali". Le foto parlano chiaro e non lasciano dubbi. Certo: anche la Marina, i mercantili e i natanti dell'Europa realizzano salvataggi a poche miglia da Tripoli. Ma lo fanno perché la presenza costante delle varie MSF, Save The Children e Moas in quel fazzoletto di mare costringe tutti gli altri a spingersi fin lì. I banditi conoscono le posizioni delle organizzazioni (in alcuni casi pare ci siano accordi telefonici) e quindi forniscono ai barconi la benzina appena sufficiente per arrivare in acque internazionali. Poi ad intervenire ci pensano le associazioni caritatevoli o altre imbarcazioni. Obbligate ad avvicinarsi alla Tripolitania. Peraltro l'iperattività delle onlus non solo aiuta i trafficanti, ma riduce anche le probabilità di sopravvivenza dei migranti. Sembrerà un controsenso, ma è così. Lo dice lo stesso dossier del corpo specialistico della Marina Militare. Nell'ultimo periodo si è infatti "assistito ad un netto peggioramento delle condizioni di sicurezza a bordo delle unità impiegate per il flussi via mare dalle coste libiche". I motivi sono molteplici. Primo, perché "si è registrato un incremento di partenze dalla Libia anche con condizioni meteo-marine avverse ed in ore notturne". Secondo, perché si è riscontrato "un incremento percentuale del numero di gommoni utilizzati", "una drastica diminuzione delle grandi imbarcazioni in legno", "l’utilizzo di barchini di ridotte dimensioni" e l'impennata del numero di migranti "presenti a bordo dei gommoni". Con l'effetto di aumentare i morti in mare e gli incassi degli schiavisti.

Tutti i sospetti di Frontex: negli ultimi due anni mega introiti ai trafficanti. La portavoce dell'operazione: «I libici sfruttano dell'obbligo internazionale di salvare vite», scrive Chiara Giannini, Lunedì 1/05/2017, su "Il Giornale". Ong di fronte alle coste libiche? È un dato di fatto. L'ammissione arriva da Medici senza frontiere che sul suo sito internet cita testualmente: «Se ritenuto necessario per salvare vite umane, le navi di Msf possono avvicinarsi al limite delle acque territoriali, previsto a 12 miglia nautiche dalla costa. L'ingresso nelle acque territoriali è del tutto eccezionale. Nel corso del 2016 solo in tre specifiche circostanze Msf ha svolto dei soccorsi a 11.5 miglia dalla costa, operando con l'esplicita autorizzazione delle competenti autorità libiche». Sul sito della Ong si prosegue dicendo che «in base a quanto previsto dal diritto internazionale marittimo, tutti i soccorsi in mare avvengono sotto il coordinamento del centro di coordinamento di Roma. La stessa legge italiana stabilisce che il soccorso in mare non è una facoltà o una prerogativa delle autorità preposte, ma un obbligo». Era stato Marco Bertotto, responsabile di Msf, nei giorni scorsi, ad ammettere, nel corso di una trasmissione di Sky Tg24, che Msf era entrata 5 volte nelle acque territoriali libiche. E il sistema olandese Gefira, così come il giovane 23enne Luca Donadel, che ne aveva ripreso l'idea per lanciarla con un video sui social, avevano dimostrato come localizzare le navi delle Ong in acque libiche fosse un gioco da ragazzi, semplicemente utilizzando i sistemi gps alla portata di tutti. Insomma, se un tempo si trattava solo di un'ipotesi che le organizzazioni non governative operassero ai confini con la Libia, oggi si ha quella certezza che consente di gettare qualche dubbio sul fatto che quel «taxi che attraversa il Mediterraneo» in realtà sia una prassi consolidata. Sulla questione è intervenuta ieri anche la portavoce di Frontex, Izabella Cooper che ha detto: «Salvare vite in mare è un obbligo internazionale. I trafficanti libici approfittano di questo obbligo. Frontex non ha mai formulato accuse contro le Ong, abbiamo solo parlato del fatto che negli ultimi 2 anni è cambiato il modo in cui operano i trafficanti». La Cooper ha precisato anche che «secondo Europol, nel 2015 i trafficanti hanno realizzato profitti per 4-6 miliardi di euro, cifre da capogiro». Era stato il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, nei giorni scorsi, a spiegare come in un caso «una motovedetta libica volesse riportare i migranti indietro, ma gli fu impedito da una nave delle Ong». Peraltro, c'è un aspetto che getta ombre sulla vicenda. Msf dice di essere entrata in acque libiche con l'autorizzazione della Guardia costiera italiana che, però, si trincera dietro un silenzio imbarazzante. Lo stesso silenzio dietro al quale si nascondono anche le forze armate italiane. La Marina militare in particolare non si esprime, infatti, da mesi sulla questione migranti. «Ci è vietato di parlarne» si limitano a dire dagli uffici pubblica informazione della Forza armata di mare, facendo capire che l'argomento è talmente tabù da essere diventato un vero problema per chi deve comunicare l'operato dei militari impegnati a salvare vite nel Mediterraneo. Un divieto che arriverebbe diretto dai vertici della Difesa e ancor più del governo, che spara a zero contro Zuccaro (ne sono un esempio le dichiarazioni della presidente della Camera Laura Boldrini), ma che si ostina a non fornire al procuratore i mezzi per individuare eventuali responsabilità e prove utili a portare la questione in tribunale. A domanda «il governo sa?», che valga, come risposta, il detto «chi tace acconsente»?

Ora la Francia ci dà un premio per tenere i profughi a Lampedusa. Tra le motivazioni: "Una donna che è in prima linea in una tragedia di cui apparentemente alcuni non hanno ancora compreso la portata", scrive Michele Ardengo, Venerdì 15/01/2016, su "Il Giornale". In assenza di una politica comunitaria che possa risolvere il problema, ci pensa la Francia a dare un "contentino" all'Italia per sobbarcarsi, insieme a qualche altro Paese, l'ingombrante problema dei migranti. Ieri infatti, c'è stata una doppia standing ovation a Parigi per il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini, insignita del Premio Simone de Beauvoir per la libertà delle donne in riconoscimento della sua "azione coraggiosa e pioniera in favore di migranti e rifugiati", in una cerimonia alla Maison de l'Amerique Latine, nella capitale francese. "Una donna che è in prima linea in una tragedia di cui apparentemente alcuni non hanno ancora compreso la portata", l'ha definita la presidente della giuria e creatrice del Premio, la filosofa franco-bulgara Julia Kristeva, ricordando come negli anni scorsi il riconoscimento sia stato assegnato a figure di spicco della letteratura, della ricerca e della mobilitazione per l'uguaglianza e l'emancipazione femminile, tra cui anche, nel 2013, la giovane pakistana Malala Yousafzai, insignita l'anno successivo del Nobel per la Pace. "Oggi premiamo la lotta di una donna in difesa degli esseri umani", ha fatto eco Christine Clerici, presidente dell'Università Paris Diderot che da anni sostiene il premio, lodando l'azione "responsabile e infaticabile" della Nicolini, "prima voce a farsi sentire in difesa dei migranti", e la dimostrazione di forza e umanità data negli ultimi anni dal primo cittadino e dagli abitanti dell'isola diventata porta d'Europa per decine di migliaia di disperati. Il Prix de Beauvoir "rappresenta una grande responsabilità" perché "è un impegno di coerenza e di lotta per il futuro, a far camminare le idee e la forza delle donne", ha detto la Nicolini nel discorso di accettazione del riconoscimento, trasformatosi presto in un accorato appello in nome della solidarietà e della difesa dei diritti fondamentali dei più deboli. "A Lampedusa sperimentiamo ogni giorno questa verità - ha aggiunto - che se i diritti non sono di tutti non sono di nessuno". Purtroppo l'emergenza immigrazione continua senza sosta. Sebbene nella stagione invernale il flusso migratorio diminuisca - senza mai arrestarsi -, tra pochi mesi si ricomincerà con i barconi stracarichi in mare, col rischio di nuove ecatombi, come quelle dell'anno scorso. Il sindaco di Lampedusa almeno ha approfittato dell'occasione per mettere l'Europa davanti alla triste realtà in cui ci ha abbandonati. Nel discorso di accettazione, infatti, ha ricordato come l'Ue abbia dimostrato "grandissima ipocrisia, da un lato ha detto facciamo un piano di accoglienza per i migranti, stabilendo le quote come si fa per il latte, e poi non è stata nemmeno in grado di prenderseli". Ad accompagnare il premio non poteva mancare un assegno in denaro, che rispetto ai fondi necessari per gestire l'emergenza nell'isola siciliana, rappresenta meno di un'elemosina. Si tratta di 15mila euro che Nicolini ha deciso di dedicare alle "donne che sono arrivate violate", con l'intenzione di investirlo "in un progetto concreto che possa salvare almeno alcune di loro dall'abisso della depressione e della disperazione".

Quella voglia di stupire sull’immigrazione. Da più parti si afferma il dovere di sfatare miti e luoghi comuni. Ma le cose sono semplici: vengono dall’estero a fare lavori che gli italiani rifiutano, scrive il 30 ottobre 2016 Roberto Saviano su "L' Espresso". L’ultimo numero di Pagina99 sembra aver rovinato il weekend ai suoi lettori abituali con l’articolo di copertina: “Le verità scomode su migranti e lavoro. Quando gli stranieri contendono il posto ai locali”. L’autore avverte subito: «Partendo dal presupposto che i lettori di Pagina99 siano in maggioranza progressisti, questo articolo non avrebbe dovuto essere scritto». E infatti critiche a questo articolo, che si basa sullo studio del Cer (Centro Europa Ricerche) “European Migration and the Job Market” a cura degli economisti Stefano Collignon e Piero Esposito, non sono mancate. Le reazioni che ha suscitato mi portano a fare alcune considerazioni. La prima è che di immigrazione bisogna parlare, tanto e in qualunque contesto. Non esistono luoghi deputati al dibattito e non dovrebbero esistere dibattiti orientati. È un fenomeno talmente pressante e doloroso che bisogna parlarne affrontandolo dalla prospettiva più complessa: come funzionano le leggi che regolano accoglienza e integrazione e come i “locali” percepiscono l’arrivo degli “stranieri”. Pagina99 ha ragione quando dice che la politica progressista (e la stampa progressista) non si occupa di indagare i motivi che portano alla crescita di atteggiamenti xenofobi e che relegano tutto alle istanze securitariste che i partiti politici di estrema destra cavalcano con l’intensificarsi degli attentati terroristici in Europa. E sulla questione lavoro, la miope politica progressista ha sottovalutato l’impatto che l’arrivo massiccio di migranti avrebbe avuto sulla percezione della disoccupazione nei paesi dove la crisi è reale e drammatica. Ciò che non mi ha convinto dell’analisi di Pagina99 è l’aver trattato la politica progressista europea come un soggetto omogeneo, cosa che invece non è, e l’aver semplificato all’estremo l’incidenza che l’arrivo dei migranti ha sull’occupazione nel Nord Europa e nel Sud. Anche qui non è possibile trattare il Nord come un soggetto omogeneo da contrapporre a un Sud generico quando proprio in Italia viviamo delle disparità siderali tra il nostro Settentrione e il Meridione. Quindi le premesse mi sembrano interessanti (sfatiamo un caposaldo della sinistra sull’accoglienza senza se e senza ma) ma per trovare conclusioni mi rivolgo a chi studia da anni il fenomeno migratorio. Emma Bonino interviene su Radio Uno e parla del muro di Calais, una vergogna sul suolo europeo, voluto da Francia a Gran Bretagna «le più antiche democrazie europee, paesi a grande vocazione internazionale, con esperienze coloniali nel passato». Bonino aggiunge che, con il calo delle nascite e l’emorragia di giovani (e meno giovani) dall’Italia, accogliere e integrare sono diventate necessità reali nel nostro Paese, così come regolarizzare e fare in modo che chi arrivi possa trovare occupazione e pagare le tasse. In “Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione” (Laterza) Gianpiero Dalla Zuanna e Stefano Allievi dicono chiaramente che in Italia, perché non si verifichi un calo della popolazione in età lavorativa, bisognerebbe accogliere 325mila immigrati all’anno e di certo non si arriva a questa cifra. E che bisognerebbe lavorare sulle leggi che regolamentano l’immigrazione perché l’ingresso smetta di essere «costoso e irregolare, favorendo tutti quei fenomeni che sono di solito usati come uno spauracchio contro gli stranieri: i conflitti per il lavoro, l’aumento della criminalità, la mancata integrazione». Tornando a Pagina99 mi domando se abbia avuto senso sfatare un caposaldo della sinistra (accogliere senza se e senza ma) che ormai la sinistra si guarda bene dall’affermare durante dibattiti pubblici dove ormai l’immigrato è il nuovo meridionale (quello che toglie lavoro alla gente del posto, che delinque e conserva le proprie tradizioni). Sarebbe forse valsa la pena sottolineare anche l’incapacità dei governi di sinistra o degli alleati di sinistra o delle opposizioni di sinistra che hanno avallato accordi con la Libia di Gheddafi, con la Turchia di Erdogan e con la polizia sudanese che qualcuno vorrebbe far passare per rispettosa dei diritti di chi dal Sudan scappa ed è poi forzatamente rimpatriato. Del resto italiani che in Puglia, in Campania, in Calabria, in Sicilia ma anche in Lombardia vanno nei campi a raccogliere pomodori, arance e meloni per due, tre, quattro euro all’ora non li vediamo da vent’anni. Quindi sì, mi sento di dire che gli immigrati vengono a fare lavori che gli italiani non vogliono più fare e, aggiungo, che i sindacati non vogliono tutelare.

Saviano da ricovero: «Il Sud Italia può ripartire se si riempie di migranti», scrive Corrado Vitale martedì 19 aprile 2016 su “Il Secolo d’Italia". No, proprio non ce la fa Roberto Saviano a non pontificare con l’aria del guru buonista. Da quando è stato incoronato dai media “coscienza critica” dell’Italia (Leonardo Sciascia si starà rivoltando nella tomba), il giovane Saviano dispensa perline di saggezza (farlocca) a ogni piè sospinto. Così invade i media con un’alluvione di parole in stile radical chic, che però dimostrano la sua distanza dalla realtà. L’ultima sparata è veramente grossa, roba proprio da ricovero. I migranti sarebbero, secondo il guru Saviano, una risorsa per il Sud d’Italia. E sì, ha detto proprio così. Invece di protestare per l’insipienza delle classi dirigenti nazionali, incapaci di arrestare l’esodo dei giovani italiani dalle regioni meridionali, il Saviano vorrebbe rimpiazzarli con la gente che arriva a bordo dei barconi, così che alle terre del Sud sarebbe riservato un destino da immenso campo profughi. Queste cose Saviano le di dice a Sky TG24 HD. Il problema dell’immigrazione – attacca – «si sta affrontando nel modo peggiore possibile, tra l’altro delegando a gruppi di individui dediti al salvare la vita di queste persone. Tutto l’impegno dell’Europa, quando c’è, è sul segmento dell’emergenza». È quasi impossibile – lamenta – «poter vedere la politica unita o un progetto».  Ed ecco la proposta choc: «Stiamo parlando – di un’Italia il cui Sud è desertificato, il Sud può ripartire solo se si riempie di migranti, se i migranti tornano a vivere laddove noi siamo scappati. Non si può pensare di accoglierli nei quartieri delle grandi città dove vogliono andare per incontrarsi con le famiglie, bisogna avere un piano. Intere zone del Sud, la Lucania, la Calabria, potrebbero essere pronte ad accogliere e far ripartire progetti, lavori. Sono piani a lungo termine che non portano consenso politico nell’immediato. L’Europa è così cieca da non comprendere che abbiamo solo una strada: l’integrazione».  E già, con tutti i problemi che ha il Sud, ci mancava giusto questa proposta di Saviano a dare il colpo di grazia alle speranze di riscatto del nostro Meridione.

Migranti, Meloni a Saviano: "Spari idiozie". Lo scrittore: "Lei è fascista", scrive il 05/01/2017 "Adnkronos. Ad accendere la miccia un'intervista di Roberto Saviano a Gianni Riotta per Rai Cultura. Si parla di Sud, lo scrittore lancia l'idea di "sindaci africani" per risolvere i problemi di una terra martoriata. Tanto basta per far tuonare Giorgia Meloni su Twitter: "Saviano dice che sogna sindaci africani. Vada a vivere in Africa allora. Così esaudisce il suo sogno e quello di diversi italiani". All'attacco anche Matteo Salvini: "Io sogno Saviano in Africa", scrive il leader del Carroccio. La risposta dello scrittore non si fa attendere. "Io in Africa ci vado. Accompagnerò Salvini magari a recuperare i fondi pubblici della Lega Nord finiti in Tanzania e Meloni a scusarsi per le atrocità commesse dal regime fascista nei territori ex coloniali, regime con cui lei politicamente è in continuità. Per le scuse non è mai tardi" controbatte l'autore di Gomorra su Facebook. "Purtroppo quando non copi cose scritte da altri - replica secca la presidente di Fdi-An - spari idiozie ciclopiche. Non hai un amico che possa aiutarti coi social?". Ribatte ancora Saviano: "Fossi in lei non farei tanta ironia. Lei è fascista e questa non è ciclopica idiozia, ma una cosa seria e piuttosto grave". Via Twitter arriva la controreplica a Saviano da parte di Meloni: "@robertosaviano darmi della 'fascista' è un'analisi originale, ma da un esperto di copia e incolla non potevo aspettarmi granché di diverso", scrive la leader di Fdi. "Ieri scopro di essere nei trend topic di Twitter perché insultato da Giorgia Meloni e Matteo Salvini che mi invitano ad andare a vivere in Africa - scrive Saviano nel lungo post su Facebook - Io in esilio di fatto ci sto già da sei anni, da quando nel 2010, dopo l'inaspettato successo di Vieni via con me, fui praticamente cacciato dal Governo Berlusconi. Subivo attacchi quotidiani e mi resi conto che l'Italia, il Paese con le mafie più pericolose e potenti al mondo, il Paese che invita costantemente all'omertà, non poteva più essere casa per uno come me. Da allora sono cambiati solo i governi, ma non la sostanza dei fatti". "L'Italia però mi manca moltissimo e torno spesso per lavoro, per vedere gli amici e i miei cari. È la mia terra e non posso smettere di raccontarla, e se il mio racconto è in antitesi rispetto all'immagine del Paese che hanno Giorgia Meloni e Matteo Salvini non posso che esserne fiero - sottolinea - Fiero per non cedere mai alle loro basse semplificazioni. Fiero perché è la complessità a guidare il mio ragionamento e non il più becero razzismo. Fiero perché io scrivo libri e non cerco voti. Non getto reti nel mucchio, non desidero vincere ma ragionare e, soprattutto, convincere. Siamo diversi io, Meloni e Salvini. E della mia diversità ne faccio un vanto". "Loro - prosegue - propongono discorsi sulla razza, discorsi che io aborro. La città di New York cambiò volto con Fiorello La Guardia, figlio di padre cattolico di Cerignola e di madre ebrea di Trieste. Dal 1934 al 1945 La Guardia fu sindaco di New York, un sindaco figlio di immigrati, con sangue italiano, un sindaco ebreo. Immaginate cosa ne avrebbero detto Salvini e Meloni: 'Se ne torni tra le pecore, La Guardia, ad amministrare New York non ci vogliamo uno straniero'". Per Saviano "Salvini e Meloni gettano ami nel mucchio e come gran parte degli esponenti politici italiani non hanno alcuna conoscenza reale del territorio. Non sanno che ci sono interi paesi del sud Italia come Castelvolturno, come Rosarno, dove gli immigrati si sono ribellati alle organizzazioni criminali quando gli italiani non lo facevano più da decenni. Salvini e Meloni non sanno che esistono comunità foltissime di immigrati che lavorano onestamente e che non sono politicamente rappresentate. Il volto di quei territori, dove camorra, 'ndrangheta e sacra corona unita sono fortissime, cambierebbe radicalmente con rappresentanti politici immigrati, con sindaci immigrati". "Meloni e Salvini - continua Saviano - ignorano che il primo sciopero di braccianti, per protesta contro la pratica illegale del caporalato (che, per inciso, avrebbe dovuto essere contrastata efficacemente dallo Stato Italiano) lo organizzò nel 2011 Yvan Sagnet, un ragazzo che veniva dal Camerun, laureato in Ingegneria delle telecomunicazioni al Politecnico di Torino". "Vorrei che Meloni e Salvini capissero che non esistono differenze tra razze - sottolinea ancora Saviano - non esiste alcuna invasione, ma esiste un Paese, il nostro, che loro due hanno contribuito, con le forze politiche che rappresentano (e che li rappresentano), a rendere inefficiente, cattivo, discriminatorio. Un Paese in cui realizzarsi è difficilissimo per tutti (italiani e stranieri, e non certo per colpa degli stranieri), un Paese da cui la giustizia sembra essere bandita". "Io in Africa ci vado - conclude - accompagnerò Salvini magari a recuperare i fondi pubblici della Lega Nord finiti in Tanzania e Meloni a scusarsi per le atrocità commesse dal regime fascista nei territori ex coloniali, regime con cui lei politicamente è in continuità. Per le scuse non è mai tardi".

Roberto Saviano il 22 aprile 2017 insulta di Maio per la frase sugli immigrati. "Chi paga questi taxi del Mediterraneo? E perchè lo fa? Presenteremo un'interrogazione in Parlamento, andremo fino in fondo a questa storia e ci auguriamo che il ministro Minniti ci dica tutto quello che sa". Il post di Luigi Di Maio su Facebook sul ruolo delle ong che trasportano immigrati in mare (record in 72 ore di circa 8mila persone) fa infuriare il tuttologo Roberto Saviano. Che su Twitter scrive: "Definire taxi del mare barche che salvano vite è grave, soprattutto se a farlo è il vicepresidente della Camera e non un Salvini qualunque".

Grillo contro i migranti: «Costano 4,6 miliardi», scrive Rocco Vazzana il 22 Aprile 2017, su "Il Dubbio". «Dietro agli sbarchi potrebbero esserci la regia delle Ong, lo dice la procura di Catania». Ma in realtà è solo un’indagine conoscitiva. Era successo contro «rumeni delinquenti» e si ripete adesso contro i disperati che sbarcano sulle nostre coste. Quando il Movimento 5 Stelle parla di migranti non si assume la responsabilità politica della propria visione del mondo, cita spesso fonti o inchieste della magistratura per dare un valore “oggettivo” alle proprie battaglie. Così ieri il Blog si è scagliato contro il «record di sbarchi senza precedenti» che ha interessato il nostro Paese negli ultimi giorni. «In poco più di 72 ore circa 8mila migranti sono approdati in Sicilia dopo una lunga traversata in mare. Numeri impressionanti», è l’esordio del post firmato M5S. «Con l’aumento degli sbarchi aumenta ovviamente anche la spesa interna dell’Italia. Nel Def il governo ha indicato per quest’anno una spesa pari a 4,6 miliardi, vale a dire ben 1 miliardo in più rispetto al 2016. In pratica i flussi migratori ci costerebbero più della manovra». Insomma, l’accoglienza è cara e l’Europa se ne frega. Forse gli italiani dovrebbero prendere esempio dagli austriaci: «L’unica voce ad oggi si è alzata da Vienna, che si è già detta pronta sigillare il Brennero nel giro di qualche ora», recita il Blog. Ma di chi sarebbe la responsabilità di quest’esodo che porta un esercito di disperati sulle nostre coste? È qui che il ragionamento pentastellato si fa interessante, «perché a quanto pare l’escalation di arrivi negli ultimi giorni potrebbe non essere casuale. Insomma, potrebbe esserci dietro una regia e a dirlo non è il M5S, bensì anche un’inchiesta aperta dalla Procura di Catania». Ecco lo scudo dei pm. «Oltre ai trafficanti di esseri umani in Libia, sta emergendo la questione delle navi di alcune Ong private che soccorrono in mare sistemandosi al limite delle acque territoriali libiche (o spingendosi addirittura all’interno). Parliamo di circa una dozzina di Ong tedesche, francesi, spagnole, olandesi, e molte di queste battono bandiere panamensi o altre “bandiere ombra”». E di cosa sarebbero accusate queste Ong? «Caricano i migranti – salpati su gommoncini economici adatti a percorrere quelle poche miglia, e poi li consegnano ai porti italiani prima di ritornare alla loro base maltese». Le Ong, in qualche modo, sarebbero complici degli scafisti. Seguono una serie di domande insinuanti: Chi finanzia queste organizzazioni? Con chi si relazionano in Libia? Come pensa di intervenire il governo italiano? I quesiti del M5S, però, sono destinati a rimanere inevasi per un semplice motivo: nessuno ha ele- menti per fornire risposte. Nemmeno la procura di Catania, che sul caso in realtà non ha mai aperto un’inchiesta: al momento sono state svolte solo indagini conoscitive. «Nessun fascicolo aperto, ma soltanto un’analisi su un fenomeno che stiamo studiando da tempo sul proliferare di nuove e piccole Ong, non certo quelle importanti da tempo impegnate in una grande opera umanitaria», dichiarava il 17 febbraio il Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che pure è convinto che dietro all’attività di alcune Ong possa celarsi qualcosa di losco. Un sospetto che al magistrato etneo è venuto leggendo i dati contenuti in un rapporto di Frontex, l’Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera. «Abbiamo osservato un aumento di piccole Ong che sono impegnate nel salvataggio di migranti con alle spalle ingenti capitali. Vogliamo capire chi ci sia dietro e che cosa nasconda questo fenomeno. Stiamo facendo un ragionamento molto attento, ma non ci sono gli elementi per aprire un fascicolo, soltanto per proseguire la nostra analisi», ha spiegato Zuccarato. Ma per i 5 Stelle è sufficiente, perché «al primo dubbio, nessun dubbio». Forse anche per questo, ieri, il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino, si è mostrato infastidito per le posizioni filo grilline apparse su Avvenire, il quotidiano dei vescovi. «Sui poveri siamo così d’accordo? Poveri sono anche i rifugiati che arrivano in Italia», dice Galatino al Corriere. «E non mi sembra che su questo i Cinque Stelle siano in sintonia con la Chiesa».

Soldi pubblici alle Ong pro migranti. La "flotta buonista" boicotta le indagini sugli scafisti. Ma prende milioni dallo Stato, scrivono Chiara Giannini e Giuseppe Marino, Domenica 23/04/2017, su "Il Giornale". Tre procure siciliane indagano sulle operazioni di soccorso delle Ong nel Mediterraneo e sul loro rapporto con gli scafisti. Primo dubbio che i pm di Palermo, Catania e Trapani vogliono chiarire: chi finanzia le costose operazioni in mare? In parte, è la paradossale risposta, i soldi ce li mette lo Stato italiano. L'informazione è contenuta nel bilancio 2016 di Medici senza frontiere, una delle organizzazioni più attive nei salvataggi in mare, col pregio di garantire un minimo di trasparenza. Le Ong non dicono chi sono i loro grandi finanziatori, ma Msf dichiara di aver ricevuto 9,7 milioni di euro di fondi del 5 per mille Irpef. Di questa considerevole somma, nel 2016 dichiara di aver investito 1,5 milioni di euro per «ricerca e soccorso» nel Mediterraneo. Esattamente il tipo di attività attualmente sottoposta a un fuoco di critiche, tra l'altro, dall'agenzia europea Frontex, perché vanifica l'azione di contrasto agli scafisti da parte delle navi militari dell'operazione Sophia, andando incontro ai gommoni dei migranti a ridosso della costa libica, cioè prima che possano essere intercettati dalle navi militari. In un dibattito ospitato da Sky Tg24, un rappresentante di Msf, Marco Bertotto, ha raccontato: «A noi è capitato in cinque occasioni, in coordinamento con la guardia costiera italiana e dietro autorizzazione di quella libica, di entrare in acque territoriali libiche». La guardia di costiera italiana però nega di aver «coordinato» il salvataggio in Libia, ma di essere solo stata allertata e di aver perciò contattato le autorità libiche. E che il modus operandi delle Ong non sia solo casualmente in conflitto con l'attività delle autorità italiane ed europee, che vorrebbero sì salvare i migranti in difficoltà, ma anche stroncare il traffico di uomini, lo prova anche il fatto che, come racconta al Giornale un poliziotto in servizio negli hotspot in Sicilia, «i responsabili delle navi delle Ong si rifiutano di consegnare i video dei recuperi di migranti in mare». Lo scopo deliberato è di impedire le indagini su chi era al timone dei gommoni visto che, secondo le organizzazioni umanitarie, non si tratta di scafisti, ma di migranti che si prestano a pilotare le imbarcazioni e in cambio viaggiano gratis. Ed ecco cosa scrive il sito dell'organizzazione Open Migration sull'operato delle Ong: «Un'operatrice ammette che le missioni in mare per le organizzazioni non governative sono sexy, come testimonia il numero doppio di imbarcazioni in mare rispetto allo scorso anno. Il salvataggio dei migranti è una nuova frontiera del business della solidarietà». Il tutto giustificato dallo scopo umanitario di salvare vite. Anche se nel 2016, quando il numero degli interventi delle Ong è salito dal 5 al 40% del totale, la mortalità dei migranti in mare è cresciuta del 30%. Un'altra Ong, la maltese Moas, ha annunciato: chiederemo il 5 per mille pure noi.

"Campi profughi come lager". Perché stavolta il Papa esagera. Dura liturgia del Pontefice che attacca (a sproposito): "Il Nord dovrebbe imparare dalla generosità del Sud", scrive Giannino Della Frattina, Domenica 23/04/2017, su "Il Giornale". «I campi profughi sono come i campi di concentramento». Mancava solo l'ultima uscita di papa Francesco per rendere se possibile ancor più esplosiva una situazione che sembra essere sempre più fuori controllo. Sono «troppi» secondo il Pontefice che ne ha parlato ieri a braccio durante la Liturgia della Parola nella Basilica di San Bartolomeo all'Isola Tiberina in memoria dei «Nuovi Martiri del XX e XXI secolo». E ricordando migrazioni che senza intervento sembrano ormai destinate a diventare bibliche, ha elogiato «i popoli generosi che accolgono e debbono portare avanti da soli questo peso», mentre «gli accordi internazionali sembrano più importanti dei diritti umani». Come se non fossero proprio gli accordi internazionali l'unica speranza di mettere un argine a una tragedia che colpisce prima di tutto chi per disperazione è costretto ad abbandonare famiglia e Paese di nascita. E come se il tentativo della comunità internazionale di organizzare gli aiuti e combattere il terrorismo proprio in quelle terre martoriate, non appaia al momento l'unico intervento possibile per evitare la destabilizzazione dell'intero pianeta. Ma non si è fermato qui Papa Francesco, pronto a regalare una ricetta prêt-à-porter a governi e amministratori. Basterebbe, ha assicurato, che ogni municipio ospitasse due migranti e ci sarebbe spazio per tutti, ha sentenziato dopo aver forse registrato il fallimento della sua richiesta di qualche tempo fa, perché fosse ogni parrocchia ad accogliere due extracomunitari. Richiesta vana, impegno disatteso dai parroci forse in attesa che qualche migrante sia intanto ospitato all'interno delle solide e ricche mura della Città del Vaticano. Ancor più discutibile, con tutto il rispetto per l'autorità papale, la speranza espressa sempre ieri sull'Isola Tiberina «che la generosità del Sud, dalla Sicilia a Lesbo, possa contagiare un po' il Nord». Affermazione quantomeno ingiusta verso regioni come la Lombardia e il Veneto che dell'accoglienza di profughi (e soprattutto immigrati irregolari) hanno fatto un impegno titanico. O verso una città come Milano diventata, vista la sua organizzazione e il proverbiale cuore in mano, la Lampedusa senza il mare. Il punto di approdo di migliaia di profughi e immigrati che arrivano alla Stazione Centrale sperando di essere accuditi dignitosamente. Il tutto, nel caso di Milano ma anche degli altri Comuni del Nord, senza nessun aiuto dello Stato. La cui ultima preoccupazione, per mano dei prefetti, è convincere (o meglio costringere) i sindaci ad accollarsi sempre maggiori quote di extracomunitari, togliendo così inevitabilmente risorse ai servizi sociali destinati alle famiglie già in grave difficoltà. O magari agli interventi in quei quartieri di case popolari come San Siro a Milano, diventati quelli sì un vero campo di concentramento per gli italiani che sono costretti a viverci in condizioni disperate. Taglieggiati, angariati e minacciati ogni giorno dal racket degli extracomunitari che ne hanno fatto i loro fortini di droga e violenza.

Antonio Socci il 23 Aprile 2017 su "Libero Quotidiano": "Solo Ratzinger ha il coraggio di affrontare la bomba islamica". Il terrorismo islamista è entrato anche nelle elezioni francesi e ormai fa parte stabilmente delle cronache europee. Non è più un caso accidentale e non potremo spazzarlo via tanto facilmente. L' Isis prima ha cercato in Europa «Foreign Fighters» che andassero a combattere in Siria e Iraq. Oggi li rispedisce in Europa e contemporaneamente tenta una campagna di arruolamento all' interno dell'ormai vastissima presenza islamica nel Vecchio Continente. Bisogna riconoscere però che questa campagna di arruolamento fra le comunità islamiche europee non ha presa. Non si può dire infatti che (almeno per ora) il terrorismo faccia proseliti fra i musulmani di casa nostra. E questa è una buona notizia. Certo, c' è chi si fa sedurre dall' Isis, ma si tratta di piccolissime frange che speriamo non si allarghino. Tuttavia questo non significa che l'Islam di per sé non sia comunque una grossa sfida politico e culturale per l'Europa. L' Islam - che non è da identificare col terrorismo - è una concezione globale dell'uomo, della società, della giurisprudenza e dello Stato (come vediamo nei Paesi arabi e islamisti) ed è difficilmente compatibile con la liberaldemocrazia e la modernità occidentale. Questo è un problema che riguarda effettivamente le comunità islamiche europee e noi europei. Basti considerare il grande successo che il leader turco Erdogan ha avuto fra i turchi residenti in Europa nel recente referendum. È la dimostrazione che l'integrazione - che per esempio in Germania è effettiva - non significa affatto lo sradicamento della loro cultura islamica d' origine. E dunque cosa accadrà se le comunità musulmane europee - crescendo per l'alto tasso di natalità e per l'immigrazione - daranno vita a loro formazioni politiche? Nessuno sembra porsi il problema, soprattutto nei circoli intellettuali e politici nostrani, pigramente multiculturalisti. In Francia invece il dibattito divampa (come in altri paesi europei). A intervenire - a sorpresa - in questa bollente questione è stato, in questi giorni, nientemeno che Benedetto XVI. A conferma del fatto che - pur vivendo ritirato in un suo eremo spirituale - resta l'intelligenza più lucida e coraggiosa del nostro tempo. A fornirgli l'occasione è stato il Simposio che il presidente polacco Andrzej Duda e i vescovi di quel Paese hanno organizzato in suo onore per il 90° compleanno del papa emerito. Il titolo del convegno è: «Il concetto di Stato nella prospettiva dell'insegnamento del cardinal Joseph Ratzinger-Benedetto XVI». Un tale Simposio è anzitutto il riconoscimento di un grande pensatore, che esprime al meglio il pensiero cattolico nell' attuale confronto di idee (non si può dire lo stesso per il peronismo sudamericano e politically correct dell'attuale vescovo di Roma). Benedetto XVI ha scritto al Simposio un messaggio sintetico, ma lucidissimo, che, in poche righe, centra perfettamente il problema perché chiama per nome l'islamismo e la sua concezione dello Stato (cosa alquanto inconsueta al tempo di Obama e di Bergoglio). Ma Benedetto XVI non pone solo il problema dell'islamismo: insieme ad esso mette in discussione anche lo stato laicista occidentale. Il messaggio merita di essere letto: «Il tema scelto», scrive Benedetto XVI «porta Autorità statali ed ecclesiali a dialogare insieme su una questione essenziale per il futuro del nostro Continente. Il confronto fra concezioni radicalmente atee dello Stato e il sorgere di uno Stato radicalmente religioso nei movimenti islamistici conduce il nostro tempo in una situazione esplosiva, le cui conseguenze sperimentiamo ogni giorno. Questi radicalismi esigono urgentemente che noi sviluppiamo una concezione convincente dello Stato, che sostenga il confronto con queste sfide e possa superarle. Nel travaglio dell'ultimo mezzo secolo, con il Vescovo-Testimone Cardinale Wyszynski e con il Santo Papa Giovanni Paolo II, la Polonia», conclude papa Ratzinger «ha donato all' umanità due grandi figure, che non solo hanno riflettuto su tale questione, ma ne hanno portato su di sé la sofferenza e l'esperienza viva, e perciò continuano ad indicare la via verso il futuro». È significativo che Benedetto XVI indichi come esempi da seguire il cardinale Wyszynski, simbolo dell' opposizione allo stato ateo comunista, e Giovanni Paolo II che - oltre alla lotta contro i totalitarismi atei - cercò di far capire all' Europa che sarebbe stato disastroso costruire una Unione europea sul secolarismo più laicista, recidendo le radici spirituali dei popoli europei e l' apertura a Dio della sua cultura bimillenaria, perché proprio da quelle radici è venuta la centralità della dignità umana che ha sempre caratterizzato l' Europa. Benedetto XVI afferma che «concezioni radicalmente atee dello Stato» da una parte e «il sorgere di uno Stato radicalmente religioso nei movimenti islamistici conduce il nostro tempo in una situazione esplosiva». Ancora una volta la sua è una voce profetica e ancora una volta, probabilmente, non sarà ascoltata. Il suo messaggio sintetico richiama lo storico discorso di Ratisbona, del settembre 2006, dove Benedetto XVI - diversamente da quanto si crede - non fece affatto un'invettiva anti-islamica, ma propose al mondo musulmano, all' Europa laicista e ai cristiani, l'unico vero terreno di dialogo che essi hanno in comune: la ragione. In tutta la sua grandezza, non nella sua limitata accezione scientista e razionalista (perché il razionalismo sta alla ragione come la polmonite sta al polmone). Uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, René Girard, ha fatto l'apologia di quel discorso: «Ciò che io vedo in questo discorso è prima di tutto una perorazione della ragione. Tutti si sono scagliati contro il Papa», ma «questo Papa, considerato un reazionario, si è comportato da difensore della ragione». In pratica Benedetto XVI indica una terza via - fra stato laicista e islamismo - ed è il recupero delle radici spirituali e umanistiche dell'Europa e della nostra cultura. Sarebbe bene rifletterci. Antonio Socci

Quell’islam sanguinario, scrive Sabato 22 aprile 2017, Nino Spirlì su "Il Giornale". Ed è stato ancora Parigi. Ed è stata ancora morte per mano islamica. Questa volta è toccato ad un giovane poliziotto che stava svolgendo il suo compito in una delle zone più calde e popolate di francesi e turisti. Un ragazzo, mi dicono, serio, puntuale, innamorato del suo compagno e del suo lavoro. Del suo Paese. Non è stato il primo Martire di questa sporca guerra di religione e identità. Non sarà, purtroppo, l’ultimo. Né sul suolo occidentale, né in giro per questo sporco meraviglioso pianeta Terra. Sparsi ovunque, i terroristi islamici stanno spargendo paura come fosse semente su un enorme campo arato. Non ho più voglia di denunciare le loro malefatte. Né di lanciare anatemi contro quelle merde che li proteggono ed ingrassano. Voglio sperare che muoiano tutti. Nel modo e nei tempi che il Cielo, quello Vero, stabilisca per loro. Voglio credere che il Bene vincerà su questi figli dell’inferno. Che la Luce spazzerà via queste tenebre per sempre. Che la gioia trionferà sulla tristezza figlia di un pensiero sbagliato. Di una finta religione. Di un libro scritto da uno scriba pagato da un cretino. Voglio convincermi che le nostre strade, le nostre case, le nostre città saranno liberate da questi laidi invasori che ci odiano uno ad uno, e che odiano la nostra libertà, la nostra democrazia, il nostro progresso. Voglio uscire di casa senza provare quel fastidio dell’odio, ricevuto e forzatamente ricambiato. Voglio poter sentire la leggerezza dell’essere al posto giusto con la gente giusta nel momento giusto e non il peso della convivenza imposta con gente talmente diversa da sembrarmi aliena. Voglio trapassare questo medioevo ridicolo di donne coperte come un cataletto alle esequie e di finti soldati paranoici e drogati di stupide aspettative impossibili. Voglio poter pulire questo gusto di sangue che si è sparso nell’aria, regalo del demonio all’umanità rimbecillita, fra l’altro, dai panini al chebàb e da troppi cellulari nella stessa tasca. Voglio svegliarmi, una mattina, e respirare, finalmente, aria di Cristo e Resurrezione.

Troppi falsi miti sull’immigrazione. Vogliamo parlarne? Scrive Marcello Foa il 3 aprile 2017 su “Il Giornale”. A volte, per affrontare temi complessi, non sono necessari grandi studi; la sintesi, se analitica e ben documentata, è più che sufficiente. Anzi è quanto mai auspicabile. L’argomento a cui mi riferisco è quello dell’immigrazione, che, purtroppo, è contaminato da una propaganda martellante, quasi sempre emotiva e illusoria. Pensateci. Per mesi gli immigrati erano tutti profughi di guerra che scappavano dalla Siria, benché le immagini dei barconi mostrassero una netta predominanza di neri. Non erano arabi ma africani. Ed erano, anzi, sono, profughi economici. Per mesi ci hanno raccontato di drammatiche fughe sui barconi e oggi veniamo a sapere che ad aiutare gli immigrati sono le navi di Ong che vanno a “salvare” i barconi degli immigrati a pochi chilometri dalla costa libica, rendendosi così di fatto complici dei trafficanti di uomini, di quegli schiavisti che lucrano sulla pelle della povera gente, esigendo il pagamento di cifre altissime per affrontare il viaggio verso un Eldorado che non c’è. Quegli scafisti hanno capito il giochino, diventano ricchi, mentre le Ong (a proposito: chi le finanzia?) soddisfano il loro insaziabile bisogno di bontà, che in realtà è assai sospetto. Mentre il governo italiano lascia scandalosamente fare. Tre studiosi, tanto competenti quanto estranei al mainstream, come Giuseppe Valditara, Gianandrea Gaiani e Gian Carlo Bongiardo, hanno pubblicato qualche settimana fa un libro di appena 80 pagine che affronta di petto la questione, come si evince dal titolo: “Immigrazione. Tutto quello che dovremmo sapere” (Aracne editore). Un libro che va letto nel suo spirito più autentico, che non è quello di chi si propone irrealisticamente di fermare ogni forma di immigrazione, ma di chi è consapevole che lo sbarco ormai massiccio di irregolari in Europa è fonte di una doppia ingiustizia, nei confronti di chi arriva – destinato a confrontarsi con una realtà ben diversa da quella immaginata e fatta di stenti, di privazioni e, nei casi più drammatici, di sfruttamento da parte della malavita – e nei confronti delle popolazioni locali che non hanno le risorse per assimilare degnamente masse di immigrati e che, nelle fasce sociali più disagiate, vedono nello straniero un concorrente disposto ad accettare paghe da fame. Le conseguenze le conosciamo: non è solo la mancata integrazione etnica, culturale e religiosa ma è il sorgere di una “guerra” fra poveri, è la creazione di ghetti, è il degrado del tessuto sociale, che poi diventa terreno fertile per l’estremismo religioso islamico, nonché di ogni forma di razzismo. Blangiardo, Gaiani, Valditara hanno il merito di spiegare cosa distingue l’immigrazione positiva da quella negativa, di denunciare come in certe realtà metropolitane tedesche e italiane, le autorità ricorrano all’omertà per impedire che notizie di crimini particolarmente odiosi, come quelli sessuali, commessi da immigrati non vengano pubblicate dai media. I tre autori spiegano come alcune idee, diventate dei veri propri mantra, secondo cui gli immigrati aiutano a risolvere il “problema delle culle vuote” o a “garantire le pensioni del futuro” o che “servano a far crescere il Pil nazionale” siano illusori o infondati. Statistiche alla mano. Come quelle, ampiamente sconosciute, secondo cui l’asilo viene concesso solo al 5% di coloro che lo richiedono. Il che significa che il 95% degli immigrati non fugge da una guerra o da un regime totalitario, bensì semplicemente per ragioni economiche. E’ un saggio che non è solo di denuncia, ma che propone anche misure concrete, ad esempio quella di usare la leva finanziaria nei confronti dei Paesi che di fatto non fanno nulla per fermare la partenza dei barconi o di stabilire nuove linee guida affinchè l’immigrazione diventi davvero virtuosa e qualitativa. Dunque ben diversa da quella che sta portando nei Paesi europei un melting pot, ovvero un amalgama eterogeneo di etnie e religioni, tanto impetuoso quanto profondamente destabilizzante e, in sè, tutt’altro che umanitario.

IMMIGRAZIONE. TUTTO QUELLO CHE DOVREMMO SAPERE. Di Giuseppe Valditara, Gian Carlo Blangiardo, Gianandrea Gaiani. Sintesi: L’immigrazione è una delle questioni cruciali nel mondo sviluppato. Quali sono i rischi e quali sono i vantaggi, quali i problemi che suscita e quali i falsi miti ad essa collegati? Esiste un’immigrazione positiva e una negativa e sul modello dell’antica Roma viene proposta una distinzione fra un’immigrazione utile, che va incoraggiata, e una che rischia di disintegrare le nostre società, che pertanto va contrastata. Il volume, che affronta il problema con uno sguardo alla storia, un’attenzione alla demografia e una prospettiva strategica, non si occupa solo di dati spesso allarmanti, ma anche di fornire soluzioni per governare un fenomeno che sarà sempre più decisivo per il destino delle generazioni presenti e future.

Immigrazione: tutto quello che dovremmo sapere, scrive il 6 febbraio 2017 "Analisi Difesa”. «Abbiamo qualche interesse a riempire l’Europa di milioni di altri islamici? Di immigrati che minacciano lo stile di vita e le infrastrutture sociali dell’Europa?» Philip Hammond ministro degli Esteri britannico, agosto 2015.

Si può parlare di immigrazione senza cadere nel linguaggio paludato e mieloso imposto dal politically correct affrontando la questione non solo sul piano umanitario ma su quello della legalità, della difesa e sicurezza e degli interessi nazionali?

Prova sicuramente a farlo il volume “Immigrazione: tutto quello che dovremmo sapere”, instant book scritto a sei mani per l’editore Aracne da Gian Carlo Blangiardo, Giuseppe Valditara e Gianandrea Gaiani, autori con specifiche competenze in campi diversi ma complementari per definire la portata del fenomeno ma soprattutto per cercare di fornire risposte idonee a governare un fenomeno che sarà sempre più decisivo per il destino delle generazioni presenti e future. Sul modello dell’antica Roma viene proposta una distinzione fra un’immigrazione utile e quella illegale che rischia di disintegrare le nostre società. Il volume sgombera il campo da luoghi comuni tesi a giustificare come inevitabile una “invasione” subita in modo totalmente passivo dall’Italia e dall’Europa, affrontando il problema con uno sguardo alla storia, un’attenzione alla demografia e una prospettiva politico-strategica inevitabile se si considera che oltre mezzo milione di immigrati clandestini sono sbarcati in Italia solo negli ultimi tre anni arricchendo trafficanti di esseri umani ma anche il business dell’accoglienza gestito in Italia da enti e associazioni molto vicine ad alcuni ambienti politici. Si tratta di clandestini per la stragrande maggioranza di religione islamica e provenienti da paesi africani dove non ci sono guerre (meno di mille i siriani giunti in Italia nel 2016 su oltre 181 mila clandestini) che costituiscono un costo sociale e in termini di sicurezza inaccettabile per l’Italia e per l’Europa, specie in un’epoca economicamente recessiva. I crescenti casi di rivolte, violenze, devastazioni e persino sequestri di personale italiano addetto all’assistenza da parte degli immigrati clandestini sta evidenziando le pretese e la scarsa riconoscenza di molti “ospiti” nei confronti dell’Italia, che pure applica un’accoglienza indiscriminata che include categorie non previste dal diritto internazionale quali la “protezione umanitaria” e la “protezione sussidiaria” per concedere asilo anche temporaneo a migranti economici che non avrebbero nessun titolo per essere accolti in Europa e dovrebbero venire espulsi (come ammette la stessa agenzia europea delle frontiere Frontex). Nella storia non era mai accaduto che un intero continente si mostrasse incapace di difendere le proprie frontiere e che forze militari venissero impiegate non per difendere i confini ma per consentire di superarli a chiunque potesse pagare organizzazioni criminali. Grazie a un impiego folle e suicida delle forze navali l’immigrazione illegale che dall’Africa si dirige in Italia attraverso la Libia è stata incoraggiata, invece che scoraggiata, dagli ultimi governi italiani.

Nel 2016 sulle coste italiane sono sbarcati 181.436 migranti illegali, il 17,94% in più dell’anno precedente (153.842) e il 6,66% in più di due anni prima (170.100). Il dato, aggiornato al 31 dicembre, è stato reso noto dal Viminale.

Il Paese dal quale provengono più migranti – in base a quanto dichiarato al momento dello sbarco – è la Nigeria (37.551 sbarcati) davanti a Eritrea (20.718), Guinea (13.342), Costa d’Avorio (12.396), Gambia (11.929), Senegal (10.327), Mali (10.010), Sudan (9.327), Bangladesh (8.131) e Somalia (7.281).

Sempre secondo il Viminale sono 176.554 i migranti accolti nel nostro Paese al 31 dicembre 2016: erano 103.792 l’anno scorso, 66.066 due anni fa, 22.118 nel 2013.

BRANI DAL LIBRO.

Immigrazione positiva e immigrazione negativa. Se guardiamo la esperienza romana antica ci rendiamo conto che una delle cause del successo di Roma fu una apertura condizionata. Emblematica è la frase con cui il greco Elio Aristide celebrava la concezione romana della cittadinanza: “Vi è qualcosa che decisamente merita attenzione e ammirazione […] la vostra generosa e magnifica cittadinanza, o Romani, con la sua grandiosa concezione, poiché non vi è nulla di uguale nella storia dell’umanità […] voi avete dappertutto dato la cittadinanza, come una sorta di diritto di parentela con voi, a coloro che rappresentano il meglio per talento, coraggio, influenza, mentre gli altri li avete sottomessi come sudditi”. La cittadinanza si dà dunque solo a chi se la merita, in altre parole a chi è utile alla comunità. Altrettanto significativa è la conclusione di Aurelio Vittore: la pessima politica degli imperatori del III secolo d.C., avendo lasciato entrare entro i confini dell’impero promiscuamente chiunque, vale adire «i buoni e i cattivi, i nobili e gli ignobili, e molti barbari», fece precipitare le condizioni di Roma, favorendo la decadenza e creando le premesse perché i «barbari governassero sui Romani». Gli ingressi devono dunque essere selezionati e corrispondere agli interessi della comunità che ospita, senza eccedere nel numero perché i cittadini non diventino stranieri in patria.

I nuovi volti della irregolarità. Nel complesso la popolazione straniera in Italia ha segnato nel biennio 2014-2015 un incremento di circa 200.000 unità, dovuto per il 60% alla componente regolare e per il 40% a un aumento dell’irregolarità. Un dato, quest’ultimo, che sembra trovare spiegazione nel forte divario trai 324.000 sbarcati lungo le coste italiane nel corso del periodo in oggetto e le “sole” 147.000 richieste d’asilo registrate nello stesso arco temporale, per la gran parte respinte (Ministero dell’Interno, 2016. L’alimentazione dell’irregolarità, che tradizionalmente avveniva in modo silente attraverso la pratica degli overstayers (prolungamento del soggiorno oltre il limite dell’originaria autorizzazione), sembra aver oggi assunto caratteristiche e canali che sono assai più appariscenti che in passato, pur riflettendo l’incertezza di progetti e percorsi migratori che, come ben noto, hanno spesso per obiettivo una destinazione finale che non coincide necessariamente con il nostro Paese. In proposito, resta però la grossa incognita legata alla chiusura delle frontiere da parte di molti Paesi dell’UE, una prospettiva che rischia di trasformare il ruolo dell’Italia, nel progetto migratorio di centinaia di migliaia di immigrati, da terra di transito a luogo di forzato contenimento in condizioni di irregolarità.

Trafficanti e terroristi. Alcuni governi europei, tacciati impropriamente di razzismo, populismo e nazionalismo, hanno evidenziato come l’immigrazione illegale di massa, gestita dalla criminalità, sia un problema prioritario di sicurezza nazionale e comunitaria. A corroborare questo approccio pragmatico e non ideologico sarebbe sufficiente la valutazione che l’immigrazione illegale è strettamente collegata a terrorismo ed estremismo islamico………..Le attuali migrazioni illecite in Europa costituiscono invece un serio e crescente problema di sicurezza per una vasta gamma di ragioni. I traffici di esseri umani alimentano e finanziano organizzazioni criminali legate a Stato Islamico e al–Qaeda nel Maghreb Islamico e consentono di portare in Europa terroristi e loro fiancheggiatori. Un dato non certo nuovo dal momento che già nel 2012 magistrati libici riscontrarono l’infiltrazione di al–Qaeda nella gestione dei flussi di clandestini dal Sahel alle coste libiche mentre in Italia le infiltrazioni vennero denunciate già dal ministro degli Esteri del governo Letta, Emma Bonino, nel novembre 2013. Nel dicembre dell’anno successivo la presenza di uomini dell’Isis tra i clandestini in Italia fu oggetto di un’inchiesta della Procura di Palermo di cui riferì ampiamente la stampa e nel gennaio 2015 vennero ammesse apertamente al vertice di Londra degli Stati mobilitatisi contro l’Isis dal ministro degli Esteri del governo Renzi, Paolo Gentiloni. «Ci sono rischi anche notevoli di infiltrazione di terroristi dall’immigrazione», disse il ministro. Un mese dopo rilanciò l’entità della minaccia l’ammiraglio statunitense James Stavridis, già comandante supremo della Nato in Europa, in un’intervista al “Sunday Times”, mentre nell’estate 2015, in piena “invasione” dalla Turchia, il governo austriaco riferì (nell’imbarazzo dei partner UE) che i servizi segreti macedoni avevano individuato molti jihadisti tra i “profughi” che risalivano la Penisola Balcanica. Infine quest’anno, dopo arresti su vasta scala e prove evidenti di terroristi macchiatisi di attentati in Europa, dove erano arrivati come “rifugiati”, sia Europol che Frontex hanno lanciato l’allarme: «l’Isis sfrutta i flussi migratori per infiltrarsi in Europa ed effettuare attentati».

Immigrazione, il libro verità: "Ecco quello che non vi dicono". Il volume “Immigrazione: tutto quello che dovremmo sapere” scardina i mantra del politicamente corretto. "Politici e media definiscono profughi quelli che sono clandestini. Il trucco è che se togliamo di mezzo la parola che esprime un significato, quel significato scompare". Intervista al co-autore Gianandrea Gaiani di Marco Dozio del 10 Gennaio 2017 su “Il Populista”. “Immigrazione: tutto quello che dovremmo sapere” (Aracne Editore) è uno strumento agile, documentato e preciso per scardinare i mantra del politicamente corretto che imprigionano il dibattito pubblico. Il libro di 88 pagine scritto a sei mani dal giurista Giuseppe Valditara, dal demografo Gian Carlo Blangiardo e dal giornalista Gianandrea Gaiani affronta il tema dal punto di vista della legalità, della sicurezza e della tutela degli interessi nazionali fornendo analisi, documenti, pregressi storici e possibili soluzioni.

Gaiani, direttore di Analisi Difesa, in Italia esiste un tabù legato al linguaggio. Si ciancia tanto di post-verità, “fake-news” e “bufale” poi grandi media e politici parlano di “sbarchi di profughi o rifugiati” e di “profughi ospitati”. La parola clandestino è diventata impronunciabile.

«Siamo di fronte a un nuovo tipo di linguaggio utilizzato dai recenti governi italiani perché il termine clandestino viene considerato “non inclusivo”, come disse a La7 il viceministro degli esteri Giro. Ma non possiamo chiamare rifugiato, naufrago o profugo quello che è un immigrato clandestino. Nel romanzo “1984”, Orwell parla di una neolingua che il regime utilizzava per togliere significato alle parole. Se togliamo di mezzo la parola che esprime un significato, quel significato scompare. Per paradosso, se chiamassimo benefattori i ladri non calerebbero i furti. Il rifugiato è colui che riceve lo status di rifugiato, ma quando arriva sui barconi non ha ancora ricevuto alcuno status. Ciò che dimostra come la parola clandestini, o immigrati illegali, sia la più idonea è il fatto che gli scafisti vengono incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In tre anni ne sono arrivati mezzo milione, attraverso il servizio di trasporto clandestini delle nostre navi. Occorre usare le nostre flotte per contrastare i traffici, non per favorirli. Bisogna mettere in campo i respingimenti assistiti.

In che modo?

«Gli immigrati andrebbero raccolti in mare, caricati su una nave da sbarco italiana e riportati sulle spiagge libiche. In Italia andrebbero portati solo bambini non accompagnati, feriti e donne incinte, per poi rimpatriarli in un secondo momento. Se necessario, come deterrente andrebbero schierate navi da guerra italiane davanti alle coste libiche».

Ci raccontano che sarebbe impossibile…

«Si dice che è impossibile, tra le altre cose, perché in Libia non c’è un governo. Ma proprio perché non c’è un governo o c’è un governo troppo debole è impensabile fare accordi. Metà del Pil della Tripolitania deriva dai traffici di essere umani. È illusorio pensare che Al-Sarraj, lo pseudo premier che non mette piede nella capitale perché gli sparerebbero addosso, governi il suo territorio. E se anche avesse un’influenza come potrebbe imporre alle tribù, le stesse a cui chiede il sostegno, di interrompere traffici che producono guadagni?»

Chi arriva in Italia?

«L’82% sono maschi, dai 16 ai 35 anni. E molti di loro provengono da Paesi considerati “tigri africane” che registrano una crescita notevole del Pil. Certo le condizioni di vita non sono paragonabili alle nostre, ma da 70 anni i Paesi occidentali regalano soldi ai governanti africani che se ne fregano della loro gente. Al contrario, dovremmo dire a questi Paesi che interromperemo i finanziamenti per lo sviluppo se non si riprenderanno i loro connazionali che non hanno diritto a stare in Europa».

Ci raccontano che da noi arrivano profughi di guerra o persone che fuggono dalla fame.

«In Italia arriva chiunque sia in grado di pagare i criminali che gestiscono i traffici. Un viaggio può costare 10mila euro, cifra considerevole in assoluto e ancor più per il contesto africano. Due anni fa sono stato in Niger, punto di partenza per gli immigrati che dall’Africa subsahariana arrivano in Italia attraverso la Libia. Non parte chi muore di fame, ma chi ha delle possibilità economiche, soldi recuperati magari vendendo una casa o un’attività. Chi muore di fame non ha appunto i soldi per procurarsi il cibo, figurarsi se li ha per pagare un trafficante. C’è stato il caso di una ragazza marocchina che si è sentita male dopo essere arrivata in Italia: si è scoperto che erano i postumi di una liposuzione, un’operazione di chirurgia estetica eseguita in Marocco sborsando 5mila euro, che da quelle parti è una cifra notevole».

Per anni poi ci hanno raccontato che era folle e anche un po’ razzista parlare di un nesso tra terrorismo islamico e immigrazione.

«In questi traffici sono coinvolte le organizzazioni di estremisti islamici, da Al-Qaida nel Maghreb allo Stato Islamico. La spiaggia da cui partono i barconi in Libia è Sabrata, dove c’è una base dell’Isis che gli americani bombardarono lo scorso anno. Sappiamo tutto di questi traffici, sappiamo delle collusioni col terrorismo, eppure continuiamo a incoraggiarli. Benchè tutti neghino il rapporto diretto tra immigrazione e terrorismo, molti nostri leader incluso Gentiloni quando era ministro degli Esteri o Emma Bonino ministro del governo Letta, fecero precise dichiarazioni in contesti internazionali sul fatto che il terrorismo islamico utilizzi l’immigrazione per infiltrare jihadisti. Lo sappiamo almeno dal 2013».

Il governo all’improvviso si è detto pronto a effettuare i rimpatri. Quando le stesse cose le diceva Salvini i media di regime si scatenavano con accuse di vario tipo. Ora tacciono.

«Minniti ha detto cose condivisibili, ma quando sostiene che prima di espellerli occorre accordarsi con i Paesi di provenienza sbaglia. Io dico che dobbiamo riportarli sulle spiagge libiche, che occorre fermare gli arrivi. Se impieghi 3 anni a effettuare un rimpatrio, nel frattempo quanti altri ne saranno arrivati? Il saldo sarà sempre negativo. Se iniziamo a riportarli indietro, sulle spiagge di partenza, poi nessuno spenderà soldi sapendo che non riuscirà ad arrivare in Europa».

Millantare una linea dura nei confronti dell’immigrazione, dopo aver predicato e praticato l’accoglienza indiscriminata, è trucchetto da campagna elettorale?

«Tutti i Paesi che hanno accolto in maniera indiscriminata adesso provano a cambiare registro. Ora che la Germania ha problemi di ordine pubblico spaventosi, la stessa Merkel si è ricandidata parlando di espulsioni dei clandestini. Siccome quest’anno e il prossimo si voterà in diversi Paesi europei, ho l’impressione che molti di questi governanti puntino a convincere l’elettorato di essere in grado di tenere una linea più dura sull’immigrazione, allo scopo di arginare l’emorragia di consensi verso i partiti definiti come “populisti”, che poi in realtà sono quelli che tutelano gli interessi nazionali».

A chi giova l’immigrazione massiva?

«Che interesse abbiamo a riempire l’Europa di immigrati islamici che assorbiranno welfare senza condividere i nostri valori, come disse il ministro degli esteri britannico Hammond? In Italia solo l’assistenza costa 4 miliardi l’anno. A meno che non si voglia pensare al business dell’accoglienza, alle cooperative legate a diversi carrozzoni politici, di sinistra ma anche cattolici».  

Migranti, l'ultima follia dei No border: s'inventano il "passeur umanitario"

I No border danno passaggi ai clandestini, ma non si fanno pagare. E così possono aggirare le leggi sull'immigrazione, scrive Fabrizio Tenerelli, Mercoledì 5/04/2017, su "Il Giornale". Si chiamano Felix Croft, Pierre-Alain Mannoni, Cedric Herrou e Francesca Peirotti e sono soltanto quattro attivisti del più ampio collettivo dei No border che hanno dichiarato "guerra" all'Europa, appellandosi alla Carta dei diritti fondamentali con la quale rivendicano il libero transito dei migranti nei Paesi dell'Unione. Le loro armi non sono i mitra o le granate, ma le auto o i furgoni, con cui trasportano, chi più chi meno, decine di clandestini in Francia, cercando legalizzare il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e beffando così le Istituzioni. Il loro trucco? Semplice, ai migranti che varcano la frontiera non chiedono soldi, quindi viene meno lo scopo di lucro, in favore di nobili intenti umanitari, in virtù dei quali, una volta arrestati dalla polizia italiana o francese, chiedono di essere rilasciati e assolti, dando vita a una nuova figura quella del "passeur umanitario". Una strategia che a quanto pare funziona. Il precedente si crea, a gennaio di quest'anno con Pierre-Alain Mannoni, un insegnante ricercatore di 45 anni, arrestato nell'ottobre del 2016 dalla polizia francese in servizio al pedaggio di Mentone (la prima città dopo il confine italo francese di Ventimiglia), che lo aveva trovato nell'auto con tre clandestini eritrei, tra cui una minorenne. L'accusa chiede sei mesi di reclusione e il giudice lo assolve. È il 10 febbraio 2017, quando davanti al giudice del tribunale di Nizza: Cédric Herrou, 37 anni, contadino abitante sul versante francese della val Roja, nell'entroterra di Ventimiglia, accusato di aver fatto espatriare in Francia, nel 2016, circa duecento migranti, viene condannato a una pena pecuniaria di tremila euro, con sospensione condizionale. In pratica: una assoluzione mascherata. "L'ho presa piuttosto bene", commentò il militante, all'uscita del palazzo di giustizia, aggiungendo che la sua lotta sarebbe proseguita nel solco di un ideale di "Europa sociale e umana", e che non sarà "la minaccia di un prefetto e gli insulti di un politico o due" a fermarlo. Malgrado la richiesta di pena a 8 mesi di reclusione, con la condizionale, il giudice riconosce l'immunità penale che si applica ai cosiddetti "passeur umanitari". Per un altro "solidale" francese Felix Croft, 28 anni, di Nizza, sotto processo a Imperia, il procuratore facente funzioni Grazia Pradella chiede 3 anni e 4 mesi di reclusione e il pagamento di 50mila euro di ammenda. Il giovane venne arrestato, nel luglio scorso, alla barriera autostradale di Ventimiglia, mentre all'interno della propria auto, una Citroen station wagon, tentava di portare in Francia una famiglia di migranti nigeriani composta da: marito, moglie, due bambini e il fratello del marito, ancora rivendica i motivi umanitari di quel suo gesto e dichiara che lo rifarebbe. Il 27 aprile il processo andrà a sentenza. È di ieri, poi, la richiesta di 8 mesi di reclusione a carico della "solidale" Francesca Peirotti, di Cuneo. Pure lei, attraverso i propri legali, ha invocato l'assoluzione per motivi umanitari. Anche ieri, come nei casi precedenti, il processo è stato presidiato da decine di giovani "solidali" che hanno voluto esprimere vicinanza ai loro amici. La sentenza è attesa per venerdì 19 maggio. Francesca venne arrestata, lo scorso 8 novembre, dalla polizia di frontiera. Su un furgone con quale stava percorrendo l'autostrada francese viaggiavano una coppia eritrea con il bimbo di 6 mesi; tre ragazze e due ragazzi di Eritrea, Etiopia e Ciad. Nel corso della sua deposizione, la ragazza ha raccontato di conoscere i migranti che aveva portato in Francia e che li avrebbe seguiti ed aiutati anche un domani che fossero giunti a destinazione.

AMMIRAGLIO: “NAVI ONG FANNO SEGNALI LUMINOSI AGLI SCAFISTI PER FARSI MANDARE I BARCONI”. Scrive il 22 marzo 2017 "Vox". Enrico Credendino, comandante dell’operazione Sophia, che in teoria avrebbe dovuto respingere i clandestini, attacca gli scafisti umanitari delle ONG. In una intervista al Corriere, l’ammiraglio, dopo essersi gloriato dei salvataggi, si lamenta perché le ONG ne fanno molti di più: “Nonostante abbiamo salvato 34mila persone, abbiamo fatto solo l’11,8% dei soccorsi. Ci sono ong che fanno quasi il 40% e attraggono molto più”. “Le loro navi lavorano spesso al limite delle acque libiche, la sera hanno questi grossi proiettori: gli scafisti li vedono e mandano il gommone verso questi proiettori”. Quindi fanno segnali ai loro colleghi a terra, e questi gli inviano i clandestini. “Fanno il lavoro che prima svolgevano gli organizzatori – denuncia il procuratore Carmelo Zuccaro – accompagnano fino al nostro territorio i barconi dei migranti”. Nei momenti di maggior picco è stata, infatti, registrata la presenza di ben tredici assetti navali. Intervenendo alla seduta del Comitato di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen, il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro è tornato a denunciare gli oscuri rapporti tra le ong e l’emergenza immigrazione su cui la procura ha recentemente aperto un fascicolo conoscitivo. “Ci siamo voluti interrogare – ha spiegato – sulle evoluzioni del fenomeno e perché vi sia stato un proliferare così inteso di queste unità navali e come si potessero affrontare costi così elevati senza disporre di un ritorno in termine di profitto economico”. Quello che è emerso da questa indagine conoscitiva è che il Paese europeo che ha dato vita alla maggior parte di queste ong è la Germania cui fanno capo cinque di queste organizzazioni con sei navi, tra cui le due di Sos Mediterranee. Il tutto, sottolinea Zuccaro, con costi mensili o giornalieri “elevati”. “Aquarius” di Sos Mediterranee, a esempio, ha un costo di 11.000 euro al giorno. Il Moas di Christopher e Regina Catrambone, ong con sede a Malta, “ha costi per 400.000 euro mensili” e ha due navi Phoenix, battente bandiera del Belize, e Topaz con bandiera delle Isole Marshall. “Crea sospetti – ha proseguito il procuratore di Catania – anche questo dato dei Paesi che danno bandiera alle navi”. A questo punto, ha quindi concluso Zuccaro, “ci si deve porre il problema di dove venga il denaro per sostenere costi così elevati, quali siano le fonti di finanziamento: sarà compito della successiva fase conoscitiva. Faremo verifiche ulteriori sulle ong che portano migranti nel nostro distretto”.

Libia, il comandante di Sophia: «Abbiamo salvato 34 mila migranti». L’ammiraglio Enrico Credendino a capo della missione Ue che blocca i barconi dal Nord Africa. «Alcune ong lavorano al limite delle acque libiche», Intervista di Francesco Battistini del 21 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera".

Ammiraglio Credendino, i migranti dalla Libia sono aumentati del 36 per cento nei primi due mesi e mezzo del 2017. Ma non dovevate fermarli tutti con l’Operazione Sophia?

«Gli scafisti stanno spingendo al massimo. Finché possono. Certo, l’incremento degli sbarchi è dovuto al fatto che molti erano pronti da un pezzo a partire. Ma il punto è che gli scafisti s’aspettano tempi duri: sanno che stiamo addestrando la Guardia costiera libica. E che a breve il governo di Tripoli avrà dieci motovedette, con le quali sarà in grado di contrastare in modo molto più efficace all’interno delle acque libiche. Per questo, stanno cercando di mandare in Italia il maggior numero possibile di migranti: quando cominceranno i controlli dei libici, sarà probabilmente più complicato».

Lunedì, a Roma, s’è parlato tanto di lui: l’ammiraglio Enrico Credendino, 54 anni, torinese, al comando della Grande Armada che l’Europa ha messo in mare quasi due anni fa per fermare i mercanti d’esseri umani. La lotta ai trafficanti è la priorità - hanno detto Gentiloni, il premier libico Serraj e i ministri dei Paesi rivieraschi, riuniti per il primo gruppo di contatto sul Mediterraneo centrale – e questa lotta è affidata a Credendino. Le cifre dell’Operazione Sophia dicono: venticinque Paesi, 1.545 militari, cinque navi, sei elicotteri a disposizione. E 104 scafisti arrestati, 407 imbarcazioni bloccate, più di 34mila salvati in mare. «Questi due anni sono stati una grande fatica – spiega l’ammiraglio -. Però i risultati, se volete, ci sono. Sophia non è stata un’operazione in cui si diceva: fai questo e conseguirai quest’obbiettivo. E’ solo il secondo punto di un’agenda Ue che ne comprende altri nove: uno dei pochi pienamente attuati. Fra quelle 407 imbarcazioni neutralizzate, per dire, la maggior parte erano barconi che portavano 500 migranti alla volta. Fermarli è stato fondamentale, s’è rallentato il flusso: molti scafisti ora non riescono più a uscire dalle acque libiche e perdono i barconi, la logistica, tutto. Se poi gli sbarchi tornano ad aumentare, dipende dal fatto che le cause dei Paesi d’origine – uno di quei punti in agenda – non sono ancora state annullate».

Vuol dire che adesso cominciano a temervi?

«Sanno che noi siamo lì e che loro non possono uscire. Se escono, li fermiamo. Non quelli che si uniscono ai migranti e vengono in Italia: io dico quelli di livello superiore, che vogliono riprendersi la barca o gestire al meglio possibile il traffico».

Il ministro Minniti ha annunciato che per metà maggio daremo alla Libia dieci motovedette e cominceremo a far funzionare la Guardia costiera libica…

«L’abbiamo addestrata noi a bordo della San Giorgio: 93 libici, ufficiali e sottufficiali. E ci sono tre equipaggi, 39 uomini, che dovrebbero arrivare a Napoli e completare in un mese l’addestramento pratico a bordo delle motovedette, per imparare a usarle. S’addestreranno altri 255 militari libici a Taranto e alla Maddalena, per otto settimane, sino a fine luglio. Lo stesso farà la Spagna. Ecco perché gli scafisti hanno fretta e stanno approfittando di questo periodo in cui non siamo ancora pronti».

Il governo libico di Serraj batte cassa. Bastano gli 800 milioni promessi?

«Il fenomeno si risolverà soltanto quando la Libia sarà stabile. Il primo passo è dare alla Guardia costiera i mezzi per contrastare il crimine nelle acque libiche. Noi staremo fuori, nelle acque internazionali, loro staranno dentro: questo lavoro insieme avrà sicuramente un impatto».

Ma questi guardacoste libici sono all’altezza del compito?

«In Libia manca tutto. Le strutture di difesa marittime, le navi, i radar, le centrali di coordinamento… Entro il 2018 dobbiamo renderli operativi. Hanno alcuni gommoni con cui fanno il possibile: nel 2015 han soccorso 800 persone, nel 2016 fra le 14 e le 16 mila. Sulla San Giorgio sono cresciuti molto. Il capo della guardia costiera militare libica mi ha detto: prima non sapevamo come fare il nostro mestiere, adesso lo sappiamo».

Chi ha pagato?

«Ci sono stati i fondi dei Paesi Ue. 25 su 27, perché la Danimarca non partecipa, l’Irlanda ha detto no e la Croazia entrerà a breve. L’addestramento è costato sui 500mila euro. Però va considerato che l’Italia ha messo in mare una nave anfibia per 14 settimane e ha coperto una grande quota».

Chi ci garantisce che tutti questi mezzi, tutto questo addestramento non saranno usati per altri scopi? Molti guardacoste sono collusi con gli scafisti, altri sono minacciati se non collaborano…

«L’unica garanzia è investire su Serraj e sul fatto che riesca a istituire un governo funzionante. Però la Guardia costiera militare è piuttosto neutrale, il capo è sempre quello da vent’anni: ha visto passare Gheddafi, i governi intermedi, adesso Serraj…».

Ma oltre che con Serraj, un accordo col generale Haftar non vi renderebbe il lavoro più facile?

«I migranti partono dalla Tripolitania. Dalla Cirenaica, dove comanda Haftar, oggi non ce ne sono e un accordo, sotto il profilo operativo, non servirebbe molto. Però è chiaro che l’ideale sarebbe avere un sistema di difesa libico unificato».

Che cosa risponde a chi accusa i vostri interventi d’incentivare le migrazioni? Dicono che gli scafisti vi vedono in mare e praticamente vi consegnano “la merce”…

«Rispondo che Sophia non è un incentivo. Nonostante abbiamo salvato 34mila persone, praticamente una piccola città, abbiamo fatto solo l’11,8% del totale dei soccorsi. Quindi non siamo noi il pull factor, il fattore d’attrazione. Ci sono altre organizzazioni che incentivano molto di più».

Per esempio?

«Per esempio, il direttore di Frontex ha parlato di alcune ong che lavorano nell’area. C’è anche un’investigazione aperta dalla Procura di Catania. Nel secondo semestre 2016, queste ong hanno fatto quasi il 40 % dei soccorsi. Il resto lo fanno le navi mercantili. Col mio 11,8%, non sono certo io un incentivo ai migranti».

A proposito di ong: c’è una polemica sui troppi salvataggi che fanno a poche miglia dalla costa libica. E sulle loro navi che sembrano taxi, fanno ore di mare pur di scaricare i migranti in Italia…

«Le ong lavorano molto spesso al limite delle acque territoriali libiche. La sera hanno questi grossi proiettori con cui sono visibili: gli scafisti li vedono, sanno dove sono e mandano il gommone verso questi proiettori. C’è un’inchiesta in corso. Ma noi lavoriamo in maniera indipendente da loro».

Le ong entrano nelle acque libiche, voi non potete: è giocando su questo limite che qualcuno ne approfitta?

«Per soccorrere, chiunque può entrare nelle acque territoriali. Anche noi. La salvaguardia della vita in mare è prioritaria ed è sempre il più vicino a intervenire, se c’è un’emergenza. Poi è vero che nel nostro mandato, noi, non abbiamo il soccorso: le nostre navi servono a combattere gli scafisti nelle acque internazionali. Le ong invece sono le più vicine e se c’è da fare un intervento vicino alla costa, è vero, loro lo fanno spesso».

Per essere ancora più chiari: soccorrere i migranti in mare, è diventato un business? Le navi di certe ong costano anche 10mila euro al giorno…

«Certo, stare in nave 24 ore è costoso: la barca da pagare, il gasolio… Alcune di queste navi sono molto avanzate, hanno anche piccoli droni. Sono investimenti molto importanti. Però noi cerchiamo di lavorare e di sentirci con tutti. All’ultimo forum a Napoli, come accadrà a Roma il prossimo giugno, ho ascoltato anche il rappresentante di Sea Watch che ci ha molto criticato…».

A quelli di Sea Watch, i guardacoste libici hanno curiosamente sequestrato un gommone che sostenevano avesse troppo sconfinato nelle loro acque…

«Un episodio sporadico. Noi in realtà sappiamo chi è intervenuto: ci sono milizie che usano uniformi della Guardia costiera libica, per prendersi le barche. E’ difficile, soprattutto di notte, capire di chi stiamo parlando».

Lei ha combattuto i pirati somali. E’ una criminalità diversa?

«La pirateria è un crimine internazionalmente riconosciuto e quindi può essere combattuto in modo molto più efficace rispetto al traffico di persone. C’è l’esigenza di cambiare la qualificazione del mercato di uomini: farlo diventare un crimine contro l’umanità. Questo consentirebbe di perseguire anche in Spagna o in Inghilterra uno scafista che opera in Italia. E’ un’idea che stiamo portando avanti».

E chi dice che siete chiamati ad alzare muri in mare, a non farvi troppe domande sui migranti che poi vengono rispediti in Libia?

«In mare non si erigono muri. Questa è proprio una sciocchezza. Il mare unisce, non divide. L’anno scorso ci sono stati 4.500 morti perché i libici non sanno intervenire, ora stiamo insegnando a farlo. Non è un risultato, questo? Quando il gommone si capovolge, se non c’è una motovedetta, quella è gente che non sa nuotare e affoga in 10 minuti. Una volta che i libici li recuperano, certo, poi sappiamo bene in che razza di posti li portano. Ma è sempre meglio mandarli nei campi in Libia, piuttosto che farli annegare».

E’ sempre convinto che i terroristi non arrivino sui barconi?

«Che vengano direttamente i terroristi, è possibile ma improbabile: la rotta è molto pericolosa, più facile prendere un aereo. Casomai, succede che il migrante sia fidelizzato nei centri di raccolta o nelle carceri».

Tempo fa, lei ci confidò che i russi facevano pressioni sulla vostra operazione. Ora che Putin è comparso in Libia, si capisce il perché…

«I russi, io li vedo solo passare nelle acque internazionali, per andare in Siria e tornare. Hanno tutto l’interesse ad aprire nella parte Est della Libia, avere una seconda base nel Mediterraneo dopo la Siria. Stare a Bengasi per loro sarebbe importante e questa intenzione ce l’hanno, è chiaro. Ci sono segnali e sensazioni».

Com’è stato gestire due anni di quest’operazione?

«Complicato, ma interessante. Ventotto Paesi, ognuno con una sua posizione: bisogna mettere insieme quelli del Nord Est con quelli del Sud, chi è colpito dal fenomeno migratorio e chi lo capisce meno, gli inglesi che nonostante la Brexit continuano a supportarci e hanno perfino aumentato il loro sforzo… Le faccio un esempio: a luglio, quando ho presentato un documento, ho ricevuto 255 commenti diversi. Da leggere e da trattare in un weekend: quali respingere, quali accettare? Un lavoro nuovo, per un militare. Ma bello».

Il 27 luglio, la confermeranno?

«Penso ci siano possibilità. Però spetta a Bruxelles decidere se estendere il mandato. La migrazione non è certo finita. E per combatterla non basteranno mesi: ci vorranno ancora anni».

I continui salvataggi con quelle navi vicino alle coste libiche: i sospetti delle Procure. Gli interventi privati aumentano mentre calano le richieste di aiuti alle Capitanerie, scrive Giovanni Bianconi il 22 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera". In almeno quattro occasioni, nel 2016, le navi affittate dalle organizzazioni non governative per l’assistenza ai rifugiati sono entrate nelle acque libiche per raccogliere i migranti appena salpati dalle coste africane e portarli in Italia. Il 5 novembre scorso 149 persone sono state fatte salire, dopo aver percorso appena 11 miglia, sulla Phoenix battente bandiera del Belize e presa a nolo da due privati cittadini residenti a Malta; ma non le hanno portate a Malta, bensì a Catania. In precedenza, il 25 giugno, un’altra nave panamense era arrivata fino a 7 miglia dalla Libia e aveva preso a bordo 390 profughi per portarli a Cagliari. Altri due recuperi simili sono stati effettuati tra giugno e luglio, ancora dalla Phoenix e dalla Topaz-Responder, 52 metri di imbarcazione registrata alle Isole Marshall, in Oceania: 241 migranti scaricati tra Reggio Calabria e Ragusa.

Gli sconfinamenti. La Phoenix e la Topaz sono due navi citate dal procuratore di Catania nell’audizione in Parlamento sul fenomeno delle Ong che mandano i loro mezzi in prossimità della Libia, ma accertamenti sono in corso anche da parte della Procura di Palermo e di altre città; alla ricerca di eventuali connessioni tra gli equipaggi e i trafficanti di uomini che lavorano in Libia. Perché la conseguenza di questi avvicinamenti, oltre all’aumento generale degli sbarchi, è un flusso di partenze che non è rallentato durante i mesi invernali, come avveniva in passato. A parte gli sconfinamenti nelle acque libiche, la gran parte degli interventi «privati» di salvataggio avviene nella cosiddetta fascia contigua, tra 12 e 22 miglia di distanza dalla costa; questo consente alle organizzazioni criminali di far partire barche e gommoni carichi di uomini, donne e bambini anche con il mare alto, nella consapevolezza che dopo un tratto relativamente breve ci sono le navi delle Ong pronte ad accoglierli. Nel 2016 erano 14, mentre a fine 2015 erano solo tre, e da gennaio a novembre hanno effettuato 422 interventi portando in salvo 44.072 persone; una situazione nuova, che ha contribuito al forte incremento di arrivi dalla Libia: 26.557 a ottobre 2016 rispetto agli 7.914 di ottobre 2015, e 12.332 a novembre (l’anno precedente erano stati 2.870).

Possibili complicità. Gli investigatori hanno già raccolto qualche indizio su possibili complicità tra chi fa partire i migranti e chi li raccoglie. L’aumento degli interventi delle navi non governative, che nella seconda metà del 2016 ha raggiunto punte del 40 sul totale dei salvataggi, è coinciso con la drastica diminuzione, nello stesso periodo, delle tradizionali segnalazioni con telefoni satellitari dai barconi al Comando generale delle capitanerie di porto. Più interventi privati, insomma, a fronte di meno richieste di aiuto all’autorità centrale di soccorso. Il sospetto è che gli Sos dei naufraghi possano arrivare direttamente alle navi noleggiate dalle Ong; oppure che gli stessi scafisti conoscano le rotte da seguire per incontrare le imbarcazioni private; o sistemi di controllo da parte delle navi che perlustrano il mare davanti alla Libia per intercettare i barconi.

Immigrati reticenti. Anche le dichiarazioni dei passeggeri, che solitamente danno un contributo importante alle indagini e all’individuazione degli scafisti, in alcuni di questi sbarchi sono state più reticenti, con una minore disponibilità a fornire informazioni sul viaggio e le modalità di soccorso. E quanto riferito dagli equipaggi delle navi, personale straniero non collegato alle organizzazioni che affittano i mezzi, quasi mai risulta utile a ricostruire i fatti. Anzi, a volte c’è il dubbio di depistaggi, come quando hanno cercato di far passare come minorenni anche migranti «palesemente adulti». In alcuni casi si è accertato che mentre i profughi venivano trasferiti dalle barche partite dalla Libia alle navi delle Ong, gli scafisti avevano un atteggiamento molto più arrogante e sbrigativo di quando si trovano davanti ai mezzi della Guardia costiera o della Marina militare; a volte si sono preoccupati perfino di recuperare i motori fuoribordo e i salvagente, con l’evidente scopo di poterli riutilizzare in altre operazioni. Si tratta di elementi che lasciano immaginare ipotetiche collusione fra i trafficanti e i soccorritori privati.

Le testimonianze. Agli atti delle indagini giudiziarie c’è pure la testimonianza di un siriano sbarcato a novembre, che ha raccontato il viaggio dal suo Paese all’Italia attraverso la Libia, con una traversata pagata più di 6 mila euro. Il mercante che l’ha fatto salire sulla piccola imbarcazione di legno scortata alla partenza da «uomini libici armati» gli aveva garantito che dopo poco lui e gli altri trenta passeggeri di varie nazionalità avrebbero trovato una nave che li avrebbe recuperati. Come poi è effettivamente avvenuto. Agli investigatori italiani che gli hanno mostrato le fotografie di alcuni presunti trafficanti, il profugo ha indicato il libico che lui aveva pagato, e attraverso il controllo di contatti sono emersi rapporti di quel personaggio con almeno una persona che in Italia risulta aver collaborato ad alcune operazioni di soccorso e con l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati.

Le immagini incastrano le ong. Così caricano i migranti vicino alla Libia. Il sistema di tracciamento delle navi mostra come le imbarcazioni delle Ong facciano la spola tra la Libia e l'Italia, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 15/03/2017, su "Il Giornale". A volte le immagini parlano più di mille parole. Pensate al caso delle navi delle Ong impegnate nel Mediterraneo nel soccorso dei migranti lasciati alla deriva sui barconi. Fino ad oggi molti avevano sollevato dubbi sulle attività di recupero in mare delle imbarcazioni umanitarie. Ora quelle perplessità sono sostenute dalle immagini. E dimostrano come i soccorritori vadano a recuperare i migranti a poche miglia dalla costa libica.

L'accusa di Frontex. A settembre l'agenzia Frontex dell'Unione Europea accusò le Organizzazioni Non Governative di essere "colluse" con gli scafisti. L'addebito suonava più o meno così: i trafficanti prima di mettere in mare le imbarcazioni forniscono ai migranti l'esatta posizione delle navi delle missioni (Aquarius, Golfo Azzurro e altre), così da assicurare un rapido ripescaggio. Ovviamente le Ong, a partire da Medici Senza Frontiere fino ad arrivare a Save the Children, risposero piccate affermando che si trattava di una "aggressione politica".

Il business dei trafficanti. In realtà il tempo ha portato a galla una verità meno rosea di quella delineata dai vertici delle Ong. A febbraio Frontex è tornata alla carica, scrivendo nel rapporto 2017 che di fatto le navi umanitarie "aiutano i criminali a raggiungere i loro obiettivi a costi minimi, rafforzando il loro modello di business". Le operazioni umanitarie di salvataggio sono schizzate nel corso degli anni: appena 1.450 persone salvate nel 2014 a fronte delle 46.796 anime recuperate nel 2016. I trafficanti insomma preferiscono le missioni alle navi militari. Perché? La mancanza di coordinamento con le autorità Ue e il vizio delle Ong di spingersi anche oltre i limiti delle acque territoriali, secondo l'Europa sono un invito ai trafficanti a mettere in mare sempre più barconi, sempre più carichi e con meno benzina. Tanto - è il ragionamento - poco dopo la partenza i migranti vengono presi in carico dai soccorritori che li portano in Italia. Con l'unico effetto di aumentare i morti in mare.

Lo scoop del Giornale. Il Giornale a fine febbraio ha rivelato i contatti tra scafisti e organizzazioni umanitarie. È stato proprio uno dei trafficanti, contattato al telefono, a confermare che se vai in Italia dalla Libia "ti vengono a prendere quelli delle missioni". Non è un caso dunque se ben due procure, sia quella di Cagliari che quella di Palermo, stanno indagando sulle Ong. Non solo. Alcuni hanno più volte sollevato la questione del porto in cui vengono sbarcati i migranti una volta tratti in salvo. Lo scalo "più vicino" non è di certo la Sicilia, né Lampedusa, visto che prima ci sarebbero i pontili della Tunisia o di Malta. Si tratta però di una questione di lana caprina: la convenzione di Amburgo del 1979 obbliga le navi a lasciare i naufraghi in un "luogo sicuro", che non necessariamente è il porto "più vicino". E così alla fine i disperati finiscono tutti in Italia. Contenta - si fa per dire - di accoglierli.

Il video di Luca Donadel. Ma torniamo alle immagini. Nei giorni scorsi il blogger Luca Donadel ha realizzato un video sulla sua pagina Facebook e sul canale youtube che già conta due milioni di visualizzazioni e 62mila condivisioni. Un successo. Utilizzando il sistema informatico "Marine Traffic", Donadel ha tracciato gli spostamenti delle circa 14 navi umanitarie che pattugliano il Mediterraneo, "dimostrando" che vanno a recuperare i migranti a poche miglia dalla costa libica e fanno la spola con la Sicilia. Lo stesso esperimento venne fatto alcuni mesi fa il think tank olandese "Gefira". Le immagini parlano chiaro: le operazioni di salvataggio avvengono sempre nello stesso punto. Poco lontano da Tripoli. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

"Scafisti schiavi del racket". E il giudice non li condanna. Decisione choc della procura di Catania: asta dichiarare di essere stati costretti dai trafficanti per non essere accusati di immigrazione clandestina, scrive Valentina Raffa, Giovedì 23/03/2017, su "Il Giornale". Scafisti «per forza», non per scelta. Dunque innocenti. È questa la linea dichiarata dalla procura di Catania. È stato lo stesso procuratore capo, Carmelo Zuccaro, a illustrarla durante l'audizione a palazzo San Macuto davanti alla commissione Schengen. In pratica tutti quei nocchieri che hanno condotto imbarcazioni stracolme di immigrati, laddove dimostreranno di essere stati costretti dalle organizzazioni criminali a mettersi al comando, saranno graziati. La procura, infatti, riconoscerà il loro operare in stato di necessità, per cui per loro non si configurerà il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. La decisione fa seguito anche a pronunce del Tribunale del riesame. Malgrado ciò, fa certamente discutere. Soprattutto dal momento che si tratta della linea assunta dalla procura etnea nell'imminente e per il futuro, non certo di una singola sentenza, che può essere anche impugnata. È quello che avvenne dopo l'assoluzione, nel settembre 2016, da parte del gup di Palermo, di due nocchieri per i quali fu riconosciuto «lo stato di necessità». La sentenza fece registrare un gran parlare. In pratica i due scafisti, che guidarono un gommone salpato dalle coste libiche nel luglio 2015 con a bordo oltre 100 passeggeri, furono assolti perché il fatto non costituisce reato dal momento che sarebbero stati costretti a mettersi al timone dai trafficanti di vite umane, armati con «armi da guerra». «Non avevano altra scelta se non quella di commettere i reati - disse il Gup - cosa che ha consentito loro di salvarsi la vita». E questo anche se i due, appena fermati al porto di Palermo, non fecero cenno della costrizione, ma riferirono di aver guidato i gommoni in cambio della traversata gratis. Adesso che è la procura etnea a riconoscere l'esistenza della figura di scafista per necessità, senza ombra di dubbio quel di Catania sarà una meta più ambita per i caronte, che per fortuna non possono decidere la destinazione. Focus del procuratore, poi, sulle Ong che sono proliferate. «Dobbiamo registrare una sorta di scacco che la presenza di Ong provoca all'attività di contrasto degli organizzatori del traffico di migranti», ha detto alla commissione, sottolineando come «l'intervento immediato delle Ong rende inutile le indagini anche sui facilitatori delle organizzazioni criminali». Se si ravviseranno i presupposti, la procura è pronta ad aprire un'inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. «Le Ong violano gli accordi di Ginevra che prevedono che i migranti siano portati nel porto più vicino e non in Italia. Ma è un fatto non perseguibile penalmente». Per il pm «la magistratura applica le leggi. Il resto è responsabilità della politica». La presenza delle Ong, infine, potrebbe incentivare i viaggi anche in condizioni precarie, visto che i soccorsi sono vicini. Il procuratore ha poi parlato dei fenomeni di radicalizzazione al terrorismo dopo l'ingresso in Italia, soprattutto in ambito carcerario. «Ci segnalano fenomeni di reclutamento, di radicalizzazione che vedono come promotori migranti arrestati per avere commesso illeciti e che a loro volta hanno tentato di fare proselitismo nelle carceri». Basti pensare ad Anis Amri, l'attentatore dei mercatini di Berlino, radicalizzato in carcere in Sicilia.

I migranti seviziati in Libia: «È lui il nostro aguzzino». Ghanese arrestato. Le testimonianze agghiaccianti raccolte dalla polizia di cinque africani scampati alle torture. E a Lampedusa è quasi linciaggio, scrive Alfredo Marsala il 19 marzo 2017 su "Il Manifesto". Una delle torture peggiori si consumava dentro una stanza squallida in diretta al telefono: padri, madri e mogli costretti ad ascoltare le grida di dolore dei propri cari mentre supplicavano di mandare i soldi ai trafficanti di uomini che intanto colpivano la vittima, facendola urlare fino allo sfinimento, lasciando segni indelebili nel corpo e soprattutto nell’anima. «Ogni volta che dovevo telefonare a casa, lui mi legava e mi faceva sdraiare per terra con i piedi in sospensione e cosi, immobilizzato, mi colpiva ripetutamente e violentemente con un tubo di gomma in tutte le parti del corpo e in special modo nelle piante dei piedi tanto da rendermi poi impossibile camminare». A raccontare l’orrore delle sevizie all’interno dei campi di prigionia in Libia dove i migranti rimangono per mesi in attesa di salire nei barconi in partenza nel canale di Sicilia sono cinque africani, le cui testimonianze hanno consentito agli agenti della squadra mobile di Agrigento di arrestare un ghanese di vent’anni, Eric Ackom Sam, accusato di associazione per delinquere finalizzata alla tratta, sequestro di persona, violenza sessuale, omicidio aggravato e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sbarcato il 5 marzo a Lampedusa, il ghanese è arrestato dopo che alcune delle vittime delle torture subite in Libia lo hanno riconosciuto, accusandolo di essere l’uomo che li avrebbe seviziati prima di imbarcarsi nel viaggio in mare ed essere poi soccorsi e condotti a Lampedusa. I poliziotti hanno bloccato il ghanese sottraendolo a un vero e proprio linciaggio che si stava consumando nel centro di accoglienza dell’isola delle Pelage. Le testimonianze raccolta dagli investigatori, coordinati dalla Procura di Palermo, sono agghiaccianti: «Spesso collegava degli elettrodi alla mia lingua per farmi scaricare addosso la corrente elettrica» racconta un africano; «porto ancora addosso i segni delle violenze fisiche subite, in particolare delle ustioni dovute a dell’acqua bollente che mi veniva versata addosso”, riferisce un altro dei testimoni. Un nigeriano di 21 anni si sfoga con i poliziotti: “Ricordo le torture subite da tutti i miei carcerieri e, in maniera particolare, quelle che mi furono inflitte dal ghanese ‘Fanti’, quello che, in maniera spregiudicata e imperterrita, picchiava più degli altri carcerieri». E riferisce di avere assistito «ad analoghe torture pote da Fanti ad altri migranti».

«Ho visto trattamenti anche peggiori, come le torture esplicitate mediante utilizzo di cavi alimentati con la corrente elettrica – si legge nell’informativa della polizia – Tale trattamento, però, veniva riservato ai migranti ritenuti ribelli». La violenza in alcuni casi sarebbe sfociata nell’omicidio. «Durante la mia permanenza – rivela il nigeriano – ho sentito che l’uomo che si faceva chiamare Rambo ha ucciso un migrante. So che mio cugino e altri hanno provato a scappare e che sono stati ripresi e ridotti in fin di vita, a causa delle sevizie cui sono stati sottoposti. Temo che anche lui sia stato ucciso». A volte i carcerieri usavano anche le armi per mettere paura ai prigionieri: «Sparavano in aria per farci intimorire», raccontano. Un altro testimone, anche lui nigeriano e vittima di ‘Fanti’, sentito dai pubblici ministeri Gery Ferrara e Giorgia Spiri coordinati dal procuratore capo Francesco Lo Voi, racconta della casa-ghetto: «Eravamo in mezzo al deserto, era una grande struttura, recintata con dei grossi e alti muri in pietra, che era costantemente vigilata da diverse persone, di varie etnie, armati di fucili e pistole». E parlando di Fanti, l’arrestato, racconta: «Era uno che spesso, in modo sistematico picchiava e torturava noi migranti. Fanti era membro di questa organizzazione di trafficanti al cui vertice c’era Alì, il libico». Anche lui ha dovuto pagare per essere rilasciato e proseguire la sua rotta verso l’Italia. «Ogni giorno telefonavano alla mia famiglia – dice agli investigatori – e mentre avanzavano a mio fratello le loro richieste estorsive, consistenti nella richiesta di denaro, mi torturavano e mi seviziavano, in maniera tale da fargli sentire le mie urla strazianti. Dopo cinque mesi di lunga prigionia e sistematiche violenze, mio fratello gli fece avere 200 mila cfa (la moneta locale), anche se loro ne avevano chiesto 300 mila. Gli investigatori, per alcuni reati consumati interamente all’estero, hanno potuto procedere sulla base di una richiesta del ministro della Giustizia. Riferendosi ai testimoni, il capo della mobile di Agrigento, Giovanni Minardi, parla di «lezione di non omertà». «Una lezione – dice il poliziotto – che deve essere d’esempio per gli agrigentini, molto spesso restii a collaborare». I migranti, in Libia, venivano tenuti rinchiusi in quattro container: tre per uomini e uno per donne e bambini. Circa 800 le persone prigioniere. Quella per i profughi avrebbe dovuto essere una «tappa intermedia» prima del viaggio verso le coste italiane. In realtà i migranti venivano sequestrati. E così sarebbero rimasti fino a quando non pagavano, dopo avere versato i soldi del viaggio, il prezzo per la loro liberazione. E per farli pagare venivano torturati, seviziati e sottoposti a stupri di gruppo.

Profughi take-away. Rajae il 10 marzo 2017 su Striscia La Notizia ci parla di un video diventato popolare in rete.

Profughi take-away. Rajae e Jimmy Ghione il 13 marzo 2017 sono tornati ad occuparsi delle navi italiane che arrivano anche a 10 miglia dalle coste libiche. Jimmy Ghione ha chiesto al ministro Alfano cosa pensa delle navi italiane che vanno in soccorso dei migranti. "Striscia la notizia" ha smascherato queste cose ed ha chiesto come mai le nostre navi anziché essere in acque nostre e portare i clandestini salvati nei porti più vicini, le nostre navi arrivano fin davanti alle coste libiche a caricare per poi tornare in Italia?

Profughi take-away: anche Striscia se ne accorge, scrive "Azione Tradizionale". Finalmente anche una trasmissione nazionalpopolare come Striscia ha il coraggio di riconoscere ciò che sta succedendo: le varie missioni umanitarie nel Mediterraneo hanno il non-ufficiale compito di andare a poche miglia dalle coste libiche a prendere i clandestini e portarli, dopo un lungo e illogico viaggio, in Italia. Infatti, come dimostrato nel servizio giornalistico, le Convenzioni sul diritto del mare a cui l’Italia è vincolata obbligherebbero le navi delle Forze Armate italiane, nonché delle varie ONG lì operanti, a sbarcare i migranti nel porto più vicino (leggasi Tunisia o Libia stessa). Invece, le navi nostrane e non, vanno praticamente sottocosta e, in uno schema che sembrerebbe quasi di mutuo e tacito accordo con gli scafisti, dopo neanche 10 miglia nautiche dalla loro partenza, gli immigrati vengono consegnati e sbarcati sulle navi verso i porto siciliani. Striscia ha scoperto quel che era evidente: l’immigrazione è un fenomeno “naturale” solo in minima parte. Il resto è determinato dagli interessi miliardari del business dell’accoglienza e, soprattutto, da quel graduale processo di sostituzione dei popoli europei che ha in vista l’èlite mondialista europea ed internazionale.

La denuncia di Striscia la Notizia: così le navi vanno a prendere i migranti a poche miglia dalla Libia, scrive il 10/03/2017 “La Sicilia”. Il diritto del mare prevede che se soccorsi in acque internazionali debbano essere sbarcati nel porto più vicino: in questo caso Zarzis in Tunisia, che dista 90 miglia nautiche, o a Malta, che ne dista 180, anziché in Sicilia che è lontana 250 miglia. Su Striscia la notizia, su canale 5, l’inviata Rajae Bezzaz intervista il video blogger Luca Donadel, che seguendo le tracce satellitari delle navi (spesso di organizzazioni umanitarie) che vanno a soccorrere i migranti in mare, ha scoperto che «si dirigono tutte nello stesso punto, ovvero a poche miglia dalla costa libica». «Secondo il diritto del mare - ricorda Donadel - le persone salvate nelle acque internazionali vanno portate nel porto sicuro più vicino, in questo caso in quello di Zarzis in Tunisia, che dista 90 miglia nautiche, o a Malta, che ne dista 180, contro le 250 della Sicilia». Intervistati da Jimmy Ghione, i politici italiani danno risposte diverse. Maurizio Gasparri (Forza Italia) attacca: «Lo abbiamo denunciato in Parlamento: con il pretesto di un intervento umanitario c'è di fatto un fiancheggiamento degli scafisti». Laura Ravetto (Forza Italia) sottolinea: «Quelle missioni navali avevano lo scopo di impedire le partenze, se non con corridoi umanitari regolamentati». Replica Francesco Boccia (PD): «Secondo me chi è in mare va aiutato a prescindere. Poi discutiamo sul perché le nostre navi sono lì...». Diverso il parere di Matteo Colaninno (PD): «Parleremo con il Ministro. Se le regole dicono che che vanno portati al posto più vicino, devono andare al posto più vicino. Altrimenti è un errore».

Immigrati. LA BUONA ITALIA E I “PROFUGHI TAKE AWAY”, scrive il 12 marzo 2017 Alessandro Romiti su "Linea Libera". Un interessante servizio di “Striscia la notizia” conferma le nostre denunce: dopo le inchieste in territorio pistoiese lo avevamo previsto. Ieri sera Striscia la notizia, con un interessante servizio dedicato a un giovane videoblogger, ha rilanciato un argomento (il titolo è chiaro: “Profughi take away”) che non è mai sufficientemente pubblicizzato, che riguarda la mistificazione, da parte di molti progressisti e benpensanti, sulla gestione dell’emergenza profughi: di fatto si è dimostrato che non c’è un’emergenza, ma una strumentale, costosissima sceneggiatura che riguarda prevalentemente l’immigrazione economica, mentre i legittimati a chiedere asilo sarebbero davvero una manciata. I profughi vengono raccolti a poche miglia dalle coste libiche e portati in Italia, in violazione alle regole del codice della navigazione che prevede l’approdo nel porto più prossimo: appunto in Libia. La conseguenza è che una flotta di navi militari, paramilitari e civili, si reca in acque territoriali extraterritoriali con frequenza regolare, intercetta i barconi dei profughi li imbarca e li porta – chissà perché – in Italia, con buona pace dei benpensanti politically correct che poi ammantano l’operazione di bontà, fratellanza e solidarietà umana fatta di sorrisi (e di euro). Siamo in realtà di fronte a una illegittima immigrazione di origine economica e una dimostrazione l’avrebbe data anche la Cooperativa Co&So che ha recentemente presentato in un servizio (guarda caso proprio su Tg Regione Toscana di pochi giorni fa) un immigrato camerunense collocato in regime di assistenza a Empoli addetto alle pulizie dei giardini. Ebbene, il Camerun è conosciuto per essere il più svizzero dei Paesi africani e, dunque, a quale titolo il giovane è sostenuto con le pubbliche risorse nel nostro Paese se non fugge da un Paese in guerra e non è un perseguitato politico? Co&So potrebbe, finalmente, risponderci e concederci l’intervista che abbiamo sollecitato ai tempi dell’inchiesta sulla struttura di accoglienza di Le Piastre? Il problema dell’immigrazione sembra essere stato gonfiato ad arte dalle cooperative rosse che avrebbero anche sviluppato un sistema di “prelievo coordinato” dei profughi per una remunerativo assistenzialismo, accuratamente finanziato dei governi di sinistra e il mainstream omologante, anche predicato da molti parroci progressisti che confondono sapientemente l’istituto dell’asilo politico con il foraggiamento delle molte onlus destinate ai servizi di assistenza. Alessandro Romiti

Migranti, la guerra di Frontex alle ong, scrive Alessandro Fioroni il 13 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Per il responsabile dell’agenzia Ue Fabbrice Leggeri le organizzazioni umanitarie raccogliendo gli immigrati al largo della Liba farebbero il gioco degli scafisti. Dura reazione di Medici senza frontiere: “Salviamo vite umane, senza di noi ci sarebbero molti più morti”. “Bani Walid è dove sono stata trattenuta all’inizio. Da lì siamo stati portati verso la costa per andare in Europa, ma la polizia ci ha fermati. Hanno sparato verso di noi. Ho perso il mio bambino dalla paura e dallo stress… Siamo stati portati in una prigione chiamata Tarhuna. E’ disumano. Ho passato una mese là… Sono stata quasi violentata da una delle guardie. Aveva una pistola. Mi ha toccato e mi ha offerto del denaro per fare sesso con lui… Il giorno dopo sono stata trasferita nel carcere di Tripoli. Solo donne. Siamo state tutte picchiate. Due donne nigeriane e una somala sono state uccise. Ho passato due mesi prima che i contrabbandieri venissero a comprarmi. Sono stata portata in una casa privata e poi verso la costa”. Questa è la testimonianza di una donna eritrea di 23 anni, raccolta a bordo della nave di ricerca e soccorso Aquarius di Medici senza Frontiere nel settembre del 2016. Parole tratte dal rapporto (Dying to reach Europe) dell’organizzazione umanitaria nel quale scorre un tragico rosario di vessazioni, soprusi e violenze subite dai migranti una volta giunti in Libia. Eppure sono le storie di chi può raccontarle, di chi è scampato a un naufragio e alla morte perché raccolto da una di quelle imbarcazioni umanitarie che si spingono fin sotto le acque libiche. Un modus operandi che sta scatenando polemiche e vere e proprie accuse da parte di Frontex. Lunedì 27 febbraio, parlando al quotidiano tedesco Die Welt, il capo dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere, Fabrice Leggeri, ha rinforzato le accuse, espresse a più riprese negli ultimi mesi, circa il ruolo che svolgono le Ong nel Mediterraneo centrale. Leggeri ha detto che il 40% delle recenti operazioni di salvataggio in mare, al largo della Libia, sono state effettuate da organizzazioni non governative, il che rende impossibile verificare l’origine dei migranti o le rotte di contrabbando visto che le Ong non collaborano. Alle organizzazioni umanitarie si addossa la responsabilità di favorire le partenze di migranti e di trasportarli come taxi, ciò presupporrebbe degli accordi con gli scafisti. Nella sua intervista, Leggeri ha aggiunto che sebbene per il diritto marittimo tutti hanno il dovere di soccorrere navi e persone in difficoltà, si deve «evitare di sostenere l’attività di reti criminali e trafficanti in Libia raccogliendo migranti sempre più vicino alla costa…Questo porta i trafficanti a forzare le persone a partire su imbarcazioni insicure con acqua e carburante insufficiente rispetto agli anni precedenti». Le dichiarazioni del capo di Frontex hanno immediatamente suscitato un vespaio, il fuoco di fila delle risposte è stato nutrito a cominciare dal responsabile per i rifugiati dei Verdi tedeschi, Luise Amtsberg, che ha stigmatizzato le parole di Leggeri: «Il numero di morti sarebbe molto più alto senza l’impegno instancabile di organizzazioni non governative, siamo in debito con queste organizzazioni». Un caso politico dunque al quale ha fornito elementi chiari l’esponente di Msf, Aurélie Ponthieu. «E’ molto preoccupante apprendere di queste critiche da parte di Frontex attraverso i media. Abbiamo chiesto un incontro e non vi è stata alcuna risposta». Poi la dichiarazione che mostra chiaramente qual è il vero motivo dello scontro: «Siamo una agenzia umanitaria, e noi effettuiamo operazioni di ricerca e soccorso, l’alternativa è che centinaia di persone muoiano per annegamento, soffocamento e disidratazione – ha precisato Ponthieu. Se aspettassimo 60 miglia al largo le imbarcazioni che passano per caso, piuttosto che andare alle aree in cui i contrabbandieri operano, ci sarebbero molti più morti». A rafforzare queste affermazioni arriva il recentissimo rapporto dell’Oim, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di migrazioni. Secondo il progetto Missing Migrants sono stati stimati 326 migranti o rifugiati morti o scomparsi da inizio 2017 al 22 febbraio, il 300% in più rispetto allo stesso periodo 2016. Una vera e propria ecatombe quasi tutta concentrata nella rotta tra Libia ed Italia dopo la chiusura del canale che portava nei Balcani. In questa situazione si inserisce l’indirizzo che il neo presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, vuole dare all’ Ue nei confronti dell’immigrazione proveniente della Libia. L’Europa dopo l’accordo con il paese nord africano ha imboccato la strada di un “piano Marshall” per l’Africa al fine di contenere la migrazione. A riferirlo il giornale Die Zeit in concomitanza proprio con l’intervista al capo di Frontex. Tajani ha ribadito la necessità di istituire dei centri di raccolta sulle coste libiche che non siano «campi di concentramento e che devono disporre di attrezzature adeguate per garantire ai rifugiati condizioni dignitose, con accesso alle cure mediche sufficienti». Un piano più volte criticato dalle Ong che invece hanno ribadito l’istituzione di corridoi umanitari sicuri vista la completa disgregazione politica in Libia. Non si capisce chi dovrebbe garantire i migranti, una realtà che nemmeno Leggeri ha negato: «Allo stato attuale, non abbiamo praticamente alcun contatto a livello operativo, al fine di promuovere la protezione delle frontiere efficace. Ora stiamo contribuendo alla formazione di 60 agenti di una possibile futura guardia costiera libica. Ma questo è al massimo un inizio».

Nuova frontiera del traffico d'organi, scrive l'8 marzo 2014 Lorenzo Attianese su "L'Ansa”.

Africa take away. Cresce il fenomeno in Africa: i migranti sono costretti a vendere i propri reni per saldare il debito quando non possono pagare gli scafisti. Clienti in tutto il mondo (anche italiani) pagano fino a 200mila dollari. Una linea lunga una manciata di centimetri, tracciata da una penna su un assegno, da un dito che scorre su una cartina, da un bisturi sulla pelle. E tre mani diverse: quelle di un compratore, di una vittima e di un chirurgo. E' la grafia atroce del contratto di vendita di un rene, in cambio della fuga dal proprio Paese. Nuovi modi per pagare i viaggi di sola andata. Una leggenda metropolitana del passato che oggi è diventata realtà globale del mondo povero, dove il Mediterraneo è diventato un punto di riferimento. L'Africa è il fornitore in ascesa in un business che oggi coinvolge 50 nazioni. Tanto che l'Organizzazione mondiale della sanità ha stimato che, tra i reni trapiantati ogni anno, quasi il 10% viene procacciato illegalmente nel Secondo e Terzo Mondo. Scafisti eritrei, beduini del Sinai, trafficanti della Nigeria e broker in giro per il mondo lavorano all'ombra di alcuni di quei 63mila trapianti di rene stimati ogni anno. I farmaci antirigetto hanno fatto enormi passi in avanti, aumentano i livelli di diabete del tipo 2 e le malattie del cuore. Non è un caso quindi se si allungano le file di pazienti, tra cui quelli pronti a spostarsi in qualsiasi continente per un trapianto illegale. Per questo l'offerta criminale si adegua alla domanda con i suoi punti di forza: prezzi variabili e rapidità per i richiedenti, pronti a sborsare fino a 200mila dollari per pagare tutta la filiera nel caso di un donatore di rene uomo tra i 20 e i 30 anni. Un lavoro facile se aiutato dalle razzie al supermarket della disperazione. Ed in questo l'Africa non può che rappresentare un commercio all'ingrosso. Briciole per gli scafisti e i traghettatori via terra, che intascano percentuali del 10%. Si tratta soltanto di una catena di manovalanza, che fa parte di un universo formato da chirurghi, dottori, tecnici di laboratorio o agenti di viaggio. I fiumi di denaro arrivano da facoltosi malati di rene dal Giappone, Italia, Israele, Canada, Taiwan, Stati Uniti e Arabia Saudita.

L'Italia della speranza e lo stoccaggio dei pezzi di ricambio. Le popolazioni del Sud, povere ma cariche di una ricchezza inestimabile per i bisognosi dei trapianti, vendono pezzi di ricambio all'Occidente malato. E i siti di stoccaggio degli esseri umani sono a metà strada tra i due mondi. L'Italia potrebbe essere un luogo di raccordo. Al momento una serie di frammenti, tra intercettazioni e stralci di indagine, fanno passare dal nostro Paese la scia del network made in Africa. Gli investigatori non lo escludono. Le indagini sugli sbarchi di Lampedusa hanno portato qualche settimana fa agli arresti di cinque eritrei a Roma e un'ordinanza in cui si parla di consegne e scambi di migranti, anche come eventuali donatori di organi. Tutto dipende da come intendono saldare il debito per il viaggio. Itinerario con partenza da Tripoli. Passando per Malta, tappa in Italia, stipati in qualche appartamento. Poi altrove, dove si perdono le tracce. La tratta aveva prezzi stracciati: 1.500 euro, ma in caso di insolvenza c'è anche l'opzione per la donazione di organi. Nessuna vendita o intervento in Italia è stato accertato finora. Ma un rene a volte può sostituire i soldi che mancano per raggiungere l'altra parte delle coste del Mediterraneo. L'Italia è la meta, mentre gli affari sporchi accertati al momento restano nei continenti a Sud. Altri segnali arrivano ripercorrendo indietro gli anni. Nel gennaio 2009, l'allora ministro degli Interni, Roberto Maroni, lanciò un allarme durante l'assemblea pubblica dell'Unicef a Roma. Secondo Maroni c'erano "evidenze di traffici di organi di minori che sono presenti e sono stati rintracciati sul territorio". L'Aido, l'associazione italiana per la donazione di organi, smentì il fenomeno. Ma secondo l'ex ministro le "evidenze" del traffico derivavano dall'analisi incrociata dei dati sui ragazzi extracomunitari scomparsi dopo esser arrivati a Lampedusa, circa 400 su 1.328 nei 12 mesi precedenti, e le segnalazioni relative al traffico d'organi inviate dai paesi d'origine alla polizia italiana tramite Interpol. Qualche mese dopo i carabinieri dei Ros conclusero con successo una maxi operazione sulla tratta di esseri umani nell'aprile 2009, in stretta cooperazione con la polizia olandese, nei confronti di un network di matrice nigeriana con base a Castelvolturno, responsabile della tratta di centinaia di donne nigeriane sfruttate sessualmente negli stati dell'area di Schengen. Nell'ambito di quell'inchiesta fu accertato il caso di un bambino proveniente da un orfanotrofio in Nigeria e le pratiche per portarlo illegalmente in Italia. Una pratica che sembrava collaudata ed abbastanza semplice per le organizzazioni, capaci di prelevare i bambini da quell'orfanotrofio con una certa facilità e senza una necessaria destinazione specifica. Dalle organizzazioni criminali ai broker, uno dei quali era arrivato in Italia l'anno scorso. Nel giugno 2013 era appena atterrato Tauber Gedalya all'aeroporto di Fiumicino, un ex alto ufficiale israeliano di 77 anni su cui pendeva un mandato di cattura internazionale emesso dallo stato brasiliano di Pernambuco, dove era stato già condannato all’ergastolo per traffico di organi umani. Dal gennaio 2002, nello Stato del Pernambuco Gedalya, avrebbe organizzato l’asportazione di organi umani di almeno 19 cittadini della zona nord est del Brasile. Dopo aver sottoposto i donatori a esami medici, li faceva uscire dal Paese diretti in Sud Africa per l'espianto, quasi sempre di reni. Per l’intervento ogni 'donatore' riceveva tra 6 e 12mila dollari. Viaggiava da solo, era arrivato a Roma da Boston ed è stato bloccato dalla Polaria. Finora non è stata accertata la motivazione della sua presenza in Italia né quali fossero i suoi interessi nel nostro Paese.

Cicatrici nel deserto, dai riscatti al bazar delle cornee. Guanti sporchi di soldi fino al confine tra Asia e Africa, dove stavolta le rotte si allargano al Medio oriente. Il sogno diventa incubo passando per il Sinai, ad Est dell'Egitto. Per i profughi eritrei, sudanesi, somali e maliani, la promessa dei trafficanti sudanesi è quella di procurare un lavoro in Israele dopo aver varcato il confine. Alla frontiera alcuni vengono venduti ai beduini anche attraverso poliziotti corrotti. Il primo passaggio è la richiesta di riscatto alle famiglie. Se non arrivano i soldi anche qui la minaccia è il sacrificio di organi. Che è diventata realtà, secondo le testimonianze di Alganesh Fessaha, attivista impegnata in operazioni di salvataggio che collabora con la Ong Gandhi. "Dal deserto del Sinai, in obitorio arrivano corpi a cui mancano cornee e reni, basta osservare le cicatrici", racconta. "Per loro chiedono riscatti da 50mila euro, li torturano cercando di soffocarli con sacchetti di plastica bruciata. E se non arriva il denaro dalle famiglie si passa ai test di compatibilità e alla vendita di reni e cornee - spiega Alganesh. "Guadagniamo di più - dicono nelle loro minacce i 'predatori' - E con un soggetto compatibile si arriva fino a 75mila euro". C'è anche un testimone chiave, un giovane sottoufficiale eritreo di 33 anni fuggito dalla dittatura di Isaias Afewerki - poi liberato grazie ad Alganesh - che era stato intercettato dai predoni poco prima di superare il confine sudanese. Durante la sua prigionia ha parlato del prelievo di un rene di un suo compagno di cella agonizzante e portato via con l'auto, con la collaborazione di un medico compiacente. Anche a lui era stato chiesto di 'vendere' per essere liberato. Episodi che gettano ombre su un bacino di 'clienti' in Israele. La stessa ricercatrice antropologa Nancy Scheper Hughes, esperta mondiale del fenomeno e attivista di Organs Watch, cita diversi israeliani nella lista degli acquirenti di organi.

L'oasi delle cliniche e lo scambio del futuro. Il tour del trapianto illegale è un carosello di orrore, misto al dramma dei pazienti emodializzati, pronti a sborsare grosse cifre per il rene di uno sconosciuto, obbligato dalla miseria. Le vittime-donatrici a volte si spostano per il mondo nella clinica più riservata e comoda per broker e chirurghi, che spesso mettono in piedi nuovi siti temporanei per facilitare i trapianti illeciti velocemente e per un breve periodo di tempo, anticipando la polizia, il governo o interventi internazionali - come spiega l'antropologa ricercatrice di Berkley e fondatrice di Organs Watch, Nancy Scheper Hughes, una sorta di attivista che veste i panni di una 007 pronta a stanare broker e clienti in tutto il mondo. Negli anni scorsi sono stati accertati 109 trapianti illeciti solo nell'ospedale di Saint Augustine a Durban, in Sud Africa, tra cui cinque minorenni - spiega Hughes - In seguito ad una retata della polizia ci furono molti patteggiamenti di vari brokers e loro complici. Hughes ha analizzato i profili dei broker di organi in vari Paesi. Sono loro i veri registi dei network criminali: organizzano la logistica, coordinano i malati di reni disposti a viaggiare grandi distanze, venditori di reni e chirurghi criminali. Che hanno accesso alle infrastrutture necessarie come ospedali (i migliori del continente sono in Sud Africa), centri di trapianto, compagnie di assicurazioni mediche come anche cacciatori locali di reni e spesso anche polizia compiacente. Ma il giro si fa sempre più sofisticato e le cliniche del futuro assomiglieranno - secondo Hughes - sempre di più alla vicenda di Ji-Hun, uno studente diciannovenne, immigrato del Sud Corea che non poteva permettersi il costo dei corsi, libri, affitto e che temeva di essere rimpatriato se fosse finito fuori corso. Ha venduto il suo rene per 20mila dollari ad un facoltoso imprenditore statunitense in procinto di dialisi ma che non riusciva ad accettare l'idea di dover 'attaccarsi ad un macchina per tre ore alla settimana'. Il trapianto è avvenuto in un famoso 'ospedale per le star di Hollywood' a Beverly Hills. Agevolati da internet, i fornitori di organi attingeranno localmente dal largo bacino di nuovi immigrati, rifugiati e lavoratori senza documenti. Dialisi e disperazione, due angosce diverse che si appoggiano l'una sull'altra per la sopravvivenza, dove l'unica via d'uscita è incisa dalla lama affilata di un bisturi.

Immigrazione, ci sono posti in Italia dove la legge non vale più, scrive Fausto Carioti il 4 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Suo malgrado l'Italia accoglie nelle proprie strutture oltre 175mila immigrati sbarcati sulle coste negli ultimi anni. La gran parte di costoro - poco meno di 137mila individui - alloggia in strutture temporanee che temporanee non sono, nel senso che come tutte le cose provvisorie di questo Paese sono destinate a durare anni, forse decenni. Il centro veneziano di Cona, dove è morta una ragazza ivoriana e dove venticinque volontari sono stati tenuti sotto sequestro dagli immigrati, per ore, durante la protesta scoppiata subito dopo, non appare nemmeno nella mappa del ministero dell'Interno: si tratterebbe di una accomodazione "emergenziale", non catalogabile. Prendi 175mila anime indesiderate, gran parte delle quali senza alcun diritto ad ottenere lo status di rifugiato, comprimile per mesi o anni in posti simili, mettici la rabbia di chi pensava di trovare qui un tetto vero e dei soldi e capisci che varcare il confine con la barbarie è facile. A delimitare quel confine è la legge e applicarla spetta ai magistrati. La vicenda giudiziaria iniziata ieri a Cona è una cartina tornasole, utile a capire se oggi, in Italia, esistono zone nelle quali le regole dello Stato non contano più perché sono state rimpiazzate da altre logiche, utili a perpetuare le grandi bugie sull' immigrazione: che c' è posto per molti più immigrati di quanti ne abbiamo adesso; che è la percezione degli italiani ad essere sbagliata, perché in realtà non esiste un problema di criminalità legato alla presenza degli stranieri; che è giusto garantire protezione non solo a chi proviene da un Paese in guerra, ma a tutti gli immigrati per cause politiche, economiche, climatiche In Europa zone sottratte alle leggi e alla polizia già esistono. In Francia la regola non scritta vuole che chi indossa una divisa o un contrassegno che lo qualifica come rappresentante dello Stato deve tenersi lontano dalle zones urbaines sensibles, i quartieri "difficili" dove vive la fascia più pericolosa dell'immigrazione; lo stesso, si è visto, accade in Belgio nelle enclave islamiche come Molenbeek. In Italia l'immigrazione è un fenomeno recente e non ha ancora raggiunto numeri simili a quelli degli altri Paesi: non esistono "città degli immigrati" paragonabili alle tante che ci sono in Europa, anche se di questo passo, nel giro di una generazione, se ne conteranno anche da noi. Qui, il posto dove i due mondi collidono sono i centri in cui il governo parcheggia gli stranieri ufficialmente in attesa di uno status di rifugiato che solo cinque su cento riusciranno ad ottenere. Quali leggi valgono in questi posti? In nome dell'accoglienza e dell'ipocrisia esistono reati che non vengono perseguiti? Scoprire chi ha tenuto sequestrati i venticinque volontari non pare difficile: ci sono decine di testimoni, inclusi gli stessi malcapitati operatori della cooperativa; probabilmente le scene sono state riprese anche dalle telecamere o dagli smartphone. La cosa giusta da fare è una sola: identificare i colpevoli e rispedirli subito nel loro Paese. Utile anche come insegnamento per gli aspiranti emulatori. Ma la strada scelta non sembra essere questa. Ieri sera nessuno risultava essere stato indagato e il rischio che i responsabili usino il tempo che è stato loro concesso per fuggire non appare così remoto. Le autorità, prefetto e questore in testa, hanno scelto la linea morbida del dialogo e gli unici a invocare il rimpatrio immediato dei responsabili sono gli esponenti dell'opposizione di centrodestra. Marco Minniti, il ministro dell'Interno che vorrebbe rendere più facili le espulsioni dei clandestini ma ha le mani legate dal proprio partito, ha reagito annunciando lo spostamento, già questa mattina, di un centinaio di immigrati dal centro di Cona ad altre strutture in Emilia-Romagna. Un ordine che ricorda il facite ammuina del finto regolamento della marina borbonica: Tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa e chilli che stann' a poppa vann' a prora. Utile per chi ha interesse a ostentare frenesia, non per chi intende fare qualcosa di serio. Fausto Carioti

Intervista-Gelmini, ritorno con furore: la clamorosa profezia dell'ex ministro. Intervista di Salvatore Dama del 27 marzo 2016 su “Libero Quotidiano”.

«A Milano come a Roma ci sono vere e proprie zone franche dove non esiste legalità. Parlo delle periferie, ma non solo. Nella capitale ci sono Centocelle, Torpignattara, qui abbiamo Via Gola, Via Lattanzio, Piazza Selinunte. Palazzi abbandonati vengono occupati da tossici e criminali, i cittadini hanno paura. Non trovano risposte dalle istituzioni. Il governo aveva mandato trecento uomini in più per l’Expo, poi sono stati dislocati a Roma per il Giubileo. Ma qui ci vuole l’esercito. Tutto l’anno». Mariastella Gelmini è candidata a Milano come capolista di Forza Italia. «Ho messo scarpe comode», dice, «e giro per le periferie. In generale, troviamo soprattutto persone che chiedono risposte ai propri problemi. In primis, c’è la sicurezza. Tema su cui la sinistra non ha fatto niente in questi anni. Non vogliamo alimentare paure, ma dare risposte dopo anni di inerzia».

Tutta colpa di Pisapia? 

«È colpa della cultura che incarna. Il politicamente corretto. Quella idea di voler accogliere tutti, anche coloro che non hanno alcuna voglia di integrarsi e che non hanno diritto».

C’è una “Molenbeek” anche a Milano?

«A viale Jenner sono transitati terroristi noti agli investigatori internazionali. A Roma ci sono decine di moschee abusive, nei garage. Tutto ciò mentre la Consulta ha in parte respinto una legge regionale della Lombardia sui luoghi di culto».

La legge “anti-moschee”.

«Non è anti-moschee, semplicemente stabilisce delle regole. Alcune sacrosante, come l’obbligatorietà dei sermoni in italiano. I casi di Parigi e Bruxelles sono sotto gli occhi di tutti. Bisogna evitare che luoghi di preghiera diventino palestre di odio e fondamentalismo. Molti profughi o presunti tali sono di religione musulmana. Il problema nei prossimi mesi non farà che aggravarsi, per cui io ribadisco con forza la nostra posizione: è giusto accogliere chi fugge da una guerra, ma non possiamo dare ospitalità a tutti. E soprattutto: chi viene in Italia deve rispettare le nostre leggi e la nostra cultura».

Intanto i profughi vengono sistemati nell’ex area base dell’Expo.

«È una follia. Una scelta scellerata. L’area dell’Expo è destinata a diventare un polo di avanguardia per la ricerca e l’innovazione. È un luogo simbolo della capacità di Milano di costruire il futuro. E la prefettura cosa fa? Lo trasforma in un campo profughi. Per fortuna si sono ravveduti e hanno risolto la questione. Ma bastava il buonsenso. Fatico a pensare che Pisapia e (soprattutto) Sala non fossero al corrente, per i rispettivi ruoli, della decisione del prefetto».

Parliamo del centrodestra. Milano è un’oasi felice. Altrove regna il caos. 

«Non è proprio così. Mi rendo conto che la spaccatura di Roma faccia più notizia di tutti gli accordi raggiunti nel centrodestra in giro per l’Italia. Ma sono tanti, glielo assicuro. Siamo uniti nella stragrande maggioranza dei comuni».

Roma è un incidente di percorso?

«Esatto. Molto grave ma, insieme a Torino, rimangono due fatti isolati».

C’è ancora tempo per presentare le liste. Sono possibili ripensamenti? 

«Il centrodestra diviso è un grande favore fatto a Renzi. Salvini e Meloni comprendano che devono farsi carico dell’unità della coalizione. Loro come noi».

Lei guida la lista dei candidati di Forza Italia al comune di Milano. È stato Berlusconi a chiederle un impegno diretto?

«Il capolista a Milano è sempre stato il Presidente. Avrebbe avuto tutto il diritto di esserlo anche questa volta».

Ma a causa della legge Severino non può candidarsi... 

«...e ha chiesto a me di farlo. E ne sono onorata perché amo Milano, è casa mia. Io ho raccolto la sfida per due motivi: anzitutto perché credo molto nella candidatura di Stefano Parisi, poi perché fare politica significa mettersi al servizio e io lo faccio volentieri se possiamo dare un segnale anche a questo governo di sole chiacchiere».

Sala era partito fortissimo. Ora però i sondaggi gli attribuiscono meno margine. 

«Questo perché Berlusconi ha azzeccato la scelta del candidato. Stefano Parisi è un uomo del “fare”, sa attrarre consensi e in poco tempo ha ribaltato una situazione inizialmente a noi sfavorevole».

A Milano, nella sua formazione tradizionale, il centrodestra sembra in ripartenza. A Roma, diviso tra moderati e lepenisti, appare al capolinea. Dov’è la verità?

«A Milano, senza dubbio».

Allora è Bertolaso il problema?

«Non credo, anzi. La candidatura dell’ex commissario della Protezione Civile è una grande opportunità e se non sbaglio era stato condiviso anche dagli altri. Con tutto il rispetto per Giorgia Meloni, che è un leader politico, io credo che Guido Bertolaso sia il candidato più attrezzato per affrontare e risolvere le emergenze di Roma».

L’ipotesi di una staffetta Bertolaso-Marchini?

«È stata già smentita dal diretto interessato».

Parla Valentina Nappi: "Io, pornostar comunista. Sapete con chi voglio fare sesso?". Intervista di Alino Milan del 3 febbraio 2017 su "Libero Quotidiano”. Per far capire di chi stiamo parlando, Valentina Nappi è una che su Facebook ti accoglie così: “Per quelli che trovano il mio numero e rompono: sono misantropa, se siete fighi\e delle madonna mandate le foto, altrimenti evitate di rompere il cazzo. Cordiali saluti”. Insomma, Valentina Nappi non si sforza di piacere al prossimo. Poi, provate a intervistarla se vi riesce. Fa la spola tra l’Italia e gli Stati uniti, dove si trova anche ora, compare e scompare in sporadici contatti mail e soprattutto risponde a ciò che vuole. Quando non le piace la domanda, passa. Inutile insistere. Se però riuscite a far breccia nel suo cervello, e a quanto pare ne ha, la sentirete spaziare a tutto campo: dalla filosofia all’economia, dall’attualità alla politica. Senza trascurare ovviamente il sesso, dato che Valentina Nappi, 25 anni, di Scafati, lavora nel porno. E il 23 gennaio è stata vincitrice agli Avn Awards, in pratica gli Oscar dell’hard, nella categoria «migliore scena a tre» (per la cronaca, due donne e un uomo).

Valentina, dicono tu sia la pornostar italiana più pagata. Quanto guadagni? 

«Non lavoro sempre. Nei mesi in cui lavoro posso guadagnare dai cinque ai quindicimila euro lordi, da cui ovviamente vanno detratte spese e tasse. Non mi posso lamentare, ma non sono certo ai livelli di un qualsiasi personaggio del mondo dello spettacolo di fama pari alla mia».

Sulla carta di identità che c’è scritto alla voce “professione”? 

«Ho una carta di identità vecchia. A ogni modo un pornoattore è una via di mezzo fra un performer e un attore. In un certo senso è più di un attore, poiché è chiamato a muoversi sul confine tra rappresentazione e performance. Ma direi che attore va bene».

Valentina Nappi: attrice. 

«Sì, se facciamo riferimento a un’accezione sufficientemente ampia del termine, entro cui cada anche l’attore che improvvisa, l’artista performativo, il ginnasta e chiunque dedichi la propria vita alla ricerca della bellezza di un gesto pubblico».

Valentina Nappi ginnasta: il riferimento, immagino, è alle contorsioni…

«No: il riferimento, come detto, è alla ricerca della bellezza di un gesto».

Che ne pensi delle violenze sulle donne a Capodanno in Germania? Secondo te c’entra l’islam? 

«È una domanda mal posta sul piano logico. L’islam è una religione, è diffusa in contesti estremamente differenti tra loro, contesti il cui grado di modernità e sviluppo varia enormemente. A ogni modo io sono contro tutte le religioni».

Ma è in corso una battaglia di civiltà tra noi e l’islam? Quanto c’entra la libertà sessuale in questo discorso? 

«La battaglia di civiltà è tra la modernità e le forze, come ad esempio la religione cattolica, che provano a resisterle. La modernità è la morale autonoma kantiana, l’utilitarismo benthamiano, il positivismo, il futurismo e in futuro probabilmente il comunismo. Le forze che le resistono sono le tradizioni, le religioni, il conservatorismo sociale e il conservatorismo economico (che oggi è rappresentato dal nefasto neoliberismo che erode i diritti del lavoro)».

Il comunismo è il futuro?! Veramente mi sembra più il passato, e anche nefasto. O no? 

«Quello che dici è la banale vulgata di destra sull’argomento. Non intendo replicare perché il discorso sarebbe estremamente lungo».

Hai scritto su Facebook: “Io sono femmina, non sono donna. Perché alle donne piace abbuscare”, che poi in napoletano significa “prendere botte”. Me la spieghi?

«Donna viene da “mea domina”, è un lemma di origine stilnovista, non mi piace. Mi fa pensare ai ruoli di genere. E una che accetta i ruoli di genere come la porta aperta dall’uomo, essere servita prima al ristorante e cose così, dovrebbe essere coerente e accettare anche di abbuscare».

Fammi capire, dato che in un’altra occasione hai detto “han provato a farmi il baciamano, ho risposto baciami il culo”. Se una donna accetta una galanteria, è giusto che accetti anche uno sberlone? 

«Non è questo il punto. Il punto è che lo sberlone e la galanteria appartengono alla stessa cultura, che viene dal passato».

Valentina Nappi e i profughi: tu sei contro le barriere e i confini. Sei dunque contenta che il governo Renzi vuole togliere il reato di clandestinità? 

«Io non sono per la libertà di movimento di quelli che sono contro la libertà di movimento. Quelli li confinerei in uno Stato tutto loro e non li farei uscire».

Non credi che gli immigrati poveri e senza lavoro portano un maggiore tasso di criminalità? 

«Qualsiasi economista serio (un Giavazzi, per esempio) ti farebbe notare che gli immigrati costituiscono una ricchezza. Quasi in nessun caso c’è stato un aumento statisticamente significativo dei crimini nei Paesi che hanno aperto le porte all’immigrazione».

Una volta hai ammesso di avere fatto sesso con un profugo, è vero? 

«Ho fatto sesso con immigrati, ma credo si trattasse di immigrati regolari».

Sei anti leghista. Se uno vota Salvini tu lo banni e lo cancelli dai social. Perché? 

«Per dargli una sberla virtuale, sperando che si svegli».

C’è qualche politico che vedresti bene in un tuo film? 

«Passo. Che palle».

Dimmi allora che pensi del “bunga bunga” di Berlusconi. 

«Ci deve far vergognare. Ti rimando al mio video: “La do a tutti tranne che al capo”».

Il video è in rete, Youtube l’ha rimosso ma si trova facilmente. Dura 14 secondi, ci sei tu in costume che dici appunto questa frase. Stop. Cos’è, un invito alle donne a darla il più possibile, anche gratis, ma non al potente di turno? 

«Direi solo gratis. Quelle che la danno per interesse hanno tutto il mio disprezzo. Quanto alle meretrici, non sono proibizionista ma dovrebbero metterci la faccia e praticare prezzi accessibili anche all’operaio, altrimenti nella migliore delle ipotesi sono usuraie che sfruttano la frustrazione sessuale maschile. Ad ogni modo mi fa schifo che una possa avvantaggiarsi socialmente, economicamente o nella carriera per il semplice fatto che ha la figa».

Nel 2011 l’Agenzia delle Entrate disse che in Italia la porno-tax ha portato oltre 21 milioni di euro allo Stato. È una tassa giusta per te? 

«Il dato mi sorprende. Ma probabilmente vi si fanno rientrare molte cose (come la vendita di sex toys…). Sicuramente la parte che deriva dalla produzione e vendita di video sarà insignificante».

La Diesel di Renzo Rosso farà pubblicità sui siti porno, perché “lì la gente va a cliccare”. Che ne pensi? 

«È una buona notizia, dato che invece normalmente la pubblicità sui siti porno rende pochissimo».

Valentina, in Italia si parla di Unioni civili. Sei a favore? 

«Certo».

Due omosessuali devono poter adottare un bambino? 

«Assolutamente sì. Reputo assurdo che ci si ponga anche il problema».

Sabato però c’è stato il Family Day. Che pensi di quelle persone in piazza?

«Non tutti sono condannati a essere intelligenti».

Parliamo del tuo lavoro: una pornostar sul set fa finta di provare piacere? 

«I maschi secondo te godono davvero? E se i maschi godono davvero, perché le femmine non dovrebbero? La tua domanda è evidentemente sessista».

Non è sessista. D’altronde pesco da una tua vecchia intervista: “le donne che fingono l’orgasmo dovrebbero essere segnalate in una qualche lista pubblica!”. 

«Vuol dire che il fatto che fingano è un problema. È un po’ come la gente che ricorre all’adulazione, credendo di non far nulla di male ma alla lunga producendo più infelicità che felicità».

Massimo Boldi ti chiese: “Ma perché una ragazza bella come te fa porno?” e tu: “Per avere la possibilità di fare gang bang con dodici neri”. Al di là delle battute, mi dici davvero perché lo fai? 

«L’ho spiegato varie volte e quel tweet è in un certo senso una sintesi. Se preferisci che ti dia un’altra risposta, che magari non metta in crisi la tua visione del mondo, scrivitela da solo».

Nella mia domanda non c’era alcun giudizio morale. Ma come a me chiedono perché faccio il giornalista e rispondo, tu spiegami perché fai la pornostar.

«Perché ti dà possibilità di esplorare, ricercare, approfondire, anche grazie al rapporto con la cinepresa, che altrimenti non avresti».

Rocco Siffredi dice di essere guarito dalla dipendenza da sesso, a te spaventa questa patologia? 

«È una presunta patologia che non esiste. Non è riconosciuta dalla comunità medica. Su Rocco mi sono già espressa e non intendo tornare sull’argomento».

Quindi le cosiddette “cliniche del sesso” dove vanno anche i vip per disintossicarsi sono inutili? 

«Non le conosco».

Su Rocco non vuoi esprimerti, però lui ha lanciato una petizione on line per introdurre l’educazione sessuale a scuola. Tu la firmeresti?

«No, ma la spiegazione sarebbe estremamente lunga».

Cosa significa trasgressione per te? 

«È una cosa negativa. È una forma di incoerenza. Io sono per la coerenza col proprio punto di vista e se si è coerenti non si trasgredisce».

Mettiamo che giri sul set per otto ore, poi vai a casa e contempli l’idea di fare ancora sesso?

«Ci sono tanti modi di fare sesso. Al pilota di Formula 1 capiterà anche di guidare un’utilitaria in città o di fare una tranquilla gita fuori porta».

Hai fatto casting pubblici per pornoattori ma non hai ottenuto grandi risultati: significa che non sappiamo più fare sesso?

«Forse manca soprattutto chi prenda seriamente il mestiere di pornoattore».

Dimmi allora una caratteristica imprescindibile per fare il pornoattore. 

«La più importante è la testardaggine nel migliorarsi. Il pornoattore deve essere un po’ come un maestro di sushi o come un qualsiasi artigiano che lavori con la gestualità: deve provare e riprovare, vedere cosa viene fuori, modificare un po’ i particolari, cercare allo stesso tempo l’eleganza e la potenza dell’immagine trasmessa».

Il porno e la paura di contrarre malattie. Quanto ci pensi? 

«È ben noto che la gente sopravvaluta certi rischi e ne sottovaluta altri. Ad esempio, il rischio rappresentato dagli attentati terroristici è enormemente amplificato dalla percezione collettiva, mentre quello degli incidenti stradali è molto sottovalutato. Ecco: il rischio di contrarre l’hiv per un pornoattore è prossimo allo zero».

Con quelle acrobazie sul set, problemi fisici ne hai?

«Nessuno».

Già, sei giovane. Pratica sessuale preferita sul set e in privato?

«Non ho pratiche preferite. Sono un po’ come un cuoco: mi piacciono tutte le materie prime, poi tutto dipende dal “come”, non dal “che”».

Un giorno ti vedi mamma? Se sì che dirai a tuo figlio del tuo lavoro?

«Ti ricordo che il mio nome da pornoattrice coincide perfettamente col mio nome reale. Ad ogni modo, non voglio avere figli, anzi sulla Terra siamo in troppi e bisognerebbe entrare in una logica di controllo delle nascite».

E chi ci dovrebbe pensare?! 

«Ci stiamo organizzando, noi del Nuovo Ordine Mondiale».

Non tutte, però, si chiamano Valentina Nappi. Profughi, abusi sessuali su lavoratrici delle coop. Succede a Bagnoli. Donne molestate da alcuni ospiti: il primo cittadino e il sindacato fanno denuncia in Prefettura di Cristina Genesin, scrive il 12 marzo 2017 "Il Mattino di Padova". Violenze e abusi sessuali all’interno del campo profughi di Bagnoli, destinati a moltiplicarsi ogni giorno come si trattasse di un’eventualità da mettere in conto al pari di “un’attività ordinaria”. Compagna di lavoro ormai abituale la paura. Quella paura pronta ad assalirti ogni volta che varchi il cancello d’ingresso del posto dove lavori ben sapendo, per esperienza diretta o per esperienza della collega, che ti può capitare il peggio. E tu sei indifesa perché sei stata lasciata sola. E perché non c’è alternativa quando ti fanno capire che o ti va bene così oppure quella è la porta, libera di andartene. Le vittime. È il dramma che stanno vivendo un gruppo di donne, tutte residenti nella Bassa Padovana, dipendenti di alcune cooperative impegnate nel garantire lavori e servizi nel campo situato nella frazione di San Siro, oltre 800 ospiti “parcheggiati” in attesa di conoscere il proprio destino con il passaporto da rifugiati o con il “marchio” da indesiderati. Donne vittime di ripetute aggressioni sessuali. Nessuna al momento ha ancora presentato querela: hanno paura di essere lasciate a casa. Di essere licenziate. E non a caso: chiaro il messaggio ricevuto dopo aver informato dell’accaduto tanto il datore di lavoro quanto i vertici Edeco, coop che gestisce la struttura. La prefettura. Venerdì scorso incontro riservatissimo in Prefettura a Padova. Intorno al tavolo il vicario del prefetto con delega all’emergenza immigrazione, Pasquale Aversa, il sindaco di Bagnoli, Roberto Milan, e la sindacalista Elena Capone di Labor, sindacato autonomo che sta seguendo la delicatissima questione cercando di tenerla lontana da ogni forma di strumentalizzazione partitica. Sono stati sollecitati interventi e una maggior presenza di addetti alla sicurezza nel campo per tutelare chi lavora. Singolare circostanza: il sindaco sarebbe stato informato dell’accaduto proprio l’8 marzo, festa della donna. Per domani prevista un’assemblea con le dipendenti delle cooperative per decidere il da farsi. Doppia la parola d’ordine: tutelare la propria dignità di essere umano, ma pure il diritto al posto visto che, per la maggioranza delle donne, lo stipendio è indispensabile strumento per far quadrare il bilancio familiare. Uno stipendio che, però, non vogliono barattare passando sopra al principio del rispetto per se stesse. I fatti. Il caso è esploso negli ultimi mesi all’interno del centro dove stati trasferiti i clandestini approdati in Italia per lo più dal continente africano, tutti giovani o giovanissimi (poche le donne). Prima i comportamenti di alcuni stranieri si limitavano a qualche battuta in un italiano stentato, magari accompagnato da qualche gesto osceno. Poi dalle parole, si è passati alle vie di fatto. Così le lavoratrici sono state attese all’ingresso del campo; in qualche caso “scortate” nelle aree in cui dovevano lavorare oppure, vittima di un vero e proprio agguato, sono state sorprese e aggredite. Solo alcuni ospiti sarebbero responsabili dei ripetuti episodi. «Episodi gravissimi», riferisce un pubblico amministratore. Tuttavia ufficialmente, nessuno parla. Nessuno commenta. Introvabili il sindaco Milan e la sindacalista Capone, mentre la situazione è al limite. E ora, davvero, rischia di esplodere dentro e fuori la struttura. Tra l’ottobre e il novembre scorsi la tensione crescente si era tradotta in rivolte e sommosse nel centro di accoglienza che ha toccato punte di 900 profughi. Tanto da rendere necessario l’intervento della polizia in tenuta antisommossa. Allora il sindaco di Bagnoli Roberto Milan aveva commentato duro: «L’unico provvedimento possibile è quello di alleggerire il centro e distribuire i migranti in altre strutture, non certo creare delle nuove concentrazioni. Qui non abbiamo bisogno di slogan e passerelle, né di sparate populiste. Vogliamo soluzioni percorribili e su questo la Prefettura deve lavorare di più e meglio». Una richiesta ancora oggi reclamata da una popolazione sempre più sola.

Operatrice sequestrata nel resort: "Ha calato i pantaloni e ha iniziato a fare le sue cose", scrive di Peppe Rinaldi il 2 febbraio 2017 Libero Quotidiano”. Secondo gli specialisti era affetto da «effervescenze psico-caratteriali» l’immigrato nigeriano che ieri non ce l’ha fatta più e, abbassandosi i pantaloni, ha tenuto in ostaggio per circa mezz’ora una donna in un centro di accoglienza. Si chiama Eboh Jude, ha ventisei anni e da tre - dice - non ha rapporti sessuali. Ora è in cella a Poggioreale, Napoli, in attesa dell’espulsione alla conclusione dell’iter giudiziario. Intanto deve rispondere di sequestro di persona e di violenza sessuale, fattispecie che scatta indipendentemente dalla consumazione materiale del fatto. Il focoso giovane nero, infatti, non ha toccato la signora, peraltro sessantaduenne, limitandosi ad «effervescenti» manifestazioni di desiderio sessuale, aggravate da una patita, lunga astinenza. Esiste chi sta peggio con la cronologia, pur senza esibire terga e genitali. Siamo a Varcaturo, un tempo meravigliosa litoranea flegrea nel territorio del comune di Giugliano, divenuta una specie di slum interraziale in un panorama di strutture turistico-ricettive spesso convertite in centri per immigrati. Come ovunque nel Paese. Il posto è uno di quelli de luxe, almeno a giudicare dalla presentazione web del complesso «Le Chateau». La struttura pare abbia avuto in passato problemi con l’autorità giudiziaria per questioni legate ai permessi a costruire, non proprio una novità da quelle parti. Ci furono i rituali sequestri seguiti da altrettanto rituali dissequestri. Oggi è, con ogni evidenza, soggetto interlocutore della pubblica amministrazione in tema di immigrazione. Dentro sono ospitati 85 extracomunitari a prevalente composizione africana, tenuto conto anche di un antico insediamento della popolazione di colore in tutto il comprensorio. Da anni. Ora parliamo dei nuovi flussi, quelli genericamente - ed erroneamente - definiti di profughi. Eboh Jude era a Napoli da settembre ma ieri gli ormoni hanno preso il sopravvento, spingendolo nell’ufficio di una operatrice del centro con la scusa di informazioni sulla pratica per il suo permesso di soggiorno. Una volta dentro il giovane ha chiuso la porta, s’è calato i pantaloni e, a distanza, ha spiegato alla esterrefatta signora il suo problema. Masturbandosi. È lei stessa a dirlo: «Non mi ha violentata, si è abbassato i pantaloni e ha fatto cose sue. Ha raccontato che non aveva una donna da tre anni e chiedeva chiarimenti sul suo documento, scaduto oggi. Certo rimanere chiusa con lui non è stato piacevole, a un certo punto ha battuto anche i pugni sul tavolo. Ma non mi ha violentata, questo no». A liberarla dall’incubo i carabinieri del posto, avvisati da una collega dell’operatrice che aveva intercettato il bigliettino d’aiuto che la donna sequestrata era riuscita ad infilare sotto la porta. L’irruzione, quindi le manette e il carcere. E poi le polemiche. Come quella tra Matteo Salvini e Roberto Saviano. In un primo momento s’era diffusa la voce di una violenza carnale consumata e il segretario della Lega aveva twittato parlando di castrazione chimica. Poche ore e Saviano si dà alle sue di «effervescenze», dando sfogo via social ad un ragionamento standard su razzismo e immigrazione, forte delle statistiche Istat sulla nazionalità di vittime e violentatori. «Io la disprezzo» è stato il pezzo forte di Saviano rivolto a Salvini. Che ha replicato: «Quel disprezzo è per me una medaglia».

Molestie sessuali a Capodanno, l'incubo di sei italiane a Innsbruck: "Le mani degli immigrati tra le gambe", scrive il 6 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Molestie sessuali in piazza con strategia "militare". Le sei ragazze italiane che hanno subito approcci violenti la notte di Capodanno a Innsbruck raccontano al Corriere della Sera quei minuti di terrore puro vissuti in Austria. Ad aggredirle un gruppetto di uomini tra i 20 e i 40 anni, immigrati afghani o nordafricani, ancora ricercati. "Erano in cinque o sei, ci hanno circondato - spiega una delle ragazze, tutte studentesse e turiste tra i 19 e i 25 anni, provenienti da Bolzano -. Ballavano e ridevano e sulle prime non ci siamo preoccupate. Eravamo tutti in piazza per divertirci e festeggiare in mezzo a migliaia di persone. Ma quello che subito sembrava uno scherzo si è trasformato in qualcosa d'altro. Molestie pesantissime. Si sono avvicinati stringendoci, toccandoci, richieste esplicite di sesso. A me hanno messo le mani sotto le gambe, strappandomi i collant. Mi sono divincolata, li ho spintonati allontanandomi. La stessa cosa ha fatto la mia amica. Poi siamo tornate in albergo. In totale le denunce sono state 18: molestate anche nove austriache, due tedesche e una svizzera. La notte di Innsbruck ha ricordato da vicino quanto successo un anno prima a Colonia e in tutta la Germania, con 1.200 donne vittime di aggressioni a sfondo sessuale da parte di immigrati. "Non abbiamo mai visto niente del genere", ammette Ernst Kranebitter, portavoce della polizia di Innsbruck. "Non riesco a ricordare un attacco di questo genere, di questa scala e con questo modus operandi. Una specie di strategia studiata che avrebbe permesso agli assalitori in primo luogo di non mostrare subito le loro reali intenzioni, facendole sembrare l'avvio di una specie di gioco. E poi di sparire alla svelta, in caso di grida o di reazioni decise".

Scena "mostruosa" la notte di Capodanno. Stuprate 80 donne: "da mille nordafricani", scrive il 5 gennaio 2016 “Libero Quotidiano”. Capodanno choc a Colonia. Il sindaco della città settentrionale della Germania ha convocato i vertici della polizia dopo le notizie di aggressioni, anche a sfondo sessuale, subite da 80 donne e in cui sarebbero coinvolti circa 1.000 uomini. Secondo il capo della polizia Wolfgang Albers, citato dalla Bbc, gli aggressori, ubriachi, erano all’apparenza arabi o nord-africani. Le aggressioni si sono verificate nella zona tra la stazione centrale e il maestoso duomo gotico. Gran parte dei reati denunciati alla polizia erano rapine, ma anche molestie, palpeggiamenti, e almeno uno stupro. Anche una volontaria della polizia ha subito molestie sessuali. Secondo i media locali la polizia è preoccupata del fatto che le violenze siano state organizzate: branchi di uomini ubriachi a caccia di donne in un’area già normalmente a rischio furti e borseggi, tanto che Albers ha parlato di "una dimensione di reato completamente nuova" lanciando un allarme in vista degli eventi di carnevale previsti tra il 4 e il 10 febbraio, durante i quali notoriamente si versano fiumi di alcol. Il numero delle aggressioni è stato forse ancora superiore, perchè si teme che molte donne non abbiano denunciato le violenze. È qualcosa di "mostruoso", ha commentato il sindaco Henriette Reker, che fu accoltellata a ottobre durante la campagna elettorale prima della sua elezione. "Sono attacchi intollerabili, tutti i responsabili devono essere portati davanti alla giustizia" ha scritto il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas in un tweet. Secondo il portale di informazione Koelner Stadt-Anzeiger, i responsabili delle aggressioni sono già conosciuti dalla polizia, proprio a causa dei frequenti furti che si verificano nella zona intorno alla stazione centrale. Uno dei poliziotti in servizio nella zona ha detto al portale Express di aver fermato 8 persone: "Erano richiedenti asilo" ha specificato. Episodi analoghi si sono verificati anche ad Amburgo, nella chiassosa via Reeperbhan, nel quartiere a luci rosse di St.Pauli, e a Stoccarda. La reazione - Il governo tedesco promette di catturare e consegnare alla giustizia i responsabili degli abusi sessuali avvenuti a Colonia a Capodanno, nel quale sarebbero coinvolti numerosi migranti. "Si deve fare tutto il possibile per identificare quanto prima i colpevoli e punirli, da dovunque arrivino”, ha detto Angela Merkel. Il cancelliere ha espresso "indignazione" di fronte agli "attacchi ripugnanti e alle molestie sessuali, reati che esigono» una risposta compatibile con lo Stato di diritto".

Per essere intervistato da una donna, Muhammad Alfredo ha preteso che la giornalista Sara Giudice indossi l'hijab e si presenti senza trucco né profumo. Piazza Pulita su La7 il 13 marzo 2017 ha mandato in onda il faccia a faccia con l'integralista islamico italiano convertito nel 2010 che vuole spiegare com'è vivere nel completo rispetto della legge islamica, la Sharia. E lo spaccato offerto da questa visione fanatica è inquietante.

 MAFIA ONLUS.

Cantone e migranti: nei Cara bandi costruiti per escludere concorrenza. Il presidente dell'autorità anti corruzione in commissione racconta anni di lavoro, situazioni in cui false onlus create da pregiudicati ospitavano migranti in cantine. E le nuove norme, il decreto Minniti, per evitare "patologie" nel settore: appalti divisi per consentire concorrenza e la necessità di controlli successivi sulle presenze. Avanza l'idea di creare albi di fornitori per evitare presenze mafiose e sottolinea: "Il volontariato, le cooperative sociali per il nostro paese rappresentano un vanto, macchiato da interessi estranei. Considerare l'accoglienza un'emergenza è ridicolo, è questione di organizzazione", scrive Caterina Pasolini il 18 maggio 2017 su "La Repubblica". "Quello per il Cara di Mineo "ci sembrò un bando costruito per escludere la concorrenza", era "il classico bando costruito su misura", addirittura "mancava soltanto che indicassero anche il nome del vincitore" e "quando sollevammo i dubbi ci fu un vero e proprio fuoco di sbarramento contro il nostro provvedimento, che fu oggetto anche di attacchi in alcune audizioni parlamentari. Valuteremo l'ipotesi di commissariamento del Cara di Crotone". Lo ha detto il presidente dell'Autorità nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone, in audizione presso la commissione parlamentare di inchiesta sul Sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione. "Attualmente il bando è ancora commissariato, non ce n'è uno nuovo", ha aggiunto facendo un quadro della situazione nazionale, passando da realtà regionali che hanno visto coinvolti appalti, situazioni mafiose, sfruttamento di lavoratori, organizzazioni del terzo settore. E ripete come ci sia bisogno di fare appalti divisi per capitoli per evitare situazioni "patologiche" e la necessità di controlli ". Parla con puntualità, del lavoro fatto dall'Autorità anti corruzione. Racconta delle ispezioni al Cara di Catania che ancora prima di Mafia Capitale avevano evidenziato "che il settore servizi sociali, medaglia di quel volontariato così forte in Italia, era stato macchiato da interessi. Abbiamo svolto accertamenti, per poi mettere in campo regolamentazione, da casi specifici trovare regole per evitare di ripetere cose patologiche". Come l'idea di istituire albi di fornitori delle strutture "per evitare la presenza di organizzazioni mafiose perché hanno ora buon gioco a mettere i loro interessi nel settore". E ricorda i casi di sfruttamento degli immigrati, avrebbero dovuto essere ospiti, studiare, imparare l'italiano e invece lavorano per pochi euro decine di ore nei campi sfruttati dai caporali. Cantone parla partendo da un punto fermo: "Considerare ancora un'emergenza mi sembra ridicolo. L'accoglienza è un problema di organizzazione bisogna prevedere strumenti che ne consentano una gestione a regime. I contratti quadro, ad esempio, non comportano spese per la pubblica amministrazione, possono essere azionati quando necessario". E racconta il lavoro fatto, i controlli. "Il 25 febbraio 2015 ci chiesero un parere sul Cara di Mineo da parte concorrente escluso.  Verificammo che il bando era stato costruito per evitare concorrenza, ci mancava che ci scrivessero nome del vincitore, fatto su misura. Indicammo subito al Cara l'esistenza di questa patologia, verificammo fuoco di sbarramento, una vera resistenza del Cara che si rifiutò di revocare il bando dove ci fu un’unica offerta con un ribasso del 1 per cento". Da quella esperienza nasce l'idea di individuare regole, una di queste è la divisione degli appalti che consente concorrenza vera. Nel 2016: prime linee guida per affidamenti a cooperative sociali, "rappresentano per il nostro settore un vanto, ma ci sono rischi di patologie che con gli enti del terzo settore non hanno nulla a che fare. I due problemi fondamentali sono la struttura del bando, e secondo l'assenza reale meccanismi di controllo visto che i pagamenti vengono fatti su base migranti ospitati". E così racconta della gestione centro di accoglienza Castel nuovo di porto a Roma, dove venne fatta dalla finanza un'ispezione a sorpresa scoprendo che la rendicontazione degli ospiti era fatta su autodichiarazione. "Con problemi sulla verifica dei soggetti assistiti e con la procura a sottolineare problemi a fare le verifiche". Prendendo spunto da indagini procura Napoli, Cantone parla di "Ala di riserva, una onlus assolutamente falsa, messa su da un pregiudicato aveva utilizzato soldi per comprare beni in Montenegro e utilizzava sottoscale e cantine per ospitare i migranti. Gli appalti erano stati dati senza controllo preventivo successivo e nessuna gara nel 2013. Forse perche spesso chi ti dà la soluzione del problema è benvenuto senza farsi molti domande su come lo fa". Tra le domande dei senatori, Cantone ringrazia Minniti: " nel decreto la divisione in lotti è diventato strutturale, strumento utilissimo per evitare patologie, plaudo al decreto che mette punti fermi specifici ma ci sono ancora problemi sulla fase successiva. La fantasia dei truffatori è fervida". E sul Cara di Crotone è chiaro: L'Anac "si attiverà per valutare se ci sono i presupposti per un commissariamento. Bene ha fatto il ministro" dell'Interno Marco Minniti a disporre un'ispezione al Cara, di cui l'Anac, chiederà di avere i risultati".

Migranti, inchiesta sulle Ong: la sinistra cerca di insabbiare. Colpo di spugna sui legami con i trafficanti di uomini. La commissione Difesa: "Nessuna indagine in corso a carico sulle Ong", scrive Sergio Rame, Martedì 16/05/2017 su "Il Giornale". "Non vi sono indagini in corso a carico di Organizzazioni non governative in quanto tali ma solo un'inchiesta della procura di Trapani che concerne, tra gli altri, singole persone impegnate nelle operazioni". Il documento conclusivo approvato all'unanimità dalla commissione Difesa del Senato, impegnata in una indagine conoscitiva sul contributo dei militari italiani al controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo e sull'impatto dell'attività delle Organizzazioni non governative, è di fatto un colpo di spugna sulle accuse lanciate dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro che ha ipotizzato legami tra le Ong e i trafficanti di esseri umani con un chiaro disegno di "destabilizzare economicamente" l'Italia. Legami che, come ha confermato anche Frontex, hanno portato a un incremento degli sbarchi. Tra gennaio e aprile di quest'anno, oltre la metà (50,36%) dei migranti è stata soccorsa e salvata in mare da privati. Eppure per le Ong "integrate" nel sistema di soccorso in mare agli immigrati, che prendono d'assalto le nostre coste, la commissione Difesa del Senato si limita a chiedere che vengano elaborate "forme di accreditamento e certificazione che escludano alla radice ogni sospetto di scarsa trasparenza organizzativa e operativa". In particolare, si legge nella relazione pubblicata oggi, "si dovranno adottare disposizioni che obblighino le Ong interessate a rendere pubbliche nel dettaglio le proprie fonti di finanziamento, cosa che alcune di loro già fanno, oltre che i profili e gli interessi dei propri dirigenti e degli equipaggi delle navi utilizzate, spesso a noleggio - continua la commissione di Palazzo Madama - anche altri indicatori sono da tenere in debita considerazione, quale la collaborazione con le autorità italiane". Nei quattro mesi in questione le navi mercantili hanno salvato 5.698 migranti (15,64%), le navi delle Ong 12.646 (34,72%). La percentuale di migranti salvati dalle navi delle Ong era già cresciuta dal 13,17% del 2015 al 26,24% dell'anno scorso. Nel documento la commissione di Difesa chiede che d'ora in poi l'intervento di polizia giudiziaria sia "contestuale" al salvataggio. "Al fine di non disperdere preziosi dati - sottolinea la Commissione presieduta dal piddì Nicola Latorre - ed elementi di prova utili per perseguire i trafficanti di esseri umani, sarebbe opportuno adeguare l'ordinamento italiano o comunque prevedere modalità operative tali da consentire l'intervento tempestivo della polizia giudiziaria contestualmente al salvataggio da parte delle Ong. Parallelamente - continua - occorrerebbe potenziare la forza e gli strumenti investigativi, favorendo ad esempio l'intercettazione dei telefoni satellitari". "In nessun modo può ritenersi consentita dal diritto interno e internazionale, né peraltro desiderabile, la creazione di corridoi umanitari da parte di soggetti privati, trattandosi di un compito che compete esclusivamente agli Stati e alle organizzazioni internazionali e sovranazionali". Secondo la commissione Difesa, invece, "i privati, se opportunamente inseriti in un contesto saldamente coordinato dalle autorità pubbliche (nel caso, dalla Guardia costiera, ndr) possono fornire un apporto significativo e costruttivo". Vengono così archiviati i sospetti e le accuse mosse nelle scorse settimane dal procuratore Zuccaro che, di fatto, chiedeva le intercettazioni satellitari e la presenza della polizia sulle navi delle Ong per avviare un'inchiesta seria sull'emergenza immigrazione. Inchiesta che, però, la sinistra non vuole in alcun modo.

Migranti: le Ong tra volontariato e business. Quali sono le differenze e i compiti delle non governative, come si distinguono dalle "sorellastre" governative e da quelle criminali, scrive Nadia Francalacci il 4 maggio 2017 su "Panorama". “Quando si parla di Organizzazioni non governative, è difficile riconoscere quelle serie ed affidabili da quelle con finalità criminali”. È lapidaria la professoressa Angela Del Vecchio, docente di Diritto Internazionale e Giurisprudenza all’Università Luiss di Roma. “Si fa molta confusione e spesso non è chiara la differenza ong e le Organizzazioni Governative internazionali”.

La definizione. “Le Organizzazioni governative, come l’Onu o la Fao, sono "governate" dagli Stati e si sviluppano in ambito internazionale. Anche le Ong crescono e si sviluppano nelle società internazionali ma non sono governative, bensì gestite da privati. Le Ong hanno uno statuto, proprio come una società, si basano in uno Stato e sviluppano delle “sezioni” presso altri Paesi. Ad aderire a queste sezioni sono privati cittadini che vogliono condividere le finalità di quella Organizzazione non governativa e svolgere un’attività comune. Prendiamo ad esempio, Medici senza Frontiere o Emergency. Queste sono Ong che lavorano in ambito internazionale e hanno sezioni in tutti i Paesi del Mondo”.

Le differenze. "Non tutte le Ong, però, sono uguali", specifica Del Vecchio. "Medici senza Frontiere o Emergency per il Diritto Internazionale sono considerate attori della Comunità internazionale per la loro importante e riconosciuta attività in tutti i territori di guerra, ma non sono comunque soggetti della comunità internazionale come invece le Organizzazioni governative".

Le zone oscure. Al fianco di Ong serie ed affidabili come MsF o Emergency "possono esistere numerose altre organizzazioni non governative con finalità non proprio umanitarie" spiega Del Vecchio. "Occorre premettere che una imbarcazione di una qualsiasi Ong può navigare tranquillamente nel Mediterraneo: non deve richiedere alcuna autorizzazione. Essendo di proprietà di un privato può solcare le acque di qualsiasi mare come accade per uno yacht di grandi dimensioni. In base al Diritto della Navigazione, però, una qualsiasi imbarcazione deve prestare soccorso a chiunque si trovi in mare in situazione di pericolo, salvarlo e trasportarlo in sicurezza nel porto più vicino. Ecco che è semplice comprendere come Ong criminali si possano avvicinare e confondere con altre Ong oneste che operano davanti alle coste libiche e prestare soccorso ai migranti.”

L'ipocrisia cattocomunista, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 16/05/2017, su "Il Giornale". Queste non sono, come scritto ieri da qualcuno, «le mani della mafia sulla pelle degli immigrati», anche perché la mafia le mani le ha sempre e ovunque circoli denaro. Queste sono le mani sugli immigrati della gioiosa macchina dell'accoglienza e delle porte aperte che sull'immigrazione ha intascato, e intasca, centinaia e centinaia di milioni. Cioè di quella lobby cattocomunista che ha bollato di razzismo chiunque - noi per primi - in questi anni ha chiesto regole e paletti, messo in dubbio regolarità e trasparenza dei soccorsi. Queste sono le mani sui migranti di una certa politica al di sopra di ogni sospetto e invece vicina, troppo vicina, a cardinali e ad Angelino Alfano che come ministro degli Interni avrebbe dovuto controllare e vigilare le organizzazioni umanitarie cattoliche come la Misericordia. Questi sono i responsabili dello scacco allo Stato messo in atto a Capo Rizzuto, nel più grande centro di prima accoglienza del Paese. Poi c'è anche la mafia, che tutto dispone. E nel tempo ha disposto anche di un prete leader dell'accoglienza, Edoardo Scordio e di un politico, Leonardo Sacco, uomo di Dorina Bianchi, parlamentare alfaniana, e legato alla famiglia Alfano (propose anche di affidare uno di questi centri a un parente del ministro che non aveva alcuna competenza specifica).

I verbali di questa inchiesta che ha portato all'arresto di oltre sessanta persone sono un manuale di malaffare e smascherano i presunti angeli dell'accoglienza. Quelli che in tv chiamano i profughi «fratelli migranti» con la faccia contrita ma che al telefono parlano di loro come i «negri da spellare». La domanda da farsi non è «perché la mafia», ma «perché le confraternite cattoliche», «perché le coop rosse». Cioè perché il sistema solidale si è alleato con le cosche, affamato di soldi e privo di scrupoli come e più di loro. Le cooperative sono parenti stretti dei partiti di centro e di sinistra. E allora forse oggi capiamo perché gli ultimi governi non hanno fermato, anzi hanno agevolato, un flusso migratorio incondizionato: soldi, tanti, maledetti e subito. Adesso però basta. E si può fare, come dimostra il fatto che a fine mese durante il G7 di Taormina è stato elaborato un piano per vietare gli sbarchi in Sicilia. Trump, Macron e soci non devono essere disturbati o infastiditi durante il loro soggiorno. E noi chi siamo? Opto per un G7 permanente.

Migranti: quali sono gli interessi delle mafie secondo Zuccaro. Gli appetiti dei clan e la proposta di polizia sulle navi delle Ong. Ecco le parole del procuratore di Catania all'Antimafia e le repliche, scrive il 10 maggio 2017 Panorama. Con gli ultimi due naufragi del fine settimana, che secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha provocato 245 morti o dispersi, sale a 1.300 il bilancio delle vittime in mare nel 2017 nel tentativo di raggiungere l'Italia. Sul tema caldo dei migranti, torna il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro che, in audizione alla Commissione Antimafia, punta il dito contro gli interessi delle organizzazioni mafiose, attratte dalla massa di denaro destinata all'accoglienza. "Sono loro l'obiettivo delle indagini, non le Ong", ha specificato il pm. Presso la Procura di Catania è infatti in corso un'inchiesta conoscitiva, che era stata citata dal Movimento 5 Stelle sollevando un veemente clima di sospetto contro l'operato nel Mediterraneo delle Organizzazioni non governative. Ma andiamo con ordine. 

Cosa avevano detto il M5S e Zuccaro. Il 21 aprile è partito l'attacco grillino contro "l'oscuro ruolo delle Ong" che operano per salvare i migranti in mare. Luigi Di Maio aveva definito le navi delle organizzazioni umanitarie dei "taxi del Mediterraneo". Prima alla Stampa, quindi andando in tv, il magistrato Zuccaro aveva confermato le accuse grilline, parlando di "contatti diretti" tra i trafficanti di uomini che stanno in Libia e alcune Ong, che potrebbero addirittura essere finanziate dai trafficanti stessi con l'intento di destabilizzare l'economia italiana. Nel suo mirino non ci sarebbero Ong consolidate come Save the Children e Medici senza frontiere, ma quelle di più recente fattura come la maltese Moas. Sul fronte politico, da destra e sinistra si era aizzato un fuoco incrociato di accuse e difese sull'operato delle Ong nel Mediterraneo. Il 3 maggio, durante un'audizione davanti alla commissione Difesa del Senato, Zuccaro aveva rilanciato i suoi sospetti. E aveva parlato di "appetito" delle mafie che puntano a intercettare "il denaro erogato per l'accoglienza".

Le parole di Zuccaro all'Antimafia. Il 9 maggio Zuccaro è stato convocato in Commissione Antimafia. "È sbagliato ritenere che la mafia operi dovunque, perché così rischiamo di aumentare l'aurea di onnipotenza", ha detto. "Non ritengo ci siano rapporti diretti tra le organizzazioni criminali che controllano il traffico di migranti e le nostre mafie locali", ma "c'è una massa di denaro destinata all'accoglienza che attira gli interessi delle organizzazioni mafiose e dico questo sulla base di risultanze investigative". Il procuratore ha ribadito che sui legami tra trafficanti e Ong c'è "un'ipotesi di lavoro", non prove. Ha parlato di segnalazioni, da parte di Frontex e della Marina, di travalicamenti dei confini delle acque libiche e contatti telefonici tra persone operanti sulle navi di alcune Ong e la terraferma libica. Per questo "c'è il sospetto di contatti tra trafficanti e alcune Ong: è dunque necessario consentirci di fare le indagini per dare corpo ai sospetti o smentirli". Ha nuovamente specificato di non "voler sparare nel mucchio": le Ong "fanno un'opera di supplenza straordinariamente meritevole, ma sono in grado di selezionare il tipo di flusso migratorio? No, è l'Italia, come gli altri Stati europei, ad avere il diritto di fare questa selezione. La gestione dei flussi non può appartenere alle Ong".

La proposta di Zuccaro. La soluzione secondo Zuccaro? Già lo aveva proposto, ora lo ha ribadito: far salire la polizia giudiziaria sulle navi, per bloccare gli scafisti e risalire a chi gestisce il traffico. "Se a bordo delle navi delle Ong ci fossero delle unità di polizia giudiziaria sarebbe stato ad esempio possibile assicurare subito alla giustizia i trafficanti che nei giorni scorsi hanno ucciso un giovane migrante, subito prima di essere soccorso, solo per non essersi voluto togliere il cappellino. Con la polizia sulle navi i trafficanti sarebbero in galera". L'idea però non piace ad alcune Ong. La tedesca Jugend Rettet, attiva con una sua nave nel Mediterraneo, scuote la testa: "Contravverrebbe alla nostra missione, non ne vediamo le ragioni". Ascoltata il 9 maggio di fronte alla commissione Difesa del Senato ha spiegato da dove arrivano i suoi finanziamenti: "Donazioni da parte di privati, nonché di organizzazioni piccole e medie senza fini di lucro. Nessun finanziatore influenza il nostro lavoro a livello operativo". Il 10 maggio saranno ascoltati in Commissione Difesa del Senato il procuratore di Trapani Ambrogio Cartosio e il pm Andrea Tarondo, titolari dell'inchiesta che, a differenza di quella catanese, è in fase avanzata.  A seguire sarà ascoltata l'Ong tedesca Sea Watch, nel Mediterraneo con due navi.

'Ndrangheta, assalto ai fondi Ue e all'affare migranti; 68 arresti. Coinvolti un sacerdote e il capo della Misericordia. Operazione della Dda di Catanzaro contro il clan Arena che controllava il Cara più grande d'Europa. Le accuse: associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegali di armi, malversazione ai danni dello Stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture. Al sacerdote 132 mila euro in un anno per "assistenza spirituale", scrivono Alessia Candito e Fabio Tonacci il 15 maggio 2017 su "La Repubblica". Il Cara di Crotone, uno dei più grandi d'Europa era in mano alla 'ndrangheta. Da dieci anni. Su 103 milioni di euro di fondi Ue, che lo Stato ha girato dal 2006 al 2015 per la gestione del centro dei richiedenti asilo di Crotone, 36 sono finiti alla cosca degli Arena. Questo racconta l'ultima inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, in base alla quale questa mattina sono state fermate 68 persone, molte appartenenti appunto al clan Arena. Agli arresti sono finiti anche Leonardo Sacco, presidente della sezione calabrese e lucana della Confraternita delle Misericordie, organizzazione che da dieci anni gestisce il Cara di Isola Capo Rizzuto, ed il parroco del paese, don Edoardo Scordio, entrambi accusati a vario titolo di associazione mafiosa, oltre a vari reati finanziari e di diversi casi di malversazione, reati aggravati dalle finalità mafiose. Secondo quanto emerso dalle indagini condotte dai carabinieri del Ros, guidati dal generale Giuseppe Governale, in collaborazione con i finanzieri della Tributaria di Crotone, Sacco avrebbe stretto accordi con don Scordio, parroco di Isola di Capo Rizzuto e tra i fondatori delle Misericordie, per accaparrarsi tutti i subappalti del catering e di altri servizi. Grazie a Sacco la 'ndrangheta sarebbe riuscita a mettere le mani sui fondi girati dal governo non solo per la gestione del Cara calabrese e di due Spraar aperti nella medesima zona, ma anche per quella dei centri di Lampedusa. Un affare da 30 milioni di euro: i cibi da preparare, gli operatori chiamati a lavorare nel centro, le lavanderie industriali per pulire lenzuola e tovaglie. Tutto in mano ai clan. In tale quadro, una somma consistente veniva distribuita indebitamente al parroco della Chiesa di Maria Assunta, a titolo di prestito e pagamento di false note di debito: solo nel corso dell'anno 2007, per servizi di assistenza spirituale che avrebbe reso ai profughi, ha ricevuto 132 mila euro. Don Scordio, ritenuto il gestore occulto della Confraternita della Misericordia, è emerso quale organizzatore di un sistema di sfruttamento delle risorse pubbliche destinate all'emergenza profughi, riuscendo ad aggregare le capacità criminali della cosca Arena e quelle manageriali di Leonardo Sacco al vertice della citata associazione benefica, da lui fondata. Sotto la lente degli investigatori la Quadrifoglio srl di Pasquale Poerio, cugino del presidente della ditta 'la Vecchia Locanda' che fino al 2011 si occupava del catering per i migranti ospiti del Cara. Un contratto rescisso in fretta e furia quando i contatti del presidente Antonio Poerio con uomini della 'ndrangheta locale hanno indotto la prefettura a sospendere il certificato antimafia alla società. A sostituirla - e forse non a caso - con quella del cugino. Ma questi non sarebbero gli unici rapporti "imbarazzanti" del presidente Sacco. Per gli investigatori, non è per nulla casuale che il capannone della protezione civile della Misericordia sia quello un tempo appartenuto a Pasquale Tipaldi, uomo di spicco del clan Arena ucciso nel 2005, e oggi ancora in mano ai suoi parenti. Rapporti che per lungo tempo Sacco sarebbe riuscito a tenere sotto traccia, mentre non esitava a mostrarsi in compagnia di politici e uomini delle istituzioni. Considerato vicino alla parlamentare Dorina Bianchi, come alla famiglia dell'attuale ministro degli Esteri, Angelino Alfano, qualche anno fa Sacco è finito nell'occhio del ciclone per aver indicato Lorenzo Montana, cognato del fratello di Alfano, per dirigere la struttura di Lampedusa. Un incarico che l'uomo, funzionario dell'Agenzia delle Entrate, dunque senza esperienza per quel ruolo, non ha ricoperto per molto. Si è dimesso poco dopo a causa delle polemiche. Anche in Calabria però Sacco ha sempre goduto di stima, protezione e potere, tanto da entrare - in quota politica - all'interno del Cda della società che per lungo tempo ha gestito l'aeroporto di Crotone. L'inchiesta "Johnny" del procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri e dell'aggiunto Vincenzo Luberto ha scoperto che proprio l’elevato flusso di finanziamenti pubblici riservati all’emergenza migranti ha finito per costituire la principale motivazione della pax mafiosa tra le cosche Arena e Dragone contrapposte ai Nicoscia e Grande Aracri che, nel primo decennio del 2000, si erano rese protagoniste di un cruento conflitto degenerato in numerose uccisioni e scontri a fuoco. La faida, infatti, cessava proprio quando andava a regime il sistema di drenaggio di denaro pubblico derivato dagli appalti per la gestione del centro accoglienza e le risorse venivano così spartite tra le famiglie mafiose.

Mafia onlus, scrive Barbara Di su “Il Giornale” il 16 maggio 2017. La mafia va dove c’è ampio margine di guadagno. Da sempre hanno un fiuto per gli affari impareggiabile. Che sia droga, prostituzione, usura, scommesse o pizzo, quando c’è da guadagnare tanto loro non mancano mai. D’altronde sono ambiti dove l’evasione fiscale è inevitabile e sistematica per cui il guadagno è triplo rispetto ai tartassati italiani. Non puoi mica far fattura per la cocaina. Ma di certo sono decenni che non si accontentano delle loro attività illecite tradizionali e spaziano dove possono trovare guadagni facili con la minima spesa. E guarda caso ci sta sempre di mezzo il denaro pubblico. Continuano ad analizzare il fenomeno dal punto di vista di Cantone e Travaglio, quello dei politici corrotti, della normativa sugli appalti sempre più folle che, nell’illusione di aggirare le infiltrazioni mafiose, serve solo a far impazzire gli imprenditori che vorrebbero lavorare onestamente e si trovano sommersi da mille scartoffie e controlli tanto asfissianti quanto inutili a combattere la mafia. E se invece lo analizzassimo per una volta dal lato dei mafiosi? Forse allora capiremmo che il problema non è la mafia che si infiltra, ma proprio l’appalto pubblico in sé. Il mafioso in fondo è un imprenditore, un soggetto che organizza un’attività per trarne un profitto, con la sostanziale differenza dell’assenza di morale legata allo sprezzo del pericolo di essere punito per le attività illecite. Da qui l’enorme avidità che lo porta a lucrare con ampi margini di profitto nel breve periodo, riducendo al minimo le spese, fornendo beni e servizi di pessima qualità e ottenendo così il massimo del guadagno, anche perché sa di farla per lo più franca in Italia. Quanto durerebbe sul libero mercato un imprenditore del genere? Lo spazio di un appalto privato. Per quel poco che ancora conta la reputazione nell’asfittica economia italiana, sarebbe ben difficile che un cliente privato non si accorgesse subito che lo stanno fregando con materiali scadenti o con lavoratori incapaci. Magari eviterebbe di fargli causa, che in Italia ormai non serve a nulla, ma quanto meno interromperebbe il rapporto, bloccherebbe i lavori e i pagamenti, eviterebbe di tornare a fornirsi da lui e spargerebbe la voce. Non sono mica fessi i mafiosi, non se la rischiano sul mercato. Ecco perché fanno affari con lo Stato e le amministrazioni pubbliche. Là c’è il più alto tasso di irresponsabilità di chi ha in mano il denaro, proprio perché non gestisce i suoi soldi, ma i nostri. Perciò il modo definitivo e più rapido di combattere le infiltrazioni mafiose sarebbe molto semplicemente quello di eliminare gli appalti pubblici. Tout court. Ma al di là di questa banale evidenza, che sfugge ai più, il dato più significativo degli arresti di ieri per il Cara di Crotone non è che fosse in mano alla ‘ndrangheta, ma che ci sia ancora qualcuno che si stupisce. Sono appalti pubblici, tanto quanto gli altri. Anzi, ancora più lucrosi, perché con la scusa dell’emergenza continua e sistematica vengono affidati con ancora più facilità, con meno finti controlli e soprattutto con ampi margini di guadagno facile. E se le mafie ci si infiltrano è una garanzia che i guadagni siano alti, altrimenti non ci perderebbero nemmeno tempo. Ecco, semmai io mi indignerei proprio di questo, non che i mafiosi si infiltrino, che in fondo fanno il loro sporco mestiere e non hanno mai avuto l’ipocrisia di negarlo, ma che lo stesso margine di guadagno lo abbiano le onlus, quelle organizzazioni che per statuto, per legge e per denominazione dovrebbero essere senza scopo di lucro. Ci hanno sfrantumato le orecchie con la loro carità pelosa, hanno un regime fiscale ridicolo, pontificano a destra e a manca, ci fanno la morale, ci tacciano di razzismo ogni minuto, demonizzano chiunque osi mettere in dubbio la loro attività che spacciano per beneficenza, pretendono di insegnarci la bontà, il disinteresse, l’altruismo, ma non sono altro che prenditori di denaro pubblico. Come mafiosi qualsiasi si infiltrano negli appalti per lucrare con il margine di guadagno maggiore possibile nell’ultima delle mangiatoie statali ancora disponibili. Che abbiano almeno la compiacenza di risparmiarci la loro ipocrisia smisurata.

"Ai negri tre euro e 50 A Sacco e al prete 400mila in contanti". Gli affari dei clan nelle telefonate degli arrestati "Pane secco tutti i giorni. La frutta? Era marcia", scrive Chiara Giannini, Martedì 16/05/2017, su "Il Giornale". Che affari, gli immigrati. Le creste sul cibo, i fondi per l'accoglienza che piovono a milioni, gli appalti e i subappalti. Controllava tutto, il clan. Isola Capo Rizzuto era il dominio. E il Cara - il più grande d'Europa - una gallina dalle uova d'oro. È il 16 novembre 2015. Antonio Poerio, socio occulto del Quadrifoglio (società che gestisce il catering del Cara) è al telefono con un non meglio identificato Vincenzo. Si parla di cibo. Cibo che sarebbe meglio buttare.

Vincenzo: «eh Antò, si stanno lamentando che il pane tutti i giorni è duro. La frutta non è buona che entrano i marocchini e noi dobbiamo cacciarli fuori... O glielo dici tu o ci litigo».

Poerio: «Ma chi è che si lamenta?»

V: «Rossana e come ti chiami tu Eugè chi è che sta dicendo dice che devo cacciare i marocchini? Lo vedi qua gridano cosa devo fare prendo e me ne vado o ci litigo e ammazzo qualcuno».

Altra intercettazione, ancora Antonio Poerio. Il dialogo con due interlocutori (C e M) finisce sul guadagno che si può ricavare dalle macchinette che distribuiscono cibo, snack e dolci. Alimenti da pochi euro. Ma il punto è un altro: da un lato ci sono i guadagni dei malavitosi. Dall'altro, i pochi spiccioli in mano agli ospiti del Cara.

C: «C'è n'è molto guadagno con queste macchinette qua?»

A: «Ci guadagni il doppio... Tu, una busta di patatine la paghi 20 centesimi e la cinquanta o sessanta centesimi... quanto ci guadagni? Una Cocacola sai quanto costa in lattina? 20 centesimi ... quindici, venti».

C: «E al bar la vendono un euro e cinquanta».

A: «Lascia stare che quelle del bar costano un po di più di queste qua... e tu la vendi ottanta... certe cose dolci Marì... quei tronchetti di brioche».

M: «Sì».

A: «Di trecento grammi... quelli li paga a settantacinque... ottanta... una cosa di queste... due euro».

M: «Nel campo?»

A: «Sì».

M: «E i negri dovrebbero comprarseli... I negri... gli toccano due euro e cinquanta o tre euro e cinquanta il giorno... tre e cinquanta... hanno una scheda loro... prima glieli doveva dare la misericordia tutte queste cose... adesso pure glieli deve dare la Misericordia... pero' là una volta gli arrivavano è un bordello... la prefettura ogni volta faceva un bordello... come se non gliene davano... adesso invece una volta che ti carichi la scheda... poi tu vai e te la scarichi la scheda... e ti prendi quello che vuoi... la scheda del telefono... la cosa... e quindi... possono spendere quel... quanto vogliono... quanto vuoi... tre euro e cinquanta al giorno... però sull'appalto se lo gestiva la Misericordia... loro quanto comprano, devono vendere... non ci deve essere...».

A: «Guadagno».

M: «Guadagno... invece questi qua... alla misericordia gli fatturano già finito... guadagni hai capito...».

A: «Ahhh».

M: «Quindi la misericordia è pulita... per i fatti suoi... cosa guadagna la misericordia? Lo sponsor della squadra... centoquarantamila euro... centoventi... cento... centoquarantamila euro l'anno... ieri mi ha detto a me... Tonino vedi tu quanto ti devo dare ... la cosa... gli ho detto Leonà... tu a me vedi alla fine... come guadagni... poi ti regoli sul guadagno... come dici tu ... come dici tu ... vabbè».

In una conversazione tra Francesco Cantore e Antonio Poerio i due discutono delle spettanze di lavoro di Paola, compagna del primo, che lavorava al Centro di accoglienza. Cantore è preoccupato del fatto che la compagna potesse essere licenziata. La donna, infatti, era in malattia da molto tempo e voleva che Poerio intervenisse in suo favore, assieme a Leonardo Sacco. Mica facile, però. Poerio accampa qualche scusa. C'è la crisi economica, dice. Ma una strada si trova sempre. Ed è la strada che conduce ai palazzi del potere. Spuntano nomi di politici. E una foto con il ministro Alfano.

A: «Il problema qua l'hai visto come ti fanno?»

F: «Ehh...»

A: «Ti fanno demoralizzare... ti fanno demoralizzare».

F: «Il coso là, l'Espresso...».

A: «Ehh, hai visto?»

A: «'Sti figli di puttana».

F: «Ormai i processi li fanno solo i giornalisti».

A: «Ma sono 10 anni, ma... 10 anni, no?»

F: «A quella Raggi (il sindaco di Roma, ndr) gli stanno facendo tante di quelle cose».

A: «Uhh, poverina a quell'altra cazza di ragazza».

F: «La miseria... i giornalisti».

A: «Ma quelli lo fanno, glielo fanno apposta... allora come?»

F: «Ma comunque va, speriamo bene... tutto passa».

A: «Eh, ma qua ogni anno ci attaccano a noi».

A: «No, il problema è che ora ci saranno le elezioni prossimamente».

F: «Eh».

A: «Se non sono questo anno saranno l'anno che viene, quindi...».

F: «eh, quindi...».

A: «Ad Alfano (il ministro degli Esteri, ndr) lo vogliono proprio buttare a terra».

F: «Sì, sì».

A: «Ma vedi che non è che teniamo la fotografia con Totò Riina».

F: «E infatti».

A: «Io tengo la fotografia con un Ministro... ma chi cazzo non la vorrebbe una fotografia con un Ministro, scusa?»

F: «Eh, eh, eh, scusa...»

A: «Ma onestamente con un Ministro della Repubblica».

F: «Allora Di Pietro (l'ex ministro e magistrato, ndr), coso, non aveva fotografie con 'ndranghitisti e cosi?!».

A: «No ma io non è che ce l'ho».

F: «Ehe...».

A: «Io ce l'ho con un Ministro compà ma stiamo coglioneggiando? E poi dove ce l'ho sta condotta macchiata?».

F: «Ma poi scusa un poco, un Ministro...».

A: «Una cazza di pistola fradicia di merda io tenevo...».

F: «Ma poi un Ministro... oppure una persona normale... quando parla con una persona gli deve chiedere la carta d'identità e tutto?».

A: «No aspetta... noi a quella cosa, a quella cena che siamo andati, prima di andare, dieci giorni prima abbiamo mandato i nostri documenti... la loro... il loro ufficio accertano chi sono io, chi è quello, quello e quell'altro».

F: «Evidentemente non c'era niente».

A: «E hanno visto che io ero buono... ch ... ma lo vedi che lui neanche replica? Il Ministro... che cazzo gliene frega a lui?!».

F: «Sì».

A: «Lo attaccano tutti i giorni a tutti i cazzi... guarda ora stavo leggendo del padre di Renzi (l'ex premier, ndr)».

F: «Ah, sì ora».

A: «Lo hanno fatto per influenza... meh denunciato per influenza...e influenza di che? Ha una febbre? Perché dato che era influente può darsi che andavi là e andava là».

La gestione del campo - si legge ancora dalle carte - è un pozzo di guadagni. Così tanti che è possibile «girare» 400mila euro in contanti nelle tasche giuste. Ne parlano Antonio Frustaglia e Angelo Muraca.

M: «no, come mi chiamano gli dico... quei quattrocentomila euro dove li hai messi? A Leonardo Sacco e al prete (Don Edoardo Scordio, ndr). Se li dovevano dividere loro. Glieli ho presi liquidi e glieli ho dati a loro».

La sporca storia della 'ndrangheta e del Cara di Isola Capo Rizzuto. Don Edoardo Scordio, quel prete antimafia che riciclava in Svizzera i soldi destinati all’accoglienza migranti, scrive Patrizia Vita il 16 maggio 2017 su “L’eco del Sud". Che i migranti fossero un affaire da centinaia di milioni di euro per chi se ne occupa, è cosa risaputa da tempo. Bando a questioni umanitarie, di dovere, c’è un fiume di denaro che scorre impetuoso sulla gestione della loro accoglienza. Quello che, nonostante tempi che non assolvono nessuno, stupisce ancora un po’ è che dietro l’inchiesta della DDA di Catanzaro, indagini affidati ai Ros dei Carabinieri, ci sia un prete considerato Antimafia. Antimafia sino a ieri, quando don Edoardo Scordio, parroco della Chiesa dell’Annunziata di Isola Capo Rizzuto, è stato arrestato, accusato di avere gestito a proprio uso e consumo il flusso di denaro destinato all’accoglienza, in pratica di farsi pagare l’assistenza spirituale ai migranti. L’arresto è scattato nell’ambito di una operazione che ha scardinato un sistema in mano alla ‘Ndragheta, in particolare al clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Le accuse a carico dei 68 indagati, a vario titolo, sono: associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegali di armi, malversazione ai danni dello Stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture. Secondo i Ros, “il Cara di Sant’Anna e la Misericordia di Isola Capo Rizzuto erano il bancomat della mafia”. Con don Scordio è stato arrestato anche Leonardo Sacco, gestore del centro Cara, uno dei più grandi d’Europa, con una disponibilità di 1216 posti.

Ma chi è don Edoardo Scordio? Molto amato dalla sua comunità, negli anni ’80 il parroco divenne noto per la sua lotta alla ‘ndragheta’. Famose le sue omelie in piazza contro il crimine organizzato. Non c’era funerale di vittime di agguati mafiosi nel quale, alto, non si levasse il suo sdegno contro chi aveva perpetrato quel vile attacco alla vita umana. Poi, posero un ordigno sotto la sua vettura e, probabilmente, fu la fine della sua battaglia al crimine organizzato. Chi è, per l’accusa, don Edoardo Scordio? Un ‘mammasantissima’, affiliato al clan Arena, che aveva allungato le mani sul Cara di Isola capo Rizzuto. Su oltre duemila pagine dell’ordinanza della “operazione Jonny’, sugli affari del clan Arena con la Misericordia dell’Isola di Capo Rizzuto emerge la figura di Don Edoardo Scordio. Insomma, per gli inquirenti, quel battagliero parroco di paese che durante le processioni badava bene che non sfilassero personaggi in odor di mafia, lui con la mafia era un tutt’uno, capace di gestire un ingente flusso di denaro – quasi 32 milioni di euro sui 100 stanziati da parte del ministero dell’Interno dal 2006 – per un centro di accoglienza per richiedenti asilo che fruttava parecchio. Per l’accusa, inoltre, don Scordio riciclava il proprio denaro in Svizzera, dove vive suo fratello.

Così parlò Leonardo Sacco. "Non Santo" ma vicino alla santità, anche Leonardo Sacco, governatore della ‘Misericordia’: “Abbiamo i nostri limiti e i nostri difetti e commettiamo i nostri errori. Non siamo immacolati, puri e santi, però cerchiamo almeno di portare avanti quello che ci viene affidato e di utilizzare i soldi che lo Stato mette a disposizione per la gestione di questi centri nel modo più corretto possibile in un territorio difficile”. Sacco così parlava audito dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza e di identificazione nel luglio 2015.

Tutti gli interessi della Misericordia. Non solo di accoglienza migranti si occupa l’associazione finita nel mirino della magistratura. Oltre alla gestione del Cara di Sant’Anna, dei centri di Lampedusa e dei centri Sprar Oasi del Mediterraneo e Oasi dello Ionio, l’associazione si è ramificata in vari settori: scuole, turismo, centri anziani e disabili, più una partecipazione all’aeroporto di Crotone. Un impero da quasi 20 milioni di euro, sul quale adesso sono accesi i riflettori della DDA di Catanzaro, con al centro un parroco antimafia.

Don Scordio, da eroe antimafia alle manette. Il prete simbolo della lotta ai clan prendeva 132mila euro per assistere i migranti, scrive Andrea Cuomo, Martedì 16/05/2017, su "Il Giornale".  Uno che si chiama Scordio non deve avere la memoria tra le sue virtù. E quindi può permettersi di trasformarsi, per pura dimenticanza, da paladino antimafia a «don» colluso con la cosca. Don Edoardo Scordio, arrestato ieri nell'operazione della dda sul Cara di isola Capo Rizzuto trasformato in bancomat del clan Arena. E’ un settantenne occhialuto, dal sorriso timido ma contagioso. Un rosminiano convinto, superiore e parroco della Chiesa di Maria Assunta (altrimenti detta Ad Nives) a Isola Capo Rizzuto, a cui fu spedito esattamente quarant'anni fa dal profondo Nord con il compito di «ricostruire il tessuto sociale del territorio», come lui stesso raccontò a UnoMattina nell'ottobre del 2011. Uno che negli anni Ottanta, l'età dell'oro della criminalità organizzata, si dava da fare per guarire il suo territorio infetto dal virus della ndrangheta. Fiaccolate, omelie, prese di posizioni dure. Un curriculum specchiato che lo portò nel 2004 a licenziare un «decalogo della libertà dalla ndrangheta» che fece epoca. Tra gli articoli: rifiutare la regola dell'onore offeso da lavare con il sangue, evitare qualsiasi patto di sangue, non prestare il proprio nome per intestazioni fittizie. Il manualetto gli consentì anche di appuntarsi al petto la medaglia più pregiata, quella della vittima di un'intimidazione, un bell'ordigno piazzato davanti casa sua. Non esplose, ma il messaggio fu chiaro e ne fece una specie di apprendista martire. Leggete quello che scrisse di lui Avvenire nel non lontano 2011: «Nel 1977 arriva a Capo Rizzuto un rosminiano, padre Edoardo, che sceglie, con pericolo della vita, di sfidare platealmente la mafia anno dopo anno, mese dopo mese, per insegnare ai ragazzi che anche in Calabria si può crescere liberi. Egli fa capire che il sopruso e la violenza si possono combattere solo con una denuncia forte e decisa e continuato a farlo attraverso le sue omelie». Un eroe. Un uomo. Un prete. Coraggioso. Che però non tutti amavano in quell'angolo di Calabria. Molti denunciavano le sue frequentazioni con i mammasantissima della zona, alcuni ricordavano quel funerale celebrato per Carmine Arena detto «Cicalu», assassinato nel 2004 a colpi di kalashnikov e di lanciarazzi Rpg7 da un commando di un clan rivale. Qualcuno andava indietro con la memoria fino al 1996 e alle nozze di Raffaella Arena, figlia del boss Nicola, finite invece che con il lancio del bouquet con un blitz dei carabinieri a caccia di latitanti tra gli invitati. Altri trovavano quanto meno riprovevole che don Scordio avesse ricevuto nel solo 2007 ben 132mila euro dalla società di gestione del Cara come rimborso spese per servizi di «assistenza spirituale». Lo stipendio di un amministratore delegato della misericordia.

Quando Gratteri elogiava don Scordio, scrive Stefano Arduini il 16/05/2017, su "Vita". Il magistrato che ha lanciato l'operazione Jonny contro il clan Arena che controllava il Cara di Crotone nell'ottobre del 2013 dava alle stampe un libro sui rapporti fra chiesa e 'ndrangheta nel quale fra i religiosi citati come esempi positivi compariva don Edoardo Scordio oggi fermato e accusato di crimini gravissimi insieme all'ex governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto.

Incipit del capitolo VI di “Funerali e Matrimoni” dal libro Acqua Santissima- la chiesa e la ‘ndrangheta: storie di potere silenzi e assoluzioni”: «Se feste e processioni servono per garantire ai clan legittimazione e consenso sociale, i funerali rappresentano il giusto tributo a boss e picciotti, ricordati più come benefattori che come criminali». Seguono i racconti dell’ultimo saluto ad alcuni dei nomi più in vista delle ‘ndrine calabresi: fra gli altri quello del crotonese Luigi Vrenna («i suoi funerali vengono officiati nella chiesa di san Francesco da due preti fra cui un cugino del boss» o quello di Girolamo “Mommo” Piromalli «celebrato nella chiesa parrocchiale si Sant’Ippolito in piazza Duomo a Gioia Tauro». Continua il libro, riferendosi alla benevolenza con alcuni religiosi avevano celebrato i funerali dei capo clan: «Non tutti però si comportavano alla stesso modo. Chi per esempio? «Don Pino Demasi, vicario generale della diocesi di Oppido Palmi e referente territoriale di Libera» che «prendendo atto delle disposizioni del questore che decide di vietare lo svolgimento dei funerali in forma pubblica, non fa entrare in chiesa, neanche per la benedizione, la salma di Domenico Alvaro, detto Micu u Scagghiuni, boss di Sinipoli, morto il 26 luglio 2010 nel suo letto all’età di 85 anni».

Il 29 agosto 2001 esplode una bomba carta sotto le finestre di don Edoardo Scordio…Don Scordio noto per le sue coraggiose omelie ai funerali di alcuni mafiosi della zona, è un prete che riesce ad attrarre intorno a sé moltissimi giovani, con i quali fonda importanti movimenti di volontariato. Sono don Scordio e i suoi giovani ad ispirare il film “Il coraggio di parlare di Leandro Castellani, tratto dall’omonimo romanzo di Gina Basso. Qualche pagina più in là. «Stessa tempra di don Demasi, dimostra molto prima, a Isola Capo Rizzuto, don Edoardo Scordio, parroco della chiesa dell’Assunta. In occasione dell’omicidio di Domenico Maesano, avvenuto il 9 ottobre del 1988, non perde l’occasione di bacchettare i presenti: “Invece di vedervi qui, spettatori muti e rassegnati oltre che schiavi delle bravate e della tirannia delle famiglie che hanno comodamente preso assoluto possesso di questo territorio, sarebbe stato tanto nobile e dignitoso vedervi radunati in piazza magari solo con un cartello con scritto NOI NON CI STIAMO”. Ancora da Acqua santissima: «Il 29 agosto 2001 esplode una bomba carta sotto le finestre di don Edoardo Scordio…Don Scordio noto per le sue coraggiose omelie ai funerali di alcuni mafiosi della zona, è un prete che riesce ad attrarre intorno a sé moltissimi giovani, con i quali fonda importanti movimenti di volontariato. Sono don Scordio e i suoi giovani ad ispirare il film “Il coraggio di parlare di Leandro Castellani, tratto dall’omonimo romanzo di Gina Basso». Acqua santissima è uscito per Mondadori il 29 ottobre del 2013. A firmalo il giornalista, saggista Antonio Nicaso e il magistrato Nicola Gratteri, entrambi considerati a ragione fra i massimi esperti di 'ndrangheta nel mondo. Nicola Gratteri, come noto, nella veste di procuratore capo della Direzione Distrettuale Antimafia sta coordinando l’operazione Jonny che ha portato al fermo di don Scordio e di Leonardo Sacco, rispettivamente correttore e governatore della Misericordie di Isola Capo Rizzuto, forse il maggiore gruppo di volontariato ispirato da Scordio. Così il comunicato emesso dalla questura di Crotone (qui la versione integrale): «…Più specificamente è stato documentato come la cosca Arena, attraverso l'operato di Sacco Leonardo – governatore dell'associazione di volontariato "Fraternità di Misericordia" di Isola di Capo Rizzuto, nonché presidente della Cofraternita Interregionale della Calabria e Basilicata - si sia aggiudicata gli appalti indetti dalla Prefettura di Crotone per la gestione dei servizi - in particolare quello di catering - relativi al funzionamento del centro di accoglienza richiedenti asilo "Sant'Anna" di Isola di Capo Rizzuto e di Lampedusa, affidati in sub appalto a favore di imprese appositamente costituite dagli Arena e da altre famiglie di 'ndrangheta per spartirsi i fondi destinati all'accoglienza dei migranti. In particolare, le indagini hanno documentato come le società di catering riconducibili ai cugini Poerio Antonio e Fernando, nonché a Muraca Angelo, dal 2001 abbiano ricevuto, inizialmente con la procedura dell'affidamento diretto e successivamente in subappalto, la gestione del servizio mensa del centro di accoglienza isolitano la cui conduzione era stata ottenuta dall'associazione di volontariato "Fraternità di Misericordia": sino al 2009 in via d'urgenza, in ragione dello stato di emergenza dovuto all'eccezionale afflusso di extracomunitari che giungevano irregolarmente sul territorio nazionale;

dal 2009 a seguito di tre gare d'appalto vinte. Al riguardo, le indagini hanno evidenziato come l'organizzazione criminale, al fine di neutralizzare le interdittive antimafia che nel tempo avevano colpito le proprie società' di catering, avesse provveduto più volte a mutamenti della ragione sociale e dei legali rappresentanti delle aziende controllate, proprio per mantenere inalterato il controllo della filiera dei servizi necessari al C.A.R.A. E' stato pertanto documentato l'imponente flusso di denaro pubblico percepito dalle imprese riconducibili alla cosca nell'arco temporale 2006 - 2015 per la gestione del CARA di Isola di Capo Rizzuto, pari a 103 milioni di euro, dei quali almeno 36 milioni di euro utilizzati per finalità diverse da quelle previste (quelle cioè di assicurare il vitto ai migranti ospiti nel centro) e riversati invece, in parte nella c.d. "bacinella" dell'organizzazione per le esigenze di mantenimento degli affiliati, anche detenuti, e in parte reimpiegati per l'acquisto di beni immobili, partecipazioni societarie e altre forme di investimento in favore del sodalizio. Le ingenti somme da destinare all'organizzazione mafiosa venivano fatte confluire alla cosca sia con ripetuti prelievi in contante dal conto della "Misericordia" e delle società riconducibili agli indagati, sia attraverso erogazione di ingenti somme a fini di prestito, sia ancora attraverso pagamenti di inesistenti forniture, false fatturazioni, acquisto di beni immobili per immotivate finalità aziendali. In tale quadro, una somma consistente veniva distribuita indebitamente al sacerdote, don Scordio Edoardo, parroco della Chiesa di Maria Assunta, a titolo di prestito/contributo e pagamento di asserite note di debito: solo nel corso dell'anno 2007, per servizi di assistenza spirituale che avrebbe reso ai profughi, ha ricevuto 132 mila euro. In particolare, don Scordio, gestore occulto della Confraternita della Misericordia, è emerso quale organizzatore di un vero e proprio sistema di sfruttamento delle risorse pubbliche destinate all'emergenza profughi, riuscendo ad aggregare le capacità criminali della cosca Arena e quelle manageriali di Leonardo Sacco al vertice della citata associazione beneficala lui fondata…».

Sul centro di accoglienza crotonese "dieci anni di malaffare" gestiti dalla cosca Arena. Ecco i personaggi coinvolti: dal manager "amico" dei potenti al parroco avido, scrive il 16 maggio 2017 Panorama. C'è una cosca potente e storica della 'ndrangheta del crotonese, gli Arena. E poi c'è il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (Cara) più grande d'Europa, capace di ospitare 1.216 migranti, quello del paese crotonese di Isola Capo Rizzuto. Il risultato è un film già scritto? Il Cara diventa il "bancomat della mafia" e agli ospiti viene servito "cibo per maiali" (per lo meno a quei fortunati che riescono a ricevere qualcosa da mangiare). 

Complici: il giovane manager che amava farsi fotografare coi potenti d'Italia, di destra e di sinistra (Renzi, Berlusconi, Alfano, papa Benedetto incluso), e il prete che più che buon pastore era un avido lupo. Ovvero Leonardo Sacco, governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, e don Edoardo Scordio, parroco della Chiesa di Maria Assunta. Questa la lorda trama ricostruita dall'inchiesta Jonny (dal nome di un maresciallo del Ros stroncato da un male incurabile mentre stava indagando), che all'alba del 15 maggio ha portato al fermo di 68 persone della cosca Arena, tra cui Sacco e don Scordio. Il Cara di Isola Capo Rizzuto ha vissuto "dieci anni di malaffare", come ha detto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. È stato gestito in modo mafioso dalla famiglia Arena, generando uno spaccato talvota "raccapricciante". Più pulp di una pellicola di Tarantino. Fino al 2006 il Cara era gestito dal Comune di Isola Capo Rizzuto, ma alla scadenza del bando il Comune, guidato da tre commissari straordinari dopo lo scioglimento per infiltrazione mafiosa, non partecipò ulteriormente. Fu allora che subentrò la Misericordia locale, che avrebbe stretto un patto sporco con la cosca Arena.  La 'ndrina si sarebbe aggiudicata gli appalti indetti dalla Prefettura di Crotone per le forniture dei servizi di ristorazione al centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto e di Lampedusa. Su 103 milioni di euro erogati dallo Stato dal 2006 al 2015 per il Cara di Isola Capo Rizzuto, la 'ndrangheta ne avrebbe distratti almeno 36 milioni, usati per finalità ben diverse da quella originaria di assicurare il vitto ai migranti del centro. Soldi, soldi, soldi, impiegati nell'acquisto di beni immobili, partecipazioni societarie e altre forme di investimento, tanto che, soltanto il Ros, ha sequestrato beni per 70 milioni di euro, tra i quali un ex convento, alberghi e società di viaggio, auto di lusso e barche. Dai filmati e dalle intercettazioni ambientali risulta che al Cara il cibo non bastava per tutti e quello che c'era era di pessima qualità: "Spesso era quello che solitamente si dà ai maiali", ha denunciato Gratteri. 

Il ruolo di Leonardo Sacco. Pedina centrale di questi affari nerissimi Leonardo Sacco, imprenditore legato ad ambienti politici di vari schieramenti, in passato anche vicepresidente nazionale della Misericordia. In qualità di governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, avrebbe permesso agli Arena di inserirsi nel business, consentendo a ditte create ad hoc di aggiudicarsi gli appalti non solo per il Cara di Isola Capo Rizzuto ma anche per quello di Lampedusa. In queste trame viscose gli Arena erano comunque in buona compagnia: anche altre cosche si spartivano i soldi. Il Cara è stato strumento di pace, sì, della pax mafiosa siglata nel 2004 da 'ndrine che fino a poco prima si combattevano a colpi di bazooka. "Il Centro di accoglienza e la Misericordia di Isola Capo Rizzuto erano il bancomat della mafia", ha detto il comandante del Ros Giuseppe Governale. "La 'ndrangheta presceglie i suoi uomini e li fa lavorare per i propri interessi". 

Il ruolo di don Scordio. Un altro "prescelto" sarebbe stato don Edoardo Scordio, gestore occulto della Misericordia. Più ancora di Sacco, sarebbe stato l'organizzatore di un vero e proprio sistema di sfruttamento delle risorse pubbliche destinate all'emergenza profughi. Secondo gli inquirenti avrebbe riunito in sé le capacità criminali degli Arena e quelle manageriali di Sacco. A lui, solo nel 2007, sono andati 132 mila euro: si trattava di soldi destinati all'acquisto di giornali per i migranti, ma visto che i giornali si deteriorano - questa la sua giustificazione - meglio destinarli a proprio conto per servizi di assistenza spirituale. Secondo le accuse don Scordio avrebbe anche avuto la capacità di riciclare denaro in Svizzera grazie al fratello che vi risiede. "Questo parroco ha dato indicazione di una doppia vita, di una vita al servizio di chi per tanti anni, per troppo tempo, ha messo sotto i propri piedi la gente di questa terra", le parole di Governale. "Abbiamo documentato centinaia di migliaia di euro per il prete, che aveva un ruolo importante", ha aggiunto Gratteri, secondo cui "quella dei preti conniventi è una situazione a macchia di leopardo". 

Crotone, il business della ‘ndrangheta sulla pelle dei migranti. Arrestati il governatore della Confraternita Misericordia e il parroco di Isola Capo Rizzuto. Il clan Arena sarebbe entrato nella gestione del Cara più grande d’Europa attraverso la Confraternita, che gestisce un business milionario, anche in un immobile confiscato, scrive Lidia Baratta il 15 Maggio 2017 su "L’Inkiesta”. Isola Capo Rizzuto era diventata l’isola del tesoro per la Confraternita Misericordia. Un tesoro nascosto tutto nel Centro di accoglienza per i richiedenti asilo di Crotone, il Cara più grande d’Europa. In grado di attirare milioni di euro di fondi Ue. E anche le attenzioni della ‘ndrangheta, che dal 2006 al 2015 solo con il business dei migranti a Crotone avrebbe incassato 36 milioni di euro. Secondo l’ultima inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, la potente cosca Arena aveva ormai in mano la gestione dell’hub per l’accoglienza crotonese attraverso la testa di ponte della Confraternita Misericordia, che da dieci anni gestisce la struttura da 1.216 posti. L’ipotesi è che il clan si sia infiltrato nel settore aggiudicandosi gli appalti indetti dalla Prefettura di Crotone per le forniture dei servizi di ristorazione, «affidati a favore di imprese appositamente costituite dagli Arena e da altre famiglie di ‘ndrangheta per spartirsi i fondi destinati all’accoglienza dei migranti». Tra le 68 persone finite agli arresti nell’operazione “Jonny”, ci sono Leonardo Sacco, presidente della sezione Calabria e Basilicata della Confraternita, e anche il parroco del paese, don Edoardo Scordio, storico fondatore della Misericordia, entrambi accusati di associazione mafiosa. Sacco avrebbe stretto accordi con Scordio per accaparrarsi i subappalti del catering del centro. Chiesa e impresa andavano a braccetto nel nome dell’accoglienza dei migranti. «Cinquecento migranti dovevano pranzare, ma al campo arrivavano 250 pasti», ha spiegato procuratore della Dda di Catanzaro Nicola Gratteri. «I restanti migranti o mangiavano la sera o addirittura non mangiavano. E tutto questo mentre il prete, Sacco e i loro amici si ingrassavano e compravano auto di lusso, appartamenti e barche». Il Centro di accoglienza e la Misericordia erano ormai «il bancomat della ‘ndrangheta». Già nel 2013 sulla struttura era stata aperta un’indagine proprio sui numeri dei pasti consegnati al centro di accoglienza. Dai registri veniva fuori che il Cara ospitava 1.600 persone, ma nei furgoni del catering c’erano meno della metà dei pasti. Dichiarando presenze maggiori – avevano ipotizzato gli inquirenti – nelle casse arrivavano maggiori profitti. E anche stavolta sarebbero stati i pasti il grimaldello per fare soldi. Secondo gli inquirenti, Sacco poteva contare sulla ditta “La Vecchia Locanda”, che fino al 2011 gestiva l’appalto della fornitura di pasti nel centro di accoglienza, salvo poi perderlo quando la prefettura ritirò il certificato antimafia per i contatti sospetti del presidente Antonio Poerio con la ’ndrangheta. La commessa poi era passata nelle mani della ditta del cugino di Poerio. Gli investigatori hanno calcolato un totale di 2,8 milioni distratti, con finalità che non avrebbero a che fare con l’accoglienza dei migranti. Un business milionario, quello della Misericordia, che sul territorio dà lavoro a circa 280 persone. La Fraternita ha un bilancio da 17 milioni di euro, a cui vanno aggiunti i ricavi della Miser.Icr, l’impresa sociale controllata al 100%, più che raddoppiati dal 2014 al 2015: da 800mila euro circa nel 2014 a oltre 2,2 milioni di euro nel 2015. E tutto “grazie” ai migranti stipati nel Cara. Secondo gli investigatori, l'affare veniva però spartito tra diverse famiglie mafiose della zona, tanto che il sospetto è che l’apertura del Cara undici anni fa abbia portato anche alla pax mafiosa tra chi prima non esitava a spararsi addosso. La struttura del Cara si trova proprio di fronte all’aeroporto di Crotone, che la stessa Misericordia ha contribuito a salvare erogando un contributo di circa 50mila euro, siedendo anche nel cda. Ma non è l’unica diversificazione negli investimenti, visto che la Misericordia nel 2014 ha acquisito anche la squadra di calcio del paese, la Polisportiva ICR, appena promossa in D, presieduta da Leonardo Sacco e gestita in passato dagli Arena. La Fraternita gestisce pure quattro progetti Sprar, una struttura per adulti e tre per minori non accompagnati. Oltre a un micronido, una materna, e scuole elementari e medie. E persino un centro per disabili, in un immobile confiscato guarda caso proprio al clan Arena. A capo dell’impero c’è Leonardo Sacco, una figura in grado di tessere relazioni su diversi livelli, fino addirittura al Papa. Le indagini degli inquirenti su di lui sarebbero partite da una fotografia che lo ritrae al battesimo del figlio di un membro del clan Arena in veste di padrino. Non solo. Come aveva raccontato L’Espresso, Sacco comparirebbe anche in una riunione del clan Arena del 2005. Ma il suo album fotografico con personalità di spicco è più che variegato. La sua faccia è ritratta in una fotografia con l’attuale ministro degli Esteri Angelino Alfano, che Sacco stesso ha postato sul suo profilo Facebook. Pochi mesi dopo quella foto, la Misericordia ha vinto con procedura negoziata l’appalto per il centro di accoglienza di Lampedusa. E a gestirlo era stato chiamato Lorenzo Montana, cognato di Alessandro Alfano, fratello di Angelino, che si dimise poco dopo a seguito delle polemiche. Non solo. Sacco si è fatto fotografare con Matteo Salvini, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e persino con il Pontefice. Le conoscenze di Mr Misericordia non avevano colore politico.

Misericordia, così i clan hanno guadagnato 100 milioni col business dell'accoglienza. L'inchiesta della procura antimafia di Catanzaro e del Ros dei Carabinieri svela come la 'ndrangheta ha avuto in mano la gestione del centro per migranti più grande d'Europa. Dalle intercettazioni i retroscena di un impero fondato sull'emergenza. Con Leonardo Sacco ras nazionale del settore, scrive Giovanni Tizian il 15 maggio 2017 su "L'Espresso". Per la 'ndrangheta sono semplicemente «negri». Termine razzista, che ricorre spesso negli atti dell'inchiesta antimafia sui signori dell'accoglienza. Un lessico dispregiativo dietro il quale, però, si nasconde uno dei più grossi affari della mafia calabrese. Un business da oltre 100 milioni di euro, puliti e col timbro dello Stato. A Isola Capo Rizzuto, provincia di Crotone, i migranti sono roba loro. Un affare da gestire in famiglia, che qui si chiama Arena. Così Leonardo Sacco è diventato il ras nazionale del settore gestendo per oltre 10 anni il più grande hub dell'accoglienza d'Europa. Sacco è il governatore della Misericordia di Isola, già vicepresidente nazionale della confraternita che ha visto la luce nel lontano 1244 e oggi conta su 800 cellule sparse per l’Italia. Sacco è inoltre presidente regionale della medesima associazione. Uomo di potere, relazioni e, ipotizzano gli inquirenti, di mafia. Il suo book fotografico comprende varie personalità della politica: da Matteo Renzi ad Angelino Alfano, passando per Matteo Salvini. Nulla di penalmente rilevante, ci mancherebbe, sono solo scatti durante eventi pubblici. Tuttavia sono utili per comprendere il personaggio Sacco. Mr Misericordia è tra i 68 fermati dell'inchiesta “Jonny” coordinata dalla procura antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri e condotta dal Ros dei Carabinieri- il reparto comandato dal generale Giuseppe Governale- e dalla Guardia di Finanza di Catanzaro per quanto riguarda tutto il filone tributario. Insieme a Leonardo Sacco, indagato per associazione mafiosa, è finito nella rete degli inquirenti anche il parroco don Edoardo Scordio, il fondatore della locale Misericorida, anche a lui il procuratore aggiunto dell'antimafia Vincenzo Luberto contesta il reato associativo. Nell'elenco degli arrestati c'è, poi, l'imprenditore Antonio Poerio, che, secondo i detective del Ros, è una delle pedine centrali del sistema messo in piedi dalla Misericordia di Isola. «Il Centro di accoglienza e la Misericordia sono il bancomat della ‘ndrangheta», ha spiegato ai giornalisti durante la conferenza stampa il generale del Ros Governale. Un quadro agghiacciante, quello emerso dall'inchiesta dei suoi uomini. La cosca Arena avrebbe scelto Sacco, il cavallo su cui puntare per spartirsi l'affare del secolo. «Su 100 milioni di euro, 32 sono andati alla cosca Arena. Pensate che il prete, solo in un anno, ha percepito 150mila euro per l’assistenza spirituale dei migranti» ha detto invece il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto. «Questi neri girano per Isola Capo Rizzuto… di conseguenza tutto ciò che li riguarda è competenza nostra», aveva le idee chiare Antonio Poerio, altro grande protagonista dell’accoglienza calabrese che compare nello scatto insieme all'allora ministro degli Interni Angelino Alfano e all’amico governatore delle Misericordia. Poerio è un imprenditore noto nel settore del catering. Nell’informativa ormai ingiallita del 2007 firmata dai carabinieri del Ros veniva già indicato come in contatto con una famiglia della ’ndrangheta locale, gli Arena. Dopo molti anni, nel 2016, Poerio continuava a esprimersi alla stessa maniera: «ai negri gli toccano due euro e cinquanta al giorno». Utilizzava parole di disprezzo per i migranti, salvo poi lucrare sulla loro pelle. Fino al 2011 Poerio con la sua impresa - la Vecchia Locanda- riforniva ufficialmente la struttura d’accoglienza gestita dalla Misericordia. Questo fino a quando la prefettura di Crotone non è intervenuta sospendendo il certificato antimafia alla società di Poerio. Un incidente di percorso che ha obbligato la Misericordia a rescindere il contratto. Al suo posto è subentrata la Quadrifoglio Srl, che fornisce i pasti anche nel centro di Lampedusa. Il proprietario si chiama Pasquale Poerio, cugino del Poerio della Vecchia Locanda. Pasquale è anche consigliere comunale di Isola Capo Rizzuto, area centrodestra, e appoggia l’attuale sindaco. Alcune foto raccontano la vita pubblica di Sacco. Altre invece ne rivelano il lato più controverso. Come lo scatto che lo immortala al battesimo del figlio di un personaggio del clan Arena. Sacco è lì in veste di padrino. Un indizio, è la tesi dei detective, della vicinanza di Sacco alla criminalità organizzata. La foto è stata sequestrata per caso nel 2010, durante il blitz dei carabinieri di Modena che ha portato all’arresto di Fiore Gentile in un’indagine dell’antimafia di Bologna su un giro di riciclaggio tra Calabria, Emilia e Svizzera. Sacco versione padrino di battesimo assume ancora più importanza agli occhi degli investigatori se legato a un’altra immagine fino ad allora poco valorizzata. Si tratta di una riunione del 2005 tra importanti personaggi del clan Arena. Tra i presenti c’era Pasquale Tipaldi, che verrà ucciso la vigilia di Natale dello stesso anno. Davanti al bar dove gli uomini degli Arena si erano riuniti, al fianco di Tipaldi, i carabinieri riconoscono Leonardo Sacco. Un legame solido, quello tra Tipaldi e il governatore della Misericordia di Isola. A tal punto che la protezione civile della Misericordia utilizza il capannone che fu di Paquale Tipaldi, oggi intestato a suoi parenti. È lo stesso fabbricato dove viene ucciso il 24 dicembre di dodici anni fa dai killer della cosca avversaria. Il merito di Sacco, perciò, è aver trasformato la solidarietà in un’industria moderna dell’accoglienza. Il centro per migranti è gestito almeno a partire dal 2007 da mister Misericordia. L’indotto attorno è strepitoso: i cibi da preparare, giovani operatori da assumere, lavanderie industriali per pulire lenzuola e tovaglie. Subappalti, posti di lavoro, forniture. Tuttavia sarebbe stato semplice per i controllori (Prefettura e Viminale) bloccare l’infiltrazione denunciata dal Ros ormai 10 anni fa. Intanto Leonardo Sacco ha coronato un successo dietro l’altro. Da tre anni ha ottenuto anche i finanziamenti per la gestione di due Sprar, in pratica gli appartamenti in cui i rifugiati alloggiano una volta ottenuto il riconoscimento. Ulteriori somme che entrano in cassa: gli enti locali sborsano 35 euro al giorno per i maggiorenni, 54 per i minori. «Ma vedi che non è che teniamo la fotografia con Totò Riina» dice un Antonio Poerio molto preoccupato per la pubblicazione sull'Espresso della foto insieme al ministro Alfano, «Io tengo la fotografia con un Ministro ... ma chi cazzo non la vorrebbe una fotografia con un Ministro, compà ma stiamo coglioneggiando? E poi dove ce l'ho sta condotta macchiata?» si chiede Poerio. Le cimici piazzate dagli investigatori del Ros registrano lo sfogo di Poerio dopo la pubblicazione a febbraio scorso dell'articolo sul settimanale. Lo stesso imprenditore fornisce alcuni particolari di quell'evento a cui ha partecipato con Leonardo Sacco: «Noi a quella cosa, a quella cena che siamo andati, prima di andare, dieci giorni prima abbiamo mandato i nostri documenti ...il loro ufficio accertano chi sono io, chi è quello, quello e quell' altro». Il suo interlocutore risponde, sereno, «evidentemente non c'era niente», un assist per Poerio che aggiunge: «E hanno visto che io ero buono». In realtà su Poerio già allora, era il 2014, c'era più di qualche indizio sull'opacità delle sue frequentazioni. Monopolio dell'accoglienza gestito per anni in regime di emergenza, con chiamata diretta, quindi. Poi, però, Sacco è rimasto sulla scena anche quando la prefettura si è decisa a scegliere i gestori del centro con i bandi pubblici. Prima e dopo, c'è sempre il gruppo di Mr Misericordia. Chi doveva controllare? Su questo punto è probabile che le indagini proseguano. Nel decreto di fermo i magistrati si soffermano su alcune intercettazioni che riguardano la commissione aggiudicatrice, l'organo, cioè, che ha dato il via libera alla Misericordia di Sacco & Co. In alcuni dialoghi emerge il terrore per un eventuale assegnazione ad altre organizzazioni che non fossero la Misericordia. «Gli avvocati della Misericordia come esco fuori mi ammazzano», avrebbe riferito un componente della commissione in una delle riunioni riservate in prefettura. I pm aggiungono: «Il processo decisionale o meglio i commissari “locali” - a differenza di quelli provenienti da fuori regione – hanno paura o peggio, risultano condizionati dalle interferenze dei gestori la Misericordia». C'è un altro episodio inquietante, che ha per protagonista sempre Leonardo Sacco. A detta dei Poerio, Mr Misericordia era stato a Roma e qui aveva appreso dell'esistenza di un'informativa su di loro, ma era certo del fatto di aver neutralizzato le investigazioni. Tuttavia per sicurezza, Antonio Poerio «invitava Fernando a prendere sempre più le distanze dagli Arena, nel senso dio evitare contatti diretti con esponenti della criminalità organizzata isolitana». «Spendevano pochissimo attesa la qualità e la quantità del cibo che propinavano agli extracomunitari, gonfiando i costi per il tramite di fatturazioni per operazioni inesistenti la somministrazione del vitto sia stata realmente inferiore a quella rendicontata e chiesta a pagamento» si legge nel decreto di fermo. Dalle telecamere posizionate dalla guardia di finanza all'interno dei locali del centro di accoglienza è emerso che «i quantitativi somministrati giornalmente sono inferiori al numero ordinato-previsto dalla Convenzione, in quanto molte volte i contenitori delle pietanze venivano interamente svuotati nel corso della distribuzione che normalmente non avveniva nei confronti di tutti i migranti presenti, tanto che, in alcuni casi, gli utenti ancora in fila rimanevano senza mangiare. In rare occasioni, le pietanze rimaste venivano “diligentemente” ricoperte e riportate con i furgoni presso le cucine, per un probabile reimpiego il giorno successivo». Non solo, dalle intercettazione tra un dipendente del centro di accoglienza e la vicedirettrice, Caterina Ceraudo, si capisce che la qualità del cibo fornito ai migranti è di pessima qualità. I due parlano di pollo «minuscolo, piccolo, brutto» e che il problema è stato «ammucciato» (nascosto) perché, in sostanza, ai subfornitori «non gliene frega niente». E ancora: «il pollo con cattivo odore, diciamo va bene? A me mi è capitato solo oggi e non ti dico: gli ospiti stavano facendo di nuovo la rivolta... a calci e... vabbè... ho rimediato che sono andato di là e mi sono fatto fare le cotolette». Oppure: «il pollo mezzo crudo». L’indagine comunque continua. «Ancora non siamo appagati» ha avvertito il procuratore Nicola Gratteri che ha sottolineato come più avanti «si vedranno i rapporti di Sacco con altri pezzi delle istituzioni».

Chi è Leonardo Sacco, l'imprenditore dell'accoglienza che imbarazza Alfano. Un imprenditore che ha creato il suo impero con i centri di accoglienza. Avvicinando il ministro e famiglia. Ma gli investigatori sospettano che sia legato ai clan calabresi, scrive Giovanni Tizian il 9 febbraio 2017 su "L'espresso". C’è un’inchiesta antimafia che fa tremare i signori dell’accoglienza. Descrive nei dettagli le origini di un impero fondato sul business dei migranti. Con la ’ndrangheta protagonista, infiltrata nelle pieghe dell’emergenza. Pronta a lucrare sulla pelle dei rifugiati. Un crinale, quello dell’accoglienza, in cui si intersecano interessi diversi. Capi bastone, imprenditori e politici. Ognuno con un ruolo ben determinato. Ecco perché l’indagine sull’accoglienza dell’antimafia di Catanzaro fa paura a molti. E crea imbarazzo a quei politici, ministri, sottosegretari e prefetti che negli ultimi anni hanno avuto a che fare con Leonardo Sacco, il governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, satellite calabrese della storica Confraternita delle Misericordie, che ha visto la luce nel lontano 1244 e oggi conta su 800 cellule sparse per l’Italia. Sacco ha ricoperto peraltro la carica di vicepresidente nazionale della Confraternita. Ora è presidente della federazione Basilicata-Calabria, che partecipa al Consorzio “Opere di Misericordia”. L’indagine in realtà va avanti da tempo. La prima informativa reca la data del 2007. Sono trascorsi dieci anni. Un’eternità, che ha permesso al sistema su cui il Ros dei Carabinieri aveva acceso un faro di sopravvivere serenamente e di continuare a fare incetta di appalti, da Crotone a Lampedusa. Sacco può contare su amicizie trasversali, dal centrosinistra al centrodestra. Nel tempo ha costruito una rete di rapporti diplomatici con le istituzioni che si occupano dell’emergenza immigrazione. Sacco è tante cose. Imprenditore di successo, spazia fino al noleggio di imbarcazioni. Manager della solidarietà. Presidente della squadra di calcio locale che milita in Eccellenza. Ma mister Misericordia è soprattutto un personaggio abile nel tessere relazioni istituzionali. Per capire meglio la sostanza di questi rapporti è utile ricordare un’immagine scattata nel febbraio di tre anni fa alla convention dei vertici calabresi del partito del Nuovo centrodestra convocata a Cosenza. In quell’istantanea c’è Leonardo Sacco in posa con il ministro Angelino Alfano, all’epoca numero uno del Viminale. Il ministero con competenza diretta nell’emergenza sbarchi. All’evento era presente anche Giuseppe Scopelliti: un mese dopo sarà condannato in primo grado e darà le dimissioni da presidente della Regione. Quella sera con Leonardo Sacco, al fianco di Alfano, c’era anche un sorridente Antonio Poerio, che fino al 2011 ha gestito il servizio catering all’interno del centro di accoglienza crotonese. Fino a quando la prefettura non gli ha revocato la certificazione antimafia. Poerio è l’imprenditore che il Ros già nel 2007 definiva in contatto con alcuni personaggi del clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Qualche mese dopo la foto di rito tra Alfano, Sacco e Poerio, l’associazione Misericordia ottiene un’importante commessa. La prefettura di Agrigento, con procedura negoziata e d’urgenza, gli affida la gestione del centro di prima accoglienza di Lampedusa. Per dirigere la struttura viene scelto Lorenzo Montana. Travolto, però, dalle polemiche per la sua parentela con il fratello del ministro dell’Interno. Infatti la moglie di Alessandro Alfano è la figlia di Montana. Messo alle strette il prescelto ha poi deciso di rinunciare all’incarico. Ora, però, l’Espresso è in grado di ricostruire la vicenda. Fu la Misericordia a fare il suo nome, come Montana stesso ha ammesso. Risulta tuttavia che il curriculum del suocero di Alfano junior non fosse adatto a quel ruolo. Lui, in fondo, proveniva dall’Agenzia delle Entrate e con l’immigrazione non aveva mai avuto a che fare. Ma il dato rilevante è un altro: quella nomina e la successiva bufera mediatica hanno mandato su tutte le furie il prefetto Mario Morcone, capo dell’Immigrazione del Viminale, che con Leonardo Sacco è in contatto continuo. I bene informati riferiscono di un Morcone decisamente irritato per la mossa ritenuta un vero azzardo. E di un Leonardo Sacco che avrebbe persino sollecitato l’intervento della sottosegretaria ai Beni culturali Dorina Bianchi. Con l’obiettivo di far capire ad Alfano che non era sua intenzione metterlo in difficoltà con la nomina di Montana. L’episodio è tra quelli che gli investigatori dell’antimafia stanno rileggendo alla luce di quella sbiadita informativa di dieci anni fa, in cui il nome di Sacco e Poerio veniva accostato al potente clan Arena di Isola Capo Rizzuto. Dorina Bianchi, 50 anni, è molto vicina al ministro fresco di nomina agli Esteri. La storia politica della parlamentare è costellata da cambi di casacca: in quindici anni sette partiti. Democristiana di base con alcune puntate nel centro sinistra, Pd incluso, per poi tornare a destra, Pdl prima e Ncd dopo con il collega Alfano. Bianchi è in ottimi rapporti con il governatore Sacco. La parlamentare d’altronde è di Crotone. E qui ha corso come candidata a sindaco nel 2011. Era la parentesi berlusconiana. Il Cavaliere in persona chiuse la campagna elettorale della sottosegretaria. Non bastò, perché perse al ballottaggio. Dorina l’alfaniana, tuttavia, si è distinta anche per un’altra battaglia che stava molto a cuore a Leonardo Sacco: l’aeroporto di Crotone. Sacco, infatti, è stato nel Cda della società di gestione. Per questo nell’onorevole Bianchi ha sempre cercato un appoggio, anche solo per sollecitare l’intervento dell’allora ministro Ncd Maurizio Lupi. Che in effetti volerà nel crotonese per rassicurare gli interessati. Insomma, Sacco aveva trovato in Bianchi una chiave per parlare ai ministri della Repubblica. Eppure, per quanto il governatore calabrese della Misericordia cercasse di presentarsi come un paladino della legalità, organizzando convegni sulla mafia insieme a illustri ospiti, le ombre e i sospetti sulla sua figura erano noti da tempo. Dicevamo della trasversalità politica di Sacco. Ha, infatti, ottimi rapporti con alcuni Democratici renziani. Alle primarie del centrosinistra per scegliere il candidato alla presidenza della Regione, ha fatto il tifo per Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo Calabro di rito renziano e membro dell’Assemblea nazionale del Pd assai quotato tra gli eletti del giglio magico. Il governatore dell’accoglienza ha poi avuto la grande fortuna di conoscere Matteo Renzi, poco prima che diventasse premier. Era il 2012 e Sacco, ai tempi numero due della Confraternita, ha incontrato l’allora sindaco di Firenze durante un evento pubblico sul volontariato. Alle buone relazioni politiche, si aggiungono poi quelle col mondo cattolico ed ecclesiastico. L’enfant prodige dell’accoglienza calabrese è l’allievo di don Edoardo Scordio: il parroco fondatore della Misericordia di Isola, e in contatto con i vertici dei padri Rosminiani, ordine a cui appartiene il sacerdote. Tornando al rapporto dei detective di dieci anni fa, dal contesto descritto dai carabinieri del Ros poco o nulla è cambiato. Fatta eccezione per qualche sigla aziendale. Di quell’informativa dettagliata, tuttavia, si sono perse le tracce. Già allora gli investigatori gettavano un’ombra inquietante sulla gestione del centro di accoglienza crotonese. L’ipotesi mai tramontata è che il clan Arena di Isola Capo Rizzuto si fosse inserito nel business dell’accoglienza. Grazie proprio alla fornitura dei pasti all’interno della struttura dello Stato. Non deve sorprendere, del resto questa ’ndrina è dotata di uno spiccato fiuto per gli investimenti di nuova generazione. È accaduto, per esempio, con il boom delle energie alternative. Gli Arena hanno riempito di pale eoliche le campagne circostanti, in combutta con società estere. Il capostipite è il boss Nicola Arena. Il nipote, Carmine, fu ucciso nel 2004 a colpi di bazooka mentre si trovava nella sua auto blindata. Le nuove leve continuano a dettare legge. Che siano pale eoliche, rifiuti o immigrati, agli imprenditori delle cosche interessa relativamente. Per il semplice fatto che dove girano quattrini il clan locale mette il naso ed entrambe le mani. Nel documento investigativo del 2007, letto dall’Espresso, un’intercettazione rafforza il sospetto che i boss abbiano mangiato una fetta della torta milionaria dell’affare: «Questi neri girano per Isola Capo Rizzuto… di conseguenza tutto ciò che li riguarda è competenza nostra». Il sistema lo spiegava Antonio Poerio, altro grande protagonista dell’accoglienza calabrese che compare nello scatto insieme ad Alfano e all’amico governatore delle Misericordia. Poerio è un imprenditore noto nel settore del catering. Nell’informativa del Ros già veniva indicato come in contatto con una famiglia della ’ndrangheta locale. Fino al 2011 con la sua impresa - la Vecchia Locanda- riforniva ufficialmente la struttura d’accoglienza gestita dalla Misericordia. Pasta, patate, riso, pollo e verdure entravano nel centro a bordo dei mezzi targati Vecchia Locanda. Questo fino a quando la prefettura di Crotone non è intervenuta sospendendo il certificato antimafia alla società di Poerio. Un incidente di percorso che ha obbligato la Misericordia a rescindere il contratto. Al suo posto è subentrata la Quadrifoglio Srl. Il proprietario si chiama Pasquale Poerio, cugino del Poerio della Vecchia Locanda. Insomma, l’affare è rimasto in famiglia. Tuttavia l’azienda di Pasquale gode di referenze molto in alto: la società Quadrifoglio, infatti, aveva stipulato con la prefettura una convenzione per fornire il servizio di mensa ai poliziotti della questura crotonese. Un curriculum, perciò, al dì sopra di ogni sospetto. Il titolare, Pasquale Poerio, è anche consigliere comunale di Isola Capo Rizzuto, area centrodestra, e appoggia l’attuale sindaco. Due anni fa Sacco, rispondendo a un articolo pubblicato sull’Espresso definiva l’associazione che rappresenta «il braccio dello Stato» nell’accoglienza. Al pari, in pratica, dei colossi legati a Comunione e liberazione e di Legacoop che hanno trasformato l’accoglienza in un business, come mafia Capitale ha insegnato. Alcune foto raccontano la vita pubblica di Sacco. Altre invece ne rivelano il lato più controverso. Come lo scatto che lo immortala al battesimo del figlio di un personaggio del clan Arena. Sacco è lì in veste di padrino. Un indizio, è la tesi dei detective, della vicinanza di Sacco alla criminalità organizzata. La foto è stata sequestrata per caso nel 2010, durante il blitz dei carabinieri di Modena che ha portato all’arresto di Fiore Gentile in un’indagine dell’antimafia di Bologna su un giro di riciclaggio tra Calabria, Emilia e Svizzera. Sacco versione padrino di battesimo assume ancora più importanza agli occhi degli investigatori se legato a un’altra immagine fino ad allora poco valorizzata. Si tratta di una riunione del 2005 tra importanti personaggi del clan Arena. Tra i presenti c’era Pasquale Tipaldi, che verrà ucciso la vigilia di Natale dello stesso anno. Davanti al bar dove gli uomini degli Arena si erano riuniti, al fianco di Tipaldi, i carabinieri riconoscono Leonardo Sacco. Un legame solido, quello tra Tipaldi e il governatore della Misericordia di Isola. A tal punto che la protezione civile della Misericordia utilizza il capannone che fu di Paquale Tipaldi, oggi intestato a suoi parenti. È lo stesso fabbricato dove viene ucciso il 24 dicembre di dodici anni fa dai killer della cosca avversaria. Un tempo Crotone era la Torino del Sud, oggi di quell’industrializzazione sono rimaste solo le scorie velenose. Il merito di Sacco, perciò, è aver trasformato la solidarietà in un’industria moderna dell’accoglienza. Il centro per migranti è gestito almeno a partire dal 2007 da mister Misericordia. L’ indotto attorno è strepitoso: i cibi da preparare, giovani operatori da assumere, lavanderie industriali per pulire lenzuola e tovaglie. Subappalti, posti di lavoro, forniture. Tuttavia sarebbe stato semplice per i controllori (Prefettura e Viminale) bloccare l’infiltrazione denunciata dal Ros ormai 10 anni fa. Si sarebbe potuto evitare se solo quel fascicolo col timbro del 2007 avesse avuto una fortuna diversa. Intanto Leonardo Sacco ha coronato un successo dietro l’altro. Da tre anni ha ottenuto anche i finanziamenti per la gestione di due Sprar, in pratica gli appartamenti in cui i rifugiati alloggiano una volta ottenuto il riconoscimento. Ulteriori somme che entrano in cassa: gli enti locali sborsano 35 euro al giorno per i maggiorenni, 54 per i minori. E poi ci sono le due gare vinte. L’appalto del centro crotonese, 12 milioni e mezzo, e quello di Lampedusa, 4 milioni all’incirca, da dividere con la Croce Rossa. Quest’ultimo è stato assegnato nell’ottobre scorso: a gestirlo sarà il raggruppamento formato da Croce Rossa e Consorzio Opere di Misericordia, struttura della confraternita di cui fanno parte solo alcune realtà territoriali, tra queste la federazione Basilicata-Calabria presieduta da Leonardo Sacco. Il direttore, questa volta, non ha parenti ingombranti e proviene dalla Croce Rossa. Non vale per il catering: fornito sempre dalla Quadrifoglio, come del resto, è avvenuto negli anni scorsi, a partire dal 2014 quando a Lampedusa lavorava soprattutto la Misericordia di Capo Rizzuto. Nella forma nulla da eccepire: Il subappalto è previsto nel capitolato d’appalto. Tutto nella norma, dunque, se non fosse per quel filo che lega Lampedusa al lato più oscuro di Isola Capo Rizzuto.

I clandestini? Valgono 20 milioni. Succede a Isola Capo Rizzuto, dove c'è il centro d'accoglienza più grande d'Italia. Ora ha 1500 posti, con la ripresa estiva degli sbarchi diventeranno 2000. Aumentando il business che gira intorno ai migranti, scrive Gianfrancesco Turano l'11 aprile 2013 su "L'Espresso". A Isola Capo Rizzuto, pochi chilometri a sud di Crotone, hanno inventato l'economia delle tre P. Pecore, pedoni e parchi eolici. Le pecore ci sono sempre state, a zonzo per i pascoli del Marchesato, terre fra le più belle di Calabria. I parchi eolici sono nati per sfruttare il vento dello Jonio e sono di due tipi. Quelli con le pale ferme non sono più pigri degli altri. Sono sequestrati per mafia in quanto proprietà della cosca principale della zona, gli Arena, avversari dei Grande Aracri di Cutro e dei Nicoscia, anche loro di Isola. La terza p è quella dei pedoni ed è segnalata dai cartelli stradali disposti lunga la statale 106 "Jonica". L'Anas li ha piazzati su disposizione della Prefettura di Crotone dopo i primi incidenti stradali. I pedoni, emigranti afgani, pakistani, nordafricani, escono dal centro di accoglienza di Sant'Anna e marciano verso sud, dov'è il centro di Isola Capo Rizzuto, o verso nord, in direzione di Crotone. Uomini e donne, giovani e anziani, si buttano lungo una strada che è già tra le più pericolose d'Italia per andare a lavorare nei campi di finocchio vicini oppure come parcheggiatori abusivi o venditori di giocattoli sotto i portici di piazza Pitagora nel centro del capoluogo. Molti vanno semplicemente a fare la spesa, con regolare carrello, al Lidl o al Pam di Isola Capo Rizzuto. L'andirivieni dura dalle prime ore del mattino, quando i migranti si presentano alla sbarra del centro Sant'Anna, dove c'è il posto di blocco delle forze dell'ordine, fino alle 22 quando scatta l'ultimo termine per il rientro. A Sant'Anna c'è l'hotel del clandestino più grande d'Europa: 1.500 posti che sfioreranno i 2 mila con l'arrivo imminente della bella stagione e la ripresa degli sbarchi. Soltanto i 1.500 che vivono nel Cda-Cara (centro di accoglienza e centro di accoglienza per richiedenti asilo) hanno il permesso di tentare l'avventura lungo l'asfalto della 106. I 120 ospiti della palazzina in cemento grigio costruita accanto al Cara, che è il Cie (centro di identificazione ed espulsione), sono detenuti a tutti gli effetti. Come tali, possono muovere poco l'economia. Non possono lavorare fuori, devono mangiare quello che mandano le mense Quadrifoglio e Vecchia Locanda di Isola e non possono organizzare grigliate di carne cotta sui tombini in ghisa delle fogne, come fanno i colleghi liberi del Cda-Cara. Possono però ribellarsi, come è accaduto lo scorso ottobre, quando alcuni di loro sono saliti sul tetto del Cie e hanno lanciato il possibile addosso agli agenti prima di essere arrestati, processati per direttissima e assolti, il 12 dicembre 2012, perché hanno agito per legittima difesa della loro dignità e - si legge nella sentenza del tribunale di Crotone - sono costretti a vivere tra «materassi luridi, privi di lenzuola e con coperte altrettanto sporche, lavabi e bagni alla turca luridi, asciugamani sporchi, pasti in quantità insufficienti e consumati senza sedie né tavoli». Insomma, dentro una struttura «al limite della decenza». Vista dal marciapiede opposto della Statale 106, l'ex area dell'aeroporto militare di Crotone sembra una fabbrica più che una galera. Ma una funzione non esclude l'altra. Il business dei pedoni vale una ventina di milioni di euro all'anno, fra i costi diretti e l'indotto. Non poco per un zona che dovrebbe essere a vocazione turistica ma che dal turismo incassa sempre meno. Né potrebbe essere diversamente visto che le strade sono piene di spazzatura e il mare, come ormai in tutta la regione, è inquinato. L'aeroporto civile di Sant'Anna, costruito proprio di fronte al centro di accoglienza, è stato abbandonato dall'Alitalia e riaprirà a giugno grazie a qualche compagnia charter allettata con contributi pubblici. Previsti i voli dalla Russia piazzati dal governatore Giuseppe Scopelliti in tutta la regione, un collegamento con Torino e forse, misteri dei tour operator, con Santorini. Ma sulle prospettive del rilancio un albergatore locale si spiega con lucidità ragionieristica: «I russi per 42 euro al giorno vogliono il latte di gallina. Mi conviene tenermi questi a 50 euro». "Questi" sono i 220 poliziotti, finanzieri, carabinieri e soldati che si dividono sui quattro turni di sorveglianza al centro Sant'Anna. Hanno una diaria per vitto e alloggio di 50 euro che significa un esborso annuale di oltre 4 milioni in sole spese vive, senza considerare straordinari e altre indennità. Le forze dell'ordine sono distribuite nei vari alberghi e residence della zona fino a Crotone. Nessuno sembra avere pensato a utilizzare caserme o i tanti immobili sequestrati alla criminalità organizzata. Qualche risparmio c'è stato. Mantenere i pedoni della 106 costa quasi la metà dopo l'ultima gara d'appalto triennale che a novembre la Prefettura ha di nuovo assegnato alla Confraternita della Misericordia di Isola Capo Rizzuto in versione spending review. La onlus ha vinto con un consistente ribasso d'asta che ha portato il costo giornaliero di un migrante da 34,5 a 22 euro, pacchetto all inclusive per un esborso complessivo di 22 milioni di euro più Iva fino alla prossima scadenza del 2014. 

Se questa somma sia sufficiente e come sia gestita, lo racconta l'esodo dei migranti intorno all'ora in cui arrivano i pasti. La gente esce senza nemmeno aspettare il pullman-navetta che collega il Cara-Cie con i due centri abitati più vicini. I controlli sulle forniture, ossia cibo ma anche vestiario, coperte, schede telefoniche, sono impossibili, così come resta nel vago il numero dei presenti a Sant'Anna. I poliziotti interpellati durante l'inchiesta de "l'Espresso" hanno parlato di 1.200 persone al Cara e di una sessantina reclusi nel Cie al momento. Tutto è piuttosto vago ed elastico. Inoltre molti che da Sant'Anna sono usciti per tentare la sorte altrove in Italia devono tornare nel Marchesato per questioni burocratiche. L'anagrafe di Isola è competente per fornire il certificato di residenza che, a sua volta, è indispensabile per chiedere il permesso di soggiorno. Per i documenti dei migranti senza fissa dimora è stato predisposto un indirizzo unico, via Francesco Scerbo Vittime della Mafia, una strada virtuale che porta il nome di una tragedia vera. Scerbo era un giovane di 29 anni ammazzato per errore nel marzo del 2000 in un bar di Isola. I killer miravano a Franco Arena. La processione continua di migranti verso Isola è gestita da due uomini. Il primo è don Edoardo Scordio, parroco a Isola Capo Rizzuto dal 1985 nonché guida spirituale e strategica della Confraternita da lui fondata nel marzo di 25 anni fa. Il suo carisma è abbinato a un decisionismo da manager. Per questo in paese lo odiano o lo amano. I sostenitori lo raffigurano come un benefattore nella lotta contro i due mostri della zona, disoccupazione e 'ndrangheta, ed enumerano i rapporti cordiali con magistrati come Piero Luigi Vigna o gli ultimi due capi della Protezione Civile Franco Gabrielli e Guido Bertolaso. Per i detrattori invece don Scordio è una via di mezzo fra don Luigi Verzè, il fondatore del San Raffaele, e don Giovanni Stilo, sacerdote della Locride noto per le sue frequentazioni torbide con i potenti della zona. E se è vero che don Edoardo ha partecipato sei mesi fa al funerale dell'ex superprocuratore antimafia Vigna a Firenze, dove è la sede nazionale delle Misericordie, è anche vero che ha celebrato la funzione in memoria di Carmine Arena "cicalu", membro del clan dominante di Isola assassinato nel 2004 a colpi di kalashnikov e di lanciarazzi Rpg7 da un commando dei Nicoscia. Come scrive Gianfranco Manfredi nel libro "Atlante delle mafie", don Scordio ha celebrato nel 1996 il matrimonio di Raffaella Arena, figlia del boss Nicola. Nozze di gran lusso con 1.700 invitati al club Le Castella purtroppo terminate con un blitz dei carabinieri alla ricerca di latitanti. Il braccio operativo della Misericordia di Isola è Leonardo Sacco, 33 anni, che frequenta la Misericordia da quando ne aveva 9 e dalla parrocchia sperduta del Marchesato ha saputo scalare i vertici nazionali della confraternita fino a diventarne vicepresidente. Il governatore, come lo chiamano qui, ha un ottimo rapporto con l'altro governatore, il presidente della Regione Giuseppe Scopelliti, e soprattutto con la sua vice, la crotonese Antonella Stasi, nominata numero due della giunta calabrese senza dovere affrontare seccanti competizioni elettorali. Sacco - don Scordio docet - non smette di sottolineare il timbro di legalità delle operazioni economiche della Misericordia, anche quando la Misericordia - don Verzè docet - si è dotata di una società di capitali, la Miser Icr impresa sociale. Nel bilancio della Miser si parla di lotta alla 'ndrangheta, di «prevenzione alle infiltrazioni mafiose ovunque ve ne sia il rischio» e si sottolinea che «tutti i lavoratori dipendenti impiegati nella gestione dei Centri di accoglienza devono ottenere il gradimento della Prefettura di Crotone che li sottopone a un accurato screening». Lo stesso vale per i fornitori impegnati nell'appalto da 22 milioni di euro per il Cda-Cara-Cie di Sant'Anna. Ma poiché non di sola misericordia vive l'uomo, Sacco si è organizzato un'impresa per conto suo. Si chiama Sea Lounge e gestisce da due anni un paio di barche per i turisti estivi nonché alcuni servizi legati al Santuario di don Scordio, in particolare l'albergo e il centro congressi. Anche se il turismo in Calabria va male, la Sea Lounge va bene e in breve tempo ha messo insieme circa 1 milione di ricavi. Sacco condivide la Sea Lounge con due socie, Aurora Cozza e Lanatà. Le due signore e i loro mariti, i cugini Antonio e Fernando Poerio, gestiscono anche il catering del Sant'Anna con Quadrifoglio e Vecchia Locanda. Di recente i Poerio hanno lasciato le due imprese alle mogli e si sono messi da parte perché i loro certificati penali presentano qualche criticità: associazione a delinquere semplice, Iva non pagata, falsa fatturazione e, nel caso di Antonio, una condanna in giudicato per detenzione e fabbricazione illegale di arma da fuoco. Oltre a fare affari con fornitori che dovrebbe controllare, Sacco e la Misericordia stanno comprando dovunque nella zona: una quota nella società di gestione dell'aeroporto, una partecipazione nel giornale "Il Crotonese" e varie proprietà immobiliari a Crotone e a Isola. Il fiore all'occhiello è il Santuario della Madonna Greca, una sorta di San Giovanni Rotondo in miniatura voluto da don Scordio e completo di albergo con centro congressi dedicato al beato Antonio Rosmini. L'area, costruita a partire dal 1991, include un Aquarium di proprietà della Provincia ma gestito dalla Misericordia e da un centro sportivo con piscina, campi da tennis, calcio e anfiteatro che sarà inaugurato nel prossimo maggio grazie a un finanziamento di 1,5 milioni di euro. Tutto questo, ovviamente, sfugge ai pedoni che migrano lungo la Statale 106 tra Isola e Crotone. Qui in molti li vedono come un problema, li chiamano "nigri". E invece sono quelli che fanno girare quel poco di economia della zona. La prova? C'è un progetto per allargare il centro di accoglienza fino a 4 mila posti. La Misericordia di Isola è pronta alla nuova sfida.

'Ndrangheta, la cosca Arena: chi è e cosa controllava. Clan storico attivo nelle province di Catanzaro e Crotone, secondo le indagini aveva le mani sul centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto, scrive il 15 maggio 2017 Panorama. La gestione dei migranti toccata dalle mani sporche della 'ndrangheta. Uno dei centri di accoglienza più grandi d'Europa, il Cara di Isola Capo Rizzuto, era controllato dalla cosca Arena, secondo le indagini che hanno portato al fermo di 68 persone. Tra queste anche il parroco del paese crotonese. Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza, su disposizione della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, ha assestato un blitz. Gli indagati sono accusati di associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegale di armi, intestazione fittizia di beni, malversazione ai danni dello Stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture e altri reati di natura fiscale, tutti aggravati da modalità mafiose. 

Chi è la cosca Arena. Gli Arena sono una 'ndrina, ovvero una cosca malavitosa della 'ndrangheta. Clan storico e potentissimo, è al centro di articolati traffici illeciti nelle province di Catanzaro e Crotone. Il suo boss Fabrizio Arena è stato arrestato nel 2010 dopo un anno di latitanza. Da decenni al centro delle vicende criminali nel crotonese, la cosca Arena di Isola Capo Rizzuto aveva imposto la sua assillante presenza anche sull'area ionica della provincia di Catanzaro con estorsioni a tappeto ai danni di esercizi commerciali e imprese anche impegnate nella realizzazione di opere pubbliche. Secondo l'indagine denominata "Jonny", gli Arena agivano nella zona direttamente attraverso i propri affiliati, oppure tramite fiduciari nominati responsabili della conduzione delle attività delittuose o anche attraverso la messa "sotto tutela" di cosche alleate.

Cosa controllava la cosca Arena. Oltre alle tradizionali dinamiche criminali legate alle estorsioni, esercitate in maniera capillare sul territorio catanzarese e crotonese, la cosca Arena coltivava ingenti interessi nel mondo del gioco e delle scommesse. Ma, soprattutto, da oltre un decennio controllava a fini di lucro la gestione del Centro di accoglienza per migranti di Isola Capo Rizzuto (Crotone). Tramite Leonardo Sacco, governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, che gestisce il Cara di Isola Capo Rizzuto, la cosca sarebbe riuscita ad aggiudicarsi gli appalti indetti dalla Prefettura di Crotone per le forniture dei servizi di ristorazione al centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto e di Lampedusa. Gli appalti venivano affidati a imprese appositamente costituite dagli Arena e da altre famiglie di 'ndrangheta per spartirsi i fondi destinati all'accoglienza dei migranti. Tra i fermati ci sono lo stesso Sacco e il parroco di Isola Capo Rizzuto, don Edoardo Scordio.

Secondo gli inquirenti, dal 2006 al 2015 le imprese riconducibili alla cosca Arena avrebbero avuto accesso a 103 milioni di euro per la gestione del Cara di Isola di Capo Rizzuto, dei quali almeno 36 milioni utilizzati per finalità diverse da quelle previste (cioè assicurare il vitto ai migranti ospiti nel centro). I soldi sarebbero invece stati riversati in parte nella cosiddetta "bacinella" dell'organizzazione, per le esigenze di mantenimento degli affiliati, in parte sarebbero stati usati per l'acquisto di beni immobili, partecipazioni societarie e altre forme di investimento.  "Il Centro di accoglienza e la Misericordia di Isola Capo Rizzuto erano il bancomat della mafia", ha detto il comandante del Ros Giuseppe Governale. Le somme per gli Arena venivano acquisite con ripetuti prelievi in contante dal conto della Misericordia e delle società riconducibili agli indagati oppure con l'erogazione di ingenti somme a fini di prestito o tramite pagamenti di forniture inesistenti, false fatturazioni, acquisto di beni immobili per immotivate finalità aziendali. Don Scordio, sacerdote della Chiesa di Maria Assunta, avrebbe ricevuto indebitamente a titolo di prestito-contributo e pagamento di note di debito ben 132mila euro solo nell'anno 2007, per servizi di assistenza spirituale presso i profughi. 

Cos'è il Cara di Isola Capo Rizzuto. Il Centro di accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Isola Capo Rizzuto è uno dei più grandi d'Europa. Attivo dal 1999, accoglie i richiedenti asilo, rifornendoli di vestiti, cibo e alloggio, in attesa che venga definito il loro status giuridico. "Il Cara di Isola Capo Rizzuto era diventato una miniera di denaro per la cosca che, grazie alla complicità del responsabile dell'ente che gestiva il centro, già vicepresidente delle Misericordie, controllava appalti e forniture dirottando nelle casse della famiglia i fondi comunitari destinati ai profughi", dice la presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi. "L'imponente operazione contro il clan Arena è un importante risultato nella lotta contro la 'ndrangheta e le infiltrazioni mafiose nella gestione dei migranti". 

'Ndrangheta, gli affari dei Piromalli nel mercato ortofrutticolo di Milano. Gli interessi della 'ndrina calabrese anche sul porto di Gioia Tauro e sul commercio di olio negli Stati Uniti, scrive Nadia Francalacci il 26 gennaio 2017 su Panorama. La potentissima cosca calabrese dei Piromalli avrebbe gestito e controllato il mercato ortofrutticolo di Milano, una rete di distribuzione di prodotti oleari negli Stati Uniti e, ovviamente, il porto di Gioia Tauro da dove transitavano frutta, verdura, olio e soprattutto tonnellate di droga. Antonio Piromalli, 45 anni, figlio di Giuseppe, uno degli esponenti storici della ‘ndrina calabrese della Piana di Gioia Tauro e arrestato questa mattina, avrebbe esercitato un controllo sistematico, direttamente dalla sua abitazione nel cuore del capoluogo lombardo, di tutte le attività imprenditoriali legate all’importazione, distribuzione e commercializzazione dei prodotti destinati al mercato ortofrutticolo di Milano. Sarebbe stato lui a determinare prezzi, quantità e varietà di prodotti da “far arrivare” sulla piazza milanese. Non solo, attraverso un imprenditore italoamericano, Antonio Piromalli, sarebbe riuscito ad infiltrarsi anche nel tessuto economico statunitense attraverso la distribuzione di olio e di prodotti affini nella città di New York. A ricostruire gli affari sporchi della ‘ndrina egemone sul mandamento tirrenico della provincia di Reggio Calabria e con diramazioni in Lombardia, Nord Europa, Stati Uniti e Australia, sono stati i carabinieri del Ros che questa mattina hanno arrestato 33 persone, tra boss e gregari, accusate a vario titolo, di associazione mafiosa, traffico di stupefacenti, intestazione fittizia di beni, autoriciclaggio e tentato omicidio. Le indagini dei Ros hanno documentato il controllo delle attività del traffico di droga all'interno dello scalo portuale calabrese ma soprattutto la penetrazione della cosca nel tessuto economico ed imprenditoriale legato al settore agroalimentare. La movimentazione dei generi alimentari destinati al mercato ortofrutticolo milanese, infatti, veniva gestita dal boss Antonio Piromalli attraverso i suoi gregari e affiliati con i quali comunicava attraverso i “pizzini”. Ma dove finiva il fiume di denaro “sporco” gestito dalla cosca? Le risorse di provenienza illecita, sia quelle reperite in Italia che quelle provenienti dagli Usa, venivano reimpiegate dal boss Antonio Piromalli, in società di abbigliamento, collegate a noti marchi francesi ma anche in imprese attive nell'edilizia e nella gestione di strutture alberghiere.  Infatti, l'inchiesta ha messo in luce anche la partecipazione della cosca nel progetto di realizzazione di un centro commerciale a Gioia Tauro, all'altezza dello svincolo autostradale della Salerno-Reggio Calabria.  Gli interessi illeciti nel settore agroalimentare con l'infiltrazione nel mercato ortofrutticolo di Milano e la rete di distribuzione di prodotti oleari negli Usa facente capo ad un imprenditore italoamericano organico alla cosca Piromalli, sono la punta di un iceberg del business della criminalità organizzata nell'agroalimentare che vale circa 16 miliardi di euro all'anno. Solo questa mattina con l’operazione denominata “Provvidenza”, i militari del Ros hanno sequestrato beni per un valore di oltre 40 milioni di euro riconducibili alla cosca Piromalli.

L'impero del male del clan mafioso Piromalli. È la più potente e misteriosa cellula della 'ndrangheta calabrese: i suoi tentacoli raggiungono Stati Uniti e Sudamerica attraverso insospettabili personaggi in grado di investire in settori strategici. Ecco come ha fatto a diventare così forte partendo da Gioia Tauro, scrive Giovanni Tizian l'11 maggio 2017 su "L'Espresso". Olio d'oliva e agrumi nei grandi magazzini degli Stati Uniti d'America. Arance e clementine fino in Romania, Danimarca e Francia. Rifiuti e produzione di biogas in Ecuador. Materie prime, tecnica e ingegno made in Calabria. Con una buona dose di soldi pubblici per sostenere le imprese. Intraprendenza di cui andare orgogliosi, se non fosse per la regia occulta che dirige questi business. Perché purtroppo la mano nera che muove questi affari, ipotizzano gli inquirenti, è quella della famiglia Piromalli di Gioia Tauro, l'alfa e l'omega del crimine organizzato calabrese. A questo si somma un dato ancora più allarmante. Le aziende coinvolte e gli uomini considerati vicini al clan hanno ottenuto negli anni diversi milioni di euro di finanziamenti comunitari e nazionali per quanto riguarda il settore agricolo. E intercettato importanti stanziamenti per portare avanti progetti industriali in Sudamerica. Dopo anni di quiete la cosca ritenuta tra le più potenti è finita nel mirino del Ros - il reparto dei carabinieri guidato dal generale Giuseppe Governale - e della procura antimafia di Reggio Calabria con a capo Federico Cafiero De Raho. La sequenza è stata impressionante. Due operazioni nel giro di pochissimo tempo, numerosi arresti e buona parte del patrimonio societario finito sotto sequestro. Ma ciò che colpisce di più è la mappa aggiornata dei nuovi business in cui è coinvolta la 'ndrina Piromalli. "Provvidenza" è il nome in codice dell'operazione, divisa in più filoni. «Con la provvidenza, chiama le cose con il nome suo», è la frase pronunciata dal giovane boss Antonio Piromalli, alludendo al fatto che l'alto tenore di vita assicurato alla famiglia non dipendeva certo dalla provvidenza, appunto, né dallo stipendio da insegnante della moglie, ma dagli investimenti oculati fatti dal padrino. Una riflessione catturata dalle cimici degli investigatori. Per capire chi è Antonio Piromalli è utile citare una seconda intercettazione ambientale: c'è chi lo paragona a Papa Francesco per la notorietà di cui gode nel milieu mafioso non solo calabrese e per l'autorità che rappresenta. In effetti i Piromalli sono «uomini di pace». Le armi le usano il meno possibile, solo se strettamente necessario. La Calabria resta il punto fermo nella strategia dei conquistadores di Gioia Tauro. Qui c'è la testa dell'organizzazione, che non si lascia sfuggire gli affari più ghiotti. Così nel target del clan è finito il Consorzio ortofrutticolo produttori agrumicoli meridionali, Copam. Una sigla a portata di mano per Antonio Piromalli. Si trova, infatti, al confine tra la piana di Gioia Tauro e l'Aspromonte. Precisamente a Varapodio, paese di 2 mila abitanti della provincia di Reggio Calabria. Il Copam è tecnicamente una OP, organizzazione di produttori. Uno dei più grandi e importanti della Calabria con associati anche in Sicilia. I soci risultavano 39 fino al giorno della prima retata contro i Piromalli. II detective del Ros hanno scoperto che Antonio Piromalli aveva all'interno del consorzio una forte influenza. L'uomo fidato di don Antonio all'interno di Copam si chiama Rocco Scarpari, pure lui indagato nell'inchiesta Provvidenza. Chi è Scarpari? Innanzitutto un imprenditore, titolare del 25 per cento di Copam, oltre che di altre quote in piccole aziende agricole calabresi e siciliane. Per i carabinieri del Ros, però, è «un imprenditore colluso» con la cosca di Gioia Tauro. Affermazione condivisa dal giudice per le indagini preliminari che ha confermato le ipotesi investigative degli inquirenti. Pm che ipotizzano peraltro «la diretta riconducibilità del Consorzio alla cosca attraverso l’operato di Scarpari, già presidente del medesimo e che tuttora utilizza la casella di posta elettronica intestata al vertice del consorzio». Scarpari non ricopre più quella carica, ma di fatto, scrivono i militari del Ros è «nelle sue mani. Peraltro, tale gestione veniva segnata da continue malversazioni ed appropriazioni indebite. In questo senso metteva la Copam a disposizione di Antonio Piromalli, consentendogli di usufruirne a suo piacimento, ponendo in essere una serie di atti di gestione nell’interesse del capo cosca ed in danno della stessa cooperativa». Se questo è il profilo disegnato da chi indaga, c'è un aspetto ancora tutto da chiarire. E riguarda la mole di denaro pubblico, soprattutto fondi Ue, incassato dal Consorzio e da società legate a Scarpari. L'Espresso ha letto i decreti di approvazione dei programmi operativi della Regione Calabria con cui sono stati autorizzati gli stanziamenti. Così è stato possibile ricostruire parte del flusso di denaro affluito nelle casse del consorzio sospettato di legami con i Piromalli. Per l'anno 2016, ad esempio, a fronte di un «valore della produzione commercializzata» Copam ha ricevuto poco più di 834 mila di aiuto comunitario. L'anno prima su quasi 17 milioni di «produzione commercializzata» ha ottenuto all'incirca 800 mila euro. Nel 2013 su 9 milioni di produzione messa in commercio ha incassato 475 mila euro di aiuto europeo e aiuto finanziario nazionale. Infine, per il 2012, tra sostegno comunitario e nazionale ha ricevuto 580 mila euro. In cinque anni, in pratica, il totale è di oltre 2 milioni e mezzo. A questo conteggio vanno aggiunti i soldi finanziati da Agea, l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, che nel 2014 ha dato a Copam 526 mila euro più qualche spicciolo. E l'anno successivo oltre un milione di euro. Sempre Agea ha distribuito finanziamenti anche ad altre società in passato legate a Rocco Scarpari, ma in confronto a quelli percepiti da Copam sono briciole. A marzo, un mese dopo i primi arresti dell'operazione Provvidenza, la procura di Reggio Calabria ha notificato dei decreti di perquisizione per una vicenda apparentemente slegata dagli interessi dei re di Gioia Tauro. Tuttavia nell'inchiesta ancora in corso condotta dai carabinieri delle politiche agricole emerge proprio il flusso anomalo di denaro pubblico confluito nel consorzio Copam. Indagine che vede coinvolti alcuni funzionari del settore agricoltura della Regione Calabria. Insomma, una pista che riporta nel regno dei Piromalli. Lì dove tutto è cominciato, a Gioia Tauro. Raccontare i Piromalli vuol dire riavvolgere il nastro della storia criminale italiana degli ultimi 50 anni. Sono gli artefici, infatti, della nuova stagione nella 'ndrangheta calabrese. Con loro inizia la sistematica penetrazione nell'economia legale dei capitali sporchi delle 'ndrine. Gli esperti definiscono questo cambio di passo il salto di qualità della 'ndrangheta. Passaggio storico, siamo negli anni'70, che coincide con lo stanziamento di una pioggia di miliardi pubblici per la provincia di Reggio Calabria. Un'immagine di questo potere granitico ci riporta al 25 aprile 1975. Quando l'allora ministro per la Cassa del Mezzogiorno, Giulio Andreotti, si recò a Gioia Tauro per la posa della prima pietra del V centro siderurgico, e dell'annesso porto, finanziato con i miliardi del pacchetto Colombo, istituito per compensare la provincia di Reggio Calabria dopo lo spostamento del capoluogo di regione a Catanzaro. Andreotti giunto a Gioia Tauro venne portato all'Euromotel per un caffè di benvenuto. A porgergli la tazzina fu Gioacchino Piromalli, figlio del vecchio patriarca don Mommo. Tuttavia lo stabilimento siderurgico non venne mai realizzato, nonostante fossero già stati spesi moltissimi denari. Ciò che rimase di quel progetto fu il porto, che negli anni a seguire avrebbe conquistato fette importanti di mercato. Fino a diventare uno dei importanti di Transhipment del Mediterraneo. Hub che doveva rappresentare un volano di sviluppo per tutta l'area ma che è sempre stato ostaggio delle cosche locali, Piromalli in primis. E diventato, poi, principale scalo di arrivo della cocaina trafficata dalla 'ndrangheta. Centinaia di faldoni ingialliti raccontano l'epopea dei gerarchi della famiglia Piromalli. Esperti di massoneria e potere, raffinati impresari del crimine, abili ricattatori, con un senso per la politica fuori dal comune. In passato sono stati registrati persino contatti, incontri veri e propri, con l'ex senatore Marcello Dell'Utri. C'era il marchio dei faccendieri dei Piromalli, per esempio, nel tentativo di truccare le schede degli elettori italiani del Venezuela durante le elezioni del 2008. Un'inchiesta esplosiva, questa, scomparsa dai riflettori e ormai destinata all'archiviazione. Insomma, più che un clan un vero impero del Male, che ha ridefinito i confini del regno. Gioia, Roma, Milano, New York, Quito, Caracas. Coordinate geografiche di una multinazionale del crimine. L'undici febbraio '79 a Gioia Tauro una marea umana sfila per il paese. È il funerale di don Mommo Piromalli, il capo supremo della Piana. Una corona di fiori si distingue tra le altre: «Gli amici del New Jersey». Oggi Gioia e l'America non sono state mai così vicine. C'è un filo diretto con il porto calabrese, certo. Ma non si tratta solo di grandi navi cargo che dai porti statunitensi attraversano lo Stretto di Messina e raggiungono lo scalo di Gioia Tauro. C'è molto di più. La colla che tiene insieme terre così distanti è il denaro, il business. I magistrati di Reggio Calabria seguendo Antonio Piromalli, i suoi affari dentro Copam e all'interno dell'ortomercato di Milano, si sono trovati davanti a un personaggio italo-americano di nome Rosario Vizzari. Un imprenditore, Vizzari, che vive e lavora tra il New Jersey e New York. A lui fanno capo numerose società made in Usa, la più importante è la Global freight services Inc., accreditata, peraltro, presso la “Food and Drug amministration” per il settore del trasporto. In pratica fa import export e la sua attività è “omologata” dal governo Usa che impone uno standard preciso nel packaging della merce da spedire. È titolare, inoltre, della Avant Garde Sales & Marketing inc, società di un certo peso. Tanto da interloquire con la Regione Basilicata. Dopo la retata contro i Piromalli, infatti, i giornali locali hanno raccontato di quel viaggio effettuato nel dicembre 2015 da una delegazione della Regione con in testa il presidente Marcello Pittella. Tra le tappe i locali della Avant garde (8 mila metri quadri di capannoni a Ramsey New Jersey). C'è persino una foto che ritrae il politico e l'imprenditore accusato di essere il prestanome dei Piromalli. «Poi comunque gli ho fatto vedere come lavoriamo», Vizzari ha informato subito il capo bastone Antonio Piromalli della visita, «insomma il lavoro che facciamo... Lui che andava guardando capannoni, non capannoni... “Ma qua”, disse. “Ma qua è tuo?” Gli dissi: “Si... qua tutto mio è!”». Un vero insospettabile, Vizzari. Che il Ros dei carabinieri lo descrive così: «Dotato dai vertici della cosca di grande autonomia oltreoceano, attesa la sua ventennale residenza in America e la salda rete di contatti in suo possesso, tra Boston, Chicago, Miami, e naturalmente New York, ricevute le indicazioni del caso curava l’introduzione delle ingenti quantità di prodotti nel circuito della grande distribuzione degli Stati Uniti». Piromalli, Vizzari e consorzio Copam, avevano in ballo un grosso affare per le mani. L'importazione negli Stati Uniti di partite di olio d'oliva. «Ha detto che prende altre 52 mila bottiglie», spiegava Vizzari al telefono con il boss Piromalli, aggiungendo che tutta la merce in magazzino è stata venduta, suscitando l'entusiasmo del padrino di Gioia: «Ma davvero?». Chi indaga e ascolta, però, è convinto che dietro tale commercio ci sia qualcosa di illegale, una truffa sulla qualità dell'olio. La vendita dell'olio, di scarsa qualità come ammettono gli stessi indagati intercettati, avveniva con un meccanismo ben preciso. Il fornitore della materia prima avrebbe venduto a Copam che a sua volta lo avrebbe girato a Vizzari l'Americano. A mediare questi passaggi, sostengono gli investigatori sarebbe stata la P&P, società di Piromalli. Vizzari, in pratica, varrebbe continuato a comprare l’olio a 2,63 euro, mentre il boss conservava inalterati i suoi guadagni per le vendite in America. E inoltre avrebbe trattenuto dal fornitore mezzo euro per ogni litro venduto a Vizzari. L'olio importato con le società di Vizzari finiva così nei supermercati degli Stati Uniti. Nelle carte dell'inchiesta ci sono i nomi dei colossi della grande distribuzione americana. Da Wallmart a Costco. La prima, per esempio, è la multinazionale statunitense, fondata da Sam Walton nel 1962. «È il più grande rivenditore al dettaglio nel mondo. Considerata la terza catena commerciale americana, la nona nel mondo» annotano i militari del Ros. Vizzari assicurava a Piromalli di essere in grado di rifornirli non solo di olio “Bel frantoio”, questo il marchio, ma anche di arance, mandarini e limoni prodotti dal consorzio calabrese in mano al clan. L'imprenditore calabro-americano è in contatto con vari intermediari in grado di piazzare i prodotti delle 'ndrine sugli scaffali dei colossi statunitensi. Uno di loro è stato invitato persino in Calabria per valutare di persona la qualità della filiera produttiva. Contattato da L'Espresso subito dopo la notizia dell'indagine a suo carico, Vizzari ha preferito non commentare. Dal profumo delle olive e della zagara ai miasmi dei rifiuti in Ecuador. Cambia il settore, mutano Paese e protagonista, ma ciò che resta e fa da sfondo sono i legami con la famiglia di Gioia Tauro. Questa volta è un avvocato a conquistarsi la scena. Si chiama Giuseppe Luppino. Negli anni '90 è stato, per un brevissimo periodo, nella società di gestione dell'Aeroporto dello Stretto. Poi per sette anni, fino al 2008, ha ricoperto il ruolo di presidente del consiglio d'amministrazione nella Piana Ambiente, società partecipata dai comuni dell'area che si occupava di raccolta dei rifiuti. Luppino è secondo due collaboratori di giustizia un professionista nell'orbita delle cosche e persino un massone. I pentiti lo accusano di essere legato a entrambe le cosche che hanno dominato insieme la Piana per cento lunghi anni: i Piromalli e i Molè, uniti da un'alleanza secolare, poi interrotta bruscamente. I Molé sono stati a lungo considerati il braccio militare dei primi. L'avvocato non è né indagato né è stato coinvolto nell'inchiesta Provvidenza. La sua figura è, però, presente negli atti dell'indagine. Il nome Luppino, infatti, compare nei verbali dei pentiti che indicano il Venezuela e l'Ecuador come basi degli interessi dell'avvocato. E in effetti da alcuni documenti consultati da L'Espresso emerge il grande business legale di Luppino: rifiuti e impianti biogas con una società dell'Ecuador controllata fino a due anni fa una seconda azienda con sede a Padova, la Gasgreen Group, del gruppo Rossato, leader nel settore dei rifiuti. Della Gasgreen italiana Luppino è stato consigliere dal 2011 al 2015. Nello stesso periodo tra i consiglieri compariva anche Sandro Rossato, indagato per mafia, poi assolto nel 2008, e sei più tardi finito di nuovo in una nuova inchiesta antimafia della procura di Reggio Calabria sul sistema dei rifiuti nella città dello Stretto. I ristoranti in Germania, le pale eoliche in Serbia, le discoteche in Romania, la movida a Malta, i soldi in Svizzera. E poi i traffici di coca che passano da Olanda e Spagna. I clan italiani si sono internazionalizzati. Mentre le armi per combatterli restano spuntate. L'italiana Gasgreen ha avuto per molti anni il controllo, 67 per cento di quote, della società dell'Ecuador Gasgreen S.A. Il restante 33 per cento, risulta da documenti ufficiali governativi dell'Ecuador, è stato a lungo in mano proprio a Luppino. Poi nel 2014 inizia la dismissione delle quote che facevano capo all'azienda padovana. Titolare del 98 per cento diventa la Ingepa Panama SA del gruppo spagnolo Ingeconser, mentre l'avvocato di Gioia possiede il 2 per cento e ricopre la carica di presidente. La società ha un capitale sociale di oltre 2 milioni di dollari. E continua a lavorare per il pubblico. Numerosi, infatti, i contratti stipulati con l'Empresa publica de gestion integral de residuos solidos, in pratica l'ente pubblico di Quito che si occupa di rifiuti. A partire dal 2010 Gasgreen Sa si è occupata del trattamento del biogas prodotto nella discarica di El Inga, 53 ettari di buche a 39 chilometri dalla capitale ecuadoregna, dove arrivano 2 mila tonnellate al giorno di spazzatura varia. Inoltre il 22 agosto 2016 ha tagliato un altro ambizioso traguardo: una centrale di produzione elettrica a biogas di 5 MW. Un progetto approvato dal «Consejo sectorial de la producion», una sorta di commissione interna al ministero della «Produccion, Empleo y Competitividad». Valore dell'investimento di poco superiore ai 6 milioni di dollari, ripartito tra Gasgreen, 55 per cento, e il restante 45 per cento tra non meglio precisati «finanziamenti locali e stranieri». I documenti ufficiali dell'accordo indicano un preciso cronoprogramma degli investimenti: nel 2015 i primi 2 milioni di dollari, l'anno successivo un'altra quota e nel 2017 lo stanziamento finale di 1 milione e 227 mila dollari. Nell'atto di approvazione viene sottolineato anche che la centrale permetterà di assumera fino a 20 persone e che per questo motivo alla società saranno concessi forti sgravi fiscali, anche sulle importazioni. Gli affari sudamericani dell'avvocato che i pentiti accostano al clan Piromalli vanno avanti da moltissimo tempo. I boss pentiti sostengono che lì può contare su amicizie importanti. Dichiarazioni tutte da verificare. Di certo, invece, c'è che Luppino è attivo nel settore rifiuti in Ecuador almeno dal 2010. Da quando, cioè, anche la Gasgreen padovana dei Rossato ha iniziato a operare in una delle discariche più grandi del Paese sudamericano. «Greengas, buenos dias», risponde una ragazza molto gentile alla sede centrale della società a Quito. Chiediamo se l'avvocato Luppino è lì, «no, è all'estero, torna tra un mese». Chiediamo allora il cellulare, «certo...». Purtroppo, però, neppure tramite cellulare siamo riusciti a parlarci. Volevamo chiedere all'avvocato Luppino come è nata l'idea dell'investimento a Quito e capire come mai proprio quello Stato. E, infine, come risponde alle accuse dei pentiti. Ma nel distretto della capitale ecuadoregna ci sono tracce di personaggi legati alla 'ndrangheta fin dal 2005. Anche loro emigrati col pallino dei rifiuti. In un'informativa del Ros - in cui viene citato di nuovo Sandro Rossato al tempo in affari con gli uomini della cosca Alampi (accusa dalla quale poi è stato assolto) - il principale esponente di questo clan si vantava al telefono degli ottimi rapporti con l'amministrazione ecuadoregna dell'epoca (la telefonata è di 12 anni fa) e aggiornava il suo interlocutore sulla riunione avuta il giorno prima con il ministro dell'Ambiente. Sette anni dopo quell'intercettazione un uomo della stessa famiglia, Valentino Alampi, verrà arrestato proprio in Ecuador, dove era latitante e dove gestiva delle attività economiche legate al settore ambientale. Insomma, che affare l'Ecuador.

Mafia, i Laudani nei Lidl e tra i vigilantes del tribunale di Milano: Le mani del clan Laudani su supermercati Lidl e vigilantes del Tribunale di Milano. Ecco le carte dell'inchiesta mafia e Lidl: citati consiglieri e sindaci, scrive il 16 maggio 2017 Affari Italiani. Operazione Security. Facebook53TwitterGoogle+LinkedInFlipboard

Milano, le mani della mafia su supermercati e vigilantes del tribunale di Milano: 15 ordinanze di custodia cautelare, commissariate 4 sedi Lidl. Polizia di Stato e Guardia di Finanza hanno eseguito ieri 15 misure cautelari e due fermi tra la Lombardia e la Sicilia nell'ambito di una indagine contro le attività criminali della famiglia mafiosa catanese dei Laudani coordinata dalla Dda di Milano. In particolare, secondo quanto si è appreso, sono state poste in amministrazione giudiziaria quattro direzioni generali della società di grande distribuzione Lidl, cui afferiscono circa 200 punti vendita. Destinatarie delle misure sarebbero anche alcune società del consorzio che ha in appalto tra le proprie attività commerciali, anche la vigilanza privata del Tribunale di Milano. Si tratta di società che forniscono i vigilantes del Palagiustizia. Nell'operazione sarebbero emersi stretti rapporti tra alcuni dirigenti delle società coinvolte e messe in amministrazione giudiziaria, e alcuni personaggi ritenuti appartenenti alla famiglia dei Laudani. Nel corso dell'operazione, il gip del tribunale di Milano, su richiesta della Dda, ha emesso 15 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di soggetti a vario titolo accusati di far parte di un'associazione per delinquere che ha favorito gli interessi, in particolare a Milano e provincia, della famiglia mafiosa catanese dei Laudani. Altri due fermi di indiziato di delitto sono stati eseguiti a Catania. All'interno delle carte dell'inchiesta, oltre 300 pagine, sono citati anche esponenti politici: sindaci e consiglieri comunali di Milano. Secondo i magistrati "Elia Orazio e Palmieri Domenico, con il ruolo di associati, soggetti già facenti parte della pubblica amministrazione sanitaria e provinciale che, entrati in quiescienza, sfruttano, a pagamento, le proprie relazioni con esponenti del comune di Milano, di sindaci e assessori". Nei guai è finita anche Giovanna Afrone, poiché "in concorso con persone non identificate, prometteva a Palmieri Domenico di affidare alle imprese di Micelotta appalti del comune di Milano a fronte dell'impegno di Palmieri (destinatario della remunerazione di € 1000 mensili da parte di Micelotta, Politi e Alecci) di farle ottenere un posto di lavoro presso il settore bilancio della Provincia di Milano nonché il trasferimento della cugina al settore informatico del Comune di Milano". I nomi di politici citati nelle carte dell'inchiesta sono quelli di Graziano Musella e Franco D'Alfonso. Per entrambi non c'è alcun addebito né alcuna ipotesi di reato, né ovviamente sono indagati. I militari del Nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Varese e personale della Squadra mobile di Milano hanno eseguito ieri l'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del Tribunale di Milano, su richiesta della Dda nei confronti di 15 persone, accusate di far parte di un'associazione per delinquere che ha favorito gli interessi, in particolare a Milano e provincia, della famiglia mafiosa catanese dei "Laudani" o "Mussi i ficurinia". Commissariate le società di sorveglianza privata del Tribunale di Milano con i loro 600 lavoratori, assume la gestione della multinazionale tedesca della grande distribuzione Lidl in quattro delle dieci direzioni generali italiane da cui dipendono 214 supermercati e 4 centri logistici in 6 regioni. GLI APPALTI - La presunta associazione per delinquere smantellata oggi dalla Dda di Milano avrebbe ottenuto "commesse e appalti di servizi in Sicilia" da Lidl Italia e Eurospin Italia attraverso "dazioni di denaro a esponenti della famiglia Laudani", clan mafioso "in grado di garantire il monopolio di tali commesse e la cogestione dei lavori in Sicilia". Gli arrestati, inoltre, avrebbero ottenuto lavori da Lidl Italia "in Piemonte" attraverso "dazioni corruttive". Lo si legge nell'ordinanza cautelare. Tra i provvedimenti adottati il "commissariamento di alcuni filiali della catena di supermercati Lidl, per cui è stata accertata collusione di funzionari che erano a libro paga e si facevano corrompere". Tra le società coinvolte un consorzio che gestisce la sicurezza a Palazzo di Giustizia a Milano. Il passaggio di denaro è stato spiegato dal sostituto procuratore Paolo Storari: "Qualcuno emetteva le fatture false, che venivano pagate. A questo punto i soldi venivano restituiti, naturalmente con una commissione perchè nessuno fa niente per niente. L'imprenditore si trovava allora con una liquidità che in parte usava per i propri scopi personali, in parte teneva per alimentare il circolo di corruzione e traffico di influenze e in parte dava ai Laudani per i loro scopi". Le indagini hanno seguito proprio questo flusso di denaro "documentando viaggi verso Catania con i soldi" che poi servivano alla famiglia Laudani per le proprie attività come ad esempio il sostentamento dei carcerati. Va ricordato che i Laudani sono una "famiglia storica di Catania" e possono considerarsi il "braccio armato di Nitto Santapaola", ha sottolineato Boccassini. La fase investigativa è dunque alle "battute finali" e "si procederà con la richiesta di rito immediato". Secondo il gip di Milano, esisteva uno "stabile asservimento di dirigenti Lidl Italia srl, preposti all'assegnazione degli appalti, onde ottenere l'assegnazione delle commesse, a favore delle imprese controllate dagli associati, in spregio alle regole della concorrenza con grave nocumento per il patrimonio delle società appaltante". E' quando si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giulio Fanales nell'ambito dell'inchiesta che ha portato al commissariamento di 4 direzioni generali italiane della multinazionale tedesca per presunte infiltrazioni mafiose. Gli ambiti entro cui sarebbero maturati i contatti con esponenti delle cosche sono, spiega il gip, quelli "dell'organizzazione della logistica presso i magazzini ove è custodita la merce di natura non alimentare, l'allestimento di nuovi supermercati, il rifacimento di negozi preesistenti, le manutenzioni periodiche o le riparazioni occorrenti in caso di guasti improvvisi e di altri eventi accidentali". Nel provvedimento viene chiarito anche come la mafia, attraverso "dipendenti a libro paga", sarebbe riuscita ad aprirsi un varco all'interno della multinazionale. "Il dipendente a libro paga - si legge nell'ordinanza - trascorso un certo tempo esce dalla Lidl Italia srl per essere assunto da una delle società facenti capo agli odierni indagati. Tale movimento da un lato allontana i sospetti dalla sua persona, dall'altro consente l'avvicinamento, proprio ad opera dell'ex dipendente, di un ulteriore dirigente, destinato a sostituirlo quale referente dei corruttori all'interno della Lidl". "Una volta bandita la gara - questo sarebbero stato il modo di operare degli indagati - il dirigente rivela agli indagati l'ammontare delle offerte avanzate dalle imprese concorrenti, sì da rendere loro possibile la presentazione di un'offerta leggermente inferiore, destinata a risultare vincente". In cambio, i "corruttori versano nelle mani del dirigente una somma in contanti, con cadenza periodica. L'importo di ogni dazione viene commisurato in percentuale sull'ammontare del fatturato, maturato nel periodo precedente, derivante dall'affidamento degli appalti ottenuti in virtu' dell'accordo corruttivo". Un sistema che avrebbe "azzerato la concorrenza nell'acquisizione di beni e servizi a favore delle imprese controllate dagli associati, con il conseguente grave danno patrimoniale in pregiudizio della società". "Con particolare riferimento alle articolazioni di Lidl Italia presenti nel nord, la precisa censura che il collegio ritiene di muovere alla società riguarda l'assenza di efficaci meccanismi di controllo interno". Lo scrivono i giudici della sezione di prevenzione del Tribunale di Milano, presieduti da Fabio Roia, nel provvedimento con cui commissariano le direzioni generali di Volpiano (Torino), Biandrate (Novara), Somaglia (Lodi) e Misterbianco (Catania) "limitatamente ai settori riconducibili alla ristrutturazione / rifacimenti, alla logistica e alla sicurezza" per un periodo di sei mesi. Dall'indagine svolta dai pm della Dda milanese Ilda Boccassini e Paolo Storari, è emersa, sintetizzano i giudici nel loro decreto, l'esistenza di una presunta "associazione a delinquere aggravata dalla finalità di agevolazione di sodalizio mafioso e di riciclaggio" che avrebbe mantenuto "contatti continuativi con dirigenti e organi apicali di Lidl Italia spa, finalizzati all'ottenimento di commesse nel settore dei lavori di ristrutturazione delle filiali, della logistica e della vigilanza". Una delle società, la SecurPolice si era aggiudicata un appalto anche per la sicurezza dell'Expo. Ciò che è "mistificante" secondo il capo della Dda Milanese è "ritenere che non sia un disvalore la promessa di vantaggi anche minimi, o di poche centinaia di euro". Dall'indagine della procura di Milano emerge infatti che le fatture false non ammontavano mai a cifre esorbitanti: "Se si fa una fattura falsa da 500mila euro salta all'occhio. Se invece sono tante piccole no. Ed è in questo modo che agivano per evitare di incappare in controlli" ha spiegato poi il sostituto procuratore Paolo Storari che ha coordinato le indagini. Di corruzione "polverizzata" ha parlato Boccassini "che deriva da un abbassamento della soglia" di attenzione sul fenomeno. Secondo la numero uno della direzione distrettuale antimafia milanese "è qualcosa di ancora più inquietante" per la capillarità. C'erano poi dei facilitatori: "Ex pensionati che agivano nelle pubbliche amministrazioni e in passato appartenevano a sindacati. Erano loro che sapevano a chi rivolgersi" ha raccontato Boccassini e "venivano pagati anche mille o 2mila euro al mese per procurare questi contatti" ha spiegato Storari, in aggiunta. Il reato ipotizzato in questo caso è quello di traffico di influenze". Le due persone arrestate in Sicilia nell'ambito dell'inchiesta condotta a Milano sul clan catanese dei Laudani, sono Enrico Borzì e Vincenzo Greco, indagati per associazione mafiosa. In corso, nel Catanese, perquisizioni e interrogatori. Notificato anche alla direzione generale della Lidl di Misterbianco uno dei quattro provvedimenti di commissariamento, limitatamente ai settori riconducibili alla ristrutturazione/rifacimenti, alla logistica e alla sicurezza, per un periodo di sei mesi. Tra gli indagati nell'ambito dell'indagine su presunte infiltrazioni mafiose condotta dalla Dda di Milano, "emergono le figure degli imprenditori Luigi Alecci, Giacomo Politi ed Emanuela Micelotta che gestiscono un consorzio di cooperative operative nel settore della logistica e che sono i referenti al nord della famiglia mafiosa dei Laudani, un clan radicato a Catania con una lunga tradizione di delitti di sangue". Lo scrivono i giudici della sezione di prevenzione del Tribunale di Milano. I tre "gestiscono di fatto un consorzio di società cooperative, formalmente amministrate da prestanome, che commettono una serie di reati di carattere tributario, tra cui l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, e che, dopo un breve periodo, sono messe in liquidazione". Ai Laudani "vengono corrisposte periodicamente somme di denaro finalizzate non solo al mantenimento delle famiglie dei boss detenuti, ma anche all'ottenimento di commesse in realtà imprenditoriali, come la Lidl" con la quale "i rapporti risultano in essere da diversi anni". Diverse le modalità con cui si sviluppano i rapporti tra i componenti della presunta associazione e il personale direttivo della Lidl: "al nord tramite accordi corruttivi tra gli indagati e personale dirigenziale della Lidl", "mentre a sud le commesse vengono ottenute tramite l'interessamento della famiglia mafiosa dei Laudani, cui gli indagati corrispondono somme di denaro". Nessuna "buona fede" per i pm e per il Tribunale può essere invocata dai vertici di Lidl "che non solo percepiscono denaro per assegnare lavori in favore degli indagati (in particolare Piemonte e Lombardia) ma intrattengono, in via diretta o indiretta (questo allo stato non è noto) rapporti con soggetti appartenenti alla famiglia mafiosa dei Laudani in grado di orientare le scelte di Lidl nella scelta degli appaltatori di servizi". Per i giudici ci sono quindi i presupposti per un commissariamento di sei mesi "in relazione al livello di infiltrazione allo stato accertato". Non è la prima volta che il clan dei Laudani viene beccato con le mani nella grande distribuzione, come nell'operazione scattata oggi a Milano. Più di dieci anni fa un'inchiesta della procura distrettuale antimafia di Catania aveva inguaiato Sebastiano Scuto, il "re" dei supermercati Despar in Sicilia, fondatore di Aligrup, colosso della distribuzione alimentare con un oltre duemila dipendenti. E' ritenuto dai magistrati un prestanome dei Laudani tanto da essere condannato in primo e secondo grado, prima a quattro anni e otto mesi e poi a 12 anni. Nei suoi confronti recentemente la Cassazione ha annullato con rinvio il secondo grado e restituito solo in parte il suo patrimonio. E' Giovanna Rosaria Maria Afrone la dipendente del Comune di Milano arrestata (ai domiciliari) con l'accusa di traffico d'influenze nell'ambito dell'inchiesta della Dda che ha portato anche al commissariamento di 4 direzioni di Lidl Italia. Nelle sue vesti di 'responsabile del Servizio gestione contratti trasversali con convenzioni centrali di committenza', Afrone si sarebbe messa "permanentemente" al servizio di alcuni componenti della presunta associazione a delinquere che avrebbe commesso vari reati tributari e tenuto rapporti con una cosca catanese. In particolare, Afrone, "in concorso con persone non identificate", avrebbe promesso a Domenico Palmieri (arrestato) "di affidare alle imprese di Micelotta (altro arrestato) appalti del comune di Milano a fronte dell'impegno di Palmieri di farle ottenere un posto di lavoro presso il settore bilancio della Provincia di Milano nonchè il trasferimento della cugina" al Comune di Milano. La dipendente comunale avrebbe garantito alle imprese riconducibili agli indagati "l'assegnazione di plurimi appalti, per contratti di servizio di durata temporanea, da parte del Comune di Milano, ciascuno per un importo complessivo compreso entro euro 40.000, sempre tramite procedure di affidamento diretto". Tra gli impegni da lei assunti anche quello di garantire "un appalto per la pulizia di tutte le scuole gestite dal Comune di Milano", sempre sotto la soglia dei 40mila euro (entro la quale non si deve procedere a una gara). "Il pubblico ufficiale - questa l'immagina utilizzata dal gip - sembra condurre per mano i suoi corruttori, nei meandri degli appalti pubblici e delle complicate regole che li governano". E' grazie a personaggi come Giovanna Rosaria Maria Afrone, responsabile del servizio gestione contratti trasversali con convenzioni centrali di committenza del Comune di Milano, che i siciliani sarebbero riusciti a "penetrare" negli appalti pubblici lombardi. A "facilitare" gli appalti ci sarebbero stati ex dipendenti pubblici, come Orazio Elia, che aveva lavorato nel settore ospedaliero, e Domenico Palmieri, ex dipendente della Provincia di Milano, e tuttora sindacalista con delega al rapporto con le istituzioni. Elia sarebbe stato "stipendiato" mensilmente dal sodalizio criminale. Alessandro Fazio, "gestore di numerose società e titolare anche di appalti pubblici, tra cui il servizio di vigilanza presso il Tribunale di Milano" risulta dalle indagini "in costanti rapporti con esponenti della famiglia mafiosa dei Laudani". Lo scrivono i giudici del Tribunale di Milano sezione misure di prevenzione nel provvedimento con cui commissariano in parte Lidl Italia. Il giudici spiegano che "da tempo, Fazio corrisponde denaro" a persone vicine al clan "riuscendo a ottenere commesse nel settore della vigilanza da parte di importanti società (tra cui Lidl) presenti anche in Sicilia". Alessandro Fazio e il fratello vengono considerati dai pm tra i capi della presunta associazione a delinquere vicina alla mafia. Riguardo alla sua attività di gestore di fatto della Securpolice Servizi Fiduciari, la società che si occupa della vigilanza privata del Palazzo, Alessandro Fazio viene accusato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, quale amministratore con l'aggravante della finalità di agevolare attività delle organizzazioni di tipo mafioso. "Quello che oggi va tutelato sono i 600 dipendenti delle società che devono continuare a lavorare nonostante i loro datori di lavoro siano stati arrestati". Così il procuratore aggiunto Ilda Boccassini commentando l'operazione Security, che ha coinvolto diverse aziende tra cui la "Securpolice Group scarl" di Cinisello Balsamo che opera nel settore della sicurezza e della vigilanza, e che gestiva anche le guardie giurate del Palazzo di Giustizia di Milano. La società sarà commissariata per un anno se il gip convaliderà il decreto. Almeno due milioni e mezzo di euro l'ammontare dei patrimoni derivanti da reati fiscali che i magistrati di Milano sono riusciti a sequestrare preventivamente e d'urgenza in questa fase. La "Securpolice Group scarl" di Cinisello Balsamo, che fornisce servizi a strutture pubbliche e private, in particolare presso catene di supermercati su tutto il territorio nazionale, è gestita - secondo quanto emerge dalle carte della Dda - da Alessandro e Nicola Fazio, siciliani d'origine "ma qui da una vita e naturalmente puliti altrimenti non avrebbero potuto partecipare alle gare" ha sottolineato Boccassini. Proprio i due fratelli erano collegati a Orazio Salvatore Di Mauro, organico dei Laudani, che se ne era servito per "infiltrarsi nel tessuto economico lombardo". I Fazio erano sollecitati da Luigi Alecci, considerato "la figura di riferimento del sodalizio, in grado di gestire e mediare i rapporti tra gli imprenditori" e "concorrevano ad inviare, per il tramite dell'affiliato Enrico Borzi', somme di denaro contante in Sicilia destinate al sostentamento economico delle famiglie dei detenuti appartenenti alla famiglia mafiosa Laudani". In Lombardia i referenti erano anche Giacomo Politi ed Emanuele Micelotta". Una ricevuta per attestare i versamenti alle cosche. Se ne parla nell'ordinanza di custodia cautelare che ha portato a 15 arresti su richiesta della Dda di Milano. "Ai familiari dei detenuti - scrive il gip Giulio Fanales - che ricevevano aiuti economici dal clan mafioso Laudani veniva richiesto dal "cassiere" della cosca di sottoscrivere "una ricevuta". Parte dei "versamenti alla cosca mafiosa" da parte degli arrestati, che facevano affari al nord, finiva alle famiglie dei detenuti del clan. Il denaro, si legge nel provvedimento, "viene da un indagato portato in Sicilia e da costui consegnato nelle mani del cassiere del clan, Borzi' Enrico". Il cassiere "tiene un apposito registro, in cui vengono indicati i riferimenti dei versamenti in ingresso (nominativi, date e importi relativi alle somme introitate) ed i riferimenti dei pagamenti in uscita (nominativi, date e importi relativi alle somme corrisposte)". Al familiare del detenuto, "beneficiario del versamento, il cassiere richiede la sottoscrizione di una ricevuta". Denaro e voti in cambio della modifica dei vincoli urbanistici necessari per la costruzione di un campo da tennis e di un parco giochi. C'è anche questo episodio che vede protagonista Angelo Antonio Di Lauro, consigliere comunale del comune di Cinisello Balsamo, indagato per traffico d'influenze. Tre degli arrestati nell'inchiesta della Dda di Milano sulle presunte infiltrazioni al nord del clan mafioso dei Laudani gli avrebbero promesso "somme di denaro allo stato non determinate nonchè voti in occasione delle prossime elezioni amministrative quale prezzo della mediazione illecita di Di Lauro verso un assessore al comune di Cinisello (allo stato non meglio identificato)". Ciò perchè quest'ultimo "contribuisse a modificare i vincoli urbanistici esistenti su una villa di rilevanza storica" nel Comune perchè poi potessero "costruire su quest'area campi da tennis" e un "parco giochi".

'Ndrangheta, il codice delle regole interne. Tutti i "Canoni" ovvero usi, riti e norme dell'organizzazione mafiosa più potente al mondo, scrive Nadia Francalacci il 28 aprile 2017 su Panorama. Il boss latitante Marcello Pesce, arrestato dalla Polizia il primo dicembre del 2016, aveva attivato un sistema aziende e società intestate a prestanomi, attraverso le quali esercitava il pieno controllo del trasporto di merci su gomma. L'inchiesta "Recherche 2" della Squadra mobile di Reggio Calabria e dallo Sco di Roma che ha portato all’arresto di 20 affiliati alla cosca del boss Pesce, ha ricostruito tutti gli affari e i traffici di droga gestiti dalla ‘ndrina rosarnese. La cosca gestiva anche un traffico di sostanze stupefacenti con soggetti delle province di Cosenza, Vibo Valentia e Catania. Tra le aziende sequestrate questa mattina e riconducibili a Marcello Pesce anche la Getral, Le Tre Stagioni, Azienda Agricola Rocco Pesce. Noi abbiamo ricostruito i “codici d’onore” dell’organizzazione mafiosa considerata tre le più potenti al mondo con l’aiuto del Generale dell’Arma dei Carabinieri, Pasquale Angelosanto, per moltissimi anni Vice Comandante del Ros e autore del libro “Il Canone e le proiezioni internazionali della ‘Ndrangheta”.

Battesimo di "una locale". La 'Ndrangheta, in linea generale, apra una "locale" in ogni paese dove è presente una Caserma dei Carabinieri. "...in un paese dove non c'è una caserma dei Carabinieri non si può aprire una locale perchè la 'ndrangheta è un corpo rivale". Questo quanto scrive il generale Angelosanto nel suo libro, facendo riferimento ad un verbale del boss Antonino Belnome. Non si tratta solo di un atteggiamento antagonistico, ma gli ndranghetisti voglio raggiungere una diffusione capillare sul territorio al pari dei carabinieri. La "locale" è una tipica espressione gergale 'ndranghetista - scrive il militare - e prende il nome della locale di provenienza. Non viene infatti indicata la "locale di Torino" bensì, ad esempio, la "locale di Natile (di Careri) a Torino". "Questo è indicativo di un processo di colonizzazione e del rapporto di dipendenza-subordinazione dalle locali madri della Calabria".

I pagamenti alla mamma di Reggio. A conferma della dipendenza delle locali e dell'unitarietà della struttura 'ndranghetista, la "locale" distaccata effettua dei pagamenti, una sorta di tributo alla "mamma di Reggio Calabria". "I versamenti alla mamma del crimine avvengono annualmente- spiega Angelosanto nel suo libro - solitamente in occasione del raduno che si svolge a Polsi il 3 settembre".

La Riunione dei Polsi. Il generale dei Carabinieri scrive: "La riunione al santuario dei Polsi che si svolge ogni prima domenica di settembre, rappresenta la massima espressione del vertice di comando della 'ndrangheta. Al Santuario dei Polsi si riuniscono tutti i capi dei locale e a questa riunione di forma il "crimine". Ogni anno viene effettuato un nuovo banco e vengono nominati i referenti in ogni paese". Durante l'operazione dei Ros denominata "Il crimine", i militari filmano al santuario dei Polsi, il cosiddetto giuramento a "circolo formato".

Il tribunale e la trascuranza. "La 'ndrangheta cerca di preservare il prestigio dei suoi appartenenti - spiega Angelosanto- l'affiliato non "sbaglia" mai semmai commette una mancanza, una svista che prende il nome di "trascuranza". A conferma dell'unitarietà dell'organizzazione criminale, esiste un "tribunale" ovvero un'autorità preposta al giudizio degli errori.  

Integralismo 'ndranghetista. "In Calabria non si affilia mai così per così, non si affilia mai un napoletano o un siciliano, sono cose rare, rarissime. Si è rigidi nelle regole anche con i nostri figli, questo ci differenzia", riporta il generale da un verbale del boss Belnome. Ogni persona o ogni località "non calabrese" viene trattata con diffidenza.

La copiata. Sono i nomi dei solidali che un compartecipe deve ricordare in quanto sono coloro che lo hanno affiliato o che gli hanno conferito un avanzamento di grado, attribuendogli una "dote" superiore, viene scritto del testo “Il Canone e le proiezioni internazionali della ‘Ndrangheta”. "La copiata viene indicata al momento dell'investitura o del rito di conferimento o di passaggio da un grado all'altro ed è costituita da una terna di nomi che per un affiliato di una locale diversa da quella di appartenenza, rappresenta un codice di autentificazione e riconoscimento".   

Società minore o società di sgarro. All'interno della gerarchia 'ndranghetista c'è la cd. "società maggiore" che è quella che ha potere decisionale e di relazione con le altre organizzazioni criminali. Poi c'è quella cosiddetta "minore" composta da un Capo giovane da quale dipende un Puntaiolo e un Picciotto di giornata. Allo sviluppo dell'organizzazione, però, si è avuto anche uno sviluppo di nuovi gradi e regole: Contrasto onorato: sono soggetti che non appartengono all'ndrangheta ma di cui ci si può fidare e che potrebbero entrare a farne parte; Giovane d'onore: è data per diritto ai discendenti maschi di appartenenti allacosca e che potrebbero farne in parte in futuro. Non è un grado ma un riconoscimento che potrebbe esprimere un concetto di potenzialità che deriva iure sanguinis; Picciotto: è la prima dote che un "contrasto" può acquire entrando a far parte della ndrangheta. Questo grado può essere concesso solo al 14 anno di età; Camorrista: è la seconda dote della gerarchia. Si può essere battezzati camorristi senza essere stati prima picciotti. C'è però, il “camorrista semplice", il 'camorrista di fibbia' quando può convocare una riunione, il “camorista formato” quando può sostituire il capobastone del proprio locale; Sgarrista: sono la colonna portante della ndrangheta. Esiste lo “'sgarrista di sangue” e lo “sgarrista definitivo”.

Società maggiore o santa. La "Santa" è una formazione compartimentata interna della stessa 'ndrangheta- scrive il generale Angelosanto - secondo le indicazioni di molti collaboratori di giustizia, è nata a metà degli Anni '70 in seno all'organizzazione e ne fa parte chi ha il grado di santista che è uno dei gradi apicali della gerachia 'ndranghetista".

I gradi della società maggiore: - Il santista: è il primo grado; il “vangelista”: colui che ha prestato fedeltà all'organizzazione ponendo la mano su copia del Vangelo; il quartino: grado successivo al vangelista; il trequartino: grado successivo al quartino; padrino o quintino: grado apicare che uno 'ndranghetista può raggiungere. E' attribuito a pochi soggetti. 

Le cariche nella società minore. Il capo giovani è colui che comanda la società minore. Ed è l'unico che può emntrare in contatto con esponenti della società maggiore. Il puntaiolo deve vigilare sul comportamento dei giovani affiliati e riferisce al Capo giovani. Il picciotto di giornata è colui che fa girare le "novità" tra i componenti della società minore.

Le cariche della società maggiore. Il capo bastone è il responsabile della locale e ha capacità decisionale autonoma; il mastro di giornata è il portavoce del capo bastone, tramite lui gli affiliati ricevono le notizie e le informazioni. Il Contabile è colui che è preposto alla gestione dei proventi delle attività illecite e provvede al mantenimento economiche delle famiglie bisognose. Il Crimine, invece, è colui che è responsabile della pianificazione ed esecuzione delle azioni delittuose.

Sorella d'omertà. "E' rappresentata dalla donna che è legata in qualche modo all'uomo d'onore- scrive Angelosanto - le donne non fanno alcun giuramento di fedeltà alla ndrangheta perchè il loro primo dovere è quello di essere fedeli al proprio uomo". "Se viene riconosciuto loro questo titolo, queste hanno il compito di dare assistenza ai latitanti, di far circolare le 'masciate, mantenere i contatti tra detenuti e l'organizzazione esterna".

Spogliato. "Nel gergo dello 'ndranghetista - specifica il generale Angelosanto- è l'affiliato espulso dall'organizzazione, ovvero provato della veste o della camicia che simbolicamente, il battezzato indossa al momento dell'affiliazione". Lo spogliato viene sottoposto a processo del loro tribunale. "Questo organismo è composto dal capo società che funge da giudice, dal crimine che rappresenta l'accusa e dalla "carità" che ha funzioni di difesa del reo".  Il boss latitante Marcello Pesce, arrestato dalla Polizia il primo dicembre del 2016, aveva attivato un sistema aziende e società intestate a prestanomi, attraverso le quali esercitava il pieno controllo del trasporto di merci su gomma. L'inchiesta "Recherche 2" della Squadra mobile di Reggio Calabria e dallo Sco di Roma che ha portato all’arresto di 20 affiliati alla cosca del boss Pesce, ha ricostruito tutti gli affari e i traffici di droga gestiti dalla ‘ndrina rosarnese. La cosca gestiva anche un traffico di sostanze stupefacenti con soggetti delle province di Cosenza, Vibo Valentia e Catania. Tra le aziende sequestrate questa mattina e riconducibili a Marcello Pesce anche la Getral, Le Tre Stagioni, Azienda Agricola Rocco Pesce. Noi abbiamo ricostruito i “codici d’onore” dell’organizzazione mafiosa considerata tre le più potenti al mondo con l’aiuto del Generale dell’Arma dei Carabinieri, Pasquale Angelosanto, per moltissimi anni Vice Comandante del Ros e autore del libro “Il Canone e le proiezioni internazionali della ‘Ndrangheta”.

Non solo ‘Ndrangheta.

Mafia Capitale, Buzzi: “Con immigrati si fanno molti più soldi che con la droga”. Uno dei settori in cui la "cupola" era più influente era quello delle politiche sociali: Luca Odevaine, membro del Tavolo di coordinamento nazionale sull'immigrazione, al telefono spiega: "Avendo questa relazione continua con il Ministero, sono in grado un po’ di orientare i flussi". Il braccio destro di Carminati: "Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?" Scrive Marco Pasciuti il 2 dicembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Per la “cupola” di Roma l’emergenza immigrati era una miniera d’oro: i fondi per i centri d’accoglienza sono un piatto ricco e il sodalizio criminale ipotizzato dagli inquirenti fa in modo che parte di questi finanziamenti finisca nelle tasche delle cooperative amiche. Gli inquirenti lo chiamano “Sistema Odevaine“: “La gestione dell’emergenza immigrati è stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo riconducibile a Buzzi si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo – si legge nell’ordinanza di applicazione delle misure cautelari firmata dal gip Flavia Costantini – alterando per un verso i processi decisionali dei decisori pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle risorse economiche gestite dalla P.A.”. Un sistema studiato per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici “che si dividono il mercato”. E il mercato dei fondi statali per i centri di accoglienza per gli immigrati è immenso. Gli inquirenti parlano della “possibilità di trarre profitti illeciti immensi (…) paragonabili a quelli degli investimenti illeciti realizzati in altri settori criminali come lo smercio di stupefacenti. Le intercettazioni parlano chiaro. Al telefono con Pierina Chiaravalle, Salvatore Buzzi, numero uno della cooperativa “29 giugno” e braccio operativo dell’organizzazione, domanda: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”.

Buzzi: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. Il centro del sistema è Luca Odevaine. Ex vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni e capo della polizia provinciale di Roma, “Odevaine è un signore che attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati”, scrivono i pm. Perché è così importante la sua figura? “La qualità pubblicistica di Odevaine risiede nell’essere appartenente al Tavolo di coordinamento nazionale insediato presso il Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione” e al contempo è “esperto del presidente del C.d.A. per il Consorzio “Calatino Terra d’Accoglienza”», ente che soprintende alla gestione del C.A.R.A. di Mineo”. Un’intercettazione in cui Odevaine parla con il suo commercialista fotografa il suo ruolo: “Avendo questa relazione continua con il Ministero – spiega l’ex vice capo segreteria di Veltroni – sono in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… vengono smistati in giro per l’Italia… se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a centri per l’accoglienza da attivare subito in emergenza… senza gara… (inc.) le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro…”. 

Odevaine: “Sono in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… io insomma gli faccio avere parecchio lavoro…”

Odevaine è ben pagato, secondo Salvatore Buzzi. Parlando con Giovanni Campennì, il braccio operativo dell’organizzazione spiega: “Mò c’ho quattro… quattro cavalli che corrono… col PD, poi con la PDL ce ne ho tre e con Marchini c’è… c’ho rapporti con Luca (Odevaine, ndr) quindi va bene lo stesso… lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese… ogni mese… ed io ne piglio quattromila”. Il piatto è ghiotto anche nella sola città di Roma e la cupola è talmente potente da deviare in sede di bilancio pluriennale risorse in favore delle strutture di accoglienza. Gli inquirenti sottolineano la “capacità del sodalizio indagato, di interferire nelle decisioni dell’Assemblea Capitolina in occasione della programmazione del bilancio pluriennale 2012/2014 e relativo bilancio di assestamento di Roma Capitale, avvalendosi degli stretti rapporti stabiliti con funzionari collusi dell’amministrazione locale, al fine di ottenere l’assegnazione di fondi pubblici per rifinanziare “i campi nomadi”, la pulizia delle “aree verdi” e dei “Minori per l’emergenza Nord Africa”, tutti settori in cui operano le società cooperative di Salvatore Buzzi”.

Buzzi: “Solo in quattro sanno quello che succede e sono nell’ordine Bianchini, Marino, Zingaretti e Meta”. Carminati: “E allora vai a battere co’ questi”. All’epoca dei fatti alla guida del dipartimento Promozione dei Servizi Sociali e della salute del Comune di Roma (che gestisce la questione immigrati) c’era Angelo Scozzafava, con il quale la “cupola” aveva ottimi rapporti: “Le indagini hanno evidenziato l’ipotesi di una remunerazione dell’attività funzionale di costui da parte di gruppo criminale  – scrivono gli inquirenti – con la promessa dell’assegnazione di un appartamento in una cooperativa” perché “Scozzi” come lo chiamano i sodali, “si fa promotore di attività a favore del gruppo presso altri organi dell’amministrazione comunale, per spingere su finanziamenti a favore del campo nomadi“. Ma dopo le elezioni comunali del 2013 le cose cambiano: il 14 giugno 2013 Buzzi raccontava al telefono a Carminati di trovarsi al Campidoglio “in giro per i Dipartimenti a saluta’ le persone”. La decisione veniva accolta favorevolmente accolta dall’ex Nar che riteneva necessario “vendere il prodotto amico mio, eh. Bisogna vendersi come le puttane ades…adesso”. A quel punto Buzzi raccontava la difficoltà di muoversi nell’ambito della nuova situazione politica romana in quanto in quel momento “solo in quattro sanno quello che succede e sono nell’ordine Bianchini, Marino, Zingaretti e Meta”, e Carminati rispondeva in maniera eloquente: “E allora mettiti la minigonna e vai a batte co’ questi, amico mio”.

Roma, inchiesta Mafia Capitale: "Immigrati e rom rendono più della droga", le intercettazioni che svelano il business, scrive il 3 Dicembre 2014 Franco Bechis su "Libero Quotidiano”. Da ieri a Tor Sapienza sanno chi debbono ringraziare per tutto quel che è accaduto in questi mesi. Ha un nome e un cognome: Luca Odevaine. Era il vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni quando era sindaco di Roma. Poi è stato nominato dall’Unione delle province italiane al tavolo del ministero dell’Interno che coordina l’emergenza immigrati. Un funzionario pubblico di area Pd di alto livello, che presiedeva pure una fondazione, la Integra/Azione, che si occupava di mediazione culturale con gli immigrati. Che però era al servizio di quella che la procura di Roma ha definito la «Mafia Romana»: riceveva per i favori al sodalizio, e in particolare per quelli fatti all’imprenditore Salvatore Buzzi - a capo di un vero impero travestito da coop che viveva sul business degli zingari e dell’immigrazione - un regolare stipendio in nero di 5 mila euro al mese. E in più soldi legati alle operazioni straordinarie che avrebbero portato vantaggi economici a Buzzi & c. Perché bisognerebbe fare conoscere agli abitanti di Tor Sapienza l’alto ex collaboratore di Veltroni? A spiegarlo è lo stesso Oldevaine durante un colloquio del 27 marzo 2014 con un collaboratore di Buzzi, il re della gestione immigrati. «Ah... lo Sprar a Roma...», sospira lui. Sprar è sigla che sta per «Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati». Si è aggiunta proprio durante l’operazione «Mare nostrum» alle tante sigle dell’emergenza immigrazione. Quel sistema serviva proprio ad affrontare le nuove emergenze, in particolare i flussi che arrivavano dalla Siria e dalla Libia in guerra: le migliaia di rifugiati richiedenti asilo. Nuova manna per Buzzi e la mafia romana, che già avevano approntato i loro «centri di accoglienza» per siriani e libici. «Ah, lo Sprar a Roma», sospirava dunque l’ex vicecapogabinetto di Veltroni, «I posti Sprar che si destinano ai comuni in giro per l’Italia fanno riferimento a una tabella tanti abitanti tanti posti Sprar... per quella norma a Roma toccherebbero 250 posti... che è un assurdo... pochissimo per Roma, no?... allora... una mia... un mio intervento al Ministero (inc.) immigrazione (inc.) ha fatto in modo che... lo Sprar a Roma... fosse portato a 2.500 (omissis) per cui si sono presentati posti per 2.500 posti... di cui loro... secondo me ce n’hanno almeno un migliaio». Tradotto in parole povere: a Roma erano destinati 250 rifugiati. Ma il funzionario di area Pd corrotto li ha fatti lievitare fino a 2.500 posti, in modo che almeno mille finissero nelle case accoglienza di Buzzi e della mafia romana, prendendo da loro la percentuale concordata. Un business quello dei rifugiati, degli zingari e degli immigrati. Che nasce quando alla guida di Roma c’era Gianni Alemanno (era Buzzi ad avere costruito le nuovi sedi per i rom che l’allora sindaco sgomberava dai vari campi), e prosegue e prospera quando in Campidoglio sale Ignazio Marino. Non era un problema il cambio di maggioranza, tanto che Buzzi viene intercettato a primavera 2013 proprio sotto elezioni, e confida a un amico: «e se sbagli investimento, se punti sul cavallo sbagliato... mò c’ho quattro… quattro cavalli che corrono... col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’è... c’ho rapporti con Luca (Odevaine, ndr) quindi va bene lo stesso... lo sai a Luca quanto gli do? 5mila euro al mese…». Costa un po’ la corruzione. Però il business dei campi rom e dell’accoglienza dell’immigrato o del rifugiato rende assai di più. Ancora una volta è Buzzi a dare un’idea chiara, intercettato in un colloquio con la sua collaboratrice Piera Chiaravalle. «Lo sai quanto ci guadagno sugli immigrati?», chiede l’imprenditore - cooperatore all’amica. E insiste, ripetendo tre volte: «Tu... tu c’hai idea? Tu c’hai idea? Tu c’hai idea?». Lei obietta: «Perché su Tivoli non è che un cantiere che ti guadagna miliardi!». E Buzzi insiste: «Apposta tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Eh.». Piera si arrende: «Non c’ho idea...». L’imprenditore la gela: «Il traffico di droga rende di meno... E allora!». In altra occasione Buzzi torna a fare capire quanto si trasformi in banconote fruscianti per lui potere inviare siriani, libici, tunisini, iracheni, rom a Corcolle e Tor Sapienza. In questo caso è nella sua Audi con un amico a chiacchierare. E spiega: «Noi quest’anno abbiamo chiuso... con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi… gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». Annotano gli inquirenti: «L’attività investigativa svolta ha evidenziato che la gestione dell’emergenza immigrati è stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo riconducibile a Buzzi si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo, alterando per un verso i processi decisionali dei decisori pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle risorse economiche gestite dalla pubblica amministrazione. Un’attività rendicontata da Buzzi a Carminati (Massimo Carminati, ex Nar in collegamento con la Banda della Magliana, ndr), che mostra un diretto interesse nelle vicende, a dimostrazione ulteriore del suo essere shareholder dei soggetti economici riconducibili al primo». Si guadagna con rom e immigrati. E ci guadagnano anche i politici, che prendono la loro stecca. Ma fa parte del business, sostiene Buzzi, che confidava a Carminati la sua filosofia: «Tu devi essere bravo perché la cooperativa campa di politica, perché il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, faccio pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti, lunedì c’ho una cena da ventimila euro pensa...». Franco Bechis

Mafia Capitale, 44 arresti. Spunta il tariffario dei migranti. I carabinieri del Ros hanno eseguito 44 arresti tra Lazio, Abruzzo e Sicilia. Coinvolti politici da destra a sinistra. Tra le attività il business dei migranti, scrive Luca Romano, Giovedì 4/06/2015, su "Il Giornale". Nuovo capitolo dell’inchiesta "Mondo di Mezzo" della procura di Roma e dei carabinieri del Ros: 44 arresti in Sicilia, Lazio e Abruzzo per associazione per delinquere e altri reati. Ventuno gli indagati a piede libero. Il blitz dei carabinieri è scattato all’alba nelle province di Roma, Rieti, Frosinone, L’Aquila, Catania ed Enna. Nell’ordinanza di custodia cautelare, emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Roma, si ipotizzano a vario titolo i reati di associazione di tipo mafioso, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori ed altro. Perquisizioni a carico di altre 21 persone indagate per gli stessi reati. I provvedimenti riguardano gli sviluppi delle indagini su "Mafia Capitale", il gruppo mafioso riconducibile a Massimo Carminati, ora in carcere. Secondo gli investigatori, gli accertamenti successivi a quella tornata di arresti hanno confermato "l’esistenza di una struttura mafiosa operante nella Capitale, cerniera tra ambiti criminali ed esponenti degli ambienti politici, amministrativi ed imprenditoriali locali". In particolare le indagini avrebbero documentato quello che per gli inquirenti è un "ramificato sistema corruttivo finalizzato a favorire un cartello d’imprese, non solo riconducibili al sodalizio, interessato alla gestione dei centri di accoglienza e ai consistenti finanziamenti pubblici connessi ai flussi migratori". Tra gli arresti del Ros c’è anche Luca Gramazio, accusato di partecipazione all’associazione capeggiata da Carminati, che avrebbe favorito sfruttando la sua carica politica: prima di capogruppo Pdl al Consiglio di Roma Capitale ed in seguito quale capogruppo Pdl (poi FI) al Consiglio Regionale del Lazio. In carcere anche l’ex presidente del Consiglio comunale di Roma, Mirko Coratti, l’ex assessore alla Casa del Campidoglio, Daniele Ozzimo. I Ros hanno posto in arresto anche i consiglieri comunali Giordano Tredicine, Massimo Caprari e l’ex presidente del X Municipio (Ostia), Andrea Tassone. Le indagini evidenziano la "centralità, nelle complessive dinamiche dell’organizzazione mafiosa diretta da Massimo Carminati, di Salvatore Buzzi", già coinvolto nella prima fase dell’inchiesta e ritenuto "riferimento di una rete di cooperative sociali che si sono assicurate, nel tempo, mediante pratiche corruttive e rapporti collusivi, numerosi appalti e finanziamenti della Regione Lazio, del Comune di Roma e delle aziende municipalizzate". Ampio, secondo gli investigatori, l’ambito di azione di Buzzi e delle imprese che a lui facevano riferimento: "Accoglienza dei profughi e dei rifugiati, raccolta differenziata e smaltimento dei rifiuti, manutenzione del verde pubblico" e altri settori oggetto di gare pubbliche, come ad esempio "i lavori connessi all’emergenza maltempo a Roma e le attività di manutenzione delle piste ciclabili". Secondo gli inquirenti Luca Odevaine (nella veste di appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale sull'accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale) sarebbe stato in grado di garantire consistenti benefici economici ad un "cartello d'imprese" interessate alla gestione dei centri di accoglienza, determinando l'esclusione di imprese concorrenti dall'aggiudicazione dei relativi appalti". Come già avvenuto nel primo filone dell'inchiesta, spuntano le intercettazioni. "... Altre cose in giro per l’Italia ... possiamo pure quantificare, guarda... se me dai ... cento persone facciamo un euro a persona ... non lo so, per dire, hai capito? E ...e basta, uno ragiona così dice va beh... ti metto 200 persone a Roma, 200 a Messina ... 50 là ... e ... le quantifichiamo, poi...". È Luca Odevaine, in una conversazione con alcuni suoi collaboratori intercettata nella sua stanza negli uffici della Fondazione IntegraAzione, a prospettare quello che il gip Flavia Costantini definisce "un vero e proprio tariffario per migrante ospitato". Odevaine parla dell’accordo stretto, tra gli altri, con Salvatore Buzzi, presidente della "Cooperativa 29 giugno" e spiega: "Gli ho fatto avere altri centri, in Sicilia... in provincia di Roma e quant’altro, quindi su tutto quella... quella parte là ci mettiamo d’accordo dovremo..., più o meno, stiamo concordando una cifra tipo come 1 euro a persona, ci danno, calcolando che so' almeno un migliaio di persone, dovrebbero essere grosso modo un migliaio di persone, insomma so' 1000 euro al giorno quindi 30.000 euro al mese che entrano...". Sulla nuova ondata di arresti è intervenuto il sindaco di Roma, Ignazio Marino: "Credo che la politica nel passato abbia dato un cattivo esempio ma oggi sia in Campidoglio che in alcune aree come Ostia abbiamo persone perbene che vogliono ridare la qualità di vita e tutti i diritti e la dignità che la Capitale merita". E ancora: "Sono estremamente orgoglioso e felice del lavoro del procuratore Pignatone che, dal suo punto di vista e per la sua area di lavoro, sta svolgendo lo stesso tipo di compito che noi stiamo facendo dal punto di vista amministrativo".

L’ITALIA DEI SEDICENTI PROFUGHI.

Quanti miliardi di euro paghiamo noi italiani per farci invadere dagli immigrati, scrive il 2 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Gli italiani pagano per farsi invadere dagli immigrati. Non è retorica, ma aritmetica. Spulciando tra le varie voce della bozza di legge di Stabilità, si scoprono finanziamenti destinati ai migranti e all'Africa d'importo decisamente "sostanzioso". L'articolo 79, come riporta il Giornale, prevede l'istituzione di un Fondo per l'Africa "con una dotazione finanziaria di 200 milioni di euro per l'anno 2017, per interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i Paesi africani d'importanza prioritaria per le rotte migratorie". Soldi destinati a Egitto, Libia e Tunisia che finora hanno fatto ben poco per collaborare alla riduzione dell'emergenza sbarchi. E l'Italia di Renzi che fa? Preferisce la carota degli euro facili al bastone della linea dura: chissà che quei milioni non finiscano per intenerirne i governi. Ci sono poi i 280 milioni di euro aggiuntivi stanziati per le attività di "accoglienza, inclusione e integrazione in materia di trattamento e di accoglienza per stranieri irregolari". A goderne gli effetti saranno i centri di accoglienza e gestione dei profughi. A questi fondi vanno aggiunti quelli "ordinari": per il 2016 è prevista una spesa di 1,5 miliardi di euro. A chi dice "aiutiamoli a casa loro" ecco la risposta del governo: 1,8 miliardi di euro erogati nel 2015 per la "cooperazione internazionale" che dovrebbe portare "sviluppo" e "aiuto concreto a uomini, donne e bambini" africani e non solo nei loro Paesi. Riepilogate anche le voci di intervento: un milione di euro erogato per "inclusione e reinserimento sociale delle persone che vivono in strada nelle città di Conakry, Kindia e Labè" in Guinea, 13,6 milioni di euro per il "risanamento urbano di Ca Mau City" in Vietnam, fondi anche per aiutare la comunità gay e lesbicain Uganda e le donne in Burkina Faso (395mila euro).

Il governo regala 480 milioni per l'"inclusione" dell'Africa. Nella legge di Bilancio spuntano due stanziamenti per «rilanciare il dialogo coi Paesi coinvolti dai flussi», scrive Paolo Bracalini, Mercoledì 02/11/2016, su "Il Giornale". L'immigrazione è diventata ormai un capitolo di spesa imponente per il bilancio pubblico italiano. Anche nella bozza di legge di Stabilità, tra emergenze nazionali, risorse che scarseggiano e uscite pesate col bilancino per non violare i parametri di Bruxelles, trovano spazio i finanziamenti destinati ai migranti e all'Africa. Cifre importanti a fronte di un'ondata migratoria di proporzioni enormi. E così, tra le «Ulteriori disposizioni finanziarie» della manovra si trova, all'articolo 79, l'istituzione di un Fondo per l'Africa. «È istituito - si legge - nello stato di previsione del ministero degli Affari esteri un fondo con una dotazione finanziaria di 200 milioni di euro per l'anno 2017, per interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i Paesi africani d'importanza prioritaria per le rotte migratorie». Un fondo di 200 milioni di euro che sarà poi la Farnesina a gestire, con progetti specifici, per «dialogare» meglio con i Paesi da cui arrivano i clandestini stipati sui barconi. Ma non c'è solo questo stanziamento. Poco più avanti si tratta espressamente del tema «Immigrazione». «Ulteriori risorse fino all'importo massimo di 280 milioni di euro, oltre a quelle già stanziate nella sezione II del bilancio per le attività di accoglienza, inclusione e integrazione in materia di trattamento e di accoglienza per stranieri irregolari, potranno essere destinate a valere su programmi operativi cofinanziati dai fondi strutturali europei 2014/2015». Significa in altre parole che la spesa per centri di accoglienza e gestione dei profughi in Italia può essere aumentata di altri 280 milioni oltre alla quota di fondi Ue già impiegata per l'emergenza immigrazione, e oltre a quelli già ritagliati nel bilancio del Viminale. Che sono parecchi. Nella sezione del «Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2017» che riguarda appunto il ministero dell'Interno si trovano le cifre. Per la voce «Flussi migratori, interventi per lo sviluppo, coesione sociale, garanzia dei diritti e rapporti con le confessioni religiose» il governo prevede per il 2016 una spesa di 1,5 miliardi di euro (per la precisione 1.563.269.537). Sul fronte della cooperazione internazionale il governo si è dotato anche di una agenzia ad hoc, dipendente dalla Farnesina, che è partita nel gennaio del 2016 «con l'ambizione di allineare l'Italia ai principali partner europei e internazionali nell'impegno per lo sviluppo, aiuto concreto a uomini, donne e bambini che altrimenti vediamo morire sulle nostre coste, fuggendo da guerre e sottosviluppo». Anche su questo fronte l'Italia impegna cifre generose. Nel 2015 i fondi erogati in aiuti pubblici per la cooperazione internazionale sono stati 1,8 miliardi di euro. Tanti progetti finanziati, dall'Africa sub-sahariana all'Asia. Si va dal milione di euro erogato per «Inclusione e reinserimento sociale delle persone che vivono in strada nelle città di Conakry, Kindia e Labè» in Guinea, ai 13,6 milioni di euro per il «Risanamento urbano di Ca Mau City» in Vietnam, dal finanziamento in Uganda della «campagna di informazione e sensibilizzazione a sostegno delle persone Lgtbi (acronimo di lesbian, gay, bisexual, transgender e intersex)» ai 395mila euro per «L'Empowerment femminile nella Provincia di Boulgou» in Burkina Faso. Ente finanziatore? Sempre il nostro ministero degli Esteri.

Papa Francesco: "La chiusura con gli immigrati è più rischiosa dell'accoglienza". Papa Francesco torna a parlare dei migranti e sottolinea ancora i "valori della fraternità": "Con le chiusure si corrono più rischi", scrive Luca Romano, Giovedì 24/11/2016, su "Il Giornale". "Le chiusure e i rifiuti fanno correre più rischi". Papa Francesco torna a parlare dei migranti e sottolinea ancora i "valori della fraternità": "L’isolamento sviluppa paura e diffidenza e impedisce di godere della fraternità. Bisogna proprio dirci che si corrono più rischi quando ci isoliamo di quando ci apriamo all’altro: la possibilità di farci male non sta nell’incontro ma nella chiusura e nel rifiuto", ha affermato il Pontefice in un videomessaggio inviato al Festival della Dottrina Sociale che si è aperto questa sera a Verona. E aggiunge: "Noi - spiega il Pontefice - siamo fatti per stare con gli altri: la nostra umanità si arricchisce molto se stiamo con tutti gli altri e in qualsiasi situazione essi si trovano. È l’isolamento che fa male non la condivisione". Secondo Francesco, "quando si sta con la gente si tocca l’umanità: non c’è mai solo la testa, c’è sempre anche il cuore, c’è più concretezza e meno ideologia. Per risolvere i problemi della gente - sottolinea nel suo videomessaggio - bisogna partire dal basso, sporcarci la mani, avere coraggio, ascoltare gli ultimi". "Penso ci venga spontaneo chiederci: come si fa a fare così? Possiamo trovare la risposta - assicura Papa Bergoglio - guardando a Maria. Ella è serva, è umile, è misericordiosa, è in cammino con noi, è concreta, non è mai al centro della scena ma è una presenza costante". "Se guardiamo a Lei - ricorda infine il Pontefice - troviamo il modo migliore di stare in mezzo alla gente. Guardando a Lei possiamo percorrere tutti sentieri dell’umano senza paure e pregiudizi, con Lei possiamo diventare capaci di non escludere nessuno".

Filippo Facci il 29 ottobre 2016 su “Libero Quotidiano”: "L'ultima follia". Case sequestrate agli italiani: le regalano ai profughi. La trovata è del giudice delle esecuzioni immobiliari Dario Colasanti (Tribunale di Lecco) che anziché limitarsi a redigere delle sentenze ha redatto una «comunicazione»: in essa ufficializza, in pratica, la millesima interferenza della magistratura in affari non suoi. Il giudice comunica la possibilità di usare le case pignorate ai cittadini morosi per metterci gli immigrati, cioè i rifugiati: ciò il giudice fa sapere ad avvocati e cittadini. «Il menzionato progetto», ha scritto il giudice il 14 ottobre scorso, «persegue un alto scopo umanitario e sociale in quanto è volto a realizzare una distribuzione sull' intero territorio provinciale dei rifugiati assicurandogli alloggi dignitosi, così da limitare i disagi e i pericoli della permanenza accentrata nei centri di accoglienza». Il documento è stato spedito anche per email con un titolo non lascia dubbi: «Progetto accoglienza - provvedimento G.E. Tribunale di Lecco locazione immobili pignorati ai rifugiati». A parte il linguaggio (scritto così, sembra che abbiano pignorato i rifugiati, inoltre nel testo spicca uno splendido «ammobigliati») il destinatari della comunicazione sono la prefettura, la cancelleria del Tribunale e l'Ordine degli avvocati di Lecco. Si parla di locazioni «temporanee» per i rifugiati, e della possibilità che la prefettura (che esegue i pignoramenti) paghi dei canoni d' affitto alle cooperative che si sono aggiudicate i bandi per l'assistenza. Poi si legge che gli immigrati potrebbero prestarsi a opere di manutenzione ordinaria degli appartamenti: ma con che criterio non viene specificato. Morale: il giudice lascia intendere - se capiamo bene - che la scelta sarebbe appunto temporanea, e riguarderebbe solo appartamenti vuoti; la prefettura, ossia il creditore che ha eseguito il pignoramento, in questo modo darebbe un ruolo e un valore a dei beni inerti. Questo all' apparenza, perché vista di spalle suona in un altro modo. Anzitutto: è impensabile che una procedura del genere sia dovuta alla trovata di un giudice fallimentare di Lecco, e non a una norma legislativa che la preveda o a un regolamento che la contempli: il tutto, come minimo, andrebbe discusso e, se non disturba, sottoposto all' attenzione dell'opinione pubblica. Invece qui c' è una mail mandata a un Consiglio degli avvocati. In secondo luogo, c' è da chiedersi che fine farebbero gli appartamenti: a parte la sostanziale impossibilità di ritornarne in possesso da parte del pignorato, chi volesse comprarne uno ne uscirebbe solo scoraggiato; avrebbe difficoltà anche solo a visionarlo, oppure a visionarlo in buone condizioni, visto che non è credibile che degli immigrati si mettano seriamente a risistemarlo; il prezzo di vendita poi si abbasserebbe e basta, e sarebbe interessante vedere quanti si fronteggerebbero, in un' asta, per acquistare un appartamento che intanto risulta occupato e che andrà comunque sgomberato. Nell' insieme, ci perderebbero tutti. O quasi. Ci perderebbe il pignorato, privato della possibilità pur remota di recuperare il bene; ci perderebbe la prefettura (cioè lo Stato) che dovrebbe pagare dei canoni d' affitto per qualcosa che le appartiene e che gli occupanti danneggerebbero e basta; ci perderebbe ancora lo Stato, costretto a congelare la vendita di un bene che la procedura svaluterebbe; nel suo piccolo potrebbe perderci anche il cittadino: il quale, senza nessun piano d' impatto sociale, si ritroverebbe dei rifugiati come vicini di casa e questo solo perché l' appartamento è stato pignorato. Qualche xenofobo, del resto, potrebbe anche obiettare che tutta l'operazione si presti a una morale beffarda: prima lo Stato ti pignora perché non paghi il mutuo (la maggioranza dei pignoramenti è per questo) e poi lo stesso Stato, anziché favorire l' incasso con una vendita, si mette a pagare lui (cioè noi) per ospitare dell' altra gente che non sei tu, ma evidentemente è più degna di te. Sarebbe tutto regolare: ma di fatto si caccerebbe un italiano (che non paga) per ospitare dei non-italiani (che non pagano). Filippo Facci

Migranti, pasta, secondi, contorni: buttati centinaia di pasti integri, scrive il 31 ottobre 2016 “Libero Quotidiano”. Cibi destinati a rom e immigrati gettati via nei cassonetti ancora integri. Centinaia di porzioni di pasta e secondi piatti, ancora coperte dal cellophane e con le date di preparazione e scadenza in evidenza all'esterno del centro di via Amarilli, a Roma. La denuncia viene dall'Ugl che scrive: “È notizia di oggi che i caschi bianchi in servizio presso il centro di Via Amarilli, hanno rinvenuto centinaia di confezioni di pasti, ancora intatti, smaltiti nei cassonetti delle immondizie".

"Nessun aiuto ai migranti che rifiutano lavoro per motivi religiosi". La posizione del primo ministro norvegese: "Abbiamo il dovere di accogliere ma chi viene qui deve rispettare le nostre leggi e le nostre tradizioni: noi mangiamo maiale, beviamo alcol e le donne escono a volto scoperto", scrive Giovanni Vasso, Giovedì 24/11/2016, su "Il Giornale". Tempo fa, il discorso di Re Harald che aveva spalancato le porte della Norvegia ai migranti s'era diffuso in ogni anfratto del web ed era diventato virale come una grandissima dimostrazione di civiltà e di solidarietà. Però, lassù in Scandinavia, accoglienza non è sinonimo di bivacco. E lo ha ribadito nelle scorse ore il primo ministro di Oslo che ha sbarrato la strada a quei fannulloni per cui la religione diventa un comodissimo alibi: “I migranti debbono lavorare per mantenersi dignitosamente, la nostra nazione non pagherà alcun benefit a coloro i quali rifiuteranno impieghi per ragioni religiose”. La premier Erna Solberg ha le idee chiarissime, non lascia margini di confusione. Sì, la Norvegia vuole integrare profughi e migranti ma si scordino che Oslo cambierà il suo modo di vivere. Su twitter, la Solberg lo aveva già detto: “Qui mangiamo maiale, beviamo alcol e usciamo in strada a volto scoperto. Chi vuole venire qui sappia che ha il dovere di rispettare le nostre leggi e le nostre abitudini”. Il “carico” però è arrivato in una delle ultime interviste. Il capo del governo norvegese, commentando alcune recentissime notizie che hanno fatto esplodere il dibattito nel Paese, ha detto: “Non credo proprio che ci sia nulla di complicato da analizzare sulla questione religiosa. Quando decidi di andare in un altro Paese, ma direi in generale, devi lavorare per poterti sostenere. Non puoi rifiutare nessuna offerta di lavoro, non puoi rifiutare un impiego in un ristorante perché lì ai clienti si serve maiale e alcol. E perciò – ha concluso la Solberg – non puoi certo credere che la società norvegese possa pagarti alcun tipo di benefit se rifiuti di lavorare per ragioni religiose”. Erna Solberg, esponente di punta del partito conservatore norvegese, è a capo dell’esecutivo dall’ottobre del 2013. A febbraio aveva ingaggiato una furiosa battaglia contro l’arrivo praticamente indiscriminato di migranti, rifugiati e richiedenti asilo da ogni dove. Alla Cnn aveva detto che: “Ci sono moltissime persone che arrivano in Europa da zone che non sono esattamente teatri di guerra e noi chiediamo che vengano rimpatriate. La Norvegia vuole dare un segnale serio e incontrovertibile a paesi come il Bangladesh, il Pakistan e l’Afghanistan: l’Europa non è un continente a ingresso libero”.

Tra alcol, furti e sporcizia viaggio nel campo profughi dove le regole non esistono. Medicine finte, vodka vera e cristiani vietati: il racconto di un mese da volontaria in un campo profughi di Udine, scrive Irene Giurovich, Giovedì 24/11/2016, su "Il Giornale".  Caserma Cavarzerani, Udine. Un tempo i militari, oggi i profughi, fra i 700 e gli 800. Pakistani e afghani. Abbiamo vissuto dall'altra parte, per circa un mese, la gestione dell'emergenza ordinaria, fra le fila della Croce Rossa. Scope, secchi e spazzoloni: ad un operatore Cri, appena entrato, vengono dati in mano questi strumenti di lavoro. «Stiamo scherzando?». No. Le pulizie competono a noi. Fuori dalle finestre delle strutture si trovano lenzuola sporche, stracci, coperte e immondizie varie. Moltissimi le buttano fuori dalle finestre e dalla tende. «Noi siamo islamici puliti, perché questo lo dice il Corano, ma questi sono animali», lo sfogo di un albanese (islamico) che lavora per la ditta che ha l'ingrato compito di pulire i bagni. Prima regola: noi della Croce Rossa dobbiamo tenere in ordine il campo, anche perché quando arrivano i sopralluoghi ministeriali deve essere tutto a posto. «Il direttore vuole tutto pulito e senza rifiuti in giro, altrimenti se non si passa la visita ministeriale...». Già. Ma dovrebbe essere un compito che viene fatto eseguire ai profughi. Visto che in questo campo ci vivono, mangiano tre volte al giorno e dormono. «Dipende se trovi qualcuno che ti aiuta», mi sento rispondere: «Se non trovi nessuno che lo fa, devi occupartene tu». E così, armate di guanti, sacchi neri, scope, divise in squadre, più volte al giorno, ecco andare in scena le ronde di controllo-pulizie-vigilanza anche per evitare che i profughi scavalchino o avvengano passaggi di merce. Si cerca di impegnare anche loro nel raccatta-rifiuti, soprattutto quando li vedi nullafacenti o intenti a fumare o giocare a cricket; qualche straniero disponibile ad aiutarti si trova, ma è una nettissima minoranza. La maggior parte si defila. Qualcuno, seccato, ti dice: «No pay, no work». Gli unici posti in cui non c'è un solo rifiuto e per terra è pulito sono le due moschee ubicate all'interno di due capannoni con tanto di tappeti. Qualche volta si sentono le grida: si stanno flagellando, un'usanza che, però, alcuni assicurano non c'entrare nulla con l'Islam. Le fazioni sono divise, tant'è che le moschee sono due per evitare conflittualità per rivalità etniche. E ad alcune di queste risse ho assistito, intervenendo, con il rischio di vedermi un pezzo di vetro, strappato dalle mani di un profugo, finire direttamente nel mio stomaco. Qui dentro per un eventuale profugo cattolico non c'è storia. Una sera, poi, era atteso un profugo-primo ingresso, ma all'ultimo minuto, su segnalazione della Questura, è stato dirottato in un altro campo. Troppo pericoloso. Chi? Lui? No. La motivazione tutt'altra: era cattolico. Pericoloso per lui stare qui dentro. Sveglia ore 8.15. Quasi nessuno ha voglia di alzarsi dalla branda o uscire dalla tende. Alcuni mi chiedono in inglese: «Anche se ci alziamo, che cosa facciamo? Non abbiamo niente da fare». Si ritira il ticket. Colazione con latte caldo e brioche: eccoli in coda tremanti per il freddo, con infradito ai piedi, t-shirt a maniche corte o un lenzuolo che li avvolge; spesso arrivano i carichi di merce da noti magazzini della zona, ma sembra non bastino per tutti, anche perché i furbi prendono più di una giacca e persino qualche operatore trattiene per sé qualcosa (il marchio «Woolrich» attira). Per alcuni periodi l'acqua calda non c'è: spesso e volentieri, complice forse la noia, chissà, o la voglia di ribellione o il cibo che non piace, c'è chi si diletta a rompere. Per un po' di tempo i bagni oggetto di vandalismi sono rimasti chiusi in attesa che saltassero fuori i responsabili ma nessuno parla. Fuori dalla porta dei bagni le scritte nella loro lingua, oltre che in italiano e in inglese, per ribadire che fino a quando non uscirà il colpevole o non verrà versato 1 euro da tutti quella zona resterà off limits: il cartello in italiano viene spesso strappato. Nessuno fa la spia. Nessuno dà 1 euro. Droga, donne, alcol. Ufficialmente non dovrebbero fumare. Nelle ronde pomeridiane, che prevedono sempre pulizie/cambio sacchi neri/controlli vari/con una particolare attenzione a porte-finestre-bagni per scongiurare ulteriori vandalismi e fughe di chi fa jump saltando i muri di cinta, incappo in chi allegramente fuma, e non sembrano normali sigarette. Alcuni li abbiamo bloccati ma sono riusciti a sfilarsi dalla nostra presa. La regola vorrebbe che si prendesse nota sul quaderno giornaliero (letto anche dalla Questura) il numero di braccialetto: ogni profugo è identificato in questo modo, ma quando cerchi di vedere il numero prendendo il braccio, ti ritrovi nel bel mezzo di un tira-molla con il rischio di trovarti sotto accusa perché hai messo le mani addosso ad un profugo. Alcune volte facevo notare che la religione islamica non ammette la droga. Ma dall'altra parte nessuna risposta, al massimo una risata. L'essere donna qui dentro, nonostante molte siano le operatrici, complica ancora di più il lavoro: devi farti valere più degli operatori maschi. In alcuni casi quando qualche profugo si intratteneva a parlare di più con una donna, ecco avvicinarsi altri suoi connazionali per intimargli lo stop, visto che stava dilungandosi troppo nella conversazione. Cercavo in tutti i modi di far rispettare le regole e la parità di genere. Ma vedevo che molte cose, lì dentro, avvenivano per far rispettare le loro leggi e le loro usanze che molto spesso confliggono con quelle dell'Occidente. L'attenzione è massima anche per gli orari in modo che non interferiscano con il richiamo alla preghiera in moschea e con altri appuntamenti religiosi (è capitato di assistere a momenti in cui i profughi potevano cucinare nelle strutture abbandonate in quanto avevano ricevuto da qualche mediatore Cri un permesso speciale in concomitanza con ricorrenze religiose). Ufficialmente non dovrebbero bere gli islamici. Ma durante le ronde si trovano anche lattine di birra sparse in mezzo alla vegetazione. Al cancello non si fa passare chi entra con le birre dentro la borsa della spesa ma in qualche modo la merce entra. Ci sono frequenti passaggi dall'esterno. Anche il cibo vietato, come pure le sostanze illegali, possono entrare in questo modo. C'è chi viene beccato alticcio al rientro, perché ha stazionato a bere da qualche parte: la seconda volta in cui viene trovato in stato alterato parte la segnalazione alla Questura e la persona resta fuori dal campo. «Guarda che questo è pieno di alcol in corpo, sento l'odore», dico. «Sei sicura? Usano tante spezie nel cibo, potrebbe essere quello». Barcolla, non sono le spezie. Ma viene lasciato passare. Salvo poi dover sedare «incomprensioni» che certe notti si trasformano in scontro. C'è chi mi racconta di aver trascorso alcune serate a bere insieme con degli operatori, per socializzazione. Anche Vodka. Alcol-party. Alla volte, con qualche mediatore - ex profugo del campo - anche hashish. Tipo epoca dei figli dei fiori nelle tende. Alcol a parte, la gestione sanitaria prevede nella caserma la presenza di un medico di cui tanti si lamentavano: o perché non forniva i farmaci, o perché non li curava abbastanza bene. C'era chi in preda a dolori alla testa, dolori articolari, mal di stomaco e altri sintomi, veniva a chiedere, disperato, un farmaco d'emergenza. Scopro così che quando si verificano queste situazioni (ogni giorno), l'operatore entra nel camper e prepara la cosiddetta pillola magica: c'è un barattolo di capsule vuote da somministrare ai profughi riempite con zucchero o bicarbonato. Placebo. «Non possiamo mica dare medicine a tutti». Mediatori onnipotenti. Quasi sempre ex profughi questi mediatori arruolati nelle fila della Croce Rossa. Nei pattugliamenti troviamo alcuni profughi intenti a cucinare i loro piatti tipici nelle strutture dismesse e fatiscenti, in mezzo a rifiuti di ogni genere (organici e inorganici), in condizioni igieniche che richiederebbero l'intervento immediato dei Nas: c'è divieto di cucinare, non solo per ragioni di sicurezza igienica ma anche per evitare che scoppino incendi. Fai notare il mancato rispetto della regola. I numeri delle persone coinvolte vengono scritti nel quaderno delle segnalazioni. Ad un certo punto scatta la regola per chi controlla il gate: al rientro in campo i profughi hanno il divieto di portare con sé prodotti che possano essere utilizzati per cucinare (al fine di limitare gli episodi di cucina abusiva). Dunque, niente farina, niente olio, niente uova. Ma le uova portate da alcuni vengono fatte passare nonostante le avessi sequestrate. Ancora una volta, solo perché avevo cercato di imporre l'osservanza delle regole, finisco nel banco degli imputati. Il mediatore chiama i vertici che, a tempo record, si precipitano e mi rimproverano, dando ragione al mediatore definito «il più bravo che abbiamo». Faccio notare le parole che mi aveva rivolto: «Le leggi le faccio io». A questo punto chiedo una lista di quello che possiamo o non possiamo fare. Avevo notato un ruolo di strapotere assegnato ai «mediatori», presunti tali perché non c'è un albo, non c'è un corso di formazione per prepararli, come ci conferma la Prefettura: alle volte sembra che comandino loro. Dovrebbe essere la Cri a segnalare alla Prefettura i mediatori di parte. Ma è la Cri a sceglierli. Intanto viene annunciato un pamphlet alla cittadinanza su questa realtà dei campi da parte dell'agguerrito sindaco di Talmassons Piermauro Zanin: «La gente deve sapere». Topi e malattie. Non c'è da scherzare: quando ci si abbassa a raccogliere le plastiche abbandonate ovunque, si incappa anche in stormi di topi che escono dalla vegetazione oscura e scappano. Il rischio leptospirosi qui non è da sottovalutare: ci sono casi di profughi che vengono morsi di notte. Una mattina si è cercato disperatamente uno di questi stranieri che era stato morsicato all'orecchio, ma non si è trovato. Era uscito. Sarebbe rientrato la sera. Con tutti i rischi connessi alla libera circolazione per la città viste le modalità trasmissive della malattia. Certo. Potranno non esserci in giro plastiche e lattine, ma qui ci sono i topi e i profughi rischiano, e la cittadinanza fuori dal campo pure. Qualche segnalazione all'Azienda sanitaria è arrivata. Da alcuni medici abbiamo saputo che qui dentro anche il rischio di epatite A ed epatite B è elevato. Alcuni sono anche Hiv positivi e lo scoprono successivamente. «Se là dentro c'è un solo caso di TBC, ve la prendete tutti». Come operatrice non avevo ricevuto alcuna indicazione. La Croce Rossa sembra non essere dotata di una forma assicurativa per i suoi lavoratori. Tant'è che un operatore che si era ferito con una scheggia ha persino dovuto pagare il ticket del Pronto soccorso. Nel contratto sottoscritto con la cooperativa, attraverso cui l'Ente assume, non si trova un solo riferimento all'assicurazione. Si trova scritta la sede di lavoro (campi sportivi), la qualifica (operaio generico) e al capitolo «rischi per la salute o di natura igienico-ambientale» sono barrate con il No tutte le voci eccetto «agenti biologici» a cui corrisponde un rischio basso. Nessun rischio nemmeno per quanto riguarda fattori psicologici e condizioni di lavoro difficili. Eppure gli operatori devono anche dividere lenzuola e coperte, inserirle dentro i sacchi neri con la scritta scabbia. Prima di incominciare quest'opera oggettivamente poco piacevole, chiedo che mi vengano forniti, oltre ai guanti, anche le mascherine: «Non abbiamo mascherine qui». Mi rifiuto pertanto di svolgere il compito. Vengo segnalata. Di nuovo.

Bombe carta e guerriglia a Torino. Il prefetto chiede aiuto all’esercito. Tre ordigni lanciati per vendetta dopo una rissa. Gli abitanti esasperati: abbiamo paura Centinaia di africani in rivolta: “Italiani razzisti, la polizia ci controlla e non ci difende”. Tensioni Polizia e profughi si sono fronteggiati in centro a Torino dopo l’esplosione di tre bombe carta nelle palazzine occupate abusivamente dai migranti, scrive il 25/11/2016 Federico Genta e Massimiliano Peggio su "La Stampa". Cinquanta uomini dell’esercito. Secondo fonti vicine al Viminale sono le «risorse aggiuntive» che il Prefetto di Torino ha chiesto per presidiare 24 ore su 24 l’ex villaggio olimpico dove l’altra notte e ieri mattina sono scoppiate due rivolte. Una decisione maturata dopo l’incontro con la sindaca Chiara Appendino, per far fronte alle tensione che sta covando nel quartiere che accoglie centinaia di profughi. Ma la realtà è che tutta questa tensione è nata da un’aggressione in un bar. Si spiegherebbero così i grossi petardi da stadio lanciati contro gli immigrati che vivono nell’ex «Moi», il complesso di palazzi colorati costruiti per accogliere gli atleti dei giochi invernali del 2006, oggi rifugio per più di mille africani. Domenica scorsa va in frantumi la vetrata di un locale storico degli ultras del Torino, a due passi dal villaggio. La colpa ricade su un africano che vive con la raccolta di ferri vecchi. È bastato questo per scatenare la vendetta. La risposta arriva mercoledì sera. Prima due petardi scoppiano davanti a una sala scommesse del Lingotto, a nemmeno duecento metri dal complesso del Moi. Poi, direttamente all’ingresso delle palazzine. «Un’azione militare», racconta chi si è affacciato ai balconi, spaventato per le esplosioni. Ci sono venti uomini, alcuni nascosti sotto sciarpe e berretti. Li vedono allontanarsi uniti da quell’angolo di strada, prima di sparpagliarsi. Qui scoppia la reazione dei profughi. In trecento scendono in strada: spranghe in mano, pali della segnaletica gettati a terra, bottiglie lanciate in mezzo alla strada, contro i passanti. Arrivano i vigili del fuoco, la polizia, i carabinieri. La zona viene isolata. Quando gli occupanti si convincono a rientrare nelle palazzine occupate, è notte. Poche ore di pausa. Poi, ieri mattina, e questa volta senza un motivo apparente, ricominciata la rivolta. «Degli italiani hanno aggredito uno di noi» dicono gli immigrati. In otto anni di occupazione sono i primi episodi ribellione. Nella mattinata sono poco più di cinquanta. Lanciano i cassonetti in mezzo alla strada. Di nuovo i bastoni in mano, come la sera precedente. Inseguono chi si trova a passare davanti alle palazzine. Un gruppo di donne getta gli ombrelli e scappa sotto la pioggia. Gli addetti dell’ufficio postale prospiciente, tirano giù le saracinesche, barricandosi dentro con i clienti. La stessa cosa fanno i bar. Anche il fuoristrada dell’esercito, da tempo presidio fisso davanti al Moi, è costretta a indietreggiare. Dopo poco tornano in forza polizia e carabinieri. «Italiani razzisti. La polizia ci controlla ogni giorno ma non ci difende», urlano i ragazzi in piedi sui cassonetti ribaltati. Prima dell’arrivo delle forze dell’ordine, i passanti bloccano il traffico: le auto intrappolate tra i piazzali e il presidio vengono prese a calci e gli automobilisti minacciati. Passano ore prima che i mediatori riescano a riportare la calma. La tensione, però, resta alta. Come un patto che si è sciolto. «Sono giorni che ci provocano, minacciano con i coltelli i nostri amici», raccontava ieri un ragazzo del Ghana. «Aspettano che ci scappi il ferito, magari il mordo, per poterci cacciare via. Tutti quanti». Lo sfondo è quello di un quartiere sempre più stanco, a ridosso del centro di Torino, che nel giro di otto anni ha visto entrare più di mille stranieri in quattro palazzi lasciati troppo presto al loro destino. Una città nella città, guardata a vista dalle forze dell’ordine, ma dove entrano soltanto le associazioni legate ai centri sociali. E dopo i proclami, la voce dello sgombero si fa sempre più concreta. Il piano, hanno assicurato pochi giorni fa dal Municipio e dalla prefettura di Torino, sarà pronto entro la fine dell’anno. Ma sarà un «intervento graduale», preceduto da un censimento degli occupanti.  

“Ci chiamano scimmie, ci minacciano. Allah ci guiderà nella vendetta”. Viaggio nell’ex villaggio olimpico diventato una polveriera sociale. Una delle palazzine dell’ex villaggio olimpico inserita in mezzo ai palazzi di via Giordano Bruno. 1500 migranti Hanno occupato abusivamente da anni le palazzine colorate dell’ex villaggio olimpico abbandonate dopo le gare a 5 cerchi, scrive il 25/11/2016 Ludovico Poletto su "La Stampa". «Ci insultavano: venite giù scimmie. Venite giù negri bastardi. E poi ci sono stati gli scoppi e noi abbiamo pensato che stavamo per morire tra le fiamme e le bombe. Ma qualcuno è sceso lo stesso. E quelli hanno continuato ad insultarci». Undici ore dopo l’aggressione al Moi, dopo le bombe lanciate contro l’ingresso delle palazzine colonizzate da quasi mille e 500 migranti, molti dei quali clandestini, in questo scampolo di città dove tutto è possibile, lecito e pure tollerato, la rabbia ha le parole di questo ragazzo del Camerun bagnato fradicio: «Siamo nulla per questa città. Siamo nel mirino di gente che non capisce che anche noi siamo ragazzi e vorremmo una vita decente». Lo dice gridando. E la rabbia s’allarga, contagia anche chi, fino ad ora, aveva solo ascoltato i racconti e le proteste. Su, al primo piano, invece, c’è ancora chi dorme. Hanno passato la notte in strada e adesso se ne stanno lì, sette, otto anche dieci per stanza, distesi su materassi recuperati chissà dove. Separé di compensato, coperte fin sotto gli occhi, puzza di scarpe, di bagnato, di chiuso. Ma almeno qui c’è la luce. «Sono del Ghana, io ieri sono sceso. Avevo paura, ma sono andato in strada» racconta. Hai il permesso di soggiorno? «Ho i documenti». In regola? «Sì, ma me li hanno presi». Un’altra stanza. C’è più luce e una tv accesa su un canale arabo. Un letto, un’infilata di pentole e due ragazzi che non parlano con nessuno. Scale buie. Si sale ancora di un piano: scalini sporchi, incrostati da anni di pulizie mai fatte. Ragazzi che salgono e scendono. Quelli dell’immigrazione della Questura hanno parlato con molti di loro, per farsi un’idea di chi c’è lì dentro. Gli hanno raccomandato di non uscire: «Non accettate provocazioni». Ma vallo a spiegare a questi ragazzoni ventenni o poco più. E in questa mattina di pioggia e di sirene, di divise, di curiosi e di gente del quartiere infuriata, le palazzine arancione, rosa, blu, verde e grigia, sono in fermento. Non ha aperto nemmeno il chiosco dei panini - abusivo - che un profugo s’è inventato qualche settimana fa. E non c’è neppure il banco di scarpe usate, che di solito è sul retro della palazzina arancione, nel cortile. Funzionano solo i negozi: sgabuzzini grossi un pugno, senza autorizzazioni partite Iva o contabilità registrata. Vendono bibite, patatine, saponi, shampoo, scatolette, dolci. «Mi dai del cioccolato per favore?» E la tavoletta di Lindt al latte passa di mano: «Un euro». Come fanno a guadagnare? Nessuno vuole o sa spiegartelo. Neanche il ragazzo che gestisce questo stranissimo spaccio al blocco blu. Ecco, questo è il Moi: una comunità dove entri solo se ci fai parte. Una comunità staccata dalla città. Abbandonata a se stessa ma anche impermeabile alle sollecitazioni di fuori. Chi arriva qui ci resta per anni. E forse uno degli esempi migliori è Abu, 32 anni, originario del Ghana. Una manciata di parole in Italiano e frasi che mescolano francese e inglese. Ma qui è una specie di guru e fa il barbiere. Ripete: «In Africa avremmo avuto una possibilità di guadagnare qualcosa. Qui, invece, fuori dal Moi non c’è nulla per noi». E allora sta qui da tre anni. Taglia i capelli ai profughi per qualche euro. Non te lo aspetti, ma indossa la camicia bianca come i barbieri del centro, e sulla consolle ha lacche e shampoo e tutto quel che serve per un servizio da professionista.  Chi non ha inventiva va giù nei magazzini a smontare elettrodomestici trovati per strada e poi va a rivendere il ferro il rame e l’alluminio in fonderia. Ma c’è anche chi va a spacciare, certo. E chi ha scelto di non fare nulla, 24 ore al giorno. Si lamenta e protesta, ma non va neanche alla scuola che quelli dell’associazione «PerMoi» - un gruppo di volenterosi ragazzi italiani - hanno aperto lì tra le palazzine. Sarà poco, qualche ora di lezione al giorno, ma sarebbe il modo per uscire da questo inferno. Invece no, stanno lì. In questa casa che è un tugurio rovinato da anni di incuria. Se resisti hai per premio luce e acqua gratis. Il gas non c’è, pazienza. Per scaldare le minestre o per un piatto di pasta bastano le bombole come fanno i ragazzi della palazzina grigia, l’ultima, sul retro. Quella che guarda dritto negli occhi ciò che non ti aspetteresti in questa desolazione: la sede del Coni e un ostello. Che sono lì, a cinque metri, e dalle loro finestre vedi balconi con le parabole puntate verso l’Africa, i mobili accatastati sui balconi, le tapparelle storte perché rotte da tempo e mai riparate. Insomma, è l’altro Moi, quello che s’è salvato dalle occupazioni. E che sogna uno sgombero impossibile. O almeno improbabile, perché mille e 500 persone da sistemare non sono uno scherzo. A sera, quando finalmente riapre il paninaro clandestino la calma sembra essere tornata. «Ma voi italiani adesso dite ai vostri figli che non siamo cani. Teneteli tranquilli, perché la nostra pazienza prima o poi finirà. E allora anche noi andremo a prendere latte di benzina da lanciare contro le vetrine» pontifica un altro senza nome, originario del Camerun o chissà di dove. «Un morto nostro, un morto degli altri», teorizza in questa sorta di occhio per occhio che se partisse non finirebbe mai. E invoca Allah, parla del Bataclan che è stata la vendetta degli esclusi, di morti e di pace. Preoccupante? Forse. Ma ha anche il sapore del delirio di uno che si sente sotto attacco.  

Proselitismo via web e orrore da esportazione: così è nato l'Isis. In "Bandiere nere" Joby Warrick racconta la genesi dello Stato islamico e la sua espansione, scrive Joby Warrick, Venerdì 25/11/2016, su "Il Giornale". Il magro ragazzo belga con il sorriso tutto denti era un semplice scolaretto quando Abu Musab al-Zarqawi incominciò i suoi attacchi alle ambasciate e alle moschee irachene nel 2003. Ma se i due si fossero incontrati da adulti, si sarebbero stupiti per quanto si assomigliavano, il famoso terrorista e l'accolito destinato a mettere in ginocchio una delle grandi città europee. Sia Zarqawi sia il giovane belga, Abdelhamid Abaaoud, venivano da solide famiglie borghesi, solo moderatamente religiose. Entrambi avevano frequentato buone scuole, ma erano stati espulsi durante l'adolescenza ed erano sprofondati nella delinquenza e nella piccola criminalità. Entrambi avevano subito una metamorfosi mentre si trovavano in prigione, ed entrambi erano andati all'estero per cercare di redimersi e per trovare uno scopo sui campi di battaglia stranieri. Zarqawi aveva ventitré anni quando si era unito ai mujaheddin in Afghanistan. Abaaoud ne aveva pochi di più, ventisei, quand'era arrivato in Siria per unirsi alla vecchia organizzazione dei successori di Zarqawi, ora nota come Stato islamico. Entrambi aspiravano a portare gli orrori della guerra nel proprio Paese natale. Abaaoud ci sarebbe riuscito in modo spettacolare, come leader degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015 a Parigi, il primo massacro dell'ISIS in una capitale occidentale. Il belga e i suoi otto complici fecero esplodere delle bombe e spararono raffiche di pallottole in vari punti dei quartieri settentrionali e orientali della città: quattro ore di furia omicida che provocarono centotrenta morti e quasi quattrocento feriti. Gli agenti dell'antiterrorismo si erano a lungo aggrappati alla speranza che un evento del genere non si verificasse mai, che l'ISIS restasse concentrato sulla missione puramente locale di costruire e difendere il califfato. Ma qui c'era la prova di una pericolosa terza fase di espansione violenta del gruppo: dopo aver stabilito un santuario in Siria e completato la conquista dell'Iraq occidentale, i terroristi affrontavano nuovi campi di battaglia, lontani dal Medio Oriente. I soldati semplici della nuova campagna non erano mediorientali o africani, ma giovani europei e nordamericani, con passaporti occidentali, che parlavano fluentemente francese, fiammingo, tedesco e inglese. Avevano incominciato ad arrivare in Siria nel 2012 e alcuni, come Abaaoud, avevano trascorso anni nei campi di addestramento dell'ISIS, imparando a pensare, a pregare e a combattere come guerrieri islamisti. Adesso, tre anni più tardi, la nuova generazione dell'ISIS era pronta. E le truppe d'assalto una feroce prima ondata, destinata a essere seguita da altre erano guidate da un giovane di periferia dal sorriso malizioso, la cui impresa più notevole fino a quel momento era stata l'irruzione nel garage di un vicino. L'intenso corteggiamento fra l'ISIS e Abaaoud era tutt'altro che un evento casuale. Certo, sulla carta, il ragazzo aveva poco da offrire: era l'ennesimo delinquentello senza esperienza militare e senza capacità particolari. All'epoca del suo arrivo in Siria, il gruppo terrorista era già carico di successi, sia sul campo di battaglia, sia nella più vasta lotta per accaparrarsi combattenti e risorse. Centinaia di volontari giungevano ogni mese dalla Penisola arabica, dal Caucaso e dal Nord Africa. Tuttavia, all'inizio del 2012, i leader del gruppo puntavano a battaglie più grandi e a risultati più importanti. Il giornalista americano Peter Theo Curtis, che era stato preso in ostaggio dal Fronte al-Nusra quando questa organizzazione terroristica era ancora ufficialmente un ramo dello Stato islamico, ricordava che i suoi carcerieri parlavano di un progetto per collocare in Europa e in Nord America cellule dormienti che si potevano attivare per condurre attacchi in un lontano futuro. I seguaci di Zarqawi volevano quadri di occidentali proprio come Abaaoud e si diedero da fare per reclutarli. I leader jihadisti «invitavano gli occidentali alla jihad in Siria,» scrisse Curtis, «non tanto perché avessero bisogno di altri soldati non ne avevano affatto bisogno ma perché vogliono insegnare agli occidentali a portare la lotta in ogni quartiere e in ogni stazione della metropolitana dei loro Paesi». Abaaoud doveva essere un primo esperimento della strategia dell'ISIS. Ma prima di poterlo usare, bisognava scoprirlo, esaminarlo e persuaderlo. Tutti i dati convergono nel suggerire che Abaaoud sia stato un convertito eccezionalmente entusiasta. Primo dei sei figli di un immigrato marocchino, Abaaoud crebbe del quartiere operaio di Molenbeek a Bruxelles, dove la maggior parte dei suoi vicini e dei suoi compagni di scuola avevano origini arabe o turche. A diciannove finì in carcere per la prima volta, per aver nascosto merci rubate. A venticinque, l'elenco comprendeva aggressione, rapina e resistenza all'arresto. Una volta, mentre fuggiva dalla polizia, era saltato in un fiume ghiacciato e avevano dovuto curarlo per ipotermia. Trascorse qualche tempo in prigione, uscì, fu arrestato di nuovo. L'ultimo periodo di Abaaoud dietro le sbarre lo mise in contatto con il piccolo circolo di islamisti del carcere. Come Zarqawi e i suoi discepoli anni prima, erano delinquenti di strada che adottavano un rigido codice religioso per ottenere l'ammissione in una banda ancora più dura: quella dei jihadisti. Come i loro simili in Germania, Inghilterra e Francia, appartenevano a una generazione di giovani musulmani delusi che erano diventati radicali prima di essere religiosi, secondo l'agente dell'antiterrorismo belga Alain Grignard, studioso del fenomeno.

Isis: i cani dell’islam, scrive il 20 novembre 2016 Nino Spirlì su "Il Giornale". No, non l’Occidente prono a piedi di potentati mafiomassopolitici senza fede né morale; non lamerica, bugiarda e senza palle, dell’uscente (grazie, America) obama e della schiaffeggiata illari, madre di tutti i mali (grazie, America); neanche la codarda europa dell’ingorda culona mangiacrauti d’oltremuro e del ridicolo francesino che le fa da maggiordomo; figuriamoci l’italietta da farsa, governata da una manciata di bamboccioni sciocchi come il pane che mangiano. I curdi! Quei coraggiosissimi combattenti, femmine e maschi, con degli attributi che gli pesano tonnellate! Sono stati loro a LIBERARE Hamam Al-Alil, l’ex roccaforte di quei porci del cosiddetto stato islamico. Li hanno cacciati via. Forse, e magari, giustiziati (Dio li giudichi! Per me, marciscano nella merda del peggiore inferno). Comunque, sconfitti. E quello che hanno trovato, questi Eroi liberatori, – e che andrà moltiplicato per tutti i luoghi già liberati (per il momento, settantadue fosse comuni fra Siria e Iraq) e/o che saranno liberati - è l’Olocausto 2.0! La Shoah del Terzo Millennio, PERMESSA, ANZI INCORAGGIATA, DALLA MALEDETTA STUPIDITA’ (O SPIETATEZZA?) DEI NOSTRI CATTOCOMUNISTI, DEI NOSTRI FINTI BUONI, DEI NOSTRI MASSONI, MAFIOSONI, MAGNONI E DEI LORO FORAGGIATORI!!! Decine, probabilmente, centinaia di migliaia di CRISTIANI e non, torturati, seviziati, martirizzati, ammazzati da quei cani col corano in mano. Uccisi in nome di un dio, Allà, e del suo televenditore, tale Maometto, che chiedono sangue come fosse acqua nel deserto. Oggi, peraltro, giustificati, anzi accolti, entrambi, da chi, nell’Occidente culla di Atene e Cristo, pur di servire i pochi loschi potenti misteriosi che credono di essere i padroni delle nostre esistenze, ci vendono al bazar della finta accoglienza e fratellanza. (#FRATELLOACCHI’?) Ma, piaccia o no, a vincere su queste tenebre dell’Umanità, é sempre Cristo! Nella Sua essenza umana e divina. Per chi crede in Lui come Dio, Padre Figlio e Spirito, Gesù Cristo vince sul male con la Potenza del Suo Braccio. Per chi lo conosce “solo” come “saggio, filosofo, libero pensatore, eccetera”, il Nazareno vince ad ogni ritorno della pace, della libertà, dell’ordine, della democrazia. In quelle terre, dove oggi il sangue si mescola ai granelli di sabbia, tornerà definitivamente la pace. Ne sono sicuro. Oggi più che mai. E tornerà grazie a due “Soldati” che il Cielo ha voluto a capo di due nazioni un tempo nemiche e, ora più che mai, vicine: Putin e Trump sapranno, con forza e determinazione, aiutare i popoli del Medioriente, oppressi dalla menzogna islamica, a spezzare le catene che da oltre un millennio li offendono e li isolano. Quelle genti conosceranno la Verità. Che è una. E nacque a Betlemme

Elmetti Bianchi: un altro video che imbarazza, scrive Giampaolo Rossi il 24 novembre 2016 su "Il Giornale". Siria: una casa bombardata, un uomo che emerge dalle macerie, forse svenuto; sporco di calcinacci come se quella casa gli fosse crollata in testa. Attorno a lui due soccorritori, due White Helmets (gli Elmetti Bianchi), gli angeli del soccorso che la propaganda occidentale ha, in questi ultimi mesi, eretto a eroi dell’umanitarismo da copertina contro i crimini di Assad e del suo alleato russo. Per 25 secondi i personaggi sono immobili come statue mentre la telecamera insiste su di loro ruotando intorno. Poi improvvisamente come un “Azione!!” urlato da un regista remoto, i personaggi iniziano a muoversi e la scena si anima. L’uomo diventa un ferito dolorante e i due soccorritori, i suoi salvatori che lo estraggono dalle macerie e lo portano in salvo. Il silenzio irreale di un attimo si riempie di urla, sirene, rumori e frenetico caos. Insomma una perfetta scena di salvataggio da bombardamento costruita come un set cinematografico. Il video è stato pubblicato il 18 Novembre sul canale di RFS (Revolutionary Forces of Syria Media Office), la piattaforma media che raccoglie la propaganda delle diverse organizzazioni anti-Assad. Dopo poche ore il video è diventato virale in tutto il mondo. Il motivo è semplice: da mesi il manistream occidentale sta costruendo il mito dei White Helmets. Le immagini di questi operatori umanitari che dopo ogni presunto bombardamento del regime siriano o dell’aviazione russa, compaiono dal nulla a salvare vite umane scavando a mani nude tra le macerie mentre ancora gli aerei nemici sono sopra le loro teste, riempiono i servizi televisivi e i canali online dei principali media. Sempre puntuali, in perfetta angolatura di telecamera, sfidando bombe e pericoli di ogni sorta, gli eroici Elmetti Bianchi dimostrano al mondo come Assad e Putin bombardino civili e preferibilmente bambini (che quasi sempre sono i protagonisti dei salvataggi). Il loro lavoro è talmente encomiabile che l’organizzazione è stata proposta per Nobel per la Pace e su di loro è già stato realizzato un documentario da Netflix. Eppure da più parti si sollevano dei dubbi: gli Elmetti Bianchi non sarebbero altro che l’ennesima creatura messa in vita nei laboratori dei servizi d’intelligence occidentali, finanziati copiosamente da Usa Gran Bretagna e Qatar (cioè i paesi che fino ad oggi hanno appoggiato i “moderati ribelli” jihadisti anti-Assad), modellati attraverso un brand riuscitissimo da un azienda di marketing britannica e utilizzati come strumento di propaganda dalla “libera informazione” occidentalista. Per chi volesse approfondire chi sono i White Helmets, rimandiamo a questa indagine di Matteo Carnieletto su Gli Occhi della Guerra completa ed esaustiva. Qui ci limitiamo a raccontare la storia di questo video imbarazzante e francamente incomprensibile. I responsabili di RFS hanno in un primo tempo fatto sparire il video dal canale, ma solo dopo che era stato reso virale su migliaia di altri siti. Allora hanno deciso di reinserirlo, pubblicando una nota ufficiale in cui spiegano che esso era solo un “Mannequin Challenge”, una “Sfida dei Manichini”, questa sorta di moda social che sta impazzando sul web e in cui si realizzano video con personaggi immobili a rappresentare scene fisse e spesso surreali e creative. Una moda diventata virale da quando gli studenti di un liceo di Jacksonville poco tempo fa, realizzarono il primo video per gioco. Una moda a cui ha partecipato persino Hillary Clinton con questo video virale per la sua campagna elettorale. Insomma era un gioco. Eppure a differenza dei “Mannequin Challenge”, questo video si conclude con i personaggi che prendono vita ed animano una scena di simulazione di salvataggio con tanto di finzione scenica e contesto sonoro riprodotto di un bombardamento. Le polemiche sono innescate dal fatto che molti osservatori internazionali, da tempo stanno mettendo in dubbio molti dei video di salvataggio degli Elmetti Bianchi. Ad esempio questo: Riprodotto con il logo dei White Helmets, che mostrerebbe un attacco contro i civili dell’aviazione di Assad, ma non specifica il luogo, né il contesto; nel video si vedono volontari che trafficano in maniera un po’ superficiale con dei compressori di ossigeno e salvano miracolosamente da sotto le macerie due bambini che non sono né feriti, né impauriti, ma anzi stringono le loro bambole insolitamente pulite per essere stato seppellite sotto tonnellate di cemento armato. O quest’altro in cui una bambina (più grande) estratta viva e fatta salire sull’elicottero che la porterà in salvo, inizia a mettere in scena uno straordinario copione di ringraziamenti ad Allah, esaltazioni del martirio, promessa di indossare l’hijab islamico; insomma un vero manifesto di ortodossia jihadista recitato da una bravissima attrice e pubblicato dal Wall Street Journal. D’altro canto come ha sottolineato Vanessa Beeley, giornalista ed operatrice in Siria, il legame tra White Helmets e gruppi islamisti di Al Qaeda è ormai assodato; molti di loro ne fanno parte e quasi tutti i video vengono prodotti nelle zone della Siria sotto il controllo di Al Nusra e dei terroristi islamici appoggiati dall’Occidente. I bambini sono quasi sempre i protagonisti dei salvataggi, ma spesso la manipolazione è così evidente da risultare grossolana; come questa bambina, sempre la stessa, “salvata” in tre bombardamenti diversi e sparata sui media a commozione del pubblico occidentale. Tutto questo ci serve a comprendere come la manipolazione dell’informazione non sia un elemento neutrale in una guerra, ma uno delle componenti essenziali di ogni conflitto. Creare suggestioni per condizionare l’opinione pubblica (sia occidentale che islamica) aiuta a aumentare l’odio verso il nemico, giustificare il conflitto e condizionare le scelte politiche. Insomma la manipolazione dell’informazione è una Forza Armata e su questo, “i liberi media occidentali” sono vere truppe di sfondamento.

Le buone ragioni per abrogare il reato di clandestinità: un atto necessario e di onestà, scrive l'11/01/2016 Guido Savio su "ASGI". Premessa. Si discute molto, in questi giorni, dell’opportunità di abrogare il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato di cittadini extracomunitari, ma le ragioni dei favorevoli e dei contrari sono spesso obnubilate da una diffusa disinformazione circa la reale natura di questo illecito, dei motivi per cui fu introdotto, e delle ragioni per cui il Parlamento deliberò di depenalizzarlo. Queste poche righe vogliono fornire un contributo in termini di chiarezza e comprensione, nella consapevolezza che solo se si conoscono le questioni ci si può formare un convincimento motivato e non falsato da ideologie e opportunismi. La natura del reato di clandestinità. La legge n. 94 del 2009 introdusse, nel Testo Unico delle norme sugli stranieri extracomunitari, l’art. 10 bis che sanziona la condotta dello straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni che disciplinano, appunto, l’ingresso ed il soggiorno in Italia dei cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea (con esclusione, quindi, dei cittadini comunitari, nei cui confronti questo reato non si applica). La sanzione è l’ammenda da 5.000 a 10.000 €: trattasi di un reato contravvenzionale, punito con la sola pena pecuniaria, per il quale non è possibile l’adozione di forme limitative della libertà personale, quali l’arresto o il fermo di polizia, perché il nostro sistema processuale penale non consente di mettere in carcere una persona per un reato che non è punito con la pena detentiva. Questa considerazione è molto importante, al fine di capire i meccanismi attuativi di questo reato: lo straniero che entra o soggiorna illegalmente in Italia non può essere arrestato, quindi viene denunciato a “piede libero”, e, nelle more del processo, è libero di andare dove vuole: quando dovesse essere condannato a pagare l’ammenda chi lo recupererà mai? Una prima considerazione saltò subito agli occhi di tutti: che senso ha punire con una pena pecuniaria uno straniero irregolare che – proprio perché privo di permesso di soggiorno – non può accendere un conto corrente, non può essere assunto regolarmente, non può intestarsi beni immobili o mobili registrati? Cioè, in che modo lo Stato ha la garanzia di recuperare le pene pecuniarie irrogate? Assolutamente nessuna, perché lo straniero irregolare condannato per questo reato non può possedere beni aggredibili alla luce del sole. Fu subito evidente che mai la Pubblica Amministrazione avrebbe intascato nemmeno un centesimo delle pene pecuniarie irrogate, anzi, ci avrebbe rimesso perché non avrebbe nemmeno recuperato le spese di giustizia che lo Stato anticipa per la celebrazione di un processo e che, dopo, cerca di recuperare dal condannato. Senza contare l’incidenza della rilevanza numerica di questa fattispecie negli uffici giudiziari, già oberati di cause pendenti. L’impossidenza economica del condannato e, comunque, l’impossibilità oggettiva di avere un patrimonio aggregabile dallo Stato creditore, evidenziarono l’assoluta inutilità di questo illecito. Ma anche sotto il profilo della deterrenza, l’efficacia è pari a zero. E’ ovvio che chi mette a repentaglio la sua vita, sulle carrette del mare o nel sottofondo di un TIR, non si lascia spaventare dall’ipotesi di potere in futuro essere condannato al pagamento di una somma di denaro che sa benissimo non sarà in concreto esigibile! D’altronde, nei sei anni di applicazione di questa norma gli ingressi illegali in Italia non sono affatto diminuiti, anzi. Allora, perché è stata introdotta questa fattispecie e perché si fatica tanto a levarla di torno? Gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea. Occorre avere un attimo di pazienza e fare un passo indietro. Correva l’anno 2009, quando R. Maroni (Ministro dell’interno) ed A. Alfano (al Dicastero della giustizia) idearono questo illecito. Nel 2008 il Parlamento europeo ed il Consiglio adottarono una direttiva avente ad oggetto “Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”, meglio nota come “Direttiva rimpatri”, il cui termine di recepimento negli ordinamenti interni degli Stati membri sarebbe scaduto il 24.12.2010. Corre l’obbligo di precisare che detta direttiva – vincolante dopo la scadenza del termine di recepimento – prevedeva che le espulsioni degli stranieri fossero attuate ordinariamente in modo non coattivo, concedendo a chi doveva essere espulso un termine per la partenza volontaria, decorso invano il quale si poteva procedere all’allontanamento coatto. Per contro, il sistema espulsivo italiano, disegnato nel 2002 dalla Bossi-Fini, prevedeva (e lo prevede sostanzialmente ancora oggi) che tutte le espulsioni fossero eseguite immediatamente dalla Polizia con l’accompagnamento coattivo alla frontiera dello straniero da espellere, insomma l’esatto contrario delle norme europee. Il Governo italiano dell’epoca – con a capo lo stesso Presidente del 2002 – non era particolarmente entusiasta all’idea di doversi adeguare alla normativa sovranazionale da lì a poco (24.12.2010), ritenendo che fosse preferibile salvaguardare i confini nazionali con il collaudato sistema delle espulsioni coatte. Fu così che l’allora Ministro Maroni ebbe la (in)felice intuizione da cui si deve la genesi del reato di cui ora tanto si discetta. Poiché la direttiva europea consentiva agli Stati membri di derogare all’obbligo di concedere un termine per la partenza volontaria, tra l’altro, anche nei casi in cui l’espulsione fosse stata disposta come sanzione penale o in conseguenza della stessa, il Governo decise di “inventare” il reato di ingresso e soggiorno illegale, sanzionandolo con una sanzione pecuniaria, ma prevedendo che il giudice (nella specie quello di pace) potesse sostituire l’ammenda con l’espulsione, a titolo di sanzione sostitutiva della stessa pena pecuniaria. In tal modo l’espulsione sarebbe stata conseguente ad una sanzione penale e, conseguentemente, si sarebbe potuta aggirare la direttiva rimpatri non applicandola, nel pieno rispetto formale della direttiva stessa. Insomma, una tipica soluzione “all’italiana”. Questa fu il vero motivo per cui nel 2009 venne introdotto nel nostro ordinamento questo reato: cercare di eludere gli obblighi derivanti all’Italia dall’appartenenza all’Unione europea, e non certo pensare di rimpinguare le casse dello Stato con ammende stratosferiche che mai sarebbero state concretamente esatte, e, men che meno confidando nel loro effetto deterrente. Le bugie hanno le gambe corte. Questa sorta di truffa delle etichette però non ha funzionato. E’ necessario aggiungere un elemento di conoscenza per ben comprendere l’evoluzione delle cose. Non tutti sanno che, parallelamente alla denuncia per il reato di clandestinità, lo straniero che viene sorpreso in condizione irregolare sul territorio italiano, di norma deve essere obbligatoriamente espulso in via amministrativa dal prefetto. Dal momento dell’accertamento dell’irregolarità partono due procedimenti paralleli, entrambi volti all’allontanamento dall’Italia: quello penale e quello amministrativo, è una sorta di gara dove vince chi arriva primo. Infatti, se nelle more dello svolgimento del processo penale l’Amministrazione esegue l’espulsione coattivamente, il giudice del procedimento penale emette una sentenza con cui dichiara che l’azione penale è diventata improcedibile, perché lo Stato non ha più alcun interesse a condannare al pagamento di un’ammenda – a sua volta convertibile in espulsione – uno straniero che già è stato allontanato dall’Italia. Se, viceversa, all’atto della celebrazione del processo per il reato di clandestinità non si ha notizia dell’avvenuta espulsione dell’imputato, si prosegue e – in caso di condanna – il giudice irroga la pena pecuniaria, che può essere sostituita dall’espulsione disposta dello stesso giudice. Così lo straniero, che nel frattempo è uccel di bosco (perchè, come precedentemente chiarito, non può essere messo in carcere per un reato punito con la sola pena pecuniaria) fa collezione di espulsioni: quella amministrativa del prefetto e quella del giudice di pace. Il normale buonsenso consente di domandarsi che senso abbia disporre una pluralità di espulsioni – con l’ulteriore aggravio dei costi di un processo penale – essendo sufficiente cercare di eseguirne una. Ma neppure l’eventuale espulsione del giudice a titolo di sostituzione dell’ammenda può esser facilmente disposta ed eseguita: la legge, infatti, prevede che il giudice possa effettuare la sostituzione solo se non esistono ostacoli alla sua immediata esecuzione, cioè se lo straniero è identificato, se ha il passaporto, e se c’è un vettore disponibile a riportarlo da dove è venuto. Peccato però che la sussistenza di queste stesse circostanze avrebbe già determinato l’esecuzione dell’espulsione in via amministrativa, con conseguente sentenza d’improcedibilità in sede penale. Se, invece, si celebra il processo penale, ciò vuol dire che l’espulsione amministrativa non è stata eseguita, proprio per la sussistenza di quegli stessi impedimenti che ostano all’adozione dell’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: quella introdotta nel 2009 è una fattispecie del tutto inutile. La legge delega del 2014. Con la legge 28.4.2014 n. 67, il Parlamento ha conferito delega al Governo per la depenalizzazione di una serie di reati, tra cui quello in esame, entro 18 mesi dall’entrata in vigore della legge stessa. A termine abbondantemente decorso, il Governo discute oggi se esercitare la delega parlamentare. L’insieme della comunità scientifica è concorde per l’abrogazione di un reato inutile. A ciò si aggiunga che anche la Procura nazionale antimafia si è schierata a sostegno dell’abrogazione, evidenziando come il reato in questione ostacoli le indagini volte all’accertamento delle responsabilità dei trafficanti di esseri umani che gestiscono gli sbarchi sulle nostre coste. Infatti, se gli immigrati debbono essere indagati per ingresso illegale, non possono essere sentiti come persone informate sui fatti, ma debbono essere interrogati con la necessaria assistenza di un difensore e possono avvalersi della facoltà di non rispondere. Peraltro, si registra ormai da tempo una sorta di disapplicazione di questo reato, soprattutto nei grandi uffici giudiziari dove il carico di lavoro è tale per cui i processi per il reato di clandestinità non si celebrano, preferendo i capi degli uffici privilegiare le scarse risorse per perseguire altre fattispecie ben più gravi, cui attribuire la precedenza. Le ragioni del no. Stando così le cose, perché il Governo nicchia, rinvia, e pare refrattario ad esercitare la delega del Parlamento? Si dice perché la gente non capirebbe, perché verrebbe meno un presidio importante contro l’invasione degli stranieri – anche in considerazione dell’allarme terrorismo – sicché i tempi non paiono maturi. Dunque meglio rinviare la decisone aspettando che le acque si chetino, senza fornire all’opposizione una ghiotta occasione di propaganda e di facile raccolta del consenso popolare. Pertanto, anche se la maggioranza governativa concorda sull’abrogazione, considerazioni di opportunità politica ne sconsigliano l’adozione. Brevi note conclusive. I nodi vengono al pettine. E’ ovvio che il Ministro dell’interno, che nel 2009 era Ministro della giustizia, non possa oggi sconfessare a cuor leggero quel che sei anni or sono propugnava e approvava con convinzione. L’onestà intellettuale fa spesso a pugni con le contingenze politiche del momento. Ma chi ha fatto credere all’opinione pubblica che quel reato costituisse un utile strumento di contrasto all’immigrazione irregolare, pur sapendo benissimo che altro era lo scopo? Chi ha scelto di accalappiare il consenso popolare alimentando le paure dell’invasione e suggerendo rimedi del tutto inutili e controproducenti? Chi ha propagato per anni con forza l’idea che fenomeni sociali epocali potessero essere governati seriamente con gli strumenti della repressione penale? Nessuno risponde politicamente, prigionieri come siamo di fragili equilibri, per cui mentre il mondo cade a pezzi e i singoli Stati dell’Unione si chiudono a riccio, qui da noi ci si arrovella se sia politicamente opportuno mantenere in vigore un reato inutile. Torino, gennaio 2016 Guido Savio, avvocato, Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione.

“El Mundo” accusa: in Italia spariscono bambini immigrati, scrive Emmanuel Raffaele il 19 giugno 2016 su "Primato Nazionale". L’accusa è grossa e, anche se le notizie a cui fa riferimento sono note da circa un mese, a lanciarla pochi giorni fa è il quotidiano spagnolo El Mundo: “Italia, il paese in cui spariscono i bambini”. Un titolo forte che fa riferimento alle cifre diffuse a fine aprile dal Ministero del Lavoro, in relazione ai minori stranieri non accompagnati giunti in Italia e di cui non si conosce più la sorte. Una percentuale allarmante, appunto, pari a circa il 30% della cifra totale. La retorica è quella trita e ritrita dell’Italia paese fuori dalla normalità, stantia e francamente insopportabile, non solo per ragioni di patriottismo, ma anche per il tono che sa di superiorità morale ed il giudizio politico implicito che la accompagna: “In un paese normale, se un bambino scompare, partono le ricerche. In Italia, no.  Se il bambino è un immigrato e scompare, le autorità se ne lavano le mani”. Un giudizio pesante, che tenta di far passare il solito messaggio degli italiani in apparenza brava gente ma sotto sotto un po’ razzisti. E va bene il lassismo, va bene la disorganizzazione, va bene anche l’autocritica, ma sembra francamente eccessivo per un governo che sta praticamente aprendo le porte agli immigrati e per un paese finora ha affrontato l’emergenza quasi da solo. Ma, a parte i toni, lo scandalo in questo caso è più che legittimo e non fa che confermare quanto l’approccio immigrazionista della politica, dei media e dei salotti ‘intellettuali’ italiani sia pericoloso e complice di tutto questo. Del resto, il fenomeno non è circoscritto al nostro paese, come spiega El Mundo: “Europol calcola che circa 10mila minori stranieri non accompagnati potrebbero essere caduti nelle mani delle organizzazioni criminali, soprattutto in Italia”. Ma, come anticipavamo, a proposito del nostro paese, era stato lo stesso governo italiano, lo scorso 30 aprile, a spiegare che su 1196 bambini somali giunti nella penisola, soltanto di 638 si conosceva la collocazione, appena il 34,7%. Nessuna notizia, sempre secondo fonti ministeriali, anche di 471 bambini afgani (il 66,9% del totale), di ben 1077 minori eritrei (56%) e di 1187 (32%) egiziani. Si tratta – aggiunge il giornale iberico – di bambini che spesso fuggono dai centri d’accoglienza, magari per provare a raggiungere parenti oltre confine, nel nord Europa. Facili prede che, infatti, cadono spesso nelle mani della criminalità. A volte, come nel caso di tanti egiziani, minori costretti a ripagare con il lavoro le spese per il viaggio. In pratica, potenziali schiavi. Ecco cosa genera la politica delle porte aperte e dell’accoglienza, tra le altre cose. Su 16,747 minori non accompagnati registrati, non si sa nulla di 5.099 bambini, il 30,4% del totale. Emmanuel Raffaele

Migranti, Oxfam: in Italia scompaiono 28 bambini al giorno, sistema di accoglienza "inefficace", scrive l'8 settembre 2016 "Tgcom24". Secondo il rapporto "Grandi speranze alla deriva", in sei mesi si sono perse le tracce di 5.222 minori non accompagnati. Ogni giorno in Italia 28 bambini migranti non accompagnati "scompaiono" a causa di un sistema di accoglienza "inefficace e inadeguato". E' quanto denuncia l'Oxfam nel rapporto "Grandi speranze alla deriva", precisando che nel 2016 è raddoppiato il numero di minori "soli" giunti in Europa attraverso l'Italia. Fino a giugno, sono 5.222 i piccoli dichiarati "scomparsi" dopo essere scappati dai centri d'accoglienza per continuare il loro viaggio. I ragazzi "scomparsi" escono dai radar della legge e diventano ancor più vulnerabili violenze e sfruttamento. Molti infatti - si legge in una nota dell'Oxfam - si ritrovano confinati a tempo indeterminato in centri da cui non possono uscire, costretti in alloggi inadeguati e insicuri, senza informazioni sui loro diritti. Dopo la chiusura della rotta dei Balcani occidentali e l'accordo tra l'Unione europea e la Turchia, l'Italia si è ritrovata ancora una volta ad essere il principale punto di accesso per i migranti diretti in Europa. La maggior parte dei bambini che arrivano da soli via mare provengono da Egitto, Gambia, Eritrea, Nigeria e Somalia. Secondo gli ultimi dati dell'Unhcr, il numero di minori soli giunti in Europa è aumentato nel 2016, fino a rappresentare il 15% di tutti gli arrivi. Alla fine di luglio, secondo l'Unhcr, erano ben 13.705 i minori non accompagnati sbarcati in Italia: un numero maggiore del totale di quelli arrivati nel 2015 (12.360 bambini). Nonostante l'impegno della società civile e di molti comuni e regioni - osserva ancora Oxfam - il sistema di accoglienza italiano appare ancora inadeguato. I centri hotspot realizzati da Ue e autorità italiane, per registrare i nuovi arrivi e velocizzare le procedure di respingimento ed espulsione, sono in cronico sovraffollamento. Mentre il soggiorno massimo dovrebbe durare 48-72 ore, molti ragazzi finiscono per rimanere bloccati per settimane, spesso senza potersi cambiare e chiamare i parenti. La situazione nei centri di prima e seconda accoglienza, dove i minori vengono trasferiti dopo la registrazione, in molti casi non è migliore. Oxfam chiede perciò alle autorità italiane e ai partner europei di intervenire immediatamente per garantire ai minori non accompagnati alloggi adeguati e sicuri e il supporto di cui necessitano per poter vivere in modo dignitoso.

Soli nelle mani dei trafficanti: il destino dei bimbi immigrati. I bambini non accompagnati stanno sbarcando a migliaia, dalla Sicilia vengono mandati a Roma o Milano. Alcuni finiscono nei centri gestiti dalle associazioni, molti altri sulla strada, scrive Emanuela Fontana, Lunedì 21/07/2014, su "Il Giornale".  Il più piccolo corre sul monopattino e ogni volta che incrocia lo sguardo saluta: «Ciao!». Ha i capelli a spazzola, i pantaloncini arancioni e un paio di scarpe da ginnastica sproporzionate per la sua altezza. È arrivato giovedì. Dall'Egitto, su un barcone. Ha dichiarato di avere quattordici anni ma potrebbe averne dodici. Sfreccia nei corridoi del centro diurno di Civico Zero di via dei Bruzi, nel quartiere San Lorenzo, accanto a due ragazzi che giocano a biliardino, ad altri tre impegnati al computer. Appese al muro, parabole e lunghe frecce disegnano grandi archi tra l'Asia e l'Europa, le tracce di viaggi infiniti: sette mesi per arrivare in Italia, cinque trascorsi nel deserto. Sui tavoli decine di storie: «Sono andato ad Alessandria per prendere la barca. Sono rimasto chiuso in Alessandria dentro un magazzino...». Questa è la casa a Roma dei bambini venuti dal mare. Le statistiche li chiamano «minori non accompagnati». E sono sempre di più. Secondo i calcoli di Save the children, dall'inizio dell'anno al 22 giugno sono sbarcati sulle coste italiane oltre 6mila bambini senza genitori. Mille piccoli naufraghi al mese, trenta al giorno. Sono loro adesso le nuove vittime privilegiate dei trafficanti. Dei traghettatori del mare, ma anche dei passeur di terra, che dalla Sicilia smistano i piccoli a Roma, a Milano e nel nord Europa. In assenza di un piano europeo, il governo ha deciso da pochi giorni di stanziare per loro 70 milioni di euro. Ma certo i soldi non bastano, segnalano le associazioni. C'è una rete di trafficanti che si sta specializzando proprio nella gestione dei clandestini minorenni soli. Li portano a destinazione. O li incanalano in un lavoro nero che spezza la schiena. Li smistano nello spaccio o nella prostituzione. Al centro dei bambini del mare di San Lorenzo arrivano moltissimi egiziani ed eritrei. Le loro vite sono raccontate con pudore, scritte qualche volta. I primi vengono messi sui barconi dalle famiglie, che hanno bisogno dei soldi dei loro figli a costo di perderli nel Mediterraneo. Il racket dei piccoli schiavi a Roma passa da Mercati Generali. I bambini che il pomeriggio giocano a Civico Zero la sera dormono in comunità per minori, altri da parenti e amici delle famiglie. In comunità, da quando compiono i quattordici anni, non possono essere trattenuti: sono liberi di andare in giro. Di notte alcuni di loro scavalcano i cancelli del grande mercato di Roma e caricano cassette di frutta e verdura che i connazionali rivendono nei piccoli market della Capitale. Un euro l'ora se va bene. Per molti mesi devono lavorare per ripagare il debito del viaggio, almeno 2mila euro. Poi iniziano a inviare i soldi alle famiglie. Molti non ce la fanno. E allora c'è un posto dove vanno i ragazzini che non sanno come trovare il denaro. La stazione Termini. Questo è il precipizio. «Alcuni decidono di prostituirsi - racconta un'operatrice - Anche molti piccoli afghani, non hanno alternative». C'è un punto, vicino alla stazione, dove i bambini vendono i loro corpi. Sembrano scene da Millionaire, il film di Danny Boyle del 2008 in cui si raccontava l'infanzia di torture di un gruppo di bambini indiani. Eppure è Roma, accanto alle folle che i treni superveloci rigurgitano a piazza della Repubblica. Proprio a Termini un ragazzo ivoriano, M., diciassette anni, ha trovato invece un nuovo destino in una macchina fotografica. Gliela lasciò sul marciapiede un operatore di Civico Zero. Era una macchina «usa e getta». Il primo scatto fu un sacco dell'immondizia che conteneva i suoi vestiti. Ora M. a ventuno anni lavora al centro di via dei Bruzi e si sta affermando come fotografo. I bambini eritrei scappano dalla dittatura anche da piccolissimi. Già a dieci anni, se vengono bocciati, sono reclutati nel servizio di leva. Allora scelgono la fuga e il mare. Il loro mediatore è A., anche lui arrivato bambino. Aspettò due mesi a Tripoli «chiuso nella casa del trafficante» e poi fu imbarcato: «Su un gommone per Lampedusa». Voleva andare nel Nord Europa, come tutti gli eritrei, ma a quei tempi impronte digitali in Italia significava obbligo (o fortuna) di rimanere qui. Per lui i programmi non sono stati rispettati, ma: «Basta vivere» sorride. Una piccola frase che sembra la didascalia di una generazione intera di figli del mare.

Nel Mediterraneo, tra i sommersi e i salvati. Ogni giorno e ogni notte centinaia di persone vengono strappate al mare e alla morte da una nave di soccorso. “L’Espresso” è salito a bordo. Per vedere, sentire e capire la più mostruosa e contemporanea delle tragedie umane, scrive Fabrizio Anzolini il 23 novembre 2016 su "L'Espresso". Mancano solo 300 persone: «Altri 300, e da luglio a oggi avrò visto passare sul ponte di questa nave 10 mila naufraghi. Uomini e donne che senza di noi avrebbero rischiato di morire in mare. Migliaia di vite che abbiamo salvato». Scandisce bene parole e numeri Joey, uno dei marinai della Topaz Responder, la nave di salvataggio della Croce rossa italiana e della fondazione Moas che da mesi pattuglia lo stretto di Sicilia per soccorrere le imbarcazioni dei migranti che dalle coste dell’Africa, soprattutto della Libia, cercano di raggiungere l’Italia. Il momento migliore per avvicinare l’equipaggio di questa nave e ascoltarne le storie è a fine giornata, quando finalmente possono prendersi il tempo per una sigaretta, per chiamare a casa le famiglie e scherzare tra di loro. «Per fare questo lavoro devi essere un po’ pazzo», racconta uno di loro. «Vivi per settimane lontano da casa, in mezzo al Mediterraneo, e il tuo mestiere è salvare gente». «Io salvo gente», ripete orgoglioso, con quello strano accento italiano dei maltesi che hanno imparato la nostra lingua dalla televisione. La Responder è un gioiello ad altissima tecnologia: lunga 52 metri, con una stazza lorda di 1.198 tonnellate e motori da 3.820 cavalli. Concepita inizialmente come nave di supporto per le piattaforme petrolifere in alto mare, può contare anche su due imbarcazioni per le emergenze: i Frdc (Fast Support Daughter Craft), motoscafi in grado di solcare le acque anche nelle peggiori condizioni del mare. I nomi dei due “vascelli di salvataggio” non lasciano spazio all’immaginazione: Alan e Ghalib, in onore dei due fratellini curdi la cui morte, trovata cercando di attraversare il Mediterraneo, ha commosso il mondo nel settembre dello scorso anno. Messa in mare nel 2015, la Topaz Responder è stata presa in affitto pochi mesi dopo dalla fondazione Moas (Migrant offshore aid station) per aggiungersi alla Phoenix, l’altra nave che l’associazione maltese ha acquistato per salvare le vite in mare grazie all’impegno dei suoi fondatori, Christopher e Regina Catrambone. Da luglio 2016 la fondazione, che è in cerca di fondi per continuare il suo lavoro, ha stretto una collaborazione con la Croce rossa italiana e con la Federazione internazionale della Croce rossa. Così l’equipaggio che in questi mesi ha portato la nave è diviso in tre gruppi: quello che fa riferimento all’armatore; quello di Moas, che organizza le missioni; e quello della Croce rossa, che provvede al supporto medico sanitario. Il “gruppo Moas” è composto da professionisti con alle spalle decine di anni di esperienza nel campo dei salvataggi. Il loro riferimento è John Hamilton, un cinquantenne che dopo aver servito per 26 anni nelle forze armate di Malta ha deciso di dedicare la sua pensione alla ricerca e al salvataggio delle persone in mare. Ai suoi ordini, un vero e proprio gruppo di élite: da Pedro Silva, sommozzatore della Protezione civile portoghese abituato a lanciarsi in mare dagli elicotteri, a Paul Chamberlain, 45enne inglese che prima di salire a bordo addestrava alle emergenze i vigili del fuoco in Gran Bretagna. Poi ci sono anche i maltesi, Joe e Antoine, marinaio-sommozzatore il primo, pilota il secondo: è lui uno di quelli che guidano il motoscafo ad emergenza rapida quando viene avvistato un barcone. Poi c’è lo staff di Croce rossa, guidato da Abdel, giovane eritreo arrivato in Italia con uno di quei barconi che ora va a soccorrere: dopo aver ottenuto la protezione sussidiaria, è stato arruolato nell’esercito di Dunant secondo quell’idea di integrazione e professionalità con cui da anni Francesco Rocca, il presidente della Croce rossa italiana, cerca di plasmare la sua associazione. È Abdel che gestisce lo staff internazionale che a rotazione sale sulla nave. Attualmente questo è composto da un’infermiera svedese e da due delegati della Croce rossa islandese che coordinano il supporto sanitario assieme a Michael Kuehnel, grande e grosso medico di Vienna. Topaz, la compagnia armatrice, fornisce il personale di bordo per la guida e la manutenzione. E a capo di tutti ci sono il capitano, il filippino Edward Abad Caballero, con il primo ufficiale maltese, Pierre Mangion, un ragazzo di 29 anni, un po’ scontroso, come tanti uomini di mare, ma che dietro la timidezza nasconde tutto il pragmatismo e l’efficienza che ci vogliono per ricoprire un ruolo di responsabilità su una nave di questo genere. La vita a bordo della Responder inizia prima dell’alba. John, forte della sua precedente esperienza nelle forze armate, ha “militarizzato” l’equipaggio con l’accordo degli stessi membri che definiscono questo «il miglior modo per garantire efficienza e professionalità». La sveglia quindi è alle 5 di mattina. Tranne in caso di soccorsi d’emergenza, com’è successo la scorsa settimana quando Pierre ha avvistato in mare aperto, e in piena notte, un’imbarcazione di legno con a bordo 28 bengalesi che stavano cercando di raggiungere l’Italia dalle coste della Libia. Di solito la nave inizia la missione raggiungendo le acque internazionali di fronte alla Libia e lì si ferma fino all’avvistamento di un’imbarcazione in difficoltà o fino a quando non riceve una chiamata dal centro nazionale di coordinamento dei soccorsi nel Mediterraneo di Roma. A spiegare come funziona il tutto è lo stesso Hamilton: «Il più delle volte quello che succede è che il nostro radar avvista il segnale di una piccola imbarcazione diretta a nord. A quel punto la raggiungiamo, verifichiamo di che imbarcazione si tratta e se ha bisogno di aiuto, poi chiediamo a Roma il permesso di intervenire. In altri casi, invece, sono gli stessi trafficanti di uomini che lasciano a bordo dei gommoni un telefono satellitare con cui i migranti possono chiamare direttamente durante situazioni di emergenza. Altre volte ancora c’è bisogno di un intervento nelle acque territoriali libiche: ma questo avviene rarissimamente e sempre solo dopo aver ricevuto l’okay dalla guardia costiera libica». Ricevuto il via libera di Roma le operazioni di salvataggio hanno inizio. Quello che colpisce, nella nave, è il silenzio all’avvio delle operazioni: l’unica voce che si sente è quella di Pierre Mangion che dà ordine a tutto l’equipaggio di prepararsi. Un secco e chiaro “stations, stations: stand by”. A tutte le postazioni, a tutte le postazioni: state pronti. È a quel punto che nel silenzio più totale lo staff Moas e quello Croce rossa corrono a prepararsi: tute bianche di protezione chimica e biologica per chi rimane a bordo del Responder, mute ed equipaggiamento da mare per i sommozzatori, tecnicamente “rescue swimmer”. Dopo pochi minuti i motoscafi di salvataggio vengono messi in acqua e raggiungono l’imbarcazione in difficoltà. I sommozzatori tirano al barcone i giubbotti di salvataggio e poi, uno alla volta, trasferiscono i migranti sull’Frdc. Questo, una volta raggiunto il numero di 15 persone, porta tutti a bordo della “nave madre”. Viaggi su viaggi, da un’imbarcazione a un’altra. Così semplici da descrivere, ma così complicati da fare. Ogni volta vengono trasportate vite umane, in condizioni difficilissime. Ogni barcone rischia di perdere stabilità, ribaltarsi e portare alla morte decine di persone. Su ogni gommone quello che si trova è indescrivibile: quando va bene sono centinaia di uomini, donne e bambini ammassati. Quando va male ci sono feriti persone ammalate. Ma anche cadaveri. I “salvati” che raggiungono il Responder sono accolti sulla nave dallo staff Moas (che controlla cos’hanno addosso, dai vestiti agli oggetti) e da quello della Croce rossa che in un primo momento verifica solo rapidamente lo stato di salute e le eventuali emergenze, dividendo uomini e donne. Poi, quando le operazioni di salvataggio saranno finite, di loro si occuperà un “triage” più approfondito, dopo aver distribuito a tutti acqua e coperte termiche. L’arrivo a bordo di queste persone è impressionante: si percepisce la paura di chi non ha capito cosa sta succedendo, si vedono gli occhi sbarrati di chi teme di esser stato preso da una forza di polizia e teme di essere riportato in Libia, si sente il battere dei denti di chi sta quasi morendo di freddo, tra le urla dei bambini spaventati o quelle delle donne che, sempre, sono quelle che nei gommoni vengono trattate peggio, soprattutto se sole. E poi l’odore, l’odore della benzina del barcone, la puzza di vestiti sporchi e di urina, l’odore della peggiore miseria. La cosa più bella, il gesto più emozionante, è il grazie di chi è stato salvato, che arriva alla fine delle operazioni. Le gru riportano sulla nave i motoscafi a risposta rapida e il loro equipaggio, il pilota e i “nuotatori di salvataggio”, scendono da una scaletta sulla nave madre. Un enorme, liberatorio ed emozionante applauso gratifica tutti questi uomini che passano le loro giornate in mare, lontano da casa per “salvare gente”. È da quel momento che la Responder, in accordo con Roma, può decidere se rimanere in mare per l’operazione successiva o dirigersi verso il primo porto italiano per lo sbarco dei “salvati”. Cosa rimane, a monte di tutto questo? Solo un dato, agghiacciante: 4.420. È il numero dei morti nel Mediterraneo a partire dall’inizio dell’anno, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. In crescita perfino rispetto ai 3.770 del 2015 Sono i sommersi, di cui nessuno saprà più niente. Ed è a loro che pensano, impotenti, le donne e gli uomini della nave Responder, appena finisce il lungo applauso dei salvati.

L'Italia dei sedicenti profughi, scrive, Martedì 15 novembre 2016, "Affari Italiani". Anche senza ottenere lo status di rifugiato in Italia si ottiene accoglienza. È il «grande limbo» italiano: un’oscura terra di mezzo fondata sugli scogli della burocrazia e sulle montagne di pratiche accumulate nei tribunali e soprattutto sull’attesa del giudizio finale, ovviamente nella speranza che sia la più lunga possibile. Per entrare nel limbo basta una formula magica di tre sillabe: «ricorso». Negli ultimi cinque anni, scrive Maurizio Tortorella su Panorama, ha aperto le porte d’Italia a quasi 112 mila migranti, che all’apparenza non ne avevano alcun diritto. E il fenomeno è in continuo aumento, alimentato com’è dal passa-parola e dalla sua totale gratuità. Dal gennaio 2012 allo scorso 30 settembre, oltre 230 mila immigrati che si dichiaravano «profughi» sono stati esaminati dalle Commissioni territoriali prefettizie, invocando il diritto d’asilo. Oltre 45 su 100, per l’esattezza 111.677, ne sono stati riconosciuti indegni. È possibile, e forse probabile, che in stragrande maggioranza abbiano bluffato, se non barato. Di certo nessuno di loro è riuscito a dimostrare di possedere i requisiti minimi per ottenere nemmeno la «protezione sussidiaria», la formula secondaria d’asilo che scatta a favore di chi correrebbe il rischio di subire almeno un «grave danno» se fosse costretto a tornare nel suo Paese, anche se ad aspettarlo non ci sono guerre civili, regimi dittatoriali o persecuzioni razziali, politiche, religiose. Del resto, gli stranieri in arrivo nel 2016 da zone effettivamente di guerra, come la Siria o l’Iraq, sono stati appena un migliaio, mentre c’è stato un vero boom dalla Costa D’Avorio (5.862), dalla Guinea (4.441), dal Ghana (3.628). Naturalmente, ogni storia è a sé e come tale viene valutata, ma tra il 60 e il 70 per cento degli immigrati da queste zone non vengono accolti perché tecnicamente «non profughi». Altrove, per esempio in Germania, Gran Bretagna e Francia, i sedicenti perseguitati che vengono respinti dagli uffici esaminatori sono subito classificati come clandestini o migranti economici: a quel punto possono tutt’al più appellarsi a un funzionario della stessa struttura, che in pochi giorni decide sulla loro sorte. Se il giudizio è confermato, vengono riaccompagnati al confine. In Italia, invece, tutto è diverso. Una volta ottenuto il timbro con il No alla loro domanda d’asilo, i sedicenti profughi hanno due strade. O scompaiono nel nulla, da veri clandestini, oppure hanno 30 giorni per presentare ricorso al tribunale civile più vicino. A quel punto, finalmente accolti nel «grande limbo», aspettano che la giustizia italiana faccia il suo lento corso. I tempi dell’attesa sono lunghi: in primo grado il tribunale avrebbe sei mesi per trattare il caso, ma ne impiega almeno otto-dieci. Poi c’è la Corte d’appello: altri 10-12 mesi. Infine viene la Cassazione. Così, per circa tre anni, i sedicenti profughi vengono trattati come «rifugiati sospesi», con tutti i benefici del caso: permesso di soggiorno, assistenza sanitaria, diritto all’istruzione e all’accoglienza in una struttura convenzionata, o in alternativa un sussidio in denaro sui 35 euro giornalieri, mille euro al mese. Nel 2014 hanno fatto ricorso il 73 per cento dei migranti che si erano visti negare il diritto d’asilo. Nel 2015 la quota è salita all’80. Poi il trucco si è risaputo e ha fatto l’en-plein: nel 2016 la quasi totalità dei respinti ha bussato a un palazzo di giustizia. A spanne, sono oltre 90 mila procedimenti aperti solo negli ultimi tre anni. I tribunali sono così intasati da questa valanga di ricorsi che in giugno il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha ipotizzato una soluzione d’emergenza: creare sezioni specializzate per accelerare l’esame dei ricorsi dei sedicenti profughi, ed eliminare il giudizio d’appello, «così come accade in Francia, Spagna e Belgio» dice Orlando «dove sono previsti solo due gradi di giudizio: un primo di merito e un secondo di legittimità». Forse da noi la proposta di riforma non reggerebbe a una valutazione di costituzionalità. Sta di fatto che il governo Renzi non l’ha presa nemmeno in considerazione. È così che i palazzi di giustizia, soprattutto alcuni, stanno esplodendo. La stessa Associazione nazionale magistrati lancia l’allarme: «Molti uffici sono al collasso». A Milano il presidente del tribunale, Roberto Bichi, sciorina a Panorama i dati di una guerra che pare già persa: «Da 260 ricorsi presentati nel 2013» dice «siamo saliti a 640 nel 2014, a 1.679 nel 2015, e a 3.011 iscritti al 30 settembre scorso. A fine anno saranno più di 4 mila». In stragrande maggioranza, i giudici confermano i no delle Commissioni territoriali: nel 2015 a Milano i rigetti sono stati 1.041, oltre il 62 per cento. Ma va tenuto conto che molti presunti profughi non si presentano in udienza, e la causa va avanti per le lunghe. «E anche gli accoglimenti non garantiscono il diritto d’asilo» spiega Bichi «perché più spesso viene concessa una generica protezione umanitaria, ben diversa dallo status di profugo». Bichi finora ha fatto fronte allo tsunami applicando alla prima sezione civile, competente per la materia e composta da otto giudici, altri 30 magistrati a tempo parziale, di cui dieci onorari. «Se però va avanti così» commenta «sarà davvero difficile resistere». Anche a Napoli il presidente del tribunale, Ettore Ferrara, assiste sconcertato a un incremento di ricorsi che tra 2015 e 2016 ha superato il 500 per cento: «Erano 800 nel 2015, sono 4.500 allo scorso 30 settembre» rivela. «È una cifra enorme». A Venezia l’impennata è di poco inferiore: 1.142 ricorsi nel 2014, raddoppiati a 2.086 nel 2015; nei primi due mesi del 2016 sono stati 485, tre volte più numerosi rispetto ai 172 del primo bimestre 2015. Ma la macchina giudiziaria veneziana ha il motore imballato: i ricorsi giacenti sono 2.859, e dal giugno 2015 ne sono stati definiti appena 402. A Roma i ricorsi sono aumentati da 1.595 nel 2013 a 2.200 nel 2015. Sono stati 1.100 nel primo trimestre 2016: saranno 4-5 mila per dicembre. Insomma, ovunque è una Caporetto giudiziaria, che si abbatte su uffici già gravati da un cronico arretrato. Ma è anche un disastro economico per il bilancio della nostra giustizia. Perché la totalità dei sedicenti profughi, ovviamente, chiede il gratuito patrocinio, cioè un avvocato d’ufficio pagato dallo Stato. E dato che un processo comporta una parcella sui 900 euro, i 90 mila casi degli ultimi tre anni hanno fatto sborsare all’erario oltre 80 milioni solo per il primo grado. Per il giudizio d’appello, poi, la parcella va tra 800 e 1.200 euro. Ma dopo un No in secondo grado spesso il sedicente profugo scompare, ripresentandosi con nuovo nome e nuova richiesta d’asilo. E la giostra ricomincia. Si calcola così che le sole spese di giustizia per i profughi respinti costino sui 50-60 milioni l’anno allo Stato. Cui poi va aggiunto ben altro: i mille euro di sussidio mensile e gli altri benefici garantiti alle decine di migliaia di migranti che, pur mai riconosciuti ufficialmente come rifugiati, entrano nel «grande limbo». E contribuiscono al «grande salasso». (Ha collaborato Maria Pirro).

Migranti, profughi, rifugiati: ecco significati e differenze I rifugiati sono migranti? I termini vengono utilizzati spesso come sinonimi ma indicano situazioni differenti, scrive Benedetta Bidini il 05 settembre 2015 su "Rai news". Migranti, rifugiati e profughi. Termini utilizzati spesso come sinonimi, in maniera quasi "interscambiabile". Questi tre termini hanno invece significati differenti, indicano situazioni anche giuridiche diverse. Proviamo dunque a fare un pò di chiarezza. Migrante Viene utilizzato in maniera generica e generale per indicare il flusso di persone in fuga dal proprio Paese che arriva in un altro. Il termine per la precisione indica chi decide di lasciare volontariamente il proprio Paese d’origine per cercare un lavoro e condizioni di vita migliori. A differenza del rifugiato, un migrante quindi non è un perseguitato nel proprio Paese e può far ritorno a casa in condizioni di sicurezza, senza nessun rischio. Migrante ha quindi una connotazione più economica. Rifugiato Il termine ha un significato giuridico ben preciso. Lo status di rifugiato è sancito e definito nel diritto internazionale dalla Convenzione di Ginevra del 1951, viene riconosciuto a quelle persone che non possono tornare a casa perché per loro sarebbe troppo pericoloso e hanno quindi bisogno di trovare protezione altrove. Nella Convenzione si legge che il rifugiato è una persona che "nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato". Il rifugiato è anche chi "essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi". Uno status che può essere perso Lo status di rifugiato è una condizione giuridica, può quindi essere "perso", come stabilisce la Convezione di Ginevra, se la persona ha volontariamente richiesto la protezione dello Stato di cui possiede la cittadinanza; se ha volontariamente riacquistato la cittadinanza persa; se ha acquistato una nuova cittadinanza e gode della protezione dello Stato di cui ha acquistato la cittadinanza; se è volontariamente tornata e si è domiciliata nel Paese che aveva lasciato o in cui non era più andata per paura di essere perseguitata; se, cessate le circostanze in base alle quali è stata riconosciuta come rifugiato, essa non può continuare a rifiutare di domandare la protezione dello Stato di cui ha la cittadinanza: se, in pratica, la situazione nel suo Paese è cambiata in meglio Richiedente asilo Il richiedente asilo è una persona che, avendo lasciato il proprio Paese, chiede il riconoscimento dello status di rifugiato o altre forme di protezione internazionale ed è in attesa di una decisione da parte delle autorità competenti riguardo al riconoscimento del loro status di rifugiati. Profugo Poi c'è il termine profugo che ha un significato un pò diverso da quello di rifugiato. Aiuta nella definizione il dizionario Treccani: "il profugo è colui che per diverse ragioni (guerra, povertà, fame, calamità naturali, ecc.) ha lasciato il proprio Paese ma non è nelle condizioni di chiedere la protezione internazionale". Quindi solo lo status di rifugiato è sancito dal diritto internazionale.

Migranti, rifugiati, profughi, richiedenti asilo, scrive il 26 agosto 2015 "Il Post". Una breve guida lessicale e al dibattito in corso sull'uso di queste parole: i rifugiati sono tutti migranti, ma i migranti sono tutti rifugiati? E i profughi? Parole come “profughi”, “rifugiati”, “migranti” e “richiedenti asilo” sono spesso usate (anche e soprattutto nelle semplificazioni giornalistiche) come sinonimi o comunque termini sovrapponibili: indicano in realtà situazioni tra loro legate, ma non coincidenti. Inoltre attorno alla questione c’è un diffuso dibattito “sociolinguistico” che ha coinvolto tra gli altri Al Jazeera, il Guardian e Le Monde, e in cui rientrano riflessioni politiche o di altro tipo.

Migrante. Viene spesso usato come un termine “ombrello”. Secondo un glossario dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, un’organizzazione nata nel 1951 e che collabora strettamente con l’ONU, a livello internazionale non esiste una definizione universalmente riconosciuta del termine. Di solito si applica alle persone che decidono di spostarsi liberamente per ragioni di “convenienza personale” e senza l’intervento di un fattore esterno. Questo termine si applica quindi a persone che si spostano in un altro paese o in un’altra regione allo scopo di migliorare le loro condizioni materiali e sociali, le loro prospettive future e quelle delle loro famiglie. Migrante regolare e migrante irregolare. Un migrante è considerato regolare se risiede in un paese con regolare permesso di soggiorno, rilasciato dall’autorità competente; è irregolare invece se è entrato in un paese evitando i controlli di frontiera, oppure se è entrato regolarmente – per esempio con un visto turistico – ma è rimasto in quel paese anche dopo la scadenza del visto, o ancora se non ha lasciato il paese di arrivo dopo l’ordine di allontanamento.

Clandestino. Il clandestino è un migrante irregolare. In Italia si è considerati “clandestini” quando, pur avendo ricevuto un ordine di espulsione, si rimane nel paese. Dal 2009 in Italia la clandestinità è un reato penale. Nell’aprile del 2014 la Camera aveva approvato una legge sulle pene detentive non carcerarie e il sistema sanzionatorio che prevedeva anche l’abolizione del reato di clandestinità relativamente al primo ingresso irregolare in Italia. La legge delegava il governo a adottare una serie di decreti attuativi per rendere effettiva l’applicazione della legge, entro 18 mesi dalla sua entrata in vigore: i decreti non sono stati ancora emanati.

Rifugiato. Rifugiato non è un sinonimo di migrante perché ha un significato giuridico preciso. Nel diritto internazionale, “rifugiato” è lo status giuridicamente riconosciuto di una persona che ha lasciato il proprio paese e ha trovato rifugio in un paese terzo. La sua condizione è stata definita dalla Convenzione di Ginevra (relativa allo status dei rifugiati, appunto), firmata nel 1951 e ratificata da 145 stati membri delle Nazioni Unite. L’Italia ha accolto tale definizione nella legge numero 722 del 1954. La Convenzione di Ginevra dice che il rifugiato è una persona che «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato». Il rifugiato è anche una persona che «essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi». Lo status di rifugiato – visto che non è una condizione “esistenziale”, per così dire, ma giuridica – può essere “perso” se la persona ha volontariamente richiesto la protezione dello stato di cui possiede la cittadinanza; se ha volontariamente riacquistato la cittadinanza persa; se ha acquistato una nuova cittadinanza e gode della protezione dello stato di cui ha acquistato la cittadinanza; se è volontariamente tornata e si è domiciliata nel paese che aveva lasciato o in cui non era più andata per paura di essere perseguitata; se, «cessate le circostanze in base alle quali è stata riconosciuta come rifugiato, essa non può continuare a rifiutare di domandare la protezione dello Stato di cui ha la cittadinanza»: se, in pratica, la situazione nel suo paese è cambiata in meglio.

Richiedente asilo. Di questa categoria fanno parte coloro che hanno lasciato il loro paese d’origine e hanno inoltrato una richiesta di asilo in un paese terzo, ma sono ancora in attesa di una decisione da parte delle autorità competenti riguardo al riconoscimento del loro status di rifugiati.

Profugo. Si tratta di una parola usata in modo generico che deriva dal verbo latino profugere, «cercare scampo», composto da pro e fugere (fuggire). Il dizionario Treccani aggiunge qualcosa: «Il rifugiato è colui che ha lasciato il proprio Paese, per il ragionevole timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità e appartenenza politica e ha chiesto asilo e trovato rifugio in uno Stato straniero, mentre il profugo è colui che per diverse ragioni (guerra, povertà, fame, calamità naturali, ecc.) ha lasciato il proprio Paese ma non è nelle condizioni di chiedere la protezione internazionale». Anche se di fatto i due termini vengono spesso sovrapposti, è lo status di rifugiato l’unico sancito e definito nel diritto internazionale.

Apolide. Secondo la Convenzione di New York del 1954, l’apolide è una persona che non ha la nazionalità di alcun paese. La nazionalità è il legame giuridico che garantisce a ogni persona il godimento dei propri diritti: l’apolide è dunque destinato all’invisibilità giuridica e può incontrare difficoltà ad accedere alle cure sanitarie e agli studi; non ha accesso all’assistenza sociale, né al mercato del lavoro; non ha libertà di movimento; non può sposarsi. Vive una situazione di perenne irregolarità e può, di conseguenza, essere soggetto a periodi di detenzione amministrativa e ordini di espulsione.

Sfollato. Viene considerato uno sfollato una persona che pur avendo abbandonato la propria casa a causa degli stessi motivi dei rifugiati, o a causa di eventi eccezionali (carestie, per esempio), non ha attraversato un confine internazionale. La maggior parte degli sfollati non riceve protezione o assistenza internazionale.

Beneficiario di protezione umanitaria. Chi può ottenere una protezione umanitaria ma non è riconosciuto come rifugiato, perché non è vittima di persecuzione individuale nel suo paese ma ha comunque bisogno di protezione o assistenza: si tratta di una persona che se fosse rimpatriata potrebbe subire violenze o persecuzioni.

Il dibattito su queste parole. Il giornalista Barry Malone ha motivato la decisione di al Jazeera di non chiamare più “migranti” le persone che arrivano nei paesi europei attraversando il Mar Mediterraneo, poiché il termine esprime una distanza eccessiva e viene usato, in modo scorretto, per indicare persone che arrivano da paesi in guerra come Siria, Iraq e Libia e che sono in realtà dei “rifugiati”. A differenza del rifugiato, un migrante non è insomma un perseguitato nel proprio paese e, secondo la definizione maggiormente diffusa, può fare ritorno a casa in condizioni di sicurezza. Una riflessione simile è stata fatta qualche tempo fa dal giornalista Mark Memmott sul sito di NPR, la rete delle radio nazionali statunitensi. Memmott, però, è arrivato a una conclusione opposta a quella di al Jazeera dicendo che tutti i rifugiati sono migranti, ma che non tutti i migranti sono rifugiati. L’UNHCR usa entrambe le parole, rifugiati e migranti, dicendo per esempio che «nel 2015, 292.000 rifugiati e migranti sono arrivati ​​via mare in Europa». L’uso dei due termini viene scelto anche da altre organizzazioni come Amnesty International o Human Rights Watch. Sul Guardian viene invece messa in discussione la distinzione tra “expatriate” (letteralmente “espatriato”, in italiano, cioè emigrato) e immigrato: il primo termine (nonostante la definizione che ne viene data, e cioè quella di una persona che si è recata all’estero) viene riservato esclusivamente «ai bianchi occidentali che vanno a lavorare all’estero» mentre «gli africani sono immigrati. Gli arabi sono immigrati. Gli asiatici sono immigrati». Le due parole vengono cioè caricate, spesso implicitamente, di un significato razzista: se un bianco va a vivere all’estero è un expat, se la stessa cosa la fa un nero è un immigrato.

L’Italia degli immigrati irregolari, I numeri di un esercito che le istituzioni fanno finta di non vedere, scrive Mattia il 17 novembre 2016 su "Tgcom24 news". Ci fanno credere che sono tutti profughi di guerra, quando invece solo una piccola parte lo è veramente. Per il resto sono immigrati irregolari. C’è un popolo invisibile, che vive e lavora nell’ombra. È quello degli immigrati fantasma. Gli irregolari senza permesso di soggiorno. Sono quelli che con disprezzo chiamiamo “clandestini” ma che in realtà sono irregolari che vivono ai margini delle nostre città, uomini o le donne che entrano alla luce del sole sulle imbarcazioni partite dalla Libia, o di nascosto attraverso le frontiere dei porti adriatici nelle intercapedini dei Tir, nei bagagliai di auto e pullman, o che atterrano negli aeroporti internazionali con un visto turistico, o sono regolarmente al seguito di un pellegrinaggio al Vaticano o da padre Pio e poi si “perdono”, lasciando scadere il permesso di soggiorno per motivi di turismo o di lavoro. Sta di fatto che, secondo i dati del Ministero aggiornati al 28 ottobre scorso, sono state presentate 76.448 domande di asilo politico da profughi che vengono dalla Nigeria, Pakistan, Mali, Gambia, Senegal, Bangladesh, Afganistan, Siria ecc. Quanti di questi vengono davvero dalla guerra? Basta pensare che tra questi i siriani sono solo 800 in tutto, le cui domande sono state ovviamente accolte in quanto si tratta di un popolo in guerra. Le domande accolte in tutto sono 3.952 su 76.448, quindi i restanti 72.496 sono clandestini irregolari che non dovrebbero essere nel nostro paese ma che invece ci sono lo stesso, senza che nessuno li espelle, in giro per le nostre città senza un documento, senza un permesso per stare nella nostra nazione, senza la possibilità di cercarsi un lavoro (solo lavoro in nero), costretti a rubare, spacciare, ad entrare nella criminalità o lavorare in nero per vivere. Un esercito invisibile che all’ anagrafe non esiste, e che le istituzioni fanno finta di non vedere cercando di chiuderli in edifici requisiti e caserme. “Le caserme servono per metterci i militari, i poliziotti e i carabinieri, e non quelli che poi devono essere inseguiti da militari, poliziotti e carabinieri”, ha commentato Matteo Salvini nel corso di una puntata della trasmissione “Quinta colonna”, il quale ha poi aggiunto: “Accogliere donne e bambini in fuga dalla guerra è un mio primo dovere sacrosanto, dovrebbero essere portati in Italia non col gommone ma con l’aereo, tutti gli altri vanno rimandati a casa loro”.

ACCOGLIERE I PROFUGHI E SCACCIARE SUBITO FINTI PROFUGHI E IMMIGRATI CLANDESTINI. Scrive il 13/02/2016 Adriana Bolchini su "Lisistrata". Il titolo sembra uno slogan trito e ritrito invece io lo dichiaro a voce alta, perchè è possibile distinguere gli uni dagli altri. Come si fa a distinguerli? Semplicissimo: i veri profughi non creano problemi di nessun tipo, accettano volentieri gli aiuti che vengono loro offerti e non entrano in conflitto con altri profughi di religione o di etnia diversa, anche perchè sanno benissimo che se mai fossero finiti in una tendopoli organizzata dall’ONU sul loro territorio, vivrebbero continui abusi, fame e malattie, mentre qui ricevono tutto il necessario alla sopravvivenza ed anche di più, dal momento che poggiano i loro piedi sulla nostra terra. I finti profughi, cioè i soliti immigrati clandestini che hanno trovato il modo di raggiungere le nostre coste si comportano in modo assai diverso: sono prepotenti. Sfuggono al riconoscimento ed anche se hanno crimini pregressi nessuno li caccia, e quando arrivano sul nostro territorio fanno il gesto di minaccia del taglio della gola e non soltanto il gesto, spesso lo ripetono a voce alta, intanto sanno di non essere perseguiti dalle nostre leggi che lasciano loro liberi di dire tutto quello che vogliono ma condannano noi se osiamo difenderci. Già a partire dai centri di accoglienza, creano problemi gravissimi contro gli operatori, le forze dell’ordine e le strutture. Inoltre si comportano da razzisti veri contro gruppi di profughi di religione o etnia diversa, scaricando molte violenze contro di loro, odiano e non vogliono gli omosessuali che come recita la shari’a pretendono che vengano uccisi.  Il loro comportamento è assolutamente inaccettabile, si impongono con violenza, infatti non raramente creano problemi seri nei centri di accoglienza, arrivando persino ad incendiarli, pretendono di mangiare solo quello che vogliono, dimenticandosi che sono in Italia, paese laico che non può e non deve favorire una religione per un’altra e che accogliere migliaia di persone da rifocillare è un problema grossissimo, ma al posto di ringraziare, disprezzano l’aiuto che ricevono. Pretendono di essere accolti in strutture alberghiere di alto livello, non si accontentano della pensioncina, come fanno gli italiani quando vanno in vacanza, , pretendono i condizionatori in camera, la piscina,  le TV e non soltanto la TV italiana, come tutti noi abbiamo ma anche la TV che viene arricchita dai satelliti, aumentando quindi il costo del mantenimento TV.  Se il cibo non è di loro gradimento lo sbattono in mezzo alla strada, non raramente aggrediscono le forze dell’ordine, creano violenze nei territori in cui vanno ad insediarsi, arrivando a giudicare le donne italiane come puttane perchè vestono e si comportano da donne libere ed emancipate, rivendicano lo stupro come un diritto, quindi le violenze sessuali sono all’ordine del giorno, anche contro chi sta svolgendo un lavoro come la postina di Genova, e la signora 55enne di Ponziana, aggredita da un nordafricano alle 6 del mattino che dopo averla chiamata puttana, l’ha picchiata violentemente tentando anche di strangolarla, che ora si trova in ospedale, viva per miracolo,  e i gravissimi stupri di gruppo accaduti in tutta Europa dal capodanno a tutt’oggi, non risparmiando nemmeno i bambini per cui la pedofilia diventa un loro diritto a danno della popolazione locale che ormai non ne può proprio più, e arrivano anche a disprezzare e distruggere i nostri simboli religiosi. Voi tutti vi domanderete ma cosa si può fare, visto che non vengono mandati al loro paese? Sarebbe semplicissimo se il governo facesse una riunione speciale e stabilisse un principio sacrosanto, che il parlamento dovrà ratificare immediatamente: (poichè quando serve ai parlamentari le leggi passano in un baleno) che tutti gli immigrati che attuano un qualsiasi tipo di violenza, dal gettare il cibo, all’aggredire un poliziotto, una donna o violentare un bambino, rapinare e uccidere i malcapitati di turno, vengano una volta individuati processati immediatamente e i giudici devono essere sollevati dall’onere della facoltà di scelta sul comminare o meno la pena o perdonarli, visto l’andazzo liberticida della magistratura italiana, ma i giudici devono avere l’obbligo di rispettare questa legge che può essere anche soltanto di emergenza, in uso per tutti gli anni che saranno necessari a uscire da questo impasse tragico di spirale di violenza estremista straniera contro gli italiani,  e condannarli all’espulsione immediata dal territorio italiano, obbligandoli a rilasciare non soltanto le impronte digitali, ma il DNA in modo da poterli individuare se mai tornassero qui e se proprio non si riesce a scoprire la loro nazionalità, li si devono paracadutare da dove si presume siano partiti o dalla Libia o dal medioriente, senza che possano essere perdonati perchè come purtroppo abbiamo già visto in molte occasioni, il fatto che non esistano conseguenze alle azioni violente, si lasciano andare in azioni sempre più violente e pretenziose, deridendo gli italiani e le loro leggi permissive, ed è per tutto questo che gli italiani stanno diventando razzisti non a causa loro, ma a causa del fatto che il razzismo è da anni applicato contro gli italiani, dagli immigrati, dai politici che vivono protetti da superscorte e guardati a vista e dalla magistratura che sembra tragga qualche beneficio nell’infliggere umiliazioni continue alle vittime italiane. Gli italiani hanno il diritto di rivendicare la sovranità nazionale sul proprio territorio ed il rispetto dei loro diritti umani troppo violati a favore di un buonismo che fa soltanto danni e che in nome di una bontà fasulla, lascia morire gli innocenti salvando invece i persecutori, i violenti e gli assassini. Adriana Bolchini – Lisistrata

Requisizioni case, Gasparri insiste: «so che c’è un piano». Viminale e sindaco però smentiscono: «è bufala», scrive il 23 Novembre 2016 “Prima da noi”. La proposta shock: requisizione seconde case a Pescara per immigrati. Giornata convulsa quella di ieri a Pescara tra secche smentite e conferme sul paventato piano del ministero dell’Interno di requisire le seconde case per ospitare gli immigrati. La notizia è stata lanciata due giorni fa dal quotidiano romano L’Opinione, diretto da Arturo Diaconale. Nell’articolo in cui si citano «fonti del ministero dell'Interno» si indica Pescara come città pilota scelta dal Viminale per avviare una sorta di sperimentazione. La notizia è stata rilanciata poco dopo anche da Il Giornale ma seccamente smentita dal ministro dell’Interno Angelino Alfano (Ncd), dal sindaco Marco Alessandrini («notizie false e assurde») e pure dal sottosegretario alla Giustizia (Ncd), Federica Chiavaroli che ha parlato senza mezzi termini di «mega bufala» pre referendaria. Ma ieri il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, arrivato a Pescara per una iniziativa elettorale, ha rincarato la dose: «so che c’è un piano, so che è stato rinviato a dopo il 4 dicembre per non intralciare la campagna referendaria». Per Gasparri, sarebbe proprio un «annuncio» del capo dipartimento immigrazione Mario Morcone a confermare il varo, rigorosamente post-referendum, di «un piano gigantesco di requisizione di immobili e alloggi per destinarli ai clandestini». Anche il giornalista de L’Opinione, Ruggiero Capone, a chi gli chiede se sia o meno una bufala assicura: «tutti fatti circostanziati» e cita il piano di riparto che il prefetto Morcone ha dato al ministro Alfano. «Non siamo razzisti, ma un piano del genere è inaccettabile», ha detto il vicepresidente del Senato. BUFALA O VERITA’? Notizie del genere prendono quota ciclicamente. Già ad aprile 2015 una notizia simile venne riportata da tutti i quotidiani nazioni. Anche in quel caso si parlava di possibilità di “requisizione” di abitazioni private e anche in quel caso l’allarme era partito da una circolare firmata da Morcone e rivolta ai Prefetti. Ad oggi sappiamo che nessuna abitazione privata è stata requisita. Ancora prima, come aveva ricostruito il sito Bufale.net, si rivelarono del tutto prive di fondamento le notizie che arrivavano da Brescia ad agosto 2014 (“Vogliono dare le case sfitte ai profughi”), o da Padova dove il sindaco, in piena campagna elettorale, pubblicò sulla sua pagina Facebook una falsa lettera della Prefettura in merito alle seconde case sfitte. E’ anche vero, però, che nelle scorse settimane ci sono state già delle prime requisizioni. Ad inizio novembre a Ficarolo, comune dell’alto Polesine, il prefetto di Rovigo, Enrico Caterino ha requisito l’Hotel Lory (struttura privata) per ospitare circa 80 profughi. «Quello che sta avvenendo qui – ha denunciato il titolare Luigi Fogli in una intervista a La Nuova Ferrara – è molto grave, perché a Gorino il provvedimento di requisizione del prefetto aveva interessato una struttura pubblica, di proprietà della provincia, ma questo è un albergo privato. La requisizione concerne tutte e 30 le stanze dell’hotel a tre stelle, aperto tutto l’anno, frequentato non solo da clienti di passaggio lungo la statale e l’autostrada, ma anche da operai occupati nei cantieri edili della zona. Se esista o meno un piano, al netto delle smentite, sarà chiaro solo dopo il referendum perché è chiaro che in questo clima infuocato sia la voce del sì che quella del no perdono forza. Ma come chiarisce ‘La legge per tutti’, quotidiano di informazione giuridica la requisizione delle case sfitte è un provvedimento realmente possibile, in casi straordinari. Il Prefetto, infatti, secondo la legge italiana, può requisire gli immobili a uso abitativo appartenenti ai privati, se questi sono sfitti o abbandonati da alcuni anni. Il motivo della requisizione deve consistere in «gravi ed urgenti necessità»: queste possono essere legate non solo a calamità naturali, come terremoti e alluvioni, ma anche all’emergenza abitativa. La requisizione, a differenza dell’esproprio, non è definitiva, ma l’autorità pubblica si deve impegnare a restituire l’abitazione, nello stato iniziale, entro un determinato lasso di tempo: questo significa che deve essere per forza stabilito un termine finale e che la situazione non può protrarsi indefinitamente. Inoltre, deve essere corrisposta un’indennità al proprietario per tutto il periodo della requisizione. E sempre ieri il capogruppo di Forza Italia in Regione, Lorenzo Sospiri, e i consiglieri comunali di centrodestra hanno consegnato a Gasparri le mille firme raccolte in due giorni per l’emergenza sicurezza a Pescara. Mille firme per chiedere al Governo Renzi di assegnare anche a Pescara una quota del contingente dell’Esercito che si è liberato con la conclusione del Giubileo. «Noi chiediamo che il Senatore Gasparri se ne faccia carico e sposi la richiesta dei pescaresi», ha detto Sospiri. Invito che il senatore Gasparri ha subito accettato: «Le richieste sono tante, Pescara ne ha bisogno, anche perché è evidente che l’impiego delle Forze armate libera le Forze di Polizia da alcuni oneri».

"Basta voucher, dateci i soldi". La protesta dei profughi a Roma. Trecento nigeriani tentano di bloccare l'Aurelia. Interviene la polizia, scrive Daniele Di Mario su "Il Tempo" il 26 Ottobre 2016. Ancora emergenza immigrazione nella Capitale. Questa mattina verso mezzogiorno trecento immigrati hanno cercato di bloccare la via Aurelia per protestare contro la coop che gestisce il nuovo centro di accoglienza. Semplice la rivendicazione dei migranti: "Al posto dei voucher dateci denaro in contanti". Sul posto sono intervenute le forze dell'ordine che alla fine sono riuscite a riportare la calma. Dalla Questura spiegano che gli agenti del Commissariato Aurelio sono dovuti intervenire per sedare una rissa scoppiata nel centro di accoglienza sull'Aurelia tra quei profughi che portavano avanti la linea dura e quelli che, invece, erano intenzionati a usufruire del voucher e a recarsi alla mensa per il pranzo. Sul posto anche l'ex presidente del XIII Municipio, oggi consigliere di centrodestra Daniele Giannini, che attacca: "Trovo assurdo che delle persone che vengono accolte e alla quale viene dato un alloggio, tre pasti al giorno e dei voucher, trovino anche il modo di protestare perché pretendono che gli venga dati dei soldi contanti. Siamo davanti alla dimostrazione del totale fallimento dell'attuale sistema dell'accoglienza dei migranti, che non fa gli interessi dei cittadini e non risolve affatto l'emergenza, anzi". I cittadini, dal canto loro, spiegano che nella struttura gestita dalla cooperativa oggi sono alloggiati trecento migranti, ma i posti a disposizione sarebbero circa mille e la popolazione ospitata sarebbe quindi destinata ad aumentare. Profughi in rivolta a Roma: "Basta voucher, dateci soldi contanti". Vogliono soldi contanti al posto dei voucher: decine di profughi, ospiti di un centro di accoglienza a Roma, tentano di occupare via Aurelia per protesta, scrive Alessandra Benignetti, Giovedì 27/10/2016, su "Il Giornale". Non vogliono i voucher offerti loro dalla cooperativa che li ospita, ma denaro contante da spendere liberamente. Questa è la motivazione che ha spinto, nella mattinata di mercoledì, un centinaio di profughi, a tentare di bloccare per protesta il traffico in via Aurelia, a Roma, secondo quanto riferisce il quotidiano il Tempo. La protesta dei profughi è stata documentata, attraverso un video postato su Facebook, dall’ex presidente del XIII Municipio Daniele Giannini, che attualmente ricopre la carica di consigliere municipale per una lista civica di centrodestra. I richiedenti asilo, poco meno di 300, tutti uomini, sarebbero stati sistemati un paio di giorni fa in un albergo nei pressi di via Aurelia. Neanche il tempo di ambientarsi, però, che è già scoppiata la rivolta dei rifugiati contro la cooperativa che gestisce il centro di accoglienza allestito nell’ex “Hotel Gelsomino” di largo Perassi. Secondo quanto afferma il consigliere Giannini, nel video pubblicato sulla sua pagina Facebook, citando fonti delle forze dell’ordine, la protesta sarebbe scoppiata perché alcuni migranti avrebbero chiesto “soldi contanti” al posto dei voucher che la cooperativa distribuisce loro per i pasti. La Questura di Roma, scrive il Tempo, ha poi spiegato che i poliziotti "sono dovuti intervenire per sedare una rissa" scoppiata tra gli stessi profughi. Alcuni di loro, infatti, secondo la Questura, volevano recarsi a mensa usufruendo dei voucher per il pranzo, mentre altri volevano tentare di bloccare la strada per spingere la cooperativa a dargli soldi contanti. "I cittadini del quartiere Aurelio stanno vivendo un incubo", ha detto Giannini, sentito da ilGiornale.it, "dalla sera alla mattina, senza che nessuno lo sapesse, è stato aperto l'ennesimo centro per clandestini, circa 250 giovani uomini africani hanno cominciato a girare nel quartiere a tutte le ore, anche notturne, senza nessun controllo". E i residenti hanno già lanciato l'allarme per la sicurezza nel quartiere.

Per i profughi servono leggi, scrive Mercoledì 16/11/2016 Maurizio Guandalini. Trump ha detto che gli immigrati che delinquono saranno rispediti fuori dai confini degli Stati Uniti. Come dargli torto? Perché tenersi in casa dei delinquenti? Sala, il sindaco di Milano, chiede l'esercito soprattutto nelle zone più a rischio della città, dove le gang dei latinos si sparano tra di loro. Serviranno a qualcosa i militari? Forse come deterrente, forse i cittadini si sentiranno più protetti. Ma efficacia zero. Anche perché i soldati sono stretti nei loro compiti. Possono far poco. Infatti i militari non vanno mai in giro da soli ma serve sempre un carabiniere, un poliziotto o un vigile urbano per constatare il reato. Poca roba, quindi.  Rimangono le maglie larghe all'ingresso, degli immigrati che delinquono, tutta la faccenda migranti in alto mare, dell'Europa sorda che fa altro. Temi stagionati. Renzi ha fatto bene a porre il primo veto al bilancio dell'Unione, muri a parte, perché non è pervenuto nessun segnale di volontà dall'Europa di risolvere la questione migranti lasciando l'Italia in braghe di tela. È anche vero che il nostro Paese non può affrontare questo tema caldo solo dal punto di vista umanitario accantonando sempre la sicurezza. L'integrazione è un affare complesso e successivo che ha troppe variabili e lungaggini: per dirne una, i quartieri delle periferie andrebbero rifatti, sistemati, i comuni dovrebbero avere altre teste, pensarla in modo diverso ecc. ecc. . Ma perché ci sono leggi dello Stato che se arresti un clandestino che delinque viene rilasciato dopo qualche ora? Perché l'arrivo e la destinazione dei migranti nei vari comuni rimane un affare amministrativo e burocratico e non c'è una selezione a monte in modo da rispedire indietro chi non va? Vogliamo adottare un metodo unico di accoglienza?  Vedere giovanotti di belle speranze seduti davanti agli hotel a non fare nulla non è una esplosione di serietà. Lo Stato, il Governo perché, anche qui, non fanno delle leggi, pochi articoli, per impiegare i giovani migranti, profughi regolarmente registrati come tali, nei lavori socialmente utili, ad esempio, la pulizia dei comuni dove sono ospitati? Alcuni comuni hanno provato a fare qualcosa. Soliera, in provincia di Modena, per il secondo anno consecutivo ha messo in mano ai rifugiati scope, rastrelli e palette per raccogliere le foglie cadute per strada. Maurizio Guandalini, Economista e giornalista.

Migranti, la mappa dell’Italia che dice di no ai profughi, scrive Giuseppe Ghiandi il 26 ottobre 2016 su "Zon". Dopo le proteste dei cittadini di Goro e Gorino contro l’arrivo di alcuni migranti, si infiamma il dibattito sull’accoglienza dei profughi. Il tema dei migranti si conferma, in queste ore, uno dei più spinosi e controversi del nostro Paese. L’ultimo episodio che ha acceso la miccia di una questione perennemente infuocata si è verificato ieri, quando i cittadini di Goro e Gorino hanno addirittura innalzato barricate e bloccato le strade per impedire il passaggio di un pullman sul quale viaggiavano alcuni profughi (11 donne e 4 bambini), che sarebbero dovuti essere ospitati presso l’ostello di Gorino, secondo quanto deciso dal prefetto di Ferrara, Michele Tortora. I cittadini hanno anche disposto dei bancali di legno presso alcuni punti di accesso strategici di Gorino. Dopo le accese proteste, i profughi sono stati trasferiti in altre strutture della provincia. Secondo l’Oim i migranti morti dall’inizio dell’anno sarebbero oltre 2500. Ma non è la prima volta che gli italiani dicono di no ai migranti e cercano di mandarli via. Basti pensare che attualmente, su 9mila Comuni del nostro territorio, soltanto 2600 accolgono i migranti. Ed è davvero guerra tra comuni. Emblematico, in tal senso, il caso del sindaco di Firenze, Dario Nardella, che ha addirittura scritto al prefetto affinché solleciti il ministero degli Interni a “non inviare ulteriori richiedenti asilo sul territorio toscano, fino al riequilibrio delle percentuali con le altre Regioni”. Il sindaco ha motivato la sua richiesta spiegando che, in base ai dati del Viminale, la Toscana ha una presenza di richiedenti asilo superiore del 12% alle quote dovute, mentre ci “sono varie altre regioni che sono sotto quota, come Lombardia, Lazio, Campania, Emilia Romagna, Puglia, Valle d’Aosta”. Proteste e rappresaglie contro i migranti si sono, inoltre, già verificate in tutto Italia. Lo scorso luglio, ad esempio, a Fiumicino, sono scese in piazza oltre150 persone per manifestare contro l’arrivo di 50 profughi, mentre continua il braccio di ferro a Recoaro (Vicenza), dove alcuni migranti dovrebbero alloggiare in un ex albergo, ma i residenti non vogliono cedere.

Quelli elencati sono solo alcuni di casi di proteste dei cittadini contro i migranti, un tema che necessita, ormai, di una discussione costruttiva e risolutiva.

Accoglienza double face, scrive Luigi Iannone il 23 novembre 2016 su "Il Giornale". Il prossimo 25 dicembre, in una scuola media in provincia di Parma, verrà eseguita una canzone che racconta di un Babbo Natale che, invece, dei regali porta permessi di soggiorno. Ovviamente non potevo aspettarmi altro che il solito teatrino. Salvini è partito a razzo non lasciandosi sfuggire l’occasione («lavaggio di cervello ai nostri figli», «propaganda politica di classe») e perciò sfoderando un armamentario nella sostanza condivisibile ma troppo epidermico per un leader che aspira a diventare Presidente del consiglio. Ed ovviamente, subito gli sono andati dietro, e con toni sarcastici ed irridenti, i pennivendoli dei giornaloni. Commentatori vari che vivono in quartieri di lusso, prendono taxi e mai la metro o i bus, che lasciano fare la spesa ai loro filippini, e che dunque non hanno nessun contagio con la plebaglia italiana ed extracomunitaria. E che però sono risoluti nel dimostrare la loro vicinanza al mondo lì fuori, basta che questo mondo di poveri e diseredati non entri mai a casa loro. Ma sulla falsa riga dei buonisti di ogni ordine e grado sono partite anche le solite ramanzine dei cattolici in servizio permanente effettivo, quelli con abito talare e quelli di professione, inorriditi dalle parole del barbaro leghista. In realtà, non mi scandalizzo più di tanto per la vicenda della scuola parmense. È paradossale ma siamo avvezzi all’irragionevolezza italica. Il Natale è tuttavia simbolo di accoglienza e di bontà. E può essere ‘’cosa buona e giusta’’ insegnare ai piccoli la tolleranza, la fraternità e la solidarietà in una società che include solo chi produce e consuma e tiene fuori chi è inutilizzabile per l’una o l’altra cosa. Eppure c’è quel piccolo particolare del permesso di soggiorno che entra in una canzoncina per innocenti creature e che è fatto tecnico, burocratico, non un’azione direttamente legata al sentimento di accoglienza. I bambini devono sviluppare, o almeno mantenere intatti il più a lungo possibile, i sentimenti più nobili senza che vi sia qualcuno che insegni loro faccende di carte bollate e timbri. E allora, visto che si accaniscono in malo modo e con implicita violenza ideologica con i piccoli anche in una festa religiosa, vorrei ricordare soprattutto ai cattolici, specialmente a quelli con abito talare pronti ad ammonire il razzista di turno, che la educazione dei bambini inizia con l’esempio dei grandi. Io non scordo le parole del Papa del settembre 2015 quando, durante un Angelus, si rivolse ai ‘suoi’ con parole chiare: <<Ogni parrocchia accolga una famiglia di profughi>>. Ecco, aggiornatemi sulle ultime. Come è andata a finire? Avete dato l’esempio o mi sono perso qualcosa? C’è qualche problema con i permessi di soggiorno o si tratta di altro? Di menefreghismo allo stato puro. Perché non vedo chiese stracolme di extracomunitari e file di poveri cristi assembrarsi dietro a monaci o presbiteri per ricevere una coperta e un riparo dalla notte. Se mi sbaglio mi corrigerete.

Vittoria radical chic. Il prefetto ci ripensa Capalbio è off limits per i richiedenti asilo. La sinistra snob esulta, scrive Chiara Giannini, Giovedì 24/11/2016 su "Il Giornale". I radical chic, alla fine, hanno ottenuto ciò che volevano: bloccare l'arrivo dei profughi richiedenti asilo che avrebbero dovuto essere ospitati nel condominio «Il Leccio» di Capalbio. Insomma, la località vacanziera della sinistra più snob è salva da possibili prese di residenza, anche temporanea, da parte dei migranti. È stato il prefetto di Grosseto, Cinzia Teresa Torraco, ad annullare il bando di accoglienza legato a Capalbio. E presto sarà avviata una nuova procedura selettiva, che prevederà, però la sistemazione degli extracomunitari in altro luogo della provincia. Come si ricorderà, la polemica era scoppiata lo scorso agosto, quando personaggi più o meno noti, di quelli che puoi vedere prendere il sole, d'estate, all'«Ultima Spiaggia», noto stabilimento balneare immerso nell'oasi naturale del Wwf, accanto a Chicco Testa o ai Caracciolo, avevano gridato allo scandalo a causa del presunto arrivo, grazie all'assegnazione tramite gara, di una cinquantina di profughi, poi scesi a 30 e poi ridimensionati a 20. All'epoca erano partiti esposti, ricorsi al Tar e all'Avvocatura dello Stato. La collocazione si aspettava per settembre, ma dopo le polemiche, soprattutto per il presunto posizionamento degli extracomunitari in un edificio in pieno centro, come qualcuno aveva detto «troppo vicino alle ville», si era deciso di spostarli in futuro in una struttura più periferica. Improvvisamente la decisione del nuovo prefetto. Subito si è gridato allo scandalo, visto che, sempre i soliti radical chic, fanno guerra da tempo, in Toscana, ai sindaci che si rifiutano di accogliere nuovi migranti. In realtà ciò che è realmente accaduto è di facile intuizione. Voci vicine alla prefettura di Grosseto fanno sapere che l'interpretazione della nuova direttiva del ministro dell'Interno Angelino Alfano è servita come escamotage per accontentare i privilegiati di sinistra. Il capo del Viminale ha chiarito che ogni Comune potrà ospitare un massimo di 3 profughi ogni mille abitanti. Capalbio conta 4.139 residenti, quindi dovrebbe ospitarne 12. Solo che, tenendo conto del provvedimento iniziale, che prevedeva l'arrivo prima di 50, poi di 30 e, infine, di 20 profughi, il prefetto avrebbe stabilito che, per legge, quel numero è troppo alto per un territorio piccolo come quello di Capalbio e avrebbe deciso di bloccare l'arrivo dei nuovi ospiti. Oltretutto, la provincia di Grosseto non solo non ha, allo stato attuale, nuovi posti disponibili per richiedenti asilo, ma ha un eccesso di migranti rispetto al numero previsto. È quindi da chiedersi perché dodici delle persone ritenute in surplus non siano state inviate a Capalbio. Forse perché la decisione solleverebbe troppe polemiche? Il sindaco della località turistica, Luigi Bellumori, ovviamente Pd, si è trincerato dietro un «chiedetelo alla prefettura». A parlare, invece, interviene il consigliere regionale Giovanni Donzelli (FdI): «Adesso sappiamo che per fermare l'invasione - spiega - basta fingersi benestanti e di sinistra. Lo consiglieremo ai cittadini che in tutta Italia si lamentano per la presenza degli immigrati e per la totale assenza di coinvolgimento delle comunità locali nelle decisioni sul loro collocamento. Ormai tutti si sono accorti che l'unica attenzione del Pd per i profughi è quella verso il business delle cooperative amiche».

Quando la Boldrini diceva: "Aiutare gli italiani? Mai cosa più sbagliata". Dopo i fatti di Nizza e l'aumento della povertà, virale sul web il video in cui la presidente della Camera affermava che è "sbagliato" pensare prima agli italiani, scrive Giuseppe De Lorenzo, lunedì 18/07/2016, su "Il Giornale". Dopo i fatti di Nizza, dopo il terrorismo, dopo le difficoltà economiche e i dati Istat che certificano l'aumento dei poveri nel Belpaese, gli italiani non ne possono più. Sono stanchi, evidentemente, di sentirsi dire che bisogna prima pensare agli altri, prima ai migranti, prima ai profughi. Avrebbero piacere, gli italiani, che i politici nostrani almeno un volta mettessero in cima alla lista chi paga le tasse, chi si prende la briga di andare a votare, chi è disoccupato, chi in difficoltà e via dicendo. Anche per questo è tornato virale sul web un video simbolo del tradimento del Palazzo nei confronti dei cittadini. La protagonista delle immagini è Laura Boldrini, quando nel giugno 2016 andò in visita ufficiale in Marocco. In quell'occasione, la presidente della Camera disse senza mezzi termini che il principale problema del mondo non è il terrorismo, ma "i populismi e i movimenti che vogliono costruire i muri". Pericoli che ovviamente l'Italia ha "in casa", un rischio "da cui dobbiamo guardarci" (leggi destra e Lega Nord). Poi attaccò con veemenza chi vorrebbe aiutare gli italiani: "Mai ricetta più sbagliata - pontificava la Boldrini - di quella di chi dice che bisogna prima pensare ai nostri concittadini".  "Pensare gli italiani? Mai cosa più sbagliata". Ovvio. Che sciocco anche solo farsi passare per l'anticamera del cervello che la politica italiana debba risolvere i problemi degli italiani. Che assurdità. Che stupidaggine. Per la Boldrini bisogna dare spazio "a chi ci abita vicino, al Mediterraneo". Senza dimenticare la necessità di preparare un piano Marshall per i Paesi africani che si affacciano sul mare nostrum. Alla faccia di chi ha la carta d'identità della Repubblica italiana e s'ostina a chiedere aiuto ai propri governanti. Un video umiliante, un pugno nello stomaco. Su WhatsApp gira un filmato che irride la presidente della Camera Laura Boldrini. Un suo discorso sull’integrazione di profughi e migranti viene accostato alle disgustose immagini di un immigrato che si lava il sedere a una fontanella in pieno centro a Roma, alla luce del giorno. Il messaggio è chiaro: ecco il “Paese reale”, e non è quello dei buoni sentimenti ma del degrado quotidiano.

"Tornate a casa vostra". Quando la sinistra sputava sui profughi istriani. Il Pci non conobbe la parola "accoglienza". Per gli italiani di Pola e Fiume solo odio. L'Unità scriveva: "Non meritano la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci il pane", scrive Giuseppe De Lorenzo, giovedì 10/09/2015, su "Il Giornale". "Poi una mattina, mentre attraversavamo piazza Venezia per andare a mangiare alla mensa dei poveri, ci trovammo circondati da qualche centinaio di persone che manifestavano. Da un lato della strada un gruppo gridava: 'Fuori i fascisti da Trieste', 'Viva il comunismo e la libertà' sventolando bandiere rosse e innalzando striscioni che osannavano Stalin, Tito e Togliatti". Stefano Zecchi, nel suo romanzo sugli esuli istriani (Quando ci batteva forte il cuore), racconta così il benvenuto del Pci agli italiani che abbandonarono la Jugoslavia per trovare ostilità in Italia. Quella che fino a pochi attimi prima era la loro Patria. Quando alla fine della seconda guerra mondiale, il 10 febbraio 1947, l'Italia firmò il trattato di pace che consegnava le terre dell'Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia di Tito, la sinistra non conobbe la parola accoglienza. Tutt'altro. Si scaglio con rabbia e ferocia contro quei "clandestini" che avevano osato lasciare il paradiso comunista. Trecentocinquantamila profughi istriani e dalmati. Trecentocinquantamila italiani che la sinistra ha trattato come invasori, come traditori. Ad attenderli nei porti di Bari e Venezia c'erano sì i comunisti, ma per dedicargli insulti, fischi e sputi. A Bologna invece per evitare che il treno con gli esuli si fermasse, i ferrovieri minacciarono uno sciopero. E poi rovesciarono il latte raccolto per le donne e i bambini affamati. Ecco. Bisogna dire che Giorgio Napolitano ha ragione: il Pd è l'erede del Pci. Ma oggi la sinistra italiana, che di quella storia è figlia legittima, dimentica gli orrori del febbraio del '47. Ora si cosparge il capo di cenere e chiede a gran voce che l'Italia apra le porte a tutti i migranti del mondo. Predica l'accoglienza verso lo straniero che considera un fratello, quando per anni ha considerato stranieri i suoi fratelli. Ma gli unici profughi che la sinistra italiana ha rigettato con violenza erano italiani. Istriani e Dalmati. "Sono comunisti. Gridano 'fascisti' a quella povera gente che scende dalla motonave (...). Urlano di ritornare da dove sono venuti", ricorda Zecchi. Non sono le parole di Matteo Salvini. "Tornate da dove siete venuti" era lo slogan del Partito Comunista di Napolitano, Violante, D'Alema, Berlinguer e Veltroni. L'Unità, nell'edizione del 30 novembre 1946, scriveva: "Ancora si parla di 'profughi': altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi". Oggi invocano l'asilo per tutti. Si commuovono alla foto del bambino riverso sulla spiaggia. Lo pubblicano in prima pagina. Dedicano attenzione sempre e solo a chi viene da lontano. Agli italiani, invece, a coloro che lasciarono Pola, Fiume e le loro case per rimanere italiani, la sinistra riservò solo odio. Lo stesso che gli permise di nascondere gli orrori delle Foibe. "Non dovevamo dimenticare che eravamo clandestini, anche se eravamo italiani in Italia".

"Gli istriani difendevano la patria. I migranti invece sono codardi". Roberto Spazzali, direttore dell'Istituto regionale per la storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia di Trieste, invita a non confondere i profughi di oggi con quelli di allora, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 3/02/2016, su "Il Giornale".  Tra i profughi istriano-dalmati e quelli di oggi non ci sono somiglianze. Chi prova ad avvicinarli, chi invita gli italiani ad essere accoglienti nel ricordo di quelle drammatiche pagine di storia, fa un errore. Gli italiani dell'Istria e della Dalmazia furono costretti a lasciare la loro terra e a fuggire in Italia, mal accettati - anzi, osteggiati - da quella sinistra che oggi si professa madre dell'accoglienza. Ma avrebbero voluto difendere la loro patria. A chiarire la posizione degli esuli istriani, fiumani e dalmati è Roberto Spazzali, direttore dell'Istituto regionale per la storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia di Trieste. Durante un incontro in preparazione della Giornata del ricordo, che si svolgerà il prossimo 10 febbraio a Bondeno, non ha usato mezzi termini. "Nel mare di gente che oggi arriva nel nostro Paese - ha detto - c'è un numero cospicuo di giovanotti che, mi pare, accettino di andarsene dalla propria terra al primo bau. Mi chiedo il perché di questa inerzia. Perché non organizzare una difesa sul territorio da parte di soggetti autoctoni? Chi se ne va nelle condizioni di oggi che tipo di rapporto ha con la terra? Gli esuli istriani, fiumani e dalmati furono costretti ad andare via perché non erano stati messi nelle condizioni di difendere la loro terra, anche perché il Partito Comunista di allora, in Italia, guardava ai comunisti jugoslavi con riguardo. Ricordo che la storia d'Europa è una storia di orrori, ma in passato l'Europa ha saputo difendersi. E da questa difesa ne sono nati i grandi movimenti di Resistenza". Sui temi dell'accoglienza è intervenuto anche Rabar, i cui genitori furono esuli da Fiume nel gennaio 1947. "I campi furono 109 da Bolzano a Siracusa - ricorda - Anche a Ferrara ce ne fu uno, in via Romei, dove oggi ha sede l'istituto alberghiero". La vita nei campi era difficile, i tempi erano contingentati ("sveglia alle 7, alle 7,30 colazione, alle 23 silenzio"), la polizia vigilava, e al terzo ammonimento si poteva essere espulsi. "Tutti gli ospiti erano tenuti a provvedere alla vita stessa del campo - aggiunge - Con la mia famiglia fummo poi spostati a Pontelagoscuro, in baracche di legno, senza acqua corrente, con latrine come servizi igienici, condivise con un'altra famiglia. L'accoglienza non fu certo delle migliori". E pensare che erano italiani, con l'unica colpa di aver deciso di rimanere fedeli all'Italia e non piegarsi al "sogno" socialista di Tito. Per questo furono bistrattati dal Partito Comunista Italiano. Per questo a Bologna i generi alimentari destinati loro vennero distrutti dai manifestanti della sinistra. Gli unici "profughi" su cui la sinistra ha più volte sputato. E che ora vuole usare.

Se i terremotati "valgono" meno dei profughi. L'accoglienza dei terremotati in un hotel vale 25 euro. Dieci euro in meno rispetto alla cifra che viene stanziata dal governo per l'accoglienza degli immigrati, scrive Claudio Torre, Venerdì 30/09/2016, su "Il Giornale". L'accoglienza dei terremotati in un hotel vale 25 euro. Dieci euro in meno rispetto alla cifra che viene stanziata dal governo per l'accoglienza degli immigrati. Di fatto il governo nelle zone terremotate del Centro Italia sta cercando alcune soluzioni per poter dare un tetto a chi ha perso tutto con il sisma. E tra le destinazioni scelte per i terremotati ci sono alcuni alberghi della zona. Ma a quanto pare le trattative tra la Protezione Civile e gli albergatori sono in salita. Come riporta Libero, alcuni albergatori infatti si sarebbero rifiutati di sottoscrivere il contratto per l'accoglienza ritenendo la cifra proposta troppo bassa, nemmeno idonea a coprire le spese da sostenere. E così ecco le cifre per fare chiarezza. Il governo pagherebbe di base di 25 euro al giorno comprensivi di Iva, che per chi incassa significano 22-23 euro al giorno per ogni terremotato ospitato. È noto invece come ad esempio dal Viminale possa concedere un rimborso che varia dai 35 ai 45 euro per ogni immigrato ospitato in un hotel. Spesso, come ricorda Libero, queste tariffe vengono concordate a volte dalle singole Prefetture con gli albergatori e quindi il costo può variare da territorio a territorio. Ma di fatto pensare che per quelle famiglie colpite dal sisma venga proposta una solglia così bassa nei contratti con gli albergatori fa sentire chi ha perso la casa ancora più solo nel deserto delle macerie. E sulla vicenda è intervenuto l'on.Paolo Grimoldi, deputato della Lega Nord e Segretario Nazionale della Lega Lombarda: "Per il Governo Renzi gli sfollati del sisma contano meno dei richiedenti asilo che poi sappiamo bene essere nel 90% dei casi dei clandestini, dei semplici immigrati irregolari che non scappano da nessuna guerra e non avrebbero diritto ad alcuna ospitalità. Eppure per gli immigrati il Governo, tramite le Prefetture, stanzia da 35 a 45 euro al giorno di rimborso agli albergatori che li ospitano, mentre per i poveri sfollati di Amatrice e degli altri borghi appenninici devastati dal sisma le stesse Prefetture hanno proposto agli albergatori appena 25 euro di rimborso per ogni cittadino sfollato che ospiteranno. E ovviamente molti albergatori sono stati costretti a declinare la richiesta di ospitare gli sfollati visto la cifra così esigua proposta dal Governo. A Palazzo Chigi nessuno si vergogna per questo?”.

IL BUSINESS SULLA PELLE DEI BABY PROFUGHI. 

A chi vanno (davvero) i soldi per i baby migranti? Scoppia la polemica sul Garante dell'infanzia. Inviata una lettera al ministro dell'Interno Matteo Salvini e a quello per gli Affari regionali, Erica Stefani, scrive Andrea Riva, Domenica 07/10/2018 su "Il Giornale". Filomena Albano, l'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza (Agia), da qualche giorno si trova in un gran guaio. Come riporta Il Fatto Quotidiano, i garanti regionali avrebbero iniziato una vera e propria guerra contro la Albano, colpevole (a loro dire) di aver fatto calare dall'alto un progetto sui baby migranti "senza alcuna condivisione, non essendo stato né presentato, né discusso e nemmeno approvato in sede di Conferenza di garanzia, ossia la sede deputata". In ballo - come riporta l'edizione di Libero di oggi - ci sarebbero 2.8 milioni. Ma non solo. Questo progetto rischia infatti di creare ulteriori problemi in quanto si potrebbe sovrapporre ad altre iniziative regionali già in corso. Per questo motivo, 16 garanti regionali hanno firmato una lettera indirizzata, tra gli altri, al ministro dell'Interno Matteo Salvini e a quello per gli Affari regionali, Erica Stefani. Il nodo principale è essenzialmente uno, come spiega il garante regionale del Lazio Jacopo Marzetti a ilfattoquodiano.it: "Il rischio è che si duplichi quanto fatto nei vari territori negli ultimi mesi. Un lavoro che abbiamo già fatto partire, perché ci viene assegnato per legge. Invece – continua Marzetti – da quello che abbiamo potuto apprendere, di questo progetto non siamo neppure partner. Lo sarebbero, tuttavia, associazioni chiamate a una collaborazione onerosa. A loro, paradossalmente, spetterebbe il compito di controllare anche il nostro operato e quello dei Tribunali dei minorenni". Accuse rispedite al mittente dalla stessa Albano che, sul fattoquotidiano.it, ha puntualizzato: "Il progetto di monitoraggio della tutela volontaria per i minori stranieri non accompagnati è un compito dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza assegnatole dalla legge 47/2017 e in termini più generali dalla legge istitutiva".

Il progetto sui baby migranti. Tutto inizia il 29 settembre scorso, quando sul sito dell'Agia compare un comunicato in cui si dà notizia di un nuovo progetto per i minori stranieri non accompagnati: "L’iniziativa è finanziata dalle risorse europee del Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (Fami), gestito dal Ministero dell’interno” e punta “ad assicurare capillarmente sul territorio nazionale diritti e opportunità nelle fasi di accoglienza e integrazione ai quasi 13mila minori stranieri non accompagnati presenti in Italia valorizzando l’operato dei tutori volontari e degli altri soggetti coinvolti nel sistema di protezione". E poi: "Una serie di iniziative e di risorse saranno messe a disposizione e declinate secondo le specifiche esigenze dei singoli territori, individuate grazie al coinvolgimento degli attori del sistema di accoglienza".

Chi è Filomena Albano. Libero la defnisce "boldriniana", indicano una vicinanza politica con l'ex presidente della Camera, ma chi è davvero Filomena Albano? Dal marzo del 2016 ricopre l'incarico di Garante per l'Infanzia e, in più di un'occasione, ha detto la sua su temi politici, in particolare su quelli riguardanti i diritti dei più piccoli. In occasione del dibattito sullo ius soli, la Albano ha detto che questo disegno di legge sulla cittadinanza "da tempo sospeso e, così, rimane sospesa la speranza per tante bambine e bambini, ragazze e ragazzi, che crescono in Italia 'diversi". E ancora: "Oggi in Italia, ai bambini e ragazzi che crescono, giocano, sognano e studiano insieme, che frequentano gli stessi luoghi, che sono seguiti dagli stessi insegnanti, è riconosciuto uno status diverso a seconda delle origini dei genitori, in risposta al principio dello ius sanguinis. Essi crescono in Italia da stranieri e, nei fatti, finiscono per essere stranieri anche nella patria dei loro genitori". Albano ha anche chiesto di "rivedere la decisione di smantellare il tribunale per i minorenni e la Procura minorile".

Filomena Albano è il nuovo Garante per l'Infanzia, scrive Sara De Carli il 3 marzo 2016 su Vita. Boldrini e Grasso l'hanno nominata oggi. È giudice del tribunale di Roma, da sei anni membro della Commissione Adozioni Internazionali in rappresentanza del Ministero della Giustizia

La Garante, da il sito garanteinfanzia.org. Filomena ALBANO, nata a Lucera (Foggia), il 10 febbraio 1969, magistrato, giudice del tribunale di Roma, I sezione civile – area famiglia/minori e diritti della personalità, è stata nominata Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, con determinazione del 3 marzo 2016 (GU n. 53 del 4-3-2016) del Presidente del Senato della Repubblica e della Presidente della Camera dei Deputati e ha assunto le funzioni il 28 aprile 2016. 

Nella sua esperienza professionale, è stata giudice presso il Tribunale di Torre Annunziata e Direttore dell’Ufficio di cooperazione giudiziaria internazionale in materia civile del Ministero della Giustizia. Dal 2 novembre 2009 fino al 12 febbraio 2015 è stata Commissario della Commissione Adozioni Internazionali, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

E’ stata punto di contatto per l’Italia della Rete giudiziaria europea in materia civile ed esperta del Gruppo di lavoro sulla revisione del Regolamento CE 2201/2003 c.d. Bruxelles II bis, in materia di famiglia e minori. 

Nella attività svolta quale Giudice, si è occupata quotidianamente delle problematiche concernenti famiglia e minori. Ha acquisito esperienza nella attuazione di tutti gli strumenti normativi, nazionali ed internazionali, diretti a realizzare l’esclusivo interesse dei minori. In tutti i provvedimenti giudiziari redatti si è preoccupata di garantire la bigenitorialità e la tutela dell’infanzia, partecipando attivamente alla definizione di linee guida volte a realizzare, a tutela dei minori coinvolti, la attenuazione della conflittualità familiare. Esperta nell’ascolto del minore nell’ambito dei procedimenti di separazione, divorzio e affidamento di figli “non matrimoniali”, anche nei peculiari casi di minori vittime di violenze familiari.

Ha ricevuto la nota di elogio del Presidente del Tribunale di Roma del 3 marzo 2015 prot. 1451 per gli eccellenti risultati conseguiti nell’anno 2014 con statistiche giudiziarie superiori alla media.

Nella attività di Commissario della Commissione Adozioni Internazionali (C.A.I.), ha rivestito il ruolo di relatore di diverse pratiche, è stata nominata componente di due gruppi di lavoro con gli enti autorizzati, ha partecipato alle assemblee plenarie. E’ stata designata a rappresentare l’autorità centrale italiana al convegno internazionale panafricano che si è svolto in Etiopia, Addis Abeba dal 28 al 30 maggio 2012, nell’ambito del quale sono state elaborate le linee guida per una posizione comune panafricana in materia di adozione internazionale. Per la competenza acquisita e nel concreto dimostrata è stata confermata nella designazione a commissario della CAI per un ulteriore triennio in data 25.2.2013. In data 12.2.2015 ha rassegnato le dimissioni dall’incarico.

Nella attività svolta di Direttore dell’ufficio di cooperazione giudiziaria internazionale civile del Ministero della Giustizia, ha partecipato, in qualità di esperto nazionale con la qualifica di capo delegazione, alle attività di numerosi tavoli di lavoro costituiti nell’ambito del Comitato di diritto civile del Consiglio dell’Unione europea, In particolare ha coordinato i negoziati relativi alle proposte normative in materia di famiglia (regolamenti UE in materia di legge applicabile alla separazione e divorzio, successioni transfrontaliere, misure di protezione in materia civile, regime patrimoniale dei coniugi).

Si è occupata del monitoraggio della applicazione delle convenzioni internazionali e degli strumenti della Unione Europea per garantire il rispetto da parte dell’Italia degli obblighi internazionali assunti e della ratifica italiana della Convenzione dell’Aja 1996 in materia di protezione dei minori.

Punto di contatto centrale ai sensi dell’art.16 della direttiva 2004/80/CE vittime di reato.

Punto di contatto per l’Italia della Rete giudiziaria europea in materia civile, con competenze nell’ambito della cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri in materia civile e commerciale.  

Partecipa come docente o relatore ad innumerevoli incontri di studio, convegni, seminari e master, in materia di famiglia e minori, approfondendone, tra le altre, tematiche relative alla crisi nella famiglia transnazionale e alla protezione internazionale dei minori, alla filiazione, alla bigenitorialità, alla procreazione medicalmente assistita.

Nella attività di autrice di pubblicazioni scientifiche, si segnalano in materia:

Il diritto degli stranieri – La tutela dei minori stranieri - CEDAM 2014 - Il diritto applicato – I grandi temi – collana diretta da Giuseppe Cassano;

I concetti di obbligazione alimentare e di rapporti familiari – ALPES EDIZIONI 2013 

Decisioni giudiziarie più significative:

Ordinanza depositata il 15.1.2014 con la quale ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 2, e dell’art. 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n.40, per contrasto con gli articoli 2, 3, e 32 della Cost., nonché per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili.

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194, accertate da apposite strutture pubbliche (Corte Costituzionale sentenza n. 96/2015).

La dott.ssa Filomena Albano è la nuova titolare dell'Autorità Garante per l'Infanzia e l'Adolescenza. Resterà in carico 4 anni. L’hanno nominata oggi il Presidente del Senato, Pietro Grasso, e la Presidente della Camera, Laura Boldrini.

Filomena Albano, giudice del tribunale di Roma, dal novembre 2009 è stata membro della Commissione adozioni internazionali in rappresentanza del Ministero della Giustizia: la sua nomina è scaduta pochi giorni fa, il 25 febbraio 2016.

Il giudice è noto alle cronache per aver firmato l’ordinanza del 14 gennaio 2014 che sollevava davanti alla Corte Costituzionale la questione di legittimità di alcuni articoli della Legge 40 sulla Fecondazione Assistita, in particolare nella parte in cui non consentiva il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi preimpianto alle coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili.

Minori stranieri, è guerra tra i garanti regionali e quello nazionale sulla tutela: “Progetto imposto, noi non coinvolti”. Sono 16 i responsabili locali per l'Infanzia e l'Adolescenza che hanno firmato una lettera - inviata anche alla Corte dei Conti - per denunciare il comportamento di Filomena Albano, numero uno dell'Agia: secondo le accuse ha agito non rispettando le regole previste per l'impiego di 2,8 milioni di euro nell'ambito di un progetto per la tutela dei minori stranieri non accompagnati. Lei replica: "Falso, abbiamo pubblicato un avviso di coprogettazione e richiesto più volte la collaborazione". Sulla vicenda c'è anche un'interrogazione parlamentare della Lega, scrive Luisiana Gaita il 5 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Il progetto di monitoraggio della tutela volontaria per i minori stranieri non accompagnati finisce al centro di una querelle tra l’Autorità garante nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza (Agia) Filomena Albano e i Garanti regionali. Secondo questi ultimi il progetto è stato calato dall’alto, senza alcuna condivisione, non essendo stato né presentato, né discusso e nemmeno approvato in sede di Conferenza di garanzia, ossia la sede deputata. Tra l’altro ad oggi rischierebbe di creare sovrapposizioni di attività già in corso da mesi sui territori regionali per quanto riguarda la selezione e la formazione dei tutori volontari con dispersione di energie e risorse economiche. Sono sedici i garanti regionali che hanno firmato una lettera indirizzata ai ministri dell’Interno Matteo Salvini e per gli Affari regionali Erica Stefani, al presidente della Conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini e a Rosetta D’Amelio, coordinatrice della Conferenza dei presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome e, per conoscenza, anche ai presidenti di Camera e Senato e alla Corte dei Conti. Sulla vicenda è stata anche presentata un’interrogazione parlamentare.

LA DENUNCIA DEI GARANTI – “Il rischio è che si duplichi quanto fatto nei vari territori negli ultimi mesi” spiega a ilfattoquotidiano.it il Garante regionale del Lazio Jacopo Marzetti. Nel Lazio, ad esempio, la selezione è iniziata a maggio del 2017 e i tutori ad oggi sono all’incirca mille. “È un lavoro che abbiamo già fatto partire, perché ci viene assegnato per legge. Invece – continua Marzetti – da quello che abbiamo potuto apprendere, di questo progetto non siamo neppure partner. Lo sarebbero, tuttavia, associazioni chiamate a una collaborazione onerosa. A loro, paradossalmente, spetterebbe il compito di controllare anche il nostro operato e quello dei Tribunali dei minorenni”. Preoccupazioni manifestate anche dalla Garante regionale del Trentino, Daniela Longo. “Spiace che di fronte alla necessità di accompagnare questi minori e i tutor per quanto riguarda la formazione – ha dichiarato a ilfattoquotidiano.it – sia stato introdotto un progetto che non sappiamo ancora se potrà o meno aiutarci, perché a riguardo non ci vengono fornite informazioni, se non per sommi capi ma che prevede attività che, a nostro parere, rischiano di sovrapporsi a quelle già in corso”.

IL PROGETTO PER I MINORI STRANIERI NON ACCOMPAGNATI – Il 29 settembre scorso è stato pubblicato sul sito dell’Agia un comunicato che riguarda proprio l’avvio del progetto in questione. “L’iniziativa – si legge sul portale – è finanziata dalle risorse europee del Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (FAMI), gestito dal Ministero dell’interno” e punta “ad assicurare capillarmente sul territorio nazionale diritti e opportunità nelle fasi di accoglienza e integrazione ai quasi 13mila minori stranieri non accompagnati presenti in Italia valorizzando l’operato dei tutori volontari e degli altri soggetti coinvolti nel sistema di protezione”. E ancora: “Una serie di iniziative e di risorse saranno messe a disposizione e declinate secondo le specifiche esigenze dei singoli territori, individuate grazie al coinvolgimento degli attori del sistema di accoglienza”. Tra questi i garanti, i tribunali per i minorenni, i servizi delle prefetture, gli enti locali, le aziende sanitarie e le associazioni del terzo settore. Dell’approvazione del progetto portato avanti dalla garante nazionale nell’ambito del Fami 2014-2020 per l’importo di circa 2 milioni e 796mila euro, i garanti regionali sono venuti a conoscenza il 25 giugno 2018, nell’ambito della 16° Conferenza Nazionale per la Garanzia dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.

LO SCONTRO – “L’articolo 11 della legge 47 del 2017 (Legge Zampa) – è scritto nella lettera dei garanti regionali – ci assegna i compiti di selezione e formazione dei tutori volontari” e prevede “la promozione e la facilitazione della nomina dei tutori volontari attraverso appositi protocolli di intesa con i presidenti dei Tribunali per i minorenni”. I garanti dovrebbero poi collaborazione con l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nel compito di monitorare lo stato di attuazione dell’articolo 11. Alcune leggi regionali e provinciali conferiscono ai garanti ulteriori compiti di supporto e aiuto diretto ai tutori e, in forza di tali obblighi, “ciascun garante – continua la lettera – si è attivato per l’esecuzione in relazione alle peculiarità del territorio e delle risorse disponibili, anche attraverso convenzioni onerose con terzi”. A distanza di circa un anno, la doccia fredda: partner dell’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza saranno i soggetti privati. Sono state chieste maggiori informazioni, ma ad oggi i garanti regionali dispongono di poche slide e di un estratto del progetto di dieci pagine.

LA REPLICA DELL’AUTORITÀ – Contattata da ilfattoquotidiano.it Filomena Albano ha replicato: “Il progetto di monitoraggio della tutela volontaria per i minori stranieri non accompagnati è un compito dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza assegnatole dalla legge 47/2017 e in termini più generali dalla legge istitutiva”. L’Agia – si sottolinea – ha risposto a un invito ad hoc dell’autorità responsabile per il Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (FAMI), gestito dal Ministero dell’interno. E il coinvolgimento dei garanti regionali? “L’Autorità ha pubblicato, per la sua stesura – continua Filomena Albano – un avviso di coprogettazione. Più volte è stato chiarito che il piano dell’Agia prevede un panel di risorse che ciascun territorio può calibrare in forza di specifiche esigenze locali e oggetti di lavoro concreti. A tal fine è stata richiesta più volte la collaborazione dei Garanti regionali e provinciali”. L’Autorità sottolinea anche di aver promosso l’istituzione di un Comitato consultivo, invitando a partecipare anche i garanti e chiedendo loro di diventare punti di raccordo interistituzionale nei territori. “Comitato consultivo – scrivono d’altro canto i garanti regionali – già costituito e pare anche funzionante, di cui non sono state indicate con chiarezza funzioni e composizione”.

UNA SPACCATURA DIFFICILE DA RICUCIRE – “Abbiamo chiesto di essere inseriti come partner – prosegue la lettera – in virtù delle nostre competenze sulla materia e del principio di collaborazione previsto dalla legge 112/2011, ma la risposta è stata negativa”. “Non firmo contratti al buio – commenta a ilfattoquotidiano.it Antonio Marziale, garante della Calabria – Abbiamo chiesto di poter leggere il progetto prima di poterlo controfirmare, ma non ci è stato mostrato integralmente. In questo modo il Garante viene meno ai principi di sussidiarietà e si pone in una condizione di superiorità gerarchica non rispettando l’autonomia dei garanti che, ricordo, sono stati nominati da parlamenti legislativi, ossia i consigli regionali”. Tutto questo ha ripercussioni anche politiche. “La Corte dei Conti ha di recente ribadito che si doveva creare un sistema, una rete basata sul principio di collaborazione e che l’attività svolta da un soggetto, non deve per ovvie ragioni essere svolta anche da altri” spiega il garante della Lombardia Massimo Pagani, secondo cui tutto ciò è stato disatteso, con la conseguenza di una spaccatura interna alla Conferenza “che sarà difficile ricomporre”.

SCATTA L’INTERROGAZIONE PARLAMENTARE – Sulla vicenda è stata anche presentata un’interrogazione parlamentare da parte del deputato della Lega Massimiliano Capitanio. “La tutela dell’infanzia viene prima di ogni cosa – spiega il parlamentare – sono sorpreso e preoccupato nell’apprendere della difficoltà di collaborazione tra il garante nazionale e quelli regionali”. Il deputato leghista ha definito “assurdo” che i garanti regionali e provinciali non siano stati coinvolti nel progetto di “Monitoraggio della tutela volontaria per Msna” e “ne abbiano appreso l’esistenza durante la Conferenza nazionale per la Garanzia dei diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, nonostante una legge dall’Assemblea Generale dell’Onu preveda stretta collaborazione tra le due figure di garanzia”.

IL BUSINESS SULLA PELLE DEI PROFUGHI. 

Antonio Socci: il patto tra chiesa e Pd per riempire l'Italia di immigrati, scrive il 18 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". A giugno scorso la politica italiana ha svoltato ed ha cominciato la volata dell’ultimo chilometro. Da allora tutto quello che accade va letto in chiave pre-elettorale, cioè in vista delle elezioni politiche. Tutto è finalizzato a quell’esame. Perché è stato decisivo giugno? Perché alle elezioni amministrative parziali l’Italia (ancora una volta) ha mandato al Palazzo un segnale forte e chiaro che si potrebbe riassumere nello slogan di Beppe Grillo del 2007. In sostanza un “Vaffa”. Infatti il Paese si è rivelato molto diverso da come viene rappresentato sui media e da come lo pensano nel Palazzo della politica dove spesso credono alla loro stessa propaganda. In sintesi, nei Comuni con più di 15 mila abitanti in cui si è votato il centrosinistra governava in 81 Comuni e - dopo giugno - ne ha ripresi solo 50, il centrodestra da 42 è passato a 54 e i grillini sono passati da 3 a 8 amministrazioni municipali. Si è scoperto, di nuovo, che in Italia il centrodestra rappresenta la formazione con più consensi. E per il Pd non vale nemmeno invocare la menomazione dovuta alla scissione perché in quei Comuni di solito il centrosinistra si presentava unito. D’altra parte - se si ricorda l’esito delle ultime elezioni politiche - lo stesso esecutivo a trazione Pd non ha mai avuto una maggioranza nel Paese. Adesso poi - dopo anni di governo - il Pd paga la crisi economica nella quale - nonostante i dati sbandierati come “ripresa” - si è sempre più impantanati (con un debito pubblico che cresce) e soprattutto lo stato maggiore piddino ritiene di aver pagato la propria sconsiderata politica dell’emigrazione che ha creato molto malcontento e allarme sociale. Dall'esito elettorale di giugno perciò hanno pensato di correre ai ripari e per tutta l’estate hanno provato a mandare all’opinione pubblica segnali di una inversione di rotta. Prima Matteo Renzi ha rottamato lo slogan “Restiamo umani” che aveva usato per anni, per giustificare l’apertura dell’Italia all’immigrazione di massa. Lo ha rottamato - dicevo - sostituendolo con la parola d’ordine che era di Salvini, di cui Renzi si è disinvoltamente appropriato: «Aiutiamoli a casa loro». Era il segnale della marcia indietro. Così il ministro dell’Interno Minniti - nel volgere di qualche giorno - ha sostanzialmente fatto cessare gli sbarchi o almeno li ha fortemente ridotti. Di colpo. Cosa che - a ben vedere - ha fatto ancora più irritare gli italiani, dal momento che per anni, dalle parti del Pd e del governo, hanno ripetuto che la migrazione di massa è un fenomeno storico inevitabile, che non si può fermare, perché sarebbe come illudersi di fermare il vento con le mani. E quindi si poteva solo subire. Di colpo si è scoperto che invece si poteva fermare e anche molto velocemente, quindi tanti italiani hanno concluso che per anni sono stati presi in giro, mentre erano sottoposti all’assalto migratorio. Per non scoprirsi a sinistra, soprattutto dopo la scissione dalemiana, Gentiloni e Minniti hanno visto bene di chiedere aiuto alla Chiesa da dove - le frange più estremiste - già cominciavano a bombardare il governo per lo scontro con le Ong. Così, incontrando la Segreteria di Stato della Santa Sede e lo stesso papa Bergoglio hanno ottenuto una specie di legittimazione vaticana. Perché oltretevere hanno accordato questa copertura politica? Per almeno tre motivi. Primo: la Segreteria di Stato vaticana ha così potuto correggere l’ossessiva campagna migrazionista che Bergoglio ha fatto da quattro anni, dal viaggio a Lampedusa del 2013, che ha creato grande sconcerto pure tra i fedeli e ha fatto crollare il consenso attorno al papa argentino (peraltro l’arrivo di tanti migranti islamici nelle nostre città non può far piacere agli uomini di Chiesa più consapevoli). Secondo. Bergoglio si è fatto convincere perché ha come sua bussola il consenso (come i politici) e voleva recuperare un po’ del gradimento che ha perduto nell’opinione pubblica con i suoi reiterati comizi sull’emigrazione. Inoltre (terzo) il governo ha garantito al Vaticano bergogliano che varerà lo “Ius soli” e - dopo le elezioni - riaprirà agli sbarchi sottoforma di “canali umanitari”. A volerla tradurre in parole povere la richiesta del governo piddino dev’essere suonata così: voi ci coprite le spalle adesso che abbiamo bloccato gli sbarchi, così possiamo recuperare voti e - dopo le elezioni, una volta tornati al governo (perché vi assicuriamo che senza Pd non è possibile nessuna maggioranza) - facciamo lo “Ius soli” (se non siamo riusciti a farlo prima) e riapriamo le frontiere, chiamandole “canali umanitari”. Così “passata la festa gabbato lu santo” (e il santo gabbato è il popolo italiano). Il Pd ha anche altre frecce al suo arco, con cui cerca di recuperare consensi. A cominciare dalla solita vecchia politica delle mance pre-elettorali. È una trovata di questo tipo il cosiddetto “reddito di inclusione”, anche se - come si è scritto su queste colonne - a ben vedere stanzia per gli italiani poveri un terzo di quanto il governo ha stanziato per gli immigrati e dunque non sarà tanto facile convincere gli elettori. Ma ne vedremo altre dello stesso tipo. L’obiettivo del Pd, che di certo non può ambire a conquistare la maggioranza, è quello di essere - dopo le elezioni - indispensabile per qualunque governo e la legge elettorale deve essere funzionale a tale scopo fotografando la divisione dell’elettorato in tre blocchi. Però le elezioni regionali siciliane potrebbero essere l’incidente che destabilizza la leadership renziana e spariglia le carte. Anche perché gli oppositori di Renzi già scaldano i motori per lanciare la candidatura Minniti. Inoltre non è affatto detto che il Pd - dopo le elezioni - sia sicuramente indispensabile per mettere insieme una maggioranza di governo. In realtà ci sono delle alternative. Attenti alle sorprese. Al Pd rischiano di fare i conti senza l’oste che sarebbe l’elettorato italiano, nel quale - senza tanti ragionamenti politologici - sta crescendo una voglia matta di mandare a casa il Pd. Questa è l’aria che tira. Antonio Socci

Il 66% degli italiani è contro gli immigrati. Il 34% degli italiani sarebbe d'accordo a inviare i nostri militari in Libia per ristabilire il controllo delle frontiere e porre un freno all'arrivo degli immigrati dall'Africa, scrive Francesco Curridori, Lunedì 09/10/2017, su "Il Giornale". Gli italiani sempre meno contenti di accogliere l'invasione dei migranti dall'Africa. Secondo i dati di un rapporto del Laboratorio di Analisi Politiche dell'università di Siena, pubblicati da La Stampa, il tema immigrazione sarebbe balzato in cima all'agenda e un terzo dell'Italia sarebbe favorevole all'uscita dall'euro. "È in atto un profondo cambiamento in Italia - spiega Ettore Greco, vicepresidente vicario dello Iai -, notiamo un'inclinazione maggiore verso l'uso della forza. Il 34% degli italiani sarebbe d'accordo a inviare i nostri militari in Libia per ristabilire il controllo delle frontiere in loco, anche a costo di subire perdite". Quattro italiani su dieci, inoltre, vorrebbero che il governo attuasse una politica di respingimenti "anche se questo espone i migranti a maltrattamenti disumani nei Paesi d'origine e di transito". Soltanto il 29% è favorevole ad accogliere i migranti sul suolo italiano. Il governo viene bocciato in materia di lotta al terrorismo (voto 5) e di gestione dell'immigrazione (voto 2,9). Sull'Europa, infine, un terzo degli italiani sarebbe infatti a favore dell'Italexit, l'uscita dall'Unione, il 36 per cento all'uscita dall'euro.

Centri di accoglienza che diventano hotel: gli immigrati fanno quel che vogliono, scrive il 18 ottobre 2017 "Il Primato Nazionale". Parlano di integrazione e di accoglienza diffusa ma nessuno controlla le porte girevoli dei centri pubblici e privati sparsi in tutta Italia da dove gli immigrati entrano ed escono quando vogliono. Mezzo milione di clandestini senza alcun permesso di soggiorno vagano per le strade di città e paesi, sprovvisti di documenti, senza un lavoro, senza una casa. Dormono nei giardini pubblici, occupano edifici dismessi, sopravvivono di elemosine o di espedienti e spesso salgono sui treni alla ricerca di uno sbocco impossibile in Austria o in Francia, dove le frontiere, a differenza delle nostre, sono ermeticamente sbarrate. I dati sono quelli della fondazione Ismu, un ente indipendente che monitora i flussi immigratori e che stanno per essere acquisiti dalla Commissione parlamentare che si occupa di degrado e periferie. La situazione è allarmante al punto che fa dire al più convinto assertore della libera immigrazione, l’assessore milanese Pierfrancesco Majorino, ideatore ed organizzatore della marcia pro immigrati: “Non vedo interventi su chi non ha un permesso di soggiorno, non vengono rimpatriati e finiscono per strada”. In effetti a Milano, almeno una volta alla settimana la Questura deve organizzare blitz alla stazione Centrale per allontanare le centinaia di migranti che bivaccano senza meta nei dintorni. Spesso aggrediscono i viaggiatori e persino i poliziotti. Il ministero dell’Interno ha appena varato il Piano Nazionale per l’integrazione che prevede l’accoglienza diffusa su tutto il territorio degli immigrati. I beneficiari di protezione internazionale sono attualmente 74.853 cui il governo vuole offrire percorsi agevolati di accesso agli alloggi pubblici, corsi obbligatori di lingua, di apprendistato e di socializzazione. Una goccia nel mare del fenomeno immigratorio che ha visto entrare in Italia, dal 2014 ad oggi, quasi settecentomila persone. Tutti immigrati che venivano regolarmente ospitati nei Cara, centri di accoglienza gestiti direttamente dallo Stato o nei Cas, centri di accoglienza temporanea di cooperative o di privati. Ebbene, la maggior parte di questi, come dimostrano le cifre ministeriali sui migranti effettivamente in carico, hanno abbandonato i centri di prima accoglienza quasi subito infoltendo la massa di disperati senza volto e senza nome che ruota attorno alle principali città come Roma, Milano, Torino. Molti immigrati clandestini, aiutati dai centri sociali o da gruppi anarchici, hanno occupato interi quartieri come il Villaggio Olimpico di Torino dove è pericoloso avventurarsi all’interno persino per le forze di polizia. A Roma sarebbero un centinaio i palazzi occupati abusivamente, in gran parte da immigrati e da nomadi, mentre a Milano è stato calcolato che gli alloggi in mano agli abusivi sarebbero circa 3500 secondo le ultime rilevazioni del presidente di Aler Angelo Sala. L’immigrazione, secondo il ministro dell’Interno Minniti, è diminuita negli ultimi due mesi del 25 per cento, grazie alle nuove regolamentazioni per le Ong e grazie all’attività di contrasto della guardia costiera libica. I report ministeriali non tengono però nel conto le migliaia di immigrati tunisini ed algerini che sbarcano indisturbati, quasi quotidianamente, sulle nostre coste con mezzi propri, barche a vela, motoscafi o pescherecci. Sono gli stessi che poi ingrossano le fila degli “invisibili”, immigrati senza volto né nome che sono fuggiti dai centri di accoglienza dove i controlli sono inesistenti o poco efficaci come a Mineo, dove basta un buco nella recinzione per superare gli sbarramenti dei pochi militari di vigilanza. Al fenomeno ormai senza controllo dell’immigrazione di massa, si aggiunge ora il pericolo dell’arrivo di ex galeotti tunisini liberati da un’amnistia e dei foreign fighters, i combattenti dell’Isis in fuga da Siria ed Iraq dopo l’offensiva degli eserciti regolari appoggiati da americani e russi.

Favoreggiamento dellʼimmigrazione clandestina, arrestato il sindaco di Riace, scrive il 2 ottobre 2018 Tgcom24. Arresti domiciliari per il primo cittadino e divieto di dimora per la sua compagna, Tesfahun Lemlem. Arrestato dalla Guardia di Finanza di Locri il sindaco di Riace, Domenico Lucano. Disposti per lui gli arresti domiciliari e per alla sua compagna, Tesfahun Lemlem, è stato imposto il divieto di dimora. I due sono accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Le misure cautelari arrivano al termine dell'indagine "Xenia" sulla gestione dei finanziamenti erogati dal Ministero dell'Interno e dalla Prefettura di Reggio Calabria. In relazione ai reati contestati a Lucano e alla compagna, la Procura di Locri parla di "favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti". La misura cautelare, si aggiunge, rappresenta l'epilogo di approfondite indagini svolte "in merito alla gestione dei finanziamenti erogati dal Ministero dell'Interno e dalla Prefettura di Reggio Calabria al Comune di Riace, per l'accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo politico".

Matrimoni di comodo - Il procuratore di Locri ha aggiunto che Lucano ha dimostrato una "spigliatezza disarmante, nonostante il ruolo istituzionale rivestito", nell'ammettere "pacificamente più volte, ed in termini che non potevano in alcun modo essere equivocati, di essersi reso materialmente protagonista ed in prima persona adoperato, ai fini dell'organizzazione di matrimoni di comodo". Al riguardo viene riportato un dialogo intercettato dalla Guardia di Finanza sulle nozze di una cittadina straniera cui era già stato negato per tre volte il permesso di soggiorno. "Lei - dice Lucano - ha solo la possibilità di tornare in Nigeria. Secondo me l'unica strada percorribile, che lei si sposa! Io sono responsabile dell'ufficio anagrafe, il matrimonio te lo faccio immediatamente con un italiano. Mi fa un atto notorio dove dice che è libera e siccome è richiedente asilo non vado ad esaminare i suoi documenti perché uno che è' in fuga dalle guerre non ha documenti. Se succede questo in un giorno li sposiamo". "Poi - prosegue Lucano - dopo mi chiede al comune il certificato di matrimonio, va alla questura di Siderno e chiede un permesso di soggiorno per motivi familiari perché si è sposata in Italia con cittadino italiano e non gli deve portare niente, solo il certificato di matrimonio. In quel modo, dopo che lei ha il permesso di soggiorno per motivi familiari, i tre dinieghi non hanno nessun valore, è subentrata un'altra situazione civile. Non solo, dopo un po' di tempo prende anche la cittadinanza italiana". Tra le personalità più potenti nel mondo - L'impegno di Lucano in favore dei migranti, e il modello creato, non è noto solo in Italia ma anche a livello internazionale, tanto che nel 2016 la rivista americana "Fortune" lo inserì tra le 50 personalità più potenti nel mondo. I guai per Lucano cominciarono quando la Prefettura di Reggio Calabria, lo scorso anno, dispose un'ispezione nel Comune di Riace dalla quale emersero una serie di irregolarità nell'utilizzo dei finanziamenti governativi per la gestione dei migranti. I risultati dell'ispezione fecero scattare l'inchiesta della Procura della Repubblica di Locri da cui sono emersi gli illeciti che oggi hanno portato agli arresti.

Riace, arrestato il sindaco Lucano: “Favoriva l’immigrazione clandestina anche con matrimoni di comodo”. Tra le accuse che hanno portato alla misura cautelare, nell'ambito dell'operazione Xenia della Guardia di Finanza, c'è anche quella di fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. Stessi reati contestati alla compagna, Tesfahun Lemlem, per la quale la Procura ha disposto il divieto di dimora, scrive Lucio Musolino il 2 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". L’hanno chiamata operazione “Xenia” che, in greco antico, è il termine utilizzato per esprimere il concetto dell’ospitalità. In Calabria, invece, è il nome che la Procura di Locri e la Guardia di Finanza hanno dato all’inchiesta che stamattina all’alba ha portato ai domiciliari il sindaco di Riace, Domenico Lucano. Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti sono le accuse contestate al primo cittadino riacese. A un anno circa dalla perquisizione subita e dal suo interrogatorio, Mimmo Lucano è stato arrestato all’alba con un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip, su richiesta del procuratore di Locri, Luigi D’Alessio, che ha deciso anche il divieto di dimora per la sua compagna Tesfahun Lemlem. “La misura cautelare – è scritto in una nota firmata dal magistrato – rappresenta l’epilogo di approfondite indagini, coordinate e dirette dalla Procura della Repubblica di Locri, svolte in merito alla gestione dei finanziamenti erogati dal Ministero dell’Interno e dalla prefettura di Reggio Calabria al Comune di Riace per l’accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo politico”. Per i pm, nell’inchiesta “è emersa la particolare spregiudicatezza del sindaco Lucano, nonostante il ruolo istituzionale rivestito, nell’organizzare veri e propri ‘matrimoni di convenienza’ tra cittadini riacesi e donne straniere, al fine di favorire illecitamente la permanenza di queste ultime nel territorio italiano”. Secondo la guardia di finanza, Lucano e Tesfahun avevano “architettato degli espedienti criminosi, tanto semplici quanto efficaci, volti ad aggirare la disciplina prevista dalle norme nazionali per ottenere l’ingresso in Italia”. Per gli inquirenti, ci sarebbero state una lunga serie di irregolarità amministrative e di illeciti penalmente rilevanti “che costellavano la realizzazione del progetto, ma anche e soprattutto l’estrema naturalezza con la quale Lucano e la sua compagna si risolvevano a trasgredire norme civili, amministrative e penali”. Nell’ordinanza di custodia cautelare sono finite alcune intercettazioni da cui emergerebbe che Lucano si è adoperato in prima persona per organizzazione di matrimoni “di comodo”. Come quello tra una cittadina straniera alla quale era stato negato per tre volte il permesso di soggiorno. Di lei, Lucano parla con la sua compagna, inconsapevole di essere intercettato dalla guardia di finanza: “Se ne deve andare – dice -, se ha avuto per tre volte il diniego… ecco perché non lo rinnovano più. Ti spiego, dal punto di vista dei documenti lei non può stare… mica dipende da… questo purtroppo, dico purtroppo perché io non sono d’accordo con questo decreto, come documenti lei non ha diritto di stare in Italia, se la vedono i Carabinieri la rinchiudono… perché non ha i documenti, non ha niente… da un punto di vista umano ovviamente le possibilità che ha a Riace di non avere problemi sono più alte, si confonde in mezzo a tutti, però lei i documenti difficilmente ce li avrà, perché ha fatto già tre volte la commissione, ecco perché  non rinnovano il permesso di soggiorno. Se lei va alla Questura di Siderno, se parla di documenti… io la carta d’identità gliela faccio… io sono un fuorilegge, sono un fuorilegge, perché per fare la carta d’identità io dovrei avere un permesso di soggiorno in corso di validità… in più lei deve dimostrare che abita a Riace, che ha una dimora a Riace, allora io dico così, non mando neanche i vigili, mi assumo io la responsabilità e gli dico va bene, sono responsabile dei vigili… la carta d’identità, tre fotografie, all’ufficio anagrafe, la iscriviamo subito”. Nelle intercettazioni non si parla mai di soldi. Eppure la procura brandisce le parole di Mimmo Lucano, che non ha mai nascosto il suo essere un “disobbediente civile”, per dimostrare che Riace era quasi un covo di trafficanti di uomini. E ancora Lucano a parlare con la sua compagna: “Allora, io fino ad ora la carta d’identità l’ho fatta così, li faccio immediatamente, perché sono responsabile dell’ufficio anagrafe e stato civile, come sindaco. L’impiegato che c’era prima è andato in pensione, sotto i 3.000 abitanti l’ho assunta io questa delega, quindi ho doppia valenza diciamo, sia come sindaco e soprattutto come responsabile dell’ufficio… Proprio per disattendere queste leggi balorde vado contro la legge però non è che le serve molto che ha la carta d’identità. Allora guarda qua, non andare avanti, analizziamo la sua situazione sul piano giuridico. Oggi lei è una diniegata per tre volte, lei non può fare più una commissione, non è più una ricorrente, se è come dice lei che è stata diniegata per tre volte non c’è una quarta possibilità, lei ha solo la possibilità di ritornare in Nigeria. Però… fammi andare avanti… sai qual è secondo me l’unica strada percorribile, volendo spremere le meningi? Che lei si sposi, come ha fatto Stella… Stella si è sposata con Nazareno, io sono responsabile dell’ufficio anagrafe, il matrimonio te lo faccio immediatamente… con un cittadino italiano… guarda come funziona Daniela, se lei… però dobbiamo trovare un uomo che è libero come stato civile… divorziato si… se lei si sposa a noi deve portare soltanto come richiedente asilo… almeno io non sto là a guardare se i suoi documenti sono a posto, mi fa un atto notorio dove dice che è libera di poter contrarre matrimonio e siccome è una richiedente asilo non vado ad esaminare i suoi documenti perché ovviamente uno che è in fuga dalle guerre non ha documenti con sé e mi basta una sua dichiarazione, un atto notorio… dovremmo chiedere all’ambasciata ma mi basta un’autocertificazione dove mi dice che lei è libera. Quello che invece è italiano che si vuole sposare con lei deve portare i documenti che è libero per sposarsi. Se succede questo in un giorno li sposiamo. Poi dopo mi chiede al Comune il certificato di matrimonio… va alla questura di Siderno e chiede un permesso di soggiorno per motivi familiari perché si è sposata in Italia con cittadino italiano e non gli deve portare niente… solo il certificato di matrimonio… in quel modo, dopo che lei ha il permesso di soggiorno per motivi familiari, i tre dinieghi non hanno nessun valore, è subentrata un’altra situazione civile… non solo, dopo un po’ di tempo prende anche la cittadinanza italiana”. Tra le contestazioni a Mimmo Lucano c’è anche il fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti senza seguire le necessarie procedure di gara previste dal codice degli appalti. Per gli inquirenti, il sindaco di Riace avrebbe favorito due cooperative sociali, la Ecoriace e L’Aquilone che non erano iscritte all’albo regionale previsto dalla normativa e per questo difettavano dei requisiti di legge richiesti per l’ottenimento del servizio pubblico. In particolare, Lucano ha istituito un albo comunale delle cooperative sociali cui poter affidare direttamente svolgimento di servizi pubblici. In questo modo, alle due cooperative veniva affidata la raccolta e il trasporto dei rifiuti dall’ottobre 2012 fino all’aprile 2016. Così facendo, il sindaco avrebbe impedito l’effettuazione delle necessarie e previste procedure di gara. L’inchiesta però puntava a verificare l’utilizzo dei fondi affidati al Comune di Riace per la gestione dell’accoglienza dei migranti. Secondo la Procura sono emerse e riscontrate diffuse e gravi irregolarità. In particolare sui criteri riguardanti la lunga permanenza dei rifugiati e l’utilizzo di fatture false tramite le quali sarebbero stati attestati costi gonfiati e fittizi. Un’accusa che il gip, dopo un anno d’indagine, non ha condiviso e su questo non ha emesso alcuna misura cautelare. “Il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini – è scritto nell’ordinanza – non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose ipotizzate”.

Riace, Matteo Salvini: "Adesso cosa dicono gli amici di Roberto Saviano che vogliono riempirci di immigrati", scrive il 2 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". "Accidenti, chissà cosa diranno adesso Saviano e tutti i buonisti che vorrebbero riempire l’Italia di immigrati". Matteo Salvini commenta così la notizia dell'arresto del sindaco di Riace, Domenico Lucano. Accusato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina Lucano era stato osannato da Roberto Saviano. L'autore di Gomorra aveva parlato di "miracolo di accoglienza", e di Riace dove gli immigrati vengono integrati con il sorriso come un modello da seguire. Non solo. Roberto Saviano aveva anche lanciato un appello per il comune calabrese, invitando tutti a fare donazioni in denaro.

Roberto Saviano, l'ultimo imbarazzante disastro sul modello Riace: il pm lo sbugiarda, scrive il 27 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Nel suo tour, sempre più dal vago sapore elettorale, Roberto Saviano ha scoperto che esiste il comune di Riace, in Calabria, "un miracolo di accoglienza", un modello da seguire dove gli immigrati vengono integrati con il sorriso. Da ridere ci sarebbe, se solo Saviano leggesse le carte dei funzionari della prefettura di Reggio Calabria e dei magistrati della procura di Locri, che proprio sul sistema Riace hanno sollevato più di un dubbio. Dalla prefettura di Reggio Calabria per esempio avevano qualche dubbio sull'attivazione delle convenzioni tra il comune di Riace e diversi enti, per buona parte a chiamata diretta, quindi, riporta il Giornale, con "criteri di selezione ampiamente e assolutamente personali e discrezionali", in modo non proprio conforme "ai principi di imparzialità e trasparenza". Per non parlare dei casi di immigrati ospitati a Riace ben oltre la quantità massima consentita e senza le necessarie "pezze d'appoggio" burocratiche. Saviano tutto questo lo omette nel suo straziante appello per il comune calabrese, invitando anche a fare donazioni in denaro. Intanto il sindaco osannato dalla sinistra, Mimmo Lucano, è indagato dalla procura di Locri per il modo in cui ha gestito quel famoso modello di accoglienza. Il primo cittadino è accusato di abuso d'ufficio, concussione e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Nel corso delle indagini sono emerse anche stranezze nel rapporto tra il comune e le coop, visto che qualcuna avrebbe ricevuto le liquidazioni per la gestione del progetti Sprar 2017-2019 ben prima della scadenza delle domande. Ma per Saviano va tutto bene.

Sindaco di Riace arrestato, il mondo politico si divide. E Gasparri chiama in causa la Rai. Di Maio: "Evitiamo di enfatizzare dei modelli quando poi finiscono in manette". Scrive il 02 ottobre 2018 "La Repubblica". Nel 2016 è stato inserito dalla rivista americana "Fortune" tra i più grandi leader mondiali per quel "miracolo" di accoglienza noto col nome di "modello Riace". Oggi Domenico Lucano, sindaco della città calabrese, è agli arresti domiciliari. E le reazioni politiche non tardano ad arrivare. Per primo il ministro dell'Interno Matteo Salvini attacca su Facebook: "Accidenti, chissà cosa diranno adesso Saviano e tutti i buonisti che vorrebbero riempire l'Italia di immigrati! Io vado avanti. #portichiusi #cuoriaperti". Sulla stessa linea anche la leader di Fdi Giorgia Meloni, che twitta: "Vi ricordate quando Saviano diceva "Riace modello vincente" riferendosi alle politiche sull'accoglienza? Bene, ora potrà portare le arance al suo amico sindaco arrestato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il vero modello vincente". Anche il vicepremier Luigi Di Maio interviene sul caso a margine dell'assemblea del Forum del terzo settore: "Evitiamo di enfatizzare dei modelli quando poi finiscono arrestati. Quello che non accetto - aggiunge - è che si accusi lo Stato, il governo. Questa è un’inchiesta della magistratura e mai come in questo momento, a capo del Csm, non c'è uno vicino a noi". In 14 anni Lucano ha collezionato tre mandati da primo cittadino, intimidazioni, avvisi di garanzia. Dopo le prime notizie filtrate sulle indagini, scoppiò la polemica su una fiction dedicata all'esperienza di Riace, di cui la Rai avrebbe bloccato la trasmissione sulle sue reti. Ed è proprio a questo che si riferisce il commento del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri: "Mesi fa, intervenendo nella commissione di vigilanza Rai, sono riuscito a impedire la trasmissione di una fiction che la Rai ha realizzato per celebrare le gesta pro immigrati del sindaco di Riace. Siamo garantisti e attendiamo, a maggior ragione dopo il suo arresto, che si accertino eventuali responsabilità. Ma un conto sono le valutazioni penali, che devono essere specifiche e prudenti. Altro è la celebrazione precoce di un sindaco la cui opera è sempre stata al centro di mille polemiche. La responsabile della fiction Rai, Andreatta, dovrebbe ancora scusarsi per le spese che ha causato. Quanti milioni di euro ha buttato la Rai per la fiction dedicata a Riace?". Ma c'è invece chi prende le difese del sindaco pro-immigrati. Come Roberto Saviano. E come l'attore Beppe Fiorello, fratello dello showman Rosario, che interpreta il ruolo del sindaco nella fiction Rai bloccata, scrive su Twitter: "Crederò in te più di prima. Qualcuno si porterà sulla coscienza la vita di un uomo straordinario, io lo so che Mimmo non sopporterà questa vergogna, ora cerco parole per difenderlo ma mi rendo conto che non va più difeso, va amato come lui ama il prossimo". Anche Don Luigi Ciotti, presidente di Libera, lo giustifica: "Se ha preso scorciatoie è stato per generosità". Unanime è la solidarietà da parte di Leu-Sinistra italiana, che ha annunciato la propria partecipazione alla manifestazione in sostegno del sindaco di Riace organizzata oggi alle 17.30 a Roma, in piazza dell'Esquilino, da Arci Roma, Arci Lazio e Baobab experience. "Totale solidarietà a Mimmo Lucano - afferma su La7 Stefano Fassina di Leu - Dimostrerà il valore umano e sociale esemplare dei suoi atti. A proposito di tweet, Matteo Salvini ha perso un'ottima occasione per stare lontano dal telefonino". Anche Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, aggiunge: "In un Paese civile il ministro dell'Interno esulta quando si arresta un mafioso, non quando si arresta un sindaco coraggioso". "È incredibile che un ministro indagato per sequestro di persona aggravato festeggi per i reati contestati a quello che lui stesso ha indicato come suo nemico politico- dicono Giuseppe Civati e Andrea Maestri di Possibile -  La vergogna non ha limiti". "Pensiamo sia davvero infame il tweet del ministro Salvini, poche ore dopo la notizia del provvedimento contro Mimmo Lucano", attacca Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista - Sinistra Europea. Anche Loredana De Petris, senatrice di Leu e presidente del gruppo Misto, commenta: "L'arresto del Sindaco di Riace, è di una gravità inaudita ed è il frutto di un clima di intolleranza, xenofobia e repressione che ha ormai ampiamente varcato i livelli di guardia".  "Un pessimo risveglio questa mattina per la Calabria e l'Italia che resiste - dicono i rappresentanti calabresi di Potere al popolo - Nella Calabria asfissiata dalla 'ndrangheta e dalle sue logiche criminali le istituzioni attaccano i simboli della resistenza e della solidarietà. Ancora una volta si vorrebbero indicare come 'fuorilegge' gli ultimi e chi li difende. Dove siamo da sempre, ci troveranno: accanto a Mimmo, alla sua compagna, a Riace e alla sua comunità, a cui va tutta la nostra massima solidarietà". "Continua l’accanimento contro Mimmo Lucano - aggiunge Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil -  Il suo modello di accoglienza verso i migranti è da tempo sotto attacco, e oggi arriva l’arresto per la paradossale accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina.   La Fiom ha sempre sostenuto le politiche di concreta integrazione portate avanti con coraggio da Mimmo Lucano e staremo al suo fianco anche in questo momento". Anche il sindaco di Napoli Luigi De Magistris si schiera con il sindaco calabrese: "Solidarietà totale a Mimmo Lucano, l'umanità non si arresta". In tarda mattinata arriva anche il commento del Pd, per bocca del presidente Matteo Orfini: "Ovviamente il lavoro dei magistrati va rispettato e vedremo cosa emergerà e come procederà l'inchiesta. Ma quanto finora comunicato dalla Procura sembra confermare quello che si è sempre saputo, ovvero che Lucano disobbediva ad alcune leggi che riteneva ingiuste e disumane. Non era un fatto nascosto, anzi lo rivendicava pubblicamente. I magistrati hanno escluso altri reati: non c'erano mazzette, non c'erano giri di soldi, nulla. C'è stato un atto politico forte, perché non rispettare la legge lo è. E allora lasciamo stare la vicenda giudiziaria che seguirà il suo corso e restiamo sul piano politico, che è quello che a me interessa e compete".

Pro Lucano, scrive il 2 ottobre 2018 Gianfranco Turano su L’Espresso. Nella letteratura giuridica italiana sono note le sentenze di assoluzione con motivazioni di colpevolezza. L'arresto di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, è una sentenza di colpevolezza con motivazioni di innocenza. Non ha rubato, non ha malversato, non ha distratto fondi come ipotizzava la Procura e come il gip ha smentito. Lucano va in galera per avere aiutato una nigeriana a rimanere in Italia con un matrimonio di facciata e per avere assegnato la raccolta della nettezza urbana senza gara in condizioni almeno altrettanto emergenziali quanto quelle che si sono verificate con il viadotto Morandi a Genova. Che a gara non ci andrà. Il matrimonio di facciata, suggerito da Lucano in una tremenda telefonata che certifica la sua statura criminale, è considerato giusta causa di arresto nel paese, e nella regione, dove regna l'abuso subito condonato. Si sapeva da tempo della spada di Damocle che pendeva su Lucano. Se ne è parlato tranquillamente, a pochi metri da lui, nell'incontro organizzato dalla Regione in territorio di Africo durante il mese di luglio. Era noto che fosse questo il motivo per cui si rinviava la messa in onda della fiction dedicata al sindaco dell'accoglienza. Ad Africo Lucano appariva tranquillo ma ciò può trarre in inganno solo gli ingenui. Il sangue freddo è tipico dei delinquenti efferati e degli istigatori a matrimoni che non sono veramente d'amore. Ora il primo cittadino di Riace è retrocesso in fondo alla classifica, nel posto più adatto a chi difende gli ultimi. Si rinvia a data da destinarsi una riflessione sul suicidio della stampa italiana messa a zerbino sotto i piedi di magistratura e polizia giudiziaria dall'anno di grazia 1992. Non c'è fretta. Certi suicidi durano decenni.

Arresto sindaco Riace, Roberto Saviano il 2 ottobre 2018 su Repubblica Tv: "L'Italia sta diventando un regime". "Domenico Lucano è colpevole solo di aver salvato vite umane, vite migranti. L'accusa è di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina: negli atti della procura di Locri non c'è un solo riferimento a un vantaggio personale del sindaco. L'altra accusa, affidamento fraudolento della gestione dei rifiuti, fa sorridere. Mimmo è sindaco in una terra di narcotraffico e di sangue, eppure il problema in Calabria sembra essere solo l'immigrazione. Davvero ci credete?". Lo scrittore e giornalista Roberto Saviano commenta così l'arresto del sindaco di Riace. E attacca il ministro dell'Interno Matteo Salvini: "Il suo uso politico di questa inchiesta giudiziaria è il primo passo verso uno stato autoritario. Non bisogna avere paura, ma resistere".

Il sindaco di Riace Domenico Lucano è stato arrestato per un peccato di umanità. Mimmo Lucano ha fatto politica nel solo modo possibile in un Paese che ha leggi inique: con la disobbedienza civile, l'unica arma per difendere i diritti di tutti, scrive Roberto Saviano il 2 ottobre 2018 su "La Repubblica". Mimmo Lucano è agli arresti domiciliari, nessuno stupore in un Paese che ha ormai fatto sua una prassi suicida: criminalizzare la solidarietà. Mimmo Lucano è stato il primo a essere attaccato da Matteo Salvini ed è oggi il primo a cadere sotto la scure di una legge iniqua come la Bossi-Fini che nessun governo, nemmeno quelli che hanno fatto dell'anti-berlusconismo la propria bandiera, ha voluto cambiare. Fanno sorridere i Di Maio, stolti e pilateschi, che credono di poter archiviare con un post su Facebook il modello Riace come una bad practice targata Pd. La loro incapacità di leggere il presente è solo pari alla rabbia che covano verso un alleato di governo che li ha completamente tagliati fuori da quella comunicazione becera di cui si sentivano padroni. Eh sì, perché sentire la conferenza stampa di Salvini a Napoli è un piacere che ciascuno dovrebbe concedersi: intanto scopriamo che il problema di Napoli sono i motorini sequestrati, che occupano spazio. Se Salvini conoscesse Napoli, saprebbe che il problema di Napoli semmai sono i motorini non sequestrati, quelli su cui viaggiano intere famiglie con bambini piccolissimi. Ma siamo sempre là: il problema di Palermo è il traffico. Il problema del Paese sono gli immigrati e il problema della Calabria è Mimmo Lucano. E noi illusi che pensavamo fosse il narcotraffico. La motivazione dell'arresto di Mimmo Lucano è favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, ma mai nell'inchiesta leggerete che Mimmo Lucano ha agito per un interesse personale. Mai. E Mimmo Lucano ha fatto politica nell'unico modo possibile in un Paese che ha leggi inique. Mimmo Lucano ha fatto politica disobbedendo. Disobbedienza civile: questa è l'unica arma che abbiamo per difendere non solo i diritti degli immigrati, ma i diritti di tutti. Perché tutti abbiamo il diritto di vivere una condizione di pace sociale, senza nessun ministro che ci indichi numeri civici dove vivono persone da cacciare in quartieri da "bonificare". Esatto, bonificare. Queste le parole di Salvini. Ma bonificare da cosa? Dagli esseri umani? Tutti abbiamo il diritto di vivere senza cercare colpevoli, e se il ministro ha subito individuato in Mimmo Lucano un nemico da abbattere, il Pd non ha mai compreso che se davvero voleva ripartire da qualche parte per ritrovare un barlume di credibilità, avrebbe dovuto farlo da Riace, da Mimmo Lucano. E prima ancora da Lampedusa e da Giusi Nicolini. E invece Mimmo è solo, e la Bossi-Fini è ancora lì a inchiodare, a bloccare chiunque decida di accogliere e di salvare vite. Legge-obbrobrio, legge intoccabile. Mimmo Lucano, un uomo solo a lottare contro una legge iniqua. Una legge che vede silenziosamente coesi coloro i quali ogni giorno si presentano a noi come acerrimi nemici. I Salvini, gli Orfini, i Minniti e i Toninelli, i Renzi, i Martina, i Di Maio, i Di Battista, i Bonafede, tutti uguali: nessuno di loro ha mai osato mettere in discussione i frutti più amari del berlusconismo: la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi che riempiono le carceri di immigrati e tossicodipendenti, rendendo il nostro uno Stato-fortezza, uno Stato di polizia. In un Paese diverso, un partito di sinistra unirebbe elettori solo dicendo basta a questi due obbrobri. Vi sembra possibile che il problema della Calabria, terra di narcotraffico e corruzione criminale, sia l'immigrazione? Mimmo Lucano è stato arrestato anche per "fraudolento affidamento diretto della raccolta rifiuti", eppure mai si legge negli atti della Procura di Locri che abbia agito per guadagno personale, anzi si sottolinea il contrario. Il razzismo oggi in Italia è usato come arma di distrazione di massa, dovremmo rassegnarci a questa pratica trasversale a ogni partito, ma no. Non ci rassegniamo. Questo governo, attraverso l'utilizzo politico di questa inchiesta giudiziaria, da cui Mimmo saprà difendersi in ogni sua parte, compie il primo atto verso la trasformazione definitiva dell'Italia da democrazia a Stato autoritario. Con il placet di tutte le forze politiche. Ma le parole sono superflue, anche le mie. Andate piuttosto a Riace, vedrete bambini africani che parlano calabrese e case in disuso messe a disposizione degli immigrati da chi ha lasciato l'Italia, da italiani migranti economici accolti in Australia o in Sudamerica. Italiani che in questa Italia non ce l'hanno fatta. Dobbiamo mettere il nostro corpo in difesa del progetto Riace che è il modello più importante di accoglienza di tutto il Mediterraneo. "Io la carta d'identità gliela faccio... Io sono un fuorilegge, sono un fuorilegge perché per fare la carta d'identità io dovrei avere un permesso di soggiorno in corso di validità...in più lei deve dimostrare che abita a Riace, che ha una dimora a Riace, allora io dico così, non mando neanche i vigili, mi assumo io la responsabilità e gli dico va bene, sono responsabile dei vigili...la carta d'identità, tre fotografie all'ufficio anagrafe, la iscriviamo subito...". Io sono un fuorilegge, dice Mimmo Lucano. Fuorilegge per aver fatto carte d'identità a chi avrebbe dovuto avere documenti per diritto e in tempi brevi. Per essersi assunto, da solo, le responsabilità che dovrebbe assumersi un intero Paese. E invece, insieme a questa politica codarda, tutti giriamo lo sguardo altrove. Agli occhi dell'opinione pubblica si vuol far passare Mimmo Lucano per colpevole e chi ha rubato agli italiani quasi 50 milioni di euro, e chi ha sequestrato persone inermi per bieco profitto politico, no. Tutto questo è assurdo e paradossale. Ecco perché vi invito tutti a stare accanto a Mimmo Lucano; la democrazia va difesa e questo processo diventa un banco di prova: impegniamoci tutti a smontare, una a una, le accuse a Mimmo Lucano. È l'unico modo che abbiamo per difendere il nostro Paese e quello che siamo. La caccia agli oppositori si è aperta, ci arrendiamo al processo di trasformazione della Repubblica italiana nella Repubblica ungherese di Orbán? No, non ci arrendiamo. Attiviamoci tutti, ché ora tocca a noi perché, come scrisse Bertolt Brecht: "Quando l'ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere".

Riace, Roberto Saviano attacca Matteo Salvini: "Uso politico di un'inchiesta. Verso uno stato autoritario", scrive il 2 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". Arrestano il suo amico, sindaco di Riace, Domenico Lucano per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e Roberto Saviano perde la brocca. "E' colpevole solo di aver salvato vite umane, vite migranti. L'accusa è di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina: negli atti della procura di Locri non c'è un solo riferimento a un vantaggio personale del sindaco", sbotta in un video per RepubblicaTv. "L'altra accusa, affidamento fraudolento della gestione dei rifiuti, fa sorridere. Mimmo è sindaco in una terra di narcotraffico e di sangue, eppure il problema in Calabria sembra essere solo l'immigrazione. Davvero ci credete?", continua lo scrittore di Gomorra e attacca il ministro dell'Interno Matteo Salvini: "Il suo uso politico di questa inchiesta giudiziaria è il primo passo verso uno stato autoritario. Non bisogna avere paura, ma resistere". Poco prima il ministro dell'Interno aveva commentato: "Accidenti, chissà cosa diranno adesso Saviano e tutti i buonisti che vorrebbero riempire l'Italia di immigrati". 

Giorgia Meloni deride Roberto Saviano: "L'arresto del sindaco di Riace? Ora portagli le arance", scrive il 2 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". Anche la leader di Fratelli d'Italia dice la sua sul caso di Domenico Lucano. Giorgia Meloni parla dell'arresto del sindaco di Riace, lo fa su Twitter, dove riserva anche una frecciata a Roberto Saviano, che ha parlato di "uso politico di un'inchiesta" e "Stato autoritario". Dunque, la Meloni scrive: "Vi ricordate quando Saviano diceva Riace modello vincente riferendosi alle politiche sull'accoglienza? Bene, ora potrà portare le arance al suo amico Sindaco arrestato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il vero modello vincente". Touché.

Daniela Santanchè ridicolizza Roberto Saviano: "E si ostinano a chiamarlo intellettuale", scrive il 2 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". Daniela Santanchè, con tre parole, sotterra Roberto Saviano. "Per Roberto Saviano se i magistrati indagano il ministro degli Interni sono degli eroi. Se arrestano il sindaco di Riace Mimmo Lucano stiamo andando verso lo Stato autoritario. E qualcuno insiste a chiamarlo intellettuale...". Un ragionamento che non fa una grinza.

Gad Lerner, raptus fascista in risposta a Salvini che lo sfotte: "Me ne frego. Tanti nemici, tanto onore", scrive il 2 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". L'arresto del sindaco di Riace ha scatenato Gad Lerner, che ha parlato di "clima fascistoide" con evidente riferimento a uno dei suoi bersagli prediletti, Matteo Salvini. Non a caso, il ministro dell'Interno ha replicato a Lerner sui social: "In Italia clima FASCISTOIDE, denuncia Gad Lerner. Ho un dubbio: crede davvero nelle sciocchezze che dice?". Una replica dura, ma pacata. Replica che però ha fatto perdere la testa a Lerner, che ha ribattuto su Twitter. Così: "Di Matteo Salvini me ne frego... Tanti nemici, tanto onore... Le piace, vero, dialogare così, signor ministro?". Un cinguettio clamorosamente scomposto con cui Lerner ha dato del fascista a Salvini.

Riace, Boldrini difende Mimmo Lucano. Poi attacca Salvini: "È indagato". L'ex presidente della Camera si schiera con Mimmo Lucano e il modello Riace. E l'affondo contro il ministro dell'Interno: "Anche lui è indagato", scrive Claudio Cartaldo, Martedì 02/10/2018, su "Il Giornale". Laura Boldrini si schiera col "soccorso rosso" sceso in campo per Mimmo Lucano. Arrestato stamattina con l'accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti, il sindaco di Riace ha già ricevuto il sostegno verbale di Lerner e tanti altri. E ora al suo fianco c'è pure la Boldrini, che ha preso di mira anche il ministro dell'Interno. "Le decisioni della magistratura, come sempre vanno rispettate - dice l'ex presidente della Camera - ma sono certa che Mimmo Lucano saprà dimostrare la sua totale estraneità ai fatti che gli vengono contestati". Il motivo, secondo la Boldrini, è semplice: "Il Sindaco di Riace ha prodotto un modello di accoglienza che ha avuto riconoscimenti anche internazionali". Certo, ci sono le contestazioni della procura dopo le approfondite indagini. Per l'ex presidente di Montecitorio, però, Lucano "con la sua azione ha non soltanto aiutato richiedenti asilo e rifugiati che cercavano in Italia quella sicurezza che non avevano nei loro Paesi, ma ha risollevato l'economia di un territorio che, come tante nostre aree interne, si stava spopolando". Ecco perché al primo cittadino va "la solidarietà" della Boldrini. Ma l'ex presidente della Camera non manca anche di attaccare il leader della Lega, che oggi sul tema Riace aveva invitato giornalisti e cittadini a "chiedere un commento a Saviano, alla Boldrini e ai campioni dell'immigrazione fuori controllo". "Al Ministro Salvini che twetta felice per questa notizia - attacca la deputata di Leu - va ricordato che le misure cautelari non sono una condanna e non determinano la colpevolezza di una persona che rimane semplicemente indagata. Va anche ricordato che, come Mimmo Lucano, pure Salvini è indagato: per sequestro di persona aggravato".

Che fuori tempo che fa, allarme per Fabio Fazio: share, la punizione nonostante un traino da record, scrive il 2 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". Il lunedì sera, Fabio Fazio stecca. Come sottolinea Dagospia, il verdetto dello share è piuttosto impietoso. Il suo Che fuori tempo che fa, versione in seconda serata di Che tempo che fa, ha raggranellato l'11,2% di share. Non benissimo, soprattutto in considerazione dell'imponente traino di cui godeva la trasmissione, ovvero quello della fiction La vita promessa, che su Rai 1 ha strappato il 26,2% di ascolti, dominando la serata e battendo per distacco il Grande Fratello Vip di Ilary Blasi, che pur durando fino all'una di notte e nonostante l'atteso ingresso nella casa di Lory Del Santo si è fermato al 19 per cento. Insomma, cattive notizie per la Blasi e pessime per Fazio (il quale ha, al contrario, ottenuto ottimi ascolti nelle prime due puntate domenicali della trasmissione).

Paragone: "Cottarelli da Fazio ha commentato la nota al DEF senza contraddittorio", scrive Silenzi e Falsità l'1 ottobre 2018. “Come sapete Carlo Cottarelli è ospite fisso di Fazio, non so quanto sia pagato ma sicuramente è lì la domenica sera in prima serata con la missione di fare il lavaggio del cervello agli italiani sulle politiche economiche di questo governo”. Lo ha denunciato su Facebook il senatore del M5S Gianluigi Paragone, che ha criticato Fabio Fazio per aver dato spazio al “lungo monologo” di Cottarelli, “caratterizzato dal commento alla nota al DEF”. Si tratta – ha continuato l’esponente pentastellato – di “una questione di profonda attualità, ma che evidentemente per Fabio Fazio, il sacerdote del buonismo televisivo, non era degna di avere un contraddittorio”. “Questa – ha affermato Paragone – è la peggiore televisione possibile, soprattutto è la peggiore televisione possibile su Raiuno in prima serata la domenica. Possano fare, e vogliano fare, quello che vogliono, ma su una questione profondamente di attualità, e profondamente interessante per le vite dei cittadini, avere soltanto Carlo Cottarelli che compie un monologo assurdo contro questa manovra lo trovo indegno”. “Questo – ha proseguito – è quello che accadrà ogni domenica sera perché Cottarelli ha un contratto in esclusiva. Vogliamo sapere quanto è pagato da Fabio Fazio, il quale ce la deve ancora dire tutta sul suo contratto”. Paragone si è anche complimentato ironicamente con il direttore del Tg1, “che è riuscito ad aprire il suo telegiornale con la manifestazione del Partito Democratico: assolutamente una grande scelta, di un grande direttore, che è riuscito a centrare la notizia del giorno, perché quella manifestazione del Partito Democratico ha veramente spaccato, è decisamente stata la notizia della giornata, sicuramente tutto il mondo sta parlando di questa grande manifestazione del Partito Democratico. E ha fatto bene il direttore del Tg1 delle 20 con quella notizia: bravo, complimenti. Ma meglio di lui ha fatto Fabio Fazio”. “Questa è la Rai ancora sotto il dominio culturale di una stagione passata, – ha concluso Paragone – ecco perché era fondamentale avere Foa alla presidenza: perché almeno un’altra visione culturale è possibile e sarà possibile.”

Domenico Lucano, il sindaco di Riace: "Felice di aiutare i migranti a casa nostra". Il primo cittadino che ha creato un modello esemplare di accoglienza è attaccato da Salvini che lo ha definito "uno zero" ma anche da altri politici di destra e di sinistra, che osteggiano il modello di integrazione organizzato da "Mimì Capatosta". Ma lui va avanti a testa alta, disprezzando chi parla di "aiutarli a casa loro", scrive Christian Dalenz l'8 giugno 2018 su "L'Espresso". Un sindaco che prova davvero, da vent'anni, a fare una piccola rivoluzione. "Mimì capatosta", come lo chiama Tiziana Barillà in un libro a lui dedicato, ovvero Domenico Lucano, primo cittadino di Riace, ha messo a punto un sistema di accoglienza da applausi. I migranti provenienti dalle zone di guerra e povertà ("Etiopia, Eritrea, Nigeria, Siria, Palestina, curdi, Pakistan, Mali, Congo, Ghana, Somalia", elenca il sindaco) lavorano nelle botteghe lasciate da chi si ne è andato dal paese, persino collaborando con chi è rimasto. E vivono nelle case abbandonate dall'emigrazione, convivendo pacificamente con gli abitanti del luogo. Ora si dice pronto ad accogliere i migranti sull'Aquarius. E racconta diverse cose sul modello Riace, sul caso Sacko e sulla sua visione in merito all'immigrazione. Rispondendo con grande fermezza a Salvini che l'aveva definito uno "zero".

Cosa ha pensato ieri sera, durante la crisi Aquarius?

«Le prime parole che mi sono venute in mente sono quelle che si vedono pronunciare da un protagonista del documentario che Wim Wenders ha fatto sul modello Riace, "Il volo": "Venivano aldilà del mare per salvarsi la vita e noi li abbiamo respinti. Perché?". Sono pronto ad accogliere i minori accompagnati e le donne presenti sull'Acquarius. Abbiamo le case pronte. Potrei persino mettere su una rete di solidarietà internazionale con le associazioni "Libertà e Diritti Umani" di Berna e la Rete Antirazzista siciliana!»

Salvini l'ha definita uno “zero”. Secondo lei perché l'ha fatto?

«Perché diamo fastidio. Di attacchi ne abbiamo ricevuti non solo da lui, ma da tanti politici. Il problema è che noi non siamo neutrali. Siamo in un territorio pieno di contraddizioni nuove ed antiche. La precarietà, la criminalità, situazioni al limite. Noi abbiamo fatto una scelta: quella di essere vicini alle istanze dei più deboli, e di condividere un'idea di emancipazione e riscatto sociale. Tutto ciò è di sinistra, e dunque subiamo attacchi politici. Anche se non sono mai stato tesserato ad alcun partito, solo a Lotta Continua tanti anni fa, vengo quindi criticato per i miei propositi. Comunque ha ragione il ministro, io sono uno zero. Io condivido la mia vita con gli zero, con gli ultimi. Lui invece immagina un mondo completamente diverso, una sorta di ideologia della razza che non mi appartiene. La genesi della Lega del resto comincia con il separatismo, se la sono presa con i meridionali, con quelle braccia che il Nord lo hanno costruito. Io invece sto con Zanotelli, che dice che con i nuovi proletari a Riace abbiamo costruito la rivoluzione. Anche se in realtà per me si tratta solo ripristinare una normalità di rapporti amichevoli tra esseri umani»

Ci racconti quali sono i risultati raggiunti finora a Riace in merito all'integrazione.

«L'immigrazione è diventata un'occasione straordinaria. Nel nostro paese, abbandonato da anni di emigrazione, abbiamo costruito una comunità globale di persone che vive in armonia e stabilità. Abbiamo recuperato le case e le botteghe che erano state lasciate e le abbiamo rimesse in funzione. Siamo riusciti a trasmettere un messaggio di umanità, e per me questo è un risultato straordinario. Nel mio immaginario quello che stiamo facendo serve a ripristinare l'antico ideale calabrese per il quale lo straniero è considerato una sorta di dio. La nostra cultura antropologica non considera l'altro un nemico. Vorrei che il mio progetto di integrazione si ricolleghi a questa antica visione. E' una rivoluzione della normalità, come dicevo».

Perché ha creato un sistema di valuta alternativo nel paese, con tanto di banconote con le facce di Che Guevara e Nelson Mandela, e come è stato ricevuto ai livelli istituzionali più alti questo tentativo?

«Volevo dare ai rifugiati la libertà di far girare l'economia come meglio credevano, senza dover sottostare ai limiti di spesa imposti dai programmi ministeriali, che gli permettevano al massimo di prendersi qualcosa dai supermercati. E' dal 2010 che c'è la valuta ed il sistema ha sempre funzionato senza intoppi. Solo da un paio d'anni il Ministero ha cominciato a contestarlo. Secondo me a torto; prima non avevano nulla da dire, si vede che in realtà andava bene. Mi ha amareggiato anche il ministro Minniti: non ha mai speso una buona parola per noi e ora c'è stato anche il taglio dei fondi. Proprio venerdì mi è arrivata una nota che conferma il ritardo: stanno ancora valutando quando e come tornare a darci soldi».

La magistratura si è recentemente interessata a quello che state facendo, rilevando irregolarità nei vostri bandi e nei vostri conti. Cosa ha da dire in proposito?

«Sicuramente ho commesso irregolarità burocratiche, ma sono poco rispetto ai risultati che abbiamo ottenuto. Lo dice il mondo che questo modello è il più importante sul campo dell'integrazione nel nostro Paese.

Mi dicono comunque che non hanno trovato nulla e che l'indagine finirà bene. L'unico vero dispiacere lo provo per il danno di immagine a carico di Riace».

L'eco che il suo lavoro ha avuto all'estero è in effetti stato grandissimo, lei è diventato persino uno dei politici più influenti del mondo secondo la rivista Fortune. Quali sono stati gli altri riconoscimenti che in questo senso le hanno fatto più piacere?

«A me ha fatto molto piacere quando sono stato al Forum sociale di Buenos Aires, in particolare. E' stato molto bello anche quando a Dresda ho ricevuto un premio, ed è stato un onore che Wim Wenders abbia fatto un documentario sul nostro caso. E poi la nota che mi ha inviato il Papa in persona. Non potevo immaginare che persino Francesco potesse scrivermi!»

Crede che il modello da lei proposto possa essere replicato altrove, magari anche in grandi città?

«Sa, Vittorio Arrigoni diceva: “restiamo umani”. Non è un problema di latitudine. Possiamo aiutare le persone ovunque».

Nei giorni scorsi è morto il sindacalista Soumayla Sacko. Per ora gli inquirenti parlano di omicidio che non ha un movente razzista. Forse lei conosce Vibo Valentia, il luogo in cui è avvenuto, meglio di noi. Che impressione le ha fatto l'episodio?

«Conoscevo Sacko. Ero stato a S. Ferdinando per via dell'omicidio di Becky Moses e incontrare l'Usb; c'era anche Soumayla, che lavorava insieme al sindacato. Si occupava del dramma delle baraccopoli senza luce e senza acqua. Era andato in quel deposito a prendere lamiere per coprire meglio la sua baracca. Io credo che qualche 'ndranghetista che non li voleva di torno ha sparato a lui e ai suoi amici per fargli capire che il sistema di sfruttamento da loro creato non deve essere fermato. Del resto già a Rosarno, qualche anno fa, c'era stata una ribellione, e non vogliono che si ripeta. Sa come funziona? I proprietari degli agrumeti prendono il contributo Ue; poi pagano due soldi questi ragazzi, che sono i nuovi schiavi contemporanei, e rubano il resto di quanto hanno ricevuto. Gli ispettori del lavoro dovrebbero controllare ed impedire tutto ciò, non ci vuole molto!»

Il suo è un chiaro modello di “aiutiamoli a casa nostra”. Rispetto invece al messaggio opposto, “aiutamoli a casa loro”, che ne pensa?

«Parlare di “aiutarli a casa loro” è una grandissima ipocrisia ed è vigliacco. Di solito significa cacciarli indietro in Paesi di guerra. La mia è una missione di vita, mi dà fastidio sentire queste scuse. Per me Salvini, uno degli autori principali di questo messaggio nel nostro Paese, non ha nemmeno la preparazione per poter affrontare questi problemi. La povertà e la miseria sono anche peggiori della guerra, non c'è lo stato sociale nei loro Paesi d'origine, quindi non condivido nemmeno la distinzione che si fa tra migrazione per causa di guerra e per cause economiche».

Sono tutte scuse per limitare gli arrivi. E chi siamo noi per limitare la libertà di movimento delle persone?

«Dovremmo tenere presente, tra l'altro, che la nostra emigrazione era diversa, per noi era soprattutto una questione di lavoro. E poi facevamo legami con il territorio in cui ci insediavamo. Per loro è più difficile, per problemi di lingua e perché sanno che non torneranno mai nei loro Paesi. Oltretutto siamo noi occidentali che non abbiamo permesso lo sviluppo nei loro Paesi. Thomas Sankara (presidente rivoluzionario nel Burkina Faso, ndr) ce lo rimproverava tanti anni fa: abbiamo colonizzato l'Africa e ora gli chiediamo persino di ripagare un debito! E' una grave inversione delle vicende storiche per come sono avvenute! Sicuramente potremmo fare una politica di cooperazione internazionale, ad ogni modo, anche investendo in quei Paesi».

Hanno appena finito di girare una fiction televisiva sul caso di Riace, con protagonista Beppe Fiorello, a cui ha concesso la cittadinanza onoraria. E' soddisfatto del lavoro che è stato fatto? Crede che renderà giustizia al suo impegno per la comunità?

«Non l'ho vista, ma sono molto contento che l'abbiano fatta. Spero serva a far vedere un modello positivo. Purtroppo Gasparri ha fatto un'interrogazione parlamentare in merito e sembrerebbe che il progetto sia stato bloccato. Come vede non è solo Salvini che cerca di ostacolarci».

Migranti: perché è stato arrestato Mimmo, il sindaco di Riace. Diventato noto a livello internazionale per la sua politica di accoglienza, che ha fatto risorgere il paese calabrese, Domenico Lucano è ai domiciliari, scrive Simona Santoni il 2 ottobre 2018 su "Panorama". Il sindaco di Riace (Reggio Calabria) simbolo dell'accoglienza verso i migranti, Domenico Lucano noto a tutti come "Mimmo", è stato arrestato e messo ai domiciliari con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Ecco cos'è successo e perché era diventato famoso il primo cittadino del comune della Locride reso celebre dal ritrovamento in mare dei Bronzi.

L'impegno di Lucano. Domenico Lucano è al suo terzo mandato consecutivo, iniziato nel 2014, quando è stato rieletto con la lista civica "L'altra Riace". 60 anni, si è procurato la fama di benefattore dei migranti. Dal 2004, anno in cui ha iniziato la sua carriera da sindaco, Lucano ha reso il paesino di Riace, diviso tra la cittadina sulla collina e la parte marina che guarda il Nordafrica, centro attivo di politiche di accoglienza. Ha salvato il borgo spopolato, accogliendo centinaia di rifugiati e immigrati e impedendo così la chiusura della scuola locale. La popolazione di Riace è passata dai circa 1700 a oltre 2300 grazie alla presenza di immigrati. "Nel 2000 la nostra scuola era chiusa perché avevamo così pochi allievi, ora è fiorente", aveva detto Lucano alla Bbc nel gennaio 2001. Tra i banchi ragazzi e ragazze provenienti da Somalia, Albania, Iraq...Il sindaco riacese è riuscito simultaneamente a creare posti di lavoro, a fermare un esodo di massa dal suo paese e a trovare una soluzione alla controversa questione dei richiedenti asilo. Ha sistemato i nuovi arrivati ​​in alcune delle case abbandonate dagli autoctoni migrati altrove, per lo più al nord in cerca di lavoro, e ha trasformato altre abitazioni vuote in laboratori artigianali.

Gli onori della cronaca. Grazie al suo impegno umanitario, Lucano ha assunto grande notorietà anche a livello internazionale. Nel 2016 la rivista americana Fortune lo ha inserito tra le 50 personalità più potenti nel mondo.

Beppe Fiorello ha raccontato la sua storia nella fiction Tutto il mondo è paese diretta da Giulio Manfredonia, per Rai Fiction, di cui non si sa ancora data di uscita (e se uscirà). 

Perché è arrestato ora. I guai per Lucano sono cominciati nel 2017, quando la Prefettura di Reggio Calabria, dispose un'ispezione nel Comune di Riace: da questa emerse una serie di irregolarità nell'utilizzo dei finanziamenti governativi per l'accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo politico. I risultati dell'ispezione fecero scattare l'inchiesta della Procura della Repubblica di Locri da cui sono emersi gli illeciti che oggi hanno portato all'arresto di Lucano e della compagna, Tesfahun Lemlem. Domenico Lucano, agli arresti domiciliari, è accusato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e di illeciti nell'affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. In un colloquio intercettato dalla Guardia di finanza, ecco cosa avrebbe detto Lucano: "Proprio per disattendere queste leggi balorde vado contro la legge", parlando del caso di una donna cui è stato rifiutato per tre volte il permesso di soggiorno: "Io la carta d'identità gliela faccio, sono un fuorilegge. Non mando neanche i vigili, mi assumo io la responsabilità. La iscriviamo subito. Fino ad ora la carta d'identità l'ho fatta così".

Arresto sindaco Riace, Franco Bechis e la lezione a Roberto Saviano: "Ti spiego cos'è la legalità", scrive il 2 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". L'arresto del sindaco di Riace per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina ha scatenato Roberto Saviano, che ha parlato di "stato autoritario" e di un "arresto politico". Durissima la replica, piovuta su Twitter, di Franco Bechis: "Caro Roberto Saviano, i domiciliari al sindaco di Riace, Mimmo Lucano sarebbero discutibili se relativi alla violazione - dichiarata - delle leggi sulla immigrazione, atto di disobbedienza civile. Per un bando pubblico truccato, no. Il tuo senso della legalità fa un po' acqua...", conclude Bechis. Poche parole, assai incisive. 

Riace, il sindaco agli arresti. Avevamo ragione, scrive Michel Dessi il 2 ottobre 2018 su "Il Giornale". “Io sono un fuorilegge, sono un fuorilegge...” diceva al telefono Mimmo Lucano, il “re” dell’accoglienza, prima di essere arrestato. Il sindaco, fino a ieri, famoso in tutto il mondo per il suo “modello Riace”. Un modello che non ha funzionato a lungo. Che si è inceppato. Noi lo avevamo detto. Scritto. Più volte. Oggi è arrivata la conferma dalla Guardi di Finanza di Locri che ha arrestato il sindaco con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. Una indagine dettagliata, avviata dal procuratore di Locri un anno e mezzo fa. A quanto pare non ci siamo sbagliati! Avevamo ragione. I “compagni” lo difendono e accusano la magistratura. Parlano di un complotto. E annunciano proteste. Inutili. Come sono stati inutili gli appelli di Saviano, il paladino della giustizia. Da sempre al fianco del sindaco. Cosa dirà? Troppe le ombre, troppe le anomalie. Il sindaco era pronto a tutto pur di tenere gli immigrati senza diritto a Riace, nel piccolo borgo jonico reggino. Combinava matrimoni tra migranti e italiani. A dimostrarlo le intercettazioni. “… se ne deve andare, se ha avuto per tre volte il diniego … ecco perché non lo rinnovano più. Ti spiego dal punto di vista dei documenti lei non può stare … lei non ha diritto di stare in Italia, se la vedono i carabinieri la rinchiudono … perché non ha i documenti, non ha niente …ovviamente le possibilità che ha a Riace di non avere problemi sono più alte, si confonde in mezzo a tutti, però lei i documenti difficilmente ce li avrà… io la carta d’identità gliela faccio … io sono un fuorilegge, sono un fuorilegge, perché per fare la carta d’identità io dovrei avere un permesso di soggiorno in corso di validità … in più lei deve dimostrare che abita a Riace, che ha una dimora a Riace, allora io dico così, non mando neanche i vigili, mi assumo io la responsabilità e gli dico va bene, sono responsabile dei vigili… la carta d’identità tre fotografie, all’ufficio anagrafe, la iscriviamo subito …” E poi, il sindaco “fuori legge” che invoca l’anarchia diceva: “sai qual è secondo me l’unica strada percorribile, volendo spremere le meningi, che lei si sposa! come ha fatto Stella … Stella si è sposata con Nazareno, io sono responsabile dell’ufficio anagrafe, il matrimonio te lo faccio immediatamente … con un cittadino italiano … guarda come funziona Daniela, se lei … però dobbiamo trovare un uomo che è libero come stato civile … divorziato si…”  E questa è solo una piccola parte. Sì, perché le carenze, le criticità accertate erano tante. Tutte individuate in diverse e scrupolose ispezioni. Da noi pubblicate nel dettaglio in tempi non sospetti. Come gli strani affidamenti diretti da parte del sindaco a specifici enti gestori senza aver mai indetto una gara pubblica, alla quale avrebbero potuto partecipare anche altre associazioni e cooperative diverse da quelle scelte direttamente dal primo cittadino. Le spese senza “pezze d’appoggio”, o con giustificazioni poco chiare o raddoppiate. I rimborsi sospetti, la mancanza di contratti e i malumori dei migranti. Tutte contestazioni dettagliate, che hanno portato di recente il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione a prendere una decisone drastica: declassare lo SPRAR di Riace, e oggi la guardia di finanza ad arrestare il sindaco. Il re senza corona e senza scettro. Senza regno. 

Roberto Saviano sull'arresto del sindaco di Riace: "Non arrendiamoci, l'Italia diventerà come l'Ungheria", scrive il 3 Ottobre 2018 "Libero Quotidiano". Dopo gli attacchi sui social, Roberto Saviano non poteva esimersi dal vergare un articolo su Repubblica. Si parla ancora dell'arresto di Domenico Lucano, il sindaco di Riace finito ai domiciliari per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, seppur non per lucro. "Un peccato di umanità", come da titolo del commento di mister Gomorra. Il quale giustifica il sindaco, scavalcando quei magistrati che, quando gli fa comodo, vengono puntualmente elogiati: "Mimmo Lucano ha fatto politica nell'unico modo possibile in un Paese che ha leggi inique - scrive -. Mimmo Lucano ha fatto politica disobbedendo. Disobbedienza civile: questa è l'unica arma che abbiamo per difendere non solo i diritti degli immigrati, ma i diritti di tutti". Insomma, Saviano con toni da collettivo liceale si spinge ad affermare che a rischio ci siano i "diritti di tutti". Concetto che esprime in modo ancor più estremo nella chiusa del suo articolo, dove afferma: "La caccia agli oppositori si è aperta, ci arrendiamo al processo di trasformazione della Repubblica italiana nella Repubblica ungherese di Orban? No, non ci arrendiamo. Attiviamoci tutti, ché ora tocca a noi perché, come scrisse Bertolt Brecht: Quando l'ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere". Toni apocalittici, toni con i quali accredita la tesi della dittatura strisciante a Saviano tanto cara (solo poche ore fa ha parlato di "Stato autoritario"). Lo scrittore invita gli italiani a "non arrendersi", anche se non è chiaro a cosa mai dovrebbero arrendersi. Forse, l'unica cosa davanti alla quale dovrebbe alzare le mani Saviano, sono i fantasmi salviniani che lo ossessionano.

Riace: e adesso caro Saviano? Ci faccia ridere, scrive Cristiano Puglisi il 2 ottobre 2018 su "Il Giornale". Egregio dottor Roberto Saviano, le scrivo per farle una semplicissima domanda: cosa dirà adesso? Avrà lei il coraggio di uscire dal suo prestigioso attico newyorkese per difendere l’amico sindaco di Riace, Domenico Lucano? Perché, come già saprà, il primo cittadino è stato messo agli arresti domiciliari, citando la nota stampa della Procura di Locri, per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti”. Ci spiega ancora la Procura che “la misura cautelare rappresenta l’epilogo di approfondite indagini, coordinate e dirette dalla Procura della Repubblica di Locri, svolte in merito alla gestione dei finanziamenti erogati dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura di Reggio Calabria al Comune di Riace, per l’accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo politico”. L’operazione è stata condotta dalla Guardia di Finanza, a quanto apprendiamo. Che strano dottor Saviano. Ma sarà mai possibile? Un sindaco di sinistra e alfiere dell’accoglienza, addirittura citato per questo da una delle riviste dell‘establishment (Fortune, anno del Signore 2016) come uno dei personaggi più influenti del mondo, in manette per… reati collegati all’accoglienza?!? Eppure lei, l’aedo della legalità, si era espresso, riguardo a Lucano, in questi termini, non più tardi di trenta giorni fa: “Bisogna riempirsi i polmoni di quell’aria. Il modello Riace è una cattedrale di libertà che innestatasi su un deserto lo ha reso florido di vita”. Eppure lei ci aveva detto che Riace era un modello da cui il sud d’Italia doveva prendere esempio. Lo ripeto, non un anno, ma un mese fa. E invece, secondo il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio, Lucano avrebbe dimostrato una “spigliatezza disarmante, nonostante il ruolo istituzionale rivestito”, nell’ammettere “pacificamente più volte, ed in termini che non potevano in alcun modo essere equivocati, di essersi reso materialmente protagonista ed in prima persona adoperato, ai fini dell’organizzazione di matrimoni di comodo”. Come la mettiamo dottor Saviano? Come la mettiamo con la storia della legalità, di cui tanto ci ha parlato in questi anni? Vale solo in alcuni casi? Non vorrà definire il suo amico un perseguitato politico, come un garantista qualsiasi? Ci faccia sapere, anzi, ci faccia ridere. Siamo in trepidante attesa…

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2018. «Io sono un fuorilegge... proprio per disattendere queste leggi balorde vado contro la legge... la legge sull' immigrazione è una legge che presenta tantissime lacune e tante interpretazioni... Uno può cercare quelle più restrittive se la sua indole ... e può cercare quelle più elastiche se tu condividi, se non sei d'accordo con quella legge, c' è un livello di interpretazione». È il 22 luglio 2017. Mentre sta organizzando un finto matrimonio per Joy, ragazza straniera che vive a Riace, il sindaco Domenico Lucano parla con la responsabile di una struttura di accoglienza e le spiega che ha deciso di aiutare la ragazza ad avere il permesso di soggiorno facendola sposare con un anziano paesano.

Sono le intercettazioni ambientali e le testimonianze a raccontare il «sistema Riace». Il giudice sottolinea come «Lucano vive oltre le regole, che ritiene di poter impunemente violare nell' ottica del "fine che giustifica i mezzi"». Nell' ordinanza di cattura parla di «comportamenti di estrema superficialità e diffuso malcostume», ma evidenzia che «non c' è stato alcun vantaggio patrimoniale» né per Lucano né per gli «enti attuatori». E così spiega la decisione di ordinare l' arresto: «La gestione quantomeno opaca e discutibile dei fondi destinati all' accoglienza di cittadini extracomunitari tratteggia il Lucano come soggetto avvezzo a muoversi sul confine (invero sottile in tali materie) tra lecito ed illecito...Appare evidente che l' incarico attualmente ricoperto e la copiosa presenza di stranieri sul territorio riacese potrebbero costituire occasioni propizie per l' adozione di atti amministrativi volutamente viziati o per la proposizione a soggetti extracomunitari di facili ed illegali scappatoie per ottenere l' ingresso in Italia».

Sono tre i matrimoni che Lucano combina. Uno lo fa per assecondare la richiesta della compagna etiope Lemlen Tesfahun (anche lei agli arresti) che progetta di sposare suo fratello pur di farlo arrivare in Calabria e non riesce soltanto perché il giovane nel frattempo è stato arrestato. I dettagli li racconta nel luglio 2017 mentre si trova nell' associazione «Città Futura».

Lucano: questa ragazza nigeriana è stata diniegata tre volte, per cui con il nuovo decreto Minniti deve andare via l'unica possibilità per rimanere era quella di sposarsi con un cittadino ... questo qua si chiama Giosi. Mi ha chiamato la sorella, non è tanto... poverino, anzi devo dire la verità ha votato per me... mi sono barattato...l'unica cosa ... mi ha detto così io ti voglio votare però mi devi trovare una fidanzata...Abbiamo fatto un altro matrimonio con la consapevolezza che un'altra ragazza anche lei nigeriana, che si chiama Stella, si è sposata con uno che si chiama Nazareno, Stella è una bella ragazza, lui è piccolino così, mai avuto donne...

Donna: quindi quando fate questi matrimoni tra giovani e vecchi? L' altro è...Lucano: addirittura Daniela... questa Daniela Maggiulli... voleva sposarsi lei con un matrimonio tra donne, però poi abbiamo visto che praticamente Sara non era di questo progetto di Riace, Daniela le ha dato un passaggio quando faceva la prostituta, l' ha recuperata e poi le abbiamo dato una casa, non c' entra con lo Sprar, l'abbiamo presa dalla strada e ora le volevamo risolvere anche questo problema, però poi abbiamo visto che se sono due donne o due uomini non vale ai fini del permesso di soggiorno... perché per me era bello come sindaco fare il primo matrimonio tra due donne...

Nel luglio di un anno fa, quando entra in vigore il decreto firmato dal ministro dell'Interno Marco Minniti il sindaco parla con le ragazze straniere.

Lucano: ti cacciano dall' Italia adesso, tu capisci l'italiano?

Joy: si Lucano: Stella si è sposata, perché diniegata, perché in Nigeria li stanno diniegando tutti... no no no la commissione, una volta, due volte ...adesso con il governo nuovo c' è uno che si chiama Minniti, una brutta persona, vi mandano via, vi cacciano... hai capito?

Joy: si ho capito Il sindaco sceglie un paesano di nome Giosi ma alla fine annulla tutto perché «lui non sapeva neanche come si chiama lei... c' erano tante persone, sono venute quasi a fare come un film, a ridere...».

Da “il Messaggero” del 3 ottobre 2018. Sull' esperienza di Riace e il modello di accoglienza portato avanti dal sindaco Mimmo Lucano, oggi finito ai domiciliari con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, la Rai ha realizzato una fiction, dal titolo «Tutto il mondo è paese», che pur essendo pronta per la messa in onda non verrà trasmessa, almeno nell' immediato futuro. Viale Mazzini infatti ha precisato che la messa in onda della fiction «è stata sospesa» in attesa che la magistratura faccia luce sulla vicenda e sulla posizione di Lucano. La decisione è stata fortemente criticata dall' attore Beppe Fiorello (nella foto), che interpreta il ruolo del sindaco di Riace nella fiction. L' attore ha affidato a un post di Twitter il suo sfogo, scrivendo «Siamo tutti in pericolo. Il sindaco #domenicolucano è stato arrestato per aver accolto non per aver favoreggiato, allora #arrestatecitutti». «Crederò in te più di prima - scrive inoltre Fiorello -. Qualcuno si porterà sulla coscienza la vita di un uomo straordinario». Fiorello ha poi invitato il Papa a intervenire: «a lei la parola, la spieghi lei a questa politica la differenza tra accogliere i bisognosi e favorire le mafie».

I Bronzi e i Gonzi (di Riace). “I gonzi di Riace”, di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 3 ottobre 2018. Domenico Lucano, il sindaco ribelle di Riace da ieri agli arresti domiciliari per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta rifiuti, è un fuorilegge onesto. Pare un ossimoro, ma è proprio così: fuorilegge, perché è lui stesso a definirsi orgogliosamente così nelle sue conversazioni intercettate; onesto, perché anche il gip che l’ha arrestato riconosce che non ha mai agito per interesse personale e ha svolto un gran lavoro per integrare i migranti e riqualificare il suo comune spopolato. Da anni ci sgoliamo a ripetere che un conto è la questione penale, che attiene al rispetto delle regole; un altro è la questione morale, che riguarda i principi etici, i quali non sempre coincidono col codice penale. Quando noi giornalisti veniamo processati e magari condannati per aver ecceduto (secondo un giudice) in una critica o sbagliato in buona fede, pubblicando una notizia che sul momento pareva vera e verificata e poi si rivela falsa o inesatta, non diventiamo per ciò stesso disonesti. Se la legge è uguale per tutti, fissa e immutabile (almeno finché non viene cambiata), il giudizio morale varia a seconda dei princìpi, della cultura, dell’educazione, della sensibilità di ciascuno, ma anche del ruolo che ricopre l’autore della condotta. Se è un eletto o un pubblico ufficiale, oltreché alle regole dell’etica deve obbedire all’art. 54 della Costituzione, che richiede l’esercizio di pubbliche funzioni “con disciplina e onore”. E soprattutto richiede il buon esempio: se a violare una legge è colui che per primo dovrebbe rispettarla, perché ha giurato di adempiere a quel dovere o perché addirittura la legge l’ha scritta lui, salta il patto sociale che ci tiene tutti uniti e a quel punto vale tutto. Cioè si precipita nell’anarchia, nel caos, nel Far West. Ma c’è un problema: se una legge è ritenuta ingiusta, disumana, immorale, che si fa? Si prova a cambiarla. Ma, se poi non ci si riesce, c’è una scelta estrema: quella della disobbedienza civile nonviolenta. Quella di Gandhi e dei suoi epigoni, giù giù fino a Pannella. Che divennero “fuorilegge” per contestare leggi che non condividevano: Gandhi si ribellò a quelle di un regime autoritario (la dominazione britannica in India) e finì in carcere, Pannella a quelle di uno Stato democratico come l’Italia (per esempio, su droga, aborto ed eutanasia) e finì tante volte denunciato e qualcuna condannato. Nessuno ha mai pensato che questi “fuorilegge” fossero disonesti: Gandhi è passato alla storia come padre dell’indipendenza dell’India, Pannella come alfiere dei diritti civili in Italia. Lo stesso vale per il poeta Danilo Dolci, processato per le sue battaglie in Sicilia e difeso da Piero Calamandrei. E per Erri De Luca, processato per i suoi atti di disobbedienza in Val Susa accanto al movimento No Tav. Il dibattito su come contrastare una legge che si ritiene ingiusta lo avviò Sofocle nell’Antigone, la tragedia sulla storia della donna che decise di seguire la legge divina e seppellì il cadavere del fratello Polinice, morto in guerra, contro la legge umana imposta dal nuovo re-tiranno di Tebe, Creonte, che la fece condannare all’ergastolo e rinchiudere in una grotta, dove si impiccò poco prima di venire liberata. L’Italia, diversamente dalla Tebe di Antigone e dall’India di Gandhi, è una democrazia e uno Stato di diritto. Dove non esistono processi politici o morali, ma solo penali, affidati a una magistratura indipendente nei suoi vari (secondo noi troppi) gradi di giudizio. Quindi chi grida al complotto o al regime fascio-salviniano per l’arresto di Lucano, oltre a usare pericolosamente l’armamentario lessicale berlusconiano, sbaglia bersaglio. Salvini usa politicamente l’arresto di un avversario politico “buonista”, esaltando i magistrati che fanno comodo a lui dopo aver insultato quelli che indagano su di lui e che hanno sequestrato alla Lega i 49 milioni rubati. Ma non è il mandante degli arresti di Riace: quelli li ha chiesti la Procura di Locri, sulla scorta delle indagini della Guardia di Finanza, e li ha disposti il gip, cancellando gran parte delle accuse e adempiendo così fino in fondo al suo dovere di giudice terzo. Gli arrestati (il sindaco e la sua compagna) potranno impugnare il provvedimento dinanzi al Riesame e, se sconfitti, ricorrere in Cassazione. Alla fine 10 magistrati avranno esaminato la misura cautelare. Poi, se si andrà a giudizio per volontà di un gup, se ne occuperanno altri 3 giudici di tribunale, 3 d’appello e 5 di Cassazione. Di quale “regime” stiamo parlando? Eppure ieri è partito il solito derby. Con una particolarità. Qui non si sfidano colpevolisti e innocentisti, perché è lo stesso Lucano nelle intercettazioni a dirsi colpevole. Qui si sfidano i tifosi (Salvini e tutto il centrodestra) e i nemici (un bel pezzo della sinistra) dei magistrati di Locri che hanno disposto gli arresti. Noi, se ancora è lecito, preferiamo militare in una terza squadra: quella del buon senso. Il sindaco ribelle è simpatico e onesto: ha certamente agito animato dal più alto spirito umanitario per salvare migranti irregolari dall’espulsione, e non per tornaconto personale (anche se resta da spiegare l’appalto dei rifiuti affidato senza gara a due coop amiche, sintomo di quello che il gip definisce giustamente il “diffuso malcostume” di certi sindaci-Masaniello che fanno come gli pare). Ma – lo dice lo stesso Lucano – ha violato la legge sull’immigrazione, che ritiene “balorda”, organizzando falsi matrimoni proprio grazie al suo status di pubblico ufficiale (“io sono responsabile dell’ufficio anagrafe, il matrimonio te lo faccio immediatamente”) e di responsabile della Polizia municipale (“non mando neanche i vigili, mi assumo io la responsabilità e gli dico va bene, sono responsabile dei vigili”). E i magistrati non solo potevano, ma dovevano far rispettare la legge: guai se qualcuno, tantopiù se è il primo cittadino, fosse autorizzato a calpestarla. A chi deve obbedire un agente della polizia di Riace: al suo comandante che gli dice di applicare le leggi dello Stato, o al sindaco che le viola e istiga a violarle? E perché in tutta Italia i migranti devono mettersi in fila per chiedere l’asilo o il permesso di soggiorno e, se non l’ottengono, ricevere il foglio di via ed essere eventualmente rimpatriati, mentre a Riace possono aggirare le regole con finti matrimoni organizzati e officiati dal sindaco? Anziché prendersela con i magistrati che fanno il proprio dovere, chi si schiera con Lucano e ritiene “balorde” le norme sull’immigrazione ha strumenti più efficaci per cambiarle: organizzare un referendum abrogativo, raccogliere firme per una legge di iniziativa popolare, chiedere agli amici in Parlamento di modificarle, provare a farla impugnare da un tribunale dinanzi alla Consulta (che peraltro le ha già ritenute costituzionalmente legittime, cancellando parti incostituzionali della Bossi-Fini e dei decreti Maroni). Se non ci riesce, può anche disobbedire, purché lo rivendichi e soprattutto ne accetti le conseguenze. Chi viola platealmente una legge penale sa che verrà indagato e processato, forse anche arrestato. E, quando questo avviene, l’unica cosa che non può fare è stupirsi o scandalizzarsi. Altrimenti quello di Riace diventa un pericoloso precedente: e se domani la magistratura arrestasse un sindaco leghista che ritiene le leggi sull’immigrazione non troppo rigide, ma troppo blande, e provvede personalmente a inasprirle con raid razzisti o atti xenofobi, autoproclamandosi “fuorilegge” e creando una repubblica separata della xenofobia, opposta ma speculare alla repubblica separata dell’accoglienza illegale di Riace? Con quali argomenti chi ora grida al regime giudiziario di destra potrà contrastare i leghisti che strilleranno al regime autoritario di sinistra? Certi paroloni-boomerang è molto meglio lasciarli a B.&Salvini e concentrarsi semmai sulla battaglia per una legge sull’immigrazione più razionale, che premi finalmente chi viene in Italia per lavorare. Solo così si prevengono casi come quello di Riace. Evitando, fra l’altro, di dar ragione a Leo Longanesi sugli italiani che “pretendono di fare la rivoluzione col permesso dei carabinieri”.

Sindaco Riace, parla Fusaro: “Una spia che fa riflettere il fatto che Saviano lo difenda”. Intervista del 3 ottobre 2018 di Americo Mascarucci su Lospecialegiornale.it. Trasgredire la legge e commettere reati si può quando lo si fa a fin di bene o perché le norme dello Stato non tutelano i più deboli? Seguendo questa linea, nelle ultime ore, tanti esponenti della sinistra e dell’intellighenzia progressista hanno fatto quadrato intorno a Mimmo Lucano, il sindaco di Riace posto ai domiciliari dalla Procura di Locri con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed illeciti nell’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. La Procura nel capo di imputazione pare avesse formulato altre accuse che però il Gip avrebbe respinto, pur confermando i domiciliari per Lucano. Nelle intercettazioni in mano agli inquirenti emergerebbe un modus operandi consolidato, con il sindaco pronto ad infrangere in più occasioni le leggi dello Stato, anche combinando matrimoni fra cittadini di Riace e immigrati, pur di far ottenere diritti agli stranieri. Ma se esistono delle regole, queste non dovrebbero essere comunque rispettate sempre e da tutti? Lo Speciale ne ha parlato con il filosofo Diego Fusaro.

Qual è il primo pensiero che le viene in mente sulla vicenda del sindaco di Riace?

“Non ho elementi per giudicare la vicenda, è necessario attendere gli sviluppi dell’inchiesta e lasciare che sia la magistratura a fare chiarezza sulle accuse mosse nei confronti del sindaco. Un’idea però me la sono fatta, ossia che sotto la categoria nobilitante di immigrazione, accoglienza e integrazione, non sia tutto oro ciò che luccica. Ma questo lo dico da sempre. L’immigrazione è una grande deportazione di esseri umani. il cui fine ultimo è quello di sfruttare nuovi schiavi abbassando il costo del lavoro. Un’arma nelle mani della classe dominante in generale, mentre nel caso specifico di Riace aspettiamo di vedere cosa la magistratura sarà in grado di appurare”.

La narrazione delle ultime ore da parte di Roberto Saviano e della sinistra è quella di un eroe che ha preferito la giustizia alla legalità, che ha infranto regole per fare del bene, che non si è arricchito ma ha aiutato i più deboli. Cosa c’è di sbagliato in questa visione del bene contro il male, della giustizia umana sopra la legge dello Stato?

“Non conosco la vicenda in modo approfondito, fortunatamente nella vita mi occupo di altro. Bisognerà capire ora i capi di imputazione e la loro effettiva consistenza. Certo, se le accuse fossero confermate saremmo in presenza di fatti molto gravi visto che si parla anche di rendicontazioni gonfiate e forse sarebbe opportuno da parte di tutti mantenere un atteggiamento cauto e prudente nel dare giudizi. Fermo restando che, al di là del caso specifico che dovrà essere chiarito e nel quale non intendo entrare, il fatto che immigrazione faccia rima anche con lucro penso sia un dato sempre più assodato”.

Saviano parla del rischio di una deriva autoritaria, ma cosa c’è di autoritario in un provvedimento che la magistratura ha disposto in assoluta autonomia per altro nell’ambito di una dialettica anche accesa pare fra Procura e Gip?

“A Saviano si dà un peso mediatico che non gli andrebbe minimamente riconosciuto. Dal suo attico di New York continua a pontificare portando avanti sempre l’ideale completamento delle classi dominanti che trova fondamento nel suo pensiero. Il suo pensiero è il lato anarchico, libertario di sinistra della globalizzazione liberista e deregolamentatrice di destra. Quindi non lo prenderei troppo sul serio. Il fatto che lui difenda a spada tratta il sindaco di Riace è una spia che forse dovrebbe farci riflettere. Poi è chiaro che la magistratura viene vista in modo diverso a seconda delle situazioni pro o contro certa sinistra buonista. Se l’indagine riguarda gli avversari politici allora i giudici sono bravi e vanno difesi nella loro autonomia ed indipendenza, se la stessa indagine riguarda invece i propri amici allora la magistratura merita di essere denigrata. Ma questo è l’orrendo gioco ideologico della politica”.

Quanto è pericolosa l’idea di un “bene supremo” stabilito dai promotori del pensiero unico, in questo caso l’accoglienza degli immigrati, da anteporre al diritto?

“Questo è un dilemma etico filosofico fondamentale. Socrate rinuncia ad evadere dal carcere per non violare le leggi della sua Patria. Però, che fare e come comportarsi di fronte a leggi che sono valide, efficaci ma ingiuste? Questo è un problema filosofico rilevante. La filosofia medievale lo chiamava Ius Resistentiae ed è una questione che non conosce una giustificazione universale. Va valutato con la phronesis come diceva Aristotele, ovvero con la saggezza e con il sapere pratico che in qualche modo permette di esaminare distintamente caso per caso. Certo, di fronte ad una legge palesemente ingiusta la ribellione non è soltanto giusta ma direi doverosa. Non mi pare però che in questa indagine di Riace vi siano i presupposti per legittimare un diritto alla resistenza”.

Un docente dell’università di Pisa è stato sospeso dal Cern e rischia il posto per aver dichiarato in un documento che “la fisica è stata inventata e costruita dagli uomini”. Questa frase è stata giudicata sessista e naturalmente ha scatenato tanta indignazione. Non è paradossale che mentre ci si scandalizzi per l’arresto di Riace, poi quasi ci si compiaccia se questo docente sarà licenziato? Una frase infelice è più grave che l’ipotesi di aver violato la legge? 

“Avrei voluto non conoscere questa vicenda che ritengo essere l’emblema tragicomico di quello che nel mio libro ho definito ‘l’eroticamente corretto’ che serve da copertura del nuovo ordine erotico mondiale, ossia la versione erotica della globalizzazione dei mercati. Una vicenda che definirei surreale quella di Pisa. Non trovo altre parole per commentarla. Conferma soltanto le tendenze tragiche in atto nella nostra società”.  

Riace. Sicuri che si possa violare la legge «in nome del Bene»? Scrive Leone Grotti il 3 ottobre 2018 su Tempi. Il sindaco Domenico Lucano, paladino dell’accoglienza dei migranti, è stato arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. I giornali lo scagionano con una strana motivazione: ha commesso un reato «a fin di bene». Il sindaco di Riace (Reggio Calabria), Domenico Lucano, è stato arrestato con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento del servizio di raccolta dei rifiuti a due cooperative prive dei requisiti necessari. Se il caso ha fatto tanto scalpore su tutti i giornali locali, nazionali e internazionali è perché Mimmo, come tutti lo chiamano, è diventato un’icona dell’accoglienza dei migranti.

RE DELL’ACCOGLIENZA. L’ex insegnante, al suo terzo mandato come primo cittadino del Comune calabrese (il primo è cominciato nel 2004), è stato esaltato un’infinità di volte dal guru Roberto Saviano, indicato due anni fa dalla rivista Fortune tra le 50 personalità più influenti al mondo, ha ispirato la fiction Tutto il mondo è Paese che andrà in onda sulla Rai ed è stato raccontato al cinema da Wim Wenders nel cortometraggio Il Volo.

MODELLO RIACE. Lucano è diventato famoso per il cosiddetto “modello Riace”: il paese di 1.700 residenti negli anni è arrivato a contarne 6.000, tutti stranieri approdati sulle coste italiane e ospitati nelle case rimaste vuote a causa dello spopolamento. Il sistema era regolarmente finanziato con i fondi statali normalmente destinati ai circuiti Sprar.

MATRIMONI FITTIZI. Mimmo, non solo nelle intercettazioni ma anche nella interviste, si è sempre vantato di «andare contro la legge». Ma che cosa ha fatto perché il gip ordinasse gli arresti domiciliari? Aiutava innanzitutto molti immigrati che non ne avevano diritto a ottenere permesso di soggiorno e cittadinanza italiana, organizzando matrimoni fittizi con residenti del paese. Uno di questi matrimoni è stato celebrato tra la nigeriana Joy e un vecchio riacese. Un altro Lucano lo ha macchinato per assecondare la richiesta della sua compagna etiope, Lemlen Tesfahun (anche lei agli arresti), che voleva sposare suo fratello pur di farlo arrivare in Calabria ma il piano non è riuscito soltanto perché il giovane nel frattempo è stato arrestato per possesso di documenti falsi.

APPALTO FRAUDOLENTO. Oltre ai matrimoni fittizi, è stato contestato al sindaco l’affidamento diretto del servizio di raccolta rifiuti alle due cooperative sociali nate a Riace per dare lavoro ai migranti. Per i magistrati, si tratterebbe di un fraudolento affidamento diretto dell’appalto, disposto in deroga alle norme che obbligano a una gara e a coop non inserite nel registro regionale di settore (requisito previsto dalla legge). Tutte le altre accuse mosse dalla procura, invece, non sono state recepite dal gip.

«CAPITA DI FORZARE LA LEGGE». Davanti a questi fatti, i giornali italiani hanno lanciato una campagna difficilmente comprensibile. Tutti sottolineano che «non c’è dubbio che sia colpevole di questi reati» perché è stato lui stesso ad ammetterli pubblicamente. Soltanto che lo ha fatto «a fin di bene». Il Corriere racconta così che Riace è diventato un «inno alla bontà», una «Repubblica del Bene», dove spiccano i «murales del Bene» con Che Guevara (che era pur sempre un assassino) a braccetto con Peppino Impastato. Sempre sul Corriere, don Gino Rigoldi esalta il sindaco spiegando che «bisognerebbe avere un po’ di morbidezza. Capita di forzare la legge».

LA PREDICA DI SAVIANO. Su Repubblica, Roberto Saviano parla di «peccato di umanità» e per una volta nella sua vita non difende a spada tratta giudici e magistrati, ma li accusa di occuparsi di Riace invece che della ‘ndrangheta. Il guru progressista inneggia al sindaco che «ha fatto politica disobbedendo, l’unica arma che abbiamo per difendere i diritti degli immigrati e di tutti». Mimmo, sottolinea Saviano, non violava la legge «per guadagno personale», cosa che anche il gip sembra confermare, pur denunciando un uso «superficiale» dei fondi pubblici, ma per «umanità». Dunque, dovrebbe essere assolto, non dalla giustizia, ma dal popolo.

GARANTISMO SEMPRE. A parte l’effetto straniante di leggere i commenti garantisti dei peggiori manettari che circolano nelle redazioni e nelle televisioni italiane, l’ex magistrato Carlo Nordio osserva sul Messaggero: «La legge, come sancisce la Costituzione, non è uguale per tutti? Secondo l’accusa, Lucano avrebbe addirittura organizzato nozze di convenienza tra residenti riacesi e straniere. Questo sindaco, come tutti gli indagati, è e deve essere ritenuto presunto innocente ed è doveroso domandarsi se sussistano quelle esigenze che giustificano la limitazione della libertà del destinatario. Nondimeno resta la gravità di un’accusa che, rivolta a chi è investito di cariche pubbliche, assume un connotato di allarmante novità».

IL PERICOLO “UMANITARIO”. Se però, scrive Nordio, «il sindaco si era trasformato in una sorta di sensale di matrimoni di convenienza, la violazione diventa quasi sacrilega, perché strumentalizza un istituto che, anche spogliato della sua essenza religiosa, costituisce pur sempre quel nucleo essenziale sul quale, come recita la Costituzione, è fondata la famiglia. C’è poi anche un’altra novità: qui si dà quasi per scontato che il sindaco Lucano violasse la legge; anzi, qualcuno gliene ha fatto un punto di merito. Perché, si dice, questa disubbidienza civile ubbidisce a uno spirito umanitario. Davanti a questo argomento si potrebbero fare numerose osservazioni: che i criteri cosiddetti umanitari sono spesso generici e soggettivi, che ciò che per Tizio è patriottismo per Caio è tradimento, e che in definitiva, di questo passo, ognuno può invocare a scusante le proprie superstizioni e convenienze, contrabbandandole come sacre convinzioni etiche o religiose fino a dissolvere, in un’indifferenziata omelia indulgenziale, lo stesso stato di diritto».

GIUSTIZIA POPOLARE. C’è anche un altro problema che l’ex procuratore nota in modo molto acuto: «Mentre prima i magistrati correvano il rischio di essere aggrediti dai fanatici, ora rischiano di essere scavalcati da una Giustizia più rapida e più vociferante di quella solennemente o sommessamente pronunziata in tribunale. Oggi, in nome della “disubbidienza civile”, come accade a Riace. Domani, forse, in nome di quella “fraternité” che, come appunto ai tempi di Robespierre, spedì migliaia di disgraziati alla ghigliottina».

Riace, arresto del sindaco Mimmo Lucano "spacca" l’Italia. Salvini, Saviano e il "fascismo" delle idee. Riace, l'arresto del sindaco Mimmo Lucano spacca l'Italia sul tema migranti: tutti pro o contro Salvini, da Saviano ad uno "studente partigiano". Ma si rischia di perdere qualcosa di caro..., scrive il 2 ottobre 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Salvini, Saviano e… sì, dell’infinita querelle tra i due “litiganti” ne abbiamo un po’ tutti le ‘tasche’ piene anche perché non c’è mai un “terzo” che gode. Dopo l’arresto questa mattina del sindaco di Riace - Domenico “Mimmo” Lucano, simbolo del modello di accoglienza migranti nella cittadina calabrese - proprio per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, era inevitabile che lo scontro tra il Ministro e lo Scrittore si riaccendesse e sempre sugli stessi “canali” di scontro. «Arrestato il sindaco di #Riace per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Accidenti, chissà cosa diranno adesso Saviano e tutti i buonisti che vorrebbero riempire l’Italia di immigrati! Io vado avanti», provoca per primo Salvini, cui segue a ruota un lunghissimo post dello scrittore partenopeo che pressapoco riassumeremmo così «La motivazione è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La verità è che nelle azioni di Mimmo Lucano non c’è mai finalità di lucro, ma disobbedienza civile. Disobbedienza civile: questa è l’unica arma che abbiamo per difendere non solo i diritti degli immigrati, ma i diritti di tutti. Perché tutti abbiamo il diritto di vivere una condizione di pace sociale, tutti abbiamo il diritto di vivere senza cercare colpevoli, e se il Ministro della Mala Vita, Matteo Salvini, ha subito individuato in Mimmo Lucano un nemico da abbattere». Apriti cielo, un’Italia nuovamente divisa tra i pro e i contro Salvini, un po’ come già successo in passato con Berlusconi ma forse questa volta con un’acredine e una violenza assai maggiore. Il Ministro spesso “provoca” sui social, lo Scrittore molto più spesso si getta in invettive che già di per loro sarebbero a rischio denuncia (“Ministro della Mala Vita”, “ti ecciti con i bambini morti in mare”, “disobbedienza civile” e così via). Un Paese diviso che però troppo spesso ormai prende a pretesto il fascismo come “spiegazione” d’ogni cosa: o Salvini è un “pericoloso fascista” o sono “fascisti” i modi e le idee di chi si pone l’obiettivo di contrastare il leader leghista con ogni mezzo più o meno lecito. Un esempio inquietante? Prendete uno dei milioni di followers che ha voluto rispondere al post odierno di Salvini sul sindaco di Riace: si chiama Tommaso, è uno studente di un liceo romano, e scrive così «Quando ti arresteremo noi voglio vedere… viaggio di sola andata capitano. Destinazione piazzale Loreto». Alcuni lo lodano e lo incensano a “simbolo di disobbedienza civile”, altri si riversano contro di lui e lo segnalano a Instagram, salvo poi ricevere la risposta del ragazzo «a tutti i fenomeni che mi hanno segnalato forse non sanno che il server di Instagram è in California probabilmente non sanno nemmeno cosa sia Piazzale Loreto». Piazzale Loreto, ovvero il luogo dove la massa “partigiana” ha appeso a testa in giù il duce Mussolini a fine guerra mondiale, viene ormai ogni giorno “affibbiato” a seconda dell’interesse e della convenienza, dai politici fino ai liceali che "pensano" di fare la "rivoluzione". Ma non si rischia di esagerare e di perdere l’unico vero alleato che giornalisti, scrittori, politici etc dovrebbero avere come unica stella polare, ovvero la realtà? Il giornalista Nicola Porro, forse più di tutti, ha esemplificato in pochissime battute (non sempre servono “omelie” di 300 righe per farsi capire) il concetto sul caso del giorno: «Sindaco Riace, ora s’inventano “il fuorilegge onesto”. Se i magistrati arrestano il sindaco di Riace, per Saviano, si avvicina il regime, se invece indagano il ministro degli interni tutto ok. Maddai. "Mimmo è sindaco in una terra di narcotraffico e di sangue, eppure il problema in Calabria sembra essere solo l'immigrazione. Davvero ci credete. L'uso politico di questa inchiesta giudiziaria è il primo passo verso uno stato autoritario. Non bisogna avere paura, ma resistere". ».

Arrestato il sindaco di Riace, l'alibi buonista per assolvere il reato, scrive Mercoledì 3 Ottobre 2018 Carlo Nordio su "Il Messaggero". Nutriti di illuminismo democratico, i membri del Tribunale Rivoluzionario, ai tempi di Robespierre in Francia, facevano trionfare l'uguaglianza giudicando nobili e proletari con la medesima severità. Escludere il popolo dal supplizio sarebbe stata un'arrogante insolenza verso i più deboli, come se questi ultimi fossero indegni del supplizio. «Riservata ai soli aristocratici - scriveva Anatole France - la ghigliottina sarebbe apparsa come un iniquo privilegio». Forse i giacobini esageravano nella mistica democratica: comunque ci hanno lasciato una modesta eredità, cioè l'affermazione che tutti sono uguali davanti alla legge. Ovverosia, come è scritto in ogni sala di udienze, che la legge è uguale per tutti. Questo principio (che secondo alcuni è un pregiudizio ingannevole) è sancito oggi nella nostra Costituzione. Nondimeno esso è soggetto a una serie crescente di interpretazioni, eccezioni, integrazioni e commenti, da rischiar di perdere il suo stesso significato. In pratica, ognuno si avvia ad intendere la legge come meglio gli pare. Come accade oggi per il sindaco di Riace, Domenico Lucano, arrestato per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Secondo l'accusa, avrebbe addirittura organizzato nozze di convenienza tra residenti riacesi e straniere. Questo sindaco, come tutti gli indagati, è e deve essere ritenuto presunto innocente. Non solo. Il provvedimento cautelare che lo ha colpito è provvisorio e soggetto a impugnazione, e, come tutte le decisioni della magistratura, può benissimo, con il dovuto rispetto e le dovute forme, essere criticato. Per esempio è doveroso domandarsi se sussistano quelle esigenze che giustificano la limitazione della libertà del destinatario. Nondimeno resta la gravità di un'accusa che, rivolta a chi è investito di cariche pubbliche, assume un connotato di allarmante novità. Se chi è incaricato di far rispettare le leggi ostenta una disubbidienza civile in nome di valutazioni morali, questa ribellione diventa intollerabile, perché invita i cittadini a un'anarchia che nessun malinteso etico può giustificare, e che potrebbe risolversi nei saccheggio dei supermercati con la scusa di sfamare gli indigenti. Se infine, come pare, il sindaco si era trasformato in una sorta di sensale di matrimoni di convenienza, la violazione diventa quasi sacrilega, perché strumentalizza un istituto che, anche spogliato della sua essenza religiosa, costituisce pur sempre quel nucleo essenziale sul quale, come recita la Costituzione, è fondata la famiglia. C'è poi anche un'altra novità: che mentre negli analoghi casi precedenti i politici inquisiti lamentavano l'inconsistenza delle prove, i complotti delle toghe e la fumosità di teoremi precostituiti, qui non accade nulla di simile. Qui si dà quasi per scontato che il sindaco Lucano violasse la legge; anzi, qualcuno gliene ha fatto un punto di merito. Perché, si dice, questa disubbidienza civile ubbidisce a uno spirito umanitario. Davanti a questo argomento, che rievoca la nobile ribellione di Antigone contro le leggi del tiranno, si potrebbero fare numerose osservazioni: che i criteri cosiddetti umanitari sono spesso generici e soggettivi, che ciò che per Tizio è patriottismo per Caio è tradimento, e che in definitiva, di questo passo, ognuno può invocare a scusante le proprie superstizioni e convenienze, contrabbandandole come sacre convinzioni etiche o religiose fino a dissolvere, in un' indifferenziata omelia indulgenziale, lo stesso stato di diritto. Ma queste sono considerazioni abbastanza banali. Quello che invece banale non è, è l'atteggiamento che si sta consolidando verso qualsiasi indagine giudiziaria dove - al di là, ripetiamolo, delle legittime critiche - si afferma una sorta di verità parallela e quasi virtuale ispirata ora dall'ignoranza, ora dalla malafede, e quasi sempre dalla supina adesione ai più ottusi luoghi comuni. Un atteggiamento, questo, molto più pericoloso di quella delegittimazione lamentata, talvolta con isterica petulanza dalla stessa magistratura quando veniva (o viene) accusata di politicizzazione persecutoria. Perché qui si tratta di un vero e proprio esautoramento, cioè di una rimozione di fatto della funzione giudiziaria a favore di una ricostruzione degli eventi fondata sulla propaganda e sulla fantasia. In altre parole, mentre prima i magistrati correvano il rischio di essere aggrediti dai fanatici, ora rischiano di essere scavalcati da una Giustizia più rapida e più vociferante di quella solennemente o sommessamente pronunziata in tribunale. Oggi, in nome della disubbidienza civile, come accade a Riace. Domani, forse, in nome di quella fraternité che, come appunto ai tempi di Robespierre, spedì migliaia di disgraziati alla ghigliottina.

Mimmo Lucano non c’entra nulla col business dell’immigrazione (e voi ci siete cascati ancora). Sette capi d’imputazione rigettati, niente corruzione, niente truffe, niente abuso d’ufficio, niente arricchimento personale: questa è la realtà, a proposito del sindaco di Riace. Tutto il resto, è propaganda e fake news, scrive Giulio Cavalli il 3 Ottobre 2018 su “L’Inkiesta”. Se qualcuno stamattina al bar oppure in treno vi ha detto che il buonista Mimmo Lucano, sindaco di Riace, è stato arrestato perché lucrava sull’accoglienza potete invitarlo ad accomodarsi in scioltezza nella folta schiera dei bufalari e degli abbindolati dalle notizie false. Prendetelo per il colletto e spiegategli che sono ben sette le accuse rigettate dal gip di Locri Domenico Di Croce che riferendosi all’associazione a delinquere, alla truffa aggravata, al falso in corrruzione, all’abuso d’ufficio e alla malversazione ha criticato gli “errori grossolani” (testuale) nell’operato di magistrati e di investigatori e che addirittura scrive (ad esempio sull’accusa di turbativa nei procedimenti di assegnazione dei servizi d’accoglienza) di accuse talmente "vaghe e generiche" da rendere il capo d'imputazione "inidoneo a rappresentare" una contestazione "alla quale ‘agganciare' un qualsivoglia procedimento custodiale”. E non è tutto. Scrive il giudice per le indagini preliminari: “pur volendo ipotizzare che fosse intenzione degli inquirenti rimproverare agli indagati l'affidamento diretto dei servizi […] il mero riferimento a 'collusioni' ed 'altri mezzi fraudolenti' che avrebbero condotto alla perpetrazione dell'illecito si risolve in una formula vuota”. Ma non solo. Il GIP scrive che gli inquirenti "sembrano incorsi in un errore tanto grossolano da pregiudicare irrimediabilmente la validità dell'assunto accusatorio”. E poi: "gran parte delle conclusioni a cui giungono gli inquirenti scrive il GIP - appaiono o indimostrabili" o "presuntive e congetturali" o, infine, "sfornite di precisi riscontri estrinseci”. Non vi basta? Allora sentite cosa scrive il giudice sull’accusa a Lucano per corruzione, che avrebbe dovuto essere la più pesante della sfilza: "gli inquirenti non hanno approfondito con la dovuta ed opportuna attenzione l'ipotesi investigativa". Il giudice riscontra "assoluta carenza di riscontri estrinseci" ed inoltre la persona che denuncia Lucano di minacce che l’avrebbero costretto ad emettere fatture false "è persona tutt'altro che attendibile”. Quindi di cosa è accusato esattamente Mimmo Lucano? Di avere organizzato con l’aiuto della sua compagna un “matrimonio di comodo” per permettere a una ragazza nigeriana di ottenere i documenti per rimanere in Italia e avere forzato la procedura di assegnazione del servizio di raccolta dei rifiuti per affidarlo alle cooperative nate a Riace, le stesse che danno lavoro a migranti e riacesi. Badate bene: in nessuno dei due casi, qualcuno si è illegittimamente arricchito. Quindi di cosa è accusato esattamente Mimmo Lucano? Sostanzialmente le accuse rimaste in piedi sono due: avere organizzato con l’aiuto della sua compagna un “matrimonio di comodo” per permettere a una ragazza nigeriana di ottenere i documenti per rimanere in Italia - “questi ti rispediscono lì” spiega il sindaco - e avere forzato la procedura di assegnazione del servizio di raccolta dei rifiuti per affidarlo alle cooperative nate a Riace, le stesse che danno lavoro a migranti e riacesi. Badate bene: in nessuno dei due cari, qualcuno, sindaco compreso, si è illegittimamente arricchito. Se la situazione vi pare così grave da giustificare l’esultanza di un ministro dell’interno nell’eterno ruolo di ceffo oppure il delirante post del sottosegretario grillino Carlo Sibilia in cui scrive di business illegale dell’accoglienza allora rileggetevi l’articolo cominciando dall’inizio; se invece avete la sensazione di trovarvi di fronte a un sindaco consapevolmente al limite della legge e piuttosto spregiudicato nelle sue azioni per opporsi a una legislazione che ritiene ingiusta allora cominciamo a discutere di questo: «proprio per disattende queste leggi balorde vado contro la legge», dice Mimmo Lucano ai suoi discutendo della carta d’identità che potrebbe evitare il rimpatrio a una ragazza nigeriana. Lucano sa perfettamente che le sue azioni - e la sua disinvoltura che probabilmente è sfociata nel mancato rispetto delle norme, sarà un tribunale a deciderlo - sono oggetto di indagine da mesi: la sua ribellione civile alla legge Bossi-Fini e agli ultimi ministri dell’interno (Minniti prima, ora Salvini) è il naturale risultato del suo lavoro. Può piacere o non può piacere, potrà essere giudicato un reato (di una legge che Lucano considera iniqua) ma non ha niente a che vedere con l’arricchimento personale e tantomeno con il business dell’accoglienza. Così come Antigone violò consapevolmente “la legge degli uomini” per rispettare le leggi “non scritte e incrollabili” oggi Mimmo Lucano continuerà a rivendicare il diritto di essere solidali con gli ultimi resi ultimi da leggi e burocrazie inique e velatamente razziste. Una cosa è certa: non è Mimmo Lucano lo scandalo che qualcuno si aspettava per scoperchiare il business dell’immigrazione. Ma di sicuro il business dei cretini galoppa a grandi falcate macinando grossi numeri. E intanto anche oggi del DEF o delle leggi che mancano se ne riesce a riparlare domani.

Sindaco di Riace, il pm: se fallisce il modello non è colpa nostra. Sindaco sospeso da prefettura, le funzioni di Lucano passano al vicesindaco Giuseppe Gervasi, scrive il 3 ottobre 2018 Rai News. "La nostra inchiesta non ha rappresentato un attacco al modello Riace. Se il modello Riace dovesse fallire, non sarà colpa certo della Procura di Locri". Lo ha detto il procuratore di Locri Luigi D'Alessio. "Noi - ha aggiunto - abbiamo ravvisato delle ipotesi di reato e quindi, procedendo, abbiamo fatto il nostro dovere. Stiamo, comunque, preparando il ricorso al Tribunale del riesame, che depositeremo nei prossimi giorni" ha concluso riferendosi ai rilievi mossi dal Gip nella sua ordinanza. Per il sindaco domani interrogatorio di garanzia dal Gip Intanto, è in programma domattina, davanti al gip di Locri, l'interrogatorio di garanzia del sindaco di Riace Domenico Lucano. Per Lucano sarà l'occasione per rispondere alle accuse mosse dalla Procura di Locri che ne ha richiesto l'arresto. L'interrogatorio si terrà dinnanzi al gip di Locri, Domenico Di Croce, che ha emesso l'ordinanza cautelare. L'accusa sarà rappresentata dal sostituto della Procura di Locri, Michele Permunian. Magistratura democratica pubblica l'ordinanza Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, ha pubblicato sulla propria rivista 'Questione giustizia' accessibile a tutti on-line, l'ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari di Locri ha applicato al sindaco di Riace Mimmo Lucano gli arresti. Md spiega così le ragioni della propria decisione: "Crediamo che la lettura dell'ordinanza sia il miglior antidoto alla grancassa della speculazione che si è messa subito in moto, con il Ministro dell'interno a chiedere 'cosa diranno adesso Saviano e tutti i buonisti che vorrebbero riempire l'Italia di immigrati' e con il blog ufficiale di una delle due forze di Governo a decretare 'finita l'era del business dell'immigrazione'". Il fratello del sindaco: "Oggi è più sereno, ha visto che non è solo" "Mi hanno messo agli arresti per un reato di umanità". Così il sindaco di Riace Domenico Lucano, parlando con il fratello Giuseppe, ha commentato il suo arresto. "È sorpreso, amareggiato e anche un po' arrabbiato - ha detto Giuseppe all'Ansa - per alcune cose viste nell'ordinanza, anche se il gip le ha rigettate. Comunque è fiducioso, si sente di non avere compiuto nulla di particolare che potesse giustificare una limitazione della sua libertà. Comunque oggi è più sereno, ha visto che non è solo". "Mio fratello è provato, è da 20 anni che dà l'anima per questo progetto, da quando sono sbarcati i primi curdi nel 1998. Ha dato anche lavoro alle persone del paese, ha fatto accoglienza e contemporaneamente ha creato uno sviluppo dell'economia locale. Il paese stava morendo. E alla fine, dice, 'vengo ripagato in questo modo'. Lui capisce benissimo che è come colpire un simbolo nel contesto di quello che avviene adesso in Italia, il vento che spira impetuoso". Queste ancora le parole del fratello del sindaco, Giuseppe Lucano. "Sono stato colpito - ha aggiunto - dalla solidarietà che mio fratello ha ricevuto da tutta Italia. Comunque lui resta fiducioso. Intanto sono cadute le accuse più gravi, sono rimasti due reati. Su quello delle cooperative ha fatto in modo di dare l'incarico a una coop del paese, gestita da un immigrato e da una persona di sua fiducia proprio per evitare intromissioni conosciute nell'ambito della Locride". Lucano sospeso dalla carica di sindaco La Prefettura di Reggio Calabria ha sospeso il sindaco di Riace, Domenico Lucano, arrestato ieri dalla Guardia di Finanza nell'ambito dell'operazione Xenia. Lucano, ai domiciliari su ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Locri su richiesta della Procura di Locri, è accusato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta rifiuti. Il sindaco, in ottemperanza a quanto disposto dalla legge, è stato sospeso. La notifica della prefettura di Reggio Calabria è stata consegnata in Comune oggi: le funzioni di Lucano passano al vicesindaco Giuseppe Gervasi.

"Accuse inutilizzabili", ma non lo erano. Svarione del gip salva il sindaco di Riace. L'arresto viene così evitato nonostante le dichiarazioni di un reo confesso, scrive Luca Fazzo, Giovedì 04/10/2018, su "Il Giornale". Procura cattiva, magari anche un po' razzista; e giudice garantista. All'indomani dell'arresto di Domenico Lucano, il sindaco di Riace divenuto icona dell'accoglienza, la narrazione che circola tra i fan del primo cittadino è più o meno questa. Perché è ben vero che il giudice Domenico Di Croce ha messo Lucano agli arresti per due capi d'accusa, ma ne ha respinti altri sei, spesso maltrattando nelle motivazioni il lavoro degli inquirenti: l'indagine sul sindaco, in sintesi, sarebbe stata fatta male, superficialmente: e questo inevitabilmente rafforza chi vede nell'inchiesta su Lucano l'ombra della persecuzione. La lettura attenta delle carte dice un'altra cosa. L'analisi dei sei punti che vedono giudice e pm in disaccordo (sulla gravità delle prove per la turbativa d'asta e l'immigrazione clandestina sono tutti d'accordo) racconta che su alcuni elementi la Procura non sembra avere in mano granchè, e che su altri è invece il gip ad usare nei confronti di Lucano la mano decisamente morbida. Ma quello che salta agli occhi è che in due passaggi il giudice, per scagionare il sindaco, commette un errore giuridico marchiano: tanto da rendere assai probabile che il ricorso che domani la Procura depositerà al Tribunale del riesame chiedendo l'inasprimento dell'ordinanza abbia successo. Si tratta dei passaggi in cui il giudice valuta le accuse di concussione e malversazione mosse a Lucano: la prima, in particolare, è la più grave di tutte, perché può portare a una condanna fino a dodici anni e alla decadenza dalla carica. L'accusa è basata sulle dichiarazioni di Francesco Ruga, un negoziante che nel dicembre 2016 dice di essere stato ricattato dal sindaco e da Ferdinando Capone, presidente dell'associazione Città Futura (controllata, secondo la Procura, dallo stesso sindaco). I due avrebbero preteso da lui l'emissione di fatture per migliaia di euro per l'acquisto di prodotti per l'igiene in realtà mai acquistati, minacciando in caso contrario di sospendere il rimborso dei bonus che gli immigrati spendono nel suo negozio. Ebbene, secondo il giudice, le dichiarazioni di Raga sono inutilizzabili perché l'uomo fu interrogato senza avvocato, nonostante stesse confessando di avere lui stesso commesso un reato, ovvero l'emissione di scontrini fasulli. Ma - come ribatte la Procura - l'assenza di un avvocato rende nulle quelle confessioni solo nella parte a carico dello stesso Raga, mentre possono essere pienamente utilizzabili contro altri accusati. E lo stesso accade quando viene interrogato senza avvocato Renzo Valillà, rappresentante di una cooperativa, che accusa il sindaco di avere preteso dalla coop il finanziamento dei concerti estivi. Neanche quel verbale, secondo il giudice, può essere usato contro il sindaco: che anche se «dalle intercettazioni emerge quanto meno il tentativo di ottenere una serie di finanziamenti dai suddetti enti privati», per questa accusa non viene arrestato. In altri passaggi, la linea del giudice appare più solida: l'imputazione di truffa, per avere pagato una impresa che doveva pulire le spiagge e non lo faceva, dalle carte appare effettivamente evanescente. Per capire chi puliva davvero gli arenili, scrive il giudice, sarebbe bastato mandare una pattuglia della Finanza. Anche la prima accusa dell'elenco, la truffa allo Stato per i finanziamenti alle strutture d'accoglienza, probabilmente aveva bisogno di elementi più stringenti per giustificare una richiesta di arresto. Ma per altre accuse mosse a Lucano il gip sembra elaborare lui stesso la linea difensiva: per i falsi ideologici contestati al sindaco, che certificava a pioggia le richieste di rimborso garantendo di averle controllate, Lucano per il giudice è vittima di un «copia-e-incolla» a sua insaputa effettuato da chissà chi; e il «turbamento e le angustie» che Lucano nelle intercettazioni mostra sulla gestione dei fondi «non sembrano però derivare dall'avere distratto gli ingenti importi di cui sopra» ma dalla «assurdità di un sistema normativo e contabile». Intanto, dagli arresti domiciliari, arriva la voce di Lucano attraverso il fratello Giuseppe: «Sono agli arresti per un reato di umanità», dice il sindaco. Che si definisce «sorpreso, amareggiato e anche un po' arrabbiato».

"Lucano voleva il potere, si sentiva un Padreterno. E i fondi spostati ci sono". Il procuratore di Locri: "Abbiamo il dovere di perseguire i reati. Le prove? Vastissime", scrive Chiara Giannini, Giovedì 04/10/2018, su "Il Giornale". La sinistra che osanna il modello Riace è tutta contro di lui: il procuratore di Locri, Luigi D'Alessio, l'uomo che ha avuto il coraggio di far arrestare il sindaco Mimmo Lucano. Ma lui non ha paura ed è pronto a far valere i risultati della sua inchiesta.

Procuratore, il Gip ha smontato parte di ciò che lei sostiene. È sicuro che le indagini su basino su fatti importanti?

«La portata probatoria era vastissima, la richiesta di circa un migliaio di pagine. Io non so se il giudice sia rimasto schiacciato dalla quantità e non abbia esaminato completamente il materiale. Poi può essere anche che ci sbagliamo noi, la dialettica va rispettata. Ma impugneremo il provvedimento del giudice, rappresentando al tribunale del riesame tutto gli aspetti che il giudice non ha valutato. Non credo che un anno e mezzo di indagini condotte con acquisizione di materiali documentale, di deposizioni, possa essere ritenuta così, brutalmente superficiale. Né noi avevamo alcuna volontà di perseguitare o perseguire qualcuno se non vi fossero stati gli elementi da noi ritenuti idonei».

Indagare Lucano non è quindi una scelta politica, ma basata su fatti concreti, giusto?

«Ma non scherziamo neppure. Non so se strumentalmente o no, si fa confusione tra il progetto e la persona che quel progetto porta avanti. Noi abbiamo il dovere di perseguire reati e se nel portare avanti questo progetto una persona commette dei reati, la Costituzione ci impone di perseguire quella persona. Il colpevole eventualmente è Lucano non la Procura che lo persegue per questo».

Perché in Italia è sempre colpa della magistratura, quando si arresta qualcuno?

«Credo sia il destino delle azioni giudiziarie. Abbiamo il dovere di andare avanti per la nostra strada quando crediamo nell'efficacia di quello che facciamo. Noi abbiamo semplicemente il dovere di perseguire reati nella consapevolezza che ci si può anche sbagliare, non siamo Padreterni, ma non lo è neppure Lucano che probabilmente si è ritenuto una specie di monarca di Riace nel momento in cui, pur essendo sindaco, ha pensato di fregarsene delle leggi e fare quello che gli pareva».

Che può dire della parte economica del provvedimento?

«Vi sono delle responsabilità contabili, di cui si occuperà probabilmente la Corte dei conti. Se tu prendi dei soldi dallo Stato, che tu dovresti rappresentare, e non fai la rendicontazione di come li spendi, hai una responsabilità contabile. Vi è poi una serie di elementi che riteniamo aver acquisito riguardo alla distrazione di fondi che non sono rendicontati e giustificati da alcunché e da fatture per operazioni inesistenti che a nostro avviso ci inducono a ritenere che lui abbia distratto».

Ma si è intascato soldi?

«A noi non interessa tanto se se li sia intascati, li abbia affidati a qualcuno o li abbia utilizzati per altri scopi. Potrebbe anche solo essere questione non economica, ma di prestigio personale, di acquisizione di potere all'interno del Comune».

Saviano, la Boldrini, Lerner e altri, però, lo difendono. Che vorrebbe dire loro?

«Di non commettere l'errore di individuare nell'eroe Lucano quella che è la rappresentanza di un progetto. Perché se crolla poi l'eroe dal piedistallo crolla anche chi vi si è aggrappato addosso».

Avete appurato legami con la criminalità locale?

«Se avessimo avuto il sospetto di legami di stampo mafioso avremmo passato tutto alla Dda».

IN MIGLIAIA A SOSTEGNO DI MIMMO LUCANO? Scrive il 6 ottobre 2018 Strill. Mimmo Lucano si è affacciato dalla finestra di casa sua e li ha saluti.  Erano tanti, colorati e vogliosi di esprimere la loro solidarietà al Sindaco che è andato contro la Legge pur di perorare la causa del suo Modello Riace. Le stime parlano di 3000 persone.

Perlopiù immigrati e comunisti. Molti venuto da lontano. Tenuto conto che Riace ha 3.300 abitanti circa, pochi erano i riacesi alla manifestazione, se non i comunisti locali.

Da Napoli a Riace: "Liberate Mimmo Lucano". Dal capoluogo campano sono partite oltre 200 persone per manifestare solidarietà al sindaco finito ai domiciliari, scrive Anna Laura De Rosa il 6 ottobre 2018 su "La Repubblica". "Emozioni, abbracci, parole. Oggi in piazza a Riace c'era la sinistra vera". Giornata intensa per oltre duecento persone che a bordo di bus e auto sono partite dal capoluogo campano e hanno partecipato alla manifestazione di solidarietà per Mimmo Lucano, il sindaco finito agli arresti domiciliari per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e abuso d'ufficio. Ivo Poggiani, presidente della terza municipalità, mostra la foto di Lucano con il pugno alzato alla finestra: "E' stato bello vedere un'adesione spontanea. Al corteo c'erano migliaia di persone partite anche da sole per essere a Riace: non grandi striscioni dietro cui marciare ma ideali comuni da sostenere". Poggiani non rinuncia ad accennare una polemica: "Che fine ha fatto il Pd? Mi sarei aspettato la presenza di esponenti del partito". Da Napoli sono partiti due autobus, uno di Insurgencia con a bordo la consigliera comunale Eleonora De Maio, l'altro di Potere al Popolo. A Riace anche l'assessore Enrico Panini in rappresentanza del Comune. "C'era molto Sud - dice De Maio - il paesino ha accolto migliaia di persone per liberare il suo sindaco ed è stato bello vedere il villaggio del modello Riace dove lavoravano i migranti. Ce ne erano tanti, soprattutto donne nigeriane con bambini". "E' inaccettabile - aggiunge Davide Dioguardi - che chi crea accoglienza come Lucqano sia agli arresti domiciliari. La giornata ci ha restituito un po' di ossigeno in un Paese imbarbarito dall'odio della Lega, hanno sfilato tutte le anime dei movimenti in un'unica piazza per chiedere la liberazione di Mimmo, una bella dimostrazione di forza che ricorda che c'è un fronte di opposizione al governo". Dallo staff dell'amministrazione anche Alessandro Di Rienzo: "Era una manifestazione autoconvocata, molte persone in piazza hanno conosciuto il villaggio globale ristrutturato e ripopolato dai migranti che fornisce un indirizzo politico per recuperare le attività produttive nel Paese e creare sinergie tra giovani e anziani".

Riace, corteo sotto casa di Mimmo Lucano intona "Bella Ciao": il sindaco saluta col pugno chiuso. In migliaia hanno manifestato a Riace in solidarietà con il sindaco indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, scrive Franco Grilli, Sabato 06/10/2018 su "Il Giornale". "Lucano non si arresta, Riace libera". Urlando questo slogan, in migliaia hanno manifestato quest’oggi, sotto la pioggia, in solidarietà con Mimmo Lucano. Il sindaco di Riace è agli arresti domiciliari con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Un’accusa che pone più di un dubbio sul modello tanto decantato di accoglienza e integrazione della cittadina calabrese. La dimostrazione di oggi ha raccolto una buona partecipazione, di italiani e di immigrati: in piazza e nelle strade – fin sotto casa del primo cittadino – si sono viste bandiere della pace e anche della Cgil. E anche Laura Boldrini. Arrivati fin sotto l’abitazione del sindaco Lucano, le persone in corteo hanno iniziato a intonare "Bella ciao". E allora Mimmo Lucano, già affacciato alla finestra, ha risposto commosso al canto della sua folla, alzando il pugno chiuso della mano sinistra. Gesto inequivocabile.

Il commento di Salvini. L’evento di oggi pomeriggio non è sfuggito all’attenzione di Matteo Salvini, che ha lanciato una frecciatina sia all’Associazione Nazionale Magistrati che al Quirinale. Ecco, infatti, le parole del responsabile del Viminale: "Qualche migliaio di persone di sinistra (tra cui Laura Boldrini) ha manifestato solidarietà al sindaco di Riace, finito ai domiciliari con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Quando scoppiò il caso Diciotti, l'Anm difese il pm tuonando "basta interferenze", mentre Mattarella ricordò che "nessuno è al di sopra della legge". Ora diranno le stesse cose?".

Riace, il sindaco saluta con il pugno chiuso. E Salvini invoca il Colle. Manifestazione sotto casa del primo cittadino agli arresti. Il ministro: "Mattarella tace?", scrive Luca Fazzo, Domenica 07/10/2018, su "Il Giornale". Se avesse detto anche un semplice ciao, avrebbe rischiato grosso, visto che essendo agli arresti domiciliari non può incontrare nessuno tranne i familiari e i difensori. Così Domenico Lucano, sindaco di Riace, si è limitato ad affacciarsi al balcone, a salutare col pugno chiuso le migliaia di persone che gli sfilavano sotto casa, e ad incassare la manifestazione di solidarietà organizzata da una lunga lista di sigle, con nelle prime file l'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Un appoggio che però non modifica la situazione processuale del sindaco, che anzi potrebbe a breve aggravarsi: la prossima settimana il tribunale del Riesame di Locri dovrebbe iniziare l'esame del ricorso della Procura, che punta ad estendere ad altre imputazioni l'ordinanza di custodia spiccata contro il primo cittadino. Alle accuse di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina potrebbero aggiungersi, se la richiesta venisse accolta, quelle di concussione e malversazione. Allo stato, Lucano sembra davanti ad una scelta difficile: rivendicare il proprio operato, ammettendo di avere violato la legge, e sostenendo di averlo fatto a fini umanitari; o difendersi nel concreto dalle accuse che gli vengono mosse, cercando di dimostrare la propria innocenza. Non è una scelta semplice. A margine del corteo di ieri c'era chi, come don Ennio Stamile, coordinatore regionale di Libera, imboccava a nome del sindaco risolutamente la prima strada: «La coscienza impone anche che si può disobbedire ad alcune norme». Ma non è detto che Lucano condivida questa impostazione, magari coraggiosa ma processualmente quasi suicida: anche perché al sindaco non viene contestata la violazione solo della legge sull'immigrazione, ma anche di norme di criminalità comune previste dal codice penale contro le quali ben difficilmente potrebbe invocare il diritto all'«obiezione di coscienza» di cui parla ieri il sacerdote. Più cautamente, infatti, Laura Boldrini si dichiara «fiduciosa che Lucano saprà dimostrare la sua totale estraneità alle accuse». Dalle carte dell'indagine, peraltro, si apprende che Lucano si era reso conto di muoversi sul crinale dell'illegalità, tanto che il 15 settembre dello scorso anno presentò un'istanza in Procura chiedendo di sapere se il suo nome era stato iscritto nel registro degli indagati. L'iscrizione era effettivamente avvenuta già dal maggio dell'anno precedente, anche se solo per il reato di abuso d'ufficio: ma il pm Vincenzo Toscano, «per impedire il pericolo di inquinamento probatorio», dispose che al sindaco si rispondesse: «non risultano iscrizioni suscettibili di comunicazione». Nel frattempo il corteo di Riace solleva le ironie del ministro dell'Interno Matteo Salvini, che traccia un parallelo tra le contestazioni subite dalla Procura di Locri per avere arrestato Lucano, e la vicenda della nave Diciotti, per la quale egli stesso ricevette un avviso di garanzia dalla Procura di Catania. Andò a finire che Salvini criticò la magistratura e questo sollevò le proteste dell'Anm. «Quando scoppiò il caso Diciotti - ricorda ieri Salvini - l'Anm difese il pm tuonando basta interferenze, mentre Mattarella ricordò che nessuno è al di sopra della legge. Ora diranno le stesse cose?».

Riace, Laura Boldrini difende Mimmo Lucano e attacca (ancora) Salvini: "Pensi alla 'Ndrangheta". L’ex presidente della Camera commenta la vicenda del sindaco indagato per favoreggiamento dell’immigrazione. E tira la stoccata al ministro dell’Interno, scrive Franco Grilli, Sabato 06/10/2018, su "Il Giornale". Laura Boldrini scende in campo al fianco di Mimmo Lucano, il sindaco di Riace indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Nel farlo, comunque, non si fa mancare un ennesimo attacco a Matteo Salvini. "Conosco Mimmo Lucano da moltissimi anni, conosco la sua infinità generosità e il suo impegno totale verso gli altri. Andrò a Riace per rinnovare la mia solidarietà al sindaco – sempre nel rispetto del lavoro della magistratura, che do per scontato agisca in modo autonomo e indipendente – perché io sono sicura che Mimmo Lucano saprà dimostrare la sua estraneità ai fatti che gli vengono contestati". La difesa a spada tratta arriva sulle colonne online di FanPage, che ha contattato l’ex presidente della Camera dei deputati per commentare la vicenda giudiziaria che ha travolto la cittadina calabrese e il suo modello di accoglienza e integrazione Un piccolo centro in provincia di Reggio Calabria di cui, peraltro, Laura Boldrini è cittadina onoraria. L’esponente di Liberi e Uguali, dunque, continua: "A Riace si è sperimentato un progetto di accoglienza e integrazione che non solo è andato a vantaggio dei rifugiati, ma è andato anche a ripopolare un borgo che rischiava di rimanere deserto, come accade in moltissime zone del nostro Paese". Poi, ecco l’affondo all’indirizzo del leader della Lega: "Ho trovato gravissimo che il ministro dell'Interno, anch'egli indagato, abbia gioito per l'arresto di Mimmo Lucano. Salvini, che è indagato per sequestro di persona aggravato”. Dunque, aggiunge: “Ci si aspetterebbe che un ministro dell'Interno esultasse per l'arresto del capo di una ‘Ndrina molto pericolosa o magari perché è stata sgominato il sistema della ‘Ndrangheta tutta, che lo faccia perché Mimmo Lucano è ai domiciliari mi sembra veramente una reazione completamente sconsiderata e strumentale".

Caro Saviano, a quando le cavallette? Scrive Andrea Scanzi il 4 ottobre 2018 su Il Fatto Quotidiano. Roberto Saviano ha saputo costruirsi un bel ruolo: quello di “Re dei buoni”. L’ultima tappa della sua crociata è la difesa del sindaco di Riace, anche – e soprattutto – dopo l’arresto. Ad agosto diceva: “Mimmo Lucano è un modello. Ripartiamo da qui per organizzare una nuova Resistenza”. Nell’ordinanza di custodia cautelare, il gip della Procura di Locri – pur escludendo l’arricchimento personale, ed è un aspetto dirimente – parla di un indagato che “vive oltre le regole, che ritiene di poter impunemente violare nell’ottica del ‘fine che giustifica i mezzi’” e di “gestione quantomeno opaca e discutibile dei fondi destinati all’accoglienza di cittadini extracomunitari”. Lucano è descritto cioè come un “soggetto avvezzo a muoversi sul confine (sottile in tali materie) tra lecito e illecito”. E’ evidente che il bravo Lucano ha operato “a fin di bene” conscio del suo essere “fuorilegge” (infatti si autodefiniva così), ma giuridicamente il tema esiste eccome: può un sindaco decidere da solo cosa sia giusto e sbagliato e quali siano le leggi da rispettare e quelle che non lo siano? Lungi dal tradire incertezza o fare autocritica, pratiche a cui Saviano è vagamente allergico, lo scrittore sta invece rilanciando il suo pensiero con intemerate funeree. Ovviamente il primo bersaglio è Salvini, che per Saviano c’entra sempre. L’opposizione al centrodestra è passata negli anni in Italia dal “Piove governo ladro!” al “Piove Salvini ladro!”: un bel passo avanti. Saviano è davvero convinto che Salvini faccia paura e sia una sorta di nuovo Goebbels. Nulla di strano: in tempi di perdurante penuria a sinistra, l’identificazione di un Orco Cattivo può aiutare a serrare le file (quali?) e marciare uniti (come no) verso il Sol dell’Avvenire (ciao core). Saviano sa benissimo che l’inchiesta che riguarda Lucano è scattata nel 2017, quando non era neanche ipotizzabile un Salvini al Viminale. L’attuale ministro dell’Interno è il solito bullo nell’esultare (poveri noi) con un tweet, ma non c’entra nulla con l’arresto. Eppure per Saviano è sempre colpa del “ministro della malavita”, come lo chiama lui, citando malino Gaetano Salveminiche a sua volta parlava di Giovanni Giolitti (e “mala vita” lo scriveva staccato). A scanso di equivoci, ribadisco la mia stima a Saviano e la mia lontananza da Salvini: non ci sarebbe neanche bisogno di specificarlo, ma viviamo tempi intrisi di tifo e dunque stupidi, nei quali se osi cercare una via di mezzo tra la retorica autoassolutoria (ora sincera e ora no) delle magliette rosse e il becero razzismo xenofobo sei de facto bollato come “salviniano” (col cazzo). Purtroppo questa demonizzazione maldestra e in servizio permanente di Salvini rischia di fare proprio il gioco del leader leghista. Saviano non se ne rende conto, ma è da tempo divenuto un testimonial involontario della Lega: più lui pontifica e più il suo nemico cresce. Eppure Saviano va avanti, scomodando perfino Brecht: “Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un dovere”. Detto che quando penso alla Resistenza penso a Fenoglio e non a Mimmo Lucano, brava persona ma “eroe” proprio no, il punto è un altro: chi lo decide quando la giustizia è giusta o ingiusta, Roberto? Tu? E come funziona, di grazia? Che se indagano Salvini la giustizia è buona mentre se arrestano un tuo amico allora è regime? Via, su. Anche sulla santificazione di Lucano, già divenuto “esempio di disobbedienza civile”, mito della sinistra nonché erede di figure nobilmente ribelli come la radicale Adele Faccio, ci andrei cauto. A meno che, pure qui, non sia sempre Saviano a decidere quali siano i carcerati buoni e quali quelli cattivi. Beato lui: mai un dubbio, mai una sfumatura. Da una parte c’è il Bene, cioè Saviano, e dall’altra il Male. Cioè chi non gli va a genio. Una specie di “manicheismo buonista”, che ti fa sentire sempre migliore degli altri. Così: ontologicamente. Saviano ha anche detto che “questa inchiesta è il primo passo verso lo Stato autoritario” e che “l’Italia sta diventando un regime”. Ehilà, addirittura. E quando è prevista l’invasione delle cavallette? Così, giusto per sapere: vorrei organizzarmi bene per l’avvento delle Tenebre. E’ poi confortante che Saviano abbia ritrovato tutta quella (meritoria) veemenza che purtroppo non sempre aveva con Renzi al potere, prima causa del Salvimaio, e quando la ritrovava – Boschi e caso Etruria – Repubblica lo censurava (e lo pubblicava l’Huffington Post). Peccato che il 4 marzo quella veemenza si tradusse in un voto alla Bonino: cioè a Renzi, di cui i radicali (featuring Tabacci) tentarono d’essere un ormai liso specchietto per le allodole, a uso e consumo di quasi-delusi come Serra e Saviano.

C’è poi un ultimo aspetto: i video. Quei video. Sempre quelle pause che in confronto Celentano è Il Mitraglia. Sempre quelle carrettate di retorica. Sempre quei toni da Cassandra in slow motion. Sempre quella recitazione monolitica, sempre quello sguardo lanciato verso l’Armageddon. Sempre quel tono di voce mai modulato, da automa apocalittico in trip da Leopardi che ci tiene a ricordarti che devi morire, come quel buffo tizio che parlava a Troisi (“Sì sì, mo’ me lo segno”). Sempre quell’effetto involontariamente comico, come Anna Marchesini quando parodiava Il giardino dei ciliegi. Ma lei, che era un genio, lo faceva apposta. Sei bravo e coraggioso, caro Roberto. Gomorra è opera meritoria, vivi una vita blindata a cui non resisterei sei secondi e chi ti attacca per la scorta èuna carogna. Se però ogni tanto sottraessi enfasi & bile alle tue reprimende, ci guadagneremmo tutti. Tu per primo. 

Riace, il sindaco famoso e i migranti: cosa pensa la gente, scrive il 6 aprile 2016 calabriamagnifica.it. È davvero emblematico il caso di Domenico Lucano, ignoto in Italia e ripetutamente celebrato all’estero per la sua coraggiosa scelta di integrare i migranti nel paesino di Riace, di cui è sindaco. La rivista americana “Fortune” ha inserito il sindaco di Riace, Domenico Lucano, al 40/mo posto della classifica dei 50 leader più influenti del mondo. Il sindaco Lucano viene inserito nella classifica per il suo impegno nel campo dell’immigrazione. In questo posto i migranti non sono un problema, ma rappresentano la soluzione per uscire dalla crisi. Il Comune di Riace, infatti, ha dato ospitalità, da quando Lucano é sindaco, ad oltre seimila immigrati che, tra l’altro, hanno avviato anche una serie di attività artigianali ed imprenditoriali che hanno determinato la rivitalizzazione del centro della provincia di Reggio Calabria.  Dal 2004, grazie alle politiche di accoglienza del sindaco, il paese e in particolare il centro storico ormai spopolato hanno dato ospitalità a migliaia di richiedenti asilo provenienti da diverse nazioni. Gli immigrati sono stati integrati nel tessuto culturale cittadino e sono stati inseriti nel mondo del lavoro del piccolo borgo. Ciò ha dato alla città di Riace una nuova vita. Nel borgo calabrese si pratica il sistema dell’accoglienza diffusa, con i migranti ospitati in appartamenti indipendenti. Luigi Mussari si è recato in questi giorni nel centro calabrese, per raccogliere testimonianze e per sentire qual è l’umore dei cittadini in merito alla questione “migranti” e “sindaco potente”.

I suoi concittadini hanno affermato che i media censurano sistematicamente le voci contrarie e Mimmo Lucano.

Riace, le Calabrie degne e pensanti sono con Mimmo Lucano, scrive venerdì, 13 ottobre 13 2017 Claudio Dionesalvi su Inviatodanessumo. Non è rimasto solo, il sindaco Mimmo Lucano. Sono arrivati in tanti, dai quattro angoli delle Calabrie e oltre, per testimoniargli una sincera solidarietà. Tra di loro anche molti ragazzi, come quelli dell’IPSIA “Marconi Guarasci” di Cosenza, impegnati con i loro docenti in un progetto POR “Popoli migranti abitanti della memoria”. Centinaia di persone si sono strette intorno a lui, per le strade di Riace. La cittadella che ha richiamato in questi anni la curiosità e l’attenzione del mondo per il suo modello virtuoso di accoglienza ai migranti, ha così rinnovato l’appoggio al primo cittadino indagato dalla procura di Locri per “abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche in relazione alla gestione del sistema di accoglienza”. Sono interni ed esterni i nemici di Mimmo Lucano. Covano odio contro di lui molti compaesani, affetti dal male della gelosia e dell’invidia che in Calabria uccide chiunque provi a costruire qualcosa di positivo. “Picchi’ ha da mangiari sulu iddu”? lo mormorano in tanti, non solo a Riace, ogni qualvolta dalla testa e dalle mani di qualcuno affiorano concreti esempi virtuosi di proficua cooperazione nel lavoro e di vita sociale basata su valori Altri. Fanno finta di non sapere, i suoi nemici, che lui è rimasto povero, non s’è messo in tasca un centesimo, perché per loro quel che conta è accaparrare ciò che possono. Di tutto il resto non gliene frega nulla. Ma provengono anche da fuori Riace i fustigatori del Sindaco. Sono le facce d’ombra del ministero dell’Interno e quelle collaterali alle stanze del Viminale, dislocate nei territori periferici dell’Impero. Come nel romanzo “Q”, essi spiano, verbalizzano, riferiscono ai propri superiori, controllano che nulla sfugga ai tentacoli di una burocrazia beota, perché di essa loro si alimentano, e grazie ad essa, prima ancora che alle manganellate della celere, normalizzano qualsiasi esperienza di dissenso attivo. Per i funzionari della prefettura di Reggio Calabria, Lucano avrebbe speso 638mila euro senza giustificarle. Lui replica che quei soldi sono serviti per quel 30 per cento dei migranti che hanno superato i 6 mesi del periodo massimo di permanenza, e che quindi quel denaro non è sparito nel nulla, è stato normalmente contabilizzato e speso. Ma i progetti SPRAR parlano chiaro: alla scadenza del periodo previsto, anche i migranti scadono e se ne devono andare. Guai a chi disobbedisce. Figuriamoci poi nella legalissima Reggio Calabria, esempio di trasparenza, pulizia ed estraneità a qualsiasi connivenza tra istituzioni e crimine. Il modello costruito da Mimmo Lucano si fonda sul tentativo, in verità non sempre andato a buon fine, di fare in modo che i migranti affondino le radici nei luoghi in cui sono accolti, per ripopolarli, rivitalizzarli, restituirli alla vita. Dunque, dare lunga durata all’accoglienza. Ma il problema, per gli sbirri imperiali, è proprio lì: la lunga durata teorizzata dagli storici annalisti del ‘900, è rivoluzionaria, permette la ricostruzione complessa e realistica della storia, quindi minaccia sia la volatilità del presente sia la sua “liquidità” imperniata sulla “religione dei consumi”. Cose, persone e relazioni devono durare poco, i fotogrammi devono rimanere privi di un contesto, come il frame di Carlo Giuliani contro la camionetta a Genova nel 2001. Guai a ricostruire il prima e il dopo di quell’istante tremendo! Si scorgerebbe la verità. Vietato riprodurre il modello Lucano, dunque. I migranti diverrebbero persone. Non a caso chi lancia accuse contro di lui, brandisce le carte. La burocrazia è nemica degli uomini e delle donne che immergono le proprie mani nelle voragini sociali e si calano nei drammi umani, li vivono a contatto con le vittime delle diseguaglianze sulle quali si basa il sistema in cui viviamo. Il problema è che o compili carte o ti occupi dell’umanità. Non c’è tempo per fare entrambe le cose. A Riace nei luoghi dell’accoglienza lavorano 80 persone, di cui 12 migranti già ospiti dei progetti SPRAR. Gli inquirenti contestano al Sindaco l’affidamento diretto di strutture e mansioni. Incredibile: in Calabria ci sono prefetture che hanno affidato i Centri Accoglienza Straordinaria e le relative risorse agli amici degli amici e a veri e propri avventurieri, quando non le hanno messe nelle mani di delinquenti politici o ‘ndranghetisti. E adesso il problema sono gli affidamenti diretti disposti da Mimmo Lucano! Anche la censura dei rapporti di parentela tra “il personale in organico presso gli enti gestori e i componenti dell’amministrazione comunale” è frutto di un pregiudizio antico. Si rinnova così l’accusa di legami genetici con le mafie, frutto della crudeltà sabauda nell’Italia post-unitaria: voi meridionali in qualche modo siete tutti mafiosi e anche quando non lo siete in modo diretto, sempre parenti loro rimanete. Così sono stati sciolti tantissimi comuni calabresi in questi anni, in base ai rapporti di parentela tra i consiglieri comunali e gli ‘ndranghetisti. Sì, è vero, alcuni meritavano lo scioglimento. Rimane da capire però come si possano estinguere tali legami, senza che questo porti all’estinzione stessa di interi centri urbani che per sopravvivere in questo secolo e mezzo si sono poggiati proprio su reti solidali di tipo familiare.

In realtà c’è una parola che tutti respingono, ma in virtù della quale tutti campano: emergenza. E non sono soltanto i marpioni dell’accoglienza a cavalcarla. Anche le strutture virtuose si alimentano di canali emergenziali. Spesso fingono di non sapere che, così come accadde per i calabresi dell’autunno caldo 1969 nel nord Italia, oggi per i migranti l’unica possibilità di affermarsi come persone non è solo il lavoro o la semplice partecipazione alla vita civile. Una cittadinanza praticabile, per loro come per chiunque, può derivare soprattutto dall’occupazione delle case vuote per conquistare il diritto all’abitare, dalle manifestazioni davanti ai cancelli delle società della distribuzione dove sfruttati lavorano come facchini della logistica. Per il resto, sono chiari i motivi dell’attacco a Mimmo Lucano. In Calabria oggi si può scegliere se essere mafiosi, poliziotti o ignavi. Le uniche attività concesse sono quelle di spiare, essere spiati, comandare, obbedire, appassionarsi alla violenza o chiudersi nel silenzio. Nelle istituzioni come nel sociale, si può solo incarnare la condizione dei burocrati e quella dei benefattori. Devi avere grande confidenza con le carte o manifestare lacrimevole pietà verso i diseredati. Ma se stai nelle istituzioni, mantieni vivo il tuo rapporto col sociale e t’azzardi a rompere pure le scatole e a criticare il potere, ti verranno a prendere, ti schiafferanno in prima pagina. E la tua vita diventerà un tribunale.

Le due verità su Mimmo Lucano. A Locri la Procura ribadisce il quadro accusatorio, a Riace la gente difende il sindaco che "non s'è mai preso un soldo". E lo "sposo" Nazareno giura sul suo matrimonio d'amore, scrive Gabriella Cerami su L'Huffington il 3/10/2018. La procura è lontana da qui e un po' fa paura. A Riace la vita scorre apparentemente diversa dalle carte giudiziarie che accusano il sindaco Mimmo Lucano di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. Qui, in questo paesino della locride, che conta 1700 abitanti di cui 460 sono immigrati, all'ora di pranzo il bar Meeting è pieno. È proprio il punto di incontro di tutti gli abitanti - ci sono ghanesi, etiopi, eritrei - increduli davanti alle immagini tv che ritraggono il proprio sindaco ormai sospeso e agli arresti domiciliari. Entra Nazareno Belcastro, apre il frigo e prende una birra piccola. Lo conoscono tutti, compare nelle indagini tra i "matrimoni combinati" per consentire a Stella di avere i documenti per restare in Italia. Il suo è l'unico matrimonio, tra i tre contestati, che davvero è stato celebrato. È basso, come Lucano lo definisce in un'intercettazione. Scosso, trattiene le lacrime. Nega che il suo sia un matrimonio finto: "Stella accudiva i miei genitori, ci siamo innamorati e sposati il 17 maggio dello scorso anno. Ora è andata a pranzo con i suoi amici del Ghana. Torna stasera. La gente può dire ciò che vuole ma questa è una vicenda politica contro gli immigrati". In mattinata anche Stella è stata in questo bar a bere un caffè. Ancora non ha avuto la cittadinanza italiana perché subito dopo il matrimonio è scoppiata l'inchiesta e nelle intercettazioni viene ascoltato il sindaco di Riace dire all'interlocutore così: "Nazareno, quello basso, lo conosci? Lo ha fatto per umanità per Stella, per aiutarla ad uscire fuori da quest'incubo. Non è vero che è sposata. Nazareno è amico di Stella". A Riace, a 800 metri dal livello del mare, in mezzo a tanti comuni coinvolti in inchieste in cui si parla di 'ndrangheta, è la parola "umanità" che riecheggia in queste giornate di pioggia battente. Anche il sindaco parlando con il fratello Giuseppe che non lo ha lasciato mai solo dice di essere agli arresti domiciliari "per un reato di umanità". E ora il sistema di accoglienza di questo paesino della Locride rischia di sparire nonostante neanche due anni fa il sindaco sia stato scelto dalla rivista Fortune tra i cinquanta leader più influenti al mondo. Il procuratore Luigi D'Alessio nella sua stanza al secondo piano della procura di Locri accoglie i giornalisti con queste parole: "Guardate che non sono de Torquemada", il primo inquisitore spagnolo. E poi ancora: "Lucano si sentiva il re di Riace. Il monarca. C'era una gestione domestica dei soldi, in barba a qualsiasi regola. Improvvida, personalistica, artigianale". È un fiume in piena, parla per quaranta minuti. Il gip Domenico Di Croce solo ieri ha smontato molti capi d'accusa lasciandone in piedi solo due e contestando alla procura "errori grossolani". D'Alessio sostiene che vi siano somme non rendicontate e che il sindaco Lucano facesse una vita al di sopra delle sue possibilità rispetto allo stipendio percepito: "Viaggiava, andavano in giro lui e la compagna", ora allontanata da Riace avendo il divieto di dimora. Sarebbero due milioni di euro, su dieci, i fondi destinati all'immigrazione e non rendicontati ma il procuratore non entra nel dettaglio né nelle carte trasmesse al gip né con i cronisti. Per il momento quindi non si sa come siano state spese queste somme, se sono state o meno destinate ad altro scopo: "Lo dimostreremo in sede di riesame. Noi ipotizziamo che Lucano abbia utilizzato dei soldi in maniera personale. Mancano fatture", dice D'Alessio accusando il gip di non aver osservato una serie di elementi. Segno evidente di una magistratura spaccata. Ma a Riace sono tutti pronti a giurare che Lucano "vive in povertà e non si è mai preso un soldo. Ha dato lavoro attraverso le cooperative". Come per esempio a Nazareno che lavorava per Città futura dalle venti alle otto del mattino per controllare i bambini immigrati in una comunità. Ma adesso questa comunità è chiusa. Da quando, da agosto del 2017, non arrivano più i soldi del ministero dell'Interno, da quando cioè è iniziata l'indagine. Allo stesso modo i laboratori del vetro, dei tessuti e del legno di questo "Villaggio globale" che ha dato una nuova vita agli abitanti storici di Riace e ai nuovi arrivati. Vita appesa all'inchiesta. Domani ci sarà l'interrogatorio per decidere la revoca o meno degli arresti domiciliari del sindaco, mentre per sabato è in programma un corteo, con associazioni che arriveranno da tutta Italia. La marcia si fermerà sotto casa del sindaco se sarà ancora agli arresti o davanti il palazzo comunale se invece Lucano sarà libero. Per adesso Riace resta con il fiato sospeso e in apprensione per un sindaco, che al di là di ciò che dirà la legge, per loro resterà il paladino dei migranti incolpato di troppa umanità.

Quando la prefettura lodava il "modello Riace" e il sindaco Mimmo Lucano. Le pesanti accuse della procura di Locri nascono da due ispezioni prefettizie del 2016. Ma ce n'è un'altra, del 2017, che invece esalta l'accoglienza nel paese calabrese. Un documento noto a tutti. Ma che non sembra aver influito sulle scelte dei magistrati, scrive Giovanni Tizian il 5 ottobre 2018 su "L'Espresso". L’indagine sul sindaco di Riace inizia con la segnalazione di alcune anomalie da parte della prefettura di Reggio Calabria. Irregolarità contenute in due relazioni ispettive del 2016. Tuttavia l’anno successivo un’altra squadra di ispettori della prefettura, diversi dai primi, hanno prodotto un terzo documento nel quale si tratteggia il modello Riace. Tre relazioni, dunque, alle quali però è stato dato peso diverso. Quelle negative hanno fatto da impulso all’inchiesta, l’altra è rimasta ai margini della vicenda giudiziaria. Il rapporto che ribalta l’esito di quelli redatti nel 2016 è sorprendente. Perché è scritta da funzionari dello Stato, oggi sottoposti al ministro Salvini. «Riace è così, è un microcosmo strano e composito, che ha inventato un modo per accogliere e investire sul proprio futuro», hanno scritto quattro vice prefetti della Repubblica nel rapporto ispettivo scritto dopo la visita del gennaio 2017. Gli ispettori della prefettura proseguono: «Le ragioni che hanno spinto ad abbandonare il tono strettamente burocratico e trasmettere uno spaccato della vita quotidiana in Riace, risiedono nella avvertita necessità di raccontare la storia dell’immigrazione del borgo divenuto famoso prima per i Bronzi e poi per l’impegno del Sindaco Lucano. Questi è un uomo che ha dedicato all’accoglienza buona parte della propria vita, combattendo battaglie personali e raccogliendo riconoscimenti internazionali di assoluto prestigio. L’evolversi dell’esperienza ha comportato difficoltà ulteriori, probabilmente non previste e ha reso impossibile, presumibilmente, un controllo ferreo di tutte le attività svolte. Ciò ha evidenziato le pecche del sistema, individuate in precedenti relazioni, che denotano la necessità imprescindibile di attuare gli opportuni ed immediati mezzi correttivi. Auspicabilmente con un’azione sinergica di supporto che possa permettere di mantenere e migliorare gli standard di efficienza, sicurezza e legalità che la normativa di settore richiede. Si ritiene, per concludere, che l’esperienza di Riace sia importante per la Calabria e segno distintivo di quelle buone pratiche che possono far parlare bene di questa Regione. Si precisa, peraltro, che il Sindaco Lucano ha sempre fornito una importante collaborazione a questa Prefettura in occasione degli sbarchi degli ultimi tempi, assicurando l’ospitalità che molti altri Centri della provincia avevano prima negato ed intervenendo spesso con propri mediatori linguistico-culturali in situazioni critiche, al medesimo rappresentate». Insomma, toni decisamente diversi dalle pesanti accuse che portano la firma della procura di Locri.  

Chiamate dirette, fitti alle stelle e fatture allegre. Ecco la relazione che censura il modello Riace. Nel dicembre scorso la prefettura completa la “Relazione della discordia” il cui contenuto è stato trasmesso a Procura e Corte dei conti. Gli ispettori formulano censure che giustificano l’ulteriore verifica di questi giorni da parte del Ministero. Nel mirino le cooperative e il mancato controllo, scrive Agostino Pantano martedì 5 settembre 2017 su lacnews24.it. Nei risultati dell’ispezione già effettuata dalla Prefettura di Reggio Calabria, nessun attacco politico al “modello Riace”, semmai la sua difesa espressa finanche in premessa all’atto. Nelle ore in cui arrivano nel paese della Locride gli ispettori del ministero degli Interni, che si sono mossi per ulteriori verifiche su quello che hanno denunciato i colleghi reggini, è quanto mai utile analizzare la Relazione da cui sono discese le polemiche di queste settimane. LaCnews24 è in grado di farlo in esclusiva, sviscerando un documento fin qui inedito, che più volte il primo cittadino Mimmo Lucano – contestandone il contenuto – ha detto di non aver mai letto.

Il taglio degli ispettori. L’ispezione della discordia risale al 20 e 21 luglio del 2016. La Relazione, vergata da un gruppo di tre funzionari – guidati da Salvatore Gullì, oggi come ieri commissario del comune di San Luca - è lunga 25 pagine, più 95 di allegati. Essa è stata fatta propria dalla prefettura nel dicembre scorso. Chi ha indagato a Riace, prima di elencare in 12 capitoli quello che definisce “un primo nucleo di irregolarità amministrative”, sostiene di dover evidenziare anche “gli aspetti positivi del modello Riace (…) che assicura la necessaria accoglienza nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e della dignità degli stranieri presenti”. Un riconoscimento per quanto fatto negli anni nel paesino calabrese diventato simbolo d’integrazione conosciuto in tutto il mondo, che però non impedisce agli ispettori inviati dal prefetto Michele Di Bari di prospettare “ipotesi di danno erariale”, ma anche situazioni che richiedono l’attivazione della procura per gli ipotizzati “illeciti profitti”.

Le diverse responsabilità. Nella Relazione si distinguono due tipi di responsabilità. La colpa del Comune sarebbe quella di non aver controllato le spese e la relativa documentazione presentata dai gestori dei progetti. Sul conto di questi ultimi, invece, gli ispettori si sono concentrati sulle 6 cooperative che ogni anno gestiscono un flusso di 1.921.500 euro. La prefettura imputa al comune di legarsi a questi gruppi attraverso Convenzioni stipulate senza una gara pubblica.

Le convenzioni. “La chiamata diretta e fiduciaria”, che può essere giustificata una tantum per casi straordinari e non quando un sistema ordinario è datato, non piace agli ispettori. Ci sono “criteri di selezione ampiamente e assolutamente personali e discrezionali – si legge nella Relazione – lesivi della concorrenza, non sembrando conformi ai principi di imparzialità e trasparenza”. I funzionari prefettizi hanno rilevato come questi atti “non prevedono contenuti essenziali quali l’applicazione di penali nel caso di inadempienze, la risoluzione del rapporto e la specifica e complessiva dotazione di personale e relative professionalità da impiegare”. Per quel che si vedrà a breve, però, le censure indirizzate al “modello” non sembrerebbero frutto di un approccio formalistico e rigido, solitamente preferito da chi deve controllare l’applicazione della legge senza badare al contesto straordinario che a volte può far cadere un amministratore sulla classica “buccia di banana” per la troppa fretta. Gli ispettori, infatti, dopo aver sottolineato come “le convenzioni alla scadenza vengano prorogate tramite una mera comunicazione a firma del sindaco, senza alcun riferimento ad una delega o mandato conferito dall’amministrazione comunale”, fanno alcuni esempi degli ipotizzati “accordi collusivi” che potrebbero sorgere visto che il Comune, secondo gli ispettori, non avrebbe previsto clausole di garanzia dell’interesse pubblico.

Se Riace sembra Montecarlo. Ogni anno a Riace si spendono più di 200.000 euro per fittare dai privati le case che vanno ai migranti, e queste abitazioni – si sottolinea nella Relazione – “vengono reperite direttamente e autonomamente dagli enti gestori, senza adeguate ricerche di mercato”. Sulle tante cose censurate in questo capitolo, compresa quella relativa alla “proprietà di alcuni immobili riconducibili a soggetti legati da vincoli di parentela con personale degli enti gestori”, ce n’è una che appare esaustiva della ricaduta economica del modello in ambito locale. “I canoni di locazione – scrivono gli ispettori – non appaiono congrui rispetto al mercato immobiliare locale. Nonostante la classificazione catastale risulti essere spesso A3 (abitazioni economiche), la media dei fitti pattuiti non è mai quasi mai inferiore ad euro 300 mensili”.

Il modello “collocamento”. I 70 operatori che lavorano nelle cooperative costano ogni anno 600.000 euro. Essendo quello di Riace un modello senza paragoni in fatto di importanza etica e numeri, non è possibile stabilire se siano tanti o pochi. Ciò che invece è rilevato dagli ispettori è che i lavoratori “sono stati assunti tramite chiamata diretta fiduciaria e i relativi curricula vitae trasmessi al ministero solo di recente”. Non si sa se Roma abbia chiesto prima e per tempo delucidazioni sull’ingaggio degli operatori di un sistema che ha molte primavere alle spalle; ciò che è certa è la critica contenuta nella Relazione: “non sono presenti, se non in misura sicuramente inadeguata, alcune figure professionali indispensabili”.

Il medico dei migranti? Un agronomo. A occuparsi dei migranti ci sarebbe un solo assistente sociale, un solo psicologo e per quanto riguarda i servizi sanitari da garantire “l’addetto alla sanità – si legge nel documento - è munito di diploma di agrotecnico e non possiede altre certificazioni”.

Quei migranti in più. Grande spazio viene dedicato alla cura che Riace offre “ad un terzo di ospiti non aventi diritto a permanere nel progetto”. Si tratta di 150 persone straniere aggiunte nel corso degli anni certamente in nome di una sensibilità umanitaria straordinaria, su cui però gli ispettori annotano “una spesa, per almeno euro 638.750, non giustificata”. L’attrazione del “modello” può aver reso flessibile il numero di chi ha trovato riparo in Calabria, ma per la Prefettura i conti non tornano perché “non risulta che sia una sistematica e razionale organizzazione diretta a impedire il protrarsi oltre i termini consentiti e ciò rende incerta la contabilizzazione reale dei soggetti aventi diritto, unico elemento indispensabile per conferire legittimità della spesa”. Ma se l’allargamento del progetto potrebbe essere giustificato dal tipo di risposta umanitaria intensiva offerta a Riace e dalle lungaggini burocratiche penalizzano i richiedenti asilo, gli ispettori corrono però a chiarire che “si appalesa ormai urgente introdurre misure molto concrete da attuare nel breve periodo per assicurare una maggiore funzionalità dei servizi di accoglienza nel rispetto delle garanzie previste dalle norme nazionali e internazionali”. Gli ispettori lamentano inoltre che i “i regolamenti del Centro di accoglienza non sono stati neppure sottoscritti” ed è concreto “il rischio che ogni ente gestore si regoli a modo proprio”.

La censura della moneta. Ma la prefettura ha dei sospetti anche sulla gestione dei bonus, che a Riace considerano una moneta simbolica. Si tratta della somme che i migranti ricevono mensilmente, dichiarando appunto agli enti gestori di averle incassate. Gli ispettori avrebbero riscontrato “firme diverse nelle ricevute” intestate allo stesso migrante. Infine, “la scarsa chiarezza nelle fatturazioni”, per chi ha indagato, rende obbligatoria una ispezione più approfondita, che è proprio quella che è in atto in queste ore e che il sindaco Lucano ha contestato, arrivando a minacciare di chiudere i progetti e lamentando di essere bersaglio della burocrazia.

Le magagne dell'accoglienza: così fallisce il "modello Riace". Rimborsi sospetti, mancanza di contratti e malumori dei migranti: gli ispettori del Viminale bocciano il progetto Sprar, scrive Michel Dessì, Domenica 12/08/2018 su "Il Giornale". E venne il giorno in cui il sindaco di Riace, Mimmo Lucano, paladino dell’accoglienza sfrenata, appese la fascia al chiodo. Fissato in uno scatto fotografico, col viso stravolto dal caldo e dai morsi della fame, il primo cittadino più solidarizzato della sinistra posa davanti ad un muro scrostato dal quale pende, miseramente, la nobilissima fascia tricolore, simbolo dell’Italia repubblicana. Si ribella, Lucano, all’ennesima sonora sberla che il Ministero dell’Interno gli ha assestato dopo le ultime ispezioni dei funzionari della “Direzione Centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo”, e chiama a raccolta gli ultimi compagni, pur senza dire. Anzi, tergiversando e spostando l’attenzione sulla mancata erogazione di fondi a copertura di spese già sostenute. Le ispezioni, in verità, presentano un quadro di Riace e del suo famoso “modello” quantomeno allarmante, se non anche sconfortante e preoccupante. Già anni fa – e fummo i primi a pubblicare - una precedente visita ministeriale aveva denunciato una sorta di accoglienza alla “volemose bene”: mancanza di pezze d’appoggio per le spese, affidamenti diretti di servizi, utilizzo di personale non qualificato, rimborsi sospetti… Un’amministrazione di beni pubblici quantomeno leggera, a voler interpretare il tono delle carte. La situazione non sembra essere migliorata ai giorni nostri. Anzi…Con una nota del 30/07/18 (di cui siamo entrati in possesso), il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione ha comunicato al sindaco di Riace l’avvio del procedimento finalizzato all’applicazione di 44 punti di penalità, considerata l’entità, la rilevanza e la persistenza di criticità accertate nella gestione del progetto Sprar della cittadina jonica calabrese. (C’è da sottolineare che di punti, per far chiudere uno Sprar e revocare i contributi da oltre due milioni di euro, ne basterebbe un totale compreso fra i 14 e i 20). Ora, a volerle elencare, le tirate d’orecchio ministeriali, sono decine, e tutte molto circostanziate. A cominciare dall’assenza o dalla mancata registrazione di contratti di locazione di abitazioni o locali destinati all’accoglienza; passando per la scarsa formazione del personale “utilizzato in materia di protezione internazionale”; per l’assenza o la carenza di figure professionali chiave, quali operatori legali, educatori professionali e operatori dell’integrazione. In materia di servizi, la “mancata rispondenza dei servizi erogati con quelli indicati nella domanda di contributo.” O anche la quasi totale mancanza di inserimento lavorativo reale; così come di scarsa qualità risulta essere la mediazione linguistica e interculturale, che si ferma alla fase di mera traduzione senza alcun tentativo di scambio. Difficili i rapporti fra i migranti accolti e gli operatori delle associazioni a cui sono affidati, che sfociano, di tanto in tanto, in tensioni e malumori. Macchinoso e poco chiaro risulta essere l’utilizzo di una sorta di “buono spesa”, stampato ad hoc: molti migranti denunciano il rincaro del prezzo dei beni in vendita negli esercizi convenzionati, se solo si tenti di acquistarli utilizzando i buoni. Gli ispettori ministeriali, in quindici pagine colme di contestazioni di ogni genere, si chiedono, fra l’altro, che senso abbia abituare gli ospitati all’utilizzo di una “moneta” (con tanto di effigie di Che Guevara) che non corrisponda a quella ufficiale europea e che non garantisca un giusto contatto con il mondo reale.

Riace ne esce sconfitta, insomma, assieme al tanto decantato “Modello Riace” che, allo stato dei fatti, rischia di polverizzarsi senza aver lasciato un tangibile risultato buono per chi arriva e per chi avrebbe dovuto accogliere.

Riace, altro che Lega: il pm che indaga Lucano è di sinistra. Riace, il pm che indaga Lucano? E' di sinistra, altro che leghista, scrive Venerdì 5 ottobre 2018 su Affari Italiani. Indagine aperta sul sindaco di Riace, il simbolo del modello di accoglienza dei migranti. Apriti cielo. Tutti a dire che si tratta di una mossa politica ispirata in qualche modo da Salvini o dalla Lega. Ecco, peccato che chi sostiene un disegno politico dietro l'indagine a carico del primo cittadino di Riace, innocente fino a prova contraria, non sappia che il magistrato che indaga sia tutto fuorché leghista. Si tratta infatti di Luigi D'Alessio, procuratore di Locri che appartiene a Magistratura Democratica, vale a dire la corrente di sinistra delle toghe. "Il reato di umanità? Nel codice non esiste, non l'ho trovato. Ma può essere un'attenuante. Non è che quando si commette un reato per motivi di particolare valore morale e sociale un reato non è più tale, sempre reato resta". Lo dice alla Zanzara su Radio 24 il pm di Locri Luigi D'Alessio. "Le leggi - dice - non possono essere eluse perché lo avrebbe fatto per motivi umanitari, che poi è tutto da vedere". Alle accuse di aver seguito il clima del paese contro gli immigrati D'Alessio ha risposto: "Questa inchiesta la conduco da quando c'era il governo precedente. Non accetterei condizionamenti da nessuno".

Il pm D'Alessio: "La disobbedienza civile di Pannella? Era un'altra cosa". Sul tema della disobbedienza civile, come nel caso di Pannella, che Lucano avrebbe seguito, il Pm ha una sua idea: "Non mischierei la lana con la seta, Pannella - argomenta il magistrato - ebbe atteggiamenti di disobbedienza civile, qui è un comportamento protratto per molto tempo diretto a procurare e occultare denaro, somme anche rilevanti. Sono cose completamente diverse". Ma lui non ha preso un euro: "Non è così. La malversazione è questa, quando non spendo per i fini per i quali ho ottenuto le somme ma li ho distratti per altri fini, le ho occultate, le ho portate da un'altra parte. Ha distratto milioni di euro, mancata rendicontazione". "Non si può dire me ne frego della legge e faccio quello che voglio - dice ancora il procuratore - soprattutto perché se lo facciamo passare a Lucano poi lo dovremmo fare con chiunque altro non ci piaccia. Le leggi non possono essere bypassate da chi ci piace". Lei ha definito Riace uno Stato nello Stato: "Stato nello Stato, una Repubblica autonoma, un porto libero. Fate voi. Noi non possiamo consentire che vengano violate le leggi". Saviano ha detto che andiamo verso un sistema autoritario: "Sistema autoritario? Non sono l'arma bianca di nessuno. Faccio solo il magistrato". "Il sistema Riace - dice D'Alessio - in astartto era una bella storia, ma se la si attua violando la legge non va più bene. Ma l'ha rovinata Lucano, non io". Criticano al sua inchiesta dicendo che Lucano è in carcere mentre fuori ci sono gli 'ndranghetisti. E' una stupidaggine?: "Sì, qui a Locri stiamo processando più di 100 mafiosi".

L’accoglienza modello di Riace. Perché Lucano ha sbagliato, scrive su L’Eco del Sud Patrizio Vita il 7 ottobre 2018. In fondo è tutta una questione di credibilità. E Mimmo Lucano, sindaco di Riace, arrestato lo scorso 2 ottobre, di credibilità ne ha da vendere. Ma va ammesso: Lucano ha comunque sbagliato. Disobbedire alle leggi, anche se fatto per ‘umanità – come risulta dalle indagini di quella stessa procura che lo ha indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, uso fraudolento dei fondi destinati all’accoglienza, fraudolento affidamento diretto per la raccolta dei rifiuti – è sbagliato anche se a disobbedire è uno credibile. Di quanta credibilità goda quel sindaco tutto cuore lo dimostra il gran numero di cortei, manifestazioni a suo favore che da sud a nord hanno occupato le strade italiane. Ma nasce il sospetto che tutta questa solidarietà possa rappresentare quel mix di opportunismo, protagonismo, ma anche adeguamento alla massa: fa fico mostrarsi solidale a chi ha coraggio. Si arriva a credere che solo partecipando a un corteo si è capaci di quell’ardire che ti fa diventare ‘eroe’. Invece che essere solo un numero in piazza. Riace ieri era un modello di accoglienza, oggi è un esempio da non imitare. Perché l’inclusione sociale, l’interazione di culture e tradizioni diverse sono un obiettivo che va raggiunto senza contravvenire alle leggi. E di leggi contravvenute ce ne sono a iosa nel modello Riace realizzato da Lucano. Secondo accusa: matrimoni combinati tra residente italiano e migrante, rilascio di carte d’identità senza che l’intestatario abbia il permesso di soggiorno, fatture gonfiate per ottenere i fondi, quando non false addirittura. Insomma, se davvero siamo in presenza di questi reati; se l’accusa, nel corso del processo dovesse reggere, Mimmo Lucano ha sbagliato forte, non va santificato, e soprattutto non va preso come esempio strapositivo di sindaco accogliente, perché potrebbe creare pericolosi meccanismi di assimilazione della disobbedienza alle leggi. Né il fine umanitario può essere giustificato. Allora tutti potremmo adeguarci ad una simile concezione di vita. Facciamo un esempio: si ha un vicino di casa indigente, sfrattato da casa, magari anziano e impossibilitato a lavorare, tu lavori in banca, maneggi soldi da mattina a sera, sei giustificato a rubarli per aiutare il vicino indigente? E’ solo un esempio banale di come potrebbe andare la società se – pur in assenza di lucro, un profitto proprio – si rubasse, ci autogestissimo in assenza di regole morali. Spacciandole per morali. E intanto la società si droga di ideali falsati da una errata interpretazione di quel codice unico che è la legge. Certo, non aiuta i suoi accaniti sostenitori l’atteggiamento tronfio di Lucano, cui, a tutta prima, sta giovando più l’essere indagato che anni di ‘accoglienza illegale’, visto che erano molti gli italiani che non sapevano che a Riace c’era un sindaco che sfidava le leggi per garantire uno status sociale ai migranti. Che poi, diciamolo, se proprio in questo paese derelitto volessimo manifestare contro una magistratura che delude le aspettative degli italiani, dovremmo farlo per quelle sentenze inique che non saziano gli appetiti di giustizia del popolo. L’ultima in ordine di tempo? Quei 18 anni inflitti all’assassino di Noemi Durini, 16enne seppellita viva sotto pesanti pietre nel settembre 2017. E va aggiunto che, se davvero li farà tutti e non interverranno sconti di pena, l’oggi 18enne omicida sarà fuori, male che vada, a 36 anni. In tempo per rifarsi una vita e una verginità. Ma Noemi Durini e le tante vittime di una violenza non punita dalla giusta pena non avevano la credibilità di Lucano. Manifestare per tutte loro non farebbe lo stesso rumore. Per quelle vittime basta un post indignato su Facebook. Ma infine, è solo un parossismo. La legge va sempre rispettata. Che piaccia o no.

Fazio invita Lucano a "Che tempo che fa". Insorge la Lega. Ancora bufera sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano. La Lega avvisa Fazio: "No a strumentalizzazioni ideologiche", scrive Luca Romano, Venerdì 19/10/2018 su "Il Giornale". Ancora bufera sul sindaco di Riace, Mimmo Lucano. Il primo cittadino del piccolo centro calabrese era andato ai domiciliari con l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Successivamente gli arresti domiciliari sono stati revocati ed è pure arrivato l'invito in tv da parte di Fabio Fazio che vuole in studio il sindaco di Riace a Che tempo che fa. Ma proprio su questo invito si è scatenata una vera e propria bufera politica. La Lega infatti ha preso posizione e ha attaccato il conduttore di Rai Uno. "La tv pubblica non può divulgare modelli distorti sull’onda di strumentalizzazioni ideologiche", hanno affermato in una nota i parlamentari del Carroccio in Vigilanza Rai. Una posizione chiara quella dei leghisti che di fatto apre un caso proprio sulla prossima puntata di Che tempo che fa. "Nonostante la revoca agli arresti domiciliari, è evidente come Lucano sia accusato di aver violato norme civili, amministrative e penali sull’accoglienza. Chiediamo quindi che Fazio non chiami il sindaco in trasmissione", hanno aggiunto i parlamentari leghisti. Ed è già pronta una interrogazione in commissione di Vigilanza.

Fazio invita Lucano per farsi cacciare. Carroccio all'attacco. Il sindaco di Riace a «Che tempo che fa» Lega: «No modelli distorti nella tv pubblica», scrive Laura Rio, Sabato 20/10/2018 su "Il Giornale". Se Fazio voleva trovare un modo per farsi cacciare dalla Rai con in testa l'aureola del martire messo in croce dalla Lega, ci è perfettamente riuscito. Cosa c'era di meglio per far infuriare i seguaci del Carroccio e il loro capo Salvini che invitare in trasmissione (con il benestare dei suoi avvocati) Domenico Lucano, il sindaco di Riace che racchiude in un sol uomo tutti i mali d'Italia, secondo ovviamente la visione leghista? Lucano è l'amministratore che, invece di respingere gli immigrati come fanno la maggior parte dei sindaci, non solo li accoglie, anzi si inventa un sistema per convogliarli nel proprio paesino calabrese, gli dà lavoro, casa, amicizia, addirittura una famiglia e per giunta in spregio a tutte le norme burocratiche. In più, dopo essere stato indagato, messo agli arresti domiciliari, poi «liberato» con obbligo di non dimorare a Riace, ha «osato» pure dire che avrebbe continuato a portare avanti il suo modello senza l'aiuto dei contributi pubblici, scatenando una delle più grandi guerre politico-mediatiche degli ultimi tempi: per Lucano la sinistra intellettuale dormiente, in testa Saviano, si è svegliata di soprassalto armando la difesa del sindaco simbolo, per lei, di tutto il bene d'Italia... E che ti fa Fazio? Lo invita per domani sera in diretta a Che tempo che fa ben sapendo che l’ospitata avrebbe scatenato la bagarre. Cosa puntualmente accaduta. Per il conduttore, già nel mirino del governo giallo-verde e di Salvini che pochi giorni fa ha fatto sapere che si sarebbe occupato del suo lauto stipendio, è una chiara strategia: farsi cacciare con gli onori dell'uomo di sinistra in lotta contro i razzisti o, ben che vada, restare arroccato a viale Mazzini grazie alla protezione della «sua» parte politica. Infatti, ieri, appena si è diffusa la notizia dell'intervista a Lucano, è arrivata immediata la replica leghista: «La tv pubblica non può divulgare modelli distorti - scrivono i parlamentari della Lega in Vigilanza Rai, che annunciano un'interrogazione in Commissione - Nonostante la revoca agli arresti domiciliari, è evidente come Lucano sia accusato di aver violato norme civili, amministrative e penali sull'accoglienza. Chiediamo quindi che Fazio non chiami il sindaco in trasmissione». Controreplica sarcastica in tempo reale del Pd, tramite Davide Farone: «Secondo i parlamentari della Lega Mimmo Lucano non dovrebbe essere invitato in trasmissione da Fazio perché comunicherebbe modelli lontani dalla legalità. Se questo è il criterio, chiederei alla Rai di far sparire dagli schermi Salvini ed i dirigenti Lega. #49milioni». Gli fa compagnia Nicola Fratoianni di Liberi e uguali. Insomma, tutto da copione. Già visto con Santoro, Giletti e altri. Cambiano i vertici del Paese, restano le stesse pretese di comandare in Rai. E Fazio ben lo sa, tanto che si è fatto fare un contratto di quattro anni dall'ultimo direttore generale, Mario Orfeo, prima dell'avvento penta-leghista. Per cacciarlo, la Rai dovrebbe sborsare molti quattrini, ancor più di quanti gliene deve ancora dare per fare Che tempo che fa. Intanto lui - con un risarcimento enorme in tasca - un posto fuori dalla tv di Stato lo trova subito, a Discovery o dove vuole. Ma nulla, per lui, è e sarà mai come la Rai.

Contro l’ideologia che chiama “modello Riace” un sistema di reati, scrive Centro Studi Livatino il 17 ottobre 2018 su Tempi. Il giudizio del Centro Studi Livatino sull’uso (anche da parte di Magistratura democratica) del caso Mimmo Lucano per attaccare governo e giustizia. Tratto dal sito del Centro Studi Rosario Livatino – L’adozione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di Domenico Lucano, sindaco di Riace, è stata utilizzata da molti commentatori come occasione per sollevare la questione della disobbedienza civile e per criticare la politica dell’attuale governo in tema di immigrazione. Il Centro Studi Livatino, da sempre sensibile – memore delle riflessioni svolte sul tema dal magistrato siciliano cui ispira le proprie attività – al tema della legge ingiusta e dell’obiezione di coscienza, manifesta perplessità sull’indebito accostamento fra una questione di così elevato spessore morale e una vicenda giudiziaria che, pur essendo stata valutata solo in sede cautelare, nulla ha a che fare con l’imperativo etico di resistere alla norma positiva che violi diritti fondamentali della persona. Prima di formulare giudizi esaminiamo i fatti. Nell’ordinanza del Gip – confermata ieri dal tribunale del riesame quanto al quadro indiziario e pure molto critica su larga parte delle richieste del pubblico ministero –, si legge, fra l’altro: «Il contenuto delle conversazioni ascoltate nel corso dell’attività investigativa lascia innegabilmente trasparire una modalità di gestione quanto meno opaca delle somme destinate agli operatori private per la gestione dei soggetti accolti nei progetti S.P.R.A.R. e C.A.S. (…)» (p. 28). «Nel corso dell’attività d’indagine emergeva la particolare spregiudicatezza del Lucano – nonostante il ruolo istituzionale rivestito – nell’organizzare veri e propri “matrimoni di convenienza” tra cittadini riacesi e donne straniere al fine di favorire illecitamente la permanenza di queste ultime nel territorio italiano (…)» (p. 69). Ed infine: «L’indagato vive oltre le regole, che ritiene d’altronde di poter impunemente violare nell’ottica del “fine che giustifica i mezzi”; dimentica, però, che quando i “mezzi” sono persone il “fine” raggiunto tradisce, tanto paradossalmente quanto inevitabilmente, quegli stessi scopi umanitari che hanno sorretto le proprie azioni» (p. 125). Ciò avrebbe dovuto consigliare prudenza nel commentare la vicenda Riace; soprattutto avrebbe dovuto evitare impropri accostamenti col tema della resistenza alla legge ingiusta. Spiace invece constatare che, oltre a commentatori poco attenti ai fatti, anche magistrati abbiano strumentalizzato la vicenda per attaccare i giudici di Locri e la politica dell’esecutivo in tema di immigrazione. Con nota, infatti, del 14 ottobre Magistratura democratica critica il provvedimento del dipartimento libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno di revoca per il Comune di Riace del contributo per il progetto Sprar (il contributo era stato concesso con un decreto dello stesso ufficio del dicembre 2016). Secondo Magistratura democratica, per firma della sua segretaria generale e del suo presidente, ciò in realtà decreta «la fine del modello di integrazione e di pacifica convivenza rappresentato da Riace» e costituisce un passo ulteriore verso il «rifiuto dell’idea e del progetto di comunità» voluto dalla Costituzione, integrando «gesti di rottura con i suoi valori fondanti». Da ciò l’appello a «far sentire la propria voce e riaffermare il forte senso di appartenenza» al progetto solidale proprio della Costituzione medesima. Il Centro Studi Livatino manifesta sorpresa per il fatto che una delle componenti associate della magistratura italiana: indica come «modello di integrazione e di pacifica convivenza» un meccanismo che, alla stregua di quanto emerso: 1) ha conosciuto l’organizzazione di finti matrimoni al fine di procurare falsi titoli di soggiorno e la consumazione di reati di falso da parte di pubblici ufficiali; 2) è consistito nel far «entrare nel sistema di accoglienza chi sceglieva lui» (il sindaco Lucano), come ha dichiarato lunedì al Corriere della Sera il prefetto Mario Morcone, capo di gabinetto del ministero dell’Interno nel governo precedente; qualifica l’iniziativa attuale del ministero dell’Interno in termini di rottura del patto democratico fondato sulla Costituzione, pur se l’ultimo provvedimento costituisce lo sviluppo di un accertamento partito quando il titolare del dicastero era il senatore Marco Minniti perché – sono sempre parole del prefetto Morcone – «i fondi li mette a disposizione il ministero dell’Interno, se le cose non funzionano la segnalazione è d’obbligo», e le anomalie sono state rilevate circa due anni fa dall’«Anci, l’associazione dei Comuni da cui dipendono i progetti Sprar». Andrebbe pertanto chiarito se del complotto anticostituzionale siano parte anche i componenti dell’esecutivo Gentiloni e l’Anci; ritiene in linea con i princìpi solidaristici a base della Costituzione, fra l’altro, l’individuazione di persone anziane a Riace – o di stretti parenti – da prospettare come coniugi a giovani migranti cui le commissioni asilo, di cui sono parte anche rappresentanti dell’Unhcr, non hanno riconosciuto il diritto alla protezione. È vero, ogni valutazione sulla vicenda è “allo stato degli atti”. Gli elementi di fatto che emergono dai documenti prima citati – direttamente consultabili da chiunque al fine di formare una propria opinione – saranno riconsiderati sulla base degli sviluppi del procedimento penale e della eventuale decisione del giudice amministrativo in caso di impugnazione del provvedimento del ministero. Nel frattempo, sarebbe auspicabile da parte di tutti senso delle istituzioni e ripudio di tesi ideologiche.

Il sistema Sprar contro Mimmo Lucano: così il mondo dell’accoglienza ha abbandonato il modello Riace. La prima ispezione che denuncia le irregolarità nella gestione di Lucano viene fatta da un’operatrice calabrese incaricata dal sistema centrale Sprar. La spaccatura tra Riace e lo Sprar si è consumata qualche anno fa, e ora rischia di diventare il cavallo di Troia dell’intera accoglienza programmata, scrive il 20 ottobre 2018 L’Inkiesta. Napoli, Palermo, Firenze, Lecce. La solidarietà a Mimmo Lucano, sindaco di Riace con divieto di dimora a Riace, arriva ogni giorno da ogni parte d’Italia. Poco dalla Calabria, ancora meno dalla rete dei comuni calabresi dello Sprar, il Sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Prova ne è l’ultimo documento inviato dalla rete Sprar della Calabria a Regione, Anci e parlamentari in difesa del modello di accoglienza diffusa contro i rischi del decreto Salvini, in cui Riace non viene neanche nominato. In 11 pagine neanche una citazione del comune amministrato da Lucano – come fa notare il Corriere della Calabria – proprio nei giorni più drammatici per il modello che è diventato un simbolo nel mondo. Si fanno i numeri, si elencano i progetti messi in atto, in contrasto con le baraccopoli di Rosarno e Sibari, ma non si parla mai di “modello Riace”. Un modello anomalo, pioniere nelle modalità di accoglienza e gestione, celebrato per questo nei film e nei documentari di mezzo mondo, vissuto però forse con un certo fastidio proprio in Calabria. Non è una novità che la segnalazione che poi, a catena, ha portato alle ispezioni della Prefettura prima e alle indagini della Procura di Locri poi sia partita proprio da una ispezione dello stesso sistema centrale Sprar. Il sistema al suo interno nomina, secondo regole ancora non proprio chiare, quelli che vengono definiti comunemente come “tutor territoriali”, incaricati di monitorare giustamente il rispetto dei requisiti nei progetti in corso (come previsto da un decreto ministeriale dell’agosto 2016). Ci sono tutor che supervisionano più regioni. Ma ci sono regioni, come la Calabria, che avendo molti progetti Sprar in atto (126 in 113 comuni), contano anche più di un tutor. La prima ispezione “problematica” su Riace, come da tempo raccontano i giornali calabresi, arriva dalla tutor calabrese Enza Papa, operante nel settore immigrazione da diverso tempo, che per prima nel 2015 contesta a Lucano la gestione anomala del progetto. La stessa Papa è stata responsabile dell’associazione “La Kasbah”, che gestisce lo Sprar di Cosenza, lasciando poi il progetto per ricoprire l’incarico affidatole dal Servizio centrale Sprar. Mentre il compagno, Alessandro Gordano, è tutt’ora portavoce degli enti gestori Sprar della provincia di Cosenza. Ecco perché su diversi giornali era stata avanzata la congettura del rischio di un conflitto d’interessi nelle ispezioni (pur non essendo Papa competente sulla provincia in cui opera il suo compagno). Pure supposizioni e frecciatine sulla stampa locale, che però restituiscono l’idea di un clima non del tutto pacifico nel mondo dell’accoglienza dei migranti calabrese. Attraversata da grandi interessi economici e vicende giudiziarie di ogni tipo. Contro di me c’è stata una vendetta di alcuni ispettori e di alcuni pezzi grossi del servizio Sprar. Io non mi sono voluto adeguare ai loro metodi e loro hanno contraccambiato diffamando l’esperienza di Riace, buttando fango e fiele Mimmo Lucano (Il Manifesto).

L’ultimo documento di 11 pagine degli Sprar calabresi è stato redatto dopo un incontro a Catanzaro del 12 ottobre, in cui erano presenti anche Gordano, il delegato alla presidenza regionale per le politiche sull’immigrazione Giovanni Manoccio e il responsabile regionale Anci all’Immigrazione Stefano Calabrò, sindaco del piccolo comune di Sant’Alessio d’Aspromonte, dove è stato messo in piedi un progetto Sprar studiato anche all’estero. Ma neppure nel resoconto finale dell’incontro, che pure su carta intestata della Regione Calabria parla di «battaglia di civiltà» contro il decreto Salvini, viene mai fatto il nome di Riace. Dimenticanze che non saranno sfuggite al sindaco Mimmo Lucano, prima ai domiciliari e ora libero ma con divieto di dimora nel suo comune. Il 16 ottobre, sul Manifesto, Lucano rilascia un’intervista in cui dice: «Contro di me c’è stata una vendetta di alcuni ispettori e di alcuni pezzi grossi del servizio Sprar. Io non mi sono voluto adeguare ai loro metodi e loro hanno contraccambiato diffamando l’esperienza di Riace, buttando fango e fiele». E poi fa riferimento alle contraddittorie relazioni delle ispezioni della Prefettura reggina: la seconda, dice Lucano, «smonta punto per punto le obiezioni della prima. Nella circolare non hanno fatto altro che copiare e incollare la prima relazione». La spaccatura tra il sistema Sprar e il modello Riace risale ormai a qualche anno fa. Basti pensare che nel 2016 i comuni della provincia di Reggio Calabria aderenti allo Sprar creano un coordinamento provinciale chiamato Agorà, ma Riace, il modello noto in tutto il mondo, non compare nell’elenco.

Il sistema Sprar, con l’accoglienza programmata e gestita da comuni ed enti locali, in Italia è relativamente giovane. Viene istituito tra il 2001 e il 2002, con la ben nota legge “Bossi-Fini”, che ha affidato all’Anci la gestione. Ma è negli ultimi anni che ha preso piede. Con una crescita delle adesioni dei comuni e dei progetti messi in piedi (dal 2016 al 2017 si è passati da 26 a 35mila posti), seppure sempre minoritari rispetto all’accoglienza straordinaria dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), che coprono ancora l’80 per cento. E il sistema ha dovuto via via adeguarsi, perfezionando di continuo la formula di rendicontazione centrale, anche tramite la gestione digitale dei dati provenienti dai diversi comuni (l’ultimo aggiornamento del software per la compilazione della banca dati è di qualche mese fa). Ma uno Sprar di Milano non sarà mai uguale a uno messo in piedi in un paesino dell’Aspromonte calabrese. Ecco perché il sistema al suo interno è attraversato da diverse anime. Ogni comune, soprattutto i più piccoli, in sé è un modello. E Riace, prima ancora dell’istituto Sprar, è stato capofila di quella accoglienza diffusa poi replicata in altri borghi, calabresi e non solo. Dopo l’ispezione Sprar del 2015, su Riace vengono fuori le prime denunce di anomalie. Il primo problema segnalato è l’uso di quella moneta locale che Lucano si è inventato per velocizzare l’acquisto dei beni da parte dei migranti nei negozi del paese, senza dover aspettare i tempi di arrivo dei fondi ministeriali. Un sistema di voucher cartacei convertibili poi in euro, che però allo Sprar non è andato giù. «Secondo la legge non si poteva fare», ha spiegato Daniela Di Capua, direttrice del sistema centrale Sprar, al Redattore Sociale. «Siamo andati 5 volte in due anni, non avevamo mai fatto tanta assistenza in loco per aiutare un progetto. Ma il Comune non si è mosso. Dopodiché il ministero (dell’Interno, quando era occupato ancora da Marco Minniti, calabrese anche lui, ndr) ha avviato la procedura: ha scritto al Comune evidenziando le penalità riscontrate, chiedendo le controdeduzioni prima di avviare la procedura di revoca. Ma niente, Mimmo Lucano ha di nuovo mandato deduzioni non risolutive alle questioni contestate. Per questo oggi la chiusura è un atto dovuto». Il discorso, insomma, è questo: Lucano e il suo modello non possono permettersi di cambiare le regole che gli altri comuni meno noti invece rispettano. Punto. Tant’è che fu lo stesso Lucano a parlare, dopo l’avvio delle indagini della procura, di “istituzionalizzazione” degli Sprar per denunciare la presenza di regole e norme troppo rigide che, a parere suo, finivano per snaturare gli «ideali politici» che avevano guidato le prime iniziative di accoglienza dei migranti. Lucano è un battitore libero (“capatosta”, lo chiamano), e forse per questo a molti non è andato giù. La spaccatura tra il sistema Sprar e il modello Riace risale, insomma, ormai a qualche anno fa. Basti pensare che nel 2016 i comuni della provincia di Reggio Calabria aderenti allo Sprar creano un coordinamento provinciale chiamato Agorà, ma Riace, il modello noto in tutto il mondo, non compare nell’elenco. E dopo l’arresto di Lucano i messaggi di solidarietà sono arrivati da molti comuni della provincia che hanno attivato lo Sprar, ma non da tutti. Ora, saranno i giudici a stabilire se Lucano è colpevole o no dei reati che gli vengono contestati. Ma la revoca dello Sprar a Riace è indipendente dall’inchiesta giudiziaria. Ma le contestazioni che vengono fatte alla gestione dei migranti nel paesino calabrese rischiano di diventare il cavallo di Troia per l’intero sistema Sprar. Che si trova di fronte quel Viminale guidato da Matteo Salvini, intento a smantellare per decreto l’unico sistema d’accoglienza virtuoso italiano. Non quello delle megastrutture, del business dell’immigrazione contestato da più parti, dove più ne hai più ne metti. Ma quello che vengono a studiare da ogni parte del mondo, dopo aver visto i documentari e i cortometraggi su Domenico Lucano e la sua Riace.

"Noi, ostaggio degli immigrati". Quando l'accoglienza disintegra. Il centro accoglienza di Conetta nel veneziano è gestito dalla cooperativa Edeco, ex Ecofficina, già più e più volte indagata, scrive Serenella Bettin, domenica 07/10/2018 su "Il Giornale". Esiste un posto in Italia, quella della prima linea dell’accoglienza italiana, dove i migranti vivono da tre anni e mezzo sotto i tendoni delle sagre. Esiste un posto in Italia dove in una frazione di 197 abitanti c’erano oltre 1600 richiedenti asilo. Ed esiste un posto in Italia dove nel raggio di quattro minuti in auto c’erano oltre 2400 migranti. E questo posto si chiama Conetta in provincia di Venezia. Che sta accanto a San Siro di Bagnoli di Sopra in provincia di Padova, dove ci stava un altro centro e che sta accanto ad Agna il distretto del profugo. Il sindaco di Agna, Gianluca Piva, che è stato costretto a mettere i cartelli "anti pipì" in strada perché i profughi urinavano per strada, si è perfino laureato con una tesi master sull’immigrazione. Il titolo? “La gestione dei richiedenti asilo, nel distretto del profugo del basso Veneto. Dall'emergenza alla zona franca sociale”. E infatti è un’emergenza. Perché qui da tre anni la gente vive assediata dai migranti, i ragazzini non escono più di casa da soli, le donne la sera hanno paura a fare jogging - due i tentativi di stupro da parte di un ragazzo di colore - e la gente lavora e si spacca la schiena. Una zona che è una distesa infinita di campi dove ancora si scandisce il lavoro con il far del sole e il riposo con il far della notte. Una zona dove hanno preso e ci hanno messo i richiedenti asilo. Tanto in mezzo ai campi nessuno sente. Nessuno protesta. Nessuno fa niente. E invece. Invece in tre anni Conetta è stata martoriata dalle proteste. La vita degli abitanti di Conetta è completamente cambiata. I migranti sono scesi in strada. Sono scesi in piazza. Hanno appiccato il fuoco all’interno della base con bancali e casse di legno. Hanno sequestrato gli operatori. Hanno impedito alla gente di entrare e perfino di uscire. Si sono picchiati. A luglio 2016 i nigeriani cristiani e i pachistani e afghani musulmani hanno preso asce e coltelli e se le sono date di santa ragione. Finché un giorno hanno deciso in massa di partire. Era novembre scorso. I migranti la mattina del 13 novembre scapparono dalla base e decisero di svuotarla. Per quindici giorni in Veneto andò in scena la maxi marcia dei migranti. E tutti dietro. Polizia, carabinieri, dirigenti, commissari, agenti, prefetti, sindaci, questori, preti, giornalisti. Il Viminale si piegò. La Chiesa pure. Un evento epocale. E in 248 vennero ricollocati. Da quel momento le cose cambiarono. Le proteste diminuirono. Ogni tanto qualche panca in mezzo alla strada, quattro migranti in croce, le solite proteste per il pocket money e passava la paura. Ma quello che non è mai passato è perché la cooperativa che gestisce il centro, la ex Ecofficina, ora Edeco, già più e più volte indagata, ha continuato ad avere in gestione oltre a quello di Conetta, anche altri centri. Una cooperativa partita con libri da colorare e attività in parrocchia che nel giro di pochi anni, con i migranti, si è accaparrata i centri di accoglienza di mezzo Veneto, totalizzando bilanci da Spa. Una cooperativa già plurindagata. Maltrattamenti. Truffa aggravata. Falso e pure associazione per delinquere nella frode di pubbliche forniture. La prima indagine la aprì la Procura di Rovigo, due anni fa, con un’inchiesta per truffa aggravata ai danni dello Stato e maltrattamenti a carico dell’ex presidente Gaetano Battocchio e Sara Felpati (moglie di Simone Borile, gestore del centro di Conetta) per dei fatti avvenuti nel 2014 in un centro di accoglienza a Montagnana, nel Padovano. Ma passarono pochi mesi e la cooperativa finiva sospettata di aver contraffatto carte ufficiali del bando di accoglienza profughi Sprar 2016. Il sospetto della procura di Padova era che Battocchio e Borile avessero presentato falsi documenti, truccando una data, al comune di Due Carrare. Confcooperative aveva sospeso la società per il “troppo business” e poi l’inchiesta che aveva coinvolto anche Padova Tre, società di rifiuti e che partecipa alla nascita di Ecofficina. Simone Borile infatti era anche il vice presidente e il direttore di Padova Tre. E il sospetto era che proprio Padova Tre avesse pagato a Ecofficina (gli ultimi pagamenti erano stati sospesi dal nuovo Cda) una serie di fatture per diversi milioni di euro, che sarebbero servite a gonfiare le spalle della coop rendendola competitiva nell'accoglienza profughi. E il sospetto era che da Tre energia sarebbe partita ai tempi in cui Borile era direttore, una fattura di oltre 100mila euro, che sarebbe andata a finanziare i lavori nella casa di montagna di Borile, a Cinte Tesino, Trento. Insomma il boss dei profughi che si restaura lo chalet. A scoperchiare il vaso di Pandora era stato proprio il sindaco di Piove di Sacco, Davide Gianella, 36 anni, laurea in Legge, che è pure del Pd e che notando delle anomalie nel piano dei rifiuti, l'11 aprile 2016, presentò un esposto alla Guardia di Finanza di Padova. “Il debito che ha generato Padova Tre - disse Gianella al Giornale - è milionario. Quando ho chiesto i documenti non me li hanno dati. Il costo del servizio rifiuti è di 2 milioni e 200mila euro. Ma Padova Tre mi ha presentato un piano di 3 milioni e 200 mila euro. A cosa serviva quel milione in più?”. Già a cosa serviva? E perché la prefettura nonostante sapesse di tutte queste indagini ha sempre continuato ad affidare la gestione di questi centri a questa cooperativa? E non è finita. Perché arriviamo ad agosto scorso che tra le carte della maxi indagine dell’immigrazione in Veneto scopriamo che “ne hanno fatte di schifezze”. "E' vero che ne abbiamo fatte di porcherie, però quando le potevamo fare", avrebbe detto il 14 aprile dello scorso anno l'ex prefetto di Padova, Patrizia Impresa (non indagato) in un dialogo con l'allora vice prefetto vicario di Padova, Pasquale Aversa, delegato a occuparsi dell'accoglienza dei migranti. Anzi dalle intercettazioni emerge pure che il “sindaco di Cona - Alberto Panfilio ormai stremato a sfibrato da questa indecente accoglienza ndr - rompe”, e che l’allora prefetto di Venezia (non indagato) parlando al telefono con Simone Borile dice: “perché il sindaco entra solo per rompere le scatole e se vuole può rivolgersi all’Onu per entrare”. Ma non è finita. Perché la coop oltre a essere indagata per associazione per delinquere, maltrattamenti, falso, oltre ad avere giri di parentopoli - il boss Simone Borile è il marito di Sara Felpati a capo di Ecofficina, che ha pure ricoperto cariche nella società di rifiuti a Padova - simulava anche i trasferimenti. A Padova nell’ex caserma Prandina di profughi ce ne stavano 40. Loro ne hanno messi 90. Appena arrivavano gli ispettori dell’azienda sanitaria simulavano i trasferimenti caricando i profughi con borsoni e valige dentro un pullman, poi appena gli ispettori se ne andavano i profughi rimanevano lì. E questo d’accordo con la prefettura. Ora lì dentro a Conetta sono 388. A Bagnoli il centro, pochi giorni fa, è stato chiuso e a Conetta gli sfollati degli sfollati se ne sono andati. Come Osas che incontriamo mentre sta partendo con occhiali da sole telefonino un contratto e una borsa. Non ha valigia perché le sue cose sono andate bruciate nell’incendio del 25 settembre scorso. In mano? Un posto di lavoro a tempo determinato alla volta di Firenze. Gli altri? Alcuni vanno vengono, rientrano non si sa da dove con borse cuscini, coperte; altri sono stati trasferiti. Dove non si sa. Nemmeno al sindaco è dato saperlo. Questa è la trasparenza dell'indecenza dell'accoglienza.

Migranti, sindaca indagata in Salento: "Accoglienza usata come business personale". La prima cittadina di Neviano, Silvana Cafaro, indagata per concussione: "Era lei a indicare a una cooperativa le persone da assumere e i negozi in cui potevano a andare a comprare cibo e medicine", scrive Chiara Spagnolo il 12 gennaio 2018 su "La Repubblica". L'accoglienza dei migranti trasformata in un affare, che portava vantaggi economici e consenso elettorale al sindaco: è questo il filo su cui si dipana l'inchiesta della Procura di Lecce su Neviano, piccolo centro del Basso Salento, la cui sindaca - Silvana Cafaro (centrodestra) - è stata raggiunta da un avviso di conclusione delle indagini preliminari. Concussione, l'ipotesi di reato contestata dalla pm Valeria Farina Valaori, all'esito delle indagini della polizia sulle attività Sprar svolte nel paese negli anni tra il 2014 e il 2016. A far scattare gli accertamenti una serie di denunce, in cui venivano indicati nel dettaglio i metodi poco ortodossi utilizzati dalla prima cittadina per sovrintendere alle attività di accoglienza. In teoria - stando a quanto ricostruito dagli investigatori - la gestione delle strutture e dei finanziamenti ad esse connesse, era affidata a una cooperativa ma, di fatto, era la sindaca a indicare le persone da assumere nei centri, le case in cui alloggiare i migranti e persino i negozi in cui potevano a andare a comprare cibo e medicine. Un sistema di cui molti operatori si erano lamentati per anni e che, alla fine, è stato meticolosamente ricostruito negli esposti finiti in Procura. Di fronte a quelle accuse, Cafaro ha ora la possibilità di chiedere di essere interrogata per fornire la propria versione dei fatti e convincere la magistratura che le attività di accoglienza nel suo paese non siano state trasformate in una macchina per elargire favori ad amici e conoscenti. 

La famiglia piena di debiti che incassa milioni con i migranti. Vicenza, ecco chi c'è dietro l'Hotel Adele (e le altre strutture). I creditori aspettano mentre loro fatturano milioni di euro con l'immigrazione, scrivono Giuseppe De Lorenzo e Marco Vassallo, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale".  Meri Spiller. Tutto ruota attorno al nome di questa 59enne imprenditrice di Bolzano Vicentino. Donna energica, ormai famosa in zona, e amministratrice di quello che è diventato uno degli hub per migranti più chiacchierato del NordEst.

Tutto in famiglia. Quella di Meri Spiller sarebbe una storia come ce ne sono tante nel variegato mondo dell’accoglienza agli immigrati. Business is business, in fondo. E tanti ne hanno approfittato. Ma il suo nome è il filo conduttore che collega i tasselli di un puzzle più grande, fatto di parenti, castelli di società, imprese fallimentari e soprattutto debiti mai pagati nonostante i circa 8 milioni di euro incassati dal 2015 ad oggi per dare un tetto ai richiedenti asilo.

Il grillino fa business con...Imprenditori in molte cose e con qualche fallimento alle spalle, Meri Spiller e il suo compagno Francesco Rizzotto hanno dato vita a quella che potremmo chiamare la “grande famiglia dei migranti”. Tutti (o quasi) hanno un ruolo nella storia: le figlie, i nipoti, il genero, gli zii. Due società riconducibili alla “famiglia” sono la Hotel Adele Srl e la Turist Hotel Srl: la prima ospita 280 profughi (molti dei quali nell’omonimo albergo nel centro di Vicenza); l’altra ne accomoda 150 tra Sandrigo e Bolzano Vicentino. Meri Spiller risulta essere amministratore unico della Hotel Adele Srl, i cui proprietari - però - sono la figlia Samanta Zardo, il nipote Riccardo Andreatta e il genero Ilario Pelizzer (marito della seconda figlia, Susy Zardo).

Il grillino. Forse ricorderete alcuni di questi nomi, visto che ilGiornale.it se ne era occupato quando scoprimmo che a possedere le quote della Hotel Adele Srl (attraverso un complesso intreccio societario) era il consigliere grillino di Marostica, Gedorem Andreatta. Il quale non sembrava aver compreso a pieno le indicazioni dei leader del proprio Movimento, quando un giorno sì e l’altro pure lanciano accuse contro chi fa affari con l’immigrazione.

Dopo la nostra inchiesta, Andreatta ha deciso di cedere le sue quote della San Francesco Srl (proprietaria del 95% della Hotel Adele Srl) al nipote Riccardo (18 anni) e Pelizzer. Un modo per far rimanere lo cose in famiglia e permettere a Meri Spiller e alle figlie Samanta e Susy Zardo di gestire il business immigrazione. Le due sorelle, infatti, sono le amministratrici dell’altra gallina dalle uova d’oro della famiglia, la Turist Hotel srl (di cui ne detengono anche il 10% delle quote). Tutto normale (e di certo legale) se non fosse che l’accoppiata Spiller-Rizzotto negli ultimi anni ha accumulato debiti per milioni di euro, ha un’azienda in liquidazione (con un lungo elenco di creditori infuriati) e vanta arretrati di tasse mai pagate al Comune di Bolzano Vicentino. Per anni hanno incamerato arretrati, fornitori da pagare e esposizioni bancarie. Fino al fallimento. Dal periodo di vacche magre, però, si sono miracolosamente ripresi grazie alla decisione di gettarsi anima e corpo nel business dell’immigrazione (ovviamente senza comparire mai in prima persona). Grazie ai bandi dell’accoglienza, in pochi anni la “famiglia” è riuscita a realizzare investimenti milionari e a (ri)acquistare i beni finiti all’asta. Dimenticandosi, però, di pagare i creditori.

I debiti di Meri Spiller (e congiunti). Nell’elenco delle società gestite o possedute da Spiller e Rizzotto ci sono la Edil Olmo Costruzioni Srl, la Kristal Futura Srl e la Frame Srl. Al Comune di Bolzano Vicentino risultano oltre 85mila euro di Imu, Ici e Tasi mai pagate dalle aziende. A cui vanno aggiunti altri 218mila euro di tasse arretrate a nome dei due imprenditori. A conti fatti significano 303.499,81 euro di imposte mai pagate da parte della Spiller e del compagno. Non proprio spiccioli. Ma il vero buco nero della “famiglia dei profughi” è la Zaris Costruzioni Srl, società specializzata in “acquisto, vendita e gestione di beni immobili propri”. Prima dell’arrivo del commissario giudiziario, a guidarla era Rizzotto, il quale si spartiva le quote con la Spiller e le due sorelle Zardo. La Zaris nel 2009 risultava avere 2,2 milioni di euro divisi tra semplici fornitori, con ipoteche e qualificati o con fatture da ricevere. “Noi attendiamo di 1,6 milioni di euro per immobili mai consegnati e già pagati”, dice un imprenditore che preferisce rimanere anonimo. Nella stessa situazione ci sono decine di aziende (e privati) che hanno realizzato opere o comprato case dalle società di Spiller&Co senza mai ricevere neppure un soldo bucato. “La mia impresa ha installato gli impianti elettrici dell’Hotel Domus e di altri 24 appartamenti, ma non ci hanno mai pagato”, lamenta Denis Bressan che vanta un consistente credito. “Fa molta rabbia vederli incassare milioni con l'accoglienza senza che ripaghino i debiti”.

Ricomprare case all’asta. Ed è proprio questo il punto. Nonostante la Spiller amministri la società che sta facendo importanti affari con l’immigrazione, i creditori non possono rivalersi su quei guadagni perché nominalmente lei non appare tra i proprietari. Non solo. Perché a far crescere la rabbia di chi attende i pagamenti da anni, c’è anche il fatto che la Spiller, attraverso i familiari, si stia ricomprando tutti i beni persi con le procedure di fallimento.

Le figlie Samanta e Susy Zardo, per esempio, anno scorso con la Turist Hotel Srl si sono aggiudicate all’asta, alla modica cifra di 63.600 euro, un appartamento di 136mq a Bolzano Vicentino. E a chi era stato espropriato l’immobile nel 2013? Ovvio: a Francesco Rizzotto e Meri Spiller. E ancora: nel 2011 all'imprenditrice venne tolta la casa dove abitava, una villa da 1.017 mq con garage doppio e terreni adibiti “ad elegante giardino”. L'abitazione finì all’asta. Nessuno si fece vivo fino al 28 gennaio 2016, quando la Turist Hotel Srl offre 266mila euro tondi tondi e se la aggiudica. Lo stesso succede per 14 posti auto, un tempo di proprietà della Zaris e ricomprati per 63mila euro complessivi. Dove mamma e compagno fanno crac (lasciando milioni di debiti in giro) ci pensano le figlie a (ri)acquistare all’asta quanto perduto. Mentre persone ed enti che avanzano crediti non ricevono nulla. Dopo vari incontri e promesse di onorare il debito, il Sindaco di Bolzano Vicentino ha chiesto un incontro al prefetto. “Gli abbiamo consegnato l’estratto conto dei nostri crediti - spiega Daniele Galvan - Sia lui che la dirigente sono rimasti a bocca aperta”. Eppure sembra evidente che a muovere i fili sia sempre l’accoppiata Spiller-Rizzotto. “A venire in Comune per le trattative sulla gestione dei richiedenti asilo erano sempre loro due - dice il sindaco - Che persone con molti debiti riacquistino i beni con il denaro dei profughi, è un controsenso. Non è equo verso chi avanza soldi nei loro confronti”. In fondo da quando a Vicenza sono arrivati i migranti, sulla famiglia della Spiller è tornato a splendere il sole. Le finanze non sono più un problema e le Srl vanno a gonfie vele. Tanto che il mese scorso sono riusciti a trovare oltre un milione di euro per comprare l’Hotel Europa (base d’asta: 1,2 milioni). A formalizzare l’acquisto è stata la San Francesco Srl, ovvero la società proprietaria dell’Hotel Adele Srl e divisa tra il 18enne Riccardo Andreatta, Samanta Zardo e il marito di Susy, Ilario Pelizzer. Un investimento importante, simbolo che le disponibilità economiche sono consistenti.

L’intreccio con la coop. Nel Vicentino si vociferava che l’acquisto fosse legato al nuovo bando da 74 milioni di euro emesso dalla Prefettura per l’accoglienza di 2.900 migranti tra il 2017 e il 2019. La Spiller, che insieme al nipote Riccardo Andreatta ha incontrato il sindaco di Vicenza, ha però “escluso qualsiasi ipotesi riguardante i richiedenti asilo”. Diventerà insomma un albergo a tutti gli effetti, al pari dell'altra struttura in capo alla Adele Srl, l'hotel Kristal. La famiglia si dichiara comunque “aperta all’accoglienza” e sta facendo di tutto per non uscire dal giro. I preparativi fervono. “Il nuovo bando (per i profughi, ndr) - ha spiegato la Spiller - rende problematica la partecipazione da parte di un’impresa privata, perché inserisce nuovi paletti rispetto al precedente (…). Credo che ad aggiudicarsi il bando sarà una cooperativa”. Nessun problema. Fatta la legge, trovato l’inganno. In effetti la Turist Hotel Srl e l’Hotel Adele Srl quest’anno non hanno presentato un’offerta. Ma non sembrano avervi rinunciato. A farsi avanti è stata la Cooperativa Sociale Aurora, associazione che collabora con la Spiller per la fornitura dei servizi di integrazione. La proposta di 428 posti letto ricalca casualmente la somma di quelli gestiti attualmente dall'Hotel Adele e dalla Turist Srl. Che coincidenza. O forse no, visto che il legame tra coop e “famiglia” è tale da spingere l’associazione a inviare Samanta Zardo come proprio rappresentante alla riunione in Prefettura per l’apertura delle buste. Curioso, no? Il totale dei posti offerti dalle 35 associazioni che si sono candidate al bando prefettizio sono inferiori (2.467) a quelli richiesti (2.900). Se non emergeranno problemi burocratici, dunque, è probabile che la coop Aurora e la sua rappresentante Zardo riescano ad ottenere quei 428 migranti a circa 35 euro al giorno cadauno. Se i profughi dell'Aurora finiranno all'Adele, Meri Spiller (indebitata fino al collo e con una coda di creditori alle calcagna da far invidia a Paperino) potrebbe continuare per altri due anni ad amministrare gli immigrati e buona parte dei relativi 9,5 milioni di euro (circa). In un vero e proprio affare di famiglia.

"Col Comune debiti per 300mila euro. Ma fanno affari coi migranti". L'ira del sindaco di Bolzano, Daniele Galvan: "Una persona con molti debiti che riacquista i beni pignorati con i soldi dei profughi, è un controsenso", scrivono Giuseppe De Lorenzo e Marco Vassallo, Mercoledì 18/10/2017, su "Il Giornale". Debiti, tanti. Volontà di saldarli, a quanto pare, molta poca. A Bolzano Vicentino, il sindaco Daniele Galvan da quattro anni deve fare i conti con un buco di 300mila euro creato dalle tasse mai pagate da Meri Spiller, dal suo compagno Francesco Rizzotto e dalle aziende a loro intestate. Direte: chissenefrega. E invece no. Perché Spiller e Rizzotto sono due nomi noti in paese per la gestione degli immigrati. Negli scorsi anni i loro affari non sono andati benissimo, ma da qualche tempo tutta la famiglia (comprese figlie, nipoti e generi) hanno intrapreso la strada dell’accoglienza ai migranti. L’Hotel Adele Srl, di cui la Spiller è amministratrice, ne ospita una novantina all’omonimo albergo a Vicenza. Poi altri sono sparsi in altri appartamenti e 80 sono finiti proprio a Bolzano Vicentino (in carico alla Turist Hotel Srl). “Per noi gestire i migranti è un costo - dice il primo cittadino - loro li hanno portati qui, ci saremmo aspettati che contraccambiassero saldando il debito pregresso”.

Sindaco Galvan, il Comune di Bolzano Vicentino vanta diversi crediti nei confronti della famiglia della Spiller.

“Si esatto: le varie aziende e società che hanno avuto devono circa 300mila euro all’amministrazione comunale”.

Di cosa si tratta?

“Tasse non pagate, Imu, Tari e via dicendo. È un contenzioso che va avanti da tanti anni”.

Non avete provato a costringerli a pagare?

“Abbiamo fatto tutto il possibile, passando i documenti ad Equitalia e tentando di contattarli per trovare un accordo e chiudere la faccenda. Ci sono stati vari incontri, ci sono state promesse, ma non siamo riusciti a portare a casa neanche un centesimo".

Adesso le società riconducibili alla famiglia della Spiller stanno guadagnando molto bene con l’accoglienza dei migranti. Non potrebbero onorare i debiti?

“Gli stabili di Spiller e Rizzotto che erano finiti all’asta sono stati ricomprati dai loro familiari. Quindi immagino abbiano la possibilità economica per pagarci il dovuto, eppure…Ma mi faccia dire un’altra cosa”.

Prego.

“Da qualche tempo è calato dall’alto il problema dei migranti. Sono arrivati 80 profughi e per noi gestire le paure dei cittadini è un problema di ordine pubblico. Ma sta diventando anche un costo. Le faccio un esempio: esiste una regola secondo cui la tassa sui rifiuti si paga a persona, fino ad un massimo di sei componenti. Solo che i migranti vengono stipati in appartamenti da 24 o 28 inquilini: risultano tutti residenti nella stessa casa, ma pagano la tassa solo per sei. Passi pure il fatto che li hanno portati in paese, ma almeno potrebbero contraccambiare risanando i debiti”.

Un po’ di reciprocità ci vuole.

“Guardi, nei giorni scorsi dalla cooperativa che li gestisce mi è arrivata una bozza di convenzione per i lavori socialmente utili dei migranti. Io mi sono rifiutato di firmarla finché non troviamo un accordo sul passivo accumulato dai proprietari degli stabili (Spiller e Rizzotto, ndr). Non trovo corretto che da una parte si facciano belli con i lavori socialmente utili e dall’altra non onorino i debiti con l’amministrazione comunale”.

Lo avete fatto presente al prefetto?

“Gli abbiamo consegnato l’estratto conto dei nostri crediti. Sia lui che la dirigente sono rimasti a bocca aperta. Loro ovviamente controllano solo le visure camerali delle aziende che partecipano al bando, non certo quelle dei parenti”.

E infatti l’Hotel Adele Srl non vanta debiti nei vostri confronti. Ma la loro amministratrice, Meri Spiller, invece sì.

“Non guardano chi c’è dietro. Gli acquisti che fanno con le società che ospitano i migranti non sono mai a loro nome, ma a venire in Comune per le trattative sulla gestione dei profughi erano sempre Rizzotto e Spiller. Non altri”.

Questo dimostra che sono loro a gestire le attività con i migranti?

“Io ho sempre interagito con loro due. Solo le ultime volte, gli ultimi due o tre mesi, mi sono incontrato con la signora della cooperativa Aurora”.

Non le sembra un controsenso che la prefettura paghi milioni di euro l’anno alla famiglia della Spiller, mentre loro non si muovono per pagare i vecchi debiti?

“Loro presentano una fattura e la prefettura paga. E invece il Comune, oltre ad altri imprenditori del paese, non vedono un euro a da anni. Una persona con molti debiti che riacquista i beni pignorati con i soldi dei profughi, è un controsenso. Non è equo verso chi vanta crediti nei loro confronti”.

Vicenza, i cittadini in rivolta: ​"Basta business dei migranti". Il comitato ProBolzano sulle barricate per la presenza di migranti a Bolzano Vicentino e per gli affari delle società riconducibili all'Hotel Adele, scrivono Giuseppe De Lorenzo e Marco Vassallo, Mercoledì 18/10/2017, su "Il Giornale".  C'è anche chi dice no. E non tanto, o non solo, perché convivere con decine di immigrati non è mai facile. Ma anche perché dietro l'accoglienza dei profughi sembra profilarsi sempre più chiaramente lo spettro degli affari. L'intreccio di società che forma il castello riconducibile a Francesco Rizzotto, Meri Spiller e i suoi familiari non ha lasciato indifferenti i cittadini di Bolzano Vicentino che da tempo si battono contro il business dell'immigrazione. Hanno formato un comitato (ProBolzano) perché si sentono "ostaggio di queste società che con il beneplacito di alcune istituzioni intascano milioni di euro". Sono "stanchi" di vivere ed osservare situazioni "che generano solo sfiducia verso le istituzioni". E c'è da capirli. Vedere il proprio paese "invaso" dai richiedenti asilo e sapere che chi li gestisce vanta debiti (anche consistenti) con il proprio Comune non è facile. Le società riconducibili all'accoppiata Rizzotto-Spiller (e famiglia), infatti, hanno cambiato la vita di Bolzano Vicentino e "rovinato il quieto vivere" di un piccolo Comune da 6.500 abitanti. Senza però che quei debiti venissero risanati. Chi le imposte le ha saldate sempre tutte, non può essere certo contento se chi ha portato i migranti in città ha mancato di versare Ici, Imu e via dicendo. In fondo il Comune rappresenta i cittadini, che quindi diventano creditori (indiretti) di quelle imprese (e persone) indebitate. "Queste società hanno portato anche a Bolzano Vicentino quasi 100 presunti profughi per i loro guadagni - scrive in una nota il comitato - rovinando il quieto vivere della popolazione che ormai ha paura di uscire la sera e non si sente più libera di girare per il proprio territorio. Le nostre continue proteste, attraverso giornali, televisioni, raccolte firme, lettere sono state regolarmente inascoltate. Chiediamo perciò che le istituzioni ai livelli più importanti verifichino la regolarità di questo 'giro' di soldi e chiediamo alla prefettura con che criteri dà i soldi, avendo appurato che certe persone che figurano all'interno di queste società sono debitori di enti pubblici come il nostro Comune".

 “Io che l’ho visto, vi racconto il business dei profughi a Milano”. Parla Faustino Boioli, medico, assessore al Comune negli anni '90, ora alla guida di una onlus che offre assistenza medica gratuita ai clandestini: «Tra chi scappa dalle guerre si nasconde chiunque. Il terzo settore ci campa e le organizzazioni islamiche...», scrive Ugo Savoia su “L’Inkiesta” il 7 Dicembre 2015. Il 16 ottobre 2013 era un mercoledì e il termometro a Milano segnava 15 gradi (la minima aveva raggiunto i meno 8 nella notte), appena un paio di tacche sotto quella che viene considerata la media stagionale. Mentre alla Triennale veniva inaugurata la mostra sui primi cento numeri della Lettura, inserto domenicale del Corriere della Sera, nel piccolo Comune di Sedriano succedeva qualcosa a suo modo di storico: per la prima volta in Lombardia veniva sciolto un consiglio comunale a causa di accertate infiltrazioni mafiose. Ma non erano queste cose ad attirare l’attenzione dei milanesi. Chi si fosse trovato a passare dalla Stazione Centrale, non avrebbe potuto fare a meno di notare uomini, giovani donne e bambini appena sbarcati da un treno proveniente dalla Sicilia. Erano circa 150, forse 200 non di più, evidentemente stranieri (mediorientali? magrebini?) e se ne stavano lì nel mezzanino ad aspettare che qualcuno dicesse loro che cosa dovevano fare. Milano guardava in faccia per la prima volta le persone scappate dalle guerre e dalle cosiddette primavere arabe e quel manipolo di persone silenziose rappresentava il primo refolo di una tempesta che avrebbe portato qui almeno 85 mila rifugiati a vario titolo negli ultimi due anni. Fino ad allora il problema era stato gestito senza particolari problemi, anche per l’esiguità dei numeri. Ma quel giorno cambiò tutto, non solo perché il Comune fu costretto ad organizzare improvvisati punti di raccolta in cui offrire cibo e assistenza sanitaria – venne lanciato un appello alla cittadinanza perché contribuisse come poteva, in particolare con vestiti usati e coperte -, ma anche perché fu subito chiaro che stava cominciando una vera emergenza. E che il governo avrebbe pagato chiunque si fosse offerto per aiutare a gestirla. La diaria, garantita dalla prefettura, era (ed è) di 35 euro al giorno per ogni profugo. «Sì, quella fu una svolta. Perché prendeva corpo anche qui il business della gestione dei rifugiati. Lo stesso per intenderci che è emerso in dimensione ben più ampia dall’inchiesta Mafia capitale», dice Faustino Boioli, un signore milanese nato nel 1940 che nella vita è stato tante cose: medico, consigliere comunale prima per il Pci poi per il Pds, assessore tra il 1985 e il ’90, primario di Radiologia al Fatebenefratelli, associato dal 1999 alla sezione italiana di Medecins du Monde (organizzazione “cugina” di Medici Senza Frontiere), fondatore con un gruppo di colleghi dell’associazione Medici Volontari Italiani, onlus che offre assistenza medica gratuita a clandestini, esclusi o autoesclusi dalle cure mediche, e gestisce un poliambulatorio in via Padova. Quei rifugiati erano arrivati qui dalla Siria o dalla Tunisia grazie a qualcuno che aveva gestito i loro flussi dai Paesi d’origine facendosi pagare, come è noto, migliaia di dollari o di euro a persona. Erano vestiti abbastanza bene e molti di loro, specie i siriani, parlavano inglese. Erano arrivati a Catania e da lì, in treno, erano sbarcati a Milano per poi raggiungere altre destinazioni europee (Germania e Francia in particolare). Ma non fornivano documenti, non volevano essere registrati in alcun modo. «Fu subito chiaro – prosegue Boioli – che l’anonimato rappresentava una situazione pericolosa, perché in mezzo alle tante persone effettivamente fuggite dalla guerra, poteva nascondersi chiunque, terroristi compresi, o anche solo stuoli di furbi che pur non avendo lo status di profughi venivano trattati come tali. Con il passare dei mesi, l’aumento degli arrivi a Milano e in Lombardia ha raggiunto le dimensioni di business vero e proprio, soprattutto per piccoli alberghi e pensioncine che non navigavano in buone acque». «Fu subito chiaro – prosegue Boioli – che l’anonimato rappresentava una situazione pericolosa, perché in mezzo alle tante persone effettivamente fuggite dalla guerra, poteva nascondersi chiunque, terroristi compresi, o anche solo stuoli di furbi che pur non avendo lo status di profughi venivano trattati come tali». Basta far due calcoli. L’imponente numero delle persone da gestire fa sì che sia sufficiente offrire la propria disponibilità ad ospitarne una trentina a settimana per risanare il bilancio di un piccolo albergo o di una associazione assistenziale: 30 per 35 dà come risultato 1.050 euro al giorno. Facciamo che l’albergatore, o l’associazione, ne spendano 450 per garantire un letto e la prima colazione per tutto il gruppo (pranzo e cena vengono in genere forniti da altre organizzazioni): restano 600 euro al giorno, vale a dire 18 mila euro netti al mese. La permanenza media dei profughi è di circa 9 mesi, quindi basta moltiplicare per capire le dimensioni di un business che ha ampi margini di guadagno. «Ma non è soltanto questo il punto. La realtà è che più aumentavano i profughi mediorientali e più aumentava la presenza a Milano di Islamic Relief, ong inglese presente in tutta Europa per dare assistenza ai migranti di religione musulmane e per questo finanziata dalle istituzioni europee, nonostante si dica usi quei soldi per finanziare a sua volta Hamas e i Fratelli Musulmani». «Proprio alla luce di questa considerazioni, andrebbe chiarito che i profughi non sono da considerare tutti acriticamente dei santi - continua Boioli -. Gheddafi, per esempio, aveva svuotato le carceri libiche indirizzando i detenuti verso l’Italia. E io che sono un medico, non il confessore o l’amico di un rifugiato, sono disposto ad assisterlo a patto che rispetti le regole del nostro Paese, che non pretenda di essere trattato meglio dei cittadini italiani, magari giocando sui nostri sensi di colpa o sull’ingiustificato buonismo che ci caratterizza. Non dimentichiamo che molti di costoro sono in possesso di documenti rubati, cosa che rende impossibile la loro effettiva identificazione. Su questo bisogna essere inflessibili. La professionalità che noi mettiamo nell’assisterli o nel curarli non ha niente a che fare con il buonismo, che è tolleranza acritica di fenomeni e comportamenti che devono essere positivamente e qualche volta energicamente gestiti. La professionalità è la capacità di svolgere la propria attività con competenza ed efficacia: il cosiddetto buonismo è invece una fuga dalle proprie responsabilità in momenti critici, quando l’emotività prevale sulla razionalità».

Nel business dei profughi spunta un alfaniano che viaggia in Ferrari, scrive mercoledì 24 febbraio 2016 "Il Secolo d’Italia”. Si chiama Paolo Di Donato, è un ex consigliere comunale Ncd della provincia di Benevento e gestisce un business da 24mila euro al giorno su profughi e migranti. A scoprire il personaggio in questione è stato il Redattore sociale, in un’inchiesta ripresa da Mario Giordano per il suo libro in uscita dal titolo Profugopoli e riproposto da Il Giornale. La foto che immortala Di Donato accanto a una Ferrari è già diventata virale sul web. L’imprenditore e uomo politico sannita venne tirato in ballo dal Redattore sociale in un articolo del 4 novembre 2015. Documentava il business degli appalti sugli immigrati realizzati dal consorzio Maleventum di Benevento, evidenziando gravi carenze strutturali. Al Consorzio non la presero tanto bene. Questa la smentita del consorzio sannita: «Al momento ospitiamo 740 migranti in 12 strutture gestite da management qualificato e con 140 dipendenti tra cui addetti alla vigilanza, alla cucina, mediatori culturali, infermieri professionali, alle pulizie, regolarmente assunti a tempo indeterminato con Ccnl delle cooperative sociali. Oltre a 3 avvocati convenzionati per l’assistenza legale. Il Presidente del Consorzio non è Paolo Di Donato ma il sottoscritto, il Di Donato è il dirigente aziendale». A firmare la smentita è colui che risulta come amministratore unico: Elio Ouecthati. L’amministratore in questione ha 24 anni, un diploma alla scuola alberghiera, un laurea triennale in un’università telematica e la grande aspirazione di fare l’assistente amministrativo a scuola, come risulta dai concorsi pubblici ai quale ha partecipato recentemente e dei quali traccia su internet. Ambizione particolare per l’amministratore unico di una società che ha un giro d’affari di almeno 8 milioni l’anno. Ancora più curioso, inoltre, che lo stesso Di Donato, sul suo sito personale sostenga di essere «ideatore, creatore e gestore» dello stesso consorzio.  Insomma, smentisce il suo “amministratore”. Tutto lecito, per carità, ma la vicenda di quest’uomo facoltoso che si occupa della gestione dei più sfortunati vale la pena di essere raccontata. Il consorzio Maleventum gestisce mille profughi. Ma chi è Paolo Di Donato? Ha 46 anni ed è stato anche consigliere comunale di Sant’Agata dei Goti (eletto nel Pdl poi passato in Ncd, quindi in una lista civica) fino al commissariamento del municipio avvenuto a settembre 2015. Ma è l’attività del consorzio Maleventum il suo fiore all’occhiello: «Operiamo con 15 Centri residenziali – si legge sul sito del consorzio Maleventum–nell’accoglienza di cittadini stranieri richiedenti asilo politico e profughi di guerra posti sotto protezione internazionale dal Governo Italiano. Disponiamo di 1000 posti letto in regime residenziale a disposizione del ministero degli Interni». Quel ministero diretto da Angelino Alfano, lo stesso partito del quale Di Donato è stato consigliere comunale.

Il business dell’accoglienza a spese nostre (e dei migranti), scrive Gian Antonio Stella il 9 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera”. Cos’hanno in comune le tarantelle di «Sicilia Bedda» e una coop toscana di derattizzazione? Niente, direte voi. Invece sono in qualche modo sorelle: hanno scoperto il business dei profughi. Capace in un caso di moltiplicare il fatturato fino a 126 volte (centoventisei!) in cinque anni. A spese degli italiani e dei profughi stessi. Che fosse un affarone si era già intuito leggendo la famosa intercettazione di Salvatore Buzzi, uno dei principali protagonisti di «Mafia Capitale»: «C’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno». Il puzzle ricostruito pezzo su pezzo da Mario Giordano in Profugopoli (167 pagine, Mondadori) è però ancora più vasto e spesso ripugnante di quanto sapessimo. E accusa non solo gli «intrallazzatori professionisti, i truffatori patentati, i trafficanti di immigrati, i semplici furbetti di paese» che cercano di strappare più profughi possibili ai volontari veri, quelli che si dannano l’anima sul serio per aiutare il prossimo (come la mamma dello stesso Giordano, cui il libro è dedicato) ma il sistema. Compresi certi prefetti che, per liberarsi dell’ingombro, smaltiscono i nuovi arrivati consegnandoli a chi capita. Dice tutto la storia di Pasquale Cirella, ex-installatore di impianti idraulici del napoletano che dopo aver fondato con incerte fortune la «Family Srl» per la «gestione di alberghi, pensioni, ristoranti, pub, pizzerie…» cambia la «mission» scrivendolo anche a bilancio: «L’emergenza profughi è l’oggetto principale della nostra società». In alleanza con «New Family» di Daniela Carotenuto, già «Miss Paesi Vesuviani», ha fatto per anni man bassa di appalti. Passando tra il 2009 e il 2014 da 44 mila a 5 milioni e mezzo (abbondanti) di euro. Un exploit dovuto anche a come trattava i profughi: al «Di Francia Park», ristorantone per matrimoni poi sequestrato, ne aveva messi trecento su brandine accatastate nelle sale. «I soliti terroni!», dirà qualcuno. «Lady Finanza» Giannina Puddu da quarant’anni «vive e respira la Milano da bere: prima la Bocconi, poi PiazzaAffari» fino a «diventare presidente di Assofinance». Costruita una palazzina a Chieve (Cremona) «è riuscita a vendere solo due appartamenti» e che fa? Fonda la società «Garbata Accoglienza». Dodici giorni dopo, è «ritenuta dalla Prefettura adatta a gestire la drammatica emergenza dei profughi» e piazza i suoi nella palazzina vuota: «Dovevo pagare le rate del mutuo». Il Consorzio di cooperative McMulticons sta a Empoli e dintorni, tratta di «pulizie civili, industriali, sanificazione ambienti, derattizzazione» ed è legato a una Onlus che si occupa di carcerati. Che c’entrano i profughi? Ne prende in carico 141 e ne manda 36, denuncerà redattoresociale.it, in un «casolare diroccato in aperta campagna, a 5 chilometri da Castelfiorentino e lontano da qualsiasi centro abitato» con le «pareti ammuffite, i muri sgretolati, le cucine abbandonate, gli angoli pieni di sporcizia» e «due bagni per 36 persone». Due euro al giorno dello Stato vanno a ogni immigrato (sigarette) e gli altri (da 28 a 38, a seconda dei contratti) a chi gli dà da mangiare e dormire. «A Benevento la Prefettura si fida ciecamente di Maleventum. Non è un gioco di parole, è il nome del consorzio che raccoglie diverse cooperative cui sono stati affidati ben 770 profughi, un’enormità. “Sparsi in 13 centri diversi”». Incassi 2015? «Quasi 9 milioni di euro». La «mente è Paolo Di Donato, che non a caso si definisce “ideatore, creatore e gestore, con oltre 200 dipendenti, del consorzio”». Volete vedere il tipo? «Sul profilo Facebook si mostra a bordo di una Ferrari». In compenso, denuncia ancora redattoresociale.it, per una trentina di giorni, i circa 120 «ospiti» ammassati in una palazzina a Contrada Madonna della Salute «hanno bevuto e si sono lavati con acqua di pozzo». Elio Nave è titolare dell’Hotel Quercia di Rovereto: «Sono stato sempre leghista e sempre lo sarò». Il suo segretario Matteo Salvini spara più contro i profughi che contro gli affaristi? Lui applaude, ma ha spiegato al Corriere delle Alpi che il nuovo business va benissimo: «Non riuscivo a coprire le spese. Avevo già chiuso il ristorante. Poi avevo provato ad aprire una pizzeria…». Adesso è sempre completo: «Senza i profughi avrei dovuto chiudere». «Ospitare i profughi è il nostro nuovo modello economico» dice Giulio Salvi dell’Hotel Bellevue di Cosio Valtellino: «Ho già incassato 700-800.000 euro». Di turisti «non ne venivano più…». Vuoi mettere i profughi? «Ne hanno 70 a 37,5 euro al giorno», spiega Giordano, «Incassano 80.000 euro al mese. In cambio offrono camere modeste, un vecchio televisore e un menù basico, riso e pollo, piatto unico». Il Csfo di Monselice (Padova), fa corsi di formazione per buttafuori e per addetti alle pompe funebri ma non si fa scappare il business e prende in gestione «una cinquantina di immigrati, incassando per ognuno di loro un contributo pari a 34,89 euro al giorno». E dove li piazza? In una ex colonia a mille metri a Pian delle Fugazze. Un’interrogazione accusa: «degrado inaccettabile», «abisso di inciviltà», «bagni intasati», «allagamenti di corridoi»… Fra l’altro, racconta il libro, «vien fatto notare che a tutti gli ospiti sono stati consegnati all’inizio del soggiorno un piatto e due posate in plastica, genere usa e getta. Da mesi sono costretti a mangiare con quelli. Sporchi e rotti. Da far schifo». Ma che razza di società è? Sorpresa: «L’86 per cento del capitale è vincolato nel CalvetTrust, un fondo soggetto alla legge di Jersey». Un paradiso fiscale…

Il grande business dei profughi. Tra onlus senza scrupoli e professionisti a caccia di soldi, lo Stato butta via 61 milioni. E i tribunali sono intasati da migliaia di cause, scrive Luca Fazzo, Lunedì 02/03/2015, su "Il Giornale". 

A. ha abbandonato il Gambia perché suo padre voleva a tutti i costi fargli fare incontri di boxe a mani nude. M. è scappato dal Mali perché tutte le notti gli appariva in sogno un diavolo che voleva fargli mangiare un piatto di riso: in Italia si sentirebbe più sicuro, perché - spiega - il diavolo non sa nuotare e non può raggiungerlo.

B. ha lasciato il Senegal perché era ricercato per avere disertato la leva per non stare lontano dalla nonna. Come migliaia di altri disperati, sono arrivati in Italia, hanno chiesto asilo, se lo sono visto respingere, perché era evidente che non c'era nessuno dei motivi umanitari, religiosi o politici che giustificano l'asilo. Ma non se ne sono andati. Hanno fatto ricorso. Il loro ricorso è andato a intasare le cancellerie dei tribunali. E soprattutto a ingrassare il business del «gratuito patrocinio», il capitolo di spesa che deve servire a dare assistenza legale ai cittadini indigenti, e che ormai viene assorbito in larga parte per finanziare i ricorsi dei profughi, veri o finti che siano, che accedono ai fondi pubblici senza sottostare a nessuno dei controlli che toccano agli italiani.

È un tema delicato, quello del grande affare dei ricorsi per ottenere asilo, e lo è per più di una ragione. In primis, perché lo sfondo è quello di drammi epocali e reali, di sventurati in fuga da guerre e persecuzioni reali tra cui si mimetizzano migliaia di furbacchioni. Più prosaicamente, perché intorno al business dei ricorsi si muove un mondo di onlus e di cooperative che pensano anche agli affari loro: costola di quell'universo venuto alla luce, prima ancora dell'inchiesta su Mafia Capitale, già in una serie di inchieste giornalistiche, come quella dell'Espresso nel 2012. E, ancora più tristemente, perché i fondi del gratuito patrocinio costituiscono la principale fonte di sostentamento di un numero consistente di avvocati che la crisi ha messo in difficoltà: «È diventata la loro cassa integrazione», sintetizza un magistrato di lunga esperienza. Sono questi avvocati, spesso emanazione delle onlus specializzate nell'accoglienza, a monopolizzare - o quasi - il business dei ricorsi. E a incassare per ogni ricorso, spesso stilato con la raffinata tecnica del copia-e-incolla, tra gli ottocento e i mille euro. Da moltiplicarsi per i tre gradi di giudizio. Anche se politicamente un po' scorretto, il tema del business dei ricorsi è noto da tempo agli addetti ai lavori. Tant'è vero che qualcuno ha iniziato a sollevarlo formalmente. L'Ordine degli avvocati di Roma ha iniziato a respingere una parte consistente delle richieste di gratuito patrocinio, perché prive dei requisiti fondamentali. Ma intanto la pratica va avanti, la cancelleria accetta il deposito del ricorso anche senza le marche da bollo, poi il giudice quasi sempre concede il patrocinio a spese dello Stato. Migliaia e migliaia di cause. Eppure spesso a spartirsi la torta è un nugolo ristretto di avvocati. A Roma gli iscritti all'albo sono venticinquemila: «Ma gli asilanti che ottengono il gratuito patrocinio - raccontano fonti interne al palazzo di giustizia - hanno sempre gli stessi avvocati: dieci, massimo venti. Sono quelli legati alle onlus presenti nei centri di prima accoglienza: l'Arci, la Caritas, il Centro Astalli dei gesuiti. La mattina quando si aprono le porte dei centri, gli avvocati sono già dentro, chissà come. Gli altri avvocati, quelli normali, entrano, e trovano i clienti già tutti accaparrati». L'intervento dell'avvocato è prezioso, perché consente all'immigrato di rimediare per tempo agli sbagli compiuti quando, al momento del primo impatto con le forze di polizia, ha fornito la prima versione della propria storia, riempiendo il cosiddetto «modello c3», primo impatto con la burocrazia italica. Nei ricorsi, la versione dei fatti spesso viene aggiustata e corretta. I numeri del contenzioso sono impressionanti. Nei dodici mesi dall'agosto 2013 al luglio 2014, le commissioni presso le prefetture hanno esaminato oltre 35mila richieste di asilo. Un po' più di 9mila sono state respinte, e gli interessati hanno fatto ricorso. Ma il problema è che a fare ricorso sono nella quasi totalità anche gli immigrati che si sono visti concedere protezioni meno generose dell'asilo, che dà diritto a cinque anni di permanenza nel territorio italiano, ed è stata concessa solo a 3.784 persone. Non si accontentano e fanno ricorso quelli che si sono visti concedere la «sussidiaria», che garantisce tre anni di soggiorno. E pure quelli della «umanitaria», che garantisce un solo anno. In tutto, oltre 30mila cause in Italia. Praticamente, tutte a spese dello Stato. La prima conseguenza è l'esplosione dei costi che la giustizia italiana deve sostenere per il «gratuito patrocinio». Le statistiche del ministero di via Arenula segnalano negli ultimi cinque anni un'escalation inarrestabile: dai 30 milioni spesi nel 2008 si è arrivati ai 61 milioni del 2013. I dati del 2014 ancora non ci sono, perché la massa è tale che molti tribunali ancora non sono riusciti a fornirli al ministero, ma la crescita continua. Sono dati complessivi, che non distinguono il patrocinio concesso a italiani e stranieri. Ma chi sta sul campo ha un polso chiaro della situazione: «I fondi per il gratuito patrocinio sono assorbiti quasi per intero dai richiedenti asilo», raccontano in tribunale a Milano. Il contenzioso è destinato ad aumentare, perché le commissioni territoriali hanno cominciato a stringere le maglie. Nel corso dello scorso mese di gennaio, tanto per dare un'idea, sono state presentate 5.407 domande di asilo in Italia. Ne sono state esaminate meno della metà, 2.503. E di queste ne sono state respinte ben 1.190, quasi la metà. Il 23% si è visto concedere la «umanitaria», il 20% la «sussidiaria». In pratica, solo il 6 per cento dei richiedenti ha ottenuto l'agognato asilo. Tutti gli altri faranno ricorso, perché non costa nulla e soprattutto perché rivolgersi alla magistratura consente di restare in Italia. Dal primo ricorso al tribunale, fino all'esito dell'ultimo in Cassazione, il cittadino straniero ha diritto al permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Non esistono dati statistici sulla durata di questi processi, ma è facile immaginare che non si arrivi molto lontano dai cinque anni. Nella sostanza, si ottiene quasi lo stesso risultato che si sarebbe ottenuto se le commissioni avessero concesso subito asilo. «Anche perché - spiegano in tribunale a Roma - dopo avere impugnato un provvedimento della commissione, si può chiedere alla commissione di esprimersi nuovamente. La commissione ribadisce il suo parere e si impugna anche quello, sempre a spese dello Stato. È come se si facesse causa quattro volte per riparare sempre la stessa portiera». Nel frattempo, il richiedente resta in Italia. Insomma, tanto varrebbe concedere l'asilo a tutti, il risultato sarebbe lo stesso ma si risparmierebbero una montagna di soldi e un sacco di lavoro. La normativa italiana, d'altronde, è indubbiamente garantista. In primo luogo perché a differenza di buona parte degli altri paesi europei assegna la competenza sui ricorsi alla giustizia ordinaria, e non a quella amministrativa. In secondo, perché - sulla base di precisi orientamenti della Cassazione - il ricorso viene valutato privilegiando il punto di vista dello straniero. «Potremmo dire - spiega un giudice milanese che da anni si occupa di questi ricorsi - che non è il richiedente a dover dimostrare la verità delle sue motivazioni, quanto lo Stato a doverne mettere eventualmente in dubbio l'autenticità». Un'inversione dell'onere della prova, dovuta indubbiamente a considerazioni umanitarie, che porta - anche se non esistono statistiche precise su questo dato - all'accoglimento di una larga parte dei ricorsi anche se non sono emersi fatti nuovi. La stessa documentazione che aveva portato le commissioni territoriali (di cui fa parte per legge anche un rappresentate del commissariato Onu per i rifugiati di cui era portavoce Laura Boldrini) a negare lo status, viene spesso considerata sufficiente dal giudice per la decisione opposta. In quelle carte, racconta chi per lavoro ci vive in mezzo, passa di tutto. Veri drammi individuali o collettivi, storie di fame e miseria, mode passeggere come quella dei senegalesi che proclamano in massa di essere sfuggiti all'arruolamento tra i ribelli del Kasamas. E persino chi candidamente chiede asilo in Italia visto che in patria lo ricercano per avere piazzato una bomba.

L’arrivo dei profughi diventa business. L’accoglienza dei migranti interessa anche cooperative di fuori provincia. Un consorzio di cooperative toscane aprirà due nuovi centri di ospitalità nei Comuni di Dego (foto) e Urbe, scrive il 10/06/2016 Silvia Campese su “La Stampa”. Le cooperative fuori regione iniziano a fiutare il business dei profughi anche a Savona. Lo dimostra il fatto che, oltre a due realtà, che già operano in provincia, una piemontese e una toscana, hanno partecipato al bando per il servizio di accoglienza dei cittadini stranieri 2016, indetto dalla Prefettura, diverse coop provenienti da altre regioni. Così, anche se la gara è stata vinta dall’autoctono Faggio, sul territorio la rosa dei nomi di chi gestisce l’accoglienza si sta ampliando. A partire dal consorzio Multicons di Montelupo Fiorentino che, il prossimo luglio, inaugurerà due centri, a Urbe e a Dego, destinati a ricevere 50 ospiti. Il settore cresce, sia in termini di arrivi che di offerta. Nel Savonese, con gli ultimi invii, il numero dei migranti raggiunge quasi le 600 unità, ma cresce, insieme, il numero di chi si propone come gestore. Per chi operi seriamente, il guadagno non può essere molto: nei 35 euro a profugo (per i minorenni la cifra è ben più ampia, dagli 80 ai 120) vanno conteggiati cibo e vestiario, assistenza sanitaria, corsi di lingua e attività mirate all’inserimento. I casi noti, per ora fuori Liguria, dimostrano come non tutti i gestori operino, però, in assoluta coscienza. Intanto, il Comune di Finale Ligure, con il progetto firmato da Arcimedia, si è classificato 42° a livello nazionale, primo in provincia, nell’ambito dei progetti Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati). Venticinque i profughi che, dal prossimo settembre, saranno ospitati nella casa madre delle suore «Figlie di Nostra Signora della Misericordia», in piazza Milano, a Finalmarina, ottenendo il finanziamento ministeriale per la progettazione, in partnership con il comune di Orco Feglino.  

Gli ipocriti del business dei profughi. L'industria dell'immigrazione continua a sfornare morti annegati e buone intenzioni, che fioriscono a ogni naufragio senza che se ne venga a capo, scrive Piero Ostellino, Venerdì 18/09/2015, su "Il Giornale".  L'industria dell'immigrazione continua a sfornare morti annegati e buone intenzioni, che fioriscono a ogni naufragio senza che se ne venga a capo. La prospettiva di risolvere il problema affondando i barconi, prima che diventino il mezzo di trasporto di migliaia di invasori dell'Europa, ha sollevato le reazioni indignate delle anime belle; reazioni che sono, poi, l'aspetto ipocrita di chi dall'immigrazione trae un qualche beneficio economico e sociale e a esso non vuole rinunciare. A nessuno è passato per la testa che fino a quando ci si indignerà alla prospettiva di debellare il traffico di immigrati con mezzi militari adeguati i mercanti di uomini continueranno a fare il loro sporco mestiere e l'industria dell'immigrazione continuerà a fiorire. L'ultimo a sollecitare l'Unione europea a provvedere è stato generosamente il presidente della Repubblica. Ma l'Ue non pare esserne interessata, né avere i mezzi per provvedervi. Sollecitazioni come quella del buon Mattarella rimangono intenzioni con le quali si fa qualche concessione alle coscienze emotivamente toccate da ogni naufragio e dai morti annegati che ne conseguono, senza che ne sortisca un qualche effetto. Invocare l'intervento dell'Ue è fiato sprecato e aspettarsi che qualcosa faccia almeno il nostro governo è tempo perso. La cruda verità è che sia l'Europa, sia il governo Renzi, per non parlare di quelli che lo hanno preceduto, non hanno formulato alcuna politica dell'immigrazione e sono stati colti di sorpresa dalla crescita esponenziale dei flussi migratori non sapendo palesemente come arrestarli. Troppi interessi ci sono dietro gli sbarchi perché gli inviti a fare qualcosa sortiscano un qualche effetto. Bisognerebbe prendere il problema per il collo, incominciando col formulare una politica di investimenti nei Paesi dai quali partono gli immigrati allo scopo di impedire di fatto che partano, offrendo loro opportunità di lavoro e di una vita decente in patria. Ma certe esperienze disastrose, e scandalose, del passato - quando la politica di cooperazione si era risolta in un finanziamento occulto dei partiti - lo sconsigliano. C'è già fin troppa dispersione di risorse finanziarie, che finiscono nel calderone della corruzione, per immaginare di ripetere certe esperienze. Così, rimane solo l'adozione di soluzioni radicali militari contro i trafficanti. Ma fino a quando solleveranno ondate di (finta) indignazione com'è accaduto negli ultimi giorni, anche questa soluzione resterà nel limbo delle cose da fare. Il probabile risultato sarà la colonizzazione dell'Europa a opera di un'immigrazione islamica o, peggio, l'aumento del terrorismo e della criminalità organizzata, la fine della nostra civilizzazione. I primi sintomi già si avvertono col cretino divieto di legge di aggiungere l'attributo islamico al sostantivo estremismo; poi verrà l'obbligo, anche alle donne di altre religioni, di indossare il chador che le donne musulmane già indossano sulle nostre strade; infine l'imposizione di una morale, quella islamica, diversa. Di fronte a tale catastrofica prospettiva la soluzione più logica sarebbe l'affondamento dei barconi prima che facciano il loro cattivo servizio e la condanna dell'industria dell'immigrazione. Ma l'Occidente democratico e cristiano ne avrà il coraggio e la forza, anche morale, necessari? C'è da dubitarne, almeno fino a quando ci saranno anime belle pronte a ipocritamente scandalizzarsene e a impedirlo, non per buonismo, come lo si definisce per comodità morale, bensì per interesse. In definitiva. L'industria dell'immigrazione è fatta di troppi interessi concomitanti perché la si possa debellare con le buone intenzioni e fino a quando non si andranno a colpire quegli interessi, non solo quelli degli scafisti, non se ne uscirà.

Soldi sulla pelle dei migranti, il business milionario dei palazzinari. Le Prefetture cercano case in cui accogliere i profughi, le coop cercano appartamenti. Qualche società immobiliare si è specializzata nel settore facendo da tramite tra cooperative e prefetture. E anche le agenzie sono entrate nel mercato, scrive Lidia Baratta l'11 Novembre 2016 su "L’Inkiesta”. Il malandato mercato immobiliare degli affitti ha trovato una nuova valvola di sfogo: fornire alle Prefetture case, ville, cascine e appartamenti per l’accoglienza straordinaria dei profughi. Con il ministero dell’Interno che da Roma preme per inviare migranti e richiedenti asilo nei comuni di tutta Italia, le Prefetture sembrano essere alla disperata ricerca di strutture in cui accoglierli, lanciando appelli ai proprietari privati. E gli immobiliaristi non si sono fatti attendere, irrompendo sulla scena: ci sono società che si stanno specializzando nel “settore”, facendo da punto di incontro tra affittuari e cooperative, e agenzie immobiliari che tra le varie possibilità illustrano ai proprietari anche la possibilità di accogliere i migranti. «Sempre meglio che tenere le case vuote», dicono. È il mercato, bellezza.

Le case per creare i cosiddetti Cas, Centri di accoglienza straordinaria, sono ricercatissime. Anche perché spesso si lavora sul filo dell’emergenza. E contando che si tratta di un incasso di 35 euro al giorno per migrante, di cui solo 2,50 euro vanno in tasca ai migranti, il bottino in palio per tutti è ghiotto. Il 16 novembre scade l’avviso pubblicato dalla Prefettura di Ferrara – nella provincia dove i cittadini hanno messo le barricate contro l’arrivo dei profughi – per raccogliere manifestazioni di interesse per l’utilizzo di immobili da destinare agli stranieri. «Si invitano gli eventuali interessati a manifestare a questa Prefettura la disponibilità di locare strutture e immobili», si legge nel documento. Lo scorso luglio dalla Prefettura di Lucca è arrivata una richiesta simile: «Chiunque detenga unità abitative situate nel territorio della provincia di Lucca ed intenda locarle per l’accoglienza dei cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale può segnalare la propria disponibilità» a un elenco di cooperative e associazioni cattoliche. Lo stesso hanno fatto Venezia, Fermo, Brescia, Lecco e Monza. La prefettura di Monza ha addirittura siglato un accordo con la federazione locale degli agenti immobiliari per la ricerca di soluzioni abitative adatte a ospitare i profughi. In Lombardia, la regione che oggi accoglie la maggiore percentuale di immigrati, la società immobiliare bergamasca Minerva Logistica srl, che si occupava della compravendita di immobili, negli ultimi anni si è specializzata nel mettere in contatto i proprietari immobiliari e le cooperative che si occupano dell’accoglienza. Una sorta di centrale di collocamento per migranti. Il nome della società si trova tra gli elenchi di aggiudicatari nei bandi per l’accoglienza di molte prefetture lombarde e anche emiliane, da Milano a Cremona, da Pavia a Piacenza. Minerva trova gli appartamenti e le coop che si occuperanno dei migranti, poi offre il “pacchetto completo” alle prefetture e vince i bandi. Un business da milioni di euro. Che a quanto pare non conosce appartenenze politiche. Visto che il factotum della società, quello che stringe mani e prende accordi, è un ex leghista, tale Bruno Bosatelli, sindaco del Carroccio del comune di Villa D’Ogna (Bergamo) per dieci anni, finito al centro di uno scandalo sollevato dalle Iene per una casa non pagata e costretto alle dimissioni dalla Lega Nord. Ora, nella sua nuova veste di imprenditore, si occupa delle relazioni con il pubblico per la Minerva. E pare essersi convertito, visto che trovare casa ai migranti è diventato il suo nuovo lavoro. È Bruno Bosatelli, secondo la ricostruzione fatta dal giornale locale L’Altomilanese, a presentarsi lo scorso 20 luglio al Comune di Magenta con un biglietto da visita della Minerva Logistica srl, parlando con il sindaco a nome della società dell’arrivo di un nuovo gruppo di profughi. L’immobile preso in gestione dalla società nel comune milanese, che già dal 2014 ospita un centinaio di migranti nell’ex ospizio della Curia, è un’ala di una cascina di campagna del Settecento. La Cascina Calderara, questo il nome della struttura, abitata da generazioni dalla famiglia Sangalli, è finita nelle offerte arrivate sulla scrivania della Prefettura di Milano. Una metà della struttura, dopo un fallimento societario di uno dei membri della famiglia, nel 2011 va all’asta e viene acquistata a metà del valore di mercato dalla Federico II srl di Legnano, posseduta per metà dal notaio milanese Claudio Letterio Scordo e per metà dalla società immobiliare Laviefuille srl. I tentativi di affittare l’ala della cascina non sono andati a buon fine, così l’immobile è finito nella mani della Minerva srl, che l’ha inserito nella rose di immobili offerti per il bando di gennaio 2016 della Prefettura di Milano. Costo del servizio di accoglienza migranti: 34,50 euro a testa al giorno (affidato prima alla coop La Cordata, poi a una coop del Consorzio Concordia di Chiari, Brescia). Il problema è che l’altra parte della cascina è abitata ancora dal signor Valter Sangalli e dalla sua famiglia, ignari fino all’ultimo momento del trasloco dei nuovi coinquilini. All’inizio si era parlato dell’arrivo di cento profughi, poi a settembre nella cascina sono arrivate 29 persone, 17 bambini e 12 donne, tutti provenienti dall’Eritrea. La proprietà della cascina è divisa in due. Ma l’ingresso, un portone di legno di fronte a una campagna sconfinata, è unico. Per la famiglia Sangalli e i profughi. Che condividono anche il cortile interno. Tanto che la Minerva srl, su richiesta dei Sangalli, ha ben pensato di dividerlo con una cinta di ferro sistemata su piloni di cemento. Come quelle che si usano per i lavori in corso. E sulle lunghe balconate della corte interna, un tempo comunicanti, hanno messo una struttura divisoria coperta di edera. Di qua ci sono i Sangalli, di là i profughi. E le differenze linguistiche non aiutano i rapporti di buon vicinato. Tranne tra i bambini, gli unici ad aver fatto amicizia. Ma la mattina i bambini eritrei, nonostante alcuni di loro siano in età scolare, a scuola non ci vanno. La struttura è tagliata fuori dal paese dalla strada statale, e nessuno dei profughi lascia mai quelle campagne per andare in centro. Di sera nella cascina si sentono i cani dei Sangalli abbaiare da un lato, e le urla dei bambini dall’altro. «Ho dovuto chiudere i cani perché loro hanno paura», dice la signora Sangalli. «La Minerva ci ha promesso che costruiranno un cancello definitivo, così potremo tornare a usare il nostro cortile come una volta». Se i centri di accoglienza, quelli grandi, sono al collasso, l’accoglienza di piccoli gruppi di profughi si può fare (ed è meglio) anche in appartamento. Le cooperative per poter partecipare ai bandi delle prefetture vanno alla ricerca di case sfitte da inserire nelle offerte. È una delle principale incombenze per loro al momento. Basta anche una cascina chiusa da anni in mezzo alle montagne piemontesi, come abbiamo raccontato. «Tanto questi prima abitavano nelle capanne», ha commentato un operatore durante una riunione. O un palazzone nascosto nel centro di Milano prima adibito a uffici, come è accaduto in via Balduccio da Pisa a Milano con il centro per migranti poi chiuso dagli ispettori ministeriali per le scarse condizioni igieniche. Si sottoscrivono i contratti tra privati e i profughi arrivano su ordine della prefettura. Dall’altra parte, i proprietari di case e palazzine sfitte, difficili da piazzare sul mercato, si stanno facendo avanti. Basta fare una telefonata a qualsiasi prefettura italiana e dire che si ha una struttura libera da mettere a disposizione per i migranti. I centralinisti ti mettono subito in contatto con il funzionario che se ne occupa. A questo punto, la prefettura fa da tramite e avverte le coop scelte per occuparsi dell’accoglienza. Le cooperative poi faranno un sopralluogo, il proprietario darà il suo prezzo per l’affitto e una volta raggiunto l’accordo si firma il contratto. Un normale contratto di affitto tra due privati, come accade nel libero mercato. Se poi l’immobile non è messo proprio bene, il prezzo può scendere. Ma l’alternativa per il proprietario sarebbe stata tenere la casa vuota. E in questo caso si può guadagnare anche di più: trattandosi di soldi pubblici, qualche proprietario ne approfitta. A Como, come hanno raccontato le cooperative davanti alla Commissione comunale sui servizi sociali, «se il valore di affitto è di 600 euro, te lo affittano a 800-900», e nel caso di urgenze si arriva anche a «1.500 euro al mese più le spese». Di quello che accade nell’immobile, delle lamentele degli eventuali vicini che non vogliono i profughi, della sistemazione degli edifici messi male e delle attività di formazione dei profughi dovranno occuparsene le cooperative titolari del servizio. Se mai se ne occuperanno. A Monza, invece, su richiesta della Prefettura, è stato sottoscritto un accordo con la provincia, la camera di commercio e l’associazione che riunisce 350 agenzie immobiliari locali (Fimaa). «Gli agenti immobiliari chiedono ai proprietari di mettere a disposizione gli alloggi sfitti per accogliere i migranti in attesa di protezione internazionale», spiega Beatrice Zanolini, dirigente della Fimaa Milano e Monza Brianza. «È una sistemazione temporanea, con un canone calmierato, non di mercato, e la Prefettura offre garanzie ai proprietari, assicurando un risarcimento nel caso di eventuali danni agli appartamenti». Certo, i proprietari sono sempre un po’ diffidenti davanti all’offerta, raccontano tutti. E convincerli è difficile. «Ma visto che il mercato delle locazioni è impantanato, anche per i tassi bassi offerti dalle banche per comprare una casa, occupare un appartamento sfitto anche per pochi mesi rappresenta comunque un guadagno, e si fa una buona azione», spiega Zanolini. Le cooperative che hanno sottoscritto l’accordo con la Prefettura e che gestiscono il servizio nella provincia sono il Raggruppamento di imprese Bonvena, e la Cooperativa sociale I Girasoli. Quest’ultima ha vinto bandi diversi centri in Lombardia, uno dei quali però lo scorso aprile è stato chiuso dalla Prefettura di Lecco perché non avrebbe rispettato gli standard minimi dichiarati al momento della gara. A Monza sono avvertiti.

L’industria delle frontiere: fondi europei ai colossi della difesa per bloccare i migranti. La sicurezza dei confini è un florido business che crescerà fino a 50 miliardi di euro nel 2022. Protagoniste le aziende del settore militare che forniscono tecnologia e attrezzature all’Unione europea per alzare muri e respingere i rifugiati. E nel bilancio 2017 sono pronti 300 milioni di euro per trasformare l’agenzia Frontex, scrive Michele Sasso il 22 novembre 2016 su "L'Espresso". L'emergenza migranti in Europa sta diventando strutturale. Così c'è chi moltiplica i propri affari e trova nuovi terreni di azione. Un apparato militare e industriale che utilizza e promuove tecnologie, prendendo di mira chi lascia il proprio Paese per raggiungere le nostre frontiere. Il ricercatore Mark Akkerman della ong olandese Stopwapenhandel, che ha curato il dossier “Borders Wars”, la chiama “industria delle frontiere”.  Un’industria liquida ma pervasiva che tocca le reti che sfruttano i migranti, i governi, le imprese private che partecipano al controllo delle migrazioni. In cima ai bisogni dei Paesi europei c’è la volontà e la spinta politica al controllo: tutte le tecnologie sviluppate sono utili alla causa e il loro utilizzo genera guadagni milionari. Nel 2012 il mercato globale della gestione delle frontiere (considerando i soli confini terrestri e marittimi) fatturava circa 29 miliardi di dollari, e vedeva gli Usa in cima alla classifica. Nel 2009 il fatturato del business delle frontiere europee era stimato tra i 6 e i 8 miliardi di euro. E si stima che questo florido business crescerà globalmente fino a 50 miliardi di euro nel 2022. Coinvolte nel settore sono tutte le aziende del settore militare e della sicurezza che forniscono sistemi e attrezzature alle guardie di frontiera, tecnologie di sorveglianza per controllare i confini e infrastrutture informatiche per monitorare i movimenti delle popolazioni. Spesso si tratta delle stesse società che esportano e vendono armamenti ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa: armamenti che stanno alimentando i conflitti che obbligano profughi e rifugiati a fuggire dalle proprie case, come raccontato dall’Espresso lo scorso agosto per l’affaire Yemen. Tutti i big del settore come Airbus, Thales, Safran e Indra hanno approntato o ampliato il settore dei prodotti per la sicurezza e i rapporti con diverse piccole imprese specializzate nelle tecnologie informatiche. E anche il colosso italiano Leonardo-Finmeccanica ha identificato “il controllo delle frontiere e i sistemi di sicurezza” come uno dei principali settori per l’incremento degli ordini e dei ricavi. In particolare Leonardo-Finmeccanica insieme ad Airbus ha vinto contratti dell’Ue per rafforzare i controlli delle frontiere. Airbus è anche il vincitore dei maggiori contratti di finanziamento alla ricerca nel settore della sicurezza. Tra aziende non europee che hanno ricevuto questi fondi figurano anche alcune aziende israeliane: ciò è stato possibile a seguito di un accordo del 1996. Queste aziende hanno svolto un ruolo nel fortificare i confini di Bulgaria e Ungheria, grazie alle conoscenze tecnologiche sviluppate con l’esperienza del muro di separazione in Cisgiordania e del confine di Gaza con l’Egitto. L’azienda israeliana BTec Electronic Security Systems è stata selezionata da Frontex per partecipare al laboratorio svolto nell’aprile 2014 su “Sensori e piattaforme di sorveglianza delle frontiere”: l’azienda sottolineava che le sue “tecnologie, soluzioni e prodotti sono installati sul confine israelo-palestinese”. Alcune delle autorizzazioni all’esportazione verso i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa riguardano il controllo delle frontiere. Nel 2015, ad esempio, il governo olandese ha concesso una licenza di esportazione del valore di 34 milioni di euro alla Thales Nederland per la fornitura all’Egitto di radar e sistemi C3, nonostante le reiterate denunce di violazioni dei diritti umani nel paese. «Oggi è una pietra miliare nella storia della gestione delle frontiere», ha annunciato lo scorso 6 ottobre Dimitris Avramopoulos, commissario per le migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza, nel luogo simbolo che separa Bulgaria e Turchia: «In meno di un anno abbiamo creato una frontiera europea a tutti gli effetti e il sistema di guardia costiera. Questa è esattamente la risposta di cui abbiamo bisogno per la sicurezza e migrazione, sfide del 21° secolo». A un anno dall’annuncio del presidente Jean-Claude Juncker, che aveva dichiarato che lo spazio Schengen è sostenibile soltanto se i confini esterni sono effettivamente garantiti e protetti, è nata in tempo record la Guardia di frontiera e costa europea partendo dall’agenzia esistente Frontex. Il bilancio di Frontex tra il 2005 e il 2016 è aumentato del 3688 per cento, da 6,3 milioni a 254 milioni di euro. E con la crisi umanitaria del Mediterraneo dal 2014 è quasi triplicato, passando da 97 milioni ai 281 milioni di euro previsti per il 2017. Tra le voci di spesa maggiore nel bilancio 2016 ci sono 120 milioni per le “Joint operation”. Contemporaneamente ai nuovi Stati membri sono state richieste politiche di rafforzamento delle frontiere come condizione di appartenenza, creando così un mercato per ulteriori profitti. Il materiale acquistato o aggiornato con gli stanziamenti del Fondo per le Frontiere Esterne comprende22.347 sistemi di sorveglianza e 212.881 sistemi operativi. Per difendere la fortezza Europa ecco un pool di riserva rapida di almeno 1.500 guardie, un parco attrezzature tecniche come Eurosur, il sistema europeo che collega gli stati per il monitoraggio e la sorveglianza delle frontiere. La militarizzazione si manifesta anche negli scopi militari della “Forza navale dell’Unione europea - Mediterranea Operazione Sophia”, così come nell’impiego di militari su molti confini, tra cui quelli di Ungheria, Croazia, Macedonia e Slovenia. Nel frattempo, i paesi extra Ue sono stati spinti ad assumere il ruolo di avamposto di guardie di frontiera per cercare di impedire ai rifugiati di raggiungere i confini. Come gli accordi con la Turchia sui migranti, aspramente criticati dalle organizzazioni per i diritti umani, che negano l’accesso dei rifugiati in Europa e hanno accresciuto la violenza nei loro confronti. In cambio della decisione di accettare tutti i “migranti irregolari” giunti sulle isole della Grecia a partire dal 20 marzo scorso, Ankara si è assicurata sei miliardi di euro, tre subito altri tre entro la fine del 2018 per progetti di «salute, istruzione, infrastrutture, alimentazione e sostentamento per i rifugiati» . A manifestare contro la militarizzazione forzata in nome della sicurezza è il network europeo Frontexit , dal nome della campagna lanciata da un gruppo di ong italiane e straniere. «Rafforzando il mandato dell’agenzia Frontex Bruxelles mostra disinteresse nei confronti dei diritti umani e continua a non affrontare i problemi emersi dal contesto migratorio degli ultimi due anni», scrivono nel lancio della campagna. Le ong puntano il dito soprattutto sul respingimento dalle coste greche che prevede il mantenimento dei profughi nei campi e, man mano, la registrazione per i ricollocamenti in altri paesi. Sotto accusa anche i le norme che regolano il nuovo mandato, che dà troppa libertà agli operatori Frontex mentre non è prevista una forma di tutela per le eventuali vittime che si oppongono ai respingimenti forzati. «Mentre alle frontiere europee il numero dei morti e dei dispersi continua ad aumentare - denunciano in una nota - Frontex potrà ormai dispiegarsi più rapidamente alle frontiere esterne dell’Ue per bloccare il passaggio, rendendo il viaggio ancora più pericoloso. A dispetto delle decisioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo e del principio di non-respingimento, l’agenzia potrà trasferire le persone intercettate in porti designati come “sicuri” anche in Paesi non europei. Infine, l’agenzia potrà cooperare con un numero crescente di Paesi, alcuni dei quali noti per le loro violazioni dei diritti umani, senza alcun controllo da parte del parlamento di Strasburgo».

Così i giganti delle armi fanno affari con la militarizzazione delle frontiere. L'Europa blinda i confini con mezzi e soluzioni militari. Un affare miliardario, che ingrassa proprio le aziende di armamenti che alimentano i conflitti dai cui scappano i rifugiati. Ecco le accuse di un report appena pubblicato. Che chiama in causa anche Finmeccanica, scrive Stefania Maurizi il 4 luglio 2016 su "L'Espresso". Un business in piena crescita e che, con un cortocircuito perverso, alimenta e allo stesso tempo si nutre delle tragedie di decine di milioni di persone costrette ad abbandonare i propri paesi per sfuggire a guerre, dittature, violenza, povertà estrema. E' il mercato della messa in sicurezza delle frontiere dell’Europa, quelle che ogni giorno rifugiati e migranti cercano di superare, finendo respinti, detenuti in condizioni disumane o affogati in mare. Nel 2015 questo mercato valeva 15 miliardi di euro, entro il 2022 si stima che schizzerà sopra i 29 miliardi, mentre Frontex, la controversa agenzia europea per la gestione comune delle frontiere dell'Unione, è arrivata ad avere un budget di 238,7 milioni di euro contro i 6,3 del 2005, una cifra che segna un aumento del 3.688 percento negli ultimi undici anni. Chi si arricchisce grazie a questo business? I giganti degli armamenti e della sicurezza, come Finmeccanica, Airbus, Thales, Safran, Indra. E tre di questi Golia (Finmeccanica, Thales e Airbus) sono tra le prime quattro aziende esportatrici di armamenti in Medio Oriente e in nord Africa, alimentando così proprio quei drammatici conflitti da cui milioni di disperati fuggono. E' questa la realtà fotografata dal rapporto “Border Wars” delle organizzazioni “Transnational Institute” e “Stop Wapenhalden”, con sede in Olanda, e rilanciato in Italia dalla “Rete Italiana per il Disarmo”.  Un rapporto che ricostruisce protagonisti, cifre e racconta la pesante azione di lobbying sulle istituzioni europee da parte di queste aziende della sicurezza e della difesa, smascherando l'ipocrisia che circonda il dibattito pubblico su migranti e rifugiati, in cui le responsabilità vengono troppo spesso scaricate su trafficanti e scafisti, anziché sui conflitti all'origine di questa tragedia e sui fabbricanti di armi che li alimentano. Nel 2015, secondo l'Alto commissariato Onu per i rifugiati, 65,3 milioni di persone sono state costrette a fuggire dalle loro case o dai loro paesi a causa di conflitti e persecuzioni, una persona su 113 nel mondo, ventiquattro al minuto. La stragrande maggioranza di questi disperati si è riversata sui paesi confinanti, mentre si stima che solo un milione di loro abbia raggiunto l'Europa. «Nonostante ciò», scrivono i ricercatori olandesi nel loro report, «il dibattito sui media e nelle istituzioni europee è dominato da un panico senza precedenti. E il 2015 e il 2016 hanno visto una cupa corsa alla messa in sicurezza delle frontiere, con un crescente uso di mezzi e personale militare». Le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani avvertono da tempo che la militarizzazione dei confini non fermerà il flusso dei rifugiati e li costringerà invece ad affrontare rischi sempre maggiori, tipo quello di scegliere rotte sempre più rischiose, una scelta questa che ha trasformato il mar Mediterraneo in una trappola mortale: l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (International Organisation for Migration) ha stimato che nel 2015 sono morti o dispersi in mare 3770 migranti. Eppure, come nota il report, la risposta dell'Unione europea a questa tragica conta dei morti è semplicemente quella di aumentare la sicurezza delle frontiere. A parte i politici di estrema destra che incassano i dividendi elettorali della retorica xenofoba, uno dei maggiori beneficiari di questa risposta dell'Europa sono proprio le aziende europee di armamenti e sicurezza: Finmeccanica, Thales, Airbus, Safran, Indra. E' difficile conoscere con esattezza il valore del mercato della sicurezza delle frontiere, perché non è trasparente: tutto quello che abbiamo sono stime di aziende di consulenza come “Visiongain” e “Frost & Sullivan”. La prima valuta che nel 2015 il mercato ammontasse a 15 miliardi di euro e la seconda prevede che supererà i 29 miliardi entro il 2022. Airbus, che offre soluzioni che vanno dagli elicotteri ai sistemi di comunicazione e radar per il controllo delle frontiere, realizza ricavi di circa 200 milioni di euro all'anno con questo business. Finmeccanica l'ha individuato fin dal 2009 come uno dei settori prioritari e offre tecnologie che vanno dai sistemi biometrici per l'identificazione di migranti fino agli elicotteri AgustaWestland, usati in molti paesi europei e spesso acquistati proprio grazie ai fondi dell'Unione. Le tecnologie del gigante di piazza Monte Grappa sono anche utilizzate per il programma della Nato “Alliance Ground Surveillance” (Ags), una sofisticata rete di stazioni di rilevamento, sensori, sistemi di trasmissione ed elaborazione delle immagini raccolte dai droni, che entrerà in funzione nel 2017 presso la base dell'Aeronautica militare italiana di Sigonella, in Sicilia, e che, oltre a proteggere le truppe Nato, servirà a sorvegliare i confini. Thales si è buttata a capofitto in gare per la fornitura di sistemi satellitari e biometrici a paesi dittatoriali come il Turkmenistan e l'Uzbekistan. La multinazionale francese della difesa “Safran” si occupa di frontiere attraverso la controllata Morpho, particolarmente specializzata in sistemi biometrici. Nel 2015 il 9,2% dei ricavi della Safran è arrivato proprio dagli affari nel settore “identificazione e sicurezza”, per un totale di 1,6 miliardi di euro. Infine, l'azienda spagnola “Indra”, che opera nella difesa, sostiene di contribuire a proteggere oltre 5000 chilometri di confini in vari paesi ed è molto attiva nell'azione di lobbying a livello europeo e nell'incassare i fondi di ricerca. Oltre alle multinazionali europee della difesa, le aziende israeliane sono le uniche ammesse ai fondi europei per la ricerca nel settore, in virtù di un accordo del 1996 tra Unione europea e Israele. E capitalizzano la loro “reputazione” nel saper gestire le frontiere a rischio, come il muro di separazione della West Bank. Le tecnologie e le soluzioni israeliane nel settore vengono considerate affidabili in quanto hanno superato il test sul campo, al punto che nel 2015 Ungheria e Bulgaria hanno valutato di acquistare le recinzioni israeliane al prezzo di 1,9 milioni di dollari al chilometro. Oltre alle barriere fisiche, Israele offre soluzioni cyber come quelle dell'impresa “Elta”, controllata dell'azienda di stato Israel Aerospace Industries: Elta vanta un sistema di controllo delle frontiere basato sulla sorveglianza elettronica di social network e telefoni, due sistemi efficienti per localizzare i rifugiati e spiarli efficacemente e con poche risorse. A partire dal 2002, l'Europa ha finanziato 56 progetti di ricerca nel settore della protezione delle frontiere, per un totale di oltre 316 milioni di euro e tra i maggiori beneficiari di questi fondi ci sono proprio aziende come Finmeccanica, Airbus, Indra, Thales, Safran, presenti in gruppi di lobbying come la “European Organisation for Security” (Eos), guidata da Andrea Biraghi di Finmeccanica, che insieme con la “Aerospace and Defence Industries Association of Europe” (Asd) e il think tank “Friends of Europe” sono le organizzazioni più attive nel fare pressione sull'Unione per la messa in sicurezza delle frontiere. Non esiste un quadro completo dei costi di queste spese di lobbying, ma secondo i dati del registro europeo sulla Trasparenza (EU Transparency Register), negli ultimi 5 anni Airbus ha speso 7,5 milioni di euro, Safran 2 milioni e Finmeccanica e Thales un milione ciascuno. Ma mentre i lobbyisti della militarizzazione delle frontiere hanno gruppi di pressione dotati di enormi risorse e godono dell’accesso diretto ai policy-maker dell'Unione Europea, Ong e società civile sono praticamente tagliate fuori e impotenti. Come fa notare il professor Hein de Haas, già direttore dell'International Migration Institute dell'università di Oxford, «un sacco di soldi vengono destinati al controllo delle frontiere, ma questa scelta non va al cuore delle cause dell'immigrazione. Al contrario, va a favorire due gruppi: i trafficanti e l'industria del controllo delle migrazioni, mentre la sofferenza e i morti alle frontiere di migranti e rifugiati aumentano». Per cercare di fare luce sulle spese per gli armamenti alla base dei tanti conflitti che creano la tragedia dei rifugiati, la Rete Disarmo, che in Italia ha rilanciato il report “Border Wars”, punta a creare MIL€X, un osservatorio italiano indipendente che punta a raccogliere e ad analizzare dati oggettivi. «La produzione di armi e di tutti i sistemi correlati», dichiara a l'Espresso Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, «si regge sulle spese militari dei governi. Sono loro i principali acquirenti. Ed è per questo che è fondamentale capire precisamente estensione, tipologia e dinamiche della spesa militare, a partire da quella italiana». Con un gigante in casa come Finmeccanica, di un osservatorio indipendente come MIL€X l'Italia ha tremendamente bisogno.

IL TERRORISMO ISLAMISTA.

Terrorismo islamista. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il terrorismo islamista o, meno correttamente, islamico è una forma di terrorismo religioso praticato da diversi gruppi di fondamentalisti musulmani per raggiungere vari obiettivi politici in nome della loro religione. Eccezione fatta per alcune sporadiche manifestazioni di antica militanza oltranzista religiosa condotta con metodi sanguinari dalla setta degli assassini(specialmente in Persia e negli ex-dominî fatimidi quali Egitto e Siria), il fenomeno ha assunto dimensione globalmente rilevante solo nel secondo dopoguerra, in particolare a seguito dell'irrisolta questione palestinese[senza fonte], varie organizzazioni della cui resistenza hanno fatto ricorso a strumenti quali attentati dinamitardi, rapimenti, dirottamenti aerei, omicidi e attentati suicidi. L'anelito verso l'instaurazione di un nuovo ordine sociale ancorato ai valori dalla propria fede per fronteggiare le sfide del presente, al pari di un certo qual spirito apocalittico, è un topos ricorrente da tempo immemorabile in numerose religioni. Tale concezione, parlando di Islam, affonda le proprie radici fin dalle origini di questa religione. Già fin da dopo il 750, in effetti, con la fine del califfato omayyade, si attendeva da parte di nostalgici sostenitori della dinastia abbattuta dagli Abbasidi l'epifania di un non meglio precisato Sufyāni, appartenente cioè al deposto casato omayyade del ramo sufyanide, che avrebbe riportato per volere divino la Umma alla sua purezza originaria. Analogamente, nel 1258, la presa di Baghdadda parte dei Mongoli e la conseguente distruzione del califfato abbaside fu ricollegata dal giurista e teologo hanbalita del XIV secolo Ibn Taymiyya all'allontanamento della comunità dei credenti dalla pretesa «retta via» della prima Umma musulmana. Al giorno d'oggi le azioni poste in essere da tali gruppi rappresentano, secondo la loro ideologia, un tentativo di ricreare una società perfetta — ancorché utopistica— in quanto asseritamente modellata secondo i dettami del Corano e, di conseguenza, priva di quelle ingiustizie sociali, politiche ed economiche attribuite dall'ecumene islamica ai regimi secolarizzati (munāfiqūn, «ipocriti» e proni al mondo occidentale, definito kāfir, «infedele») i cui governanti sarebbero di fatto asserviti al Cristianesimo e al sionismo e, quindi, pervicacemente ostili all'Islam più "puro". Non manca, peraltro, chi considera le organizzazioni terroristiche di matrice islamica l'ala estrema di una «religione politica», adottando una terminologia analoga a quella utilizzata per definire il nazismo. Vi furono in passato gruppi, configurati come sette religiose, che contestarono alla maggioranza dei credenti musulmani o agli ulema, il cosiddetto clero islamico, l'allontanamento dal retto insegnamento di Maometto, che essi cercarono di contrastare con un loro distacco fisico o simbolico dalla società, come fece la setta dei kharigiti (arabo kharaa, «coloro che vanno fuori») ove non fosse possibile il ricorso a una «doverosa» violenza, come fu il caso della setta degli Assassini. Nei cosiddetti versetti della spada della Sura IX del Corano, cosiddetta "della conversione", è scritto: «Quando poi saran trascorsi i mesi sacri, uccidete gli idolatri dovunque li troviate, prendeteli, circondateli, appostateli, ovunque in imboscate. Se poi si convertono e compiono la Preghiera e pagano la Dècima, lasciateli andare, poiché Dio è indulgente, clemente.» (Cor., IX:5) « Combattete coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero han dichiarato illecito, e coloro fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s'attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non paghino il tributo, uno per uno, umiliati.» (Cor., IX:29) I summenzionati passi sono stati oggetto di interpretazioni non univoche: da una parte alcuni studiosi hanno interpretato i questi passaggi coranici come giustificazione per l'uccisione su larga scala degli infedeli, mentre vi è chi non è d'accordo con tale visione, privilegiando una lettura non orientata alla violenza, ispirata piuttosto alla tolleranza, così come invocato nella sura II:256: « Non vi sia costrizione nella Fede: la retta via ben si distingue dall'errore, e chi rifiuta āġūt e crede in Dio s'è afferrato all'impugnatura saldissima che mai si può spezzare, e Dio ascolta e conosce.» (Cor., II:256). Tra le varie ipotesi formulate per spiegare l'origine del terrorismo islamista moderno figurano la rivoluzione iraniana, il ritiro sovietico dall'Afghanistan e la rivitalizzazione della religione a livello globale post-guerra fredda: «Mentre è impossibile stabilire in maniera definitiva quando fu usato per la prima volta, le radici di quello che oggi chiamiamo "terrorismo" affondano in un passato di 2000 anni fa. Inoltre il terrorismo odierno ha in qualche maniera chiuso il cerchio, con molti dei suoi praticanti attuali spinti da convinzioni religiose – cosa che guidò molti dei predecessori originari.» Nel 1979 la rivoluzione islamica in Iran spazzò via lo shah Mohammad Reza Pahlavi, con tutte le forze d'opposizione riunite attorno all'ayatollah Khomeini. Il nuovo governo instaurò la shari'a nel Paese e col tempo iniziò a finanziare anche movimenti politici tra cui Hezbollah in Libano, successivamente classificato come terroristico in vari Paesi del mondo, compresi quelli arabi come la Giordania, l'Arabia Saudita e l'Egitto di Mubarak; i citati condannarono le azioni di Hezbollah, mentre Siria e Iran si dichiarano favorevoli alle azioni dell'organizzazione. L'Unione europea rifiutò inizialmente di qualificare Hezbollah come organizzazione terroristica, ma il 10 marzo 2005 il Parlamento europeo adottò una risoluzione non vincolante che di fatto accusa Hezbollah di aver condotto «attività terroriste»; gli Stati Uniti esercitarono pressioni sull'Unione per fare includere il movimento nella lista delle organizzazioni terroristiche[18]; il Consiglio d'Europa accusò poi Imad Mughiyah di essere membro di Hezbollah e di attività terroristica. Il primo movimento che teorizzò l'uso della lotta per ripristinare lo stile di vita ortodosso dei primi credenti (salaf al-aliīn, «i pii antenati», da cui il termine salafita), fu quello dei Fratelli Musulmani. Il movimento, fondato in Egitto nel 1928 a opera di Hasan al-Banna, si diffuse rapidamente in Siria, Giordania e Sudan, e, alla fine degli anni quaranta, esso contava circa 500 000 adepti, con la volontà di affrancare il mondo islamico dalla sua sudditanza, psicologica e politica, nei confronti dell'Occidente non-musulmano, anche se ancora il salafismo non aveva l'accezione attualmente in uso e collegata al rigido fondamentalismo. Le metodologie di organizzazione del movimento ricalcarono quelle di ideologia marxista che si andavano affermando dopo la fine della seconda guerra mondiale nei Paesi arabi, in corso di affrancamento dai regimi coloniali, con un emiro al posto della segreteria generale e la shura al posto del «comitato centrale» dei gruppi marxisti, e nelle università spesso i gruppi studenteschi islamisti contendevano il predominio intellettuale a quelli marxisti, più allineati ai governi esistenti. I Fratelli Musulmani, organizzati secondo una rigida struttura gerarchica, divennero così il primo vero movimento di massa neo-islamico e, all'inizio degli anni cinquanta, sull'onda della guerra in Palestina, esso arrivò a raccogliere circa due milioni di aderenti. Nelle prime fasi della guerra afghano-sovietica le varie centinaia di arabi che si erano trasferite a Peshāwar, in Pakistan, occuparono solo ruoli di supporto, compreso Ayman al-Zawāhirī che effettuò varie missioni umanitarie con la Mezzaluna Rossa, ma a un certo punto iniziarono a crearsi i presupposti per un diverso tipo di impegno. ʿAbd Allāh al-ʿAzzām era un predicatore nato in Palestina, trasferitosi in Arabia Saudita e poi in Pakistan, i cui sermoni avevano influenzato anche il pensiero di bin Laden e che aveva istituito un'organizzazione denominata Maktab al-Khidamat (MAK), finalizzata alla gestione dell'afflusso di volontari e fondi in loco per il sostegno ai mujaheddin[23]; quando i due si incontrarono a Peshāwar, al-ʿAzzām iniziò a teorizzare una lotta come obbligo morale per tutti i musulmani, come nel suo libro Ultime Volontà del 1986; in Difendere la terra dei musulmani è il dovere più importante di ognuno, al-ʿAzzām afferma che: « Questo dovere non si concluderà con la vittoria in Afghanistan; il jihad resterà un obbligo personale finché ogni altra terra appartenuta ai musulmani non ci sarà restituita così che l'Islam torni a regnare; davanti a noi si aprono la Palestina, Bukhara, il Libano, il Ciad, l'Eritrea, la Somalia, le Filippine, la Birmania, lo Yemen del Sud, Tashkente l'Andalusia.» Nei testi di al-ʿAzzām viene ripetutamente citato il martirio come mezzo per ottenere le ricompense nell'altra vita quali «l'assoluzione da tutti i peccati, settantadue bellissime vergini, e il permesso di portare con sé settanta membri della propria famiglia»; comunque sugli obiettivi da perseguire emersero contrasti tra al-Zawhāhirī e al-Azzām, che portarono quest'ultimo a essere dapprima fatto bersaglio di un attentato fallito e poi ucciso da tre mine. Una radicale trasformazione del terrorismo islamico si è avuta con l'emergere di nuovi Stati con grandi disponibilità finanziarie come l'Arabia Saudita e gli emirati del Golfo Persico, caratterizzati anche da forme di governo che si influenzano reciprocamente con gli ambienti "clericali" islamici e con le dottrine legate a correnti di pensiero integraliste come il wahhabismo. Questi Stati hanno indirettamente finanziato (foss'anche inconsapevolmente), attraverso donazioni da parte di istituzioni caritatevoli, gruppi più o meno legati al terrorismo, e lo stesso si può dire di facoltosi esponenti del mondo privato di questa stessa area. Non esiste un automatismo tra donazione e finanziamento al terrorismo, ma parte dei soldi destinati ad opere assistenziali è stata usata per gestire istituzioni di accoglienza in aree come il Pakistan, dalla quale gli stranieri provenienti dal Golfo Persico, dalle Filippine o da altri paesi con una popolazione almeno in parte islamica sono stati smistati presso i campi di addestramento situati in Afghanistan o nell'area di confine tra i due paesi; qui è stata fatta una ulteriore selezione tra i candidati, destinandone alcuni a corsi specifici di uso degli esplosivi e demolizione o gestione degli ostaggi. La pratica era comune nel periodo dal 1990 al 2001 e assolutamente trasversale tra le varie sigle del terrorismo islamista. Tra i nomi più noti dei terroristi addestrati in questi campi figura ʿAbd al-Rasūl Sayyāf, cui è dedicato il gruppo terroristico filippino Abū Sayyāf. In altri casi dei fondi sono stati usati per finanziare direttamente spedizioni di armi, come ad esempio dall'Alto Commissariato saudita per i rifugiati all'Alleanza Nazionale Somala di Mohammed Farrah Aidid, in cui armi e munizioni provenienti da Sudan e Iraq sarebbero stati trasportati dai sauditi, insieme a beni di necessità, nascoste nei doppi fondi di container fino ai magazzini della SNA a Mogadiscio.

Questioni aperte e dibattute rimangono:

se le motivazioni dei terroristi o supposti tali siano di auto-difesa o espansionistiche, di autodeterminazione popolare o di supremazia islamica;

se gli obiettivi dei terroristi o supposti tali siano non di tipo militaristico;

se l'Islam perdoni o giustifichi, e in quali casi, il terrorismo;

se alcuni attentati vadano compresi nel terrorismo islamista o se siano da considerare semplici atti di terrorismo attuati da musulmani;

quanto appoggio abbiano nel mondo musulmano e, in caso, per quale tipo di terrorismo islamista propendano;

se il conflitto arabo-israeliano sia la radice del terrorismo islamista o ne sia solo una concausa.

Il modo nel quale il terrorismo viene combattuto dagli Stati Uniti d'America, sua principale controparte, non è da tutti ritenuto efficace; tra i dubbiosi un ex giudice francese, Jean-Louis Bruguiere, che ritiene venga raccolto un eccesso di informazioni, ma poi non venga analizzato, ed un altro ostacolo è la scarsità di coordinamento tra le troppe agenzie federali statunitensi. Lo stesso giudice ha peraltro evidenziato come organizzazioni ufficialmente umanitarie come la Insani Yardim Vakfi abbiano avuto almeno in passato legami con al-Qaida. Sebbene Stati Uniti e Israele siano gli obiettivi più spesso colpiti dal terrorismo islamista, molti attentati sono avvenuti in altri Paesi e contro altri obiettivi: a metà degli anni novanta nel mirino dei terroristi c'era la Francia, come strascico della guerra civile algerina; la Russia ha subito molti attentati terroristici per il suo coinvolgimento nella seconda guerra cecena e nel 1997 il governo cinese fu il principale artefice dell'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai voluta anche per combattere i movimenti islamici in Asia centrale. Tra il 2005 e 2007 l'Iraq fu il luogo dove si concentrò maggiormente l'attività terroristica: solo nel 2005 oltre 8 000 iracheni morirono a causa di attentati. Non tutti gli attentati elaborati da organizzazioni terroristiche islamiste ebbero successo; tra i fallimenti figura il progetto Bojinka (una esplosione simultanea in volo di undici aerei di linea), attacco con missili terra-aria a un aereo di linea israeliano con 260 persone a bordo al decollo da Nairobi il 28 novembre 2002; contemporaneamente a quest'ultimo, tuttavia, un attentato con una jeep imbottita di esplosivo contro un albergo frequentato da turisti israeliani, con tredici morti e decine di feriti. Solo parzialmente riuscito era stato, quasi dieci anni prima, l'attentato al World Trade Center del 1993, in quanto l'obiettivo era l'implosione delle Torri gemelle tramite cariche di esplosivo collocate in un parcheggio sotterraneo; ciononostante vi furono sei morti. L'ideatore e realizzatore del piano, Ramzi Yusuf, non cercò la morte nell'esplosione, a dimostrazione che non tutte le espressioni di terrorismo islamista cercano il martirio dell'esecutore, fatto salvo l'obiettivo comune di colpire l'Occidente. Secondo i dati elaborati dal centro nazionale per l'antiterrorismo statunitense, l'estremismo islamico tra il 2004 e i primi mesi del 2005 si rese responsabile di circa il 57% delle vittime e del 61% dei ferimenti per terrorismo, considerando solo i casi in cui la matrice è chiara. Gli atti terroristici dell'estremismo islamico includono dirottamenti di aerei, decapitazioni, rapimenti, assassinii, autobombe, attentati suicidi e, occasionalmente, stupri. L'attività dei terroristi islamisti è spesso indicata come jihad ("sforzo, "impegno", qui inteso però in senso bellico), ma questa espressione non intende necessariamente una azione violenta. Le minacce, incluse quelle di morte, sono spesso emesse come fatwa, (sentenze legali islamiche su fattispecie giuridiche del tutto astratte). Obiettivi e vittime includono sia musulmani che non musulmani. I musulmani sono normalmente minacciati con il takfir (condanna di "miscredenza" grave, emessa contro un musulmano o un gruppo che si definisca islamico, tale da rendere teoricamente lecito "versarne il sangue"). Questa è una condanna a morte implicita perché, secondo gli hadith del Profeta, nell'Islam la punizione degli apostati è la morte. Secondo il Rapporto sul terrorismo internazionale di matrice jihadista della Fondazione ICSA presentato alla Camera dei deputati italiana il 28 novembre 2013, negli ultimi 5 anni vi sono state in Europa 14.470 vittime di attentati terroristici di matrice islamica, con 153 morti compresi gli attentati nel 2015 in Francia, ed in Italia si riscontra un aumento della cyber-jihad, cioè l'attività terroristica programmata od effettuata via web. La galassia terrorista si articola in molte organizzazioni, in alcuni casi direttamente sponsorizzate da servizi segreti nazionali, come il caso della deviata Inter-Services Intelligence pakistana che ha sostenuto i Talebani in Afghanistan e sostiene tuttora Lashkar-e Taiba nella sua campagna di destabilizzazione del Kashmir indiano e negli attacchi all'India. In alcuni casi sono direttamente gli stati a supportare militarmente, spiritualmente e finanziariamente le organizzazioni, come nel caso dell'Iran verso Hezbollah; stime ritengono che il sostegno duri da 25 anni e che vi siano stati trasferimenti di valuta e materiale dell'ordine dei 100 milioni di dollari annui, anche se la provenienza è di una fonte non terza come il Mossad, il tutto finalizzato anche ad espandere la propria influenza regionale. Le organizzazioni evolvono col tempo, o spariscono a beneficio di nuovi gruppi sotto la pressione degli stati e delle forze di polizia; un esempio è il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento che ha raccolto l'eredità e il ruolo del Gruppo Islamico Armato (GIA) in Algeria e nella zona del Sahel, espandendosi nel Mali dove sotto il nome di Al-Qa'ida nel Maghreb islamico (AQMI) ha fomentato la guerra civile e la secessione del nord del paese, dimostrando di poter perseguire obiettivi politico-militari di ampio respiro rispetto all'esecuzione di attentati e alla propaganda[45]; il cambio di nome evidenzia inoltre la volontà di sottolineare l'affiliazione ad Al-Qāʿida o quanto meno una contiguità di metodi ed obiettivi. I soldi che finanziano l'operatività di queste organizzazioni provengono da varie fonti come donazioni di privati, ma anche e soprattutto vendita di armi o di droga come nel caso dell'AQMI[45]. Un'altra fonte, anche se indiretta, è la pirateria navale, come nel caso della pirateria somala dalla quale l'organizzazione Al Shabab ha preteso percentuali dell'ordine del 20% dei riscatti ai pirati, e non ricevendoli ha proceduto ad "arrestare" alcuni tra loro. Al-Gama'at al-Islamiyya è una organizzazione egiziana che si è resa responsabile del massacro di Luxor e di una intensa campagna terroristica, anche se nel 2003 aveva dichiarato di abbandonare la lotta armata. In realtà vi sono stati massicci rilasci di suoi membri dopo i 25 anni dalla morte di Sadat, che avrebbe dovuto essere un segno di confidenza del governo egiziano dell'epoca sulla riduzione della minaccia[48]. L'organizzazione ha come leader religioso ʿUmar ʿAbd al-Ramāned affonda le sue origini nei Fratelli Musulmani, una cui frangia denominata Al-Jihād o Tanīm al-Jihād (Organizzazione del Jihād) fu costituita nel 1980 ed è elencata dalle Nazioni Unite tra le entità appartenenti o associate ad al-Qāʿida.; l'organizzazione è responsabile dell'assassinio di Anwar el-Sadat nel 1981. Tuttavia un leader della Jamāʿa, Mohammad Hasan Khalil al-Hakim (Muhammad al-ukayma), disse anche che non tutti i membri della Jamāʿa erano ancora propensi all'uso della violenza e che alcuni rappresentanti della Jamāʿa avevano negato di essersi uniti ad al-Qāʿida[51]. Lo Shaykh ʿAbd al-Akhir ammād, ex leader della Jamāʿa dichiarò ad al-Jazeera: "Se [alcun]i fratelli ... hanno raggiunto [al-Qāʿida], ciò è la loro personale scelta e io non credo che la maggioranza dei membri di al-Jamāʿa al-Islāmiyya condividano la medesima opinione"[52]. In realtà al-Qāʿida non è una organizzazione rigida, e spesso ha concesso l'uso del proprio nome, in una specie di franchising del terrore a gruppi che rappresentavano interessi locali particolari, pur nell'ambito del fattore comune dato dalla fede islamica e dalla lotta contro gli infedeli. Altra organizzazione molto importante ed attiva nel sud-est asiatico è il già citato gruppo Abu Sayyaf (letteralmente padre di Sayyaf). Il nome deriva dal fatto che il suo fondatore diede il nome di Sayyaf a suo figlio; questo nome però è ispirato al predicatore wahhabita afghano Sayyaf, che nel 1981 fondò una fazione, Ittehad e-Islam, che venne scelta come interlocutore dal servizio segreto pakistano ISI e godeva di finanziamenti e supporti religiosi sauditi[53]. Sayyaf in origine si chiamava Ghulam Rasud (servo o schiavo del Profeta) in Abd al-Rab al-Rasud (servo di Dio e del Profeta), poiché la venerazione di un essere umano, sia pure il Profeta, implicata dal primo nome era inaccettabile dai fedeli di stretta osservanza wahhabita; con i fondi arabi venne creata intorno al 1984 una città, nota comeSayyaffabad (letteralmente città di Sayyaf) che ospitava un campo profughi ma anche magazzini di armi e materiale bellico, strutture di addestramento, moschee e madrasse, nei pressi della città di Pabbi, ad est di Peshawar. Un'altra organizzazione relativamente recente è Boko Haram, attiva in Nigeria dove sta tentando di scatenare una guerra civile di matrice religiosa tra la componente cristiana e quella musulmana di questa repubblica federale. Al-Qaida è una rete mondiale panislamica di terroristi sunniti neo-neo-hanbaliti, capeggiata da Ayman al-Zawahiri, diventata famosa in particolare per gli attentati dell'11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti. Attualmente sembra sia presente in più di 60 Paesi. Il suo obiettivo dichiarato è l'utilizzo del jihad per difendere l'Islam dal Sionismo, dal Cristianesimo, dall'Occidente secolarizzato e dai governi musulmani filo-occidentali o "moderati", quali quello dell'Arabia Saudita che è visto come insufficientemente islamico e troppo legato agli USA. Formata nel periodo successivo l'invasione sovietica dell'Afghanistan, nei tardi anni ottanta da Bin Laden e Muhammad Atef, al-Qāʿida rivendica il legittimo uso delle armi e della violenza contro l'Occidente e il potere militare degli Stati Uniti d'America e di ogni Stato che sia alleato con essi[58]. Dalla sua formazione, al-Qāʿida ha compiuto numerosi attacchi terroristici in Africa, Vicino Oriente, Europa, e Asia. Sebbene un tempo fosse sostenuta dai Talebani, gli Stati Uniti d'America e il governo britannico non considerano i Talebani un'organizzazione terroristica. Fath al-Islam è un gruppo islamista operante fuori dal campo-profughi di Nahr al-Bared, nel settentrione del Libano. Fu costituito nel novembre 2006 da militanti che ruppero col gruppo filo-siriano di Fath-Intifada, a sua volta un gruppo scissionista di al-Fatḥ, e guidato da un militante clandestino palestinese chiamato Shaker al-Absi. Gli appartenenti del gruppo sono stati genericamente descritti dai media come militanti jihadisti, e il gruppo stesso è stato descritto come un movimento terrorista ispiratosi ad al-Qa'ida. Il suo fine ufficiale è quello di portare tutti i campi-profughi palestinesi sotto l'imperio della Shari'a e i suoi obiettivi prioritari sono la lotta contro Israele e gli Stati Uniti d'America[60]. Le autorità libanesi hanno accusato l'organizzazione di essere coinvolta nell'attentato dinamitardo del 13 febbraio 2007 contro due minibus, nel quale hanno trovato la morte tre persone, mentre 20 altre sono rimaste ferite, nella libanese Ain Alaq, con quattro attentatori identificati e rei confessi dell'attentato. Hamas, ("scossa" o "zelo" in arabo, ma acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya, "Movimento di Resistenza Islamica"), cominciò a propugnare attacchi contro obiettivi militari e civili israeliani[64] all'inizio della Prima Intifada nel 1987. Come organizzazione che si ispira esplicitamente alla Fratellanza Musulmana per la Palestina, la sua leadership è assicurata da «…intellettuali della pia classe media […] da rispettabili chierici devoti alla religione islamica, da dottori, chimici, ingegneri e insegnanti». Lo Statuto di Hamas del 1988 esorta alla distruzione di Israele sebbene i suoi portavoce non ricordino sempre in modo così esplicito questo fine strategico. La sua «ala militare» rivendica sempre la responsabilità degli attentati perpetrati contro lo Stato d'Israele. Hamas è stata anche accusata di sabotaggio del processo di pace israelo-palestinese, avviato con gli ormai falliti Accordi di Oslo, grazie al lancio di operazioni armate contro i civili israeliani anche nel corso delle elezioni, al fine di esasperare l'animo dei cittadini dello Stato ebraico e indurli a eleggere candidati collocati su posizioni sempre più estremistiche, al fine di rendere impraticabile un avvicinamento delle posizioni fra i contendenti. Ad esempio, «…una serie di attacchi suicidi spettacolari condotti da palestinesi e che portarono alla morte di 63 israeliani, condussero direttamente alla vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu e del partito Likud il 29 maggio 1996». Hamas giustifica tali attacchi come necessari nel combattere l'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi occupati e come risposta agli attacchi condotti da Israele contro obiettivi palestinesi. Il movimento serve anche da collettore di fondi, usati tra l'altro per fini di assistenza caritatevole dei rifugiati palestinesi. Hamas è stata definita come "gruppo terroristico" dall'Unione europea, dal Canada, dagli Stati Uniti d'America, da Israele, dalla Commissione ONU per i diritti umanie da Human Rights Watch. Gli oppositori di tale definizione oppongono la supposta non legittimità dello Stato di Israele in ragione delle modalità che portarono all'autoproclamazione d'indipendenza nel 1948. Hezbollah è un partito politico sciita libanese, dotato di sue proprie milizie armate e di un articolato programma mirante allo sviluppo sociale delle aree libanesi (di quelle meridionali in particolare) e di strutture in grado di portarlo a effettiva realizzazione. Jaljalat (in arabo: «Tuono dirompente») è un gruppo islamico salafita armato operante nella Striscia di Gaza che ha preso ispirazione da al-Qāʿida. Nato nel 2007 mentre Hamas conquistava il potere, Jaljalat raccoglie fuoriusciti di Hamas ed ex militanti di un altro gruppo vicino ad al-Qāʿida, l'Esercito dell'Islam. Nel settembre 2009, l'organizzazione rivelò di aver cercato di assassinare il precedente presidente statunitense Jimmy Carter ed il Quartetto del Medio Oriente inviato da Tony Blair. Una nuova sigla che si è affacciata sulla scena mondiale è lo Stato Islamico, (IS), proclamatosi indipendente il 29 giugno 2014 ma in precedenza conosciuto anche come Stato Islamico dell'Iraq e al-Sham, comunemente tradotto come Stato Islamico dell'Iraq e della Siria (ISIS) oppure Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (ISIL). La sua origine è legata alla Jamā'at al-Tawīd wa l-jihād, al-Qāʿida in Iraq e Mujāhidīn del Consiglio della Shura (attivo dal 1999 al 2006), fondato dal salafita e takfirista giordano Abu Mus'ab al-Zarqawi. La sua storia si è incrociata con quella del siriano Fronte al-Nusra, che crebbe rapidamente diventando una forza combattente sostenuta dall'opposizione siriana. Il gruppo gihadista, attivo in Siria e in Iraq, ha come leader nel 2014 Abu Bakr al-Baghdadi, che ha unilateralmente proclamato la rinascita del califfato nei territori caduti sotto il suo controllo. Peculiarità dello Stato Islamico è quella di riunire in una sola entità le caratteristiche dell'esercito, delle modalità terroristiche, della fisicità del territorio in cui risiede e della struttura statale. Lo Stato Islamico ha anche coniato una sua moneta, seppure non riconosciuta a livello internazionale: il Dinaro dello Stato Islamico.

IL TERRORE ESPORTATO IN OCCIDENTE.

L'11 settembre 2001 iniziò il declino dell'impero americano, scrive Daniele Zaccaria il 9 settembre 2016. Oggi il peso geopolitico degli Usa è imparagonabile a quello che aveva all'inizio del millennio: in ritirata dal Medio Oriente, umiliati dalla diplomazia muscolare di Vladimir Putin. L'America trafitta dell'11 settembre è una potenza inespugnabile che all'improvviso si ritrova l'apocalisse in casa. E tutto precipita in un furente domino di guerra. Assieme alle Torri gemelle e alle tremila vittime dell'attentato terroristico più cruento della Storia, crolla anche l'immagine che gli Usa hanno coltivato di se stessi. Ma soprattutto quella che per decenni hanno proiettato all'intero pianeta. Colpiti al cuore da un miliardario saudita che per noia e fanatismo si reinventa sceicco del terrore. La rappresaglia sarà cieca e violentissima e provocherà centinaia di migliaia di vittime. Molti avversari sono spazzati via, ma non è una vittoria e nemmeno una missione compiuta; i conflitti e l'instabilità che oggi scuotono i teatri della missione enduring freedom sono figli di quel domino. Il declino dell'impero inizia, inesorabile, proprio in quel momento. A quindici anni di distanza il peso geopolitico ed economico dell'America è imparagonabile a quello che aveva all'inizio del millennio, in ritirata dagli scenari strategici del Medio Oriente, spaesata dall'insorgenza dello Stato Islamico (Isis), spettatrice dello scontro fratricida inter-islamico fra Teheran e Riyad, assente nei negoziati impossibili tra israeliani e palestinesi, messa a margine dallo scoppio delle "primavere arabe" umiliata dalla diplomazia muscolare di Vladimir Putin in Crimea e Siria. Ma anche epicentro della crisi finanziaria del 2008 che trascina il mondo nelle sabbie mobili della recessione e la nazione sul bilico del default. Una nazione che deve confrontarsi con le nuove potenze emergenti come Cina e India e che non può più rivendicare il ruolo di gendarme globale. La presidenza Obama, impegnata nel ritiro delle truppe dall'Iraq e nella battaglia per i diritti in patria, non ha fatto altro che accompagnare il Paese in questa fase di crepuscolo. In questo Obama è stato un grande presidente, ha capito il nuovo spazio e il nuovo perimetro d'azione degli Usa in un mondo multipolare e senza più imperatori in cui bisogna archiviare le antiche distinzioni imperiali, dall'embargo cubano alla guerra a bassa intensità con l'Iran degli ayatollah alla contrapposizione con l'Islam. E quel mondo multipolare inizia a profilarsi paradossalmente proprio dalle macerie del World Trade Center, quando gli Usa da animali feriti lanciano l'offensiva contro i "barbari", credendo di vincere e venendo travolti dalla Storia. Lo storico Alessandro Barbero individua anche lui una data per segnare l'inizio del declino di Roma, un passaggio che precede di quasi un secolo il 476 d. c. che nei manuali è indicato convenzionalmente come la fine dell'impero d'Occidente. Si tratta del 9 agosto 378, giorno della battaglia di Adrianopoli che avvenne in Tracia (l'attuale Turchia europea). I Goti popolazione di profughi in fuga guidata dal gagliardo Fritigerno polverizzano l'addestrato esercito dell'imperatore Valente, Adrianopoli è la Waterloo di Roma, un gigante dai piedi d'argilla: «Quella sconfitta segnò addirittura la fine dell'Antichità e l'inizio del Medioevo, perché mise in moto la catena di eventi che più di un secolo dopo avrebbe portato alla caduta dell'impero romano d'Occidente». E pensare che molti storici e analisti vedono al contrario nell'11 settembre il punto di partenza di un ciclo "neoimperiale" degli Stati Uniti. La presidenza di George W. Bush, fino a quel momento avvolta in una specie penombra soporifera reagisce con spirito belluino all'attacco jihadista e organizza una caccia senza quartiere ai suoi nemici. Che in teoria sarebbero Osama Bin-Laden e la sua al-Qaeda, fantasmi nel deserto inseguiti per oltre un decennio rovesciando regimi e bombardando città. È la stagione della "guerra infinita", della "lotta al terrore", ma anche di Guantanamo e del "Patrioct act", protagonismo militare all'esterno, attacco ai diritti civili all'interno. I consiglieri del principe, un'agguerrita accolita di strateghi, politici e intellettuali che si fanno chiamare"neo con" sospingono lo stralunato Bush nell'avventura militare più imponente dai tempi del Vietnam, attivando le suggestioni ideologiche dello "scontro di civiltà". La libertà dell'Occidente contro l'oscurantismo del mondo arabo-musulmano e il suo "medioevo" religioso, con l'idea prometeica che la democrazia sia un bene da esportare e trapiantare, anche a suon di bombe e colpi di Stato. La guerra lampo contro l'Afghanistan del mullah Omar, quella molto più logorante contro il regime baahtista di Saddam Hussein, le migliaia di attentati contro i civili, la rinascita dei conflitti settari tra sciiti e sunniti, tutti elementi capaci di innescare una spirale di violenze che alimenta il jihadismo globale e le sue organizzazioni in costante mutazione. L'ultima, l'Isis del sedicente Califfo che nasce dalle macerie di al-Qaeda in Iraq, è l'ennesima nemesi per i declinanti Stati Uniti. Riacciuffati proprio mentre stavano abbandonando il campo di battaglia. Il parziale dietrofront di Obama nella guerra all'Isis non cambia la sostanza: anche in questo caso l'America non è più in prima linea dello scontro, ma una giusto una comprimaria di lusso.

Quell'eterno giorno dopo l'11 settembre. Gli impiegati di New York, coperti dalla polvere, erano come i profughi di oggi. Da allora ci culliamo in un impossibile sogno identitario di sicurezza. Scrive Wlodek Goldkorn il 9 settembre 2016 su "L'Espresso". Il 12 settembre, per chi ha vissuto quei giorni a New York, inizia l’11 settembre. Ma non per la vista della nuvola di fumo che si alzava dalla parte sud di Manhattan in una giornata insolitamente tersa e assolata, né per le macerie, che avevano assunto la forma di un animale preistorico morto, delle Torri Gemelle. Che fosse cominciata una nuova guerra mondiale e un’epoca di incertezza si era capito quando si sono viste le persone che risalivano dalle parti del World Trade Center verso il nord. Erano finanzieri e segretarie; funzionari di grandi aziende; gente benestante, casetta nei sobborghi; due automobili, tre figli e tutte le comodità. Ma le loro divise, i loro segni di appartenenza a un mondo ricco e sicuro (i tailleur Prada, le giacche Hugo Boss, le cravatte Armani), erano coperti da una polvere color marrone-grigio. Erano persone ridotte allo status primo e ultimo di ciascuno di noi. Erano solo dei corpi. Certo, molti di loro sono tornati nelle loro case, ma i segni contano. In quei corpi si poteva leggere il presagio di altri corpi che avremmo trovato anni dopo, alle nostre frontiere e sulle barche che tentano di raggiungere le nostre coste. Probabilmente tutto quello che stiamo vivendo oggi è la conseguenza di quella scena. Il giorno dopo, nell’Isola (Manhattan) in stato d’assedio, si verificò un fenomeno strano. All’improvviso nella metropolitana la gente cominciò a guardarsi negli occhi. Prima non era possibile, pena passare per un voyeur o un molestatore. Ora invece era tutto un cercarsi con gli sguardi. Certo, solidarietà tra i reduci e comunanza di destino. Ma anche l’idea di un’identità forte e che escluda gli altri: un paradossale difendere la purezza di una casa che comunque è già stata violata dai barbari. Le bandierine a stelle e strisce che addobbavano ogni finestra di Manhattan, da un simbolo di lutto e di resistenza, nel giro di pochi giorni hanno cambiato di segno: sono diventate manifestazione di orgoglio nazionalista (anche se a New York, l’identità per fortuna non è data dal sangue né dalla religione, come invece spesso accade nella “civile” Europa e nell’Italia della brava gente), rivolto contro gli altri. E gli altri sono coloro che non condividono “i nostri valori”. Da allora, e sempre più spesso parliamo infatti dei valori, raramente invece di linguaggio. La differenza? I valori rimandano a qualcosa di trascendentale in nome di cui è giusto uccidere e morire. Più difficile trovare qualcuno disposto a sacrificare la vita sua o altrui per un aggettivo; per il linguaggio appunto. Detto in parole povere. Il 12 settembre ci siamo scoperti profughi in un mondo senza certezze, come i naufraghi nella “Tempesta” di Shakespeare, ma anche come i migranti sommersi nel mare sotto le finestre delle nostre tiepide case. E per tornare a New York: la città aveva già visto dei profughi veri, decenni prima. Erano arrivati dall’Europa, privi di documenti. Li chiamavano apolidi. Tra di loro c’era Hannah Arendt: sull’essere apolidi scrisse pagine memorabili, che oggi leggiamo versando una lacrima di commozione. La commozione a sua volta è utile per evitare di associare la parola apolide alla parola clandestino; per non ricordare che da clandestini o apolidi si muore, come morì un caro amico di Arendt, Walter Benjamin. Morì d’angoscia per non aver i documenti in regola. Ecco, il mondo che comincia il giorno dopo l’11 settembre, è un universo dove leggiamo Arendt e Benjamin, come se fossero autori di successo e non borghesi ridotti allo status di vittime. Allo stesso modo guardiamo i corpi dei migranti per convincerci che noi siamo altro, che a noi non toccherà mai una disgrazia. Poi arriva un camion a Nizza e ci rendiamo conto che il 12 settembre non è finito. E allora torniamo a rifugiarci nel nostro sogno identitario. Ci guardiamo negli occhi, ma solo tra di noi. Sempre nella “Tempesta”, Shakespeare dice: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”. I nostri sono ormai piccoli e limitati: Catalogna o Sardegna indipendenti, Italia o Germania senza musulmani e stranieri; città senza rom; Capalbio senza profughi. Nella speranza di rimandare il naufragio. Nella paura di affrontare la tempesta.

Cosa significa l'11 settembre per chi non era ancora nato. I nati dopo l'attentato alle Torri Gemelle, bambini e adolescenti, vivono in un mondo segnato da un evento che non hanno vissuto. Ma tra smartphone, internet e videogame la loro percezione della realtà è rimasta comunque influenzata da quel giorno. E il terrorismo resta una presenza costante delle loro vite, scrive Cecilia Tosi il 7 settembre 2016 su "L'Espresso". «Allà Akba!!!» Omar lancia il suo grido di battaglia e parte all’attacco. Ma Giulio non si fa intimorire. Omar pesa la metà di lui, anche se gli si lancia addosso dalla cima dello scivolo non vincerà mai. Marina di Grosseto, costa meridionale della Toscana. Due bambini maremmani di 12 anni giocano sulla spiaggia gridando «Dio è grande», ma non lo sanno. Non sanno neanche che Allahu Akbar è la frase araba con cui inizia la preghiera dei musulmani, per loro è solo un grido di guerra, la moderna versione del «Ti spiezzo in due» anni 80, una frase che rende potenti e invincibili. Non conta che significhi esattamente il contrario: un riconoscimento della propria soggezione di fronte alla grandezza delle divinità. Per un 12enne italiano è solo un suono che rievoca la forza sterminatrice di chi si lancia in mezzo alla folla e si fa esplodere. La strategia dei terroristi ha centrato in pieno il suo obiettivo: un uomo che si uccide per uccidere è diventato il simbolo della potenza. Che l’attentatore sia morto, è secondario. Resta solo il perverso successo della sua azione. Il suicidio, che di per sé rappresenta la più grande sconfitta dell’uomo, è diventato una clamorosa vittoria. Perché la vita non conta, conta solo la sua rappresentazione. I giovani nati dopo l’11 settembre 2001 sono venuti su a latte e internet, non possiamo pretendere che siano loro a disegnare una linea che divida virtuale e reale. Si muovono continuamente da un mondo all’altro, ne fanno anche una strategia di sopravvivenza. L’azione di un kamikaze che si fa esplodere in Siria è troppo disumana per essere vera, somiglia più ai giochi sparatutto della Playstation o della Wii: migliaia di proiettili al minuto, scontri con le spie di tutto il mondo, il protagonista muore ma poi il gioco ricomincia da capo. D’altronde passa tutto dagli stessi schermi, la guerra in Medio Oriente come i videogame, i reportage in prima linea e i fake con finti terroristi, le parodie e i documentari. Puoi entrare in un mondo o in un altro a seconda di dove porti il cursore o di quale bottone spingi. Clic, spegni la realtà e entri nel gioco. O almeno credi. Nella chat della playstation puoi ritrovarti i reclutatori di Isis che vanno a caccia di adepti, nei giochi on line puoi scontrarti con un soldato americano che si addestra o con un jihadista che si annoia. Senza contare che i combattenti del Califfato si fanno ritrarre dai fotografi nelle pose dei protagonisti di Call of duty, il videogame più venduto del mondo. Non è che i ragazzi non lo sanno, cosa è vero e cosa no, solo che la realtà è qualcosa di più flessibile di come lo era vent’anni fa. È “liquida”, dicono, prende la forma del suo contenitore, occupa lo spazio che i ragazzi le lasciano occupare. Chi è nato nel secolo scorso, quando ancora c’era il muro di Berlino e non esistevano i voli low cost, è abituato invece alle cose solide, a quei confini che sembravano fermi e invalicabili. E quindi continua a mettere barriere: fili spinati per allontanare gli immigrati, misure protezionistiche per salvare la propria economia, missioni militari per costruire un cordone sanitario. Ha stabilito che il confine delle terre amiche comprende Malta ma esclude Tunisi. L’ultima frontiera d’Europa è l’isola dei Cavalieri a cui fu affidata la difesa dei cristiani a Gerusalemme. Oltre, ci sono gli altri, che guarda caso sono musulmani. Gente che non ha niente a che fare con noi e che tutto sommato può anche morire senza che i nostri ragazzi rimangano turbati. Il guaio è che questo confine è inventato, non esiste, perché non possiamo più nascondere ai nostri figli cosa succede oltre il muro. Il mondo di oggi è nato l’11 settembre, quando il nostro è finito. «Certo che lo so, l’11 settembre 2001 è il giorno in cui hanno fatto esplodere i grattacieli a New York. Sono morte migliaia di persone». La generazione Zerozero la conosce quella data. Tutti gli anni gliela ricordano i telegiornali e l’immagine delle Twin Towers che crollano è qualcosa di troppo spettacolare da dimenticare. Ma perché due aerei si sono infilati nelle Torri Gemelle? Come mai qualcuno voleva uccidere migliaia di civili innocenti? «Non lo so, erano dei pazzi» «Ce l’avevano con gli americani» «Era gente che si voleva vendicare. Gente musulmana». Chi ha 13, 14 o 15 anni ha l’immagine dei grattacieli in fiamme davanti agli occhi, ma le ragioni, i protagonisti, le conseguenze, non le sa. L’11 settembre è uno dei tanti video che appaiono su youtube quando cerchi “cose più strane nella storia” o che vengono linkati su facebook per sostenere la teoria del complotto. «Ancora non si è capito se l’attentato veniva da fuori o se gli americani se lo sono fatti da soli. Ma in fondo mi interessa poco». A noi, che dividiamo i nostri ricordi tra prima e dopo quel momento, sembra impossibile che loro guardino crollare le Twin Towers senza impressionarsi. Ma per chi era davanti alla tv quel giorno, quella era la prima trasposizione nella realtà di uno spettacolo che aveva visto rappresentato solo al cinema, per chi è nato dopo il 2001, invece, è la realtà che diventa spettacolo. Gli Zerozero sono abituati a persone vere che diventano personaggi, non viceversa. Guardano gli youtuber che trasformano in spettacolo le loro vite, cliccano sulle “coincidenze più assurde” dove i fatti del mondo sembrano rispondere a una trama, al massimo scaricano le serie tv americane, sempre più affannate a correre dietro il presente. Noi – che ci guardiamo le stesse serie loro, ma ci fregiamo di leggere anche i quotidiani, o meglio la loro home page - ci limitiamo a redarguirli con frasi alla zia Peppa: ah, quando eravamo piccoli noi c’erano solo i cartoni animati su Italia 1! Altro che youtube, ci facevamo le cassettine registrando le canzoni dalla radio! Leggiti un libro, invece di stare tutto il giorno davanti a quello schermo! E invece lo schermo – del telefonino soprattutto, ma anche di tablet e tv - è l’unico mezzo che gli ha insegnato qualcosa, visto che né i professori né i genitori osano affrontare l’argomento. «Ho visto un documentario spagnolo una volta, spiegava che l’attentato l’hanno fatto gli estremisti islamici. Ma a farmi paura non è tanto morire in quel modo, mi sembra peggio essere uccisi lentamente, soffrendo». Bang, due a zero per i terroristi. Dopo che al Qaida ha reso normali i kamikaze, Isis ha messo in piazza la tortura, conquistando tutta l’attenzione del nemico. Ha gettato nella preistoria l’organizzazione di Bin Laden («Chi è Bin Laden? No, non l’ho mai sentito nominare») e conquistato la scena. Per gli Zerozero il terrorismo equivale agli atti di sadismo dello Stato Islamico e dei suoi seguaci in Europa. «Te la faccio vedere io, ti mando l’Isis!» «Scappiamo che arriva l’Isis» «Sei una faccia di merda, sei peggio dell’Isis». Il Califfato ha solo tre anni ma è penetrato nell’immaginario globale come una lama nel burro. Sfrutta il potere delle immagini, spamma i social network di filmati e regala a youtube milioni di clic. Con un miliardo di persone che ogni giorno si collega al sito di video sharing, i terroristi hanno a disposizione il pubblico più grande della storia. A contendergli il primato, ci sono solo Pewdiepie e CutiepieMarzia: il primo è lo youtuber più seguito del mondo, la seconda è la sua fidanzata, che fa lo stesso mestiere. Più precisamente, Pewdiepie è un gamer, cioè un giocatore di videogame che racconta agli altri le sue giornate alla console, facendoli spaccare dalle risate. CutiepieMarzia invece è makeup oriented youtuber, cioè una che insegna a truccarsi e a capire cosa va di moda. Sono la coppia d’oro dei teen-ager, il loro specchio. Non è che a noi andasse meglio, con Brenda e Dylan impegnati a vestirsi cool a Beverly Hills. Però Brenda era un personaggio inventato, Marzia è una persona reale. Lo spettacolo lo fa mettendo in mostra la propria vita, magari fingendo un po’, ma chi saprà vedere il confine? E chissà se i terroristi fingono o fanno sul serio, se anche sono attori di una grande recita ad uso e consumo degli spettatori globali. «Mi ha fatto impressione quello che è successo in Francia. C’era un camioncino che vendeva gelati e poi è partito e ha ammazzato tutte quelle persone». A 9 anni Alida non sa niente dell’11 settembre, ma gli attentati del 2015 e del 2016 ce li ha stampati negli occhi. «Ho avuto paura delle bombe a Parigi e negli aeroporti, vorrei capire come stare al sicuro». Anna si è appena iscritta al liceo, e dice che i professori delle medie non le hanno spiegato niente, mentre lei vorrebbe sapere cosa sta succedendo. «Ho paura quando i miei genitori vanno in trasferta. Io abito in una piccolo paese, qui non può succedermi niente. Ma nelle grandi città è pericoloso», spiega Antonio, 11 anni, che sa spiegare perfettamente come si sono fuse le Twin Towers, ma anche lui non conosce Bin Laden. «Quest’estate in vacanza ho sentito uno scoppio e ho pensato: oddio bisogna scappare è arrivato l’Isis!». Carolina è nata nel 2002 e di attentati in Europa ne ha vissuti parecchi, ma quando sono esplose la stazione di Madrid (2004) e la metropolitana di Londra (2005) era troppo piccola per rendersene conto. D’altronde, al Qaida non ha fatto niente per ricordarle quelle prodezze: nessun video virale da riproporre ogni anno, nessuna foto che scaldi le chat nei social network, nessuna teoria del complotto. Isis, invece, punta tutto sulla propaganda, sullo shock visivo. Solo così è riuscita ad attrarre combattenti stranieri da tutto il mondo e ci ha fatto credere di aver mandato in soffitta al Qaida. Su Instagram, il social più usato dai preadolescenti, circolano a manetta foto e commenti sugli attentati di Parigi, Nizza e Bruxelles. Eventi più recenti, certo, ma anche più ripresi, ritwittati, riguardati. I ragazzi stavolta si sentono coinvolti, anche perché l’Erasmus ha dato i suoi frutti, sparpagliando amici e parenti dei genitori a giro per l’Europa: «Un mio cugino vive proprio vicino a Place de la Republique!», «mia zia ha la casa a Nizza!», «Gli amici dei miei stanno a Bruxelles» «Il collega di papà proprio quel giorno doveva prendere l’aereo!». L’allarme c’è, dunque, ma non si vede. Se non glielo chiedi espressamente, i ragazzini non ti parlano di cosa pensano dei terroristi. E gli adulti non glielo chiedono. Spiegare i motivi è troppo difficile e a leggere i giornali ci sono tanti perché quanti gli esperti intervistati. Lo psichiatra che tira fuori la fragilità mentale, il sociologo l’anomia, l’antropologo l’identità, lo storico il conflitto regionale, il prete la radicalizzazione, il politico i governi irresponsabili. Il terrorismo è il fenomeno più analizzato del secolo e anche il meno compreso. È ancora più difficile spiegarlo se l’immagine che ne abbiamo è distorta. Bisogna recuperare la verità, ripulendola dalla propaganda. Gli attentatori che colpiscono in Europa non somigliano all’immagine stereotipata di un terrorista, con la tunica e la barba («Quando andiamo in gita e ne vediamo uno vestito in quel modo ci scansiamo»), l’islam non dice né di ammazzare civili innocenti né di giustiziare i prigionieri, anzi, obbliga a trattarli con rispetto («Forse la loro religione gli dice di fare questa guerra»), d’altra parte non è vero neanche che la religione non c’entra niente, che i terroristi sono solo pazzi, perché invece una versione integralista della fede consente di manipolare le menti di chi ha bisogno di poche e semplici regole («No, non credo che sia una questione di religione»). E infine Isis: ci ha stupito con i suoi effetti speciali e convinto di essere l’organizzazione combattente più forte del mondo, al punto che anche i giornalisti del tg si confondono e gli attribuiscono la responsabilità di attentati che invece ha rivendicato al Qaida, come quello a Charlie Hebdo. In realtà il suo potere si concentra in un’area molto piccola di Siria e Iraq e i gruppi affiliati entrano e escono dai network jihadisti a seconda di cosa conviene, e ci metteranno un attimo a tornare in seno all’organizzazione di Bin Laden. In nome della guerra al Califfato, l’Italia ha appoggiato gli americani nelle operazioni contro Isis a Sirte, in Libia. Ma la città viene “liberata” senza che uno Stato la prenda in affidamento. E quando la natura vede un vuoto, lo riempie. In Libia, come in Afghanistan, questi vuoti li sta riempiendo al Qaida, che - nonostante i proclami del Pentagono - non è affatto sconfitta. Tre a zero per loro.

11 settembre, com'è Ground Zero 15 anni dopo, scrive "Panorama" l'11 settembre 2016. Là dove per quasi 30 anni - dal 1973 fino all'11 settembre 2001 - le Torri Gemelle hanno svettato sulla parte meridionale di Manhattan, dopo che i due aerei dirottati da miliziani di Al Qaeda vi si schiantarono contro, per molti anni c'è stato Ground Zero, il luogo della distruzione (un termine mediato dalla guerra fredda che designa un'area coinvolta da un'esplosione atomica). L'area nella parte meridionale di Manhattan a New York dove, prima degli attacchi terroristici alle Twin Towers, sorgeva il complesso del World Trade Center è diventato il "Ground Zero" per antonomasia. Una tragedia politica e umana che, oltre ad infliggere un colpo al cuore degli Stati Uniti, ha sfregiato il volto della città. Più che ferita, per quasi 10 anni New York è apparsa come una città "amputata", fino alla rinascita, nel 2013, con il One World Trade Center, chiamato anche Freedom Tower, il quarto edificio più alto al mondo e simbolo della più grave strage terroristica della storia americana.  Per il riassetto dell'area e la nuova edificazione di edifici è stato indetto un concorso, vinto dall'architetto polacco-americano Daniel Libeskind, che ha portato alla costruzione della "Torre della libertà". Alla sua base si trovano un'area storico-museale - che si estende su sette piani, per lo più sotterranei - e un'area esterna commemorativa delle vittime dell'attacco islamista. Ground Zero ha dunque attraversato cambiamenti significativi, ma porta ancora nella sua stessa struttura la memoria di quel giorno che ha segnato la storia contemporanea, quando oltre 3.000 persone sono state uccise negli attacchi a New York e Washington.

11 settembre, quindici anni dopo. La tragica verità di Filippo Facci su “Libero Quotidiano” l’11 settembre 2016: perché l'islam ci ha sconfitto. Quindici anni fa, io e Mattia Feltri eravamo sul Frecciarossa diretto verso Roma quando a intervalli regolari cominciò a telefonarci Christian Rocca; Feltri e Rocca lavoravano al Foglio, oggi sono rispettivamente alla Stampa e al Sole24 Ore. Io cercavo di dormire, ma Rocca continuava a dire che un aereo si era schiantato contro un grattacielo di New York. E vabbeh. Poi, più tardi, ci disse che un altro aereo si era schiantato contro un grattacielo affianco, sempre a New York. Io volevo dormire, Rocca ci sembrava scemo. Quando ci richiamò per dirci che un terzo aereo era caduto sul Pentagono, ci chiese testualmente «ci credete adesso?» ma a me e Mattia faceva male lo stomaco dal ridere, pensammo che ci stesse pigliando per il culo. Ricordo che chiesi: «Bruce Willis a che ora arriva?». Più tardi, alla sede romana del Foglio, io e Mattia vedemmo la collega Maria Giovanna Maglie che piangeva e che parlava del suo cane che era a New York; mentre Marina Valensise, ai tempi non ancora all’Istituto italiano di cultura a Parigi, riguardava le immagini dei grattacieli e si chiedeva: «Ma saranno assicurati?». In molti di noi, comunque, prevaleva una segreta eccitazione e non c’era la minima contezza del momento «storico» che stavamo vivendo, di ciò che avrebbe rappresentato negli anni a venire. Ecco: gli anni a venire sarebbero stati un severo bagno di consapevolezza, qualcosa poi sintetizzato nel dibattutissimo «scontro di civiltà», comunque in una contrapposizione tra la mollezza dell’Occidente e la determinazione di chi - era l’espressione - amava la morte come noi amiamo la vita. Ora: si disse «nulla sarà come prima» e non lo fu, non lo è, ma chiedersi se oggi l’Occidente non stia ridiventando come quei due ragazzi che si spanzavano sul Frecciarossa, beh, forse è una domanda che pare un po’ meno assurda. Ora: di riassunti degli ultimi 15 anni ne troverete a bizzeffe, qui la domanda è un’altra. La domanda, per dire, è: che cosa accadrebbe se Oriana Fallaci, domani mattina, pubblicasse le due paginate de «La rabbia e l’orgoglio» sul Corriere della Sera: come verrebbe accolta? Oppure: 15 anni fa, a tratti, si visse anche una sindrome, non si poteva guardare un aereo senza pensarci: ma come avremmo reagito, allora, al pensiero che 15 anni dopo - oggi - sia più facile parlar male del Papa che non di un milione e mezzo di islamici che vivono nella Penisola? Che cosa avremmo pensato del fatto che non si possa antipatizzare per l’islam, chessò, su Facebook, senza che scattino censure? Oppure che il proposito di non offendere l’islam sia divenuto a tratti un’ossessione, a cominciare dalle parole «maiale» e «carne di maiale»? Dei capi di Stato che eliminano il vino da tavola nei convivi diplomatici? Dell’abitudine di accondiscendere al galateo di teocrazie dove le condanne e violazioni dei diritti umani sono la norma? Dei costumi da bagno «burkini»? Di mille cazzate che prese una alla volta sembrano trascurabili? Del fatto che ci sono zone - non solo a Milano - dove la gente prega per strada e dove ogni tanto riecheggia il muezzin? Del politicamente corretto che sta riavendo il sopravvento? Del presunto problema dei titoli di Libero o del timore di «assecondare Salvini» perché semplicemente si dice quel che si pensa? «Loro» non hanno certo vinto, ci mancherebbe, il punto è se non stiamo ricominciando - noi - a perdere. Il punto è se la sconfitta culturale, diciamo così, non sia un veleno che si è insinuato lentamente e inconsapevolmente. Dopo al-Qaeda, l’Isis. Dopo gli Usa, l’Europa. Prima gli aerei, poi i treni, persino i camion se soltanto vai a guardarti in spiaggia i fuochi artificiali. Ci siamo abituati, quasi assuefatti a un certo tasso di esposizione e pericolosità del vivere comune; ormai giudichiamo normale scegliere le vacanze all’estero sulla base degli attentati, sappiamo che prendere un’aereo è diventato e resterà un inferno, che per morire basta frequentare locali, concerti o riviste satiriche, che i pazzi e i lupi solitari sono dietro l’angolo, che ormai ogni spostato mentale può trovare un movente politico nel jhad. Ci siamo raccontati la ridicola e inconsistente bipartizione tra islam moderato e radicale, che le primavere arabe guardassero a un modello laico-occidentale, che sciiti e sunniti non convivano tranquillamente tra loro nelle nostre città, che noi tutti non abbiamo ristretto le nostre libertà politiche e civili rinegoziato la nostra sicurezza pubblica. Non abbiamo svenduto i valori cardine della nostra democrazia: ma la sensazione è che stiamo trattando. di Filippo Facci

L’11 settembre meno raccontato, di Stephanie Merry – The Washington Post dell'11 settembre 2016. Pensiamo sempre alle Torri Gemelle, ma ci fu anche il devastante attacco al Pentagono: ora per la prima volta un documentario lo racconta. Quando ricordiamo l’11 settembre 2001, non possiamo fare a meno di pensare a immagini che non siamo in grado di dimenticare: un aereo che esplode in una palla di fuoco mentre si schianta contro un grattacielo, le persone che si gettano dalle finestre più alte delle torri, gli abitanti di New York ricoperti da così tanta polvere da sembrare delle statue. Le immagini di quanto successo al Pentagono, nella contea di Arlington, in Virginia, non hanno mai lasciato la stessa traccia. Non esistono video che mostrano il volo American Airlines 77 schiantarsi contro l’ala ovest del gigantesco complesso di uffici. Il Pentagono ha una superficie di oltre 600mila metri quadrati spalmati in orizzontale, e perciò anche l’esplosione di un aeroplano è sembrata meno devastante rispetto alla distruzione nel Financial District di Manhattan. Forse è per questo che i registi di documentari non hanno mai esaminato gli eventi di Arlington nella stessa maniera in cui hanno analizzato quanto successo a New Yorko sul volo United Airlines 93. Il regista vincitore di un Emmy Kirk Wolfinger, però, ci ha provato. Quando un network televisivo lo contattò per fare un documentario sull’11 settembre, Wolfinger propose di raccontare l’attacco al Pentagono. La risposta del network fu inequivocabile: se Wolfinger voleva fare il film, doveva farlo sul World Trade Center. «Ovviamente non è una gara a chi ha avuto la tragedia più grande», ha detto Wolfinger di recente. Il numero dei morti a New York fu chiaramente più alto rispetto alle 184 persone uccise ad Arlington. Eppure al Pentagono quel giorno ci furono storie su cui valeva la pena tornare. Se non fosse stato Wolfinger a raccontarle, chi l’avrebbe fatto? Alla fine Wolfinger ha trovato il modo di raccontare quella tragica giornata. Lo speciale da un’ora 9/11 Inside the Pentagon diretto da Sharon Petzold, e di cui Wolfinger è il produttore esecutivo, è stato trasmesso per la prima volta negli Stati Uniti martedì sera dal network PBS. Wolfinger capisce le ragioni per cui alcuni registi potrebbero voler evitare di raccontare la storia del Pentagono. Il lavoro di un documentarista si basa sull’accesso alle informazioni, e ottenerle dalle forze armate americane non è facile. Ciononostante, Wolfinger fu sorpreso nello scoprire di essere il primo regista a presentare una richiesta credibile per ottenere l’assistenza del Pentagono su un progetto del genere: «E con questo intendo un progetto che non si occupasse di teorie del complotto». «Non mi hanno imposto limitazioni», ha raccontato. «Mi hanno solo detto: “Per favore, racconta la nostra storia, perché non l’ha fatto nessuno”». Nel film ci sono interviste ad alcuni dipendenti delle forze armate che si trovavano vicino al punto dello schianto, ai primi soccorritori, al vicedirettore delle operazioni e all’ingegnere strutturale dell’edificio. Le testimonianze su quanto successo a terra sono inframezzate da resoconti di quello che è avvenuto nel cielo, grazie ai ricordi di un controllore del traffico aereo della Federal Aviation Administration (FAA), l’agenzia del Dipartimento dei Trasporti americano che si occupa di aviazione civile. I racconti sono strazianti: persone che strisciano fuori da stanze completamente oscurate dal fumo; dipendenti che cercano di uscire rompendo le finestre infrangibili che erano appena state montate durante una ristrutturazione; scale così infuocate da bruciare i piedi delle persone attraverso le scarpe. Rimane però una domanda: il pubblico americano è interessato a sapere cosa successe al Pentagono l’11 settembre? Il capitano di un sottomarino della Marina americana in pensione, Bill Toti, che sopravvisse all’attacco al Pentagono e appare nel film, ha detto di capire perché tante persone si concentrano su New York. Ma «proprio come quella di Corea è la guerra dimenticata dagli americani, il Pentagono è l’11 settembre dimenticato». Per spiegarne le ragioni, Toti ha due teorie, che ha raccontato durante una recente intervista telefonica. La prima è quella a cui preferirebbe credere: gli attacchi di New York furono visti dal mondo in diretta, e dal punto di vista visivo sono stati sconvolgenti in modi in cui il Pentagono non lo fu. Nonostante ospitasse lo stesso numero di persone del World Trade Center, il Pentagono si dimostrò un edificio meno vulnerabile, e rispetto alle Torri Gemelle molte più persone ne uscirono vive. Toti, però, ha anche un’altra teoria, che lo mette più a disagio: «Ho avuto alcuni segnali che nel paese ci sia chi pensa che le persone del Pentagono fanno parte delle forze armate, e quindi morire fa in qualche modo parte del loro lavoro», ha raccontato. «Nonostante nessuno me l’abbia mai detto in faccia, a volte penso che la morte di un civile sia una perdita più profonda rispetto a quella di un soldato». Eppure – ironia della sorte – le persone uccise al Pentagono furono per la maggior parte civili. Questa per Wolfinger è stata una delle grandi sorprese. Non fu per niente una storia di militari. Al Pentagono lavorano circa 20mila persone, molte delle quali non portano un’uniforme. «Ci sono segretarie civili, amministratori, sovrintendenti e appaltatori privati che si occupano dell’impianto elettrico e idraulico», ha raccontato Wolfinger. «Tutte queste persone si trovavano nell’edificio quel giorno, e fanno parte della nostra storia». Una delle persone che non fa parte delle forze armate e appare nel film è Ed Hannon, che al tempo era un capitano dei pompieri di Arlington. In uno dei momenti di maggiore impatto del film, Hannon racconta di essersi inginocchiato per pregare insieme a diverse altre persone nel cortile al centro del Pentagono. L’FAA aveva già allertato che nel giro di qualche minuto ci sarebbe stato un secondo attacco da un altro aereo. Hannon sapeva che non c’era modo di uscire dall’edificio costruito a serpentina abbastanza velocemente, e quando il suono del motore di un aereo diventò sempre più forte, si preparò a morire. «Poi, quasi in contemporanea, tutti questi tizi delle forze armate iniziano a esultare», ha ricordato Hannon. Il rumore che avevano sentito era un aereo da combattimento “amico” che si era abbassato sorvolando il Pentagono. «A quel punto, ci rimaneva un incendio da spegnere», ha raccontato. La sera del 10 settembre Toti aveva infilato una lettera nella casella di posta del suo capo, in cui annunciava che aveva deciso di andare in pensione. La mattina dopo, Toti riuscì a scappare illeso dalla zona dello schianto, e passò la giornata a portare i feriti verso le ambulanze e gli elicotteri. Per Wolfinger, individuare Toti nei vecchi filmati dei telegiornali fu semplice: sembrava essere dappertutto. Alla fine la Marina lo nominò a capo delle operazioni di recupero. Una delle prime cose che Toti fece il 12 settembre fu riprendere la lettera che aveva scritto al suo capo e strapparla. Lo stesso giorno il Centro Storico della Marina lo implorò di usare il suo accesso al Pentagono per salvare alcuni dipinti dalla distruzione. Mentre recuperava un quadro da una sala conferenze, Toti sentì bussare alla finestra. Era un pompiere che lo avvertiva che il soffitto sopra di lui era ancora in fiamme. Toti ha anche molte altre storie da raccontare, come tutte le persone che erano al Pentagono quel giorno. Sono racconti tragici ed eroici. Nel caso qualcuno fosse interessato a conoscerli. 2016 – The Washington Post

11 settembre, perché lo jihadismo è diventato un’ideologia globale? Scrive Loretta Napoleoni l'11 settembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". A 15 anni dall’attacco contro le torri gemelle una nebulosa di gruppi jihadisti ha rimpiazzato al Qaeda. Alcuni, come l’ISIS, con pretese nazionaliste sono riusciti a conquistare vasti territori e ad autoproclamarsi una nazione, il Califfato. Sebbene Osama bin Laden sia morto e il suo corpo sia stato dato in pasto ai pesci dell’Oceano indiano, nuove icone sono emerse e la minaccia del terrorismo e del fondamentalismo islamico continua ad essere presente nella vita quotidiana degli occidentali e dei musulmani. Se l’11 settembre passerà alla storia come un attacco terrorista, anche se eccezionale e spettacolare, il jihadismo contemporaneo verrà definito un’ideologia anti-imperialista globalizzata poiché così viene percepito da segmenti sempre più grandi della popolazione mondiale. Un bilancio triste e surreale al tempo stesso perché stiamo parlando di azioni armate contro gli innocenti, cioè la popolazione civile, un bilancio appositamente tenuto nascosto dalla classe politica che negli ultimi 15 anni ha gestito la “guerra contro il terrorismo”. Perché? Ecco una domanda che a 15 anni dall’11 settembre dovremmo porci. Ma neppure i newyorkesi, prime vittime di quell’attentato, hanno voglia di farlo. A 15 anni dal crollo delle due torri gemelle, molti a New York hanno rimosso le immagini di distruzione di uno dei simboli del capitalismo finanziario occidentale e li hanno sostituiti con quelle del nuovo grattacielo e dei i monumenti ai “caduti dell’11 settembre”, costruzioni sorte dove un tempo c’erano le due torri. Ormai sono un’attrazione turistica come tante altre, da vedere e fotografare, magari con un selfie, e mostrare agli amici. Anche la stampa tradizionale evita di rivisitare gli errori degli ultimi 15 anni. Chi vuole conoscere i motivi veri del nostro fallimento deve cercarli nell’internet, su siti che ancora credono e praticano il giornalismo vero o deve frugare su Twitter, alla loro ricerca. Eppure oggi a 15 anni da quella tragedia c’è davvero bisogno di una riflessione sul perché lo jihadismo è un’ideologia globale mentre 15 anni fa era poco meno di un gruppo di terroristi che si chiamava al Qaeda. Cosa abbiamo sbagliato? La nostra sconfitta poggia su una serie di fattori negativi per l’Occidente, tutti legati alla scellerata risposta all’11 settembre: la guerra contro il terrorismo. L’errore che molti commettono è credere che sia stato l’attacco alle torri il motore della crescita dello jihadismo. Ed invece non è così! Rivisitare questi fattori può aiutarci a fare autocritica, un processo necessario se nei prossimi 15 anni vorremmo correggere tutti questi errori. Sul piano economico: la sezione finanziaria del Patriot Act, una legislazione repressiva introdotta appena un mese dopo l’11 settembre, ha portato alla fuoriuscita di centinaia di miliardi di dollari dagli Stati Uniti, denaro arabo e musulmano che è stato rimpatriato per paura che fosse congelato. Il sistema di monitoraggio globale delle transazioni in dollari che il Patriot Act ha introdotto, ha ridotto il volume mondiale degli investimenti in dollari mentre la nascita di un sistema di riciclaggio nuovo, la cui moneta di scambio è l’euro e non più il dollaro, per aggiralo ha ulteriormente indebolito il dollaro. La Riserva Federale ha cercato di contrastare la mini recessione innescata dall’11 settembre tagliando i tassi d’interesse, ma lo ha fatto in un momento in cui l’eccessivo indebitamento richiedeva una manovra esattamente opposta. Così facendo ha gonfiato a dismisura la bolla dei mutui subprime. L’amministrazione Bush ha incoraggiato la politica dei tassi bassi perché gli ha permesso di finanziare la guerra in Iraq con un crescente debito pubblico. Questa la genesi del crollo del 2007/2008, da cui l’economia mondiale non si è più ripresa. Sul piano politico: l’attacco preventivo in Iraq, costruito su una serie di menzogne prima fra tutte quella che presentava al Zarqawi come l’ambasciatore di bin Laden alla corte di Saddam Hussein, non ha prodotto i frutti aspettati. L’Iraq è diventato un ginepraio di gruppi armati, con in testa Twahid al Jihad, il gruppo guidato da al Zarqawi che grazie alle menzogne dell’asse Bush e Blair, ha guadagnato la fiducia degli sponsor di al Qaeda. Attraverso varie reincarnazioni quel gruppo oggi si chiama ISIS. Dal 2003 al 2007, la guerra in Iraq ha radicalizzato i giovani musulmani anche in Europa e negli Stati Uniti. Madrid, Londra sono state colpite e di colpo il terrorismo è tornato a essere di casa nel Vecchio continente. Il bilancio della guerra contro il terrorismo è particolarmente negativo in Europa, diventata teatro di attacchi di tutti i tipi: dall’assassinio di Theo Van Gogh in Olanda con un semplice coltello fino alle bombe all’aeroporto di Bruxelles o alla carneficina a Nizza. Ma è nel mondo musulmano che l’impatto di questo conflitto si è fatto maggiormente sentire producendo un processo di destabilizzazione che rischia di far saltare lo status quo internazionale. Nel 2003, nasceva al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), un gruppo finanziatosi con il contrabbando di cocaina che dal 2002, a seguito dell’introduzione del Patriot Act, arriva in Europa attraverso l’Africa occidentale, il sahel e il Nord africa. AQMI è stata la prima organizzazione a rapire stranieri quale fonte di finanziamento, soldi con i quali ha reclutato giovani africani. Il cocktail di traffico di cocaina e jihadismo africano è stato letale per la stabilità delle nazioni dell’Africa occidentale, la cui economia nel giro di un decennio è diventata dipendente da queste attività illegali. Dal 2003 tutti i gruppi armati del fondamentalismo islamico, ad esempio i talebani, al Qaeda nella Penisola Arabica, al Nusra in Siria, hanno imitato il modello africano. I rapimenti si sono moltiplicati diventando nelle zone di guerra come la Siria, l’Iraq, la Libia o l’Afghanistan, o negli stati falliti come la Somalia, la fonte primaria di sovvenzionamento non solo dell’attività terrorista ma per la sopravvivenza della popolazione intrappolata al loro interno. Non solo l’Occidente non ha ancora vinto la guerra contro il terrorismo, ma la destabilizzazione del mondo mussulmano ha dato vita all’esodo più grande dai tempi della seconda guerra mondiale. Nel 2015, 1,5 milioni di rifugiati sono entrati in Europa. La crisi dei rifugiati sta mettendo a durissima prova l’Unione europea ed in parte è responsabile per la vittoria del fronte anti europeista nel referendum britannico dello scorso giugno. A giudicare dai risultati abbiamo sbagliato tutto. E la conferma è che il terrorismo è una minaccia ben più grande di 15 anni fa.

11 settembre 2001, strategia sbagliata. Risultati disastrosi. Saddam, Libia, Assad: un errore dopo l'altro, scrive Mario Arpino l'11 settembre 2016 su "Quotiniano.net". In un discorso di sette minuti, la sera dell’11 settembre 2001 il presidente George Bush jr. dichiarava la Guerra al Terrorismo ( War on Terror ). Quel giorno, è anche cambiato il significato di una parola terribile, ‘guerra’. Questo lo si è subito compreso, sebbene la nostra mente fosse ancora rimasta a modelli che non si scostavano troppo da ciò che avevamo subito nel conflitto mondiale e temuto in cinquant’anni di Guerra Fredda. Qualcosa era necessario fare, e subito. Tutto il mondo guardava a Occidente, per capire se, come e quando avrebbe reagito. Certo, l’intelligence andava ristrutturata, gli amici trasformati in alleati, la protezione doveva adeguarsi alla nuova minaccia, le catene di comando richiedevano modifiche e le stesse strutture militari andavano criticamente adeguate. Tutto fattibile, ma solo in tempi lunghi. Le Forze Armate erano l’unico strumento in grado di intervenire con immediatezza e dimostrare quella volontà di reagire che il mondo si attendeva. Ma, in mancanza di un nemico materiale, il problema era come impiegarle, dove e contro chi. Bush, intanto, aveva tratto il dado: il primo nemico era qualsiasi organizzazione statuale o meno che ospitasse i militanti della fantomatica al-Qaeda o concedesse loro di addestrarsi. È così che gli Usa incassavano il placet della Nato per l’applicazione dell’articolo 5 del Trattato, quello relativo alla difesa comune tra i Paesi membri. L’obiettivo era la distruzione dei campi di addestramento in Afghanistan e la rimozione del governo dei talebani, che aveva concesso l’ospitalità. Con questo attacco punitivo contro al-Qaeda iniziava così quella serie di operazioni militari contro il terrorismo che, sviluppate con l’assenso dell’Onu (Afghanistan, Iraq, ancora Afghanistan, Yemen, Siria e Libia), sono ancora di attualità. È stato utile tutto ciò? Difficile dire cosa sarebbe accaduto se non fosse stato fatto. Di certo è che gli errori sono stati molti – vedasi gestione politica del post-operazioni in Iraq, ingiustificato attacco alla Libia e sostegno non selettivo anti-Assad in Siria – e ciò ha lasciato un alone negativo sull’impiego delle Forze Armate in funzione anti-terrorismo. Si poteva fare di più? Probabilmente no. Ma oggi, con i risultati spesso disastrosi che abbiamo sotto gli occhi, possiamo affermare con certezza che si poteva fare di meglio.

Ground Zero, pulviscolo di cemento e ossa. La New York di allora tra bandiere a mezz'asta e arabi terrorizzati, scrive Paolo Guzzanti, Domenica 11/09/2016, su "Il Giornale". Mi telefonò Lou da New York: «Stai guardando la televisione?». Accesi. Era in fiamme soltanto la prima delle due torri. Quando la seconda nuvola di fumo e fiamme colpì al cuore la seconda fu chiaro che non era un incidente ma l'inizio di una guerra. Ormai un secolo fa, non soltanto 15 anni. Corsi a Manhattan col primo volo. I taxi, guidati quasi tutti da musulmani pakistani o arabi silenziosi e impauriti, erano tappezzati di bandiere americane. Case, negozi, scuole erano una fioritura di bandiere a mezz'asta e quella commozione profonda, sul filo del pianto eroicamente contenuto che noi europei deridiamo. Mi raggiungono le notizie con voce atona degli amici del padre della mia ex moglie, Lou, scomparsi con l'aereo che si era schiantato sul Pentagono. Ancora nessuno osava dire che era una messinscena hollywoodiana, come lo sbarco sulla Luna. George W. Bush, il neopresidente, era sotto shock. La politica che aveva annunciato entrando alla Casa Bianca era un po' isolazionista (l'America si fa i fatti suoi) e con intenzioni pacifiche, quasi edonistiche. Era chiaro a tutti che l'attacco dell'11 settembre 2001 era una dichiarazione di guerra, ma non si poteva dire per certo da chi fosse venuta. Al-Qaida era ancora la forza di Osama Bin Laden già divo del terrorismo, malgrado le buoni relazioni che la sua famiglia saudita aveva con gli americani. Ma i giornali, tutti i giornali, tambureggiavano la parola «War», guerra. Prima di decidere a chi muoverla Bush proclamò intanto lo stato formale di guerra. Le agenzie di sicurezza ebbero subito potere di arrestare e trattenere qualsiasi sospetto e interrogarlo con la brutalità necessaria. Pochi obiettarono. Tutti, democratici e repubblicani, volevano la linea dura. Gli Stati Uniti non sono un Paese che porge l'altra guancia. La sconfitta del Vietnam ancora bruciava, a destra e a sinistra. E ora questo attacco puramente simbolico, sanguinario ma simbolico, avrebbe fatto virare il corso del nuovo secolo. Quando leggiamo oggi le testimonianze degli americani musulmani di origine africana o araba, si sente l'angoscia di allora, si sentirono additati e disprezzati come complici degli assassini. Perché il Paese non prendesse una deriva razzistica anti islamica, Bush si precipitò nelle mille moschee di New York. Rassicurò, chiamò i musulmani «my fellow Americans». La reazione nel complesso fu contenuta, ma la tentazione della cacciata globale, se non del linciaggio ci fu. A Ground Zero tornai molte volte fino al 2010, finché restò nell'aria un pulviscolo sabbioso che scricchiolava sotto i denti. Quel pulviscolo conteneva tutto: cemento, acciaio, ossa, detriti degli aerei, occhi dei morti, le teste dei valorosissimi pompieri di New York, per la maggior parte di cognome italiano: quei giganti buoni che tornarono due e anche tre volte negli edifici in cui morirono. Rudolph Giuliani era il re di Manhattan, ma anche la sua Madre Teresa: una faccia scolpita nel gesso e nel fumo, esausto e carico di energia allo stesso tempo. Le foto sui muri. Bambini: Mamma dove sei? Dimmi che sei viva, ti aspettiamo. Adulti: bambini miei (foto sorridenti) papà ed io vi stiamo cercando, telefonateci. Tutti sapevano che quei genitori e quei bambini non sarebbero mai tornati. Scricchiolavano in frammenti atomici fra i denti, capelli e acciaio, nasi scarpe e vetri di finestre. Un'unica pasta unificata a 3mila gradi di calore e poi polverizzata e rimasta lì, nell'aria, per anni. Oggi cominciano a morire di cancro i soccorritori che hanno respirato a lungo quel veleno. I morti continuano, in una catena non meno crudele di quella di Hiroshima, ovunque le vite umane siano annichilite da una strage di massa nel terrore e nel fuoco. Oggi a Ground Zero c'è un museo meraviglioso. Ancora non l'ho visto ma tutti ne parlano con commozione perché è concepito come un percorso, alla maniera dei memorial come quello del Vietnam a Washington (anche quello pieno di cognomi italiani). La nuvola dell'apocalisse si è diradata, poi si è posata vetrosa e impercettibile sugli oggetti e sui raggi solari che l'hanno portata via. Da allora molte, troppe conseguenze. Le abbiamo sotto gli occhi e ci siamo quasi dimenticati delle Torri Gemelle, la Sarajevo di questa nuova guerra senza fine e senza vero senso, ammesso che le guerre ne abbiano mai uno.

L'11 settembre infinito: quella lezione non è servita. La loro vera arma è il lavaggio del cervello, ma noi per sconfiggere i tagliagole ci siamo alleati coi taglialingue, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 11/09/2016, su "Il Giornale". Quindici anni dopo il più clamoroso e sanguinoso attentato della Storia, che ha colpito al cuore della superpotenza mondiale abbattendo le due torri gemelle, simbolo dell'impero finanziario, bruciando vive circa 3mila persone, l'Occidente non ha ancora imparato la lezione più elementare: l'arma vera del terrorismo islamico non sono le bombe, i kalashnikov o le cinture esplosive, ma è il lavaggio di cervello. Perché quei 19 dirottatori votati al «martirio» islamico non erano armati. L'arma, che ha consentito loro di sequestrare quattro aereo e trasformarle in «bombe umane», era la la loro determinazione a morire per uccidere il maggior numero possibile di «miscredenti» e conquistare il paradiso di Allah. Così come l'Occidente non ha imparato che il singolo terrorista suicida-omicida è solo la punta dell'iceberg e che per vincere la guerra dobbiamo scardinare l'iceberg, non limitarci a scalfirne la punta arrestando ed espellendo solo se viene colto in flagranza di reato. Non abbiamo ancora capito che quando in mezzo a noi ci sono persone che sono state modificate mentalmente e affettivamente, al punto che con il sorriso sulle labbra ci dicono «così come voi amate la vita, noi amiamo la morte», è ormai troppo tardi, perché sono delle bombe umane pronte a farsi esplodere in ogni momento. La verità è che abbiamo paura di guardare in faccia alla realtà dell'iceberg, della «fabbrica del terrore», della filiera che partendo dalla predicazione d'odio, di violenza e di morte che avviene nelle moschee o nei siti che propagandano la guerra santa islamica, pratica il lavaggio di cervello, arruola, addestra militarmente, creando il terrorista islamico che sgozza, decapita, massacra e si fa esplodere. Questa paura ha a tal punto sopraffatto l'Occidente che, dal 2005, si è caduti nella trappola di immaginare che per sconfiggere i terroristi tagliagole ci si dovesse alleare con i terroristi taglialingue, che ci hanno imposto la sospensione dell'uso della ragione per legittimare l'islam come religione a prescindere dai suoi contenuti violenti, concedendo loro sempre più moschee. L'esito più catastrofico della paura dell'islam è l'irrompere di un terrorismo islamico autoctono ed endogeno, con terroristi islamici con cittadinanze occidentali che colpiscono all'interno stesso dell'Occidente per massacrare altri cittadini occidentali da loro condannati indiscriminatamente come nemici dell'islam. Mentre i 19 terroristi islamici dell'11 settembre 2001 erano cittadini arabi trasferiti negli Stati Uniti per colpire il nemico esterno, i terroristi islamici che dal 7 luglio 2005 si fecero esplodere nel centro di Londra sino a quelli che si sono fatti esplodere a Parigi il 13 novembre 2015, erano cittadini occidentali di fede islamica che hanno colpito dentro casa propria. Ma ciò che più di altro determinerà la nostra sconfitta in questa guerra dichiarata e scatenata dal terrorismo islamico globalizzato, è la vocazione al suicidio demografico promuovendo una folle autoinvasione di milioni di clandestini islamici, immaginandoli come la soluzione al tracollo della natalità della popolazione autoctona nell'Ue. Solo una classe politica irresponsabile ha consentito, 15 anni dopo l'11 settembre, la crescita del terrorismo islamico dei tagliagole, il radicamento del terrorismo islamico dei taglialingue, l'irrompere del terrorismo islamico autoctono ed endogeno, il dilagare dell'islamizzazione demografica.

Abbiamo ignorato la profezia di Ratzinger E ora l'islam è più forte. Dobbiamo prendere atto che i nemici della nostra civiltà sono molto più forti e l'Occidente è sempre più votato al suicidio, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 14/09/2015, su "Il Giornale". Quattordici anni dopo l'abbattimento delle due Torri Gemelle e nove anni dopo le polemiche seguite alla Lectio Magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona, che ricorrono l'11 e il 12 settembre e che sono passati alla storia come l'apice del successo del terrorismo islamico dei tagliagole e dei taglialingue, dobbiamo prendere atto che i nemici della nostra civiltà sono molto più forti. All'opposto, l'Occidente è sempre più votato al suicidio, dopo essere caduto nella trappola letale di chi s'illude che, alleandosi con i terroristi taglialingue, si possano sconfiggere i terroristi tagliagole. Se nel 2001 i terroristi islamici disponevano soltanto dell'Afghanistan come base sicura, in virtù dell'alleanza strategica di Al Qaida con i Taliban, oggi controllano direttamente dei territori nello «Stato islamico» sorto a cavallo tra la Siria e l'Irak, in Libia, Somalia, Mali, Yemen e Nigeria, così come sono in grado di destabilizzare Afghanistan, Pakistan, Tunisia, Egitto, Algeria e Indonesia. Mentre nel 2001 fu l'Occidente a promuovere l'offensiva contro Al Qaida, oggi assistiamo alla sconvolgente alleanza tra l'Occidente e il terrorismo islamico, sia quello dei tagliagole dell'Isis in Siria, sia quello dei taglialingue dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo. Persino dentro casa nostra, dove il terrorismo islamico è diventato autoctono ed endogeno, con la «produzione» di decine di migliaia di aspiranti suicidi nel nome di Allah con cittadinanza occidentale, e dove si consolida una «roccaforte islamica» che consta di moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici, tribunali sharaitici, centri studi e di formazione. Se nel 2006 Benedetto XVI ebbe il coraggio di denunciare la violenza intrinseca all'islam, prima dovette dissociarsi dalle parole dell'imperatore bizantino Manuele II Paleologo («Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai solo delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva a diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava»), poi fu costretto a pregare con il Gran Mufti Mustafà Cagrici nella Moschea Blu di Istanbul. Sempre nel 2006 l'Unione Europea vietò di usare il termine «terrorismo islamico», perché si incorrerebbe nel reato di offesa all'islam o di istigazione alla guerra religiosa. Per gran parte dei nostri mezzi di comunicazione di massa i terroristi islamici sono «miliziani fondamentalisti», «esercito dell'Isis», «insorti sunniti», «fondamentalisti sunniti», «jihadisti», «miliziani islamisti», «ribelli sunniti», «miliziani qaedisti», «gruppo integralista islamico» o. più banalmente. «assalitori», tranne che terroristi islamici. I leader occidentali si affannano a ripetere che l'islam è una «religione di pace». L'islamicamente corretto è diventato la camicia di forza che ci siamo auto-imposti nel contesto di una guerra in cui siamo oggettivamente perdenti. Il prossimo passo sarà la codificazione del reato penale di «islamofobia», in un Occidente dove si potrà criticare tutto e tutti tranne l'islam e Maometto. Nel frattempo si mettono a tacere gli avversari attraverso il «Jihad by Court», la «guerra santa islamica» tramite i tribunali, costringendoli a pagare fior di quattrini per denunce di diffamazione, fino a obbligarli a sottomettersi all'islamicamente corretto. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. È il Jihad, la guerra santa islamica, che da sempre mira a sottomettere il mondo intero al dio Allah e a Maometto. È ciò che descrivo e denuncio nel mio nuovo libro «Islam. Siamo in guerra», in edicola con Il Giornale e in libreria da sabato 19 settembre.

I convertiti all'islam sono più pericolosi. Il buonismo dilagante ci fa chiudere gli occhi davanti all'odio dell'islam, scrive Magdi Cristiano Allam, Giovedì 02/07/2015, su "Il Giornale". Non commentiamo l'errore madornale di sottovalutare la presenza in Italia di autoctoni convertiti all'islam e arruolati nel terrorismo islamico globalizzato, riducendolo a un fatto di cronaca, sicuramente eclatante, ma che si archivia dopo qualche giorno. Ricordo che quando nel 1999 rivelai da Londra la presenza di campi di addestramento alla guerra santa islamica sul territorio britannico, il fatto suscitò più incredulità che preoccupazione. Solo quando il 7 luglio 2005 quattro terroristi suicidi britannici, tra cui un convertito, si fecero esplodere nella metropolitana e nel centro di Londra, il governo di Tony Blair capì che aveva la guerra in casa e denunciò i predicatori d'odio annidati nelle moschee. Ebbene, dieci anni dopo dobbiamo prendere atto che l'Occidente non è più solo una “fabbrica” di terroristi islamici che vanno ad espletare la loro Jihad altrove nel mondo, ma è diventato esso stesso territorio di guerra santa islamica, dove la minaccia più insidiosa è rappresentata dagli autoctoni convertiti, proprio perché sono simili a noi, tranne il fatto di odiarci al punto da volerci sterminare o sottomettere per far trionfare lo “Stato islamico” dentro casa nostra. I convertiti all'islam, che incarnano il terrorismo autoctono e prefigurano la guerra santa endogena, sono il cavallo di Troia permanente, il nemico interno a cui noi accordiamo i diritti sanciti dalla Costituzione, illudendoci che potremo fermarli un attimo prima che perpetrino degli attentati, grazie ad una efficace azione di prevenzione come quella che ha portato all'arresto dei familiari di Maria Giulia Sergio, partita con il marito albanese per lo “Stato islamico” dell'Isis, anche loro convertiti all'islam. Al riguardo, l'islam è categorico. Maometto, secondo la narrazione di Abd Allah, ha prescritto che il sangue di un musulmano può essere sparso «nel caso in cui abbandoni l'islam (commettendo apostasia) e lasci la comunità dei musulmani» (Hadis, 9:83:17). Il nemico interno viene immediatamente eliminato. All'opposto, l'Occidente il nemico interno lo coltiva. La profonda crisi valoriale e identitaria è il terreno fertile che favorisce l'islamizzazione delle nostre società. Il relativismo religioso, promosso anche dalla Chiesa cattolica, nobilita l'islam elevandolo a religione di pari dignità del cristianesimo. Il buonismo dilagante nega qualsiasi nesso tra l'islam e i terroristi, favorendo la diffusione delle moschee e il proselitismo islamico. Una volta che varcano la porta dello “Stato islamico”, i nostri convertiti si vedono subito affidare i compiti più sporchi, sgozzare, decapitare, massacrare. Con le mani grondanti di sangue subiscono un trauma mentale ed affettivo che li marchierà a vita. Non illudiamoci che possano essere “recuperati” alla civiltà che esalta la sacralità della vita. Loro sono l'arma più insidiosa che ci sconfiggerà, dopo essersi trasformati in “bombe umane” dal lavaggio di cervello che subiscono nelle moschee o nei siti jihadisti, pronti ad esplodere in qualsiasi momento.

11 settembre, il ricordo dei bambini rimasti orfani. Sono cento i bambini nati a poche ore dagli attentati dell'11 settembre 2001. Hanno perso almeno un genitore nel crollo delle Torri Gemelle, scrive Marta Proietti, Sabato, 10/09/2016, su "Il Giornale". Sono oltre 3mila i bambini rimasti orfani dopo gli attentati che l'11 settembre cambiarono per sempre la vita di tutti noi. In particolare, i media hanno seguito la storia di quei cento bimbi nati nelle ore o nei giorni seguenti il crollo delle Torri Gemelle. Come Allison Lee, venuta alla luce due giorni dopo: suo padre Daniel era sul volo dell'American Airlines che doveva andare da Boston a Los Angeles, ma si schiantò su una delle torri alle 8,45. Daniel stava tornando a casa per stare vicino alla moglie in attesa del parto. "Sono la gioia, sono la consolazione, sono l'amore", dice Jenna Jacobs, il cui figlio Gabriel è nato una settimana dopo l'attacco. Oggi quei bambini hanno quindici anni ma, anche se non li hanno conosciuti, ricordano i loro genitori come degli eroi. Come Lauren McIntyre, venuta al mondo tre mesi dopo. Il padre era un poliziotto che si gettò all'interno della torre sud per cercare di aiutare le persone a fuggire. Lauren, che porta una collana al collo con la targhetta di riconoscimento del papà, lo ricorda così: "Non riesco a immaginare quanto coraggio ci voglia per entrare in una situazione come quella". Justin Strada era nato invece quattro giorni prima gli attacchi terroristici e quel giorno perse suo padre. Tom era stato vicino alla moglie Terry per due giorni, poi aveva deciso di tornare in ufficio. Ha raccontato la moglie: "Guardare in tv quello che stava succedendo fu pura e semplice tortura".

11/9, testimone racconta: "Sento ancora le urla..." Richard Loeb, newyorkese, era a Manhattan quell'11 settembre 2001, scrive Luca Romano, Domenica 11/09/2016, su "Il Giornale". "Ho ancora in testa i suoni delle sirene, le urla della gente, il frastuono del crollo delle torri, come se fosse successo cinque minuti fa. Invece sono trascorsi 15 anni...". Richard Loeb, newyorkese, era a Manhattan quell'11 settembre 2001. Ha visto il primo aereo schiantarsi contro la torre nord del World Trade Center, ha assistito all'arrivo dei soccorsi, ha respirato il fumo e la polvere che hanno circondato Lower Manhattan. "Una vera e propria Apocalisse nel mondo reale", ha scritto Loeb pochi giorni dopo l'attacco alle torri gemelle in un documento inedito di cui LaPresse è entrata in possesso e che, in esclusiva, racconta quei drammatici momenti. Quel martedì Loeb, all'epoca dipendente di una banca nel distretto finanziario di Manhattan, era in ufficio. "Ogni mattina - scrive - passavo sotto le torri del World Trade Center intorno alle 6.50, godendo della vista magnifica degli edifici di Lower Manhattan. Anche se le vedevo tutti i giorni, ogni volta restavo ammirato dalle torri, pensando che tutto il mondo le conosceva e io invece semplicemente 'passavo lì sottò". Poi, la notizia, alle 9. "Mia moglie Robin mi telefonò per chiedermi se stessi bene perchè, mi disse, un aereo si era schiantato contro una torre del World Trade Center. L'edificio in cui lavoravo è il più a sud di tutta Manhattan - spiega Loeb - a meno di un chilometro di distanza dalle torri. Scesi nell'ingresso e vidi che fuori c'erano fumo e detriti che, come coriandoli, cadevano ovunque". Richard decise così di tornare a casa ma, nel frattempo, un altro aereo aveva colpito la torre sud. "Capimmo così che eravamo sotto un qualche tipo di attacco". Arrivato sulla Broadway, Loeb racconta: "c'era polvere ovunque, si sentivano sirene di ogni tipo, la gente correva e piangeva. Molti sembravano essere appena usciti da un qualche tipo di disastro: avevano i capelli spettinati, i vestiti strappati, nei loro occhi si vedeva il terrore, alcuni piangevano, e tutti correvano". Arrivò davanti alla chiesa della Trinità. "Vedere il fumo e le fiamme innalzarsi, sapere che c'erano persone disperate ai piani superiori delle torri e, a quanto avevamo sentito, sul tetto, fece scorrere l'adrenalina nei corpi di tutti noi che osservavamo. Ma eravamo impotenti e frustrati". Loeb continua descrivendo una delle immagini più terrificanti dell'11 settembre: le persone imprigionate nelle torri che, nel vano tentativo di salvarsi, si lasciavano cadere dalle finestre. "Inizialmente non mi ero reso conto di cosa stessi vedendo, pensavo fossero strani detriti. Osservando una scena che si svolge a quasi 400 metri di altezza, a due isolati di distanza, una persona che precipita nel vuoto non appare subito agli occhi come un essere umano. La gente a terra strillava quando vedeva persone saltare giù". In quei primi momenti di confusione sembrò prevalere comunque l'ottimismo nella 'forzà americana. Loeb iniziò infatti a parlare con le persone vicine. "Alcuni dissero che nemmeno con degli aerei erano riusciti a far cadere le torri: “Ci hanno provato di nuovo”, dicevano, (riferendosi all'attacco del febbraio 1993, ndr). Credevamo che sarebbe bastata una pesante opera di ristrutturazione e le torri sarebbero tornate presto". Ma bastò una frazione di secondo per cancellare ogni sorta di ottimismo, di speranza. La parte superiore della torre nord si inclinò leggermente verso sinistra e "come in una scena al rallentatore, precipitò in basso.... Il terreno tremò, il suono che accompagnò il crollo fu qualcosa che mi perseguiterà per sempre. Non fu come sentire una serie di esplosioni, sembrava più un pesante tamburellare metallico, come quello che si sente durante un temporale prima che un forte tuono si abbatta a terra, o come quello di un treno della metropolitana in transito. Finì con un forte rombo, confuso e soffocato. Ora si potevano di nuovo sentire le persone che urlavano mentre correvano via, e le sirene...tutte quelle sirene. Era una vera e propria Apocalisse nel mondo reale". L'onda d'urto di fumo e detriti che si sprigionò dopo il crollo travolse la zona circostante. Loeb si nascose dentro la filiale di una banca. "Ero coperto di una polvere che non avevo mai visto prima: appiccicosa, acida, inconsistente - spiega Loeb - Ce l'avevo dappertutto: nel naso, negli occhi, in bocca, nelle orecchie, sopra e sotto i vestiti. Guardando fuori dalle finestre sembrava che fosse notte, con un turbine di pesante polvere grigia che mulinava intorno". Un quarto d'ora dopo il pavimento tornò a tremare: era la seconda torre che crollava. Trascorsero due ore di paura e di attesa. Poi la Guardia Nazionale iniziò le operazioni di evacuazione. "Le strade erano praticamente deserte, non c'erano sirene né altri suoni, tutto era attutito come quando si cammina durante una fitta nevicata - ricorda Loeb - Il contrasto tra i suoni e gli eventi incredibili di poco prima era qualcosa da ricordare. Le urla, i pianti, le sirene, tutto taceva. In quel momento ero in una città abbandonata, tutto era stato congelato e zittito dal crollo delle torri. Fu l'esperienza più incredibile, surreale, fisica, mentale ed emotiva che una persona possa mai immaginare". Loeb impiegò sei ore e mezza prima di arrivare a casa, a New City, sobborgo di New York. "Tra le braccia di mia moglie e dei miei figli ho pensato a tutto quello che era successo: le sirene, i suoni, il silenzio, le sofferenze, e la follia. Sapevo che non avrei mai più potuto essere lo stesso dopo quel giorno".

Lottare per la libertà: il grande compito che ci ha lasciato la Fallaci. La nostra editorialista, amica della scrittrice, la ricorda tra passioni politiche e vita privata, scrive Fiamma Nirenstein, Domenica 11/09/2016, su "Il Giornale". È ormai diventato quasi un luogo comune ripetere che l'Oriana aveva ragione. Ci si stupisce, con tante polemiche, tanto scandalo, tanta persecuzione. Forse adesso il coro di stupefatto di rimpianto e ammirazione generale diventa un impedimento a identificarla pienamente come una scrittrice e una mente poliedrica e profonda. Tutte le guerre di Oriana erano guerre sante e ben condotte, non solo quella all'Islam e al terrorismo. Piccola, con quei vestiti da signora fiorentina, la gonna scozzese e il twin set, e pronta nell'armadio, fino all'ultimo, la tuta Kaki per partire «embedded» su un carro armato non c'era angolo dell'universo politico in cui Oriana non agitasse la sua fiaccola scintillante, trascinando l'interlocutore in un labirinto di idee in cui lei si offriva generosamente come guida, capo supremo, sacerdote. Oriana faceva venire il cardiopalma, ti eccitava, ti sgridava, ti lodava: a me lo fece venire letteralmente, una notte prima di una mia visita finii al pronto soccorso cardiaco a New York. Dopo l'11 di settembre ero diventata uno dei suoi interlocutori su Bin Laden e in genere sull'Islam, spesso mi chiamava in Israele alle due di notte con una domanda improvvisa. La vita pratica, specie durante la malattia che durò 15 anni, le era di impaccio al volo ideologico continuo che lei puntigliosamente nutriva di cultura, citazioni, nomi e date. Era consapevole di essere graziosa, sempre con la virgola nera sui begli occhi. Un giorno andò perduto il caviale beluga: «L'avevo comprato per te, dov'è? Dove l'ho messo... eppure deve essere in frigorifero...» No, in frigorifero l'Oriana non l'aveva messo. L'aveva cacciato nel cassetto delle posate il giorno avanti... e così, addio, era andato a male, e mi preparò due ottime uova al tegamino. Lei rise e si arrabbiò. Si arrabbiava sempre di più per i tradimenti, le minacce, la sofferenza del cancro che ormai, e se ne pentì, non curava quasi più perché correva verso l'appuntamento impostole dalla storia: essere la profetessa dell'invasione islamica e la fustigatrice nella neghittosità occidentale. I tre piani della casa browstone al 222 della 61esima erano per quanto possibile la succursale (e viceversa) della magione vicino a Greve in Chianti dove si rifugiava anche a costo di quel maledetto viaggio aereo, così lungo senza sigarette. Anche la sigaretta era per lei un apologo di libertà, nessuno doveva romperle le scatole mai, in niente, anche se e quando le faceva male. Così va letta Oriana, come una leader e anche un'enciclopedia nella sempiterna guerra per la libertà, come donna e come cittadino; anche tutta la sua ultima guerra contro l'Islam militante che ci vuole soggiogare, contro Eurabia, contro la vigliaccheria del politically correct che si rifiuta di coniugare la parola Islam con «violenza» e tantomeno con «terrorismo» è tutta contro i lacci del totalitarismo che opprime le donne e la libertà di pensiero e di religione. Libertà è la parola chiave. Senza questo valore così specifico, così occidentale la vita non vale la pena di essere vissuta. Il nemico non è solo l'Islam che vuole sottometterci, ma quello che è nazi fascista come diceva lei. Aveva fatto la resistenza da staffetta, quasi bambina, portando armi e messaggi, aveva visto morire i suoi amici ed era rimasta partigiana e patriota. E benché vivesse ogni nemico come nazi fascista la sua vis rivoluzionaria lei la viveva in maniera del tutto irrituale, dato che davvero non era di sinistra, e tanto meno comunista. Anzi, i comunisti la rivoltavano, da Pol Pot ai russi totalitari: li minacciava di «prenderli a calci nel culo», come diceva con vezzo toscano. Oriana sfoggiava una incantevole scrittura fiorentina (teneva tre dizionari sul tavolo, curava spasmodicamente la punteggiatura) e esibiva la sua attitudine da dura, sembrava una John Wayne alla fiorentina, da «antica signora» e da guerriera. Firenze e America: erano i suoi due poli geografico-ideologici: «...Fiorentina parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All'estero quando mi chiedono a quale Paese appartengo rispondo: Firenze. Non Italia». E per quella Firenze si precipitò come un San Giorgio contro il drago, per difendere Santa Maria del Fiore, il campanile di Giotto, la torre del Mannelli dove aveva combattuto i tedeschi col padre e dove voleva «morire in piedi come Emily Bronte». È a Firenze in realtà che comincia la sua lotta contro l'invasione islamica, a seguito dell'occupazione da parte di immigrati somali dello spazio sacro fra il Duomo e il Battistero, fra il Campanile di Giotto e la Porta del Paradiso del Ghiberti. Oriana lotta con le unghie e con i denti contro il sacrilegio e contro i vigliacchi pusillanimi e stupidi che non lo impediscono: «L'arcivescovo che non si pronuncia, i turisti che si sorprendono, i cittadini che si offendono». Quello che la Fallaci otterrà dalla difesa della sua città sarà il rifiuto di attribuirle il riconoscimento del Fiorino. Una vergogna. Qui comincia la strada di Oriana che trova tutto il suo significato nella Rabbia e l'Orgoglio e La Forza della ragione, la sua impavida resistenza al politically correct che diventa poi minaccia di morte. Dalla nuova ferita a ciò che ama, cioè agli Stati Uniti con le Twin Towers, Oriana trae la determinazione ad andare a fondo anche nell'approfondimento del tema Islam. È stato colpito il suo amore, perché l'America è libertà: «Se non si fosse scomodata a fare la guerra a Hitler e a Mussolini oggi parlerei tedesco... se non avesse tenuto testa all'Urss oggi parlerei russo... È un paese da invidiare perché nasce dall'idea della Libertà sposata a quella dell'Uguaglianza. Non ne parlavano nemmeno i rivoluzionari della Rivoluzione Francese, dato che sarebbe cominciata nel 1789, ossia tredici anni dopo la Rivoluzione americana, che scoppiò nel 1776». Oriana pensava che Firenze fosse la città più bella del mondo, che gli Usa fossero la nazione più entusiasmante, che il suo mestiere fosse il più significativo, il suo amore per Panagulis il più alto e poi disperato dopo la morte, le sue battaglie quelle senza le quali un uomo non è un uomo. Si chiama identità, un dono sublime, e anche lotta senza quartiere per difenderla quando sia minacciata, significa sapere, un po' sfacciatamente, cosa si è e per che cosa si vive e quanto costa. Ha descritto tutto questo per filo e per segno, e ha denunciato il terribile sforzo di andare valorosamente fino in fondo studiando e riportando quel che vedeva anche mentre stava morendo. Da giornalista, da scrittrice. Da Oriana, l'unica.

11 settembre 2001, 15 anni dopo chi ha capito la verità sugli attacchi? Scrive Gianluca Ferrara l'11 settembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Gianluca Ferrara. Saggista e direttore editoriale di Dissensi Edizioni. L’11 settembre di 15 anni fa gli Stati Uniti D’America subirono l’attentato più grave della loro storia. Era dal 1815 che non ricevevano un attacco sul proprio territorio. Nel 2001 due aerei si schiantarono contro le Twin Tower al World Trade Center di New York, un altro aereo colpì il Pentagono e un altro ancora, secondo la versione ufficiale, precipitò in Pennsylvania dopo che alcuni passeggeri tentarono di fermare i terroristi. All’indomani degli attacchi dell’11 settembre il grande shock per il popolo americano fu capire il perché una nazione buona e innocente fosse stata colpita con tale violenza. Era inverosimile immaginare che, come lo definì George W. Bush, “il faro più luminoso della libertà” fosse stato attaccato. Questo perché la gran parte degli statunitensi (ma degli occidentali in generale) vivono in una bolla mediatica che distorce la realtà e fa credere loro fin dalle scuole primarie di vivere nel “mondo libero” quello dalla parte giusta della storia. Ma è davvero così? Pochi giorni fa, dopo aver pubblicato un video messaggio intitolato Usa: l’impero più brutale della storia ho capito, dai tanti commenti ricevuti, che sempre più persone non credono alle tesi narrate dai principali organi mainstrean. In Italia è sempre più forte una richiesta d’indipendenza che, dopo 70 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e quasi 30 dalla caduta del muro di Berlino, sarebbe già dovuta iniziare da tempo. Nel nostro Paese sta maturando una domanda d’indipendenza e di vera sovranità che va ascoltata. A esclusione dell’episodio di Sigonella dell’ottobre 1985, l’Italia si è sempre tenuta al ruolo di fedele periferia dell’impero statunitense. Dopo il secondo conflitto mondiale e quelle atroci e inutili sofferenze inflitte ai civili giapponesi, la politica estera Usa ha mirato a occupare territori, attaccare paesi sovrani per imporre le proprie corporation e piazzare brutali dittatori. Si pensi a Somoza in Nicaragua, Pinochet in Cile, Suharto in Indonesia, Reza Pahlavi in Iran, Carlos Castillo Armas in Guatemala e Numumba in Congo. Dopo il 1945 gli Usa sono diventati un’economia di guerra intraprendendo un percorso di colonizzazione che secondo André Vtchek ha causato la morte diretta di almeno 50 milioni di persone. Dei 19 dirottatori dell’11 settembre nessuno era afgano o iracheno, ben 15 erano sauditi eppure gli Usa, legati economicamente all’Arabia Saudita, non fecero alcuna rimostranza verso questo regime a cui anche il nostro Paese vende armi; armi che di recente sono usate nel conflitto in Yemen che ha già ucciso 4000 persone. Non è mia intenzione avanzare ipotesi su chi sia stato e perché fu effettuato l’attacco dell’11 settembre. Una mia convinzione è che nel mondo non si muove una foglia se non ne sono a conoscenza preventivamente i servizi segreti Usa. A maggior ragione credo che sia impossibile che non ci fosse consapevolezza che fosse in programma un attentato di tale portata sul suolo americano. Sta di fatto che dopo quel terribile attentato in cui morirono 2974 persone il governo di George Bush ebbe un pretesto perfetto per proseguire il piano fissato nel 1990 di destabilizzare e poi controllare le fonti energetiche del Medio Oriente. Dopo il nemico comunista ne serviva subito un altro per giustificare gli ingenti fondi all’ipertrofica macchina bellica. Bin Laden ritenuto responsabile degli attentati era lo stesso combattente che, insieme a tanti jihadisti, fu definito da Ronald Reagan “Combattente per la libertà” allorquando la guerra santa fu armata e finanziata dagli Usa per fermare l’avanzata sovietica in Afghanistan. Bin Laden fu, secondo la versione governativa, ucciso il 2 maggio del 2011 durante un intervento di forze speciali denominato Operation Neptune Spear. Osama Bin Laden si nascondeva in un compound di Abbottabad in Pakistan, nell’assalto fu ucciso lo sceicco saudita suo figlio e altri tre abitanti della casa. Il corpo di Bin Laden fu portato via e gettato nell’oceano. L’uccisione di Bin Laden può essere equiparata a un raid malavitoso, non di certo a un’operazione compiuta da un governo che si reputa il faro della democrazia mondiale. Bin Laden era disarmato e persino i nazisti dopo il secondo conflitto mondiale ebbero diritto a un processo. Ma oggi a 15 anni di distanza da quel terribile giorno in quanti hanno capito la correlazione con la politica estera Usa? Quanti sono davvero a conoscenza delle atrocità commesse dalla macchina bellica statunitense? In quanti hanno davvero compreso che la democrazia Usa in realtà è un’oligarchia composta da grumi di potere che fissano una politica estera aggressiva che continua a mettere a repentaglio la sicurezza dei più per tutelare i propri interessi?

11 settembre, ecco tutti quelli che non credono alla versione ufficiale. Professionisti, scienziati, familiari, registi: chi sono coloro che non credono che quello che è stato raccontato sull'11 settembre corrisponde a verità, scrive il 10 settembre 2016 Mirko Bellis su "Fanpage”. L’attacco al World Trade Center e al Pentagono dell’11 settembre 2001 ha prodotto nel corso degli anni tutta una serie di teorie alternative alla versione ufficiale. Il rapporto della Commissione del Congresso degli Stati Uniti – incaricata dal presidente George W. Bush di fare luce sul peggior attentato della storia recente – ha suscitato fin dalla sua uscita le critiche di chi non crede a quella ricostruzione dei fatti. Le modalità con cui venne realizzato l’attentato – mai prima di allora dei dirottatori avevano compiuto una missione suicida contro degli obiettivi civili – le reticenze delle autorità americane e i misteri che gravitano attorno ad ogni evento di questa portata, hanno indotto molte persone a sostenere che l’11 settembre fu frutto di un complotto. Uno dei primi a realizzare una inchiesta-documentario fu Micheal Moore con il suo Fahrenheit 9/11, vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes nel 2004. Moore esamina le complesse relazioni fra il governo statunitense e la famiglia Bush con il clan dei bin Laden, il governo saudita, i talebani, nell'arco di oltre trent'anni. Moore afferma che, nei giorni immediatamente successivi all'attentato, ventiquattro membri della famiglia bin Laden, presenti negli Stati Uniti, sarebbero stati segretamente evacuati senza essere sottoposti ad alcun tipo di indagine. A finire sotto la lente del regista fu anche la reazione del governo americano.  Bush e i falchi Neocons che componevano il suo esecutivo (Rice, Cheney e Rumsfeld) individuarono subito il cosiddetto Asse del male del quale faceva parte anche l’Iraq di Saddam Hussein, assolutamente estraneo all'attentato. Nel 2013, gli Usa – con l’accusa, poi rivelatasi falsa, della possessione di armi di distruzione di massa da parte del regime di Baghdad – diedero inizio all'invasione dell’Iraq. Nel corso di questi quindici anni sono nate molte associazione negli Stati Uniti che hanno chiesto una riapertura delle indagini. Tra queste c’è il Family Steering Committee (Fsc) composto dai familiari delle vittime dell’attentato. Nell'autunno del 2001, i membri del Fsc iniziarono il primo di una serie di viaggi a Washington per chiedere un'indagine indipendente sugli attacchi terroristici dell’11 settembre. Il Fsc ottenne il sostegno bipartisan di importanti senatori come John McCain, del partito repubblicano, e Joseph Lieberman, per i democratici. Per niente soddisfatta dei risultati della Commissione Congressuale, l’associazione inviò nel 2004 cento domande ai massimi rappresentanti delle istituzioni degli Stati Uniti, tra cui l’ex presidente Bush, il segretario di Stato Condoleezza Rice e il direttore della Cia, George Tenet. I familiari delle vittime volevano sapere, tra le altre cose, perché la nazione fosse così impreparata ad un attacco o chi avesse approvato il volo della famiglia Bin Laden fuori degli Stati Uniti, quando tutti gli altri voli commerciali erano stati sospesi. Moltissime delle domande dell’associazione non hanno mai avuto nessuna risposta da parte dell’amministrazione Bush e le poche in cui si sono espresse le autorità non sono state considerate soddisfacenti da parte dei familiari delle vittime. A non credere alla versione ufficiale dei fatti di quel tragico 11 settembre, ci sono anche varie associazioni di ingegneri, architetti, piloti d’aereo e vigili del fuoco. Questi professionisti, ciascuno nel proprio campo, non accettano le conclusioni della Commissione Congressuale e chiedono un’investigazione indipendente. A sollevare dubbi sull'uso spregiudicato che l’amministrazione Bush fece dell’attentato non sono mancati neanche ufficiali di alto grado dell’esercito americano, come il generale Wesley Clark. Quello che fu il comandante delle forze Nato durante la guerra in Kosovo, durante un’intervista del 2007 a Democracynow, disse che guerre che seguirono agli attentati dell’11/9 erano state pianificate ben prima.  L’obiettivo di attaccare l’Iraq e altri Paesi – secondo la tesi del generale – rientrava in un disegno già prestabilito. Nell'elenco dei “complottisti”, il gruppo 911truth (Verità per l’11 settembre) – che comprende membri sparsi in tutto il mondo – accusa apertamente il governo americano di mentire. L’attacco – sostengono – sarebbe stata opera di elementi all'interno dell’amministrazione degli Stati Uniti che in qualche modo hanno orchestrato o partecipato all'esecuzione degli attentati. L’obiettivo di questo gruppo è di raccogliere tutti i documenti e le prove per rovesciare la storia ufficiale. Secondo 911truth, l’attentato sarebbe stato il pretesto usato dal governo americano per scatenare le guerre in Medio Oriente e per ridurre le libertà civili negli Usa. Solo un mese dopo dagli attacchi terroristi, fu approvato dal Congresso il Patriot Act, una legge federale che rinforzava il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi, limitando pesantemente anche la privacy dei cittadini. A cercare di diffondere la tesi alternativa ci ha provato anche il milionario Jimmy Walter autore di Confronting the Evidence, un documentario mandato in onda anche in Italia nel 2006 dalla trasmissione Report di Raitre. Walter ha affermato: “Nessuna persona obiettiva può esaminare l'assenza di rottami al Pentagono e il crollo dell'edificio 7 del WTC senza rendersi conto che c'è qualcosa di terribilmente sbagliato nella versione ufficiale”.

11 settembre 2001: Siems racconta gli errori americani. Finte confessioni, manipolazione pubbliche, segreti inconfessabili. Perché la guerra al terrore Usa non ha funzionato. Parla l'editore di Guantanamo's Diary, scrive Gea Scancarello l'11 Settembre 2016 su “Lettera 43”. Pochi minuti dopo la fine della nostra conversazione, Larry Siems salirà su un palco e racconterà – ancora una volta, l'ennesima, ma con lo stesso sgomento della prima – come un uomo qualunque possa lasciare casa propria dopo una normale giornata di lavoro, convinto di andare in commissariato per un interrogatorio di routine, ed essere invece caricato su un aereo segreto, picchiato selvaggiamente, spostato in varie carceri mediorientali fino a trovarsi incatenato mani e piedi dentro all’orrore di Guantanamo, dall’altra parte del mondo. E come quell'uomo sia costretto ad attendere cinque anni, senza alcuna imputazione, prima di poter parlare con un avvocato, tra torture quotidiane, violenze sessuali, umiliazioni di ogni genere. E poi altri otto, anche quando aguzzini e carcerieri sanno perfettamente che la ragione per cui è stato portato lì dentro è falsa: non è un terrorista, non ha alcun legame con gli attentatori dell’11 Settembre, non frequenta membri di al Qaeda. La storia è quella di Mohamedou Slahi, (allora) giovane della Mauritania e autore inconsapevole di Guantanamo Diary (in italiano 12 anni a Guantanamo,edito da Piemme): 400 pagine di appunti giornalieri, dettagliati e persino ironici, scritti per restare umano dentro alla meno umana delle prigioni. Il governo americano li ha requisiti e secretati per anni, finché gli avvocati di Slahi hanno vinto la battaglia legale, sono riusciti a ottenerli e a passarli a Larry Siems, giornalista, attivista dei diritti umani ed ex direttore del Freedom to Write and International Programsdel Pen, l'associazione degli scrittori americani per la libertà d'espressione. Siems, con la consapevolezza dell’enormità del compito che gli era stato affidato, li ha editati e trasformati in un libro uscito nel 2015, che Slahi non ha mai potuto vedere: è infatti ancora rinchiuso a Guantanamo. Il quindicesimo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, e della cosiddetta lotta senza quartiere al terrorismo, coincide con il 15esimo anno della sua detenzione illegale. Nel luglio scorso, un giudice ha stabilito che potrebbe essere tra i prossimi rilasciati e, nell’attesa che succeda, Siems e il fratello di Slahi girano raccontando a un’Europa sconvolta dalla nuova ondata di attentati come e perché non cedere agli errori e agli orrori di altre Guantanamo. «La violazione dei diritti umani, la tortura, il rinunciare ai nostri valori fondanti in nome di una presunta sicurezza è un danno che facciamo a noi stessi grande almeno quanto quello che ci fanno i foreign fighter o chi tortura a Raqqa», spiega Siems. Larry Siems, co-autore del libro 12 anni a Guantanamo.

DOMANDA. La sensazione però è che, al di là della retorica ufficiale, l'urgenza sia trovare una qualsiasi soluzione per arginare il terrorismo, più che il rispetto dei valori fondanti.

RISPOSTA. Potrei rispondere con la citazione di Benjamin Franklin che anche Mohamedou propone nel libro: «Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza».

D. Eppure è stata la strada scelta proprio dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001, in nome della «guerra al terrore».

R. La reazione americana è stata sostanzialmente questa: prendi le tue certezze, i tuoi valori, le cose su cui hai fondato la tua storia e mettile da parte. Le extraordinary rendition, la sorveglianza di massa, le detenzioni preventive di cui Guantanamo è il più terribile esempio sono una sospensione totale della cornice legale e delle consapevolezze umane e giuridiche costruite in secoli.

D. Nonché una violazione di trattati internazionali, per esempio quello contro la tortura sui prigionieri di guerra.

R. Abbiamo torturato come fanno i terroristi a Raqqa, come fanno i regimi che hanno paura e vogliono una risposta qualsiasi subito: non giusta, non vera, ma una risposta. È un compromesso che non andava accettato. Tornare indietro poi è molto difficile.

D. Un compromesso utile, almeno?

R. Prendiamo il caso della sorveglianza di massa. Dicono quelli che sono incaricati di scavare nelle informazioni raccolte che l'accumulo mostruoso di dati sia controproducente, che rende il loro lavoro più difficile, che è più complicato isolare quello che è realmente importante.

D. E nella prevenzione del terrorismo? C'è un fil rouge tra l'11 settembre, Guantanamo e i recenti attentati?

R. Non è facile rispondere, ma pensiamo agli ostaggi dell'Isis con le stesse tute arancioni dei detenuti di Guatanamo: il segnale è chiaro. O prendiamo lo studio del Senato Usa sul programma di detenzione e di interrogatori della Cia: ha rivelato che le confessioni estorte ai detenuti sono state svianti per l'antiterrorismo. Poi c'è la consapevolezza che Al Baghdadi, il capo dell'Isis, fu detenuto nel carcere 'speciale' di Abu Ghraib...

D. I programmi speciali non erano poi così speciali, insomma.

R. Le nostre detenzioni illegali e le nostre violenze hanno minato l'impegno degli Stati Uniti nei confronti del rispetto della dignità e dei diritti umani. E nel momento in cui abbiamo consentito ad altri di questionare la nostra serietà nei confronti della libertà abbiamo contribuito a creare una animosità generale.

D. Eppure, nell'Europa sconvolta dagli attentati dell'Isis, sono molti a pensare che ci vorrebbe una Guantanamo anche qui per prevenire i rischi. 

R. Non so ovviamente quale sia il bilanciamento perfetto tra libertà e sicurezza, ma penso che il libro di Mohamedou riporti la questione alla sua essenza. Stiamo parlando di individui, di persone, di diritti umani e civili di base: i problemi del terrorismo non si risolvono prendendo un sacco di gente e consentendo ogni genere di abusi.

D. Qualcuno risponderebbe che anche non farsi ammazzare in un teatro parigino o lungo la passeggiata di Nizza è un diritto.

R. Questa è un'argomentazione consumata, vecchia, già morta. È frutto di una manipolazione, simile a quella per cui in America ci hanno convinto che i 798 detenuti a Guantanamo fossero le persone peggiori, le più cattive del mondo, l'incarnazione del male. I politici si sono fatti forti maltrattando gente che non hanno saputo riconoscere. Infatti la maggior parte di queste persone sono poi risultate totalmente estranee ai fatti: nel frattempo però non solo sono state distrutte le loro vite, ma anche quella delle loro famiglie, minando pericolosamente un intero tessuto sociale.

D. È per via di questa manipolazione che negli Usa non c'è mai stato un movimento davvero serio contro Guantanamo e certe sospensioni della legalità?

R. Penso che sia un insieme di fattori. A partire dalla segretezza: non è un caso che quella prigione sia stata realizzata a Cuba. L'hanno messa lontana, inaccessibile, tutto quello che succedeva era impossibile da sapere. Con il tempo alcune cose sono venute fuori, il diario di Mohamedou in questo senso ha aiutato moltissimo, ma penso che almeno quattro quinti delle cose rilevate nello studio sui programmi della Cia non saranno mai rese note.

D. Il libro di Mohamedou Shali, che lei ha editato, è pieno di omissis e di parti secretate. I nomi di certi aguzzini e responsabili però prima o poi verranno fuori. Cosa succederà allora? Sarà come quando i funzionari nazisti dissero che si limitavano a eseguire ordini?

R. Questo è un ottimo punto. Io penso che Mohamedou, e molti altri detenuti, siano rimasti dentro tutto questo tempo proprio perché non facciano i nomi: Guantano oggi esiste non per proteggerci dal terrorismo, ma per mantenere segreti. E mi amareggia sapere il danno fatto non solo ai sequestrati, ma anche agli americani: violando la loro comprensione di quello che è giusto e di quello che non lo è.

D. Il giudice ha stabilito di recente che Mohamedou potrà forse uscire. Cosa succede una volta fuori?

R. Questa è una cosa strana, perché a persone a cui è stato tolto tutto non resta che una cosa: il perdono. Molti ex detenuti hanno dimostrato questa attitudine, dopo aver avuto una capacità incredibile ed eroica di resistenza. Nonostante le loro famiglie abbiano subito condizioni di stress estremo e siano state caricate di uno stigma che ha portato alla lacerazione del tessuto sociale che stava loro intorno. Sarebbe giusto che gli Stati Uniti – ai quali nessuno comunque potrà chiedere i danni – chiedessero almeno scusa, che si prendessero la propria responsabilità nell'errore immenso che sono stati Guantanamo e tutti i programmi speciali inaugurati dopo l'11 settembre.

D. Invece?

R. Invece non c'è alcuna accountability, alcuna assunzione di responsabiltà. E il fatto che gli americani non abbiano mai pubblicamente ammesso l'errore e non abbiamo mai chiesto scusa, aumenta la percezione distorta degli europei, che ora sono tentati di imboccare soluzioni simili.

D. Obama aveva promesso che avrebbe chiuso Guantanamo, e non l'ha fatto. E la sua amministrazione ha invece confermato alcuni programmi.

R. Ci sono molte lotte, nell'Amministrazione, tra la Cia e il Pentagono, nel Congresso stesso. Penso che questi scontri abbiano impedito al presidente di chiudere Guantanamo come aveva detto. Ma lo ammiro molto, perché ha comunque cercato delle strade per riuscire a far uscire chi non doveva trovarsi lì. Ha ordinato udienze, revisione dei casi, ha stretto accordi con i Paesi perché i detenuti potessero tornare a casa. E anche così, pur nella consapevolezza acclarata che si stavano liberando innocenti detenuti illegalmente per oltre un decennio, a ogni ondata di rilasci i repubblicani tuonavano: «Stiamo rimettendo in libertà pericolosi terroristi...».

IL TERRORE TRA NOI. L’11 settembre e la paura Isis, scrive Toni Capuozzo l'11/09/2016 su “Il Tempo”. Vanno al liceo, o al college. Nel mondo c'è una generazione che è nata dopo quell'11 settembre del 2001. Come spiegare loro quello che significò quel giorno, per noi che accendemmo le televisioni, e assistevamo a qualcosa che non poteva essere vero? Non possiamo spiegarglielo, continuiamo a conservare solo spezzoni di immagini: l'aereo che si conficca nella seconda torre, le figurine delle persone che si lanciano nel vuoto, i volti dei vigili del fuoco, la polvere. In quindici anni molte cose sono cambiate: Bin Laden è stato ucciso e la sua salma nascosta per sempre, i talebani non governano più l'Afghanistan, sono morti Saddam e Gheddafi, Al Qaeda ha perso la sua supremazia nel mondo del fondamentalismo cedendola a un gruppo, se possibile, ancora peggiore. L'America ha, da allora, contato più vittime per sparatorie folli che per attentati terroristici, è stata guidata da un presidente nero, ed è diventata riluttante a mettere i piedi dei suoi soldati in un mondo confuso, preferisce la guerra asettica, un po' sdegnosa e un po' prudente, dei droni. L'Europa, che quindici anni fa assistette sgomenta a quello che succedeva nel World Trade Center, ma con l'angoscia di uno spettatore risparmiato dalla minaccia, ha dovuto contare i suoi morti, da Madrid a Parigi, da Bruxelles a Londra. I leader europei ci ripetono: siamo in guerra. Tra cinquanta o cento anni, quando nei libri di storia verrà raccontata, questa guerra, sarà risparmiata agli studenti la memorizzazione delle date: è una guerra che non ha una data d'inizio - c'erano già stati attentati alle ambasciate americane in Africa, gli stessi giochi olimpici di Sidney 2000 avevano convissuto con le minacce di uno sconosciuto saudita di ricca famiglia - e non avrà mai una data certa che possa essere definita la fine della guerra. Forse sceglieranno quell' 11 settembre di quindici anni fa come data atrocemente simbolica di un secolo che, chiuso il precedente con la dissoluzione dell'impero sovietico e le guerre etniche, si inaugurava smentendo ogni illusione, regalandoci le guerre sporche, il terrorismo internazionale, gli attentati. E allora, la stiamo vincendo, questa guerra? Lo Stato Islamico perde pezzi, certo. Ma non possiamo fare a meno di interrogarci sul futuro di migliaia di manovali del terrore sparsi per il mondo e in guerra con il mondo, un'armata di zombie che, perso il suo ridotto, entrerà nella clandestinità, e forse accanto a noi. Ecco, non è un caso che sia l'Isis a ricordare l'anniversario dell'11 settembre più ancora di quel che resta di Al Qaeda. Da Raqqa hanno fatto un appello ai lupi solitari perché entrino in azione proprio oggi, e lo condiscono appropriandosi delle immagini del World Trade Center e mettendo Bin Laden nella galleria dei loro cattivi maestri. Lo Stato Islamico si sta preparando - perdonateci l'aspro neologismo - ad alqaedizzarsi, a rendere carbonare le proprie strutture di massa. Possiamo consolarci pensando che stanno per perdere Sirte, che finalmente Russia e Stati Uniti un qualche accordo sulla Siria l'hanno trovato, e i francesi hanno fermato un commando femminile armato di bombole di gas? No: ci sono minori addestrati a uccidere che viaggiano verso le nostre rive ingenue, ci sono gas sarin e nervino preparati per riempire altre bombole, e i folli del fondamentalismo non sono più cellule di rampolli sauditi annoiati, ma elenchi senza fine di gente nata in Europa: il Belgio dice di temere il ritorno in patria di 200 tagliagole. Vedremo se succederà qualcosa oggi, ma comunque sia, quindici anni dopo, non possiamo permetterci il lusso di ricordare in una quiete dolorosa ma sicura. A quei ragazzi che non erano ancora nati possiamo solo dire che è stato risparmiato loro un passato duro, ma il futuro non appare migliore. Sappiamo che c'è chi continua a morire per le polveri respirate sul Ground zero. Noi continuiamo a vivere, ma il fiato, a guardare in faccia la realtà, a guardare l'America che non ha cancellato il nemico con Bush ma neanche con Obama, a vedere l'Europa che frana proprio sotto la spinta delle migrazioni, a registrare la morte, con le primavere arabe, di tante illusioni, il fiato è sospeso. Toni Capuozzo.

Il rapporto Chilcot, bufera sull’invasione dell’Iraq. Una paese in guerra e un paese fuori controllo: questi i risultati della decisione presa da Blair e Bush nel 2003, scrive il 7 luglio 2016 Luciano Tirinnanzi su "Panorama". Quella di ieri, mercoledì 6 luglio 2016, è stata una giornata difficile per la politica britannica e, in buona parte, anche per quella americana. Mentre Londra faceva la conta del numero di politici dimissionari dopo lo tsunami della Brexit, e mentre a Washington l’FBI scagionava dalle accuse sull’emailgate Hillary Clinton, sulla scena internazionale irrompevano le conclusioni del rapporto Chilcot, ovvero la commissione d'inchiesta britannica sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq del 2003.  “Abbiamo concluso che la scelta del Regno Unito di partecipare all’invasione in Iraq è stata compiuta prima che fossero esaurite tutte le altre opzioni pacifiche per il disarmo. Abbiamo altresì concluso che la minaccia delle armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq, rappresentata come una certezza, non era giustificata. Nonostante gli avvertimenti, le conseguenze dell’invasione sono state sottovalutate e la preparazione del dopo Saddam è stata del tutto inadeguata”. Sono queste in sostanza le osservazioni di John Chilcot, l’uomo che presiede l’inchiesta sul ruolo britannico nell’invasione. Parole che verosimilmente scateneranno una serie di polemiche destinate ad ampliare il terremoto in corso nel mondo politico inglese e che hanno già fatto breccia nella campagna elettorale americana. Anche se il rapporto Chilcot - dopo sette anni di lavori, centinaia di testimonianze raccolte e 150mila documenti vagliati - ci racconta delle ovvietà, poiché evidentemente tutti hanno sotto gli occhi i risultati di cosa ha comportato, non può sfuggire l’importanza simbolica delle sue conclusioni. L’ufficialità del rapporto pone, infatti, una questione politica non da poco sia per il Regno Unito sia per la comunità internazionale, soprattutto per il verdetto schiacciante che condanna in toto l’attività dell’allora premier britannico Tony Blair, il quale “era stato avvertito” dell’inopportunità di entrare in guerra e nonostante ciò ha perseverato nel disastro, ma anche la decisione degli americani. Secondo gli storici, Blair agì in questo modo per non rovinare il buon rapporto tra il Regno Unito e gli Stati Uniti che si era cementato durante la presidenza Clinton e che rischiava di sgretolarsi con l’arrivo del nuovo presidente repubblicano. In questo senso, la commissione suggerisce che Blair avrebbe promesso a George W. Bush che lo avrebbe affiancato nell'impresa bellica “a ogni costo”, convinto di poter gestire il rapporto con l’inquilino della Casa Bianca. Mentre secondo il diretto interessato, che non ha perso tempo e ha risposto immediatamente alle accuse, il rapporto Chilcot per quanto lo riguarda afferma che non vi è stata “nessuna falsificazione o uso improprio dell’intelligence” e neanche “alcun inganno nei confronti del governo”, così come non è stato siglato “nessun patto segreto” tra lui e il presidente George W. Bush per l’entrata in guerra britannica. Nonostante la difesa di Tony Blair, però, il risultato non cambia. La parabola politica dell’ex premier inglese si conclude con una bocciatura storica non da poco da parte di un’inchiesta ufficiale. E non va meglio dall’altra parte dell’oceano, dove il candidato repubblicano Donald Trump non ha perso tempo nel commentare alla sua maniera il caso: “Saddam Hussein era un cattivo ragazzo. Davvero cattivo. Ma sapete cosa? Ha fatto qualcosa di buono. Ha ucciso i terroristi”. E ha poi aggiunto: “Guardate cos’è diventato oggi l’Iraq, è l’Harvard del terrorismo”. Insomma, se a Londra ci si domanda come gestire il rapporto Chilcot e come assorbire l’impatto di questa inchiesta, in America la questione è già spostata in avanti. Il New York Times in un cupo editoriale si è sentito in dovere di citare le parole pronunciate poche settimane fa dal capo della CIA John Brennan il quale, commentando la forza dello Stato Islamico, si è spinto a dire: “Abbiamo ancora molta strada da fare prima di poter affermare che abbiamo fatto dei progressi significativi contro di loro”. Dunque, seguendo le osservazioni di Londra e Washington: la guerra per deporre Saddam Hussein fu un errore; la gestione del dopo-invasione ha generato il terrorismo; il terrorismo a sua volta ha prodotto il Califfato; il Califfato è vivo e vegeto e gli Stati Uniti non hanno idea di come fermarlo. Ma la cosa che più spaventa è l’ammissione che l’Occidente da quindici anni a questa parte ha sbagliato tutto sul Medio Oriente e ancora oggi non ha idea di come gestire il genio (del male) fuoriuscito dalla lampada. E, come insegna la fiaba de Le mille e una notte, una volta fuori è difficile ricacciarlo dentro. Il rapporto Chilcot incide sulla pietra il fatto che l’invasione dell’Iraq fu un vero fallimento e che le conseguenze negative di quella scelta sciagurata si stanno protraendo fino a oggi. Questo significa anche ufficializzare il de profundis per la politica occidentale nel Medio Oriente, e in Iraq in misura ancora maggiore, proprio mentre Baghdad è ostaggio del tritolo dello Stato Islamico. Infatti il Califfo Al Baghdadi, che con il Ramadan 2016 ha inaugurato una nuova strategia del terrore, ha deciso di incrementare le azioni suicide sulla capitale per costringere il governo sciita di Haider Al Abadi a far rientrare in città le truppe che oggi combattono l’ISIS a nord e che minacciano Mosul (ancora in mano allo Stato Islamico), per difendere dalle azioni dei kamikaze una capitale quasi fuori controllo. La sicurezza a Baghdad, infatti, non esiste più e anche se il Califfato non è arrivato mai a minacciare militarmente la città, ciò non significa che tenerla in ostaggio con le bombe non produca lo stesso risultato: quello di danneggiare il governo Al Abadi fino al punto da provocare una sua caduta. In questo, il Califfato potrebbe trovare un alleato inconsapevole nello sceicco Moqtad Al Sadr, il leader che a Baghdad comanda il gigantesco quartiere sciita di Sadr City (impenetrabile anche alle autorità irachene e già protagonista della resistenza all’invasione americana), che osteggia tanto i sunniti di Al Baghdadi quanto il governo sciita in carica, accusandolo di corruzione e di complicità con il terrorismo. Non più di due giorni fa, infatti, Al Sadr ha affermato: “Questi attentati non avranno fine, perché molti politici stanno capitalizzando sulle bombe” e ha poi aggiunto una frase che suona come una minaccia diretta all’attuale governo: “solo il popolo iracheno potrà mettere fine a questa corruzione”. Come a dire che, se Al Abadi non è in grado di proteggere la popolazione, qualcun altro presto dovrà farlo. In ogni caso, metaforicamente Baghdad è davvero la nuova Babilonia.

Così la guerra in Iraq ha sconvolto il Medio Oriente e rafforzato il terrorismo. Lo scenario. Dal rapporto della commissione chilcot emerge che Blair e Bush jr. ignorarono la Storia e non ascoltarono i diplomatici: l'invasione spezzò i fragili equilibri regionali, scrive Bernardo Valli il 7 luglio 2016 su “La Repubblica”. Ci sono voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l'invasione dell'Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto. Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per "crimine di guerra" a carico dell'inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l'autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra. Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per "l'aggressione militare basata su un falso pretesto". E ha parlato di "violazione della legge internazionale", da parte di un primo ministro laburista, quel era all'epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l'inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l'obbediente Tony Blair fosse il "barboncino". Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell'Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l'invasione di allora. La situazione era pronta per un'esplosione. È vero. La guerra nell'Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l'Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l'Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli Ottanta, tra l'Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l'Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell'Islam adesso in aperto confronto. Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c'era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall'iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c'erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L'uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto. La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l'altro, quando era in guerra con l'Iran, un alleato obiettivo. L'irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L'ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c'erano gli americani, sia a Bassora dove c'erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza. L'esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un'amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L'impatto dell'intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell'impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l'Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L'intervento americano con l'appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d'accusa sul piano politico e morale, ma l'analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l'amico Blair hanno ignorato la Storia.

«Sarò con te, sempre». Scrive il 6 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. Tra le carte, fino ad oggi top secret, analizzate e rese pubbliche nel rapporto di Sir John Chilcot sulle responsabilità britanniche nella guerra in Iraq, ci sono anche alcune note che l’allora premier Tony Blair scrisse a George W. Bush. In una di queste, datata 28 luglio 2002 (otto mesi prima che il 20 marzo 2003 prendesse il via la guerra) Blair già promette appoggio incondizionato all’allora presidente Usa per l’invasione dell’Iraq. Il dossier Chilcot contiene vari messaggi tra Blair e Bush prima, durante e dopo il conflitto. In questa lettera, scritta a mano, l’ex premier si complimenta con il presidente Usa per un suo «brillante discorso» in merito alla necessità dell’intervento in Iraq. In tutto sono 29 le lettere inviate dall’ex primo ministro del Regno Unito Tony Blair all’ex presidente Usa George W. Bush e sono centinaia i documenti desecretati e pubblicati nel Rapporto Chilcot. Il rapporto tra i due leader è considerato cruciale nella decisione dell’invasione. Il rapporto Chilcot è un’inchiesta britannica portata avanti dalla commissione parlamentare presieduta dall’ex diplomatico Sir John Chilcot sulla guerra in Iraq. Istituita da Gordon Brown nel 2009, ha lo scopo di far chiarezza sulle circostanze che portarono il governo di Tony Blair a entrare in guerra assieme agli Stati Uniti contro Saddam Hussein Durante i lavori della commissione sono stati analizzati oltre 150.000 documenti e sono stati sentiti più di 150 testimoni, tra cui l’ex premier Tony Blair. È suddiviso in 12 volumi e contiene 2,6 milioni di parole.

Iraq, come sarebbe il mondo oggi se Saddam non fosse caduto? Dopo tredici anni e un’infinita serie di attentati e violenze, cinque domande provano a creare una realtà alternativa in cui il raìs sarebbe ancora al potere, scrive Michele Farina il 6 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. E se non avessero invaso l’Iraq? O se almeno avessero preparato meglio il dopo guerra? Per il rapporto Chilcot fu un intervento «sbagliato» e «le sue conseguenze perdurano ancora oggi». Tony Blair dice che senza quell’intervento il mondo sarebbe peggiore, meno sicuro. E che almeno adesso gli iracheni hanno una chance di libertà che sotto Saddam Hussein non avevano. La libertà di morire a centinaia, una sera d’estate del 2016, per l’esplosione di un camion bomba dell’Isis tra i negozi e i ristoranti di Bagdad affollati di famiglie e bambini? Khaddim al-Jaburi dice che, se incontrasse Blair oggi, «gli sputerebbe in faccia». Al Jaburi è l’uomo che buttò già la prima statua di Saddam alla caduta di Bagdad. Faceva il meccanico, riparava le moto del dittatore. Cadde in disgrazia, gli uccisero 15 familiari. Eppure oggi intervistato a Bagdad dalla Bbc dice che se potesse tornare indietro, sapendo quanto è successo in questi tredici anni, lui quella statua «la rimetterebbe in piedi». I curdi del nord e gli sciiti del Sud, per decenni vittime dichiarate del regime, hanno una prospettiva differente. Senza l’invasione del 2003 Saddam o chi per lui (Qusay, il figlio più astuto) gaserebbe ancora bambini e avversari? Avrebbe fatto un’altra guerra con l’Iran? E se la primavera araba nel 2011 avesse attecchito anche sulla riva al Tigri oggi l’Iraq sarebbe comunque preda — come lascia intendere Blair — di una sanguinosa guerra civile modello siriano? E il mondo sarebbe comunque alle prese con l’Isis e il suo terrorismo in franchising? Tornare indietro. Immaginare la storia provando a rimettere insieme i tasselli secondo un’altra combinazione, seguendo il cartello del «what if», cosa sarebbe successo se. Lo fa l’ex premier Blair e il meccanico al-Jaburi. E’ una tentazione che ognuno di noi sperimenta nel proprio piccolo, a ogni angolo. E se Pellè non avesse provocato Neuer? Più seriamente, pensando in grande: e se non avessero invaso l’Iraq? Un gioco distopico per romanzieri, un esercizio per provare a non sbagliare direzione in futuro.

1 Se avessero trovato le armi di distruzione di massa? Tutto a posteriori sarebbe stato giustificato. Bush e Blair candidati al Nobel per la pace?

2 Se Blair non si fosse legato al carro armato di Bush? L’America sarebbe andata da sola all’invasione. La Gran Bretagna non sarebbe stata meno sicura. Vedi Francia: nel 2003 con Chirac all’Eliseo disse no all’intervento armato in Iraq. Ma questo non le ha risparmiato le ferite degli attentati di Parigi.

3 Se la guerra fosse stata preparata meglio? Il rapporto Chilcot accusa Londra (e di riflesso Washington) di impreparazione e sottovalutazione. Anche da un punto di vista militare. Fin da subito gli stessi comandi alleati dissero (inascoltati) che servivano più soldati e più mezzi. Gli Usa rimasero con gli Humvees colabrodo che saltavano in aria sulle bombe improvvisate, gli inglesi al Sud giravano con i gipponi che i soldati chiamavano «bare mobili». Pensare che la Cia arrivò a Bagdad con casse di bandierine a stelle e strisce: da distribuire alla popolazione che si immaginava festante. Altro che resistenza. Gli Usa prospettavano un rapido «mordi e fuggi», o in alternativa qualcosa di simile alla serena occupazione del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale.

4 Se non avessero sciolto l’esercito iracheno? Una questione spinosa e complicata. Ma certo quella decisione presa dal governatore Usa Paul Bremer non favorì la riconciliazione nazionale. Anzi.

5 Se avessero aspettato l’Onu? Francia e Russia erano contro l’intervento armato. Di fronte alla paralisi diplomatica non c’era un attimo da perdere, sostiene Blair. Ma le prove di intelligence contro Saddam Hussein, come riafferma oggi la commissione Chilcot dovevano apparire gravemente insufficienti anche 13 anni fa. E allora, prendere tempo sarebbe stato saggio e non avrebbe necessariamente rafforzato Saddam. Questa era anche la posizione tedesca. Una linea di prudenza che, con scenario tutto diverso, Angela Merkel va applicando anche alla questione Brexit. La politica del «Schweigen»: calma e silenzio. Meglio che «shock and awe», colpisci e terrorizza (la tattica adottata nel primo giorno di attacco all’Iraq nel 2003). Il rapporto Chilcot (volendolo guardare attraverso il filtro della diplomazia comunitaria) per certi versi prova e allarga il solco tra Gran Bretagna ed Europa continentale. Un solco a geometrie variabili, considerando per esempio l’impazienza francese nell’attaccare la Libia di Gheddafi. Anche se i tedeschi mai l’ammetterebbero, l’attendismo di Berlino sulla Brexit (aspettiamo l’estate) può ricordare il nostro adda passà ‘a nuttata. Molto italiano, e anche molto iracheno: il sentimento di un popolo che, 13 anni dopo la sua liberazione, si ritrova a rimpiangere l’orco Saddam.

PROFUGHI ED ISIS.

Addio alle barbe: i terroristi dell’ISIS si mescolano con i profughi e si imbarcano per l’Europa. Molti dei componenti del gruppo terrorista dell’ISIS (Daesh in arabo) stanno fuggendo dal loro bastione in Libia, nella Sirte (nord) e si stanno dirigendo verso le coste del sud Italia, confondendosi tra i migranti e profughi che si imbarcano dalle coste libiche. Secondo quanto ha informato il giornale britannico Daily Mail, un grande numero di terroristi, dopo essere stati sconfitti ed aver perso il controllo di parte della Siria, hanno deciso di partire dalla Libia ed arrivare in Europa dove stanno pianificando di realizzare attentati ed attacchi contro vari obiettivi. Per ottenere di passare inosservati, hanno dovuto tagliarsi le lunghe barbe in modo da confondersi meglio tra i rifugiati e, secondo fonti di questo giornale britannico, hanno contattato simpatizzanti dell’ISIS in Occidente per ottenere mezzi, armi ed esplosivi per utilizzarli una volta sul posto. Fonti dell’intelligence hanno segnalato che già parecchi di questi elementi si troverebbero in Europa, motivo per cui i servizi di sicurezza sono entrati in allerta e stanno cercando di indagare su quanti arrivano in Europa. Abbiamo subito perdite ma non siamo gli unici. Necessitiamo il controllo dei porti per evitare qualsiasi fuga via mare”, ha dichiarato il colonello libico Mohamad El Gasiri, al giornale britannico. La totale anarchia subentrata nel paese dopo l’intervento della NATO, ha propiziato il terreno per le attività dei gruppi terroristi dell’ISIS che operano in Iraq e Siria. Fonte: Daily Mail.co.uk

Nota: Terroristi mescolati con le “risorse” che sbarcano in Sicilia? Sul problema dei terroristi, in Italia si sono registrate dichiarazioni tranquillizzanti di Alfano: «Fin qui non abbiamo traccia di presenze di terroristi sui barconi. Questo non significa che abbiamo abbassato la tensione e l’attenzione, che rimangono altissime su questo argomento».

Anche dopo l’ennesimo allarme sul rischio di infiltrazioni jihadiste in mezzo ai profughi che arrivano con i gommoni dalla Libia, il ministro dell’Interno Angelino Alfano aveva a suo tempo smentito l’esistenza di questa possibilità, pur sottolineando che: “non abbiamo abbassato la tensione e l’attenzione, che rimangono altissime su questo argomento». Nonostante gli alert che da mesi arrivano da più parti, dunque, molti esponenti del governo e non solo continuano a rifiutare l’ipotesi che l’Isis traghetti terroristi dalla Libia all’Italia utilizzando le rotte dell’immigrazione clandestina. Anche il ministro dell’Informazione del governo libico di Tobruk, Omar al Gawari, nei mesi scorsi aveva lanciato un allarme in proposito, dichiarando come risulti probabile che, sui barconi carichi di immigranti che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste, potranno esserci anche i terroristi dell’Isis, sebbene intelligence italiana non avesse confermato la notizia. Al coro di scettici si era aggiunto anche il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni il quale, nei mesi scorsi, proprio riferendosi agli alert che arrivavano da Tobruk, aveva dichiarato: «Ma se c’è un commando che vuole fare un attentato, si mette in gommone che rischia di affondare e viene intercettato e controllato? Non mi sembra la via maestra». Successivamente, a fine Gennaio, anche il titolare della Farnesina aveva ammesso che «ci sono di rischi di infiltrazione, anche notevoli, di terroristi dall’immigrazione. Per fortuna i nostri apparati di sicurezza sono allertati e funzionano, ma questo non ci consente di abbassare minimamente il grado di preoccupazione». In pratica un fronte del «no» che ha tentato, anche se in modo discontinuo, di allontanare l’idea che il pericolo degli jihadisti e dell’Isis possa arrivsre dal mare, fra quei migranti che le navi della Marina vanno a prelevare anche sotto costa libica, gli stessi che vengono considerati “risorse” dagli esponenti politici della sinistra mondialista ed istituzionale, come la Boldrini, Renzi, Napolitano e lo stesso presidente Mattarella. Tuttavia da più fonti attendibili arrivano indicazioni contrarie che avvisano circa il pericolo che l’aumento dell’immigrazione clandestina faccia aumentare i rischi di infiltrazione di terroristi e queste fonti attestano come il terroristi riescano a celarsi facilmente fra i profughi travestendosi da “risorse”. Sintesi traduzione e Nota: Luciano Lago.

I terroristi reclutano i profughi, meglio se giovani. L'intelligence tedesca lancia l'allarme: "Cercano ragazzi sotto i 18 anni", scrive Fausto Biloslavo, Mercoledì 20/07/2016, su "Il Giornale". Gli estremisti islamici reclutano giovani profughi, come l'afgano delle accettate in treno, per farli diventare terroristi. Lo ha rivelato Hans-Georg Maassen, il capo dei servizi segreti interni tedeschi. In aprile erano già stati segnalati «300 contatti» fra reclutatori islamici e migranti appena arrivati. «Ci preoccupano in particolare i ragazzi sotto i 18 anni scelti come obiettivi privilegiati» da radicalizzare spiegava Hans-Georg Maassen. Il terrorista ucciso sul treno aveva 17 anni. Secondo il capo dell'intelligence ci sono in Germania 1100 individui con visioni «islamiste e terroriste», che rappresentano un pericolo concreto. Il numero di estremisti salafiti, 8650 ad aprile, «aumenta praticamente ogni giorno». In questo ambiente si annidano i cattivi maestri, che radicalizzano e reclutano i rifugiati. «L'aumento continuo di moschee dove i sermoni sono solo in arabo» favorisce il lavaggio del cervello delle giovani «prede» dei salafiti secondo Maassen. La Germania accoglie quasi 217mila rifugiati. All'inizio l'antiterrorismo ha sottovalutato la possibilità di infiltrazione delle bandiere nere fra i profughi provenienti dalla Siria. «Il problema è che il 70% dei migranti dalle zone di guerra arriva con documenti falsi o senza passaporto». «Così è fallimentare intrecciare i dati con i nostri archivi di elementi pericolosi» spiega il ministro dell'Interno Thomas de Maiziere. In Germania ci sono 180 persone sotto inchiesta per terrorismo di matrice islamica. Durante i campionati europei di calcio 500 sospetti jihadisti erano sorvegliati. Circa 800 tedeschi sono andati a combattere la guerra santa in Siria e 150 risultano tornati a casa. Il bubbone si annida anche nelle forze armate. Dal 2007 si contano 320 casi di militari islamici radicalizzati finiti sotto la lente del controspionaggio. Diciassette estremisti sono stati radiati, ma 29 ex soldati hanno aderito al Califfato mettendo a frutto il loro addestramento. Maaseen è convinto che la minaccia di attentati sul suolo tedesco sia «molto serio». I turisti tedeschi sono già stati sanguinosamente colpiti in Turchia (8 morti ad Istanbul in gennaio). Berlino partecipa alla missione di addestramento europeo nel nord dell'Iraq dei combattenti curdi contro le bandiere nere assieme ai soldati italiani e truppe di altri paesi. Nella base Nato di Incirlik, in Turchia, sono stati schierati sei caccia Tornado, un aereo cisterna e 250 soldati tedeschi. Dalla base partono i raid aerei alleati contro il Califfato. La Germania pensa di investire 60 milioni di euro per una presenza permanente vista come fumo negli occhi dalle formazioni jihadiste che combattono in Siria. I video di propaganda delle bandiere nere, che invitano a compiere attentati mostrano i loro carri armati alle porte di Berlino e la Cancelleria che brucia.

Allarme del Copasir: "Terroristi in arrivo tra i profughi sui barconi", scrive il 13 agosto 2016 “La Repubblica”. Con la liberazione di Sirte dall'Isis, "lo scenario è completamente cambiato e cresce oggettivamente il rischio che dei militanti possano fuggire in Europa anche via mare". Giacomo Stucchi, presidente del Copasir, ha pochi dubbi: se "a lungo è stato altamente improbabile, se non impossibile che Daesh facesse viaggiare suoi affiliati sui barconi, esponendo ai rischi oggettivamente alti della traversata uomini su cui aveva investito in tempo e soldi", oggi si è "in pieno caos, e nella fuga dalla Libia quelli che non sono diretti verso sud potrebbero anche decidere di tentare la carta del viaggio in mare verso l'Europa. Sono cani sciolti, gente allo sbando, che scappa - sottolinea Stucchi - poi si tratta di capire quali intenzioni ha chi dovesse davvero arrivare in questo modo: semplicemente far perdere le proprie tracce oppure voler continuare a 'combattere' in nome della propria causa?". Uno scenario completamente cambiato dunque rispetto a qualche giorno fa anche per i risultati ottenuti dalle Forze democratiche della Siria (Fds), coalizione curdo-araba sostenuta dagli Stati Uniti, sconfiggendo le sacche di resistenza dell'Is. Quanto alle minacce a Roma lette sui muri della città libica strappata all'Is, per il presidente del Copasir "vanno lette nell'ottica della propaganda fatta da Daesh negli ultimi anni e negli ultimi mesi, soprattutto in Libia. Nel mirino c'è l'Occidente in genere con tutti i simboli che il sedicente Califfato intende abbattere, e Roma come culla della cristianità è un bersaglio come qualsiasi altra città degli 'infedeli'". E la possibile presenza nel Milanese di jihadisti libici, tunisini e sudanesi, di cui parlerebbero i servizi di Tripoli? "La situazione è attentamente monitorata dalle nostre forze dell'ordine e dalla intelligence - conclude Stucchi - ci sono state delle inchieste e altre sono in corso ma in diversi casi potrebbe anche trattarsi di elementi solo di passaggio, che sono stati in certe zone e che adesso si trovano da tutt'altra parte".

TERREMOTO E SOLIDARIETA’. Il delirio del sito islamista: "Il sisma punizione di Allah". "Sì all'Islam in Italia" è seguito da 43mila persone: "Un segno per convertire i peccatori". E fioccano le adesioni, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 26/08/2016, su "Il Giornale".  Non c'è solo la spiegazione scientifica dei sismologi e dei geologi, c'è anche l'interpretazione islamica sulle vere ragioni del terremoto che ha devastato il centro Italia. La teoria arriva da un sito di musulmani residenti in Italia, «Sì all'Islam in Italia», che conta più di 43mila seguaci su Facebook. «Indubbiamente i terremoti che stanno accadendo in questi giorni sono tra i segni che Allah usa per spaventare i Suoi servi - si legge -. I terremoti e tutte le altre cose che accadono e che provocano danni e ferite alle persone sono a causa dello Shirk (l'idolatria, la falsa fede, ndr) e dei peccati, come Allah dice: Qualunque sventura vi colpisca, sarà conseguenza di quello che avranno fatto le vostre mani». La distruzione causata dal sisma non è casuale, né un evento solamente naturale, dietro ci sono la volontà di Allah e le colpe dei peccatori infedeli. Il post viene condiviso da centinaia di persone: Ibrahim residente a Milano, Mohammed che vive a Parma, Hamza che invece lavora a Padenghe sul Garda, Mehdi di Bergamo e molti altri. Il terremoto come punizione di Allah del resto trova riscontri in diverse sure del Corano, citate dal sito islamista a conforto della propria spiegazione. Una (Al-A'rf, 96) dice: «Se gli abitanti di queste città avessero creduto e avessero avuto timor di Allah, avremmo diffuso su di loro le benedizioni dal cielo e dalla terra. Invece tacciarono di menzogna e li colpimmo per ciò che avevano fatto». Un'altra ancora (Al-Ankabt, 40): «Ognuno colpimmo per il suo peccato: contro alcuni mandammo ciclone, altri furono trafitti dal Grido, altri facemmo inghiottire dalla terra e altri annegammo. Allah non fece loro torto: furono essi a far torto a loro stessi». Il concetto è chiaro anche se non viene detto in modo esplicito dal sito: chi è morto sotto le macerie si era macchiato di un grave peccato, non credere in Allah, e quindi se l'è cercata. Il sito «Sì all'Islam in Italia» cita a riprova un commentatore coranico del XIV secolo: «A volte Allah dà alla terra il permesso di respirare, il che avviene quando accadono forti terremoti; questo fa si che le persone si sentano spaventate, così si pentono, abbandonano i peccati, pregano Allah e provano rammarico per i loro peccati». La soluzione per evitare le catastrofi come quella che ha raso al suolo Amatrice e altri paesi del centro Italia, più che costruire abitazioni antisismiche, è la conversione all'islam: «Quello che devono fare i Musulmani e gli altri che sono responsabili e sani di mente, è di pentirsi ad Allah, aderire fermamente alla Sua Religione ed evitare tutto ciò che Egli ha proibito, in modo che possano essere indenni e raggiungere la salvezza da tutti i mali di questo mondo e dell'Altro: è così che Allah allontanerà da loro ogni male, e li benedirà con ogni bene». Nei commenti alla pagina Facebook, oltre ai ringraziamenti ad Allah «che ci fa vedere questi segni», c'è chi fa notare che tra i morti ci potrebbe essere anche qualche italiano di fede musulmana. Risposta degli amministratori (ignoti) del sito islamista: «L'articolo parla in generale. Si riferisce ai musulmani e ai non musulmani». Il sito (che come immagine profilo ha una cartina dove il nome «Israele» è barrato e al suo posto compare «Palestina») avvisa anche che «la Moschea di Rieti ha offerto immediata accoglienza e supporto logistico ai terremotati», mentre «Islamic Relief Italia sta già operando in coordinamento con la Protezione Civile, per far affluire prontamente i primi soccorsi». La spiegazione religiosa al terremoto non è peraltro prerogativa islamica. Anche «Militia Christi» si avventura in un'interpretazione altrettanto sconcertante, con un tweet («La tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull'abominio delle unioni civili») poi cancellato e goffamente smentito. Mentre il post sul terremoto come castigo di Allah resta lì, senza che Facebook (inflessibile sui contenuti politicamente scorretti) intervenga.

Ed a proposito di Islam. Sul terremoto che ha straziato l'Italia prende la parola anche il presentatore Claudio Lippi. E' indignato, e le sue parole vengono riportate da Lettera43 (mentre il suo profilo Twitter risulta non accessibile). Lippi si riferisce alla diversità di trattamento tra i terremotati italiani delle zone di Rieti e gli immigrati: "Mettiamo 50 immigrati a Capalbio e i terremotati in una palestra? Non ho parole". 

Terremotati in tendopoli, immigrati in hotel: perché gli italiani s'infuriano, scrive di Fabio Rubini il 26 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Prima le lacrime e l'incredulità di fronte alle immagini che rimbalzavano dalle tv ai social e viceversa. Poi, piano piano, tra politici e la gente comune s'è fatto strada un dubbio: ma se ai clandestini lo Stato riserva alberghi con wi-fi e tv al plasma, perché ai terremotati italiani dovrebbero toccare tende e unità abitative di lamiera? È stato un attimo, la rete anche questa volta, è stata veicolo imbattibile e inarrestabile e così il tam tam è partito. Corroborato anche dalle notizie come quella apparsa sul sito dell'Huffington Post, secondo cui: «I terremotati dovranno stare nelle tende almeno fino alla fine di settembre, poi si vedrà». Qualcuno, come il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana, non l'ha presa bene e ha polemizzato su quelli che facevano polemica: «è evidente che non gli interessa né degli uni né degli altri. Vogliono solo contribuire a loro modo, versando bile», scatenando un dibattito sulla sua pagina Facebook tra quelli che erano d'accordo con lui e quelli che, più o meno velatamente, lo accusavano di non stare dalla parte degli italiani. A rinfocolare le polemiche ci ha pensato anche l'ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, che con una lettera inviata al Tempo spiega: «Conosco bene quella gente, nessuno vorrà andarsene lontano dai loro paesi, vanno trattati come cittadini di serie A con priorità assoluta» quindi «vanno piantate tendopoli nella zona colpita sperando che non le abbiano usate tutte per gli extracomunitari». Poi c'è il parroco di Boissano (Savona), don Cesare Donati, che in disaccordo con Bertolaso spiega: «Adesso è il momento, vista la tragedia del terremoto, di mettere gli sfollati nelle strutture e i migranti sotto le tende», raccogliendo anche il placet del leader della Lega Matteo Salvini: «Questo parroco non ha per niente torto». Il picco, però, è stato raggiunto a Milano. Il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, rilascia una dichiarazione per mettere a disposizione il campo base di Expo sia «per ospitare in questi primi giorni i terremotati» sia «per inviare i moduli abitativi nelle zone terremotate». E annuncia che «l'assessore Bordonali è già in contatto con la protezione civile» ben contenta dell'aiuto ricevuto. Tanto più che quel campo andrebbe comunque dismesso, per restituire l'area al vicino comune di Rho. Quindi la Regione e la società Expo Spa potrebbero in un sol colpo aiutare i terremotati e velocizzare lo smantellamento del Campo Base. Sulla vicenda, però, è entrato a gamba tesa il neo sindaco di Milano, il piddino Beppe Sala, ancora scottato dal «no» che lo stesso Maroni aveva posto alla sua richiesta di trasformare il Campo base di Expo in un campo profughi. Così, pensando di interpretare il pensiero del governatore come un dietrofront «opportunistico», lo ha accusato a testa bassa: «Questo terremoto è un dramma da non strumentalizzare - sbotta il sindaco -. La proposta di Maroni di utilizzare il campo base o i suoi moduli per gli sfollati del terribile terremoto sembra una delle tante dichiarazioni politiche che la Regione non ci fa mai mancare. Questa volta tentando anche una strumentalizzazione su una tragedia come quella che ha colpito il centro Italia». Un commento border line, come subito dopo gli fa notare lo stesso Maroni: «Sono sorpreso dalle dichiarazioni del sindaco Sala. In un momento così drammatico dobbiamo lasciare da parte le polemiche e fare ogni sforzo per aiutare chi è stato colpito dal terremoto - ribadisce Maroni -. Questo è il senso della mia proposta di mettere a disposizione il campo base Expo. Proposta che, per altro, è stata condivisa dalla Protezione civile nazionale. Intendo quindi procedere rapidamente in questa direzione per portare aiuto concreto a chi ha subito questa immane tragedia». Con buona pace di Sala e del Pd. Fabio Rubini.

Vittorio Feltri il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”, la verità amara sul terremoto: "Perché pensano ai morti, ignorano i vivi". Di solito succede questo: le grandi tragedie nazionali mobilitano i mezzi di comunicazione, che per qualche giorno non fanno altro che parlarne in tutte le salse fino alla saturazione. Le maratone televisive, che riprendono da ogni angolazione i danni provocati dal terremoto, durano meno di una settimana, sempre le stesse, i soliti cumuli di pietre, mani nude che scavano, cadaveri, gente disperata, lacrime. D'altronde che altro potrebbero fare i giornalisti se non raccontare ciò che hanno sotto gli occhi? Ma la ripetitività a lungo andare spegne le emozioni che si tramutano in noia. Tra un po' i riflettori si trasferiranno dall’Umbria, dalle Marche e dal Lazio in altri luoghi e anche l'ultima sciagura sarà archiviata, salvo tornare a bomba quando si scoprirà che qualche malfattore, approfittando del dolore altrui, avrà trovato il modo di arricchirsi: appalti, stecche, prezzi gonfiati. C'è una regola che non muta mai: le disgrazie sono occasioni d'oro per chi non ha scrupoli. L'esperienza ci ha istruiti. Cosicché alla fine di settembre saranno pochi, oltre ai terremotati, a ricordarsi del flagello che ha martoriato il Centro Italia. Compariranno qua e là notizie riguardanti la ricostruzione, che tarderà a cominciare, il recupero dei capitali necessari a finanziare le opere, le beghe tra le imprese che cercheranno di accaparrarsi gli appalti. Nulla di appassionante. E le nostre coscienze si quieteranno. Ecco quanto è sempre successo e succederà ancora. Le brutte abitudini sono le più resistenti. Personalmente, in veste di cronista ho seguito parecchie calamità: il sisma che distrusse il Friuli nel 1976, quello che sbriciolò l'Irpinia nel 1980, quello di Perugia e dintorni nel 1997 e, assai recente, quello che ha violentato l'Emilia. L'indomani di ogni catastrofe si è assistito alle medesime immancabili scene e si sono uditi i medesimi discorsi improntati a buone intenzioni, a prescindere dal colore del governo in carica: faremo, brigheremo, ci impegneremo affinché le prossime scosse non ci colgano impreparati. Parole, parole, soltanto parole. Esportiamo in vari Paesi le nostre tecnologie da applicarsi agli edifici al fine di renderli sicuri, ma non le applichiamo in Patria. Siamo bravi nella cura di ogni territorio tranne quello che calpestiamo. Perché? Si possono avanzare soltanto ipotesi: non siamo capaci di organizzarci, abbiamo una classe politica scucita e perennemente in polemica con se stessa. Risultato, anziché fare, discutiamo. Si pensi che non abbiamo ancora un piano per le zone attualmente disastrate. Le istituzioni, la Boldrini in testa, si dannano per ottenere esequie collettive per le vittime. Sono più preoccupate dei morti che dei vivi. Spendono molti quattrini per i profughi e lesinano aiuti per i nostri connazionali bisognosi. Insomma, questa è la situazione e non promette niente di buono. C'è il timore che i terremotati siano costretti a stare in tenda mesi, mentre gli extracomunitari si crogioleranno in belle camere d'albergo, ben pasciuti, nutriti e riveriti. L'accoglienza e la solidarietà sono solo per individui di importazione. Vittorio Feltri.

LO STATO CRIMINALE. Lo sfregio dello Stato ai terremotati. Profughi e sfollati: chi riceve di più, scrive Roberta Catania, il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Ci sono oltre 5mila immigrati che dormono in hotel o in confortevoli appartamenti nel raggio di 150 chilometri dalle cittadine distrutte dal terremoto del 23 agosto scorso, mentre 2.500 sfollati italiani abitano nelle tende messe in piedi nei campi vicini alle macerie di Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto, tra l'alto Lazio e le Marche. Nessuno di questi 5mila stranieri vive in quei casermoni conosciuti con i nomi di Cie o Cara, dove comunque vengono ospitati migliaia di clandestini. Questi numeri si riferiscono esclusivamente al progetto Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), un programma finanziato dal Ministero dell'Interno tramite il Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell'Asilo e che prevede l'accoglienza e la tutela dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei migranti che sono soggetti ad altre forme di protezione. In questi casi, le 2.545 strutture messe a disposizione in tutta Italia sono di tre tipologie: l'82% sono appartamenti, poi ci sono alberghi (12%) e infine le comunità di alloggio, per lo più destinate ai minori, appena il 6%. Dati riferiti al 2015 e attuali fino all' aprile scorso, quando il Viminale ha diffuso l'ultimo report. Così, mentre gli immigrati, divisi in base all' età, alle parentele e ad altre necessità, hanno cucine, un bagno normale e il riscaldamento d' inverno, i 2.500 sfollati che dormono nelle tende provano ad arrangiarsi. Per ora lo fanno e va bene così, anche perché la maggior parte vuole rimanere vicino a quello che gli è rimasto della loro casa e nessuno, a così pochi giorni dai crolli, dormirebbe in una struttura dove, al primo scricchiolio, sarebbe assalito per il terrore di sentire di nuovo le macerie crollargli addosso. Ma tra qualche settimana, quando arriveranno le prime piogge e poi la neve, anche i più legati al territorio inizieranno a sognare un letto caldo, una cucina dove sia possibile preparare una minestra calda e un bagno dove lavarsi senza soffrire temperature glaciali. Qualcuno, già ora, ammette di temere l'arrivo del freddo. Alessandro, 67 anni, sfollato da Amatrice insieme alla moglie e al cagnolino, oggi vive in una tenda al campo di Sant' Angelo. Raggiunto dalle telecamere, l'uomo ha spiegato di avere «non avere paura di rimanere nella tenda per troppo tempo», ma di aver «paura dell'inverno, che», ha sottolineato, «è qui alle porte». Nessuno ha ancora pensato, invece, a ciò che sarà nei prossimi anni. Giustamente questi sono i giorni del lutto per chi ha perso i propri cari e dello choc per chi è sopravvissuto guardando la morte in faccia. Eppure, quasi come un amaro presagio, quattro giorni prima del terremoto tra Amatrice e Pescara del Tronto, un uomo sopravvissuto nove anni fa al sisma dell'Aquila, ha fatto i conti con la dura realtà delle istituzioni, che spente le telecamere ridimensionano anche il sostegno morale e - soprattutto - economico. Quello sfollato dell'aprile 2009, il 18 agosto scorso era salito su un cornicione al secondo piano di una palazzina del progetto Case di Cese di Preturo, in provincia dell'Aquila, minacciando di gettarsi a causa delle maxi bollette che stanno arrivando in questi giorni agli inquilini degli alloggi costruiti per gli sfollati dopo il terremoto e per la chiusura dell'acqua calda da parte del Comune nei confronti dei morosi. L' unico riuscito a far desistere l'uomo è stato il sindaco, Massimo Cialente, che evidentemente ha promesso uno sconto o la rateizzazione. Fatto sta che le collette e le donazioni a un certo punto finiscono e queste persone si trovano a far il conto con le spese di tutti i giorni, senza avere più un'attività o i risparmi di una vita. Il premier Matteo Renzi non ha tardato a stanziare i primi soldi per aiutare i terremotati: 50 milioni di euro sono già stati destinati ad Amatrice e le altre località colpite dal sisma di martedì notte. Però per i 5.845 immigrati ospitati negli alberghi e negli appartamenti del progetto Sprar tra le Marche, il Lazio, l'Umbria e l'Abruzzo, intorno cioè ai luoghi sbriciolati dalla scossa, sono stati spesi quasi 75 milioni solo nel 2015. A voler fare i conti in difetto, si tratta di 204.575 euro al giorno, senza cioè considerare che gestire i minori costa di più. E l'anno scorso, per le 21.613 persone ospitate in tutta Italia nel progetto Sprar il conto è stato salato: 276 milioni e 106mila euro. Troppo in confronto a quei 50 milioni. Roberta Catania

PROFUGHI ED ACCOGLIENZA.

Sette giorni all'inferno: diario di un finto rifugiato nel ghetto di Stato. Dormitori stracolmi. Dove la legge non esiste. Fabrizio Gatti è entrato, clandestino, nel Cara di Foggia. Dove oltre mille esseri umani sono tenuti come bestie. E per ciascuno le coop prendono 22 euro al giorno, scrive Fabrizio Gatti il 12 settembre 2016 su "L'Espresso".  Fabrizio Gatti all'interno del centro d'accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. La quinta notte apro la porta sull’inferno. Dal buio dello stanzone esce un alito di aria intensa e arroventata che impasta la gola. Si accende un lumino e rischiara una distesa di decine di persone, ammassate come stracci su tranci di gommapiuma. Niente lenzuola, a volte solo un asciugamano fradicio di sudore sotto le coperte di lana. Nemmeno un armadietto hanno messo a disposizione: ciabatte e scarpe sono sparse sul pavimento, i vestiti di ricambio dentro sacchetti di carta. Rischio di calpestare una serpentina incandescente, collegata alla presa elettrica da due fili volanti. Qualcuno sta preparando la colazione per poi andare a lavorare nei campi. Cucinano per terra. Se scoppia un incendio, è una strage.

Fabrizio Gatti è entrato clandestinamente nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. Dove la legge non esiste. Ecco il suo diario.

No, questa non è una bidonville. È un ghetto di Stato: il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce ne sono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengono sfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio “Sisifo” della Lega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca “Senis Hospes”, amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione, incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona, quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto in tre anni. Più eventuali compensi straordinari, secondo le emergenze del momento. La quinta notte rinchiuso qui dentro ho già visto i gangster nigeriani entrare nel Cara a prelevare le ragazzine da far prostituire. I cani randagi urinare sulle scarpe degli ospiti messe all’aria ad asciugare. E perfino i trafficanti afghani offrire viaggi nei camion per l’Inghilterra. Mi hanno anche interrogato. Un picciotto dei nigeriani, non la polizia. Agenti e soldati di guardia non si muovono dal piazzale asettico del cancello di ingresso. In una settimana, mai incontrati. Nessuno protegge i 636 ospiti dichiarati nel contratto d’appalto. Ma siamo sicuramente più di mille. Contando gli abusivi, forse millecinquecento. Perché da quattro buchi nella recinzione, chiunque può passare. E da lì sono entrato anch’io. Un nome falso, una storia personale inventata. Da lunedì 15 a domenica 21 agosto. Una settimana come tante. Nulla è cambiato, nemmeno oggi. Quello che segue è il mio diario da finto rifugiato nel Ghetto di Stato. Dentro il Cara di Borgo Mezzanone il giorno non tramonta mai. Una costellazione di fari abbaglianti splende non appena fa buio sul Tavoliere, la grande pianura ai piedi del Gargano. La cupola di luce appare a chilometri di distanza. Bisogna arrivare alla rete arrugginita di un aeroporto militare dismesso. C’è un varco a est, dopo una lunga camminata nei campi. Ma a ovest entrano addirittura le macchine e i furgoni dei caporali, carichi di schiavi di ritorno dalla giornata di lavoro. Sono quasi le dieci di sera. Le prime casupole lungo la pista di decollo formano la baraccopoli abitata da quanti negli anni sono usciti dal centro d’accoglienza, con o senza permesso di soggiorno. Una stratificazione di sbarchi dal Mediterraneo e di sfruttamento da parte degli agricoltori foggiani. Da qualche mese però la bidonville si sta allargando. Da Napoli è arrivata la mafia nigeriana e si è presa metà pista: nelle baracche hanno aperto bar, due ristoranti, una discoteca che con la musica assorda ogni notte il riposo dei braccianti. Da Bari sono venuti alcuni afghani piuttosto integralisti e ora controllano l’altra metà: hanno allestito un negozio che vende di tutto e una misteriosa moschea. Questa è la zona chiamata Pista, appunto. Ancora qualche centinaio di metri e si può toccare la recinzione del Ghetto di Stato. I fari sono puntati a terra e le telecamere inquadrano tutto il perimetro. Il Cara è diviso in due settori. Il primo, proprio qui davanti, è composto da diciotto moduli prefabbricati. Quattro abitazioni per modulo. Ogni abitazione ha tre stanzette: due metri per due, una finestra, lo spazio per due brande, raramente quattro a castello. Ciascun modulo ospita così tra le 24 e le 48 persone. Oppure, per dirla brutalmente, rende ai gestori tra i 528 e i 1.056 euro al giorno. La piazza centrale è un campetto di calcio, davanti al capannone con la mensa, la moschea e i pavimenti di tre camerate ricoperti di materassi. Anche il secondo capannone accanto è un dormitorio stracolmo. I bagni sono distribuiti in una dozzina di casupole: sei rubinetti ciascuno, sei turche, sei docce malridotte, alcune con l’acqua calda. Il secondo settore è invece rinchiuso dietro cancellate alte cinque metri: due fabbricati illuminati a giorno sotto un’altra schiera di telecamere. È il vecchio Cie per le espulsioni, una prigione. Lo usano per l’accoglienza. I rapporti sulle visite ufficiali sostengono che il secondo settore sia la parte dove si sta meglio. Oltre non bisogna andare. Lì vigila, si fa per dire, il personale di guardia. I buchi nella recinzione del Cara sono quattro, proprio sotto le telecamere. Dopo una nottata e una giornata di sopralluoghi, il fotografo Carlos Folgoso sa cosa deve fare. Adesso posso entrare. Una voce sguaiata al megafono della moschea ricorda all’improvviso che Allah è il più grande. È l’ora della preghiera che precede l’aurora. Sono le quattro e diciannove. Addio sonno. Fino alle tre e mezzo avevamo il tormento della musica afro dalla baracca appena fuori il recinto, lì dove i gangster nigeriani fanno prostituire le ragazzine. Poi due auto si sono sfidate con frenate e sgommate lungo la Pista. Quindi un ragazzo ha telefonato al fratello in Africa e parlava così forte che sembrava volesse farsi sentire direttamente. Adesso chiamano alla preghiera anche dalla misteriosa moschea degli afghani. Le voci dei muezzin erano scomparse da questo cielo il 15 agosto del 1300, giorno d’inizio del massacro dei musulmani a Lucera. Migliaia di morti, i sopravvissuti venduti come schiavi: le radici europee del cristianesimo non sono più pacifiche di certi fanatici islamisti di oggi. Ogni angolo protetto dalla luce dei fari è occupato da qualcuno che prova a dormire all’aperto. Un po’ per il caldo asfissiante. Un po’ perché dentro non c’è posto. Lo sanno anche le zanzare. Quando il sole è ormai a picco, Suleman, 24 anni, nel Cara da tre mesi, esce a raccogliere babbaluci, le lumache aggrappate agli arbusti. «Al mercato di Foggia», spiega, «gli italiani le comprano a tre euro al chilo». Già. E le rivendono su Internet a sette. Ma servono ore a mettere insieme un chilo. Da dove vieni? «Dal Ghana, ho chiesto asilo», rivela Suleman. Il Ghana è una Repubblica. Forse è un oppositore perseguitato. Alla domanda, lui guarda stupito: «No, spero di ottenere i documenti e trovare un lavoro qualsiasi in Italia o in Europa. Dove non lo so. E tu?». Meglio non dire la verità, l’inchiesta è ancora lunga. È il momento di collaudare il nome preso in prestito da Steve Biko, l’eroe sudafricano della lotta contro l’apartheid: «Sono senza documenti e voglio raggiungere mia sorella a Londra». Lui non capisce subito. «Sono un sudafricano bianco. La terra di Mandela. Conosci Nelson Mandela?». «No Steve, who is this man, chi è quest’uomo? Ma hai il tesserino da rifugiato?», vuol sapere Suleman. No. «Allora non hai mangiato Steve, hai fame?», chiede con apprensione. No, grazie. «Però non dormire qui fuori. È pericoloso. Dentro nessuno controlla. Puoi anche mangiare. Stasera mi trovi dopo la preghiera quando distribuiscono la cena. Tu vieni in moschea?». Sotto il caldo del pomeriggio ci si va a riparare nei pochi metri d’ombra. Quanti attraversano il Sahara e il mare per sfuggire alla povertà meritano totale rispetto. Ma il diritto internazionale protegge soltanto chi scappa da dittature e guerre, come accade per eritrei, somali e maliani che dormono nei due grandi capannoni. La domanda di asilo di Suleman verrà comprensibilmente respinta. E anche lui si aggiungerà alle migliaia di fantasmi che riempiono le bidonville. Come la Pista, là fuori. Un altro giorno è passato. È la seconda notte qui dentro. I gangster nigeriani hanno appena spento il loro tormento musicale. Sono le tre e alla fontanella della piazza centrale c’è già la coda. Prima di partire i braccianti devono rifornire i loro zaini con le bottigliette di plastica piene. I padroni italiani non regalano più nemmeno l’acqua. I quattro varchi nella recinzione sono una manna per l’agricoltura pugliese. Forse è per questo che non li chiudono. Centinaia di richiedenti asilo escono che è ancora buio. E ritornano che è già buio. I caporali nigeriani li aspettano su furgoni e auto sgangherate all’inizio della Pista: per il trasporto ai campi di ortaggi e pomodori, incassano cinque euro al giorno a passeggero e li trattengono dalla paga. I capibianchi, gli sgherri italiani, li prendono invece a bordo lungo la strada che porta a Foggia. Così molti ragazzi per evitare il costo del passaggio partono in bici da soli. Le biciclette nel Cara sono grovigli di manubri e fatica parcheggiati a centinaia davanti alle casupole. Qualcuno nelle camerate si è portato la sua in mezzo ai materassi dove dorme. Farsi rubare la bici significa dover consegnare ai caporali 35 euro a settimana, il guadagno di due giornate di lavoro. I braccianti che vivono nel Ghetto di Stato vengono pagati meno dei loro colleghi di fuori: anche 15 euro a giornata, piuttosto che 25. I padroni foggiani decurtano il corrispondente di vitto e alloggio. Tanto sono garantiti dalla prefettura. Uno squilibrio che crea tensione tra la generazione ormai uscita dal centro d’accoglienza e gli ultimi arrivati, disposti a lavorare a meno. Il muezzin ancora non ha chiamato alla preghiera. E i primi ragazzi venuti a rifornirsi d’acqua alla fontanella sono già in viaggio. Erano tornati ieri sera quasi alle dieci. Si sono fatti la doccia. Hanno lavato e steso gli abiti da lavoro. Poi hanno mangiato la pasta della mensa, tenuta da parte da qualche compagno di stanza. Era mezzanotte passata quando sono andati finalmente a dormire. Dopo appena tre ore di sonno già pedalano silenziosi, uno dietro l’altro, che sembra il via di una tappa a cronometro. Scavalcano bici in spalla il muretto sotto i fari e le telecamere. Poi si dissolvono nel buio come bersaglieri del lavoro, chiamati in prima linea a riempire i nostri piatti. Lo stesso periodo, subito dopo la richiesta d’asilo, in Germania è dedicato ai corsi obbligatori di tedesco. Chi non frequenta è respinto. Qui dopo un anno di sfruttamento sanno al massimo dire “cumpà”. Compare, in foggiano. E quando li trasferiscono sono spaesati, impreparati, analfabeti. Come appena sbarcati. Nonostante quello che lo Stato versa alla cooperativa di gestione, nessuno ha insegnato loro nulla dell’Italia. E magari, una volta in città, passano la notte a gridare al telefonino. Così dal vicinato si aggiungono nuovi voti alla destra xenofoba. «Ehi Steve, South Africa, come stai?», chiede in inglese Nazim. Ha 17 anni anche se sul tesserino magnetico gli hanno scritto che è nato nel 1997. Viene da Dacca, Bangladesh, via Libia. Martedì sera ha saputo che non mangiavo dalla notte prima. È tornato con un piatto di plastica sigillato con la pasta della mensa, una scatola di carne, una mela, due panini. «Steve, prendi», ha insistito: «Sono piatti avanzati oggi». Vuole raggiungere l’Inghilterra o la Germania. Sa molto poco delle conseguenze di Brexit, delle frontiere europee chiuse. «Adesso vado dai nigeriani là fuori alla festa di un amico di Dacca. Gli hanno riconosciuto l’asilo. Domani parte per Milano. Ha invitato gli amici a bere birra. Portano anche le ragazze. Vieni, Steve?». È l’una di notte. Meglio non esporsi troppo. Precauzione inutile. La polizia non si è mai fatta vedere. Ma le spie dei nigeriani mi hanno già notato. Sono l’unico bianco con la faccia europea. Sono qui da quattro giorni. Non rispetto gli invisibili confini interni. E ho il doppio dell’età media degli ospiti. Così nel corso della notte provano a sapere di me. Prima con un africano del Mali. Poi con due pakistani. Alla fine con Cumpà, un senegalese alto e grosso. Sono marcato a zona. Non appena mi sdraio a dormire sulla solita piattaforma di cemento, arriva lui. «Cumpà, che succede?», chiede il picciotto in italiano. Puzza di birra. «Cumpà, di dove sei?». Rispondo in inglese che non capisco. E Cumpà si arrabbia: «Cumpà, vieni a dormire da me perché se arrivano i miei amici nigeriani da fuori, tu passi dei guai». Entra nel suo loculo. Riappare con un materasso sporco. «Cumpà, tu ti sdrai qui e non te ne vai». Ora si sistema sul suo materasso. Siamo sdraiati uno accanto all’altro, sotto il cielo nuvoloso. Lui si gira su un fianco. Cerca di fare l’amicone. «Cumpà, allora mi dici che cosa fai qui?». I suoi amici nigeriani non scherzano. La notte del 18 aprile hanno rapinato un ospite del Cara e lo hanno trascinato fuori. Lì lo hanno accecato con una latta di gasolio rovesciata negli occhi e bastonato fino a farlo svenire. Qualche giorno prima avevano ferito un connazionale con un machete. A giugno la polizia ha poi arrestato cinque appartenenti agli Arobaga, il clan che controlla caporalato e prostituzione lungo la Pista. «Io non parlo inglese», torna ad arrabbiarsi Cumpà: «Ho capito: tu sei un poliziotto. Adesso chiamo gli altri». Si alza e se ne va. Un messaggio parte subito per il telefonino di Carlos, il fotografo nascosto da qualche parte là fuori: “Vai via” seguito da una raffica di punti esclamativi. Steve resta sdraiato sul materasso, con le pulci che gli pizzicano le caviglie. È più sicuro rimanere nel Cara e vedere cosa succede. Cumpà riappare dopo mezz’ora. Solo. Si sdraia. Ronfa come un diesel. Anche i suoi amici saranno ubriachi. Al richiamo del muezzin, un connazionale viene a scuoterlo: «Madou, la preghiera». Non si muove. Al risveglio religioso, stamattina Cumpà preferisce il sonno di Bacco. Qualche riga oggi bisogna dedicarla alla pet therapy. È quella prassi secondo cui l’interazione uomo-animale rafforza le terapie tradizionali. Alla prefettura di Foggia, responsabile della fisica e della metafisica di questo Ghetto di Stato, devono crederci profondamente: perché il Cara è infestato di cani, ovunque, perfino dentro le docce. Nessuno fa nulla per tenerli fuori. Quando è ancora buio, subito dopo la preghiera, tre braccianti escono in bicicletta dal buco a Ovest, dove la recinzione è stata smontata. Le loro sagome sfilano nel chiarore della luna. Un cane abbaia e la sua voce richiama un’intera muta che si lancia all’inseguimento dei tre poveretti. Sono una decina di grossi randagi. Corrono. Ringhiano e si mordono. Poi diligentemente tornano a sdraiarsi tra gli ospiti del centro. Nasrin, 27 anni, afghano di Tora Bora, si tiene alla larga dai cani. Una sera parliamo davanti alla partita di cricket improvvisata dai pakistani, sul piazzale vicino ai rifiuti. Nasrin dice che se ne intende di viaggi fino in Inghilterra. È andato e tornato, rinchiuso nei camion. Un suo conoscente, che dorme alla Pista, conferma più tardi che può trovare i contatti. Deve solo verificare i prezzi. Dopo Brexit sono aumentati. «In Inghilterra i caporali pakistani pagano bene con la raccolta di spinaci e ortaggi: 340 sterline a settimana», spiega Nasrin. Con i documenti? «No, senza. Però si lavora 18 ore al giorno. In sei anni ho messo via ottantamila euro. E in Afghanistan mi sono costruito una bella casa». Allora perché sei qui? «Perché per avere i documenti avevo chiesto asilo in Italia». Stasera è meglio stare lontani dalla piazza. Una macchina dei carabinieri è ferma lì da un po’. Dicono siano venuti per una notifica. Poco più tardi tre nigeriani entrano a prendere le prostitute. Le ragazzine sono a malapena maggiorenni. Due in particolare. Nessuno sa se siano ospiti o abusive. Dormono nella sezione femminile, dice qualcuno, ricavata nell’ex centro di espulsione. Le portano dalle parti della discoteca, la causa dell’insonnia di molti di noi. Entrano nell’anticamera illuminata a giorno. E scompaiono oltre il separé, nella sala con la musica al massimo, le luci colorate, la palla di specchi al centro del soffitto. La corrente la rubano dalla rete di illuminazione pubblica. La Pista, anni fa, era un centro d’accoglienza. E molti braccianti, a loro volta ostaggi del caos, abitano là da allora. Bisogna stare molto attenti ai cavi elettrici. Per collegare le nuove baracche appena costruite e in costruzione, li hanno stesi ovunque nell’erba secca del campo tra la bidonville e il Cara. Sono semplici cavi doppi da interni, collegati tra loro da banalissimo nastro adesivo. Quando piove c’è il rischio di prendersi una bella scarica. Adesso è più difficile girare indisturbati. Trovarsi davanti Cumpà potrebbe essere pericoloso. Un angolo controluce del grande piazzale è il nuovo nascondiglio. I fari puntati negli occhi di chi passa sono lo schermo più sicuro dietro cui proteggersi. Il sottofondo musicale stanotte è dedicato al reggae. Il volume aumenta via via che scorrono le ore. E durante la preghiera sfuma in un fruscio assordante. Una mano sta cambiando canale alla radio. Si ricomincia con la voce di Malika Ayane. Le parole piovono direttamente dal buio: «La prima cosa bella che ho avuto dalla vita...». Parte una fila di braccianti in bicicletta. Attacca un vecchio successo di Luis Miguel: «Viviamo nel sogno di poi...». Se ne vanno a lavorare altre schiene sui pedali. Vengono tutti dall’ex Cie. Bisogna sfidare le telecamere per avvicinarsi e vedere. Anche lì hanno aperto un buco nella recinzione. Si salta sopra un fossato di fogna putrida a cielo aperto. E si scende agli inferi. Le camerate sono al buio. Hanno appeso stracci e teli alle finestre per tenere fuori la luce dei fari. Non c’è spazio nemmeno per la porta. Si apre a fatica. L’aria è densa, ma ancora non è chiaro cosa ci sia oltre. Sono quasi le quattro e mezzo. Un ragazzo si sta vestendo e adesso accende la pila. Una scritta incollata alla colonna al centro del salone saluta beffarda: «Benvenuti». Un orsacchiotto sotto il cuscino di un adulto sporge la testa e fissa il soffitto. La vita è tutta raccolta nei sacchetti e nelle scatole sotto le brande. Un vecchio televisore trasmette il replay delle Olimpiadi. E rischiara di un poco il suo orizzonte di corpi ammassati. Impossibile contarli tutti. Quattro sedie separano dall’angolo cottura i tranci di gommapiuma, usati come materassi. Per terra la serpentina elettrica incandescente sta riscaldando due uova, la pasta avanzata ieri sera, una teiera. Un sacchetto di plastica e un rotolo di carta igienica sono pericolosamente vicini al calore. Pentole, un piatto, due bicchieri. Tutto per terra. Non c’è lo spazio per un tavolo. Nel cortile al centro del Cie, per terra ci dormono pure. Il piccolo loculo di Cumpà al confronto è un lusso. Almeno ha un po’ di riservatezza, l’aria intorno, i vasi con gli oleandri. Perfino l’architettura qui dentro è oscena. È stata progettata e costruita in modo che si possa vedere soltanto uno spicchio di cielo. La mente che l’ha pensata voleva probabilmente umiliare le donne e gli uomini da rinchiudervi. L’effetto è questo, anche ora che è un centro di accoglienza. Stesse condizioni nelle altre stanze. Non ci sono uscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastrano prima di aprirsi. E il loro movimento va verso l’interno. Dovevano servire a non far scappare i reclusi, non ad agevolarne la fuga. Se scoppia un incendio, questa è una trappola. I bagni e le docce non profumano mai di disinfettante. Hanno perfino sloggiato dei profughi per trasformare le loro stanzette in privatissimi negozi. Ce ne sono cinque tra le casupole statali. Vendono bibite, riso, farina, pane, accessori per telefonini direttamente dalle finestre. Quattro li controllano gli afghani della Pista. Il quinto due ragazzi africani. Non ci sono cestini per i rifiuti, solo sacchi neri appesi qua e là. Stanotte i cani li hanno strappati e hanno disperso avanzi della cena ovunque. Un favore alla catena alimentare, sì. Perché alla fine anche i ratti hanno un motivo per uscire allo scoperto. Quello che colpisce è la rinuncia totale a spiegare, insegnare, preparare i richiedenti asilo a quello che sarà. Se i gestori lo fanno nei loro uffici, i risultati non si vedono. Qui fuori sembriamo tutti pazienti di un reparto oncologico. In attesa permanente di conoscere la diagnosi: vivremo da cittadini o moriremo da clandestini? Forse non ci sono abbastanza soldi per seguire il modello tedesco. Oppure noi italiani siamo troppo furbi, oggi. E contemporaneamente troppo stolti per pensare al domani. Non c’è soltanto la crisi umanitaria internazionale a rendere precario qualsiasi intervento. La ragione del fallimento si trova già nella gara d’appalto per gestire il Cara: premiava il «maggior ribasso percentuale sul prezzo a base d’asta, pari a euro 20.892.600». Un cifra di partenza che equivaleva a 30 euro al giorno a persona. E il consorzio “Sisifo” di Palermo si è aggiudicato il contratto con uno sconto di 8 euro. Ha abbassato la diaria a 22 euro e rinunciato a quasi cinque milioni e mezzo in tre anni. La logica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefettura di Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coop sapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22 euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità. Comunque il ministero dell’Interno chiede sempre di aumentare il numero di ospiti di qualche centinaio. E l’emergenza è pagata bene: i soliti 30 euro, ma senza gara. Così perfino lo sconto è rimborsato. La cooperativa cattolica “Senis Hospes”, che per conto di “Sisifo” gestisce Borgo Mezzanone e altri centri, corre al galoppo. Fatturato in crescita del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 a 15,2 milioni del 2014, ultimo bilancio disponibile. Dipendenti dichiarati: dai 109 del 2014 ai 518 di quest’anno. «Tali attività...», scrive nella relazione annuale Camillo Aceto, 52 anni, presidente di “Senis Hospes”, «rispondono alla missione che la cooperativa si prefigge dedicando l’attenzione alle categorie più bisognose». Ma qui dentro, nel grande stanzone degli inferi, oggi la luce è accesa alle quattro. È domenica. Alcuni richiedenti asilo sono già partiti per i campi. Altri preparano lo zaino. Sempre sotto quella scritta sulla colonna centrale, che martella la vista: «Benvenuti».

Sette giorni all'inferno: diario di un finto rifugiato nel ghetto di Stato. Dormitori stracolmi. Dove la legge non esiste. Fabrizio Gatti è entrato, clandestino, nel Cara di Foggia. Dove oltre mille esseri umani sono tenuti come bestie. E per ciascuno le coop prendono 22 euro al giorno, scrive Fabrizio Gatti il 12 settembre 2016 su "L'Espresso".  Fabrizio Gatti all'interno del centro d'accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. La quinta notte apro la porta sull’inferno. Dal buio dello stanzone esce un alito di aria intensa e arroventata che impasta la gola. Si accende un lumino e rischiara una distesa di decine di persone, ammassate come stracci su tranci di gommapiuma. Niente lenzuola, a volte solo un asciugamano fradicio di sudore sotto le coperte di lana. Nemmeno un armadietto hanno messo a disposizione: ciabatte e scarpe sono sparse sul pavimento, i vestiti di ricambio dentro sacchetti di carta. Rischio di calpestare una serpentina incandescente, collegata alla presa elettrica da due fili volanti. Qualcuno sta preparando la colazione per poi andare a lavorare nei campi. Cucinano per terra. Se scoppia un incendio, è una strage.

Fabrizio Gatti è entrato clandestinamente nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. Dove la legge non esiste. Ecco il suo diario.

No, questa non è una bidonville. È un ghetto di Stato: il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce ne sono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengono sfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio “Sisifo” della Lega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca “Senis Hospes”, amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione, incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona, quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto in tre anni. Più eventuali compensi straordinari, secondo le emergenze del momento. La quinta notte rinchiuso qui dentro ho già visto i gangster nigeriani entrare nel Cara a prelevare le ragazzine da far prostituire. I cani randagi urinare sulle scarpe degli ospiti messe all’aria ad asciugare. E perfino i trafficanti afghani offrire viaggi nei camion per l’Inghilterra. Mi hanno anche interrogato. Un picciotto dei nigeriani, non la polizia. Agenti e soldati di guardia non si muovono dal piazzale asettico del cancello di ingresso. In una settimana, mai incontrati. Nessuno protegge i 636 ospiti dichiarati nel contratto d’appalto. Ma siamo sicuramente più di mille. Contando gli abusivi, forse millecinquecento. Perché da quattro buchi nella recinzione, chiunque può passare. E da lì sono entrato anch’io. Un nome falso, una storia personale inventata. Da lunedì 15 a domenica 21 agosto. Una settimana come tante. Nulla è cambiato, nemmeno oggi. Quello che segue è il mio diario da finto rifugiato nel Ghetto di Stato. Dentro il Cara di Borgo Mezzanone il giorno non tramonta mai. Una costellazione di fari abbaglianti splende non appena fa buio sul Tavoliere, la grande pianura ai piedi del Gargano. La cupola di luce appare a chilometri di distanza. Bisogna arrivare alla rete arrugginita di un aeroporto militare dismesso. C’è un varco a est, dopo una lunga camminata nei campi. Ma a ovest entrano addirittura le macchine e i furgoni dei caporali, carichi di schiavi di ritorno dalla giornata di lavoro. Sono quasi le dieci di sera. Le prime casupole lungo la pista di decollo formano la baraccopoli abitata da quanti negli anni sono usciti dal centro d’accoglienza, con o senza permesso di soggiorno. Una stratificazione di sbarchi dal Mediterraneo e di sfruttamento da parte degli agricoltori foggiani. Da qualche mese però la bidonville si sta allargando. Da Napoli è arrivata la mafia nigeriana e si è presa metà pista: nelle baracche hanno aperto bar, due ristoranti, una discoteca che con la musica assorda ogni notte il riposo dei braccianti. Da Bari sono venuti alcuni afghani piuttosto integralisti e ora controllano l’altra metà: hanno allestito un negozio che vende di tutto e una misteriosa moschea. Questa è la zona chiamata Pista, appunto. Ancora qualche centinaio di metri e si può toccare la recinzione del Ghetto di Stato. I fari sono puntati a terra e le telecamere inquadrano tutto il perimetro. Il Cara è diviso in due settori. Il primo, proprio qui davanti, è composto da diciotto moduli prefabbricati. Quattro abitazioni per modulo. Ogni abitazione ha tre stanzette: due metri per due, una finestra, lo spazio per due brande, raramente quattro a castello. Ciascun modulo ospita così tra le 24 e le 48 persone. Oppure, per dirla brutalmente, rende ai gestori tra i 528 e i 1.056 euro al giorno. La piazza centrale è un campetto di calcio, davanti al capannone con la mensa, la moschea e i pavimenti di tre camerate ricoperti di materassi. Anche il secondo capannone accanto è un dormitorio stracolmo. I bagni sono distribuiti in una dozzina di casupole: sei rubinetti ciascuno, sei turche, sei docce malridotte, alcune con l’acqua calda. Il secondo settore è invece rinchiuso dietro cancellate alte cinque metri: due fabbricati illuminati a giorno sotto un’altra schiera di telecamere. È il vecchio Cie per le espulsioni, una prigione. Lo usano per l’accoglienza. I rapporti sulle visite ufficiali sostengono che il secondo settore sia la parte dove si sta meglio. Oltre non bisogna andare. Lì vigila, si fa per dire, il personale di guardia. I buchi nella recinzione del Cara sono quattro, proprio sotto le telecamere. Dopo una nottata e una giornata di sopralluoghi, il fotografo Carlos Folgoso sa cosa deve fare. Adesso posso entrare. Una voce sguaiata al megafono della moschea ricorda all’improvviso che Allah è il più grande. È l’ora della preghiera che precede l’aurora. Sono le quattro e diciannove. Addio sonno. Fino alle tre e mezzo avevamo il tormento della musica afro dalla baracca appena fuori il recinto, lì dove i gangster nigeriani fanno prostituire le ragazzine. Poi due auto si sono sfidate con frenate e sgommate lungo la Pista. Quindi un ragazzo ha telefonato al fratello in Africa e parlava così forte che sembrava volesse farsi sentire direttamente. Adesso chiamano alla preghiera anche dalla misteriosa moschea degli afghani. Le voci dei muezzin erano scomparse da questo cielo il 15 agosto del 1300, giorno d’inizio del massacro dei musulmani a Lucera. Migliaia di morti, i sopravvissuti venduti come schiavi: le radici europee del cristianesimo non sono più pacifiche di certi fanatici islamisti di oggi. Ogni angolo protetto dalla luce dei fari è occupato da qualcuno che prova a dormire all’aperto. Un po’ per il caldo asfissiante. Un po’ perché dentro non c’è posto. Lo sanno anche le zanzare. Quando il sole è ormai a picco, Suleman, 24 anni, nel Cara da tre mesi, esce a raccogliere babbaluci, le lumache aggrappate agli arbusti. «Al mercato di Foggia», spiega, «gli italiani le comprano a tre euro al chilo». Già. E le rivendono su Internet a sette. Ma servono ore a mettere insieme un chilo. Da dove vieni? «Dal Ghana, ho chiesto asilo», rivela Suleman. Il Ghana è una Repubblica. Forse è un oppositore perseguitato. Alla domanda, lui guarda stupito: «No, spero di ottenere i documenti e trovare un lavoro qualsiasi in Italia o in Europa. Dove non lo so. E tu?». Meglio non dire la verità, l’inchiesta è ancora lunga. È il momento di collaudare il nome preso in prestito da Steve Biko, l’eroe sudafricano della lotta contro l’apartheid: «Sono senza documenti e voglio raggiungere mia sorella a Londra». Lui non capisce subito. «Sono un sudafricano bianco. La terra di Mandela. Conosci Nelson Mandela?». «No Steve, who is this man, chi è quest’uomo? Ma hai il tesserino da rifugiato?», vuol sapere Suleman. No. «Allora non hai mangiato Steve, hai fame?», chiede con apprensione. No, grazie. «Però non dormire qui fuori. È pericoloso. Dentro nessuno controlla. Puoi anche mangiare. Stasera mi trovi dopo la preghiera quando distribuiscono la cena. Tu vieni in moschea?». Sotto il caldo del pomeriggio ci si va a riparare nei pochi metri d’ombra. Quanti attraversano il Sahara e il mare per sfuggire alla povertà meritano totale rispetto. Ma il diritto internazionale protegge soltanto chi scappa da dittature e guerre, come accade per eritrei, somali e maliani che dormono nei due grandi capannoni. La domanda di asilo di Suleman verrà comprensibilmente respinta. E anche lui si aggiungerà alle migliaia di fantasmi che riempiono le bidonville. Come la Pista, là fuori. Un altro giorno è passato. È la seconda notte qui dentro. I gangster nigeriani hanno appena spento il loro tormento musicale. Sono le tre e alla fontanella della piazza centrale c’è già la coda. Prima di partire i braccianti devono rifornire i loro zaini con le bottigliette di plastica piene. I padroni italiani non regalano più nemmeno l’acqua. I quattro varchi nella recinzione sono una manna per l’agricoltura pugliese. Forse è per questo che non li chiudono. Centinaia di richiedenti asilo escono che è ancora buio. E ritornano che è già buio. I caporali nigeriani li aspettano su furgoni e auto sgangherate all’inizio della Pista: per il trasporto ai campi di ortaggi e pomodori, incassano cinque euro al giorno a passeggero e li trattengono dalla paga. I capibianchi, gli sgherri italiani, li prendono invece a bordo lungo la strada che porta a Foggia. Così molti ragazzi per evitare il costo del passaggio partono in bici da soli. Le biciclette nel Cara sono grovigli di manubri e fatica parcheggiati a centinaia davanti alle casupole. Qualcuno nelle camerate si è portato la sua in mezzo ai materassi dove dorme. Farsi rubare la bici significa dover consegnare ai caporali 35 euro a settimana, il guadagno di due giornate di lavoro. I braccianti che vivono nel Ghetto di Stato vengono pagati meno dei loro colleghi di fuori: anche 15 euro a giornata, piuttosto che 25. I padroni foggiani decurtano il corrispondente di vitto e alloggio. Tanto sono garantiti dalla prefettura. Uno squilibrio che crea tensione tra la generazione ormai uscita dal centro d’accoglienza e gli ultimi arrivati, disposti a lavorare a meno. Il muezzin ancora non ha chiamato alla preghiera. E i primi ragazzi venuti a rifornirsi d’acqua alla fontanella sono già in viaggio. Erano tornati ieri sera quasi alle dieci. Si sono fatti la doccia. Hanno lavato e steso gli abiti da lavoro. Poi hanno mangiato la pasta della mensa, tenuta da parte da qualche compagno di stanza. Era mezzanotte passata quando sono andati finalmente a dormire. Dopo appena tre ore di sonno già pedalano silenziosi, uno dietro l’altro, che sembra il via di una tappa a cronometro. Scavalcano bici in spalla il muretto sotto i fari e le telecamere. Poi si dissolvono nel buio come bersaglieri del lavoro, chiamati in prima linea a riempire i nostri piatti. Lo stesso periodo, subito dopo la richiesta d’asilo, in Germania è dedicato ai corsi obbligatori di tedesco. Chi non frequenta è respinto. Qui dopo un anno di sfruttamento sanno al massimo dire “cumpà”. Compare, in foggiano. E quando li trasferiscono sono spaesati, impreparati, analfabeti. Come appena sbarcati. Nonostante quello che lo Stato versa alla cooperativa di gestione, nessuno ha insegnato loro nulla dell’Italia. E magari, una volta in città, passano la notte a gridare al telefonino. Così dal vicinato si aggiungono nuovi voti alla destra xenofoba. «Ehi Steve, South Africa, come stai?», chiede in inglese Nazim. Ha 17 anni anche se sul tesserino magnetico gli hanno scritto che è nato nel 1997. Viene da Dacca, Bangladesh, via Libia. Martedì sera ha saputo che non mangiavo dalla notte prima. È tornato con un piatto di plastica sigillato con la pasta della mensa, una scatola di carne, una mela, due panini. «Steve, prendi», ha insistito: «Sono piatti avanzati oggi». Vuole raggiungere l’Inghilterra o la Germania. Sa molto poco delle conseguenze di Brexit, delle frontiere europee chiuse. «Adesso vado dai nigeriani là fuori alla festa di un amico di Dacca. Gli hanno riconosciuto l’asilo. Domani parte per Milano. Ha invitato gli amici a bere birra. Portano anche le ragazze. Vieni, Steve?». È l’una di notte. Meglio non esporsi troppo. Precauzione inutile. La polizia non si è mai fatta vedere. Ma le spie dei nigeriani mi hanno già notato. Sono l’unico bianco con la faccia europea. Sono qui da quattro giorni. Non rispetto gli invisibili confini interni. E ho il doppio dell’età media degli ospiti. Così nel corso della notte provano a sapere di me. Prima con un africano del Mali. Poi con due pakistani. Alla fine con Cumpà, un senegalese alto e grosso. Sono marcato a zona. Non appena mi sdraio a dormire sulla solita piattaforma di cemento, arriva lui. «Cumpà, che succede?», chiede il picciotto in italiano. Puzza di birra. «Cumpà, di dove sei?». Rispondo in inglese che non capisco. E Cumpà si arrabbia: «Cumpà, vieni a dormire da me perché se arrivano i miei amici nigeriani da fuori, tu passi dei guai». Entra nel suo loculo. Riappare con un materasso sporco. «Cumpà, tu ti sdrai qui e non te ne vai». Ora si sistema sul suo materasso. Siamo sdraiati uno accanto all’altro, sotto il cielo nuvoloso. Lui si gira su un fianco. Cerca di fare l’amicone. «Cumpà, allora mi dici che cosa fai qui?». I suoi amici nigeriani non scherzano. La notte del 18 aprile hanno rapinato un ospite del Cara e lo hanno trascinato fuori. Lì lo hanno accecato con una latta di gasolio rovesciata negli occhi e bastonato fino a farlo svenire. Qualche giorno prima avevano ferito un connazionale con un machete. A giugno la polizia ha poi arrestato cinque appartenenti agli Arobaga, il clan che controlla caporalato e prostituzione lungo la Pista. «Io non parlo inglese», torna ad arrabbiarsi Cumpà: «Ho capito: tu sei un poliziotto. Adesso chiamo gli altri». Si alza e se ne va. Un messaggio parte subito per il telefonino di Carlos, il fotografo nascosto da qualche parte là fuori: “Vai via” seguito da una raffica di punti esclamativi. Steve resta sdraiato sul materasso, con le pulci che gli pizzicano le caviglie. È più sicuro rimanere nel Cara e vedere cosa succede. Cumpà riappare dopo mezz’ora. Solo. Si sdraia. Ronfa come un diesel. Anche i suoi amici saranno ubriachi. Al richiamo del muezzin, un connazionale viene a scuoterlo: «Madou, la preghiera». Non si muove. Al risveglio religioso, stamattina Cumpà preferisce il sonno di Bacco. Qualche riga oggi bisogna dedicarla alla pet therapy. È quella prassi secondo cui l’interazione uomo-animale rafforza le terapie tradizionali. Alla prefettura di Foggia, responsabile della fisica e della metafisica di questo Ghetto di Stato, devono crederci profondamente: perché il Cara è infestato di cani, ovunque, perfino dentro le docce. Nessuno fa nulla per tenerli fuori. Quando è ancora buio, subito dopo la preghiera, tre braccianti escono in bicicletta dal buco a Ovest, dove la recinzione è stata smontata. Le loro sagome sfilano nel chiarore della luna. Un cane abbaia e la sua voce richiama un’intera muta che si lancia all’inseguimento dei tre poveretti. Sono una decina di grossi randagi. Corrono. Ringhiano e si mordono. Poi diligentemente tornano a sdraiarsi tra gli ospiti del centro. Nasrin, 27 anni, afghano di Tora Bora, si tiene alla larga dai cani. Una sera parliamo davanti alla partita di cricket improvvisata dai pakistani, sul piazzale vicino ai rifiuti. Nasrin dice che se ne intende di viaggi fino in Inghilterra. È andato e tornato, rinchiuso nei camion. Un suo conoscente, che dorme alla Pista, conferma più tardi che può trovare i contatti. Deve solo verificare i prezzi. Dopo Brexit sono aumentati. «In Inghilterra i caporali pakistani pagano bene con la raccolta di spinaci e ortaggi: 340 sterline a settimana», spiega Nasrin. Con i documenti? «No, senza. Però si lavora 18 ore al giorno. In sei anni ho messo via ottantamila euro. E in Afghanistan mi sono costruito una bella casa». Allora perché sei qui? «Perché per avere i documenti avevo chiesto asilo in Italia». Stasera è meglio stare lontani dalla piazza. Una macchina dei carabinieri è ferma lì da un po’. Dicono siano venuti per una notifica. Poco più tardi tre nigeriani entrano a prendere le prostitute. Le ragazzine sono a malapena maggiorenni. Due in particolare. Nessuno sa se siano ospiti o abusive. Dormono nella sezione femminile, dice qualcuno, ricavata nell’ex centro di espulsione. Le portano dalle parti della discoteca, la causa dell’insonnia di molti di noi. Entrano nell’anticamera illuminata a giorno. E scompaiono oltre il separé, nella sala con la musica al massimo, le luci colorate, la palla di specchi al centro del soffitto. La corrente la rubano dalla rete di illuminazione pubblica. La Pista, anni fa, era un centro d’accoglienza. E molti braccianti, a loro volta ostaggi del caos, abitano là da allora. Bisogna stare molto attenti ai cavi elettrici. Per collegare le nuove baracche appena costruite e in costruzione, li hanno stesi ovunque nell’erba secca del campo tra la bidonville e il Cara. Sono semplici cavi doppi da interni, collegati tra loro da banalissimo nastro adesivo. Quando piove c’è il rischio di prendersi una bella scarica. Adesso è più difficile girare indisturbati. Trovarsi davanti Cumpà potrebbe essere pericoloso. Un angolo controluce del grande piazzale è il nuovo nascondiglio. I fari puntati negli occhi di chi passa sono lo schermo più sicuro dietro cui proteggersi. Il sottofondo musicale stanotte è dedicato al reggae. Il volume aumenta via via che scorrono le ore. E durante la preghiera sfuma in un fruscio assordante. Una mano sta cambiando canale alla radio. Si ricomincia con la voce di Malika Ayane. Le parole piovono direttamente dal buio: «La prima cosa bella che ho avuto dalla vita...». Parte una fila di braccianti in bicicletta. Attacca un vecchio successo di Luis Miguel: «Viviamo nel sogno di poi...». Se ne vanno a lavorare altre schiene sui pedali. Vengono tutti dall’ex Cie. Bisogna sfidare le telecamere per avvicinarsi e vedere. Anche lì hanno aperto un buco nella recinzione. Si salta sopra un fossato di fogna putrida a cielo aperto. E si scende agli inferi. Le camerate sono al buio. Hanno appeso stracci e teli alle finestre per tenere fuori la luce dei fari. Non c’è spazio nemmeno per la porta. Si apre a fatica. L’aria è densa, ma ancora non è chiaro cosa ci sia oltre. Sono quasi le quattro e mezzo. Un ragazzo si sta vestendo e adesso accende la pila. Una scritta incollata alla colonna al centro del salone saluta beffarda: «Benvenuti». Un orsacchiotto sotto il cuscino di un adulto sporge la testa e fissa il soffitto. La vita è tutta raccolta nei sacchetti e nelle scatole sotto le brande. Un vecchio televisore trasmette il replay delle Olimpiadi. E rischiara di un poco il suo orizzonte di corpi ammassati. Impossibile contarli tutti. Quattro sedie separano dall’angolo cottura i tranci di gommapiuma, usati come materassi. Per terra la serpentina elettrica incandescente sta riscaldando due uova, la pasta avanzata ieri sera, una teiera. Un sacchetto di plastica e un rotolo di carta igienica sono pericolosamente vicini al calore. Pentole, un piatto, due bicchieri. Tutto per terra. Non c’è lo spazio per un tavolo. Nel cortile al centro del Cie, per terra ci dormono pure. Il piccolo loculo di Cumpà al confronto è un lusso. Almeno ha un po’ di riservatezza, l’aria intorno, i vasi con gli oleandri. Perfino l’architettura qui dentro è oscena. È stata progettata e costruita in modo che si possa vedere soltanto uno spicchio di cielo. La mente che l’ha pensata voleva probabilmente umiliare le donne e gli uomini da rinchiudervi. L’effetto è questo, anche ora che è un centro di accoglienza. Stesse condizioni nelle altre stanze. Non ci sono uscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastrano prima di aprirsi. E il loro movimento va verso l’interno. Dovevano servire a non far scappare i reclusi, non ad agevolarne la fuga. Se scoppia un incendio, questa è una trappola. I bagni e le docce non profumano mai di disinfettante. Hanno perfino sloggiato dei profughi per trasformare le loro stanzette in privatissimi negozi. Ce ne sono cinque tra le casupole statali. Vendono bibite, riso, farina, pane, accessori per telefonini direttamente dalle finestre. Quattro li controllano gli afghani della Pista. Il quinto due ragazzi africani. Non ci sono cestini per i rifiuti, solo sacchi neri appesi qua e là. Stanotte i cani li hanno strappati e hanno disperso avanzi della cena ovunque. Un favore alla catena alimentare, sì. Perché alla fine anche i ratti hanno un motivo per uscire allo scoperto. Quello che colpisce è la rinuncia totale a spiegare, insegnare, preparare i richiedenti asilo a quello che sarà. Se i gestori lo fanno nei loro uffici, i risultati non si vedono. Qui fuori sembriamo tutti pazienti di un reparto oncologico. In attesa permanente di conoscere la diagnosi: vivremo da cittadini o moriremo da clandestini? Forse non ci sono abbastanza soldi per seguire il modello tedesco. Oppure noi italiani siamo troppo furbi, oggi. E contemporaneamente troppo stolti per pensare al domani. Non c’è soltanto la crisi umanitaria internazionale a rendere precario qualsiasi intervento. La ragione del fallimento si trova già nella gara d’appalto per gestire il Cara: premiava il «maggior ribasso percentuale sul prezzo a base d’asta, pari a euro 20.892.600». Un cifra di partenza che equivaleva a 30 euro al giorno a persona. E il consorzio “Sisifo” di Palermo si è aggiudicato il contratto con uno sconto di 8 euro. Ha abbassato la diaria a 22 euro e rinunciato a quasi cinque milioni e mezzo in tre anni. La logica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefettura di Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coop sapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22 euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità. Comunque il ministero dell’Interno chiede sempre di aumentare il numero di ospiti di qualche centinaio. E l’emergenza è pagata bene: i soliti 30 euro, ma senza gara. Così perfino lo sconto è rimborsato. La cooperativa cattolica “Senis Hospes”, che per conto di “Sisifo” gestisce Borgo Mezzanone e altri centri, corre al galoppo. Fatturato in crescita del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 a 15,2 milioni del 2014, ultimo bilancio disponibile. Dipendenti dichiarati: dai 109 del 2014 ai 518 di quest’anno. «Tali attività...», scrive nella relazione annuale Camillo Aceto, 52 anni, presidente di “Senis Hospes”, «rispondono alla missione che la cooperativa si prefigge dedicando l’attenzione alle categorie più bisognose». Ma qui dentro, nel grande stanzone degli inferi, oggi la luce è accesa alle quattro. È domenica. Alcuni richiedenti asilo sono già partiti per i campi. Altri preparano lo zaino. Sempre sotto quella scritta sulla colonna centrale, che martella la vista: «Benvenuti».

Cara di Foggia, quell'inferno ci costa 11 milioni di euro all'anno. Dormitori stracolmi, con 1414 richiedenti asilo registrati. Condizioni disumane, eppure la coop cattolica "Senis Hospes" incassa quasi un milione al mese, scrive Fabrizio Gatti il 13 settembre 2016 su "L'Espresso". Cara di Foggia, foto di Carlos FolgosoIl costo per lo Stato del Centro di accoglienza di Foggia, quindi per tutti noi, è adesso una cifra precisa: la cooperativa cattolica “Senis Hospes”, che lo gestisce per conto del consorzio “Sisifo” della Lega Coop, incassa 31 mila 108 euro al giorno. Al giorno, sì. Anche se le condizioni disumane che abbiamo visto, fotografato e filmato corrisponderebbero a un servizio da pochi spiccioli. La spesa la si ricava dalle presenze confermate oggi dalla polizia: 1.414 richiedenti asilo registrati. Il numero comunque è aggiornato al 23 agosto, cioè vecchio di tre settimane. Moltiplicando gli ospiti ufficiali per il costo dell'appalto di 22 euro al giorno a persona, si ottiene quanto rende l'inferno: 933 mila euro al mese, 11 milioni l'anno. Ed è un calcolo per difetto. Perché l'emergenza fuori contratto può essere pagata fino a 30 euro al giorno a persona. E le immagini si commentano da sole. Bene ha fatto questa mattina il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, dopo aver letto su “Repubblica” l'appello del fondatore Eugenio Scalfari e l'inchiesta su “l'Espresso” , a consultarsi con il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Nel corso di una lunga telefonata hanno deciso di avviare accertamenti immediati su quanto accade nella Cara di Borgo Mezzanone, a pochi chilometri da Foggia. Per ora, è solo un'indagine informale. Se l'assistenza ai richiedenti asilo è l'attività economica al momento più fiorente nel nostro Paese, è doveroso che il governo metta in campo tutte le forme di controllo a sua disposizione. La cooperativa che gestisce l'inferno di Foggia, la “Senis Hospes” di Senise in provincia di Potenza, ne è un esempio. Grazie agli appalti sui profughi in tutta Italia ha infatti aumentato il suo fatturato del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 ai 15, 2 milioni del 2014. E i dipendenti da 109 a 518. Non esistono imprenditori oggi, a parte la criminalità, con ricavi in crescita esponenziale. Per questo lo Stato non può permettersi di chiudere un occhio sulla spesa pubblica. O tutti e due. Come è avvenuto a Borgo Mezzanone. E qui la situazione rivelata dalla nostra inchiesta “Sette giorni all'inferno” chiama in causa direttamente la prefettura. L'articolo 22 dello “Schema di capitolato di appalto per la gestione dei centri di accoglienza per immigrati” obbliga l'Ufficio territoriale del governo (Utg) alla massima vigilanza: «La prefettura-Utg svolge attività di controllo e monitoraggio sulla gestione dei Centri diretta a verificare il rispetto delle modalità di erogazione dei servizi...», è scritto, «nonché la garanzia della qualità, della quantità e delle caratteristiche dei beni forniti in esecuzione alla presente convenzione...». Per capire quanto questo controllo fosse carente non da oggi ma da anni, basta leggere il rapporto di “Osservatoriomigranti.org” pubblicato dopo una visita del 20 febbraio 2013, quando il gestore era la Croce rossa italiana: «Il Cara di Foggia Borgo Mezzanone presenta alcune peculiarità che lo rendono assolutamente unico. Il Cara è infatti una struttura “porosa”, all’interno della quale chiunque può intrufolarsi utilizzando uno dei numerosi varchi presenti lungo il perimetro del recinto. La situazione è senza dubbio aggravata dalla presenza, accanto alla struttura ufficiale, di un vero e proprio campo “informale” nato nei moduli abitativi abbandonati e mai dismessi sulla pista del vecchio aeroporto militare». Già allora nemmeno le presenze erano certe: «Di fatto non si è in grado di quantificare il numero esatto di ospiti, dato che anche all’interno della struttura numerosi posti letto sembrano essere occupati da persone che non avrebbero titolo all’accoglienza. Ciò alimenta l’insicurezza e rende molto complicata la gestione dell’ordine pubblico». Sono passati tre anni e l'immagine dell'Italia offerta ai richiedenti asilo appena sbarcati è sempre la stessa: un colabrodo.

I trecento cristiani perseguitati dagli islamici in Puglia, scrive il 20 agosto 2016 “Libero Quotidiano”. Fedeli cristiani segregati in Italia, costretti a celebrare messe clandestine, Crocifissi nascosti per evitare che vengano distrutti, bruciati da fanatici islamici. Tutto questo nel Gargano, a 40 km dalla tomba di San Padre Pio in Puglia. La storia, incredibile, la racconta Cristiano Gatti sull'Espresso e Repubblica ne anticipa una parte. Si tratta di 300 immigrati africani, lavoratori stagionali dei campi di pomodoro, che vivono in una vera e propria bidonville sotto costante minaccia di musulmani che vengono da fuori: "Abbiamo paura, sì. Da due anni la domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere". Di fatto il ghetto di Rignano Garganico è la riproposizione su piccola scala dei drammi della Nigeria e di altri Paesi africani dove i cristiani vengono perseguitati, picchiati, uccisi. "La bidonville aumenta di 10 nuovi arrivati ogni 24 ore. Ha già superato il record di 2mila abitanti e, con la raccolta dei pomodori, si avvia verso i 3mila. Troppa manodopera. Il risultato è che trovano lavoro per non più di 3 o 4 giorni al mese". I racconti dei cristiani sono atroci. Un nigeriano custodisce una croce, due legnetti di fortuna legati insieme alla bell'e meglio: "L'abbiamo fatta con i resti della baracca della fedele che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l'hanno bruciata una notte di due anni fa. Poi qualcuno ci ha fatto capire che, se non volevamo altri incendi, non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Trecento contro duemila, troppo pochi. Così per paura abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno 3 moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa". "I braccianti musulmani sono solidali con noi", spiega, rivelando che i persecutori sono "spie dei caporali", africani anche loro, che per ora non hanno dichiarato la loro vicinanza a Boko Haram o Isis. Ma l'intolleranza sta aumentando anche nel ghetto, con l'arrivo di nuovi immigrati: "Oggi ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con quanta fatica viviamo".

Apocalisse in Puglia, un pezzo del Paese oltre ogni umanità. Una spaventosa baraccopoli arsa dal sole e dal degrado. Clan di schiavisti in guerra. Migranti islamici che bruciano le croci di quelli cristiani. Violenze, minacce, agguati. A Rignano Garganico è la peggiore estate di sempre, scrive Fabrizio Gatti su "L'Espresso" il 22 agosto 2016. L’ultima messa l’hanno celebrata a Pasqua. La penultima non se la ricordano nemmeno. Nella torrida pianura ai piedi del Gargano, a 40 chilometri dalla tomba di San Padre Pio, c’è una bidonville di oltre duemila abitanti dove trecento cristiani vivono segregati. La misera baracca, in cui ogni settimana un padre missionario veniva a santificare le domeniche, l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Dai resti del luogo di preghiera hanno costruito un crocifisso per ricordare l’aggressione: due moncherini di legno carbonizzato, legati insieme da un nastro di plastica nero ricavato dai tubi che irrigano i campi di pomodoro. La croce adesso la conservano nascosta sotto uno scaffale. Non se la sentono di esporla. Hanno paura di nuovi attacchi: «Abbiamo paura, sì. La domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere fuori». La vita dei braccianti nelle campagne della provincia di Foggia è già difficile. Ma per i trecento cattolici africani, isolati in mezzo alla maggioranza musulmana del Ghetto di Rignano Garganico, lo è molto di più. Il Ghetto di Rignano è un valico in uscita. Quando le rotte carsiche verso l’Europa si chiudono, qui la baraccopoli si riempie. È la capitale delle bidonville nostrane. La più grande. Un termometro del clima sociale. Dovrebbero ammetterlo gli italiani che vorrebbero seguire la Brexit: finora ci hanno salvato le frontiere aperte, cioè l’Unione Europea. Dei 170 mila profughi sbarcati in Italia nel 2014, centomila hanno continuato il viaggio verso Nord. Se ne sono andati anche un po’ dei 153 mila arrivati nel 2015. Ma la grande maggioranza e i novantamila che si sono finora aggiunti quest’anno non hanno alternative. Si dovranno accontentare dell’Italia, anche se non piace. L’Austria prima, poi la Francia e la Svizzera non li lasciano più passare. È la nuova fase dell’immigrazione, la più maledetta: dalla chiusura delle frontiere europee dobbiamo cavarcela da soli. E le premesse non sono buone. Nel 2015 sui 29.698 stranieri riconosciuti come rifugiati e transitati nei progetti Sprar, il sistema di protezione italiano, soltanto 1.972 sono usciti dal percorso con un contratto di lavoro. E il 32 per cento dei progetti non ha portato a nessuna assunzione (dati Atlante Sprar). Normale, con un tasso di disoccupazione nazionale al 12 per cento. Ma l’Africa continua a partire al di là del mare. E quasi mai i nostri ministri la vanno ad ascoltare. Il 25 maggio il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, è atterrato in Niger, snodo cruciale lungo la rotta del deserto verso la Libia. La sua missione è durata solo un pomeriggio. Pochi giorni prima Francia e Germania avevano inviato contemporaneamente i loro ministri degli Esteri. E insieme, con il governo di Niamey, hanno avviato una collaborazione ad alto livello che riguarda anche noi. Ma senza di noi. La frontiera che porta alla bidonville di Rignano è diversa da quelle di Ventimiglia, Ponte Chiasso o del Brennero. Il Ghetto, così lo chiamano senza giri di parole i suoi abitanti, sorge al di là di un confine interiore. È il valico dentro ciascuno di noi tra la decenza e l’indecenza, la democrazia e il caporalato. Dopo il tour nei centri ordinari e straordinari per richiedenti asilo, un periodo variabile tra nove mesi e due anni e aver tentato inutilmente di entrare in Francia o in Germania, i profughi riappaiono qui. Non fa differenza se hanno o non hanno ottenuto un qualsiasi tipo di permesso di soggiorno. Tanto, là fuori, di lavoro regolare non ce n’è più. E qui dentro perfino i capineri, i caporali africani, i kapò del nostro tempo, fanno fatica a soddisfare tutti. Dieci anni fa il rapporto era di un caponero ogni dieci, venti braccianti. Quest’anno siamo a uno ogni cento. Troppa manodopera. Il risultato è che si lavora non più di tre o quattro giorni al mese. Il resto delle settimane si sopravvive con la solidarietà tra connazionali, un piatto di riso al giorno, un morso di carne arrostita regalato dal vicino di baracca. La bidonville aumenta di dieci abitanti ogni ventiquattro ore. Il Ghetto ha già superato il record di duemila persone e con la raccolta dei pomodori si avvia verso quota tremila. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, ha ottenuto dal prefetto lo sgombero. Stanno studiando dove trasferire gli abitanti. Un pericoloso azzardo, in piena stagione di raccolto. Ci avevano provato già in passato. Ma le alternative offerte si limitavano a spiazzi sperduti. Così la bidonville ogni volta è risorta: la sera, di ritorno dal lavoro nei campi, è meglio l’intimità di una casa di legno e cartone, piuttosto che l’ipocrita benevolenza delle tendopoli e dei container di Stato. Adesso le autorità ci riprovano. Magari sgomberassero l’economia locale dal piglio criminale di molti imprenditori. Prendete l’esempio di Franco Valenzano, agricoltore di Borgata Arpinova a Foggia. L’anno scorso il Tribunale l’ha condannato a risarcire 19.595 euro di arretrati non pagati a uno dei suoi schiavi, un geometra del Burkina Faso, padre di tre figli, arrivato in Italia in aereo nel 2009 con un visto di lavoro. Valenzano non ha fatto ricorso in Appello. Dopo quasi un anno dalla sentenza semplicemente continua a non pagare. E anche il suo ex dipendente è precipitato in una baracca del Ghetto. In mezzo a questa arroganza italiana perfino l’eredità sindacale di Giuseppe Di Vittorio diventa un privilegio. Meglio un caporale subito e dodici ore di fatica a venti euro al giorno. «Padrone mio... damme li botte», supplica la triste canzone del compositore foggiano Matteo Salvatore. «Questa è la croce bruciata», dice sottovoce il bracciante nigeriano che la custodisce. La prende dallo scaffale. La mostra cauto, come fosse una sacra reliquia. E lo è. «L’hanno benedetta due volte. L’abbiamo fatta con i resti della baracca della fede che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Lei per fortuna non c’era. Poi qualcuno ci ha fatto capire che se non volevamo altri incendi non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Siamo del Togo, del Ghana, noi nigeriani. Trecento contro quasi duemila, troppo pochi. Così per paura di altri incendi abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno tre moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa». Chi sono quelli che vi hanno fatto capire? «No, non facciamo nomi. Sono spie dei caporali, africani che non vivono nel Ghetto, vengono da fuori. Poche persone, ma stanno seminando paura. No, no, nessuno si è mai dichiarato a favore dei terroristi di Boko Haram o dello Stato islamico. I braccianti musulmani sono perfino solidali con noi. Con loro i rapporti sono buoni. Ma negli ultimi due anni è arrivata tanta gente nuova. E molti di loro non sembrano così tolleranti». Una sera di febbraio un altro incendio, partito da una stufa a gas, ha distrutto la baraccopoli. «Abbiamo messo in salvo le nostre cose, la batteria, il pannello solare. Ma mentre stavamo tentando di spegnere il fuoco, ce le hanno rubate. Anni fa nessuno ti chiedeva di che religione sei. Ora ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con che fatica viviamo». Gli immigrati che hanno costruito il Ghetto una decina di anni fa erano cresciuti nella speranza laica e socialista di Thomas Sankara. E anche l’emigrazione era vissuta come lo strumento necessario per finanziare il riscatto scolastico dei propri figli, rimasti con le mamme in Africa. I ventenni che sbarcano ora non sanno che farsene di Sankara, nemmeno di Nelson Mandela. Gran parte di loro ha trascorso anni a ciondolare il capo leggendo ad alta voce versetti nelle madrase coraniche, pagate dall’Arabia Saudita lungo tutto il Sahel. La lingua internazionale dei più giovani appena arrivati nella bidonville non è più il francese o l’inglese, ma l’arabo. Sono i figli dei patti di stabilità imposti dalle istituzioni mondiali agli Stati africani: tagliare la spesa, in cambio di aiuti. Così hanno tagliato le scuole statali. E a riempire il vuoto è piovuto dal Golfo l’imperialismo wahhabita, il razzismo religioso che sta sconquassando il mondo, finanziato dagli stessi emiri che in Europa comprano squadre di calcio, interi quartieri e compagnie aeree. Il tramonto adesso allunga le ombre. E nonostante le minacce alla comunità cristiana, la baraccopoli di Rignano sembra correre nella direzione opposta. I genitori musulmani consegnano senza remore i pochi bambini a don Vincenzo, giovane missionario scalabriniano, che con i suoi volontari viene fin qui qualche ora alla settimana a insegnare italiano. Per adescare i raccoglitori di pomodori sono accorse da Napoli le maman nigeriane con ragazze giovanissime da far prostituire nei bar improvvisati ovunque. E anche quest’anno una rete di studenti da tutta Italia si dà il cambio per mantenere accesa Radio Ghetto, davanti all’autoproclamato imam senegalese dell’autocostruita moschea di legno e cellophane, che al di là del spiazzo di polvere passa e saluta. Sotto sotto però, la delusione, il sovraffollamento, l’infiltrazione delle gang hanno rotto l’equilibrio. A fine luglio un bracciante del Mali, Ibrahim Traoré, 34 anni, viene ucciso a coltellate da un ivoriano di 26 anni, poi arrestato dai carabinieri. Pochi giorni dopo, un ladro sorpreso a rubare 300 euro, rischia il linciaggio. Lui si chiude in una baracca. Da fuori impugnano bastoni chiodati. «Bagnatelo tutto che lo colleghiamo all’elettricità», gridano i rivali assatanati. Ritornano i carabinieri e la sera alcuni connazionali che li hanno avvertiti passano un brutto quarto d’ora. Quando ormai è buio, telefonano da Lampedusa per raccontare della visita al campo profughi dell’europarlamentare di “Possibile”, Elly Schlein, accompagnata dall’avvocato Alessandra Ballerini della rete “LasciateCIEntrare”. È un altro passo dentro i confini dell’indecenza: 350 stranieri rinchiusi, venti donne, sei bambini piccoli, dieci minori, e solo otto docce (una ogni 43 persone), dodici turche in condizioni pessime (una ogni 29), wc inagibili e niente doccia nel settore minori, dormitori di lamiera rovente e mai un ricambio per i materassini di gommapiuma su cui dormono senza lenzuola i malati di scabbia. Eppure Lampedusa è diventata un “hotspot” europeo. Bruxelles ha inviato una palata di soldi all’Italia che una gara d’appalto ha girato alla “Confederazione nazionale delle Misericordie”, l’associazione cattolica che l’ha vinta. Fine della telefonata. A pochi passi da un disoccupato di Foggia che vende patate dal bagagliaio della sua macchina, gli ultimi inquilini del Ghetto portano notizie del mondo di fuori. Dicono che la polizia adesso fa scendere a Genova i neri che salgono sui treni per Ventimiglia. E sorridono spiegando che aerei pagati dal ministero dell’Interno riportano in Sardegna i rifugiati sgomberati dal confine francese. Qualcuno di loro ha già fatto su e giù addirittura quattro volte: sì, nel caos del prossimo autunno, finiremo con i gommoni che scappano da Olbia per sbarcare a Sanremo.

I PROFUGHI E LA SINISTRA.

Capalbio e non solo, ex comunisti snobbano immigrati e metalmeccanici, scrive il 18 agosto 2016 Laura Naka Antonelli su “Wallstreetitalia”. Su Twitter viene lanciato anche un hashtag ad hoc per commentare il caso: l’hashtag è #capalbioforrefugees e l’ultimo caso tutto italiano, esploso qualche giorno fa, è quello di Capalbio. Un caso che coinvolge e travolge la sinistra italiana, e quella roccaforte della stessa, almeno fino a qualche tempo fa, che si chiama Regione Toscana. Le offese contro questa sinistra sempre più non pervenuta tra la gente comune si sprecano: si parla di ex comunisti radical chic che non vogliono gli immigrati. Tutto parte di fatto proprio dalla questione spinosa dell’immigrazione, dal momento che sono ben due i ricorsi che sono stati presentati al Tar dagli abitanti del centro storico di Capalbio, alla notizia dell’arrivo di 50 immigrati. “Non siamo affatto contro l’accoglienza”, precisa il sindaco del Pd Luigi Bellumori, dopo la bomba mediatica esplosa con le dichiarazioni rilasciate dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi (prima PCI, ora Pd) che, dal suo profilo Facebook, nel giorno di Ferragosto, ha stroncato la sinistra di Capalbio. “A Capalbio nobili ambientalisti, boiardi di Stato e intellettuali ex comunisti non vogliono i profughi, non vogliono la strada, non vogliono nulla, perché le loro vacanze non possono essere disturbate”. Esulta ovviamente la destra, con Matteo Salvini, leader della Lega, che usa le parole del governatore Rossi per perorare la propria causa: “Sono 50 profughi, ma la sinistra radical chic non li vuole vicino ai campi da golf, alle piscine, ai giardini, ai villini e ai villoni di questa sinistra che i campi rom li pensa sempre in periferia». E poi: «Non li metterete davvero qui, hanno detto in coro. Loro si sono ribellati. Ecco la sinistra”. Il sindaco di Capalbio Bellumori difende se stesso e la comunità di Capalbio: “Questa non è accoglienza, è ghettizzazione. Non è integrazione calare 50 migranti in un borgo di 130 residenti. Perché Capalbio è sì, molto più esteso perché ha frazioni e ville sparse, ma qui si parla del centro medievale”. E sulle accuse di razzismo: “Capalbio ha accolto i braccianti del Sud negli Anni ’50, e i migranti dell’Est negli Anni ’90”. Promettendo infine: “Convocheremo un tavolo con prefettura e Regione, sono convinto che troveremo una soluzione. Noi non diciamo no agli immigrati, diciamo no a 50 in quel posto, siamo disposti ad accoglierne una quindicina”. Certo il caso rimanda a quella intervista a IO Donna (Corriere della Sera) rilasciata ormai un bel po’ di anni fa, nel 2009, da Giovanna Nuvoletti, giornalista e fotografa, moglie di Claudio Petruccioli, ex presidente della Rai. Nel commentare il suo romanzo L’era del cinghiale rosso, Nuvoletti aveva parlato proprio della sua Capalbio. “L’unico ricco comunista che abbia mai conosciuto, Giangiacomo Feltrinelli, a Capalbio non ci veniva. I comunisti che negli anni Settanta andavano in Maremma erano squattrinati. Chi poteva se ne andava a Porto Ercole”. E’ una pessima estate, quella di quest’anno, per la sinistra italiana. Non si può dimenticare neanche l’altro grande triste protagonista dei cosiddetti ex comunisti, Arcangelo Sannicandro, 73 anni, avvocato e parlamentare “comunista”, che ha un reddito da 400mila euro l’anno (dato relativo al 2014) e che si è opposto in modo piuttosto plateale, lo scorso 4 agosto, alla Camera, alla proposta del M5S relativa alla riduzione delle indennità di carica da 10.000 a 5.000 euro (tra l’altro richiesta non passata). “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici! Da uno a dieci noi chi siamo?”. E lui, anche, viene da Pci e da Rifondazione.

Capalbio, arrivo dei migranti: gli spocchiosi radical chic tolleranti col sedere degli altri, scrive il 17 agosto 2016 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Arrivo migranti. A Capalbio è dramma collettivo. Bruciati i tricolori, interrotte le proiezioni della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski e le serate di degustazione delle mandorle bio dell’Uzbekistan in tutta la città; per protesta, i vip locali chiedono più diritti. C’è già chi grida “Fascisti!”. In queste ore caldissime, l’ANSiA riporta le ultime dichiarazioni ed iniziative per fronteggiare il dramma: ANSiA: Emergenza migranti a Capalbio. Arrivati i viaggiatori del mare. Distribuite ai poveri fuggiaschi dalla disperazione, pashmine colorate, occhialetti tondi, copie di Pasolini e Saviano. Ristabilito l’ordine. Un gesto umanitario necessario dopo il lungo viaggio, dopo stress alto e paura. A Capalbio i migranti arrivati sono cinquanta e sono stati destinati solo profughi poeti che narrano delle danze tipiche del loro Paese e che sono emarginati dalla dittatura tribale a cui si sono ribellati non potendosi più barbaramente permettere un nuovo Mercedes o di non poter presentare il nuovo libro in giro per il mondo. Altrove in Italia, tutti gli altri. Il sindaco di Lampedusa, ex perla del mediterraneo, si unisce al coro dei colleghi di tutta Italia – che senza battere ciglio hanno ricevuto ordine dalla Prefettura di ospitare i poveri fuggiaschi dalle guerre -, dal centro al Sud, fino al Nord, dai paesini più poveri e isolati a quelli più espressivi a livello architettonico e storico, fino alle grandi città d’arte, in un appello: “Ha ragione il collega toscano. L’arrivo dei 50 (cinquanta) migranti nella sua città, potrebbe essere una “una catastrofe lesiva dell’appeal di Capalbio” – parola del sindaco PD Luigi Bellumori -. Fa bene a dirlo; fa bene a difendere la sua realtà e chi se ne frega delle nostre città, del nostro turismo, della nostra arte e della nostra capacità di fare cultura. Del decoro delle nostre comunità”. Proprio in seguito a quanto si apprende dall’agenzia ANSiA, abbiamo raccolto alcuni pareri. “Appena ricevuta la notizia dell’arrivo di questi poveri viaggiatori sono corso a casa, ho preso mia moglie per un braccio e mio figlio Ubaldo Jonah e gli ho detto: “dobbiamo lasciare casa. Dobbiamo andarcene ora!”. Non credevamo che questo problema potesse toccare anche a noi in Italia. Pensavamo fosse una cosa da Sud, da isole di prossimità, da paesini sperduti del centro o del nord Italia, quelli devastati dalle politiche governative; la nostra Capalbio e chi poteva immaginarlo. Che ne sarà dei nostri reading? E delle sedi delle nostre associazioni umanitarie, deserte? E delle degustazioni di Tofu, del teatro sperimentale? – ci racconta ancora atterrito Gian Maria Ipocriti, stimato medico del luogo -. “Abbiamo riflettuto sulle parole del sindaco. È da fascisti, suvvia, non accogliere, da figli del terzo Reich, quelli a cui toglierei il diritto di voto e di vita; ma noi qui non possiamo proprio permettercelo. Non possiamo!”, ci racconta Guidobaldo Pace. C’è anche chi, come Luigi Colpavostra, addossa le colpe di un simile problema alla politica e alla storia: “La colpa dell’arrivo di cinquanta migranti? Di Salvini, oggi, e delle politiche di Mussolini, ieri. Se non avesse bonificato le paludi pontine, con il conseguente arrivo di operai veneti, del nord Italia, di altre regioni, insomma, venuti a lavorare per vivere, tutto questo non ci sarebbe stato!”. Duilio Demo Crazia, conte capalbiese, dopo due aver dato due corpose boccate di pipa ci risponde: “Chi l’ha detto che immigrazione faccia rima con sicurezza, sostenibilità, assistenzialismo. Roba da fascisti! Prendete le parole (reali) del sindaco. La sicurezza? “Non potrà essere garantita dalla polizia municipale che conta un solo agente a tempo indeterminato e due vigili estivi con il sindaco che ha il ruolo di comandante”. Integrazione e sostenibilità? “Ho delle perplessità che una comunità possa accettare che per un cittadino di Capalbio vengono spesi 31,28 euro l’anno in spesa sociale e per i richiedenti asilo 32,50 euro al giorno”. Vedete? L’immigrazione non ha nulla a che fare con la sicurezza, la sostenibilità, non porta problemi! Prima gli italiani? Fascisti!”. “SulGiornale, quello dei nazimaoistiklingoniani, sì, proprio quello, addirittura si legge: “Tra i moventi del lamento capalbiese, c’è il fatto che i profughi siano sistemati in «ville di gran lusso» vicine «all’area più residenziale». «In 19mila ettari bisognava metterli proprio là?», ha chiosato il primo cittadino. Altra equazione «profughi-decoro». Morale: l’unico immigrato buono per Capalbio è la colf”. Ma vi rendete conto dove siamo arrivati?”, così Patrizio Pierre Libertà. Nel frattempo, il DCSAGdAdPC, il Dipartimento Centro Studi Associazione Gruppo di Amici del Politicamente Corretto, ente freschissimo, istituito nella notte tra il 14 e il 15 agosto, approfittando delle partenze intelligenti degli italiani, si esprime, in una nota, sull’annosa questione di Capalbio: “Quello dei migranti è un dramma. Eppure a Capalbio il mare è bello, le menti sono belle. Crediamo sia un peccato rovinare questa cartolina d’Italia con l’arrivo di un contingente di poveri viaggiatori del mare, ben 50, che pensiamo di destinare altrove, verso un’Italia più povera, in cui non ci saranno le principali basi strutturali per l’accoglienza ma ci sono maggiori spazi territoriali. Ribadiamo il nostro sdegno verso chi ritiene l’immigrazione un problema, verso quelle comunità che si lamentano di non riuscire ad integrare, di non averne gli strumenti per farlo. Una barbarie proprio nel corso del giubileo della Misericordia. Questi sono i nemici della modernità, della democrazia, del nuovo modo di stare al mondo e di essere più che fratelli: coinquilini”.

Brutti, sporchi e cattivi, scrive Giovedì 18 agosto 2016 Nino Spirlì su “Il Giornale”. Ebbene, ora che anche la sinistra radicale di Capalbio ha ricevuto la sgraditissima visita di questi clandestini puzzolenti, che scappano dalle loro bidonville, per venire a bivaccare in Italia, possiamo dire che la misura sia colma. Finché hanno rotto i coglioni ai poveracci italiani, quelli che non arrivano alla prima settimana, quelli che stanno duellando con equitalia da anni, quelli che stanno ancora pagando a rate di sangue il finto benessere post DriveIn e AsFidanken, quelli che hanno recuperato i nonni a casa e magnano con le loro pensioni sicure (per ora), quelli che non sanno più per chi votare dopo aver fatto tutto il giro delle setteliste, finché, dicevamo, i coglioni triturati erano i loro, c’era, ad ogni lamentela,  l’islamofobia, il razzismo, l’accoglienza necessaria, la fratellanza cattolica di parata di Francesco il gaucho, la xenofobia, il volemosebbenismo. I giornali addomesticati avevano scancellato (è italiano, è italiano: significa fare le cancella tipo ####### sulla parola sbagliata e si usava sulle pergamene. NdA) tutti i termini tipo negro, zingaro, beduino… Certo pretame da politburo, certo vescovame unto di compromesso massomafioso e grasso di soldi facili da finta fratellanza, certo papame da fotoromanzo l’hanno avuta facile. Perché il cuore del governo, non ancora in ferie, era dalla loro parte. “Seicento negri al 15! N’acqua minerale lisca al 23! 387 siriani al 19! Na pajiata ar 5! Na camionata de regazzini ar grand hotel! Ahò, portaje na cinquantina de mignotte nigeriane ar privé!…” Sembrava una comanda continua. Poi, il piede in fallo! Venti negretti, docciati, sanati e vestiti alla marinara vanno sistemati in un cinquestelle a Capalbio! Col Cazzo! Ma che stamo a scherzà??? Qua c’abbiamo in ferie milionarie tutta a nomenclatura der piddì!!!! Politisci, imprenditori, zozzone rifatte, gente che conta… Robba da villona de millemetriquadri! Che, fra l’altro, i loro stranieri ce l’hanno già: filippini per i tappeti e i mobili, moldave per i nonni, svizzere per i bambini, capoverdiani per le siepi, giamaicani per le signore (e i signori, diciamolo)… Che gli mandi, i negri d’Africa????? Quelli sdentati, che gli puzza il fiato di carie e hanno le pulci fra i ricci? Quelli che te ribartano i cassonetti e bruciano i materassi? Quelli che se credono sto par de ciufoli e parlano di uguaglianza e diritti umani????? Brutti sporchi e cattivi! Ecco cosa sono! Un ammasso di straccioni che non possono pretendere di venire ad abitare in un paradiso terrestre destinato solo a pochi, pochissimi, (non)eletti che hanno il diritto di rilassarsi prima delle fatiche autunnali: shopping stagionale, party referendari, riaperture di canottieri, palestre eterofrocie, discotroieche di vecchio conio e nuova stampa…No, ragazzi, non si può! Sti clandestini vanno freesbati da n’artra parte! Mò chiamo io a Roma… Pronto, ma che, state a scherzà??? … E viene fuori che, “Stai tranquillo: tutto sotto controllo! Mò basta lo diciamo noi, compagno! Mò bombardiamo pure noi! Non ve lo volevamo dire, per evitare il clamore, ma, sì ragazzi: in Libia je stamo a fa un culo così! Gli abbiamo mandato quelli dei Servizi. E pure qualche bombetta. E mica se fermamo! No, no. Mò li sterminiamo tutti. Intanto, abbiamo controllato i gommoni e, toh!, Ci abbiamo trovato un tunisino che voleva venire in Italia, diononvoglia a Capalbio, per fare l’attentato. Dunque, c’est fini! Che crociata sia! Questi pur di distruggere Capalbio, sarebbero capaci di venirci a pisciare pure davanti al portone del palazzo a Roma. Magari a defecare nel parchetto sotto casa. E senza raccogliere con la paletta e la bustina, come fanno i nostri filippini coi nostri bassotti… No, No, No! Vanno rimandati tutti a casaccia loro.” Ma pensa te: invadere Capalbio! Che idea malsana! Considerazioni agostane, a qualche metro dalla vergognosa tendopoli di San Ferdinando, Area Industriale Porto di Gioia Tauro, piena fino al vomito. Anzi, con la nuova, più accogliente, in fase di montaggio proprio di fronte…Puah! Tra me e me…

I profughi a Capalbio: l'ultima spiaggia della sinistra. Le villette destinate ai profughi a Capalbio. Il luogo simbolo dell'Italia radical chic doveva dare una risposta diversa, avrebbe dovuto aprire le porte, scrive Roberto Saviano il 19 agosto 2016 su "La Repubblica". Capalbio non è solo Capalbio. Ci sono luoghi che trascendono ciò che sono, smettono di essere definiti dalle piazze e dagli affreschi, non sono descritti nemmeno dai volti, dai palazzi o dalle scalinate ma diventano simbolo creato dall'immaginazione. Capalbio è uno di questi luoghi. Non è per la grazia del suo meraviglioso borgo, per la dolcezza della sua costa, o quantomeno non è più solo per la sua bellezza armoniosa che Capalbio campeggia nel nostro immaginario. Capalbio è la storia delle estati della nostra Repubblica: della prima, della seconda e adesso di questa indecifrabile terza. La piccola Atene - definizione romantica in cui Capalbio con un po' di civetteria si riconosce - dove nel tempo delle ferie si sono incontrati da sempre intellettuali, dirigenti di partito, imprenditori, giornalisti e artisti progressisti e di sinistra. Capalbio è divenuta - forse persino suo malgrado - il dolce ritrovo degli intellettuali. Parola che nel tempo della rabbia, che è il nostro tempo, sta subendo sui social network lo stesso destino semantico di "parlamentare" o "consigliere comunale" - per non parlare di "assessore": troppo spesso sinonimi, per le nuove generazioni, di élite. E quindi, immancabilmente, di corruzione. E che cosa ti combina l'"intellighenzia" di Capalbio? Che cosa si fa per spegnere la rabbia e il qualunquismo? I fatti sono noti. Profughi in fuga dalla guerra o semplici poveri cristi in cerca di un futuro migliore. Certo, come in ogni emigrazione da qualche parte si nasconderà anche qualche brutto ceffo (non siamo stati noi a regalare agli americani Al Capone e Lucky Luciano?). Certo, in questi giorni c'è l'allarme per le infiltrazioni jihadiste. Ma qui stiamo parlando di immigrati a cui è stato già riconosciuto appunto lo stato di profughi. A Capalbio, come a tanti altri comuni d'Italia, è stato chiesto di esserci, nel tentativo di arginare l'emergenza. Quindi ospitarne, nel caso, cinquanta. E che è successo? Capalbio ha fatto le barricate. Sì, il sindaco (per la cronaca, il piddino Luigi Bellumori) sarà anche stato inopportuno, comportandosi come qualsiasi sindaco di un piccolo centro turistico, protestando per la decisione del prefetto: terrorizzato magari che i migranti allontanino le famiglie, che i ristoranti si svuotino, che la spesa turistica diminuisca. Ma Capalbio non è solo Capalbio: non è un piccolo centro turistico come un altro. E proprio per questo la piccola Atene doveva rispondere diversamente: in nome della sua storia. Il flusso di migranti, ben poco a dire il vero, avrebbe dovuto essere al centro di una risposta intelligente come i suoi villeggianti. Di fronte all'emergenza, Capalbio avrebbe dovuto rispondere in tutt'altro modo: focalizzando la sua estate su questo tema, essendo questa terra di dibattiti e incontri. Il che non avrebbe voluto dire trasformare una legittima vacanza in penitenza. Né tanto meno ospitare i migranti nelle proprie case (richiesta subdolamente razzista che si diffonde come un morbo online a chiunque sostenga politiche d'accoglienza "portateli a casa tua"). Invece, col loro silenzio, gli intellettuali di Capalbio non hanno fatto che fornire munizioni ai soliti fustigatori dei Radical Chic. Ecco: Radical Chic l'espressione mutuata da Tom Wolfe è una accusa sempreverde al di là di qualsiasi riflessione seria sul caso. Si sa da dove deriva: ma è bene fare una veloce sintesi. Se potete, rifiondatevi su quel libro di Wolfe, Radical Chic, pubblicato in Italia da Castelvecchi (meraviglioso). È il reportage di una serata particolare. A New York. In casa di Leonard Bernstein: il grande direttore d'orchestra nonché autore di West Side Story. Tra gli ospiti, il regista da Oscar Otto Preminger e i leader dei Black Panthers. Il libro racconta come la moglie di Bernstein, in una casa lussuosissima, raccogliesse fondi per i combattenti delle Pantere Nere. Wolfe fa capire come in quella casa si respirasse quasi l'eccitazione per qualcosa di esotico, lontano e proibito. Il tutto sapeva di impostura: il gioco puramente intellettuale di chi, da lontano, prende parti che nella vita reale non è costretto a sostenere, di chi insomma nella propria posizione può permettersi di giocare con le idee, senza doverne pagare mai il prezzo. Questo e molto altro si conserva dunque in quelle pagine e nella definizione di Radical Chic. Ma da allora - era il 1970 - quel titolo viene ormai usato come uno slogan dispregiativo. Chiunque decida di vivere del proprio lavoro culturale e abbia posizioni progressiste e democratiche diventa "radical chic". Provare a ragionare su certi temi, provare a cercare la mediazione, subito viene etichettato come furbesco e ipocrita. Radical Chic oggi è uno slogan qualunquista. Un insulto generico. Il fatto è che questa volta Capalbio ha risposto esattamente come nelle pagine di Tom Wolfe si muovono gli intellettuali americani alle prese con i "pericolosi" ribelli: attraenti da lontano, disgustosi da vicino. Ora, i migranti destinati a Capalbio non saranno certo i nuovi Black Panters. E nelle villette sul mare in Toscana non svernano certo i nuovi Bernstein (o i nuovi Preminger). Ma non ci voleva neppure l'intelligenza di Tom Wolfe per comportarsi con più buonsenso. Non lo sanno, nella piccola Atene, che il disgusto più grande, nella gente, nasce proprio quando si vede il problema migrazione scaricato lontano dalle loro case e quindi piombato nelle periferie? I loro figli, nelle scuole che frequentano, forse non si imbattono in quelle classi formate per la maggior parte da bambini immigrati. Le spiagge che frequentano - come la ormai mitica "Ultima spiaggia" - non sono come le spiagge libere e popolari piene di famiglie d'ogni cultura. Molto più facile - dicono i delusi dalla risposta di Capalbio - parlare di integrazione quando i problemi sono lontani. Non la vivono, i sostenitori dell'integrazione, la difficoltà dell'integrazione. Ecco perché da Capalbio ci si sarebbe aspettati una reazione diversa. Avete presente l'immagine dei migranti che entrano nella stazione di Monaco accolti dalla gente? Ricordate il milione di euro raccolti, sempre a Monaco, non dai circoli intellettuali (che pure tanto si sono impegnati e schierati) ma dagli ultras del Bayern? Certo: Capalbio non è Monaco. Ma tanto più dopo questa brutta storia non è più solo Capalbio. La piccola Atene avrebbe potuto fare la differenza. Che delusione invece questo silenzio di tutti gli intellettuali - quasi tutti: Asor Rosa è stata una delle pochissime eccezioni. Che vergogna vedere non "l'intellighenzia" ma l'intelligenza andare in vacanza. E nascondersi.

Quel "poverino" del colonnello dell'Isis. Così i compagni italiani lo difendevano, scrive “Libero Quotidiano” il 19 agosto 2016. C'è un filo nero che collega l'estremismo islamico e i militanti anarchici e neobrigatisti italiani. Un collegamento raccontato anche dalle lettere che il colonnello dell'Isis arrestato in Libia, Fezzani Moez Ben Abdelkader, detto anche Abu Nassim, scriveva agli "amici", i compagni anarchici attivi a Milano. Abu Nassim era stato arrestato a maggio 2010 e detenuto nel carcere di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Il destinatario delle sue lettere era l'associazione Ampi orizzonti, che ha inserito le carte nel dossier "è Ora di Liberarsi dalle Galere", con il quale gli anarchici milanese fanno controinformazione sullo stato delle carceri. I punti in comune tra le rinascenti Br e i terroristi islamici stanno tutti nella lotta all'imperialismo americano e contro la misura dell'isolamento nelle carceri. Per i compagni italiani, gli estremisti islamici sono "prigionieri di guerra arabi". Nel dossier "Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per araboislamici" del 2014 c'è la rappresentazione plastica del legame tra i due mondi, considerando che il dossier porta le firme dei principali "prigionieri politici" rossi come Alfredo Davanzo e Claudio Latino. Dal carcere di Siano, in provincia di Catanzaro, scrivono: "Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano". Per far breccia nei cuori dei compagni italiani, Abu Nassim aveva raccontato il suo curriculum carcerario. Quegli ultimi sette anni passati a Bagram, in Afghanistan, prigioniero dell'esercito americano, lo hanno reso praticamente un martire: "Ero legato al muro con i ferri - racconta in una lettera agli amici italiani - come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all'asilo politico, perché dopo 7 anni nell'inferno di Bagram sono stato considerato innocente". Quando è tornato in Italia, Abu Nassim è stato espulso nel 2013, prima della condanna. In Tunisia ha fatto carriera tra le fila dell'esercito del Califatto, fino a toccarne i vertici.

Quegli strani rapporti tra jihad, Br e criminalità. Una lettera di Abu Nassim su una rivista rossa. Solidarietà ai detenuti islamici dai brigatisti, scrive Luca Fazzo, Sabato 20/08/2016, su "Il Giornale". L'emersione del cosiddetto «fondamentalismo islamico è solo una spia della rinascita di una civiltà di antiche e inestirpabili radici, dove la religione è etica, diritto, prassi politica»: bisogna partire da questa analisi, ospitata da uno dei siti di punta della sinistra antagonista italiana, per capire dove appoggi uno dei fenomeni più inverosimili della emergenza terrorismo in Italia: la saldatura tra gli ambienti dell'integralismo islamico e l'universo antagonista e insurrezionalista. Nelle carceri e fuori dalle carceri, i fanatici della jihad intrecciano legami con i fanatici della lotta armata made in Italy, dagli ultimi avanzi delle Brigate Rosse al magma anarchico e autonomo. Una intesa saldata da alcune parole d'ordine comuni: la battaglia contro il capitalismo occidentale e l'odio verso Israele, spesso tracimante in antisemitismo. In nome della lotta ai nemici comuni, i rivoluzionari nostrani non disdegnano il dialogo con chi decapita omosessuali e adulteri. A rilanciare l'allarme su un fenomeno già noto alle forze di polizia sono le lettere pubblicate ieri sul Corriere della sera scambiate in carcere tra Moez Fezzani, il terrorista espulso dall'Italia dopo una assoluzione campata per aria e ora catturato in Libia, e ambienti estremisti italiani. In particolare il quotidiano milanese cita una missiva inviata da Fezzani (alias Abu Nassim) e pubblicata da Altri orizzonti, la rivista anarchica dedicata al mondo delle carceri. La lettera viene inviata dall'islamico alla rivista nel 2010, dopo che Fezzani - a lungo rinchiuso nel carcere americano di Bagram - era stato consegnato all'Italia. Interessante il luogo di provenienza: Fezzani scrive da Rossano, il carcere calabrese di alta sicurezza dove il ministero concentra tutti i detenuti islamici considerati a maggiore rischio di militanza jihadista. In teoria, la corrispondenza degli estremisti detenuti a Rossano dovrebbe essere soggetta a censura preventiva. Ma la lettera in cui Abu Nassim denuncia presunte torture riesce a superare i varchi di censura e viene ricevuta e pubblicata da Altri orizzonti insieme a quelle di altri detenuti politici. Di rimando, nel 2014 dal carcere di Siano dove sono detenuti i capi delle «nuove Br» arriva il documento di solidarietà ai detenuti islamici, un dossier intitolato Le Guantanamo italiane in cui i terroristi rossi denunciano le condizioni in cui sarebbero detenuti i terroristi islamici. Nel documento, i Br sentono il dovere di prendere in parte le distanze dagli aspetti più integralisti della ideologia islamica. Ma si tratta di dettagli su cui i rivoluzionari italiani sono pronti a sorvolare senza fatica in nome della comune battaglia antimperialista: come sintetizza un titolo di un documento della Organizzazione comunista internazionalista, Dalla bandiera rossa alla bandiera verde per stato di necessità. Ad approfondire le basi ideologiche di questa alleanza basta leggere quanto il leader dei «Comunisti-marxisti leninisti» Giovanni Scudieri: «Il nostro posto attuale è al fianco di chi combatte l'imperialismo che è il nemico comune di tutti i popoli del mondo. Lo Stato islamico non vuole che l'imperialismo sia il padrone dell'Irak, della Siria, del Medioriente. Nemmeno noi lo vogliamo, quindi non possiamo non appoggiarlo». E sul sito campoantimperialista.it troneggia il titolo Rivolta islamica: un 11 settembre di massa, sotto cui si legge addirittura: «Il salafismo combattente, ancorché sconfitto, come l'araba fenice risorgerà dalle sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l'imperialismo dominerà il mondo». Insomma: privi di prospettive, davanti alla disarmante sordità delle masse popolari italiane ai loro proclami, i rivoluzionari di casa nostra cercano interlocutori più attivi nella galassia islamica. E a quanto pare, come dimostrerebbe la lettera di Fezzani, trovano disponibilità al dialogo. Un'alleanza potenzialmente assai pericolosa, che lo diverrebbe ancora di più se dai messaggi da una cella all'altra e dai ponderosi documenti ideologici si passasse ad una contiguità operativa. Di questa per ora non c'è traccia. A differenza di quanto emerso in alcuni casi di dialogo tra organizzazioni islamiche e ambienti legati alla criminalità organizzata: ma questo è un altro film. 

Il detenuto Moez era il «povero amico» di anarchici e brigatisti. Lettere dal carcere italiano del reclutatore Abu Nassim. Islamisti e «compagni» uniti nella lotta antimperialista. «Mi sveglio sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite», scrive Gianni Santucci il 19 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Rivolgendosi ai nuovi «compagni», anarchici e neobrigatisti, si firma così: «Il vostro povero amico Moez, che si sveglia sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite». La lettera viene spedita dal carcere di Rossano Calabro (Cosenza). È datata 30 maggio 2010 e arriva a Milano poco dopo. Il «povero amico» è Fezzani Moez Ben Abdelkader (detto Abu Nassim): oggi colonnello dell’Isis in fuga dalla Libia. Secondo alcune fonti, non confermate, Fezzani sarebbe stato arrestato qualche giorno fa, ma è interessante sapere chi sono gli «amici» a cui scriveva prima della condanna e l’espulsione dall’Italia (nel 2013). Abu Nassim indirizzò la sua lettera all’associazione «Ampi orizzonti», che l’ha inserita in un ampio dossier «OLGa» («è Ora di Liberarsi dalle Galere»): il bollettino anti carcerario degli anarchici milanesi. Quel fascicolo racconta l’abbraccio solidale che, da un decennio, lega i «neri» e le nuove Br ai terroristi islamisti (definiti «prigionieri di guerra arabi»). Si sono ritrovati «compagni di strada» su un terreno comune: contro «l’imperialismo americano» e i reparti di isolamento nei penitenziari italiani. La testimonianza più profonda di questo legame sta in un’altra lettera di solidarietà ai condannati islamisti, anch’essa contenuta nel dossier «Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per arabo-islamici» (2014), che porta la firma dei maggiori «prigionieri politici» delle Nuove Brigate Rosse (tra cui Alfredo Davanzo e Claudio Latino). Pur chiarendo che «ci distingue la concezione del mondo», dal carcere di Siano (Catanzaro) affermano: «Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano». L’isolamento dei condannati islamisti ha un obiettivo primario: contenere il reclutamento in carcere dei detenuti per reati «comuni». Abu Nassim si radicalizzò nella moschea di viale Jenner nel 1993. Partì come mujaheddin per la guerra in Bosnia. Tornato a Milano, divenne un reclutatore per l’invio di combattenti di Al Qaeda in Afghanistan. Poi si spostò a fare lo stesso «mestiere» in Pakistan, dove venne fermato dagli americani e tenuto per 7 anni a Bagram. Ai «compagni» anarchici e comunisti raccontava questa esperienza: «Ero legato al muro con i ferri, come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all’asilo politico, perché dopo 7 anni nell’inferno di Bagram sono stato considerato innocente». Riconsegnato all’Italia ed espulso prima della condanna, dalla Tunisia Abu Nassim ha scalato le gerarchie dell’Isis. L’abbraccio con gli estremisti italiani è stato politico, mai «operativo». Nell’ambiente anarchico e neobrigatista c’è stato un duro dibattito interno sull’amicizia con i «compagni (islamisti) che sbagliano».

Artigli e passamontagna. Ecco come i «pacifisti» aiutano i clandestini. Spranghe, coltelli e un artiglio da film horror sequestrati ai "No border" a Ventimiglia. Gabrielli: "Professionisti dell'agitazione", scrive Stefano Zurlo, Martedì 09/08/2016, su “Il Giornale”. Un'arma degna di Wolvwerine o di Freddy Krueger. Sembra di stare dentro una scena da incubo della saga horror di Nightmare, invece siamo alla frontiera di Ventimiglia. Dove l'Europa va in frantumi, i migranti si accatastano, i No Borders soffiano sul fuoco. Otto arresti, sette francesi e un'italiana residente a Parigi, ma soprattutto un catalogo impressionante di armi: un guanto con punte acuminate modello X-Men, coltello da rambo con lama di 30 centimetri, mazze, tubi di plastica da maneggiare come manganelli, cappucci. Il kit del perfetto dimostrante che si schiera al fianco dei disperati arroccati in attesa di un domani sugli scogli dei Balzi Rossi, ma poi distribuisce violenza, prima di giocare la solita parte della vittima. Insomma, il classico «pacifista» armato. Nessuno vuole colpevolizzare le idee, ci mancherebbe. Gli antagonisti e i centri sociali hanno tutto il diritto di dare voce alle proprie opinioni, ma troppe volte il copione deraglia. Qui, con 600 persone bloccate a un passo da Mentone e dall'agognata Francia, arriva l'imprevisto che sconvolge i piani di guerriglia: sabato sera un agente, Diego Turra, muore d'infarto sulla prima linea della protesta. I No Bordes, spiazzati, annullano il corteo previsto e mettono le mani avanti: «Non vogliamo cadere in trappola. Non c'entriamo nulla con quella morte, avvenuta per cause naturali mentre i suoi colleghi ci inseguivano e ci picchiavano». Fermi e fogli di via disegnano uno scenario assai diverso. Ci sono tutti gli strumenti classici per imbastire un pomeriggio di terrore, ambientato non più nel cuore di Milano o in Val di Susa, ma dove Italia e Francia s'incontrano. Al crocevia di una politica sempre più impotente. «E' lo stesso meccanismo che abbiamo visto tante volte con i Black Blok - dicono gli agenti che stanno monitorando il fenomeno - italiani o francesi non importa: si organizzano e si danno appuntamento nei luoghi più problematici per alimentare la tensione». Angelino Alfano, in un'intervista a Repubblica, sconfina attribuendosi meriti straordinari: «Se Ventimiglia non è fin qui diventata una Calais italiana lo si deve al fatto che abbiamo realizzato controlli». Ma le sue parole roboanti non tranquillizzano. Anzi. Il Governatore della Liguria Giovanni Toti denuncia «la situazione ormai insostenibile a Ventimiglia, dove serve subito un intervento fermo e deciso del governo con l'identificazione degli immigrati e il pugno duro con i No Borders che, irresponsabilmente, aggiungono tensioni a tensioni». Sulla stessa lunghezza d'onda, anzi più in là, il senatore forzista Maurizio Gasparri: «Il Governo sta drammaticamente sottovalutando la situazione a Ventimiglia. Ci aspettiamo l'allontanamento immediato dalla città di tutti i clandestini e fermezza contro i provocatori». Il capo della polizia Franco Gabrielli dosa i concetti come un politico consumato: «Intensificheremo le operazioni di decompressione, in modo da alleggerire la pressione nell'area. E alleggerire la pressione significa prendere le persone e portarle da un'altra parte». Poi si concentra sulla protesta: «I No Borders sono professionisti dell'agitazione, ma - aggiunge subito - addebitare a loro la morte di Turra è un esercizio poco serio». Un punto che tutti condividono. Ma che non cancella il malcontento: mentre l'Europa si scioglie, gli agenti sono sempre più vecchi, mal pagati, peggio equipaggiati. E devono fronteggiare, in quel lembo estremo d'Italia, anche il rischio che qualche terrorista si mescoli ai profughi.

Tra islamici e anarchici il lato «oscuro» degli attivisti. I legami internazionali del movimento anti-confini sotto la lente degli investigatori. Le prove dei video, scrive Fausto Biloslavo, Martedì 09/08/2016, su "Il Giornale". Gli attivisti «No Borders» hanno dei lati oscuri e dei collegamenti internazionali sotto la lente degli investigatori. Non si tratta solo della solidarietà estrema ai migranti «nelle loro pratiche di resistenza e violazione dei confini attraverso le frontiere interne ed esterne dell'Europa», come dichiarano gli stessi attivisti. Mohamed Lahaouiej Bouhlel, che ha falciato con un camion 84 persone a Nizza, è stato ripreso in un video e identificato dalla polizia a Ventimiglia nel giugno dello scorso anno. Il futuro stragista islamico partecipava ad una manifestazione pro migranti assieme all'associazione «Cuore della speranza» con base a Nizza. Il gruppo pseudo caritatevole era gestito da estremisti salafiti, che accoglievano e aiutavano soprattutto profughi o clandestini musulmani. Le foto sul profilo Facebook mostrano la mobilitazione a Ventimiglia e personaggi con il barbone islamico d'ordinanza che alzano un dito verso il cielo per indicare la volontà e la potenza di Allah. Nonostante l'inquietante commistione gran parte degli antagonisti «No Borders» italiani, che negli ultimi giorni si sono mobilitati dai centri sociali della Liguria, Piemonte e Lombardia hanno simpatie e agganci anti Stato islamico. I loro riferimenti sono i miliziani curdi di estrema sinistra del Ypg, che combattono nel nord della Siria contro l'Isis. Lo dimostra uno dei loro siti di riferimento, InfoAut, con tanto di stellina rossa. Sul blog di contro informazione si legge: «Il ruolo preposto dall'Unione europea all'Italia per i prossimi anni è quello di essere un deposito di materiale umano sfuggito alle guerre umanitarie dell'Occidente e alla sistematica spoliazione delle risorse dei paesi del sud globale che hanno subito gli ultimi decenni di «aiuto allo sviluppo». La «resistenza» pro migranti e contro i confini è pan europea. In marzo attivisti «No Borders», anche italiani, hanno fomentato i migranti rinchiusi nel campo greco di Idomeni distribuendo volantini con indicato un tragitto per raggiungere la Macedonia. Il risultato è stata la reazione della polizia con scontri ed arresti. Dallo scorso anno il movimento «No ai confini» influenzato dalla sinistra antagonista si è mobilitato da Ventimiglia a Calais, dove sono state arrestate e poi rilasciate tre attiviste italiane che studiano a Parigi. Chi paga proteste e mobilitazioni? Ufficialmente i soldi vengono raccolti in rete con il crowdfunding, ma da noi la campagna pro migranti è ampiamente rilanciata sul sito Melting Pot Europa. Lo sponsor del sito è l'Istituto nazionale assistenza ai cittadini (Inac). Un patronato «da oltre 40 anni impegnato nel sociale» e promosso dalla Confederazione italiana agricoltori, che fornisce assistenza gratuita agli immigrati per il rilascio del permesso di soggiorno o le pratiche del ricongiungimento familiare. Dalla scorsa estate volontari pro migranti italiani e di mezza Europa hanno fornito assistenza non solo umanitaria, grazie a mappe scritte anche in arabo con indicazioni precise sulle rotte, passaggi e sotterfugi per raggiungere soprattutto la Germania. Via twitter con gli hashtag #Crossingnomore o #marchofhope e WhatsApp hanno indirizzato migliaia di migranti verso determinati punti di frontiera per cercare di sfondarli. La rete «No Borders», infiltrata dagli anarchici, «è uno strumento per i gruppi e le organizzazioni di base a favore dei migranti e dei richiedenti asilo - si legge sul web - al fine di lottare al loro fianco per la libertà di movimento». Alcuni gruppi europei anti confini o Stop Deportation hanno piani più aggressivi. Le compagnie aeree come Lufthansa, Air France, Swissair, Sabena, British Airways, Iberia e pure le agenzie di viaggio sono finite nel mirino perché «deportano» i clandestini. I campi pro-migranti come quello di Ventimiglia, già organizzati in Slovacchia, Germania, Polonia, Sicilia e Spagna, sono un altro tassello del piano pro «invasione». Ulteriori azioni prevedono l'«evasione dai centri (di accoglienza nda), la loro distruzione o la lotta contro le nuove costruzioni». Dopo Ventimiglia il passaggio ad azioni violente è dietro l'angolo.

PROFUGHI, ISLAM E CENSURA.

Padre Rebqwar scuote il Meeting: "Sull'islam dovete dire la verità", scrive Franco Bechis il 22 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. "Sul rapporto con l'Islam bisognerebbe smetterla con il politically correct per non urtare sensibilità. L'unico criterio possibile per parlarsi èla verità, non nascondere i fatti come si fa con la polvere sotto il tappeto". Padre Rebwar Basa è un iracheno di 38 anni, nato ad Erbil e ordinato sacerdote nel monastero di San Giorgio a Mosul. Un religioso nella polveriera di questi anni, che ha vissuto in un Iraq dove i cristiani sono sempre più minoranza, perseguitata da tutti i gruppi islamici del paese e con una vita resa difficile anche dal potere ufficiale. Al Meeting di Rimini per tre giorni è venuto a raccontare la sua storia a chi visita la mostra sui martiri cristiani organizzata dalla onlus Aiuto alla Chiesa che soffre. È stato protagonista di un episodio che mai si era verificato al Meeting di Rimini: un testimone oculare di stragi che racconta la propria storia e che viene messo in discussione, ritenuto inattendibile dal pubblico che ascolta. L'ho filmato durante quel braccio di ferro con il pubblico, e lui ha tenuto botta: "Ogni tanto leggo che i cristiani sarebbero vittime collaterali di un conflitto. No, non è così: sono l'obiettivo principale. C'è una persecuzione che è anche un genocidio, e di questo dobbiamo parlare". Il pubblico rumoreggiava, contestava apertamente. Padre Rebwar con calma ha replicato: "Non vi fidate di me? Non ci credete? Potete anche approfondire: ci sono mass media, ci sono libri, ci sono altri testimoni. Potrete informarvi. Però qui spesso si ha paura di parlare per non toccare la sensibilità di altre religioni, di non dire questo, non dire quello. E state vedendo grazie a questo atteggiamento come è diventata la situazione dell'Europa, dove siete la maggioranza come cristiani e vivete in allerta. Immaginate cosa si vive da noi in Iraq, dove siamo lo 0,5% della popolazione. Qui da voi ci sono ragazzi dell'Islam che partono per andare a combattere in Iraq e in Siria, pronti a morire. E i vostri giovani non sono pronti nemmeno più a partecipare a una Santa Messa”. Il giorno dopo gli ho chiesto se era stupito di questa incredulità. Mi ha fatto capire di no, che non è la prima volta. Ho sentito le sue parole vibranti sugli errori dell'Occidente, ma lui ora quasi se ne ritrae: "Voi in Occidente siete molto più sviluppati che da noi, non posso dirvi cosa dovete fare. Secondo me c'è un solo criterio per giudicare quel che sta avvenendo: la libertà. Dove la libertà è assicurata, non c'è conflitto, non c'è ingiustizia. Ma per esserci libertà bisogna che una minoranza possa vivere in pace, e da noi questo non accade. L'Islam è una religione, che però spesso viene catturata dalla ideologia che lo rende radicale. I giovani che corrono a combattere con l'Isis sono vittime di questi islamici che gli insegnano l'odio, dicono loro di non accettare le diversità, di considerare gli altri infedeli. E quell'odio diventa persecuzione nei nostri confronti. Questo bisogna saperlo...". Franco Bechis.

Al Meeting di Rimini di CL. Oltraggio alla statua della Madonna: come l'hanno ridotta (per gli islamici), scrive “Libero Quotidiano" il 20 agosto 2016. La statua della Madonna nascosta per non urtare la "sensibilità" dei fanatici islamici. Anzi, per evitare che qualcuno, magari un lupo solitario ispirato dall'Isis, possa dare di matto e fare qualche gesto inconsulto. Il clima di terrore si è diffuso anche al Meeting di Comunione e Liberazione. Un video di RepubblicaTv svela cos'è successo nello stand della casa editrice Shalom, dove si vendono libri religiosi, rosari, poster e oggetti sacri. Qui però sulla statua della Vergine è stato posto un telo azzurro: "È per questi attacchi che stanno facendo. Loro hanno un odio verso la Madonna e quindi, per evitare, l'abbiamo coperta - spiega davanti le telecamere la responsabile dello stand -. La dovevamo togliere, addirittura perché qui ci sono tante religioni. Non era mai successo, avevamo dei quadri qui che ci hanno fatto togliere. È per evitare degli scontri". Il finale è all'insegna di un'amara ironia: "La Madonna è stata messa in castigo e ha accettato perché è umile. Ogni tanto la vengo a consolare".

Filippo Facci il 28 luglio 2016 su “Libero Quotidiano” svela il vero volto dell'Islam: "Perché lo odio". Odio l’Islam. Ne ho abbastanza di leggere articoli scritti da entomologi che osservano gli insetti umani agitarsi laggiù, dietro le lenti del microscopio: laddove brulica una vita che però gli entomologi non vivono, così come non la vivono tanti giornalisti e politici che la osservano e la giudicano dai loro laboratori separati, asettici, fuori dai quali annasperebbero e perirebbero come in un’acqua che non è la loro. È dal 2001 che leggo analisi basate su altre analisi, sommate ad altre analisi fratto altre analisi, commenti su altri commenti, tanti ne ho scritti senza alzare il culo dalla sedia: con lo stesso rapporto che ha il critico cinematografico coi film dell’esistente, vite degli altri che si limita a guardare e a sezionare da non-attore, da non-protagonista, da non vivente. Ma non ci sono più le parole, scrisse Giuliano Ferrara una quindicina d’anni fa: eppure, da allora, abbiamo fatto solo quelle, anzi, abbiamo anche preso a vendere emozioni anziché notizie. Eccone il risultato, ecco alfine le emozioni, le parole: che io odio l’Islam, tutti gli islam, gli islamici e la loro religione più schifosa addirittura di tutte le altre, odio il loro odio che è proibito odiare, le loro moschee squallide, la cultura aniconica e la puzza di piedi, i tappeti pulciosi e l’oro tarocco, il muezzin, i loro veli, i culi sul mio marciapiede, il loro cibo da schifo, i digiuni, il maiale, l’ipocrisia sull’alcol, le vergini, la loro permalosità sconosciuta alla nostra cultura, le teocrazie, il taglione, le loro povere donne, quel manualetto militare che è il Corano, anzi, quella merda di libro con le sue sireh e le sue sure, e le fatwe, queste parole orrende che ci hanno costretto a imparare. Odio l’Islam perché l’odio è democratico esattamente come l’amare, odio dover precisare che l'anti-islamismo è legittimo mentre l’islamofobia no, perché è solo paura: e io non ne ho, di paura. Io non odio il diverso: odio l’Islam, perché la mia (la nostra) storia è giudaica, cattolica, laica, greco-latina, rousseiana, quello che volete: ma la storia di un’opposizione lenta e progressiva e instancabile a tutto ciò che gli islamici dicono e fanno, gente che non voglio a casa mia, perché non ci voglio parlare, non ne voglio sapere: e un calcio ben assestato contro quel culo che occupa impunemente il mio marciapiede è il mio miglior editoriale. Odio l’Islam, ma gli islamici non sono un mio problema: qui, in Italia, in Occidente, sono io a essere il loro. Filippo Facci

IL RAZZISMO AL CONTRARIO.

Vergognoso il razzismo anti-italiano del Governo, scrive Andrea Pasini il 23 agosto 2016 su “Il Giornale”. “Ma, detto con grande serenità, che cosa dobbiamo fare di più noi italiani nei confronti degli immigrati” si chiede laconico, qualche tempo fa, il direttore Alessandro Sallusti su la prima pagina de Il Giornale. Con Mare Nostrum e l’operazione Triton siamo andati a raccogliere i clandestini in mezzo al mare. Con i centri d’accoglienza li abbiamo accolti, sfamati e vestiti per sentirci dire che il popolo italiano non è nient’altro che razzista. La lista continua e ai rom, che spesso mi capita di citare, consentiamo di non pagare le tasse, di vivere in campi abusivi e senza la minima norma igienica. Agli islamici invece consentiamo di dettarci le regole, vedendo costruire moschee ad ogni latitudine della penisola senza sapere da dove provengono, in maniera precisa, i contributi che servono a finanziare l’edificazione di questi luoghi di culto. Una dinamica che non sta né in cielo, né in terra. Il tutto mentre gli italiani vittime di calamità naturali vivono ancora dentro a delle baracche a distanza di decenni. Gli anziani “campano” con 300 euro al mese di pensione, anche se le indagini Istat parlano di un pensionato su due che vive con più di 1000euro al mese di vitalizio miraggi da terzo millennio,­ morendo di fame. I giovani valorosi, con lauree e voglia di fare, si vedono il futuro sottratto perché davanti a loro, sulla corsia di sorpasso preferenziale, passano gli incapaci, ma amici degli amici. Qualche tempo fa ci siamo imbattuti nella morte di Emmanuel Chidi Namdi, l’immigrato deceduto a Fermo in seguito ad una rissa con Amedeo Mancini. Il fermano è già stato bollato dalla stampa come estremista di destra ed ultras per questo razzista e colpevole. Ben prima che la Magistratura faccia il suo corso. Si è detto che Mancini avesse insultato razzialmente il nigeriano e ne sarebbe nata una colluttazione, ma la testimone, la cui voce è stata messa in dubbio ripetutamente, Pisana Bachetti ha visto l’africano, che era accompagnato dalla consorte, aggredire l’italiano. Al funerale tutti gli alti funzionari da Laura Boldrini a Maria Elena Boschi. Ma costoro dov’erano agli estremi onori delle vittime di Dacca? Erano presenti al servizio funebre del giovane ternano, David Raggi, sgozzato da un marocchino irregolare sul suolo italiano con precedenti penali? Le parole della vedova del macellaio Pietro Raccagni, ucciso due anni fa da quattro immigrati clandestini albanesi, fanno raggelare il sangue: “noi discriminati dal governo”. Proprio così perché nessun politico parlò di razzismo in questi casi da me citati. Nessun presidente della Camera si recò ai funerali di questi uomini. Nessun anima pia della lotta all’antirazzismo spese una parola per questi italiani. Vittime di serie A e di serie B, ma per loro saremo sempre e solo vittime di serie B. “Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”. Inizia così la seconda parte dell’inno d’Italia e i doppiopetto della politica esercitano questa parole a meraviglia.

Si sta rompendo il patto sociale vigente in Italia. Si sta cercando di scardinare ogni appiglio di questa nazione, ogni speranza di rivalsa. Le famiglie italiane si impoveriscono giorno dopo giorno, gli imprenditori, le partite Iva e i commercianti lottano contro una burocrazia fattasi pachiderma che costringe i lavoratori a pagare il 60% delle loro entrate sotto forma di tasse. Le nostre forze dell’ordine sono senza mezzi, senza dignità e lasciati senza fiducia nella lotta che li vede contrastare il crimine in ogni angolo dello stivale. Immaginate voi, per pochi spiccioli, di combattere il male riversatosi su questa nazione e di dover essere schiacciati ed usurpati da chi ci comanda. Una pazzia. Il sistema sanitario è al collasso. La sanità è sempre stato un vanto tutto italiano dai medici ai primari passando per gli infermieri capaci e volenterosi di dare dignità al malato in ogni istanza. Mentre oggi per una visita specialistica, che può fare la differenza tra la vita e la morte, bisogna aspettare mesi, se non mesi anni. E il pronto soccorso? Si entra la mattina e si esce la notte, il tutto mentre ai clandestini vengono gettati a terra tappeti rossi e privilegi. La sanità va a pari passo con le case popolari e a soccombere sono, tra un incartamento e l’altro, i nostri concittadini. Vittime di attese e scavalcati da ogni lato dagli altri, che vengono prima ce lo dice il governo. Per non farci mancare nulla ovviamente l’orco brutto e cattivo della fiaba siamo noi, che non abbiamo cuore, che non ci doniamo come dovremmo. Per Papa Francesco “Dio è nei migranti”, ma non esiste per i padri divorziati che dormono in macchina per dare un futuro ai propri figli. Per chi raccoglie nella spazzatura un torsolo di mela pur di mangiare qualcosa. Per quegli italiani in fila al dormitorio che non vogliono passare una notte su di una panchina. Per il nostro vicino di casa senza lavoro che non vede un domani e pensa al suicidio. Dio per questa gente, secondo l’attuale Chiesa, si è voltato dall’altra parte. La saliva dei politici e dei prelati continua a dirci che dobbiamo accogliere i clandestini in casa nostra, che dobbiamo sostenere le comunità disagiate provenienti da ogni lato del mondo, che, come direbbe Nichi Vendola, dobbiamo abbracciare “i nostri fratelli rom e i nostri fratelli mussulmani”, che l’integrazione è fondamentale. Ma chi siede sui banchi di Montecitorio o a palazzo Madama che esempio dà? Nessuno, si sono adagiati sulla riva del mare per vedere affondare questa nazione, al fresco, visto il periodo di canicola, delle loro laute ricompense. Date il buon esempio e accoglieteli nelle vostre regge, spalancate i conventi per ospitare e mantenere tutti i clandestini presenti in Italia. Essere bravi a parole non vale nulla è troppo facile. Prima gli italiani, bisogna gridarlo in ogni piazza, perché gli interessi di questa nazione vengono prima di qualunque altra cosa. Gli italiani tutti i giorni si rimboccano le maniche e fanno sempre di più di quello che dovrebbero fare. Tutti i giorni devono cercare di sbarcare il lunario per pagare tasse su tasse, senza ricevere in cambio niente, nessun servizio, nessuna tutela, nulla di nulla. Ma attenzione, siamo stanchi di farci derubare dei nostri soldi che vengono utilizzati per mantenere chiunque l’importante è che non sia italiano. Ed avete la faccia tosta di chiamarci razzisti? Come osate? La classe dirigente di questo paese si deve vergognare, dovrebbe rappresentare con onore il popolo italiano e invece tutti i giorni lo offende, lo accusa, lo processa e soprattutto lo sfrutta. I veri razzisti siete voi. Basta con la discriminazione anti-italiana, basta con questa classe politica costituita da incapaci e traditori.

Italicidio. L’Italia è gli Italiani. Non tutti gli italiani sono l’Italia, scrive Nino Spirlì il 22 agosto 2016 su “Il Giornale”. « …Vergine Augusta e Padrona, Regina, Signora, proteggimi sotto le tue ali, custodiscimi, affinché non esulti contro di me satana, che semina rovine, né trionfi contro di me l’iniquo avversario » (S. Efrem) Italicidio, direi. Sì. Tanto per scimmiottare i neologisti dello specifico spasmodico. Morte della mia Patria, aggiungerei, pensando a mio Nonno Nino Spirlì, Vero Cavaliere di Vittorio Veneto e a Zio Giacomo Mangialardo, Camicia Nera fino all’estremo sacrificio. Assassinio della mia Terra, della mia Gente, della nostra Identità e della nostra Cultura, per mano sporca di schiavisti vestiti da cherubini. Per mano di trafficanti di libbre di carne umana, in cambio di strapotere occulto. Di vile denaro, lordo di sangue di innocenti e di pianti di italiani abbandonati a se stessi, mentre i macellai ci sgozzano come agnelli sacrificali e il papampero li incoraggia con la stupida e ottusa falsa accoglienza che gli fa cassa, eccome! Martirio della nostra Storia e della nostra Fede Cristiana, la quale, volenti o nolenti, è Radice inconfutabile della nostra Civiltà. Gesù Nazareno nacque Uomo, accolse la Legge degli uomini e il volere del Padre, e tracciò per noi, con la vita, la morte e la rinascita, il tempo e la strada da seguire. Che piaccia o no ai maomettani e similari, ai senzadio nostrani e ai disattenti politicanti da selfie tamarro, Cristo è Padre, Fratello e Signore dell’Occidente e degli uomini liberi di tutto il mondo. A Lui dobbiamo. Quando la nostra Civiltà e il suo progresso vengono schiaffeggiati, derisi, violati, uccisi, viene commesso reato e peccato. Insieme. Perché noi siamo così come siamo proprio perché Cristiani. E soprattutto i Cristiani non dovrebbero uccidere i Cristiani. Mentre sono proprio certi cristianoidi, bugiardi nella fede e nella dignità, che stanno aprendo le porte al maiale di troia (perché della nobiltà del cavallo nulla ha, questo nuovo strumento d’invasione), affinché dalle sue viscere si liberi quel fango violento che ci vorrebbe spazzare via dalla nostra Casa. L’Italia uccide l’Italia. Il Palazzo vende la carne del Popolo alle mafie e ai menzogneri di tutto il continente africano. Assassini, ladri, truffatori, pedofili, femminicidi di ogni stato del continente nero salgono sulle carrette del mare e si vomitano in Italia, senza un pezzo di carta che attesti chi siano e che cazzo vogliano da noi… Brutti nel corpo e nell’anima, sporchi nella dignità e nelle speranze, cattivi nella mente e nel cuore, sbarcano e si sentono padroni feroci. Anche delle nostre esistenze, che qualcuno gli presenta in dono. Ma noi non ci stiamo. Noi siamo l’Italia che non ci sta! Siamo Coloro i quali li spazzeranno via. Li costringeranno a tornarsene nei loro lontani covi malandrini, dai quali sono scappati non certo per persecuzioni o carestie, ma per codardia o colpevolezza. Ribellarsi all’invasione è un dovere. Ribellarsi alla malapolitica e alla sopraffazione massona è un diritto. Allontanare l’antiCristo è un obbligo, che ci viene dal nostro Signore. Che si chiama Gesù e non UE. Basta prendere schiaffi! Ognuno di noi cominci a lavorare nel proprio piccolo territorio. Non li chiamiamo più, i clandestini, per pulire il giardino o scaricare la legna per dieci euro. Non li chiamiamo più per svuotare le cantine. Non li copriamo più coi nostri vestiti ancora nuovi. E neanche con quelli lisi, se mai ne avessimo. Prima di consegnare un chilo di pasta o un barattolo di pelati, guardiamoci intorno: magari c’è una famiglia italiana che non ne ha da mesi…Apriamo, spalanchiamo le porte a Cristo, come diceva qualcuno. Prima che a Maometto, aggiungerei. E scegliamoci veri e buoni amministratori, che sappiano e vogliano difendere confini e territorio, dignità e avvenire della nostra Italia. L’Italia è gli Italiani. Non tutti gli italiani sono l’Italia. Fra me e me.

Il poliziotto racconta: “L’accoglienza un business dei poteri forti. E chi parla viene fatto fuori dal sistema”, scrive Mattia Sacchi il 22 agosto 2016 su “Il Mattino On Line”. E’ uno dei poliziotti più famosi d’Italia, grazie alle sue denunce pubbliche su quanto succede nei centri d’accoglienza e nelle procedure per identificare i migranti. Daniele Contucci, assistente capo della Polizia di Stato in forza presso la Direzione centrale immigrazione e Polizia delle Frontiere, ora dirigente sindacale Consap, racconta quanto visto negli sbarchi di migranti sulle coste italiane.

Daniele Contucci, lei è stato in prima linea durante l’emergenza immigrazione…

«Ho fatto parte dell’URI. Si trattava di un’unita il cui obiettivo era quello dell’impiego in tutte le emergenze di immigrazione. Facevamo interviste a tutti i migranti che duravano circa 20 minuti e durante le quali ricostruivamo tutto il loro trascorso: tra cui le generalità, il percorso fatto per arrivare fino all’Italia e se avevano ricevuto ritorsioni nel loro paese d’origine. Successivamente, i dati venivano inviati in un database che veniva girato alla commissione territoriale la quale decideva se concedere l’asilo politico».

Lei ha visto da vicino il Cara di Mineo, uno dei più grandi centri richiedenti l’asilo d’Europa…

«Un centro in grado di ospitare 4000 richiedenti, ognuno dei quali ha un costo giornaliero di circa 37 euro, di più se il richiedente è minorenne. Potete quindi immaginare il tipo di business, per non dire altro, che ci sia dietro. Centinaia di persone che lavorano all’interno del centro, quindi un indotto economico enorme per l’entroterra siciliano. Con tutti gli interessi del caso e gli scambi clientelari. La task force di cui facevo parte riusciva a ridurre i tempi di permanenza di un anno. Successivamente l’unità è stata demansionata e chiusa, chissà perché…»

I migranti che ha incontrato le da­vano tutti l’impressione di scappare da qualcosa?

«Assolutamente no! Abbiamo avuto a che fare con tante persone dal pas­sato tragico, ma anche da tanti migranti che si capiva sin da subito che avevano altri obiettivi. D’altronde i numeri parlano chiaro: nel 2014 sono arrivati in Italia 172mila migranti. Di questi solo il 10% riconosciuto lo status di asilante politico, per un totale di 36mila migranti a cui è stato riconosciuto un titolo per stare sul territorio europeo. Tutti gli altri avrebbero dovuto rimpatriare e invece la maggior parte è sparita nel nulla».

Lei è conosciuto anche per essere stato il primo a denunciare casi di turbercolosi e malattie infettive…

«Durante un’operazione di sbarco migranti nel Porto Augusta nel giugno 2014, siamo stati un giorno e mezzo a trattare con 1.200 persone, di cui 66 con la scabbia e altri con la tubercolosi. Ma, contro ogni procedura, siamo stati mandati allo sbaraglio con delle semplici mascherine e guanti in lattice. Io ho un figlio che all’epoca era appena nato e, per paura di non contagiarlo, non l’ho incontrato per un mese e ho fatto degli esami privati per accertarmi di non aver contratto alcuna malattia infettiva. Potete immaginare la frustrazione nel non poter vedere il proprio figlio crescere nei primi mesi di vita. Allora ho voluto denunciare questa situazione assurda che metteva i poliziotti a serio rischio».

Aveva paura delle malattie che si potevano contrarre?

«Certamente. Salivamo e scendevamo dalle navi senza le protezioni necessarie, incontrando persone che magari avevano malattie infettive. Finché si trattava di scabbia poteva essere fastidiosa ma non grave. Ma con la tubercolosi si può morire e soprattutto si rischia di contagiare i propri cari. Cosa avrei fatto se mio figlio avesse contratto una malattia del genere? Non me lo sarei mai perdonato, il solo pensiero era terribile».

Le sue denunce hanno portato a qualcosa?

«Prima le visite mediche duravano pochi minuti, adesso sono fortunatamente più approfondite, anche se non abbastanza. Proprio qualche giorno fa è stato trovato nella provincia di Como un migrante con una diagnosi di scabbia riscontrata pochi giorni prima nel Meridione d’Italia, senza sapere se aveva effettuato la profilassi del caso. Questi sono pericoli per la salute pubblica. Ma non è l’unico problema nelle procedure con i migranti in Italia».

Cosa intende dire?

«La mancata fotosegnalazione dei migranti ha creato dei grandissimi problemi. Io sono stato il primo a denunciare queste manchevolezze, che impedivano il rispetto dei trattati di Dublino. Molti di questi migranti evitavano di farsi fotografare, con la compiacenza delle autorità italiane: parliamo di 100mila persone non fotosegnalate tra il 2014 e il 2015. Magari alcuni di loro sono terroristi o legati ad associazioni dai fini criminali. Anche se fosse solo uno su mille sarebbe una cosa gravissima dalla portata decisa­mente pericolosa con evidenti responsabilità dei vertici governativi e di sicurezza».

Le sue denunce le hanno portato ripercussioni sul posto di lavoro?

«Solo problemi e ritorsioni. La nostra sezione è stata ufficialmente chiusa, noi demansionati dai nostri incarichi. Io lavoro a Roma e hanno cercato ad ogni modo di convincermi a far domanda di trasferimento, situazione comoda vista la lontananza da un ufficio centrale di importanza così rilevante. E anche i colleghi che prima mi sostenevano sono piano piano spariti, lasciandomi solo contro tutti. Chissà se qualcuno di loro comprato?»

La politica si è però interessata a lei e al suo caso…

«La Lega Nord aveva presentato delle interpellanze sui casi da me denunciati, ma quando il gioco ha cominciato a farsi più serio sono spariti anche loro. Forse gli interessi che ho toccato sono troppo grandi. Poi ho accettato la candidatura al Consiglio comunale a Roma con Fratelli d’Italia: se avesse vinto la Meloni forse avrei fatto parte del Consiglio comunale per continuare a lottare affinché giustizia, verità e libertà trionfino contro la casta e il malaffare legato al business dell’immigrazione»

Quindi cercava anche lei la poltrona…

«Ma per niente! Solo che in questa si­tuazione è praticamente impossibile proseguire in Po­lizia il mio lavoro di verità e giustizia. Ricoprendo un incarico politico elettivo rinuncerei a qualsiasi euro in più rispetto alla mia ultima busta paga a dimostrazione del mio disinteresse economico. Lo avrei fatto solo per continuare la lotta contro la delinquenza, ovunque essa sia».

Come valuta la situazione a Como?

«E’ una situazione molto particolare. I migranti che arrivano vogliono passare il confine svizzero. Solo che se entrano in Svizzera e non sono stati fotosegnalati prima in Italia è più difficile accertare il primo paese di approdo per poi esser riaccompagnati alla frontiera. Ma comunque dalle interviste delle polizie locali si risale poi ai fatti e quindi rispediti lo stesso in Italia. A questo punto è giusto che le Guardie di Confine siano li per garantire la sicurezza del loro popolo, visto anche il concreto rischio terrorismo»

Ma l’Italia ha colpe in tutto questo?

«Direi proprio di si. I trattati di Dublino probabilmente penalizzano l’Italia, ma la soluzione non è non identificare i migranti. Durante il semestre di presidenza europeo, l’Italia poteva far qualcosa su questo fronte ma in realtà, nonostante i proclami, non si è fatto nulla. Un’immigrazione controllata e integrabile può essere sana, ma non è certo questo il caso».

“Immigrazione integrabile”. Ritiene che molti immigrati rifiutino di integrarsi?

«Chiedete alle donne poli­ziotte quando alcuni migranti di sesso maschile si rifiutavano di rilasciare le dovute interviste. Già questo indicativo della differenza di mentalità».

Cosa pensa di Mare Nostrum e Triton?

«Mare Nostrum è stata un’operazione italiana dai costi incredibile che ha fatto il gioco degli scafisti, visto le regole d’ingaggio che permettevano di arrivare a 10 miglia dalle coste libiche. Mentre Triton, sotto Frontex e tutt’ora in atto, ha come obiettivo salvaguardare le coste e arrestare gli scafisti con l’ingaggio a 30 miglia dalle coste libiche. Un migrante prima di queste missioni pagava 2-3 mila euro per il viaggio verso l’Italia, successivamente solo 700-800 perché ovviamente i rischi, sempre altissimi, sono diminuiti con Mare Nostrum. Bisogna arrivare alle origini del fenomeno, facendo lavorare le diplomazie. All’estero ci sono consolati e ambasciate italiane: si potrebbe gestire la cosa nei paesi d’origine organizzando e gestendo le richieste d’asilo direttamente presso le nostre diplomazie all’estero. In quel modo la gente potrebbe sapere che c’è una strada normale e ordinaria per arrivare in Italia e si toglierebbe un business mortale dalle mani dei trafficanti di esseri umani. Poi servirebbe un’operazione cusci­netto sotto l’egida dell’Onu creando dei campi sosta per selezionare da lì i richiedenti asilo. Accompagnando inoltre corridoi umanitari per le popolazioni effettivamente in guerra come la Siria o Libano. Purtroppo invece si preferisce la politica delle lacrime di coccodrillo e delle morti annunciate».

Nonostante le ritorsioni, continuerà a denunciare i malfunzionamenti delle politiche migratorie?

«Certo, continuerò a lottare da uomo libero quale sono e non mi fermerò di fronte ad alcuna ritorsione o minaccia. Rac­conterò i fatti, nella convinzione che molti apriranno gli occhi…»

MANTENUTI…

Mario Giordano su “Libero Quotidiano” del 19 agosto 2016: la verità è che gli immigrati non vogliono lavorare. Lavoro? Non ce n' è, perciò noi lo diamo ai profughi. È un'idea geniale quella del governo, avanzata tramite il capo dell'Immigrazione, prefetto Mario Morcone. Un' idea candidata ufficialmente al Premio Oscar della Stupidaggine 2016. E del resto solo chi sta gestendo l'accoglienza nel modo delirante che abbiamo sotto gli occhi, con piccole frazioni invase da centinaia di immigrati e cooperative improvvisate che si riempiono le tasche di soldi, poteva partorire una scemenza di tale portata. E solo chi sta cercando disperatamente un diversivo per celare la propria incapacità poteva lanciarlo a nove colonne sul Corriere della Sera come una vera proposta su cui far discutere il Paese. Intanto, per prima cosa, va detto che se questa è una novità anche Matusalemme potrebbe passare per un neonato. Di Comuni che negli ultimi mesi hanno cercato di impiegare i sedicenti profughi in lavoretti vari, infatti, se ne contano a bizzeffe: a Belluno gli immigrati hanno ridipinto le ringhiere, a Vicenza hanno pulito i parchi, a Castello d' Argile hanno fatto lavoretti nell' asilo, a Lucca si sono occupati della manutenzione della via Francigena, in Val Bormida hanno tolto i rami dai fiumi, ad Arezzo e Vittorio Veneto si sono occupati di giardinaggio, a Genova si sono trasformati in archivisti al Museo Doria… Il problema, piuttosto, è che "lavorare" per molti aspiranti profughi è una parola grossa, la questione non è tanto trovare loro un'occupazione quando ottenere che la svolgano. Evidentemente mangiare a sbafo, per molti, è assai più comodo… Il prefetto Morcone, dunque, dimostra ancora una volta di non conoscere la realtà che dovrebbe amministrare perché propone un'idea che non solo è vecchia come il cucco, ma che già mostra la corda in tutto il Paese per manifesta inapplicabilità. Probabilmente, come dicevamo, lo fa soltanto per creare un diversivo in mezzo alle polemiche. Ma quello che è grave è l'idea devastante che questa proposta rivela, la concezione mortale della nostra società che si nasconde dietro di essa. Lo si capisce perfettamente quando il giornalista del Corriere chiede al prefetto Morcone: «E gli italiani che non hanno lavoro?», e lui risponde sprezzante: «Io mi occupo di immigrati». Chiaro, no? Lui si occupa di immigrati. È giusto che gli immigrati abbiano vitto, alloggio, i soldi per il telefono e ora anche il nostro lavoro. E gli italiani? Che restino disoccupati. Che muoiano pure di fame. Oppure, se preferiscono, che spariscano dall' Italia. Sia chiaro, lo ripetiamo per non essere fraintesi. In sé l'idea di togliere i clandestini dai muretti dove bighellonano da mane a sera non è priva di qualche fascino. Vedere schiere di giovani baldi e forti (a proposito: perché i sedicenti profughi che arrivano in Italia sono tutti baldi e forti?) che ciondolano nullafacenti negli hotel quattro stelle in attesa del pranzo e della cena (che contestano se non è di loro gradimento) o bivaccano sulle panchine smanettando sugli smartphone di ultima generazione (a proposito: perché i sedicenti profughi che arrivano in Italia hanno tutti smartphone di ultima generazione?), magari provocando risse, furti, scippi e altri guai, non è piacevole. Di qui è ovvio che qualche sindaco si lasci tentare: perché, almeno, non facciamo fare loro qualcosa? Ma dev' essere chiaro che se un immigrato fa (gratis o sottopagato) il giardiniere o il cantoniere o l'archivista, evidentemente toglie il posto a un italiano, che quel lavoro non lo può fare gratis né sottopagato per il semplice motivo che a lui quei soldi servono per vivere perché non c' è nessuno che lo mantiene, a differenza dell'immigrato. Dunque ci sarà un operaio disoccupato in più, una piccola azienda che perde la commessa, un artigiano senza lavoro. E allora vi sembra logico che un italiano paghi le tasse (e tante) per mantenere in Italia profughi che vivono a sbafo e poi portano via pure il posto di lavoro? Non è un circolo perverso, una spirale mortale, un tunnel che porta al nulla? Questo è quello che è successo finora: lo Stato dà i soldi ai profughi e affama i sindaci, i sindaci affamati dallo Stato si fanno tentare dall' utilizzare manodopera gratis, e alla fine chi è che paga il conto? I lavoratori italiani, ovviamente. Quelli che hanno sempre pulito le strade, riparato le strade, verniciato le ringhiere. E che ora lo fanno sempre meno. Per la crisi, si capisce. Ma anche per la concorrenza sleale di chi può lavorare gratis perché mantenuto. Ancora più grave, poi, se tutto ciò avviene non per lavori di pubblica utilità, ma in attività private, come accadde l'anno scorso alla festa del Pd di Reggio Emilia. Qui lo sfruttamento è totale e non ha nemmeno l' alibi del servizio alla collettività… Che ora lo Stato, attraverso il capo dell' Immigrazione, proponga questo come sistema generale è preoccupante perché dimostra il modello di società che hanno in mente, che si basa per l' appunto sullo sfruttamento totale, una cosa che arriva quasi a sfiorare la moderna schiavitù: l' invasione programmata di clandestini serve infatti ad abbassare fino all' annullamento i diritti dei lavoratori e la loro retribuzione, fino a considerare cioè la retribuzione non come la giusta ricompensa ma come un "di più", una mancetta da elargire insieme a un tozzo di pane e a un posto letto improvvisato. Vi siete mai chiesti, per esempio, perché a Rosarno non si riesca a eliminare l'eterna tendopoli dei clandestini? Semplice: perché serve manodopera a bassissimo costo per i caporali che reclutano lavoratori per i campi. E gli italiani, se vogliono lavorare, devono adeguarsi a quelle condizioni, come in effetti già stanno facendo. Ecco il modello Morcone è una specie di maxi-caporalato esteso a livello nazionale, una Rosarno moltiplicata per mille: diffondo lavoro sottopagato per costringere gli italiani ad adattarsi, oppure ad emigrare. Un progetto devastante che si nasconde dietro il volto gentile dell'integrazione, del "non possiamo lasciarli abbruttire", dei "meccanismi premiali" e dei "comportamenti virtuosi". Tutte parole inutili per nascondere due verità semplici che il prefetto Morcone, ovviamente, si guarda bene dal dire. La prima verità: quelli che bivaccano nei nostri centri di accoglienza nella maggioranza non sono profughi, ma "richiedenti asilo". Cioè sono persone che chiedono una cosa di cui non hanno e non avranno diritto. E dunque (seconda verità) l'unico modo per non farli bivaccare o abbruttire o bighellonare non è dar loro un lavoro togliendolo agli italiani. Ma è rispedirli subito nel loro Paese. Senza farne entrare altri. Mario Giordano

SCOMPARSI…

Migranti, in centomila sono scomparsi. La grande fuga dopo lo sbarco. Mentre bruciamo miliardi per l’accoglienza. Senza riuscire ad aiutarli, né a controllarli. Cosi in 104.750 sono sfuggiti ai controlli. Scappano anche davanti ai militari. Che non intervengono: in esclusiva le immagini di Bari, scrive Fabrizio Gatti il 21 gennaio 2015 su "L'Espresso". Lo Stato c’è, eccome. Il Tricolore sventola nella brezza. Il cartello giallo sulla rete avverte: «Zona militare. Divieto di accesso. Vigilanza armata». La camionetta dell’esercito con i due soldati di ronda arriva puntuale. Davanti ai loro occhi, sette tra africani e asiatici non si scompongono. Scavalcano i quattro metri e mezzo di recinzione. Scappano dal Cara di Bari, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Uno di loro è vestito da talebano: caffetano bianco, berretto afghano sulla testa, barba e capelli lunghi. Forse è per questo che per uscire non passano dalla portineria. I militari guardano e non si fermano. La camionetta tira dritto, sempre a passo d’uomo. Sono le 10.30 di mercoledì 14 gennaio. La grande fuga continuerà per tutta la mattinata. Ma era così anche dieci minuti fa, un’ora fa, stamattina presto, stanotte, ieri sera, ieri pomeriggio, ieri mattina. Decine e decine di stranieri fuggono a ogni ora del giorno e della notte dal centro che dovrebbe registrare la loro presenza in Italia. Altri profughi, sbarcati addirittura nel 2011, a Bari usano il Cara per mangiare, dormire, farsi la doccia. Loro si arrampicano sulla recinzione due volte al giorno. Andata e ritorno. Hamid, 35 anni, bengalese, richiesta di asilo respinta, fa questa vita da due anni: esce la sera per andare a lavare i piatti in una pizzeria, la mattina rientra. Non importa se non è registrato. Perfino gli imam, quelli autoproclamati che nessuna moschea ufficiale riconosce, entrano a predicare il loro Islam. E, quando hanno finito, escono indisturbati. Eccone due. Si calano dalle sbarre di ferro del perimetro, lato Sud. La camionetta dell’esercito riappare dietro di loro e, puntuale, tira dritto. Sempre a passo d’uomo. Lo Stato c’è. Ma è di burro. Non solo a Bari. Accoglienza all’italiana. La strage di Parigi ha fatto risuonare l’allarme terrorismo. I rifugiati non sono criminali. Ma in tempi di massima allerta, registrare l’identità di chi entra in un Paese è il minimo indispensabile. Per avere il quadro della situazione, prevenire i rischi. Ecco, già questo elementare calcolo è impossibile: perché nel 2014 ben centomila dei 170 mila profughi arrivati in Italia sono scomparsi da ogni forma di monitoraggio. Fantasmi di cui non si sa più nulla. Nella maggioranza dei casi, nemmeno la vera identità: soccorsi in mare e contati, una volta arrivati a terra sono stati lasciati fuggire. Proprio come a Bari. Quasi sempre prima di essere identificati. Sono dati ufficiali del ministero dell’Interno. Le crisi umanitarie nell’area del Mediterraneo e l’operazione «Mare nostrum» hanno quasi triplicato il record nazionale del 2011:170.816 profughi arrivati nel 2014 contro i 64.261 di quattro anni fa. Nell’ultimo anno, però, soltanto 66.066 risultano registrati e ospitati nei centri. Significa cioè che104.750 stranieri sbarcati nel 2014 sono ora al di fuori di qualunque controllo. Colpiscono anche le cifre suddivise per origine. Siria: su 51.956 sbarcati nel 2014, solo 505 hanno richiesto protezione in Italia. Eritrea: su 43.865, solo 480. Somalia: su 8.152, solo 812. Il resto? Spariti. Rimangono i profughi partiti da altri Stati africani. Nigeria: 10.138 le domande d’asilo nel 2014. Gambia: 8.556. Mali: 9.771 su 11.119 sbarcati. Gran parte di siriani, eritrei e somali è andata ad alimentare il record di arrivi in Germania e Svezia. Moltissimi però vengono rimandati indietro. Oppure non escono dai nostri confini. Vanno ad aggiungersi alle migliaia di loro connazionali, in Italia dal 2011 o anche da prima, che non hanno mai ottenuto un permesso di soggiorno, o se l’hanno ricevuto non hanno più un lavoro regolare. Tremila di loro vivono a Roma: per strada, sotto i portici della stazione Termini o in case e uffici abbandonati. Nessun mezzo di sostentamento se non le mense di beneficenza. E, per qualche centinaio di africani, lo spaccio al Pigneto, il quartiere di Pier Paolo Pasolini. Altri cinquemila si stimano nelle province di Napoli e Caserta. Settecentocinquanta all’ex villaggio olimpico di Torino. Cinquecento al Ghetto di Rignano Garganico: la baraccopoli di braccianti e caporali nella campagna foggiana per la prima volta non si è svuotata, anche se è pieno inverno e in giro non c’è niente da fare. Centinaia dormono in ripari di cartone e container intorno ai centri statali per richiedenti asilo. Come Borgo Mezzanone, vicino a Foggia, o Pian del Lago, a Caltanissetta: una volta usciti dai Cara, con il permesso di soggiorno o il respingimento in tasca, le persone si spostavano a cercare lavoro. Adesso no: è più sicuro rimanere nelle vicinanze e attraverso la recinzione elemosinare un pasto a chi ha ancora diritto all’accoglienza di Stato. Insicurezza alimentare, la chiamano. Ci si aiuta così. L’Italia in recessione crea mille disoccupati ogni giorno. Nel frattempo avrebbe dovuto assimilare 291.247 nuovi cittadini: tanti quanti ne sono sbarcati dal 2011 al 2014. Il sogno infranto dalla crisi. Per noi. Per loro. “L’Espresso” è andato a cercarli. Dal Piemonte alla Sicilia. Dalla Calabria al Friuli. Ritorna una parola da decenni scomparsa dal vocabolario delle nostre strade: fame. L’alimentazione tipo la descrive Isaac Kumih, 32 anni, partito dal Ghana e incagliato nei prefabbricati di lamiera sulla pista della vecchia base militare di Borgo Mezzanone, quattro materassi in una stanza: «Una fetta di pane secco e una tazza di tè la mattina, un piatto di semolino la sera. Ho raccolto pomodori in agosto: 550 euro. Mi devono ancora pagare. Non posso permettermi il pranzo». Un alto funzionario della polizia italiana si lamenta perché alla frontiera del Brennero i colleghi austriaci rimandano indietro gli eritrei: «Sono spesso ragazzi cresciuti nei campi profughi». Ma si tengono i siriani diplomati e laureati. Non è solo cinismo. Quei titoli di studio in Italia andrebbero probabilmente sprecati. Mohanad Jammo, 42 anni, medico di Aleppo fuggito dalla guerra in Siria e poi dalla Libia in fiamme, è sopravvissuto con la moglie e la figlia di 5 anni al naufragio dell’11 ottobre 2013. Il più grande e il più piccolo dei loro bambini sono scomparsi in mare. Da Malta, la famiglia Jammo è stata accolta in Germania. Destinazione, un appartamento affittato dal sistema federale a due ore da Francoforte e un contributo mensile di 350 euro a persona per la spesa e il vestiario. Nel 2014 il dottor Jammo ha potuto frequentare un corso di tedesco. Nemmeno la sua laurea siriana è stata cestinata. A fine autunno ha superato l’esame per convertire la qualifica ed esercitare in Germania: da inizio gennaio Mohanad Jammo lavora in un ospedale. Dopo appena quattordici mesi e una tragedia immensa, la sua famiglia non è più a carico del governo tedesco. Un altro sopravvissuto allo stesso naufragio del 2013, un ragazzo che non vuole che il suo nome sia rivelato, ha chiesto protezione all’Italia. Dopo quasi un anno trascorso in un centro temporaneo in provincia di Varese, viene trasferito all’improvviso con una trentina di profughi a Carfizzi, milleduecento chilometri a Sud, 700 abitanti in mezzo alla Sila. Il paese in provincia di Crotone e il progetto di una cooperativa locale sono entrati nella rete Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati: è l’ultima tappa, da sei mesi a un anno di accoglienza che dovrebbe fornire all’ospite conoscenze linguistiche e capacità professionali per vivere e lavorare in Italia. «A Carfizzi ci sono 33 profughi», spiegano il 6 gennaio Yasmine Accardo, dell’associazione LasciateCientrare, e l’avvocato Alessandra Ballerini: «Oggi un ragazzo con mal d’orecchie non è riuscito a contattare nessuno. Abbiamo provato a chiamare mediatrice e gestore: niente. La guardia medica non risponde». Dopo una visita al centro, parte la segnalazione al servizio centrale Sprar: «La struttura, un ostello della gioventù, è posta al di fuori del paese... Gli ospiti ci chiedono aiuto sotto diversi aspetti: cibo scarso, ritardo dei documenti, isolamento sociale, scarsa assistenza medica, assenza di riscaldamento... Moltissimi ospiti hanno radicato i loro documenti a Varese e tanti ci hanno fatto vedere la documentazione con appuntamenti già scaduti. Veniamo a sapere che il gestore dichiara che non ha soldi per acquistare il biglietto per il Nord. Nelle comunicazioni della questura, lo spazio riservato all’interprete è sempre vuoto. Sono tutte in lingua italiana. È evidente che la mediazione multiculturale non sia il forte di questo soggetto gestore che in alcuni documenti addirittura scrive: englesh». Dopo quattordici mesi, il ragazzo sopravvissuto come il dottor Jammo non parla italiano, non parla inglese, è in profonda depressione. Ed è ancora a carico dello Stato italiano. Come tutti gli altri 32 ospiti a Carfizzi: cioè, la loro presenza in Italia permette all’ente gestore di incassare circa 35 euro al giorno per persona, 1.050 euro al mese. Fanno tre volte il contante versato dalla Germania a ciascun profugo perché possa mantenersi e, con le sue spese, contribuire all’economia locale. Degli oltre mille euro pagati dal sistema Sprar alla cooperativa di Carfizzi, però, il ragazzo siriano riceve soltanto 75 euro al mese. Per le piccole necessità: le telefonate alla famiglia, l’integrazione del cibo quando è scarso, le marche da bollo per i documenti. Dal 2011, con i primi decreti sull’ emergenza Nord Africa, questo sistema ci è costato due miliardi 287 milioni 851 mila euro: 483 milioni soltanto nel 2014 per vitto e alloggio, più 117 milioni e mezzo per l’operazione «Mare nostrum». Trenta-trentacinque euro al giorno per persona non sono affatto pochi. Un esempio è l’albergatore napoletano Pasquale Cirella, 49 anni: grazie ai 614 profughi che le prefetture campane gli hanno affidato, incassa 19 mila euro al giorno. Così la sua società Family srl è passata dai 44 mila euro di fatturato del 2009 al milione 853 mila euro del 2012. Con utili annuali cresciuti da 676 euro a 170 mila euro. Un altro imprenditore a Monteforte, in provincia di Avellino, ha messo a dormire 107 rifugiati in tre appartamenti: tagliando sulle spese di assistenza, come interpreti e tutela legale, se le prefetture non controllano il guadagno aumenta. “L’Espresso” ha scoperto che nel 2006 il Comune di Roma riusciva a garantire ospitalità a cifre bassissime, tra i 4,70 e i 8,30 euro al giorno per persona. Se ne occupava Luca Odevaine, futuro consulente del Cara di Mineo, provincia di Catania, arrestato nell’operazione «Mafia capitale». L’aumento da allora ha raggiunto il 421 per cento. Oggi il consorzio dei Comuni, che a Mineo controlla il più grande centro di accoglienza profughi, incassa dallo Stato decine di milioni. Il direttore generale, Giovanni Ferrera, tre mesi fa ha stanziato diecimila euro del bilancio al Comune di San Cono per organizzare la “XXIII Sagra del ficodindia”. Un comunicato ci assicura che «l’integrazione è passata attraverso la partecipazione e la condivisione di iniziative popolari come la Festa del grano di Raddusa e la Sagra del ficodindia di San Cono...»: 648 parole pagate all’autore locale 720 euro, organizzazione della conferenza stampa inclusa nel prezzo. Sempre il direttore generale nel 2013 ha pagato un’altra conferenza stampa 4.514 euro: 855 parole di comunicato alla cifra di 5,27 euro a parola e incontro con i giornalisti locali compresi nella fattura. C’è anche la “Partita del Cuore” attori contro Cara: tredicimila euro di noleggio dei pullman per lo stadio e altri cinquemila per i biglietti. E l’educazione stradale ai profughi? Ventimila euro. I volontari della protezione civile? Quattordicimila 900 euro. La festa dell’uva a Licodia? Fuori altri diecimila euro. L’Estate ramacchese? Diecimila euro. Tradizioni e sapori a Raddusa? Diecimila euro. Cara estate a Mineo? Diecimila euro. L’agosto mirabellese? Diecimila euro. Il Natale dell’amicizia a Castel di Iudica? Diecimila euro. Il presepe vivente a Mineo? Diecimila euro. Tutto regolare, ovviamente. Pagano gli italiani. Nessuna obiezione dal sindaco-presidente del consorzio, Anna Aloisi. Né dal rappresentante legale delle cooperative locali che lavorano nel centro, Paolo Ragusa. Né dall’ex commissario delegato per il Cara di Mineo, Giuseppe Castiglione, attuale sottosegretario all’Agricoltura nel governo Renzi. Sono tutti e tre sostenitori del Nuovo centrodestra, il partito del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, di cui Castiglione è coordinatore in Sicilia. Clifford Emeanua, 35 anni, moglie e due figli in Nigeria, faceva il muratore in Libia. Scoppiata la guerra, è scappato: sbarco a Lampedusa il 4 agosto 2011. Poi l’hanno portato al campo di Mineo: «Sono rimasto lì un anno e mezzo». Cosa ha fatto in quell’anno e mezzo? «Non c’è lavoro a Mineo. Chiedevo l’elemosina ai bianchi per strada per qualche soldo da mandare alla mia famiglia. Dentro il campo non potevamo fare niente. Solo mangiare e dormire». Ha frequentato un corso d’italiano? «Non c’era nessuna scuola quando io ero a Mineo. Se c’era, avrei imparato un po’ di italiano. Questo è il problema che ho oggi. Nessun lavoro. Niente. Sono un essere frustrato. Non so dove sto andando. Non so cosa fare. Perfino mangiare è un grande problema. Se chiedo l’elemosina per strada, mangio. Se non raccolgo soldi, non mangio». Conclusa per decreto l’emergenza Nord Africa, nell’inverno 2013, Clifford è stato messo fuori dal Cara con un permesso umanitario. E come migliaia di profughi cancellati da un giorno all’altro dal governo, si è ritrovato sulla strada. È salito a Torino e ora dorme in una stanza dell’ex villaggio olimpico al Lingotto. Quattro palazzine occupate nel 2013. Dal 2006, anno dei Giochi invernali, erano ancora abbandonate. Lui quasi si scusa: «Dormivo in un giardino. Faceva freddo. Gli amici mi hanno detto che qui c’erano appartamenti vuoti da sette anni». Un meccanico nello scantinato costruisce carri da trainare con le biciclette. Li usano per raccogliere e rivendere vestiti, elettrodomestici, metalli recuperati tra i rifiuti. Dieci ore fuori, da 50 centesimi a tre euro l’incasso. Soltanto alcuni centri sociali si occupano di loro. Mentre Lega e neofascisti chiedono lo sgombero. Stesso clima all’ex Ferrhotel: settanta profughi somali, uomini e donne, vivono nell’albergo abbandonato accanto alla stazione di Bari. Per la realizzazione di un centro per rifugiati qui dentro sono stati già stanziati due milioni, di cui quasi un milione e mezzo dall’Unione Europea. Fine lavori: 30 dicembre 2012. Proprio così: non sono mai cominciati. A Pescopagano, frazione africana di Castelvolturno, gli ultimi abitanti sono arrivati dopo il 2011. All’alba li vedi alle rotonde alla ricerca di un ingaggio. Il caporalato è ormai l’unica forma di welfare: il vero jobs act per migliaia di lavoratori. Ma la manodopera è in eccesso. Amou Otoube, 31 anni, la moglie in Ghana che non vede da 9 anni, nel 2014 ha lavorato soltanto due giorni: un guadagno annuo di 70 euro. Isaac Onasisi, 48 anni, come molti italiani disoccupati è alle prese con le bollette. Il Comune gli ha mandato la tassa sui rifiuti: 239 euro, anche se da anni non passa nessun servizio di nettezza urbana. Sul prato all’ingresso di via Parco Fabbri crescono più sacchi dell’immondizia che erba. Centri che funzionano bene esistono. Come lo Sprar dell’Ex-canapificio a Caserta: 40 ospiti in appartamenti diffusi, corsi professionali e di italiano. Fabio Ballerini, dell’associazione Africa Insieme, racconta invece che a Pisa la prefettura ha messo rifugiati perfino nell’ex tenuta presidenziale di San Rossore. Undici richiedenti asilo, erano 40 fino a qualche mese fa, li stanno ospitando a 4,6 chilometri dall’uscita del parco. Altri dieci a quattro chilometri. Con relativi appalti per le cooperative di gestione. Gli unici collegamenti con il mondo sono due o tre biciclette da condividere. L’integrazione in mezzo al nulla. Forse c’è una logica nel nascondere i profughi. Ricordate a Genova gli angeli del fango? Sono i venti ragazzi africani armati di badili che con i genovesi hanno ripulito la città dopo l’alluvione. In quei giorni erano ospitati nell’ex ospedale a Busalla. Lega e Forza nuova hanno protestato con i manifesti: «Ospedale per italiani, non ostello per africani». Anche se riaprire l’ospedale a Busalla sarebbe un oltraggio alla spesa pubblica, la prefettura ha deciso il trasferimento. Evviva la gratitudine. Gli angeli del fango sono finiti a Belpiano, in mezzo ai boschi dell’Appennino ligure: quattro ore e mezzo di pullman e treno da Genova, quasi tre ore da Chiavari, sette chilometri a piedi da Borzonasca, il paese più vicino dove trovi soltanto una tabaccheria e cinque frane che si sono mangiate pezzi di strada. Non appena hanno visto il posto, due ragazzi sono usciti dal programma di accoglienza. Questa è l’Oasi di don Mario Pieracci. Lui sale raramente. Vive a Roma ed è più facile incontrarlo in tv, ospite della Rai. L’Oasi è un villaggio vacanze della chiesa. Un tempo era aperto solo d’estate. Dagli sbarchi del 2011, funziona tutto l’anno. Centoventi profughi, asiatici e africani, conferma Caterina, la cuoca che da sola gestisce il centro e la cucina. Il corso di italiano è affidato a uno studente di ingegneria che parla inglese. Nessun aiuto linguistico per chi conosce appena arabo, pashtun o francese. Anche per questo soltanto otto ragazzi su 120 frequentano oggi la lezione. Per scendere in paese, si va a piedi. Una volta al mese. Il vecchio pullmino è rotto. Non c’è Internet. Non ci sono film in lingua straniera. La tv riceve solo i programmi della Rai. «Poveri cristi», ammette Caterina, «ci sono ragazzi che sono arrivati il 5 gennaio 2014 e sono qui ancora in attesa dei documenti». Mangiano, dormono. Si scaldano le infradito e i piedi scalzi, seduti intorno alla stufa a legna. Si riparte. Qualche ora di autostrada ed ecco Gorizia, la Lampedusa dell’Est: ogni mese la rotta balcanica scarica dai camion decine di richiedenti asilo afghani e pakistani. Gli amministratori della cooperativa siciliana Connecting People e una vice prefetto sono sotto processo con l’accusa di avere gonfiato numeri e fatture del Cara di Gradisca d’Isonzo. I dipendenti della cooperativa non ricevono lo stipendio da mesi. Molti di loro sono allo stremo, come gli africani di Pescopagano. Nonostante lo scandalo, secondo i sindacati il prefetto potrebbe presto arrivare a una risoluzione consensuale del contratto. Una conclusione amichevole: la Connecting People non perderebbe così la cauzione da 791 mila euro. Mentre i lavoratori perderebbero gli arretrati. Nell’industria dei rifugiati, tutto è possibile. All’inizio dell’inverno sempre a Gorizia, provincia con decine di caserme da anni deserte, la prefettura ha pagato come dormitorio un’officina: umidità, materassi per terra, riscaldamento scarso, 25 euro per persona e 70 profughi che al fortunato proprietario hanno reso 1.750 euro al giorno. Una velocità di 73 euro l’ora. Proprio quell’officina era il garage di una concessionaria Lancia. Curiosa parodia che riassume il destino dell’economia italiana: perse le auto, si spremono i profughi. (Ha collaborato Francesca Sironi).

SCHIAVIZZATI...

Sfruttamento selvaggio, ora gli schiavi d'Italia dicono basta. Non solo Rosarno. Dalla pianura pontina al distretto del pomodoro in Puglia sfruttamento, ghetti e zero sicurezza riguardano 400 mila lavoratori. Che finalmente denunciano, scrive Floriana Bulfon e Francesca Sironi il 18 luglio 2016 su "L'Espresso". Picchia il sole su 400mila lavoratori impiegati senza tutele a raccogliere casse di pomodori e ceste di meloni, fino alle uve d’autunno. La cifra è fornita dall’osservatorio della Cgil sul caporalato. In inverno erano a Rosarno o Ginosa per gli agrumi. Con l’estate si trovano a Foggia come a Nardò, come in qualche località della Campania. Altro raccolto, altra schiavitù. Perché nonostante leggi, programmi e promesse, lo sfruttamento nei campi continua. Assume nuove forme, indossa maschere semi-legali: intermediazione, contratti a ore, aziende fantasma. Riceve fondi europei. Conta sulla mancanza di controlli. E non arretra. E oggi all’emergenza “storica” (in Calabria è da otto anni che le associazioni parlano di schiavitù, in Puglia la prima rivolta dei braccianti risale al 2011) se ne aggiunge una nuova. Nei centri d’accoglienza per i richiedenti asilo sono registrati 111mila migranti. Arrivano da Pakistan, Nigeria, Gambia, Senegal, Mali. Erano 33 mila in meno un anno fa. Nella tendopoli di San Ferdinando, dove un carabiniere ha ucciso, sparando, un ragazzo che lo minacciava con un coltello, il 33 per cento dei 471 stagionali curati da “Medici per i diritti umani” era un “diniegato”, un esule cioè in attesa di ricorso in tribunale. Più della metà aveva in tasca un permesso di protezione internazionale. Il 10 maggio da un’inchiesta della Digos di Prato sono stati indagati 12 pakistani: per la vendemmia di cinque aziende del Chianti - “Chianti classico”, docg e “gran riserva” - facevano il giro dei centri d’accoglienza. Caricavano su van dai vetri oscurati i profughi - cento, almeno, quelli coinvolti - per pagarli da quattro a sei euro l’ora, contro i 9 del contratto nazionale. Al telefono li chiamavano «questi schiavi negri e stronzi». Sono stati perquisiti anche tre italiani: professionisti di Prato, fornivano false buste paga e documenti. Fra quelle vigne mancavano ispezioni, prima della denuncia da cui è partita l’indagine, aiutata dal direttore della cooperativa che ospitava i rifugiati e che si era accorto che qualcosa non andava. Del resto sui campi, quando arrivano i controlli, arrivano anche le sanzioni: nelle 8.862 aziende agricole ispezionate dalle autorità nel 2015 sono stati intercettati 6.153 irregolari e 3.629 braccianti totalmente in nero. Impiegati secondo l’antica prassi di ricatti, rimborsi per il “viaggio” dovuti ai caporali, ghetti, nessuna sicurezza. Fino alla fame: meno di un mese fa i carabinieri hanno arrestato nel brindisino una madre e suo figlio. Italiani, portavano, secondo l’accusa, i braccianti fino nel barese, stipati in furgoncini; se non c’era posto, li chiudevano nel bagagliaio. «Non mangio da giorni», diceva disperata una di loro. «Ho provato vergogna. Qui mancano i diritti e non è riconosciuta la dignità». Così Camilla Fabbri, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, commentava il 24 maggio l’ispezione appena terminata nella cooperativa “Centro Lazio”, nella pianura pontina. In quattro ore di controlli i Carabinieri di Latina e gli agenti dei Nuclei Antisofisticazioni e Sanità hanno trovato nelle serre braccianti “in regola” per 12 giorni al mese quando ne lavoravano 20, per paghe da meno di quattro euro l’ora e turni da dodici ore al giorno. Raccoglievano in queste condizioni pomodori e zucchine “di alta qualità”, come pubblicizza il sito dell’azienda, che ha chiuso il bilancio del 2014 con un fatturato di 14 milioni di euro. La “Centro Lazio” ha ricevuto negli ultimi tre anni un milione e 440mila euro di fondi agricoli europei: 304mila nel 2013, altri 600 nel 2014 e 536mila l’anno scorso. Rappresentante dell’impresa è Fiorella Campa, che con la sorella Stefania (anche lei socia della cooperativa) era già stata denunciata nel 1994 per sfruttamento, riporta l’archivio dell’Agi. Il padre, Luigi, «tuttora impegnato a sostenere le figlie con una presenza costante e vigile sul campo», come si legge in un’intervista con cui le sorelle presentano i loro progetti per diventare «un colosso dell’ortofrutta», era stato arrestato nel gennaio del 1993 con l’accusa di occultamento di cadavere e violazione della legge sugli stranieri. Secondo un giovane impegnato nei campi l’amico di 31 anni si era sentito male dopo aver mangiato, ed era morto. «Se lo trovano qui succede un macello», avrebbe detto il padrone: «Buttiamolo nella discarica». La “Centro Lazio” fa parte di un grande consorzio: “Italia ortofrutta”, 140 aziende associate. Gennaro Velardo, il presidente, commenta così i risultati dell’ispezione: «Verificheremo per capire l’origine del problema. Lo sfruttamento è inaccettabile ma di certo c’è anche un problema di crisi del reddito per i produttori. Niente è giustificabile però sappiamo cosa può capitare, quando la grande distribuzione chiede prezzi sempre più bassi». L’estate scorsa un altro consorzio aveva espulso immediatamente una delle sue consociate dopo la denuncia di 14 immigrati che venivano rimborsati a 2,5 euro a cassetta. «Incontreremo la società per capire cos’è successo», dice invece Velardo, che aggiunge: «Gli autocontrolli ci sono, le irregolarità non sono così diffuse. E insisto: bisogna capire anche i bisogni degli agricoltori. Lo dico con una battuta: ma forse il cottimo non sarebbe sbagliato». Di “Italia Ortofrutta” fa parte anche “Ortolanda”, una cooperativa olandese con una lunga esperienza nella coltivazione di ravanelli. Dai Paesi Bassi è scesa fino all’Agro Pontino per coltivare in nome della qualità e dello sviluppo sostenibile. Nove lavoratori Sikh hanno presentato lo scorso agosto una denuncia: avevano un caporale, connazionale, che li convocava la sera per il giorno dopo. Per comodità aveva creato un gruppo WhatsApp intitolato “Ortolanda”: 34 utenti, lui l’unico “amministratore” che decideva chi lavorava e chi no. Le indagini sono in corso e stabiliranno chi dice la verità. Intanto nelle serre pontine si lavora senza sosta. Per reggere la fatica spesso ci si aiuta anestetizzandosi. Metanfetamine, antispastici e soprattutto oppio: la produzione è in mano agli italiani, lo spaccio agli indiani e costa pochissimo, dieci euro a bulbo. Una spirale che può portare al suicidio: pochi giorni fa è stato trovato un altro ragazzo appeso a una corda dentro un capannone nelle campagne di Borgo Hermada, a ridosso del fondo agricolo in cui lavorava. Aveva trent’anni e non c’era più niente che potesse prendere per sopportare la schiavitù. «Nel sikhismo il suicidio è vietato; la comunità lo associa allo sfruttamento lavorativo intensivo», spiega Marco Omizzolo dell’associazione InMigrazione: «La stessa comunità che affronta con una colletta per i costi per mandare la salma in India». Il caporale sbraita - «dovete muovervi, riempire i cassoni!» - e loro, per la prima volta incrociano le braccia. È l’estate del 2011 ed era il primo sciopero dei migranti contro la schiavitù. Grazie a quella protesta nelle campagne di Nardò, in Puglia, fu approvata la legge penale contro il caporalato. Cinque anni dopo «la situazione è peggiorata, i diritti sono regrediti», dice con amarezza Yvan Sagnet, il giovane ingegnere camerunense che per pagarsi gli studi al Politecnico di Torino era arrivato in Salento (un amico gli aveva parlato di “paghe da favola” e invece s’era ritrovato a rischiare di morire): «Sono stati approvati molti provvedimenti, ma rimangono inefficaci se non ci sono i controlli». «Qualche passo in avanti c’è, ma insufficiente», conferma Guglielmo Minervini, consigliere regionale in Puglia ed ex assessore: «A Rignano Garganico si sta già ri-formando il ghetto. Il “distretto del pomodoro” è stato portato a Foggia. Ma per ora non sta accadendo niente». Nel frattempo, la schiavitù si evolve. In Basilicata, dove dal 2013 i controlli sono più stretti, gli investigatori hanno scoperto cooperative fantasma che regolarizzavano cittadini italiani, pagando per loro i contributi, mentre a raccogliere andavano stranieri, ad un costo inferiore. E sono sempre più diffusi gli sfruttati “a contratto”: sulla carta le ore di lavoro sono solo tre, eppure passano l’intera giornata chinati sui campi. Ma se arriva un controllo: risultano in regola. Anche i caporali ora operano legalmente all’ombra delle agenzie interinali. In Puglia uno di loro è riuscito, da solo, a spostare da una società d’intermediazione all’altra seimila persone, rassegnate a condizioni prive di sicurezza. Spostate come merci, da buttare quando non servono più. Come è successo a Paola Clemente, uccisa lo scorso agosto dalla fatica mentre raccoglieva uva a 150 chilometri da casa. «Le agenzie interinali celano spesso i caporali del terzo millennio», nota Bruno Giordano, magistrato e consulente giuridico della Commissione: «Dovrebbero esserci maggiori controlli. E quando il reato di caporalato avviene da parte di un’agenzia bisognerebbe prevedere un’aggravante». Perché una morte come quella di Paola Clemente non si ripeta, il 27 maggio è stato firmato un “protocollo contro il caporalato” per le regioni del Sud. «È un risultato forte», dice Ivana Galli, segretario generale della Flai Cgil: «Il programma avrà a disposizione fondi Ue e risponderà a esigenze concrete». Ora bisogna seguirlo, però. Mentre il 25 giugno i sindacati saranno a Bari per chiedere di votare, finalmente, il disegno di legge contro lo sfruttamento in agricoltura, che «prevede una sanzione per l’azienda: fino ad oggi veniva punito solo il caporale», spiega la senatrice Fabbri, e la confisca dei beni utilizzati per lavorare, fino a tutto il patrimonio qualora si accerti che non coincide con la situazione fiscale. Leggi da modificare, ma soprattutto da applicare, rafforzando i controlli e modificando alcuni aspetti: «Da quando è stata introdotta la legge sul caporalato un solo processo è giunto fino in Cassazione», nota il magistrato Giordano. Per tutti gli altri a poco è valso il coraggio di chi ha denunciato. Per ora, ha vinto l’impunità.

Caporalato, nel ghetto salentino di Nardò l'arruolamento degli sfruttati è via Whatsapp. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane, scrive Chiara Spagnolo il 27 luglio 2016 su "La Repubblica". Il caporalato ai tempi di Internet vive grazie a Telegram e Whatsapp: messaggi in arabo, inglese e francese per convocare i braccianti al lavoro e concordare le paghe, perfino le foto dei capisquadra per dimostrare chi ha lavorato e quanto. Evolve la complessa organizzazione para-criminale che gestisce il lavoro nelle campagne del Salento. E nel ghetto di Nardò i migranti non staccano gli occhi dai telefonini. Entrare in quella terra di mezzo in contrada Arene-Serrazze è impresa ardua. Difficile portare in mano videocamere e macchine fotografiche, pure il telefono cellulare è meglio metterlo via. Perché i ragazzi del ghetto - almeno duecento, di una decina di nazionalità - dopo essere stati esibiti per anni sui media, guardano tutti con sospetto. La rivolta della masseria Boncuri del 2011 ormai è un ricordo e l'obiettivo primario di ognuno è solo lavorare qualche ora al giorno e tornare al campo con pochi euro in tasca. I più fortunati racimolano 30 euro a giornata, qualcuno molto meno, considerato che la raccolta del pomodoro viene pagata circa 3,5 euro a cassone (ciascuno da 350 chilogrammi) e le angurie 5 euro all'ora. Contratti non ne ha firmati nessuno. O almeno così raccontano i lavoratori, mostrando fogli che indicano una fantomatica disponibilità al lavoro acquisita dalle aziende. Con la mediazione rigorosa dei caporali, che sono stati i primi ad arrivare in Salento e ora gestiscono il lavoro con il telefonino, affidando ai capisquadra le verifiche nei campi e anche il trasporto delle persone. Dal ghetto si parte alle 5,30-6, intorno alle 12,30 molti furgoni sono di ritorno perché alcune aziende rispettano l'ordinanza del sindaco, Pippi Mellone, che ha inibito il lavoro dalle 12 alle 16. I 15 proprietari delle ditte più grosse hanno fatto ricorso al prefetto e al Tar, ma per il primo cittadino indietro non si torna. Lui la patata bollente dei braccianti l'ha ereditata a stagione iniziata: in un'area comunale accanto alle casupole sono state sistemate 22 tende (20 del ministero dell'Interno e due del Comune), container con bagni e docce inviati dalla Regione e da Coldiretti, aperto un presidio sanitario e avviati corsi sulla sicurezza sul lavoro. Nel campo, però, trovano posto 132 persone a fronte di almeno 400 che orbitano nell'hinterland neretino e da quest'anno si spingono a lavorare fino al Brindisino, a Ginosa, al Metapontino. Per gli altri resta il ghetto, proprietà comunale in cui neppure gli addetti alla raccolta della spazzatura vogliono mettere piede, limitandosi a svuotare i tre bidoni vicino al cancello. Dentro, per forza di cose, i rifiuti sono ovunque, i servizi igienici non esistono e un odore nauseabondo ammorba l'aria. Nelle casupole costruite con materiale di risulta si cerca di mantenere una parvenza di dignità, ma non è facile quando il pavimento è la terra rossa e abiti e suppellettili vedono l'acqua di radi. I gruppi sono divisi per etnie e poi anche per tribù - spiega Angelo Cleopazzo di Diritti a Sud - ognuno con un capo che mantiene l'ordine e stempera i conflitti. A pochi metri dall'ingresso il primo bar, con tre uomini intenti a preparare il pranzo per chi torna dal lavoro: "Oggi fave, pomodoro, uova e cipolla", spiega un ragazzone che poi insiste per offrire il caffè. Più avanti si cambia Paese d'origine e quindi menù: "Oggi uova e carne, assaggia questo frullato, lo faccio io tutti i giorni". Il sapore è buono, il bicchiere grande costa un euro, 2 il panino, 50 centesimi il caffè. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane portate dalle matrone e gestite da protettori. Perché se pure nel ghetto di Nardò lo Stato non vuole entrare, dentro ci sono comunque persone. Che hanno rinunciato ai diritti di lavoratori, ma non alla loro umanità.

Bracciante schiavo che si ribella, scrive Giovanni Masini il 28 luglio 2016 su "Gli occhi della Guerra". Da Boreano (Potenza). Non è facile, per uno schiavo, ribellarsi ai propri padroni. Così come non è semplice trovare il coraggio di denunciare tutto davanti a una telecamera. Eppure, anche fra i dannati del caporalato di casa nostra, c’è chi osa alzare la testa e rifiutare il sistema criminale di sfruttamento e di ricatto che ogni anno costringe in catene decine di migliaia di braccianti irregolari. Per incontrare uno dei rari Spartaco contemporanei dobbiamo spingerci fino in Lucania, nella terra che diede i natali al poeta latino Orazio. Un volontario di sosRosarno, l’associazione anti-caporalato nata dopo le rivolte di migranti in Calabria, ci ha fornito il contatto di un bracciante disposto a “parlare” dei meccanismi di questa industria della morte. Di lui abbiamo solo un numero di telefono e un soprannome, “l’americano”. Vive in una baracca di plastica e lamiere sperduta in mezzo ai campi di grano, dove il sole estivo picchia come un martello e il frinire delle cicale assorda ogni pensiero. L’americano, che poi scopriamo chiamarsi Youssif, è un lavoratore relativamente emancipato: parla un discreto italiano ed è riuscito a mettere da parte abbastanza denaro per potersi permettere una bicicletta e qualche gallina per le uova. Ci riceve nella sua baracca, dove ha sistemato un generatore di corrente recuperato chissà dove e qualche sedia. La sera ospita i compagni di lavoro per bere qualche birra insieme. Lui lo chiama “il suo bar”. Per l’affitto della terra su cui ha costruito la baracca paga al proprietario del fondo cinquanta euro al mese. Periodicamente, spiega, il padrone distrugge le capanne dei braccianti per liberare il terreno. Gli incendi non sono infrequenti. I lavoratori si spostano di qualche metro e tutto ricomincia da capo. Anche qui vigono le medesime leggi che regolano la vita dei braccianti di Rignano: dei trentacinque euro di paga giornaliera, al lavoratore ne finiscono circa venti. Tutte le masserie abbandonate, parla piano Youssif indicando i casolari diroccati all’orizzonte, sono piene di braccianti. A volte la brutalità dei caporali si spinge fino a ritirare loro i passaporti; non è raro che le donne, specialmente quelle dell’est, vengano ricattate e avviate alla tratta della prostituzione. In queste terre selvagge sembra non esistere legge né pietà. La dimensione del fenomeno è tale che oltre due terzi dei braccianti stranieri non figurano nemmeno nelle liste ufficiali. “Solo in Puglia – spiega il segretario regionale della Flai Cgil Puglia Giuseppe Deleonardis – ci sono cinquemila africani iscritti negli elenchi anagrafici, che in gran parte risultano lavorare per meno di 51 giornate, come se per il resto del tempo se ne venissero in ferie… Ma il dato stupefacente è un altro: solo nei ghetti del foggiano se ne contano almeno quindicimila. I due terzi almeno, quindi, sono irregolari.” Peraltro moltissimi di questi schiavi godono dello status di rifugiato o sono addirittura richiedenti asilo: per lo Stato italiano non possono essere dei fantasmi e per la legge in molti casi non potrebbero nemmeno lavorare. In un’azienda produttrice di pomodorini, racconta Deleonardis, l’anno scorso sono stati trovati richiedenti asilo che lavoravano quattordici ore al giorno per poco più di trenta euro lordi.” E questo meccanismo perverso di gioco al ribasso, che contribuisce a scaricare i costi di produzione sull’anello più debole della catena, inizia a colpire anche i lavoratori italiani. Appoggiato al suo trattore, il signor Rocco Strada, coltivatore diretto, ci espone la sua visione dei fatti togliendosi il cappello davanti alla telecamera: “Questi immigrati sono esseri umani come noi – farfuglia in un misto di italiano e dialetto – Hanno due occhi, due orecchie, un naso… Ma perché non se ne stessero a casa loro? Vivono con venti euro al giorno, perché i proprietari dovrebbero spenderne cinquanta per un operaio italiano?” Chissà come risponderebbe l’americano. Come noi, una risposta non ce l’ha. Lontano da ogni forma di civiltà, isolato in una baraccopoli che brucia nel sole, sa solamente che domattina alle tre e mezzo suonerà di nuovo il clacson della macchina che lo porterà al lavoro nei campi. Da queste parti, già accettare di dire le cose come stanno è una vittoria del coraggio.

Caporalato, nel ghetto salentino di Nardò l'arruolamento degli sfruttati è via Whatsapp. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane, scrive Chiara Spagnolo il 27 luglio 2016 su "La Repubblica". Il caporalato ai tempi di Internet vive grazie a Telegram e Whatsapp: messaggi in arabo, inglese e francese per convocare i braccianti al lavoro e concordare le paghe, perfino le foto dei capisquadra per dimostrare chi ha lavorato e quanto. Evolve la complessa organizzazione para-criminale che gestisce il lavoro nelle campagne del Salento. E nel ghetto di Nardò i migranti non staccano gli occhi dai telefonini. Entrare in quella terra di mezzo in contrada Arene-Serrazze è impresa ardua. Difficile portare in mano videocamere e macchine fotografiche, pure il telefono cellulare è meglio metterlo via. Perché i ragazzi del ghetto - almeno duecento, di una decina di nazionalità - dopo essere stati esibiti per anni sui media, guardano tutti con sospetto. La rivolta della masseria Boncuri del 2011 ormai è un ricordo e l'obiettivo primario di ognuno è solo lavorare qualche ora al giorno e tornare al campo con pochi euro in tasca. I più fortunati racimolano 30 euro a giornata, qualcuno molto meno, considerato che la raccolta del pomodoro viene pagata circa 3,5 euro a cassone (ciascuno da 350 chilogrammi) e le angurie 5 euro all'ora. Contratti non ne ha firmati nessuno. O almeno così raccontano i lavoratori, mostrando fogli che indicano una fantomatica disponibilità al lavoro acquisita dalle aziende. Con la mediazione rigorosa dei caporali, che sono stati i primi ad arrivare in Salento e ora gestiscono il lavoro con il telefonino, affidando ai capisquadra le verifiche nei campi e anche il trasporto delle persone. Dal ghetto si parte alle 5,30-6, intorno alle 12,30 molti furgoni sono di ritorno perché alcune aziende rispettano l'ordinanza del sindaco, Pippi Mellone, che ha inibito il lavoro dalle 12 alle 16. I 15 proprietari delle ditte più grosse hanno fatto ricorso al prefetto e al Tar, ma per il primo cittadino indietro non si torna. Lui la patata bollente dei braccianti l'ha ereditata a stagione iniziata: in un'area comunale accanto alle casupole sono state sistemate 22 tende (20 del ministero dell'Interno e due del Comune), container con bagni e docce inviati dalla Regione e da Coldiretti, aperto un presidio sanitario e avviati corsi sulla sicurezza sul lavoro. Nel campo, però, trovano posto 132 persone a fronte di almeno 400 che orbitano nell'hinterland neretino e da quest'anno si spingono a lavorare fino al Brindisino, a Ginosa, al Metapontino. Per gli altri resta il ghetto, proprietà comunale in cui neppure gli addetti alla raccolta della spazzatura vogliono mettere piede, limitandosi a svuotare i tre bidoni vicino al cancello. Dentro, per forza di cose, i rifiuti sono ovunque, i servizi igienici non esistono e un odore nauseabondo ammorba l'aria. Nelle casupole costruite con materiale di risulta si cerca di mantenere una parvenza di dignità, ma non è facile quando il pavimento è la terra rossa e abiti e suppellettili vedono l'acqua di radi. I gruppi sono divisi per etnie e poi anche per tribù - spiega Angelo Cleopazzo di Diritti a Sud - ognuno con un capo che mantiene l'ordine e stempera i conflitti. A pochi metri dall'ingresso il primo bar, con tre uomini intenti a preparare il pranzo per chi torna dal lavoro: "Oggi fave, pomodoro, uova e cipolla", spiega un ragazzone che poi insiste per offrire il caffè. Più avanti si cambia Paese d'origine e quindi menù: "Oggi uova e carne, assaggia questo frullato, lo faccio io tutti i giorni". Il sapore è buono, il bicchiere grande costa un euro, 2 il panino, 50 centesimi il caffè. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane portate dalle matrone e gestite da protettori. Perché se pure nel ghetto di Nardò lo Stato non vuole entrare, dentro ci sono comunque persone. Che hanno rinunciato ai diritti di lavoratori, ma non alla loro umanità.

Bracciante schiavo che si ribella, scrive Giovanni Masini il 28 luglio 2016 su "Gli occhi della Guerra". Da Boreano (Potenza). Non è facile, per uno schiavo, ribellarsi ai propri padroni. Così come non è semplice trovare il coraggio di denunciare tutto davanti a una telecamera. Eppure, anche fra i dannati del caporalato di casa nostra, c’è chi osa alzare la testa e rifiutare il sistema criminale di sfruttamento e di ricatto che ogni anno costringe in catene decine di migliaia di braccianti irregolari. Per incontrare uno dei rari Spartaco contemporanei dobbiamo spingerci fino in Lucania, nella terra che diede i natali al poeta latino Orazio. Un volontario di sosRosarno, l’associazione anti-caporalato nata dopo le rivolte di migranti in Calabria, ci ha fornito il contatto di un bracciante disposto a “parlare” dei meccanismi di questa industria della morte. Di lui abbiamo solo un numero di telefono e un soprannome, “l’americano”. Vive in una baracca di plastica e lamiere sperduta in mezzo ai campi di grano, dove il sole estivo picchia come un martello e il frinire delle cicale assorda ogni pensiero. L’americano, che poi scopriamo chiamarsi Youssif, è un lavoratore relativamente emancipato: parla un discreto italiano ed è riuscito a mettere da parte abbastanza denaro per potersi permettere una bicicletta e qualche gallina per le uova. Ci riceve nella sua baracca, dove ha sistemato un generatore di corrente recuperato chissà dove e qualche sedia. La sera ospita i compagni di lavoro per bere qualche birra insieme. Lui lo chiama “il suo bar”. Per l’affitto della terra su cui ha costruito la baracca paga al proprietario del fondo cinquanta euro al mese. Periodicamente, spiega, il padrone distrugge le capanne dei braccianti per liberare il terreno. Gli incendi non sono infrequenti. I lavoratori si spostano di qualche metro e tutto ricomincia da capo. Anche qui vigono le medesime leggi che regolano la vita dei braccianti di Rignano: dei trentacinque euro di paga giornaliera, al lavoratore ne finiscono circa venti. Tutte le masserie abbandonate, parla piano Youssif indicando i casolari diroccati all’orizzonte, sono piene di braccianti. A volte la brutalità dei caporali si spinge fino a ritirare loro i passaporti; non è raro che le donne, specialmente quelle dell’est, vengano ricattate e avviate alla tratta della prostituzione. In queste terre selvagge sembra non esistere legge né pietà. La dimensione del fenomeno è tale che oltre due terzi dei braccianti stranieri non figurano nemmeno nelle liste ufficiali. “Solo in Puglia – spiega il segretario regionale della Flai Cgil Puglia Giuseppe Deleonardis – ci sono cinquemila africani iscritti negli elenchi anagrafici, che in gran parte risultano lavorare per meno di 51 giornate, come se per il resto del tempo se ne venissero in ferie… Ma il dato stupefacente è un altro: solo nei ghetti del foggiano se ne contano almeno quindicimila. I due terzi almeno, quindi, sono irregolari.” Peraltro moltissimi di questi schiavi godono dello status di rifugiato o sono addirittura richiedenti asilo: per lo Stato italiano non possono essere dei fantasmi e per la legge in molti casi non potrebbero nemmeno lavorare. In un’azienda produttrice di pomodorini, racconta Deleonardis, l’anno scorso sono stati trovati richiedenti asilo che lavoravano quattordici ore al giorno per poco più di trenta euro lordi.” E questo meccanismo perverso di gioco al ribasso, che contribuisce a scaricare i costi di produzione sull’anello più debole della catena, inizia a colpire anche i lavoratori italiani. Appoggiato al suo trattore, il signor Rocco Strada, coltivatore diretto, ci espone la sua visione dei fatti togliendosi il cappello davanti alla telecamera: “Questi immigrati sono esseri umani come noi – farfuglia in un misto di italiano e dialetto – Hanno due occhi, due orecchie, un naso… Ma perché non se ne stessero a casa loro? Vivono con venti euro al giorno, perché i proprietari dovrebbero spenderne cinquanta per un operaio italiano?” Chissà come risponderebbe l’americano. Come noi, una risposta non ce l’ha. Lontano da ogni forma di civiltà, isolato in una baraccopoli che brucia nel sole, sa solamente che domattina alle tre e mezzo suonerà di nuovo il clacson della macchina che lo porterà al lavoro nei campi. Da queste parti, già accettare di dire le cose come stanno è una vittoria del coraggio.

Cgil: in Capitanata almeno 20.000 lavoratori invisibili, scrive il 30 luglio 2016 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il cosiddetto ghetto di Rignano Garganico è solo un pezzo del problema dell’agricoltura in Capitanata, dove la vera questione è l’illegalità diffusa: è quanto sostiene in una nota la Flai Cgil di Foggia prendendo spunto dalla lite di tre giorni fa nella baraccopoli culminata nell’uccisione di un malese ad opera di un ivoriano, che è stato fermato nelle ore successive. «Almeno 20.000 lavoratori in agricoltura, pari al 50% degli iscritti negli elenchi anagrafici - scrive il sindacato - sono privi di diritti e invisibili ai mass media. A questi devono essere sommati almeno altri 10-15 mila lavoratori completamente in nero che non vengono iscritti negli elenchi anagrafici e che sono fuori da ogni circuito di legalità». La Cgil sottolinea che il fenomeno del ghetto di Rignano "interessa l’opinione pubblica e le istituzioni soprattutto nei tre mesi estivi, mentre sembra quasi cadere nel dimenticatoio per i restanti mesi, un luogo come altri della Capitanata. Rignano non è l’unico, probabilmente è il più vasto e forse il più famoso, sotto i riflettori dei media internazionali e nazionali». La Cgil fornisce una serie di cifre sul lavoro nero in agricoltura in Capitanata: i lavoratori africani censiti negli elenchi anagrafici al 2014 sono 2.646, e di questi solo 588 hanno più di 51 giornate lavorative, mentre 1.151 hanno lavorato nell’anno nella provincia di Foggia per meno di 10 giornate. Stesso destino spetta ai lavoratori bulgari, che sono 4.289 di cui 3.600 con meno di 51 giornate mentre 2.300 non raggiungono le 10 giornate. Infine ci sono 11.451 romeni, dei quali 8.400 non raggiungono le 51 giornate annue. Un contesto complessivo, scrive la Cgil, che frutta all’economia illegale milioni di euro e che andrebbe analizzato nel suo insieme come un sistema strutturato e complesso gestito in modo organizzato, «sottaciuto da sacche di assuefazione, anche da parte delle istituzioni». Per il sindacato serve «un’azione sinergica tra le parti sociali con le parti datoriali», le aziende di trasformazione in loco «devono pretendere che i propri conferitori, le aziende agricole di produzione, debbano essere iscritte nella rete di qualità per il lavoro agricolo», ovvero «debbano essere eticamente sostenibili».

Non solo extracomunitari. Italiani schiavi nei campi per tre euro l’ora, inchiesta di Giovanni Masini con video di Roberto Di Matteo del 29 luglio 2016 su "Gli occhi della Guerra". I sindacati di sinistra disprezzano le riforme sul lavoro che danno un filo di speranza ai disoccupati non politicizzati. I sindacati di sinistra vogliono assunti sindacalizzati, e per i loro protetti ci riescono, per poter mantenere i sindacati con i prelievi forzosi in busta paga. Assunzione che per i più mai arriverà per l’esoso costo del lavoro. Con il buono lavoro, invece, si ha la speranza di svolgere almeno dei lavori saltuari. L’alternativa è lo sfruttamento del caporalato, che a quanto sembra i sindacati con le loro posizioni non vogliono debellare. “Il caporalato è andare dalle persone che stanno morendo e farle finire di morire”. La frase, lapidaria, è di un proprietario terriero della provincia barese, che intercettiamo alle cinque del mattino mentre assiste all’inizio dell’acinellatura: la difficile operazione di pulitura dei grappoli di uva da tavola, da preparare verso fine luglio in vista della raccolta di settembre. Gli acini più piccoli impediscono agli acini più grandi di crescere al meglio e vanno rimossi uno per uno. Questo lavoro viene tradizionalmente svolto da braccianti chiamati a giornata, non di rado giovani sui vent’anni che cercano di guadagnare qualche soldo “facendo l’acinino”. Pulire i grappoli sembra un compito semplice, ma può rivelarsi massacrante. Trascorrere fino a dieci ore sotto il tendone di plastica che serve a proteggere l’uva contro la pioggia con temperature che superano i quaranta gradi, le braccia sempre sollevate e il caporale che incalza chi lavora meno velocemente, non è un lavoro da signorine. Eppure, negli ultimi anni, sono sempre di più le donne che vanno a giornata a lavorare in campagna. Non più giovani che vogliono pagarsi gli studi o magari la vacanza, ma madri di famiglia che accettano di lavorare anche per venti euro al giorno pur di sfamare la propria prole. Alle quattro del mattino si mettono in viaggio dalle province meno ricche della Puglia, Brindisi e Taranto. Sui pullman viaggiano per ore fino alla zona compresa fra Bari, Andria e Foggia, dove c’è più richiesta di manodopera. Il sindacato stima che ogni notte si mettano in movimento fra trentamila e quarantamila donne, per la stragrande maggioranza italiane. A volte si portano dietro anche il marito, il fratello, i figli. La miseria costringe ad accettare ogni tipo di ricatto. Anche la truffa dei fogli di ingaggio, che consente a molti datori di lavoro di conferire una patina di legalità – anche se solamente formale – al lavoro dei braccianti alle loro dipendenze. Il meccanismo è semplice: i braccianti vengono assunti per quindici giorni con il sistema del part-time orizzontale e (sotto)pagati per un mese. Così facendo l’azienda risulta sempre in regola con le uscite, i contributi previdenziali e tutte le norme sul lavoro: se mai dovesse arrivare un’ispezione, si fa sempre in tempo a dire che il bracciante ha iniziato a lavorare da due ore, quando invece sta raccogliendo uva dalle cinque del mattino. Come se questo non bastasse, molto spesso i fogli di ingaggio vengono intestati ad amici o parenti dei proprietari terrieri, che così, se non si superano le 51 giornate di lavoro in un anno, possono godere dell’assegno di disoccupazione. Ma le truffe a danni dello Stato si sommano a quelle, se possibili ancora più gravi, commesse alle spalle dei braccianti diseredati. Dalle tabelle salariali emerge che la paga giornaliera di un operaio di “secondo livello” (fra cui quelli, ad esempio, addetti all’acinellatura) non dovrebbe essere inferiore, al lordo, a 47 euro. Una paga quasi doppia al salario medio di un operaio irregolare. Nemmeno gli orari vengono rispettati: da contratto la giornata dovrebbe durare sei ore e mezza più due di straordinario, ma nella realtà questo tempo può quasi raddoppiare. Non è raro che le donne lavorino dalle sei del mattino alle sei di sera. Alla paga lorda, come succede per gli africani, dev’essere sottratto il costo del trasporto sul posto di lavoro (che, se superiore a un’ora e mezza, competerebbe contrattualmente all’azienda). Per quanto questo fenomeno sia sulla bocca di tutti, trovare qualcuno disposto a parlarne è ancora più difficile che nel ghetto di Rignano Garganico. La manodopera non manca e chi “parla” rischia di trovarsi senza lavoro da un giorno all’altro. Ogni tanto la questione torna alla ribalta delle cronache, soprattutto quando, tre o quattro volte all’anno, qualche bracciante muore sul posto di lavoro. È il caso della bracciante quarantanovenne Paola Clemente, morta nel luglio 2015 mentre lavorava nelle vigne della campagna di Andria. Un malore provocato dai quarantadue gradi all’ombra e, quasi certamente, dal lavoro estenuante. Il suo stipendio era di appena 27 euro al giorno. Nel processo ancora in corso, per cui, nonostante i tanti mesi trascorsi, non ci sono ancora stati rinvii a giudizio, è indagato fra gli altri Ciro Grassi, l’autista del bus che aveva condotto la Clemente fino nei campi, dal paese del Tarantino di cui era originaria. Ciro Grassi è anche il nome che leggiamo sulla fiancata di un bus parcheggiato, fin dalle cinque del mattino, sul bordo di una vigna delle campagne baresi. Una coincidenza? Certo Grassi è solamente indagato e quindi innocente fino a prova contraria, ma resta comunque paradossale che la normativa non ne abbia sospeso l’attività per cui pure si è dichiarato innocente.

CI SONO PROFUGHI E PROFUGHI. 

Di Pontelandolfo e Casalduni (BN) non rimanga una pietra: 14 agosto 1861 l'eccidio, scrive Leonardo Pisani l'11 agosto 2016. «Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra.» Così disse il Generale Cialdini al Colonnello Eleonoro Negri. Era il 14 agosto 1861, in pieno periodo del grande Brigantaggio, qualche giorno prima il 7 agosto 1861 quando alcuni briganti della brigata Fra Diavolo, comandati da un ex sergente borbonico, il cerretese Cosimo Giordano, approfittando dell’allontanamento di una truppa delle Guardie Nazionali da Pontelandolfo, occuparono il paese, uccidendo i pochi ufficiali rimasti, issandovi la bandiera borbonica e proclamandovi un governo provvisorio. Successivamente L’11 agosto il luogotenente Cesare Augusto Bracci, incaricato di effettuare una ricognizione, si diresse verso Pontelandolfo alla guida di quaranta soldati e quattro carabinieri. Nei pressi del paese, gli uomini del reparto piemontese furono catturati da un gruppo di briganti e contadini armati che li portarono a Casalduni, dove furono uccisi per ordine del brigante Angelo Pica. Un sergente del reparto sfuggì alla cattura e successiva uccisione e riuscì a raggiungere Benevento dove informò i suoi superiori dell’accaduto. Costoro chiesero a loro volta un dettagliato rapporto ai capitani locali della Guardia Nazionale Saverio Mazzaccara e Achille Jacobelli. Ottenuti dettagli sull’accaduto, le autorità di Benevento informarono quindi il generale Enrico Cialdini. Racconta Carlo Melegari, a quel tempo ufficiale dei bersaglieri, che il rapporto inviato a Cialdini conteneva una descrizione raccapricciante dell’uccisione dei bersaglieri. Cialdini, consultandosi con altri generali, ordinò l’incendio di Pontelandolfo e Casalduni con la fucilazione di tutti gli abitanti dei due paesi “meno i figli, le donne e gli infermi”. Ma non fu così. Il colonnello Pier Eleonoro Negri, al comando di un battaglione di 500 bersaglieri, massacrò un numero stimato di oltre 400 inermi cittadini, altre fonti dicono quasi un migliaio e distrusse il paese incendiandolo: molte donne furono stuprate prima di esser assassinate e non furono forniti dati ufficiali sul numero totale delle vittime della repressione. Il generale Cialdini, per l’attuazione del piano, incaricò il colonnello Pier Eleonoro Negri e il maggiore Melegari, che comandavano due reparti diretti rispettivamente a Pontelandolfo e a Casalduni. All’alba del 14 agosto i soldati raggiunsero i due paesi. Mentre Casalduni fu trovata quasi disabitata (gran parte degli abitanti riuscì a fuggire dopo aver saputo dell’arrivo delle truppe), a Pontelandolfo i cittadini vennero sorpresi nel sonno. Le chiese furono assaltate, le case furono dapprima saccheggiate per poi essere incendiate con le persone che ancora vi dormivano. In alcuni casi, i bersaglieri attesero che i civili uscissero delle loro abitazioni in fiamme per poter sparare loro non appena fossero stati allo scoperto. Gli uomini furono fucilati mentre le donne (nonostante l’ordine di essere risparmiate) furono sottoposte a sevizie o addirittura vennero violentate: “Il saccheggio e l’eccidio durano l’intera giornata del 14. Numerose donne furono violentate e poi uccise. Alcune rifugiatesi nella chiesa prima denudate e trucidate davanti all’altare. Una, oltre ad opporre resistenza, graffiò a sangue il viso di un piemontese; le furono mozzate entrambe le mani e poi fucilata. Anche i luoghi di culto non furono risparmiati, le chiese profanate, le sacre ostie calpestate; i voti d’argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive rubati. Gli scampati al massacro furono rastrellati e inviati a Cerreto Sannita, dove circa la metà fu fucilata. A Casalduni la popolazione, avvisata in tempo, per la maggior parte fuggì. Alle quattro del mattino, il 18° battaglione, comandato dal Melegari e guidato dal Jacobelli e da Tommaso Lucente di Sepino, circondò il paese. Il Melegari, attenendosi agli ordini ricevuti dal generale Piola-Caselli, dispone a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna e attacca baionetta in canna concentricamente. La prima casa ad essere bruciata è quella del sindaco Ursini. Agli spari e alle grida, i pochi rimasti in paese escono quasi nudi da casa, ma sono infilzati dalle baionette dei criminali piemontesi. Messo a ferro e a fuoco Casalduni e sterminati tutti gli abitanti trovati. Dalle alture i popolani osservano ciò che sta accadendo nei due paesi, ma sono impotenti di fronte a tanto orrore.  Carlo Margolfo, uno dei militari che parteciparono alla spedizione punitiva, scrisse nelle sue memorie: «Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava.» Angiolo De Witt, del 36° fanteria bersaglieri, così descrive quell’episodio: “… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un’intera giornata: il castigo fu tremendo…”. Alcuni particolari del massacro si leggono nella relazione parlamentare che il deputato Giuseppe Ferrari scrisse a seguito del suo sopralluogo a Pontelandolfo all’indomani del terribile evento. Nella relazione si citano due fratelli Rinaldi, uno avvocato e un altro negoziante, entrambi liberali convinti. I fratelli, usciti fuori di casa per vedere cosa stesse accadendo, vennero freddati all’istante e uno dei due, ancora in agonia dopo i colpi di fucile, fu finito a colpi di baionetta. Un altro episodio citato è quello di una ragazza, tale Concetta Biondi, che rifiutandosi di essere violentata da alcuni soldati, fu fucilata. «Una graziosa fanciulla, Concetta Biondi, per non essere preda di quegli assalitori inumani, andò a nascondersi in cantina, dietro alcune botti di vino. Sorpresa, svenne, e la mano assassina colpì a morte il delicato fiore, mentre il vino usciva dalle botti spillate, confondendosi col sangue» (Nicolina Vallillo) Al termine del massacro, il colonnello Negri telegrafò a Cialdini: «Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora.» Questo eccidio è stato sottaciuto, nascosto per più di un secolo nei “testi ufficiali” di storia, per una commemorazione ufficiale di un massacro di inermi si è dovuto aspettare Centocinquant’anni dopo, il 14 agosto 2011, Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, ha commemorato quella strage, porgendo a tutti gli abitanti di quella che è stata definita «città martire», le scuse dell’Italia.

Marcinelle, 60 anni fa la tragedia nella miniera belga. L'8 agosto del 1956 nelle viscere della miniera del Bois du Cazier morivano 262 minatori. 136 erano italiani fuggiti dalla miseria, scrive il 7 agosto 2016 Edoardo Frittoli su Panorama. I Belgi li trattavano più o meno come prigionieri di guerra. Erano i lavoratori italiani della miniera del Bois du Cazier a Marcinelle vicino a Charleroi. Si erano sentiti spesso chiamare "musi neri" o "sporchi maccaroni". Siamo nel 1956, ma le condizioni di vita dei minatori emigrati riportavano ad almeno 10 anni indietro, quando le misere baracche dove alloggiavano erano state utilizzate prima come lager dai nazisti e poi come campo di prigionia per gli stessi tedeschi. Il Belgio si trovava in quegli anni in una situazione opposta a quella dell'Italia stremata da una guerra perduta. Aveva molte risorse e poca mano d'opera disponibile. Il nostro Paese invece mancava completamente di riserve energetiche, centellinate dai vincitori. Fu un accordo politico siglato nel 1948 dai governi di Roma e Bruxelles a portare decine di migliaia di italiani spinti dalla fame a lavorare nei pericolosi cunicoli delle miniere del Belgio. Braccia umane in cambio di carbone. Il contratto prevedeva per i minatori un periodo minimo di un anno di lavoro, pena l'arresto in caso di rescissione da parte loro. Per 8 anni fino al giorno della tragedia, gli italiani lavorarono giorno e notte in cunicoli alti appena50 centimetri a più di 1000 metri dentro le viscere della terra, spesso vittima di esplosioni di grisù e di malattie gravi come la silicosi. La speranza per 262 minatori, di cui 136 italiani, si spense poco dopo le 8,20 del mattino dell'8 agosto 1956. Nel pozzo N.1, un impianto obsoleto in funzione dal 1930, si verificò un incidente ad un ascensore carico di carrelli di carbone. Uno di questi sporgeva di alcuni centimetri dal vano di carico e per un errore umano fu fatto partire verso la superficie. L'attrito del carrello sporgente spezzò contemporaneamente cavi elettrici e tubazioni d'olio per macchinari ad alta pressione. L'incendio si innescò immediatamente e invase presto le gallerie puntellate con travi di legno e prive di sistemi di sicurezza efficaci. Presto dai due pozzi della miniera iniziarono a levarsi alte colonne di fumo, mentre la squadra di soccorso del Bois du Cazier distava ben 1,5 km dall'impianto. Non fu neppure fermato il pozzo di aerazione, fatto che contribuirà ad alimentare l'incendio ed i gas letali da questo sprigionati. Le fiamme furono domate solo 24 ore dopo con l'ausilio dei pompieri di Charleroi, ma i superstiti furono soltanto 13. 262 cadaveri giacevano inghiottiti nelle gallerie, ed i quotidiani uscirono con il titolo a cinque colonne "Sono tutti morti". Gli ultimi corpi furono recuperati il 22 marzo del 1957, mentre iniziava l'inchiesta sulle responsabilità della tragedia. Come prevedibile, la Commissione belga nella quale furono chiamati anche alcuni ingegneri minerari italiani, scagionò la società delle miniere del Bois du Cazier in un iter pieno di omissioni e vizi di forma. Nessuna tra le vittime ebbe giustizia né risarcimento in quell'estate di 60 anni fa quando la vita umana valeva una manciata di carbone. Per un approfondimento sulla storia del disastro di Marcinelle, segnaliamo il libro di Toni Ricciardi "Marcinelle, 1956: quando la vita valeva meno del carbone".

Marcinelle sessant'anni dopo. Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Muoiono 262 minatori, e di questi 136 sono italiani, scrive Maurizio Di Fazio l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. Ha scritto Paolo Di Stefano nel suo “La Catastrofa” (Sellerio, 2011): “Troviamo tutti i nomi dell’Italia di sempre, Antonio, Giovanni, Mario… e i nomi delle tante Italie di un tempo. Nomi-casa, nomi-memoria, nomi-storia, nomi-simbolo, nomi-speranza, nomi-destino: (tra gli altri) Bartolomeo, Santino, Valente, Camillo, Modesto, Primo, Secondo, Terzo, Annibale, Benito, Adolfo, Assunto, Felice, Liberato, Calogero, Otello, Abramo. E Rocco. Si ripete cinque volte il nome Rocco, tra i morti dell’8 agosto 1956: c’è persino un Rocco Vita”. Sessant’anni dalla più immane tragedia del lavoro italiano all’estero. Dalla strage di guerra in tempo di pace di Marcinelle. Divampata alle otto e dieci del mattino. Un addetto ai carrelli fa risalire nel momento sbagliato un montacarichi, che sbatte contro una trave metallica che va a squarciare un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa. L’incendio è immediato e micidiale, non lascia scampo, anche perché in quel complesso di antica estrazione (dallo smantellamento più volte rinviato) tutte le strutture sono ancora in legno. Il sistema di sicurezza è inchiodato all’ottocento. Non sono in dotazione nemmeno le maschere con l’ossigeno e così quasi tutti moriranno soffocati dall’ossido di carbonio, di concerto col lavorio infame delle fiamme. Soltanto dodici i superstiti. Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Crepano 262 minatori, e di questi 136 sono italiani. Quasi la metà di loro, nel numero di 60, è abruzzese; ben 23 vittime provengono da Manoppello, un impalpabile paesino accartocciato ai piedi di Chieti, emigrato in blocco in Vallonia e altrove perché a casa propria il lavoro era un po’ come la materia oscura dell’universo (e senza effetti gravitazionali). Gli altri arrivano dalle altre regioni del mezzogiorno e del nord-est, spesso portandosi dietro la famiglia al completo. Marcinelle: un’indicibile calamità innaturale, abruzzese, italiana e mondiale seguita (per la prima volta) in diretta dai media internazionali ora dopo ora. Le operazioni di salvataggio dureranno due settimane, al cospetto di una folla disciplinata e sgomenta: i parenti di chi è rimasto sepolto per sempre nel sottofondo delle viscere della terra. Almeno prima erano tumulati sì, ma vivi. Pregano nel dialetto natìo le centinaia di mogli e figli; invocano, invano, Santa Barbara. Il 23 agosto, l’annuncio ferale: “Sono tutti morti”. Gli ultimi li hanno rinvenuti a 1.035 metri di profondità. Abbracciati gli uni agli altri. Solidali e impavidi fino all’ultimo respiro. Dal 1990 la miniera del Bois du Cazier è un monumento storico; un luogo della memoria. Nel 2001 è stata introdotta nel nostro calendario civile la “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”: ricorre non a caso ogni 8 agosto, anniversario di Marcinelle. Nel 2012 la silicosi, il morbo del minatore, era ancora la malattia professionale più diffusa in Belgio, nonché la principale causa di morte nella popolazione. Nel 1956 a lasciarci la pelle erano stati contadini per lo più: un esercito sub-industriale di riserva in esubero in quell’Italia Anno Zero del dopoguerra. La carica dei macaronì, come venivano chiamati con una punta di disprezzo. Era il frutto dell’accordo siglato tra Roma e Bruxelles nel 1948, sulla falsariga perfetta di quello con la Germania nazista del 1937: braccia (duemila nuovi minatori tricolori a settimana) in cambio di carbone (duecento chili per ogni nostro lavoratore). Solo che il carbone arrivò molto di rado a destinazione, e questi poveri diavoli si spensero a venti, trenta o quarant’anni nella strenua e beffarda speranza di un futuro migliore. Anime pure, non ne avevano percepito l’inganno intrinseco. Pensavano finalmente di scegliere per se stessi, dopo secoli di subalternità, e invece erano precettati con furbizia; si credevano autonomi quando stavano firmando per la loro nuova schiavitù: minatori volontari, ma fortemente indotti. “Regolari o irregolari, l’importante era che ne partissero il più possibile per andare a scavare nelle viscere della terra quel carbone che sarebbe dovuto servire per il rilancio economico della disastrata Italia” scrive lo storico delle migrazioni Toni Ricciardi in “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone”, da poco uscito per Donzelli. Tra il 1945 e il 1950, il 45% dei maschi maggiorenni dello Stivale sognava di espatriare. Si partiva a cuor leggero e con febbrile entusiasmo, sulla scorta di quegli affascinanti manifesti rosa che tappezzavano tutte le città e cittadine della neonata Repubblica italiana: “Operai italiani! Condizioni particolarmente vantaggiose per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe”. Seguiva elenco lirico delle mirabili e progressive novità che li attendevano sul posto: “ottimi salari giornalieri, premi temporanei, assegni familiari, scorte di carbone gratuito, biglietti ferroviari gratis, premi di natalità, ferie, possibilità di rimesse per l’Italia, facilità di alloggio”. E graziose casette in legno e mattoni per i minatori con familiari al seguito. Ecco quello che molti di loro poi effettivamente trovavano nella dura prosa del distretto minerario di Charleroi (oggi meta di rapidi e confortevoli voli low cost), dopo viaggi estenuanti in treno lunghi anche due giorni e mezzo: baracche prive di acqua, gas, bagno interno, elettricità, e a volte persino del tetto. Stamberghe che pochi anni prima avevano ospitato, mutatis mutandis, i prigionieri di guerra russi e tedeschi. Al centro della scena, e dei retroscena, la cosiddetta battaglia del carbone. L’Italia che riaffiorava dalla seconda guerra mondiale era una nazione agricola, “povera e affamata di carbone, che all’epoca rappresentava la fonte energetica primaria” (nel 1944 il 92 per cento dell’energia prodotta derivava dal carbone). No carbone, no ricostruzione. L’equazione fu presto fatta: noi straripiamo di disoccupati, il Belgio possiede miniere a volontà? Allora facciamo uno scambio equo. Anche perché i minatori autoctoni non volevano più calarsi negli abissi del sottosuolo: troppo rischioso e potenzialmente letale. E per ovvi motivi non si poteva più contare sull’apporto dei prigionieri di guerra. Non restava che imbarcare quote cospicue di “libera” manodopera straniera: “Non volevamo i lavoratori stranieri, ma abbiamo dovuto cercarli per sopravvivere economicamente”. Nuovi prigionieri in tempo di pace. Porte aperte agli italiani. Benvenuti, macaronì! Tappeti stesi rosso sporco-sangue&fuliggine per voi. Lo scambio minatore-carbone (ribattezzato, non a caso, “accordo di deportazione”) divenne una priorità nazionale e bipartisan tanto a Roma quanto a Bruxelles. Dal 1948 al 1955, in base alle cifre ufficiali, furono più di 180 mila gli italiani che passarono per le miniere belghe. L’impatto era traumatico, terribile. Per la grande maggioranza di loro, ragazzi di campagna “partiti con il sole, con il cielo splendido” si trattava del debutto nel ventre inglorioso della terra. Così “dopo le prime ore in fondo alla mina (cioè la miniera), in media 250-500 minatori – un quarto, se non a volte la metà dell’intero contingente arrivato – stracciavano il contratto chiedendo a tutti i costi di essere destinati ad altra occupazione, se non addirittura di essere rimpatriati immediatamente” afferma Ricciardi. Era fulmineo, era irrefrenabile il desiderio collettivo di tornarsene a casa. Meglio la miseria della vita nei campi, ma col sole in faccia, di quelle discese quotidiane nel regno delle ombre roventi. A mille metri sotto, rannicchiati dentro un buco in posizioni innaturali: se questo è un lavoro. La reazione delle autorità belghe fu implacabile: far “soggiornare” in carcere tutti quelli che si rifiutavano di scendere in fondo alla mina. Si accavallano a migliaia le storie dei minatori trasferiti di forza al Petit-château, un carcere di fatto: “I malcapitati venivano stipati anche in quaranta in celle di dieci metri per cinque. La latrina era fatta da buglioli posti nell’angolo della stanza che venivano svuotati due volte al giorno, mentre i letti erano sacchi di paglia buttati sul pavimento. Per ripararsi dal freddo, visto che i vetri superiori delle finestre erano rotti, veniva concessa loro solo una piccola coperta”. Questo è il riassunto di un’ampia relazione che nell’ottobre del 1946 giaceva sulle scrivanie dei ministeri romani. Già, perché le classi dirigenti sapevano. Sin dapprincipio. Conoscevano le “condizioni in cui vivevano e lavoravano decine di migliaia di minatori volontari indotti”. Andarono in visita al Bois du Cazier e dintorni Amintore Fanfani, allora ministro del lavoro; il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi; un giovanissimo Aldo Moro, l’unico a dipingere quell’occupazione come “abbrutente, inumana, svolta lontano dalla luce del sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore”. Ha scritto la storica belga Anne Morelli: “L’Italia ha venduto i suoi figli? La responsabilità dei governanti italiani dell’epoca è molto pesante. Hanno inviato coscientemente migliaia di giovani in perfetta salute sapendo molto bene ciò che li attendeva. Sapevano perché i belgi non scendevano più nelle miniere. Ciò malgrado, i dirigenti italiani hanno finto di non esserne al corrente. Oggi tutti quelli che hanno fatto un’intera carriera nelle miniere sono morti al prezzo di terribili sofferenze. Li hanno venduti”. Tra i suoi effetti collaterali, il disastro di Marcinelle ha portato alla ribalta mediatica mondiale località e frazioni mai udite prima. A cominciare dal comune abruzzese di Manoppello (oggi noto per aver dato i natali al calciatore Marco Verratti), che contava settemila abitanti e “proprio in Belgio aveva esportato, dal 1946, 325 uomini”: quell’8 agosto del 1956 ne morirono 23 di cittadini manoppellesi in miniera. Un paese disseminato nel mondo: chi in America Latina, chi nell’America del nord, o in Australia. Ne ripercorre la sventura Annacarla Valeriano, autrice del capitolo che conclude il saggio di Toni Ricciardi: “Ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei quotidiani, le fotografie delle vedove e degli orfani perché l’Italia si domandi dov’è Manoppello e perché la gente di questo paese è così povera e che cosa si può fare per sollevarla dalla miseria senza mandarla a morire in Belgio. Diciamo subito che non si può fare niente, perché il tessuto sociale di Manoppello, il connettivo che tiene insieme duecento case del paese intorno alla parrocchia è proprio la miseria. La miseria a Manoppello è quello che è a Ivrea la Olivetti, la Fiat a Torino, il porto a Genova, i commerci e l’industria a Milano, la burocrazia a Roma” tratteggiò un cronista de “Il Giorno”. A Manoppello c’era “un solo cinema che costa cento lire e mette in programma soltanto vecchi film tagliati e mal ridotti” e si vendeva “tutto a crediti con la “libretta”, il pane, la pasta, persino il latte, persino il formaggino, persino i lacci delle scarpe, tutto si vende a credito” aggiunse l’inviato dell’Unità. Giungeva da Turrivalignani (cinque chilometri a ovest di Manoppello) Cesare Di Berardino, il nonno di Enrica Buccione, la ragazza che lo scorso 22 giugno ha tenuto un memorabile discorso al Parlamento europeo di Bruxelles: “Io sono la nipote di una vittima. Quel tragico 8 agosto del 1956 mio nonno Cesare perse la vita insieme ad altri cinque familiari e a molti altri amici. Mia nonna rimase vedova a 35 anni con quattro bambine. E sono un'emigrante di terza generazione. Ho trascorso la maggior parte della mia vita in Italia. Lo scorso ottobre mi sono trasferita qui a Bruxelles con mio marito e un bimbo in grembo, alla ricerca delle mie radici”. Annacarla Valeriano: “I minatori di Marcinelle erano partiti da questi contesti, da questi luoghi intrisi di desolazione muta in cui si campava a stento nella speranza di migliorare la loro vita; una volta in Belgio, avevano dovuto accettare, insieme alle loro famiglie, una quotidianità ancora più pesante”. La morte era sempre in agguato: “Si avevano delle mascherine di plastica in dotazione, ma venivano puntualmente tolte, arrivati in fondo, perché il caldo era insopportabile e si arrivava zuppi di sudore. Tutti avevano paura, lì sotto. Il grisou (un gas combustibile inodore e incolore) faceva morti di frequente, perché faceva addormentare le perso­ne. Molti morirono così, andando per un bisogno e non tornando più” racconta l’ex minatore di Marcinelle Sergio Aliboni a Martina Buccione in “La nostra Marcinelle” (edizioni Menabò). Tutti morti, e tutti assolti nell’apocalisse sotterranea del 1956. Bastò esibire due mostri sacrificali qualunque. Per la commissione che fu chiamata a indagare, l’incidente era stato provocato dall’errata manovra compiuta da Antonio Iannetta, un 28enne di Bojano, un piccolo borgo del Molise famoso per le mozzarelle. Iannetta non capiva quasi per niente il francese e non riusciva a eseguire correttamente quello che gli veniva richiesto. La prima sentenza del 1959 mandò tutti assolti, e solo nel processo d’appello di due anni dopo la catastrofe venne considerata di origine colposa: ne era responsabile il direttore dei lavori del complesso minerario antidiluviano, il signor Adolphe Calicis. Per lui sei mesi di reclusione con la condizionale più una multa di duemila franchi. Tutti gli altri, innocenti e immacolati. Eppure già all’alba dell’orribile ‘56 il ministro belga Jean Rey aveva divulgato i “codici” della grande carneficina annunciata: dal gennaio 1947 al dicembre del 1955, i morti nelle miniere del Paese erano stati 1164. Quasi la metà italiani. “In realtà, la mattanza fu ben più alta. Dal 1841 al 1965 furono circa 170 l’anno, per un totale di oltre 21 mila in poco più di un secolo. Solo nel secondo dopoguerra, dal 1946 al 1965, si sono registrate 3400 vittime” specifica Ricciardi. E c’è la storia di Maria. Maria che non ha “conosciuto mai la faccia di un politico”, dopo il fattaccio. Maria che suo marito Camillo, falciato poco più che ventenne a Marcinelle, lui che “voleva morire di vecchiaia, non di silicosi”, non l’ha mai abbandonata veramente. Maria che il giorno in cui il corpo di suo marito rientrava a Manoppello, a tre mesi e mezzo dal misfatto, era in ospedale. Maria che negli istanti esatti in cui la cassa di suo marito Camillo sfilava in funerale per le vie del paese, stava partorendo la loro Camilla. Maria che da sola cristallizza e sublima il ricordo di quella vergognosa “Catastrofa”. Di questi 262 minatori, martiri indotti. Morti d’emigrazione. Di silenzio. Di indignazione. Per il lavoro. Per il carbone. Per una vita migliore. Per il futuro. Per l’Europa unita. Per tutte le Manoppello, Lettomanoppello e Turrivalignani d’Europa. Per tutti i loro cari. Per non farli preoccupare. Per dare sostegno a chi se n’era rimasto al paesello. Per ridare fiato alla nostra industria. Per il benessere della nazione. Per la tenuta della famiglia. Per rimpatriare il prima possibile. Per il primo treno utile. Per affanno. Per l’inganno. Per il dolore. Per amore.

Quando l’Italia era “Lamerica” degli albanesi. Era l’8 agosto del 1991, esattamente 25 anni fa, quando la nave «Vlora», con a bordo 20mila migranti albanesi in cerca di futuro in Italia, sbarcava nel porto di Bari. La storia e le immagini di quei momenti entrati nella storia, scrivono Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi l'8 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Non c’è più stupore nel leggere sui giornali la notizia di uno sbarco di migranti sulle coste siciliane o sull’isola di Lampedusa, è un fenomeno quotidiano al quale siamo tristemente abituati, salvo indignarci quando al largo dell’Italia si ripetono tragici naufragi di uomini, donne e bambini in viaggio verso la salvezza, il sogno di un lavoro o più semplicemente una vita senza guerra. Non era così nel 1991, quando l’Italia diventò di colpo la terra promessa delle popolazioni balcaniche e in particolare dei nostri “vicini di casa” albanesi, ovvero di quei paesi in frantumi dopo la caduta del Muro e dell’Unione sovietica. Lo capimmo con chiarezza la mattina dell’8 agosto 1991, quando nel porto di Bari fece il suo ingresso la nave Vlora, carica all’inverosimile di 20 mila migranti giunti dall’Albania dopo un viaggio iniziato due giorni prima a Durazzo, a bordo di un mercantile malandato, fabbricato 30 anni prima nei cantieri di Genova. Qualche ora prima, la Vlora aveva già tentato l’approdo nel porto di Brindisi, ma l’allora viceprefetto Bruno Pezzuto aveva negato l’ingresso e convinto il comandante Halim Milaqi a navigare verso Bari: altre sette ore di viaggio, al timone di una nave difficile da governare, con la tensione alle stelle e la folla stipata fino al radar. L’Italia sperava, in quel breve margine di tempo, di potersi organizzare al respingimento e al rimpatrio immediato del mercantile, o almeno a disporre una temporanea accoglienza, ma a Bari non c’erano né il prefetto né il questore, entrambi in ferie, e le autorità cittadine, compreso il sindaco, furono avvisate quando la nave era già in porto. Le dimensioni di quello sbarco colsero le autorità centrali italiane totalmente impreparate, ma al vuoto istituzionale rispose la mobilitazione dei cittadini pugliesi e del sindaco Enrico Dalfino, che si attivarono subito per fornire ai migranti stremati i primi soccorsi, acqua, cibo e vestiario. A distanza di 25 anni gli albanesi in Italia sono diventati una delle comunità straniere più radicate e integrate nel nostro Paese, ma come dimostra ogni giorno la cronaca il problema migratorio resta ancora attualissimo e irrisolto, e il ricordo della Vlora e del suo carico di 20 mila anime è diventato un simbolo per l’Italia e per l’Europa intera.

8 agosto 2016. Vlora, 25 anni dopo. Bari ricorda il grande esodo, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 agosto 2016. Quello che stava succedendo dall’altra parte dell’Adriatico, nell’estate del 1991, lo abbiamo ricostruito nel tempo. In Albania avevano aperto le prigioni e, secondo i servizi segreti, a criminali, banditi comuni e balordi era stato «consigliato» di scomparire. Come? Fuggendo in Italia. A queste bande di malviventi in fuga si erano uniti i poveri disgraziati delle campagne, quelli che non avevano granché da lasciarsi alle spalle, ma anche molti giovani che nel tam tam di strada «Dai, partiamo, andiamo in Italia!» avevano proiettato la propria occasione di avventura, il gioco, la goliardata. Questa - variegata, colorata, inquietante - era l’umanità che abitava la Vlora. Sulla banchina 14 del porto di Bari, la mattina dell’8 agosto 1991, c’era anche Luca Turi, il nostro fotoreporter. Anche lui, in qualche modo, è un pezzo della «leggenda albanese»: le sue fotografie della vecchia carretta del mare stipata di uomini all’inverosimile hanno fatto il giro del mondo. «C’era gente che si sentiva male, chi simulava di sentirsi male, c’era il viavai di mezzi della finanza, dei carabinieri, della polizia, le ambulanze. Era tutto sporco, perché sulla banchina avevano scaricato il carbone qualche giorno prima. Era l’inferno», racconta Luca.

Il ricordo più intenso?

«Enrico Dalfino, il sindaco. Un uomo mite, come tutti ricorderanno, bene: in quei giorni mostrò tutt’altra faccia, la sofferenza e la rabbia».

E invece qual è la prima emozione legata all’incontro degli albanesi? 

«La fame. E la disperazione. Si lanciavano sui panini e sulle bottiglie d’acqua come animali selvaggi. Perché all’epoca non c’era la macchina dell’accoglienza di oggi».

Oggi c’è molta più organizzazione.

«Certo. Negli ultimi anni a Bari come in tutta Italia, la Protezione civile, le forze dell’ordine e i volontari hanno saputo accogliere i profughi. Il cibo, le cure mediche, i primi soccorsi, gli indumenti: tutto è già pronto. A queste persone viene garantita subito la salvaguardia della dignità. Io ricordo uomini sbarcati in mutande che in mutande sono rimasti per giorni».

Una curiosità: nell’epoca digitale sembra impossibile pensare che le fotografie un tempo andavano sviluppate e stampate. Come si riusciva 25 anni fa a rispettare i tempi di un giornale? 

«Facevamo la spola dal porto o dallo stadio al mio vecchio studio di via Cairoli. Ci davamo il cambio, toglievamo i rullini dalle macchine e li andavamo a sviluppare, scappando di qua e di là. Sì, i tempi erano più lunghi e lo stress a mille, ma certe fotografie di allora, credo, sono più autentiche di quanto non si possa fare oggi».

Lo Stadio della Vittoria: gli albanesi furono sistemati lì. E furono giorni durissimi.

«Gli elicotteri delle forze dell’ordine sorvolavano lo stadio in continuazione, anche per ragioni di sicurezza. Portavano acqua e viveri che venivano gettati sull’erba dall’alto. Sono scene indimenticabili. Anche perché la stanchezza e l’esasperazione degli albanesi a un certo punto divennero incontenibili. L’alloggio del custode dello Stadio fu letteralmente fatto a pezzi, ma non dimentichiamo che tra quelle migliaia di persone c’erano anche dei criminali serissimi».

L’allora capo della polizia Parisi venne a contrattare il loro possibile rientro in Albania.

«Lo ricordo fuori dallo Stadio. Propose di dare 50mila lire a testa per rimandarli indietro, per loro era una cifra strepitosa. Qualcuno alla fine se ne andò di sua spontanea volontà, altri fuggirono. Qualche altro è rimasto e in Italia davvero ha trovato fortuna». 

Si può dire che la storia professionale di Luca Turi sia anche in qualche modo legata alle sorti dell’Albania da quel 1991 in poi?

«Sono stato uno dei primi ad andare in Albania subito dopo la Vlora: la prima volta rimasi due ore in tutto. Ripresi la nave per rientrare in Puglia la sera stessa».

Perché? 

«Perché capii perché tutta questa gente era venuta a consumare il suo sogno italiano: in poche ore compresi le loro condizioni di vita, la miseria la disperazione. Mi portarono in una villa per farmi passare la notte: appena vidi gli scarafaggi uscire dal lavandino me ne scappai. Ma ci sono tornato molte altre volte: è un Paese che ha completamente cambiato volto».

Nel senso che le condizioni di vita sono migliorate?

«Assolutamente. Oggi si assiste piuttosto a un fenomeno inverso: sono gli italiani che vanno in Albania».

Un paradosso.

«Beh, a fronte della modernità, della pulizia e dei servizi, i prezzi sono bassissimi. Un bell’appartamento nel centro di Durazzo, dove molti nostri pensionati si trasferiscono, costa 120 euro al mese e con 20 euro puoi stare bene una settimana». 

Dopo 25 anni rimane in ogni caso la memoria collettiva di una città che seppe aiutare i profughi.

«È vero. I baresi mostrarono tutto il loro cuore. Nella disorganizzazione generale, è stata l’umanità delle persone, sindaco in testa, a governare l’emergenza». 

PROFUGHI E SPECULAZIONI.

Chi specula sui profughi. Un miliardo e 300 milioni: è quello che ha speso finora lo Stato per assistere le persone fuggite da Libia e Tunisia. Un fiume di denaro senza controllo. Che si è trasformato in business per albergatori, coop spregiudicate e truffatori, scrivono Michele Sasso e Francesca Sironi su "Espresso”. Erano affamati e disperati, un'ondata umana in fuga dalla rivoluzione in Tunisia e dalla guerra in Libia: fra marzo e settembre dello scorso anno l'esodo ha portato sulle nostre coste 60 mila persone. Profughi, accolti come tali dall'Italia o emigrati in fretta nel resto d'Europa: solo 21 mila sono rimasti a carico della Protezione civile. Ma l'assistenza a questo popolo senza patria è stata gestita nel caos, dando vita a una serie di raggiri e truffe. Con un costo complessivo impressionante: la spesa totale entro la fine dell'anno sarà di un miliardo e 300 milioni di euro. In pratica: 20 mila euro a testa per ogni uomo, donna o bambino approdato nel nostro Paese. Ma i soldi non sono andati a loro: questa pioggia di milioni ha alimentato un suk, arricchendo affaristi d'ogni risma, albergatori spregiudicati, cooperative senza scrupoli. Per ogni profugo lo Stato sborsa fino a 46 euro al giorno, senza verificare le condizioni in cui viene ospitato: in un appartamento di 35 metri quadrati nell'estrema periferia romana ne sono stati accatastati dieci, garantendo un reddito di oltre 12 mila euro al mese. Ancora una volta emergenza è diventata la parola magica per scavalcare procedure e controlli. Gli enti locali hanno latitato, tutto si è svolto per trattative privata: un mercato a chi si accaparrava più profughi. E il peggio deve ancora arrivare. I fondi finiranno a gennaio: se il governo non troverà una soluzione, i rifugiati si ritroveranno in mezzo alla strada. In Italia sono rimaste famiglie africane e asiatiche che lavoravano in Libia sotto il regime di Gheddafi. La prima ondata, composta soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia grazie al permesso umanitario voluto dall'allora ministro Roberto Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti (vedi grafico a pag. 39). A coordinare tutto è la Protezione civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza. Ma, nella fretta, non ci sono state regole per stabilire chi potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. Così l'assistenza si è trasformata in un affare: bastava una sola telefonata per venire accreditati come "struttura d'accoglienza" e accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona. Una manna per centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti. Dalle Alpi a Gioia Tauro, gli imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati. A spese dello Stato. Le convenzioni non sono mai un problema: vengono firmate direttamente con i privati, nella più assoluta opacità. Grazie a questo piano, ad esempio, 116 profughi sono stati spediti, in pantaloncini e ciabatte, dalla Sicilia alla Val Camonica, a 1.800 metri di altezza. I proprietari del residence Le Baite di Montecampione non sono stati i soli a fiutare l'affare. Anche nella vicina Val Palot un politico locale dell'Idv, Antonio Colosimo, ne ha ospitati 14 nella sua casa-vacanze, immersa in un bosco: completamente isolati per mesi, non potevano far altro che cercare funghi. I più furbi hanno trattato anche sul prezzo. La direttiva ufficiale, che stabilisce un rimborso di 40 euro al giorno per il vitto e l'alloggio (gli altri 6 euro dovrebbero essere destinati all'assistenza), è arrivata solo a maggio. Nel frattempo, la maggior parte dei privati aveva già ottenuto di più. Gli albergatori napoletani sono riusciti a strappare una diaria di 43 euro a testa. Non male, se si considera che in 22 alberghi sono ospitate, ancora oggi, più di mille persone. «La domanda turistica al momento degli sbarchi era piuttosto bassa», ammette Salvatore Naldi, presidente della Federalberghi locale. La Protezione civile prometteva che sarebbero state strutture temporanee. Non è andata così: solo all'Hotel Cavour, in piazza Garibaldi, di fronte alla Stazione centrale, dormono tutt'ora 88 nordafricani. Le stanze, tanto, erano vuote: i viaggiatori si tengono alla larga, a causa dell'enorme cantiere che occupa tutta la piazza. Ma grazie ai rifugiati i proprietari sono riusciti lo stesso a chiudere la stagione: hanno incassato quasi 2 milioni di euro. I richiedenti asilo però non sono turisti, ma persone che hanno bisogno di integrarsi. La legge prevede che ci siano servizi di mediazione culturale, che sono rimasti spesso un miraggio o sono stati appaltati a casaccio:«A Napoli sono spuntate in pochi mesi decine di associazioni mai sentite nominare», denuncia Jamal Qadorrah, responsabile immigrazione della Cgil Campania: «Ogni albergatore poteva affidare i servizi a chi voleva, nonostante ci sia un albo regionale degli enti competenti. Tutti, puntualmente, ignorati». Non solo. «A luglio di quest'anno abbiamo organizzato un incontro fra il Comune e gli albergatori», racconta Mohamed Saady, sindacalista della Cisl: «Diverse strutture non avevano ancora un mediatore». Ed era passato più di un anno dall'inizio dell'emergenza. Il business dei nuovi arrivati non ha lasciato indifferenti nemmeno i professionisti della solidarietà. Cooperative come Domus Caritatis, che gestisce otto comunità solo a Roma. Anche i suoi centri sono finiti nel mirino di Save The Children e del garante dell'infanzia e dell'adolescenza del Lazio. Dopo numerose segnalazioni l'ong è andata a controllare 14 strutture della capitale che si fanno rimborsare 80 euro al giorno per l'accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Il risultato è un rapporto inquietante, presentato a maggio alla Protezione civile e al Viminale, che "l'Espresso" ha esaminato. Si parla di sovraffollamento, ma soprattutto di senzatetto quarantenni fatti passare per ragazzini scappati dalla Libia. Durante l'indagine sono stati intervistati 145 profughi. «Più di cento erano palesemente maggiorenni», denuncia l'autrice del rapporto, Viviana Valastro: «Quelli che avevo di fronte a me erano adulti. Altro che diciassettenni. Non posso sbagliarmi». Non solo. «Molti di loro erano in Italia da tempo, non da pochi mesi. Alcuni arrivavano dagli scontri di Rosarno». Doppia truffa insomma: sull'età e sulla provenienza, per avere un rimborso più che maggiorato e intascare milioni di euro. Tutto questo da parte di una cooperativa strettamente legata all'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone e a La Cascina, la grande coop della ristorazione che tre anni fa è stata al centro di un'inchiesta per il tentativo di entrare nella gestione dei cpt. Save The Children non è stata la sola a denunciare la situazione romana. Anche il presidente della commissione capitolina per la sicurezza, Fabrizio Santori, esponente del Pdl, ha dovuto occuparsi di Domus Caritatis. La cooperativa infatti gestiva una comunità che dava grossi problemi al vicinato, da cui arrivavano continue proteste. Santori l'ha visitata e si è trovato davanti ad alloggi di 35 metri quadri abitati da 10 persone. Peggio che in un carcere. Eppure gli appartamentini di via Arzana, a metà strada fra Roma e Fiumicino, più vicini all'aeroporto che alla città, permettevano di incassare più di 12 mila euro al mese. Save The Children ha calcolato che in strutture di questo tipo, nella capitale, vivono quasi 950 persone. Dati incerti, perché solo cinque cooperative hanno accettato di fornirli. Domus Caritatis, dalla sua sede all'abbazia trappista delle Tre Fontane, non ha voluto dare alcuna informazione. Il dossier dell'ong internazionale descrive un caos assoluto: mancanza di responsabili, nessun servizio di orientamento e accompagnamento legale, strutture inadeguate. Al Nord la situazione non cambia. A Milano si registrano casi come quello della ex scuola di via Saponaro, gestito dalla Fondazione Fratelli di San Francesco d'Assisi, che ha accolto 150 rifugiati. Ospitati in una comunità per la cura dei senzatetto, l'accoglienza dei minori e degli ex carcerati: 400 persone, con esigenze diverse, costrette a vivere sotto lo stesso tetto in una vecchia scuola. «Le condizioni sono orribili: 10-12 letti per ogni camerata. E pieni di pidocchi e pulci», racconta un ragazzo ancora ospite. Le stanze sono inadatte perché costruite per ospitare alunni, non profughi, né tantomeno clochard che vivono in strada. «Un contenitore della marginalità sociale dove sono frequenti le risse: nigeriani contro kosovari, ghanesi contro marocchini e la lista dei ricoverati in ospedale si allunga ogni giorno», racconta chi è entrato tra quelle mura. Anche il personale è ridotto al minimo con pochi mediatori culturali (che spesso sono ex ospiti che non disdegnano le maniere forti per mantenere l'ordine), un solo assistente sociale e una psicologa per dieci ore alla settimana. Troppo poche per chi ha conosciuto gli orrori della guerra, le botte della polizia libica e porta sulla propria pelle i segni delle violenze. Anche i disturbi psichici abbondano, insieme all'alcolismo dilagante. A sette chilometri dai frati, 440 profughi hanno trovato alloggio a Pieve Emanuele, estrema periferia Sud di Milano. Qui sono stati ospitati nel residence Ripamonti, di proprietà del gruppo Fondiaria Sai, appena passata sotto il controllo di Unipol ma all'epoca saldamente in mano a Salvatore Ligresti. I clienti abituali dell'albergo sono poliziotti, guardie del vicino carcere di Opera o postini, che non bastano a riempire i 4 mila posti letto dell'albergo. Grazie all'emergenza però nelle settimane di massimo afflusso sono entrati nelle casse di Fonsai oltre 600 mila euro al mese. Vacanze forzate in alloggi confortevoli (le camere sono dotate anche di tivù satellitare) ma dove sono mancati completamente i corsi per imparare l'italiano o l'assistenza legale e psicologica. «Si poteva trovare una sistemazione più modesta e investire in altri sussidi» dice, banalmente, un ragazzo del Ghana. Oggi a Pieve Emanuele sono rimasti in 80. Ma nel frattempo al residence sono andati quasi sette milioni di euro. Lo Stato ha speso per l'emergenza 797 milioni di euro nel 2011 e altri 495 milioni nel 2012. Solo una parte è servita per l'accoglienza: centinaia di milioni di euro sono finiti in tendopoli, spostamenti, trasferte, rimborsi agli uffici di coordinamento. Fondi di cui si è persa la traccia. E sì che proprio per il buon uso dei soldi pubblici era stato istituito un "Gruppo di monitoraggio e assistenza", con il compito di visitare le strutture e segnalare i casi critici. Ma della task force degli ispettori dopo pochi mesi non si è saputo più nulla. «Noi facevamo parte del progetto ma da ottobre 2011 non siamo più stati convocati. Considerando che è partito ad agosto, il gruppo è durato meno di tre mesi», spiega a "l'Espresso" Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: «È mancato completamente il controllo da parte delle regioni e delle prefetture». La Corte dei conti della Calabria è andata oltre: ha messo nero su bianco che le convenzioni sottoscritte nella regione sono illegittime, perché non sono state sottoposte al controllo preventivo della Corte, obbligatorio anche nell'emergenza. Non solo. I giudici contabili di Catanzaro definiscono "immotivata" la diaria: 46 euro al giorno sono troppi. E pensare che in provincia di Latina sono riusciti a intascarseli quasi tutti spendendo solo 5 euro al giorno, per garantire a 75 profughi un misero piatto di riso. I cinque avidi gestori della cooperativa Fantasie sono stati arrestati dai carabinieri di Roccagorna. Insospettiti dall'aumento di stranieri in paese, i militari sono arrivati ad un casolare dove hanno trovato 46 persone alloggiate in 70 metri quadri. Nonostante il blitz la cooperativa ha continuato a ricevere i contributi della Regione Lazio per altri sei mesi: una truffa da 400 mila euro. Con le stesse risorse Aurelio Livraghi, volontario della Caritas di Magenta, in provincia di Milano, è riuscito a fare tutt'altro. «Milioni di italiani vivono con 1.200 euro al mese, perché loro no?». Osservazione semplice. Di un pensionato, che ha dedicato ai 35 profughi arrivati in paese le sue giornate. Persone oggi indipendenti: pagano un affitto, fanno la spesa, quattro di loro hanno già un lavoro. Recitano anche in teatro. Una vita normale: altro che emergenza. E quando finiranno i fondi? «Potranno andare avanti almeno un po' perché sono riuscito a fargli mettere da parte dei risparmi». Non era difficile, sarebbe bastato un minimo di organizzazione. E di umanità.

Il tariffario delle tangenti: “Un euro a migrante”, scrive “La Stampa”. Le intercettazioni del Ros svelano le mazzette. Il ras delle coop sociali Buzzi al telefono: «La mucca deve mangiare per essere munta». Mucche da mungere solo se ben foraggiate. Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno e in carcere per l’inchiesta di Mafia Capitale dello scorso anno, così si esprimeva al telefono con altri indagati. A pagina 21 dell’ordinanza del gip Flavia Costantini, che conta 500 pagine, si legge che «ha ricevuto l’eloquente risposta che la mucca era stata ben foraggiata dall’attività di Coratti (ex presidente del consiglio comunale ndr) considerazione alla quale altrettanto eloquentemente Buzzi ribadiva che «la mucca era stata munta tanto». Nell’ordinanza, che riporta appunto le intercettazioni telefoniche, viene evidenziato che ciò «è un’eloquente dimostrazione di un rapporto corruttivo continuativo nel tempo». «Le erogazioni di utilità di Buzzi, esecuzione della linea strategica delineata di concerto con Massimo Carminati - si legge nel provvedimento - avevano l’evidente funzione di asservire agli interessi del gruppo politici che gravitavano nei segmenti delle istituzioni maggiormente interessati ai rapporti con il gruppo medesimo». Ma la 29 giugno non è l’unica cooperativa interessata dalla «mungitura della mucca», il giudice scrive, infatti, ancora: «Gli esponenti del gruppo La Cascina (coop attiva, dal 2012, anche nel settore dei servizi per l’immigrazione, e oggetto questa mattina di perquisizione da parte dei carabinieri del Ros, ndr) avevano promesso a Luca Odevaine una retribuzione fissa mensile, concordata prima in 10mila euro al mese e poi aumentata a 20mila euro e commisurata al numero di immigrati ospitati dai centri gestiti dal gruppo». La cifra - spiega il Gip - è il «prezzo per lo stabile asservimento della sua funzione di pubblico ufficiale componente del Tavolo di Coordinamento sull’immigrazione istituito presso il ministero degli Interni» e «per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio come componente delle commissioni di aggiudicazione delle gare indette per la gestione dei servizi presso il Cara di Mineo». L’effettiva, periodica consegna delle somme pattuite, sarebbe confermata dalle intercettazioni ambientali e, «con certezza», in «almeno cinque episodi», dalle indagini tecniche. La conferma arriva dalle stesse parole di Odevaine, intercettato nell’ambito dell’inchiesta: «...altre cose in giro per l’Italia... possiamo pure quantificare, guarda ... se me dai ... cento persone facciamo un euro a persona ... non lo so, per dire, hai capito? E ...e basta, uno ragiona così dice va be’ ... ti metto 200 persone a Roma, 200 a Messina ... 50 là ... e ... le quantifichiamo, poi...». Questo è lo stralcio di una conversazione con alcuni suoi collaboratori intercettata nella sua stanza negli uffici della Fondazione IntegraAzione, grazie al quale il gip Flavia Costantini prospetta l’esistenza di «un vero e proprio tariffario per migrante ospitato». A titolo esplicativo Odevaine parla dell’accordo stretto, tra gli altri, con Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno e spiega: «Gli ho fatto avere altri centri, in Sicilia... in provincia di Roma e quant’altro, quindi su tutto quella... quella parte là ci mettiamo d’accordo dovremo..., più o meno, stiamo concordando una cifra tipo come 1 euro a persona, ci danno, calcolando che so’ almeno un migliaio di persone, dovrebbero essere grosso modo un migliaio di persone, insomma so’ 1000 euro al giorno quindi 30.000 euro al mese che entrano...». Costantini sottolinea come Le indagini dei carabinieri del Ros abbiano evidenziato «la straordinaria pericolosità di Luca Gramazio». L’amministratore di centrodestra «potrebbe sfruttare la rete ampia dei collegamenti per fornire nuova linfa alle attività delittuose e agli interessi dell’associazione» capeggiata da Massimo Carminati, «nonostante lo stato detentivo di numerosi sodali». In un altro passaggio viene evidenziato come per le elezioni al parlamento europeo del maggio 2014, Gianni Alemanno, chiese l’appoggio a Salvatore Buzzi. Quest’ultimo si sarebbe mosso per ottenere il sostegno alla candidatura anche con gli uomini della cosca `ndranghetista dei Mancuso di Limbadi. «Un ulteriore tassello idoneo a corroborare il rapporto di reciproco riconoscimento tra le due organizzazioni - scrive il giudice - è costituito dai riscontri intercettivi effettuati in occasione delle elezioni del Parlamento Europeo 2014, che hanno visto il politico Giovanni Alemanno, candidato nella lista «Fratelli d’Italia - Alleanza Nazionale», nella circoscrizione Sud». Buzzi, in una conversazione con Massimo Carminati, intercettata il 21 marzo del 2014, riferiva l’esito di un incontro avuto poco prima con Alemanno negli uffici della «Commissione Commercio» a Roma. «Buzzi - scrive il gip - riferiva del sostegno richiesto in quell’occasione dall’ex primo cittadino («no, no era pe’ la campagna elettorale ... una sottoscrizione e poi se candida al sud») e rappresentava al sodale come avesse individuato Campennì, indicato con il solo nome di battesimo, quale strumento idoneo per assecondare tale richiesta (».. da Giovanni ... gli famo fa ..«). Buzzi, il giorno seguente contattava «Giovanni Campennì, al fine di interessarlo per «da ’na mano a Alemanno ... in campagna elettorale ...«. Il tentativo «di Buzzi di mascherare, in maniera evidentemente strumentale con l’interlocutore («sto numero è intercettato ... però so telefonate legali ..»), l’illecita richiesta pervenutagli, facendola passare come innocua e legittima istanza volta ad ampliare il consenso elettorale (»? basta che non sia voto di scambio .... tutto è legale ... uno po’ vota’ gli amici???!!!»), nell’ambito di una circoscrizione elettorale particolarmente ampia («? mica può venire li!!! Scusa ... no perché la circoscrizione è grandissima .... è Abruzzo .... Campania .... la Calabria .... Puglia .... Basilicata ..... come cazzo fa? ... èèè ....»), veniva perfettamente compreso da Campennì, il quale, avendo evidentemente ben inteso il vero senso della richiesta («ah ste chiamate so legali??? ...»), aderiva prontamente alla richiesta, non potendo evitare, tuttavia, di sottolineare la propria capacità di poter attingere a un ampio bacino di consensi pilotabili, facendo ricorso a una metafora particolarmente espressiva («va bene .... allora .... è qua la famiglia è grande ... un voto gli si dà»).

Milioni sulla pelle dei rifugiati. Un dossier segreto commissionato dal Viminale svela il meccanismo attraverso il quale i soldi del pocket money, destinati agli ospiti dei centri d'accoglienza, non vengono distribuiti e spariscono nel nulla. La mancata erogazione dei 2,50 euro quotidiani cui ha diritto ogni migrante, nel solo Cara calabrese di Isola Capo Rizzuto, vale 3.750 euro al giorno che, moltiplicati per i 21 mesi di permanenza media dei richiedenti asilo, arrivano a superare i due milioni. Se si considera poi che la distribuzione della quota non avviene in modo regolare anche in altri centri italiani, le cifre lievitano ulteriormente. Si tratta di denaro che lo Stato versa agli enti gestori. RE Inchieste è entrata in possesso del documento che il ministero dell'Interno tiene in un cassetto da mesi, scrivono Raffaele Cosentino ed Alessandro Mezzaroma su “La Repubblica”. Illeciti e irregolarità nell'erogazione del "pocket money", la paga giornaliera ai richiedenti asilo, nell'impiego di mediatori culturali, interpreti e psicologi. E poi mancato rispetto delle procedure legali da parte di molte questure, come nel caso di quelle di Roma, Caltanissetta e Crotone che non rilasciano il permesso di soggiorno per richiesta d'asilo allo scadere dei 35 giorni di permanenza nel centro. E ancora, un quadro impietoso e desolante degli alloggi in cui i migranti, in particolare i richiedenti asilo, sono costretti a vivere, da Gorizia a Trapani. È quanto emerge da un rapporto riservato rimasto nei cassetti, o meglio, nei computer perché si tratta di file Excel, del ministero dell'Interno, mai reso pubblico, di cui Repubblica.it è entrata in possesso. Presenza di armi bianche, di scarafaggi nei container, mancanza di docce e di acqua calda, servizi igienici in comune per uomini e donne, lavandini otturati, rubinetti e vetri rotti, pulizia scarsa, bambini senza assistenza pediatrica. Sono alcuni degli esiti di un doppio monitoraggio che le organizzazioni del progetto Praesidium, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, l'Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), Save The Children e la Croce Rossa hanno realizzato nel corso del 2013 su 18 centri italiani, nove Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e nove Centri di identificazione e di espulsione (Cie), su mandato ispettivo del Viminale. Migliaia di persone costrette a vivere anche per due anni dentro un Centro di accoglienza - il tempo effettivo per l'esame della richiesta d'asilo contro i 35 giorni previsti dalla legge - senza poter avere neanche una bacinella e il sapone per fare il bucato. Perché il capitolato d'appalto del ministero prevede una serie di servizi come la lavanderia e la barberia, che spesso sono disattesi dagli enti gestori. Profughi segregati a chilometri di distanza dalle città, senza mezzi di trasporto, e dunque costretti a fare anche cinque chilometri a piedi su strade pericolose per raggiungere il primo centro abitato. Giovani rifugiati che alla fine del lungo periodo passato nei Cara, ne escono senza possibilità di inclusione sociale perché non hanno neanche imparato l'italiano. I corsi di lingua, quando ci sono, sono scarsi o mal strutturati. Sotto il profilo della gestione, merita attenzione quanto è scritto sul centro di accoglienza di Sant'Anna di Isola Capo Rizzuto, vicino a Crotone, dove gli operatori del progetto Praesidium presenti all'interno del Cara hanno rilevato lo scorso settembre che "l'erogazione del pocket money avviene tramite la distribuzione di due pacchetti di 10 sigarette a settimana. Il migrante non ha la possibilità di acquistare nessun altro bene né gli viene fornita una chiavetta elettronica o una carta moneta per poter spendere l'importo rimanente. Da settembre 2011 a maggio 2013, gli ospiti riferiscono che il buono economico non è stato erogato". La denuncia dei migranti è stata presa sul serio da chi ha scritto il rapporto che, nella parte riservata alle raccomandazioni, chiede in caratteri maiuscoli di "riattivare immediatamente l'erogazione del pocket money" e di "costituire un sistema informatizzato che permetta di rilevare l'effettiva tracciabilità dell'erogazione del buono economico". Il pocket money è la quota di due euro e cinquanta centesimi che spetta al migrante sull'importo giornaliero pagato per ogni ospite dallo Stato ai gestori del centro. Nel caso di Isola Capo Rizzuto, la cifra complessiva erogata è pari a circa 21 euro, con i quali devono essere garantiti tutti i servizi. Il centro ha una capienza ufficiale di 729 posti, ma come gli altri Cara è solitamente sovraffollato. Al momento del monitoraggio erano presenti 1497 persone, oltre il doppio dei posti disponibili. Gli ospiti erano 1600 quando Repubblica ha visitato il Cara lo scorso 3 settembre (il rapporto porta la data del 25 settembre 2013 ma non è mai stato reso pubblico). Facendo un calcolo approssimativo di 2,50 euro per una media di 1500 persone, si arriva alla somma di 3.750 euro al giorno che moltiplicato per 21 mesi, cioè 630 giorni, fa oltre due milioni di euro. Anche con un numero di ospiti pari alla capienza, si raggiunge una cifra a sei zeri che, leggendo questo documento, sembra non sia stata erogata ai suoi legittimi destinatari, cioè i profughi fuggiti da guerre e persecuzioni ospitati nel Cara calabrese. Nel rapporto c'è scritto che andrebbe predisposto un paniere di beni da poter acquistare all'interno del centro o previste soluzioni alternative, come la possibilità di accumulare l'importo mensile del buono per pagare le marche da bollo necessarie al rilascio del primo permesso di soggiorno e del documento di viaggio. Nel file si sottolinea che quando il pocket money è stato erogato, ai migranti sarebbero stati consegnati solo due pacchetti di sigarette da 10 a settimana come equivalente di tutto l'importo settimanale pari a 17 euro e cinquanta centesimi.  Il centro è gestito da dieci anni dalla confraternita della Misericordia fondata dal parroco di Isola Capo Rizzuto, il rosminiano don Edoardo Scordio, e dal suo uomo di fiducia Leonardo Sacco, attuale vicepresidente delle Misericordie d'Italia. L'ultima gara d'appalto triennale vinta dalle Misericordie (nel 2012 contratto valido fino al  2015) è stata di 28.021.050 euro iva esclusa. Nello stesso periodo in cui le organizzazioni di Praesidium realizzavano il rapporto, Repubblica aveva chiesto al direttore del Cara, Francesco Tipaldi, come venisse distribuito il pocket money. "Diamo l'equivalente dei 2 euro e cinquanta centesimi giornalieri in beni", è stata la risposta. "Dividiamo i 1600 ospiti in diversi giorni per poter accedere al pocket money, non lo diamo con cadenza quotidiana perché questa attività durerebbe 24 ore, ma lo suddividiamo in maniera settimanale". I disservizi riscontrati nel centro crotonese sono anche altri. "La distribuzione dei beni consumabili avviene ogni 20-30 giorni circa, fatto salvo per i nuclei familiari", si  legge nel rapporto. "Il personale del servizio socio-psicologico non sembra essere proporzionale al numero degli ospiti presenti nel centro: ci sono tre psicologhe per circa 1400 ospiti. Il servizio di mediazione culturale non garantisce la copertura delle principali lingue parlate dagli ospiti presenti nel centro. Ad esempio non vi sono mediatori per gli ospiti provenienti dalla Somalia e dal Bangladesh. L'ente gestore ha fornito un organigramma assolutamente inadeguato perché troppo generico". Ma sono state riscontrate anche carenze sanitarie: "Non è garantita l'assistenza pediatrica ed è difficile eseguire vaccinazioni; le condizioni dei servizi igienici del centro d'accoglienza sono assolutamente inadeguate a causa della mancanza di pulizia e del danneggiamento dei sanitari". Infine, gli alloggi nei container sovraffollati e l'impianto di condizionamento non funziona. Il rapporto evidenzia problemi nella gestione del pocket money anche nel Cara di Restinco, a Brindisi, gestito dal consorzio Connecting People di Castelvetrano. I vertici del Consorzio sono stati coinvolti in un'inchiesta della magistratura su fatture gonfiate in un altro Cara, quello di Gradisca d'Isonzo. Tredici i rinviati a giudizio dal tribunale di Gorizia, di cui 11 del consorzio trapanese, fra cui Giuseppe Scozzari, ex presidente del consiglio di amministrazione, per associazione per delinquere, truffa e frode in pubbliche forniture, e due funzionari della prefettura tra cui un vice prefetto, per falso in atti pubblici. Il consorzio si è difeso affermando che esiste una relazione della prefettura di Gorizia che attesta la correttezza delle fatturazioni. L'inizio del processo è previsto per giugno. A Restinco, rileva il dossier, "l'ammontare giornaliero di 2,50 euro del pocket money può essere speso dagli ospiti nell'acquisto di beni presenti al corner shop o nell'acquisto di bibite/snack/bevande calde nei distributori automatici presenti nel centro. Gli ospiti non possono accumulare l'importo giornaliero del pocket money e devono consumarlo nel giro di due giorni, pena la cancellazione dell'importo residuo non speso". Non è specificato però che fine fanno le somme cancellate. Nel Cara brindisino: "Non sono presenti mediatori che coprano tutte le lingue parlate dagli ospiti. L'ente gestore non organizza nessuna attività ludico-ricreativa ad eccezione di partite di calcio. L'ambulatorio medico del centro presenta gravi condizioni di precarietà igienica". A Bari, in un centro che ospita 1400 richiedenti asilo, pari al doppio della capienza, gestito dalla cooperativa Auxilium "è stata riscontrata la presenza di scarafaggi in tutti i moduli visitati" e anche qui "l'ente gestore non organizza nessuna attività ludico-ricreativa ad eccezione di partite di calcio. L'attesa per l'inserimento dei migranti nei corsi è molto lunga e la durata degli stessi è scarsa". Nel cara di Borgo Mezzanone (Fg) gestito in quel momento dalla Croce Rossa, è stata rilevata "insicurezza per la presenza di ospiti senza titolo e il possesso di armi rudimentali quali coltelli da cucina e barre in legno o ferro". I migranti hanno riferito che gli alloggi non vengono mai puliti e l'igiene è insufficiente. Non c'è il servizio di lavanderia e non vengono distribuite bacinelle né stenditoi. Anche a Gradisca d'Isonzo, nel centro ancora gestito da Connecting People, "le condizioni igieniche dei servizi igienico sanitari sono piuttosto scarse. La qualità dei vestiti forniti è molto bassa e il cambio di vestiario avviene ogni 3 mesi. L'ente gestore ha attivato un corso di lingua italiana solo qualche settimana prima della visita di monitoraggio. Il corso risulta, però, inadeguato poiché i posti disponibili sono pochi e i tempi di attesa per l'acceso troppo lunghi (anche fino a due mesi)".  A Caltanissetta, un Cara da 500 persone è fatto di container vecchi "in cattivo stato, e in condizione di evidente sovraffollamento", con i bagni in condizioni igieniche "estremamente carenti, soprattutto a causa della ruggine e dell'allagamento continuo del pavimento provocato dalle frequenti otturazioni dei lavandini che vengono condivisi da un elevato numero di persone". A questo contribuisce la mancanza di un servizio di lavanderia, per cui "gli ospiti lavano i vestiti nei lavabi dei bagni, con lo stesso sapone che usano per l'igiene personale". L'ente gestore era in quel momento la cooperativa Albatros (a cui è poi subentrata Auxilium dal primo ottobre) che "si è rifiutata di fornire l'organigramma dettagliato del personale". Ma, secondo il documento, "i servizi di supporto socio-psicologico e legale sono apparsi insufficienti per il numero complessivo di stranieri presenti. I corsi di lingua italiana vengono erogati dai mediatori culturali e non da personale qualificato. Nessuno degli ospiti intervistati era in grado di parlare la lingua italiana nonostante fossero ospiti del centro già da diversi mesi". Inoltre, "i migranti intervistati hanno riferito di non aver ricevuto tutti i beni che spettavano loro e che gli asciugamani non sono mai stati sostituiti durante tutta la loro permanenza al Cara". Il monitoraggio evidenzia anche alcuni elementi positivi che sono un po' ovunque la buona disponibilità degli operatori, l'adeguatezza dei pasti e l'iscrizione a scuola dei bambini.

Quelle regole non applicate su cui adesso il Viminale deve fare luce. Secondo il capitolato d'appalto dei Centri dell'immigrazione, pubblicato sul sito del ministero dell'Interno, dovrebbero essere le prefetture a controllare che i contratti stipulati con gli enti gestori vengano rispettati. Dai file, però, emergono irregolarità gestionali e procedurali, oltre che strutture fatiscenti. Ne sono responsabili, nell'ordine: le cooperative che sono gli enti gestori, le questure e il Viminale. Le organizzazioni che hanno monitorato i centri non hanno diffuso pubblicamente queste informazioni. Si tratta comunque di realtà che operano con il ministero dell'Interno. Nel caso della Croce Rossa che ha ispezionato l'ambito sanitario, c'è anche un conflitto di interessi, essendo la Cri a sua volta gestore di diversi centri nel momento in cui è stato realizzato il dossier, come i Cie di Torino e di Milano e il Cara di Foggia. Alla luce di tutto questo restano alcune domande. Sono passati sette mesi da quando il Viminale ha avuto i risultati del monitoraggio realizzato con l'uso di soldi pubblici: perché i risultati non sono stati pubblicati? Quali misure intende utilizzare per migliorare l'accoglienza? Sempre secondo il capitolato d'appalto, gli enti gestori devono garantire i servizi di barberia e lavanderia, una dotazione minima di personale per l'assistenza 24 ore su 24 e figure professionali adeguate al relativo compito. I kit igienici forniti agli ospiti (sapone, shampoo, dentifricio) devono essere costantemente sostituiti sulla base di una dose monouso giornaliera. I disservizi per "mancata o inesatta esecuzione dei servizi presenti nel contratto", rilevati in sede ispettiva, di controllo e di monitoraggio o lamentati dagli utenti con riscontri fondati, devono portare a una penale di almeno il 3% del corrispettivo mensile ma è prevista anche la possibilità di un risarcimento dei danni più alto. È stata mai applicata questa norma del contratto d'appalto? E se non lo è stata, quale è il motivo? Infine, i soldi del pocket money, che nel solo Cara di Isola Capo Rizzuto ammontano a due milioni di euro, stanziati dallo Stato e non erogati a chi ne aveva diritto, dove sono finiti?

Sulla pelle dei rifugiati bambini. Garantire un alloggio ai minori che sbarcano in Italia senza genitori, così come a quelli che vengono sottratti alle famiglie, costa alle casse pubbliche oltre 30 milioni di euro l'anno. Una massa di denaro che ha messo in moto vasti appetiti criminali: dal giro delle solite coop legate ai boss di Mafia Capitale agli intermediari senza scrupoli che spacciano per ragazzini giovani di oltre 30 anni. E destano dubbi anche alcune sentenze di affidamento al centro di una guerra legale con il governo dell'Ecuador. L'Inchiesta di “La Repubblica”.

Decine di milioni che fanno gola a molti, scrivono Daniele Autieri e Roberta Rei. Al mercato delle anime battezzato da Mafia Capitale con i centri di accoglienza, c'è una merce che vale più delle altre: gli immigrati minorenni. Nel 2014 i comuni italiani hanno dato alloggio a 10.536 stranieri under 18, un esercito di solitudini accolto da poche centinaia di associazioni e cooperative e trasformato, in molti casi, in una cambiale da riscuotere. L'articolo 403 del codice civile prevede infatti che i Msna (minori stranieri non accompagnati) debbano essere accolti ed economicamente sostenuti dal sindaco del Comune in cui vengono identificati. Ed è nelle pieghe della legge che si addensano le vischiosità di un sistema che drena denari pubblici senza un reale controllo. Ad esclusivo vantaggio dei protagonisti delle inchieste giudiziarie degli ultimi mesi, dalle cooperative di Mafia Capitale alle associazioni vicine a Comunione&Liberazione. Tutti pronti a reclamare una fetta del ricco business dei minori. Fare affari con i rifugiati bambini. Il sistema, prima di tutto. A spiegare come funziona è una qualificata fonte delle forze di polizia. "Quando i minori stranieri arrivano, i dirigenti del dipartimento politiche sociali di un qualsiasi comune italiano contattano le cooperative con cui collaborano. L'affare è grosso e queste si organizzano. Se non hanno alloggi li trovano in una notte: acquistano villette, affittano, chiedono palazzetti in prestito a costruttori amici. Pochi giorni dopo la macchina è pronta ad accogliere i ragazzi". Un banchetto ricco, distribuito lungo un tavolo dove c'è spazio per tutti. Nell'inchiesta Mafia Capitale le cimici del Ros dei carabinieri intercettano una conversazione tra Tiziano Zuccolo, consigliere e vice presidente della cooperativa Domus Caritatis, e Salvatore Buzzi, l'uomo della "29 Giugno" sodale di Massimo Carminati. "Eh bravo - dice Zuccolo - l'accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da bravi fratelli". Lo spirito ecumenico è condensato in poche parole che spiegano come i protagonisti del sistema si preparino a spartirsi i rifugiati siriani in arrivo a Roma. Intervenendo sulle generalità anagrafiche dei soggetti coinvolti, il palcoscenico cambia, ma gli attori restano gli stessi e il copione scritto per i rifugiati viene replicato tale e quale con i minorenni. La cooperativa Osa Mayor è sconosciuta ai più, eppure analizzando i suoi bilanci si scopre che la sede è nello stesso stabile della Domus Caritatis e che a dirigerla c'è ancora una volta lui, Tiziano Zuccolo. La Domus Caritatis non è roba da poco. Fattura 36 milioni di euro, ha 15 milioni di debiti accumulati verso i fornitori e al 31 dicembre del 2013 vantava partecipazioni nel Cara di Mineo e nella Cascina, il colosso della ristorazione vicino a Comunione&Liberazione. Dalle carte dell'inchiesta di Firenze sulle grandi opere che ha portato in cella Ercole Incalza, emergono alcuni pagamenti per prestazioni poco chiare fatti dalla Domus Caritatis alla Capa srl di Francesco Cavallo, il faccendiere legatissimo all'ex-ministro Maurizio Lupi. Del resto, gli interessi del gruppo spaziano un po' dappertutto, e arrivano fino alla Osa Mayor, la piccola cooperativa che ottiene dal dipartimento Politiche Sociali del Comune di Roma il compito di accogliere circa 60 stranieri, tutte famiglie con minori al seguito. Gli ospiti vengono alloggiati in un villino alle porte di Roma, in via Casal Morena. Per loro il Campidoglio paga la retta completa, ma cosa offre in cambio la Osa Mayor? Una cucina di fortuna allestita nel garage con un forno a microonde, impianti non a norma, letti accatastati, mancato rispetto delle normative antincendio e soprattutto continua a dichiarare la presenza di tutti gli ospiti anche quando parte di loro ha lasciato la casa. Nessuno controlla. Il Comune paga. E la cooperativa si arricchisce. La vicenda è un puntino rispetto al grande mare dei 10.536 minori stranieri che nel corso del 2014 sono arrivati in Italia. Il loro peso economico grava soprattutto sulle casse degli enti locali. Lo scorso anno il ministero del Lavoro ha stanziato appena 14,8 milioni di euro per sostenere i comuni, mentre la fetta più grossa esce direttamente dalle casse degli enti locali. I trasferimenti statali sono stati effettuati sui conti di Tesoreria comunale, ma solo 4 amministrazioni hanno presentato i certificati di corretto utilizzo del contributo pubblico, per un valore irrisorio di 21.240 euro. Al 31 dicembre del 2014 non vi era ancora traccia di come i restanti 313 comuni abbiano usato gli altri 14,7 milioni. E in questa confusione, non sempre casuale, i mercanti di bambini si sono organizzati e hanno messo in piedi il business più redditizio. Non solo rifugiati. L'altra faccia del dramma minorile non riguarda ragazzi soli, ma famiglie comuni. Il tema è molto delicato ed è stato più volte denunciato perché tocca il sistema tradizionale degli affidamenti: un assistente sociale dichiara che il nucleo familiare non è sicuro per il bambino e questo viene immediatamente assegnato alle cure di una casa famiglia. A quel punto interviene il tribunale minorile che conferma l'affido e ne stabilisce la durata. Statistiche ufficiali non esistono, ma gli organi impegnati nel settore parlano di 30.000 minori in Italia. La macchina è complessa e, a fronte di tantissimi casi virtuosi, permangono alcuni elementi di criticità che arrivano a coinvolgere anche alcuni giudici onorari dei tribunali minorili. Secondo "Finalmente Liberi", l'associazione legata a Federcontribuenti che monitora il fenomeno, circa 200 sui 1.082 giudici onorari italiani avrebbero maturato conflitti d'interesse rispetto alla circolare del Csm che ne individua le incompatibilità, ottenendo incarichi personali dalle case famiglia mentre svolgono la loro attività all'interno dei tribunali minorili. Le inefficienze del sistema sono tali che alcuni Stati stranieri hanno avviato contenziosi legali per tutelare legalmente i cittadini stranieri residenti nel nostro Paese. È quanto ha fatto la Repubblica dell'Ecuador. "L'indicazione di avviare cause contro il sistema italiano degli affidi - spiega l'ambasciatore dell'Ecuador a Roma, Juan F. Holguìn  -  arriva direttamente dal Presidente della Repubblica, che segue questa vicenda in prima persona. Sono moltissimi i bambini della nostra comunità presente in Italia che vengono tolti alle loro famiglie. E a nostro parere questo avviene ingiustamente. Abbiamo quindi costituito un'equipe legale e avviato una serie di cause. Ad oggi, grazie alla nostra assistenza legale, già 10 bambini sono tornati dalle loro madri".

Il muro del pianto dei ragazzi di Termini, continuano Autieri e Rei. Stazione Termini: una ragnatela ferroviaria attraversata da 480.000 persone al giorno, 150 milioni l'anno. Molte di esse costeggiano via Giolitti, il bordo multietnico che confina con l'Esquilino. Passano e non si fermano. Sul muro di marmo che fa da argine alla scalinata del sottopassaggio un gruppo di ragazzi egiziani attende. Sono tutti minorenni. Passa qualche minuto, e un uomo di mezza età si avvicina. Ne abborda uno. Poche parole, una veloce trattativa e spariscono insieme sotto le scale. A volte il cliente arriva in macchina, carica il prescelto e lo riconsegna al "muro del pianto" solo di sera, dopo averlo portato a casa e avergli offerto un pasto caldo. Lui, come tutti gli altri, non è un clandestino. Anzi. Si prostituisce per mandare i soldi alla famiglia d'origine e quando arriva la sera torna alle cooperative dove il Comune di Roma lo ha alloggiato. Chi ha potuto parlare e passare del tempo con questi ragazzi racconta chi li ospita: "Sono sempre i soliti - confessa - Istituto Sacra Famiglia, Eriches (controllata dalla "29 Giugno" di Buzzi), Domus Caritatis, Riserva Nuova di Morena, Best House, Eta Beta. Alveari che in passato sono stati capaci di ammassare anche 100 ragazzi. E per ognuno di loro il Comune di Roma può arrivare a sborsare fino a 100 euro al giorno". Molti dei giovani di Termini vengono dal Car, il Centro agrolimentare di Guidonia dove hanno lavorato per mesi con paghe da fame. In quell'occasione il giro d'affari venne svelato da un'indagine del Corpo di Polizia di Roma Capitale guidato dal vice comandante Antonio Di Maggio (e rivelata da "REInchieste"). Anche allora, quando gli agenti della Polizia Municipale si imbatterono nel fenomeno, scoprirono che molti giovani egiziani impegnati nel lavoro nero erano affidati a case famiglia. All'interno di un'informativa riservata depositata in Procura si legge che le associazioni dove i ragazzi del Car alloggiavano erano l'Istituto Sacra Famiglia, la Eriches, la Domus Caritatis e la Virtus Italia.

Barba e capelli per sembrare più giovani, continuano Autieri e Rei. La storia di Ullah è molto simile a quella delle centinaia dei falsi minorenni alloggiati in case famiglia che, nel corso del 2013, sono stati smascherati dagli uomini della Polizia di Roma Capitale. Una volta arrivati in città i ragazzi finivano in una rete criminale che prima interveniva sul look (barbe tagliate, capelli tinti, ecc.), poi li indirizzava ad alcuni uffici comunali o ai commissariati del centro storico spiegandogli come denunciare la minore età e assicurarsi così l'alloggio nelle comunità pagate dal Campidoglio. Ullah, a differenza di molti altri, ha deciso di collaborare con la giustizia e testimoniare contro i criminali che lo avevano inserito nel giro. "Mi hanno abbordato sulla linea A della metropolitana - ricorda - e mi hanno portato a casa loro. Ho dormito lì per 8 giorni, poi mi hanno spiegato come avrei potuto ottenere il permesso di soggiorno". I trafficanti gli tolgono il passaporto e in cambio gli danno un falso certificato, rilasciato da un ospedale romano, che indica la minore età. "Mi hanno accompagnato fino alla questura - prosegue Ullah - dicendomi come avrei dovuto fare. Lì sono stato riconosciuto minorenne e spedito in una casa famiglia a Morena". Un mese dopo, quando i Vigili fanno irruzione nella casa del trafficante, scoprono decine di documenti falsi che dimostrano l'esistenza di un vero e proprio business dei falsi minorenni. Da quel momento Ullah collabora con la giustizia, ma due anni dopo attende ancora che la procura di Civitavecchia e l'ufficio immigrazione del ministero gli rinnovino il permesso di soggiorno. Come lui, tanti altri immigrati sono finiti nel giro. E oggi sono diverse le inchieste aperte su un fenomeno tutt'altro che superato. La novità è che, per la prima volta, al centro di alcune indagini è finito il presunto scambio affaristico tra le organizzazioni che garantiscono la "materia prima" e alcune cooperative conniventi. Un patto criminale, siglato in nome del denaro.

E per chi fa qualcosa arriva il taglio dei soldi, scrivono Monica D'Ambrosio ed Anna Di Russo. Il Sacrai è uno di quei posti dove ogni giorno neuropsichiatri e psicologi infantili seguono minori abusatori e abusati per sottrarli al carcere o alle case famiglia. Eppure le attività del centro, che opera all’interno dell’Università la Sapienza di Roma, hanno rischiato di concludersi insieme ai fondi governativi stanziati a favore di progetti pilota per minori svantaggiati. Con la grave conseguenza che l’interruzione della terapia vanificasse il lavoro fatto fin lì e aggravasse le condizioni dei minori presi in cura. Ora, dopo mesi d’incertezza, proprio il Sacrai è l’unico centro ad  aver ottenuto un rifinanziamento (100mila euro) grazie ad un emendamento all’articolo 7 del Milleproproghe firmato dall’ex ministro per le Pari Opportunità  Mara Carfagna. Ma il principio al momento sembra valere solo per il centro universitario. Non per le altre 26 strutture, anch’esse finanziate dalle Pari Opportunità, che a ottobre 2014 hanno esaurito la copertura economica. Eppure tutti i 27 destinatari dei fondi hanno fornito con il loro lavoro la risposta italiana alla convenzione di Lanzarote e al richiamo dell’Europa che sollecitava gli Stati membri a fare di più per l’infanzia e l’adolescenza. “L’Europa - precisa Vincenzo Spadafora, Garante per l’infanzia - ha fissato degli obiettivi economici che dobbiamo perseguire: l’Italia ha precisi obblighi anche riguardo ai piani per l’infanzia e l’adolescenza”. “Sottovalutare i traumi subiti dai minori – aggiunge – è un grave errore anche in termini di spesa pubblica. In Italia il costo sociale complessivo del maltrattamento è di circa 13 miliardi di euro, con un’incidenza annuale in incremento di nuovi casi pari a 910 milioni”. Eppure quanto un servizio psicologico integrato e multidisciplinare può fare per enti locali e aziende sanitarie lo ha dimostrato il centro Vatma in Molise, che non solo ha limitato l’ingresso di alcuni minori in case famiglie o in altre strutture ad hoc, con un risparmio di oltre 30mila euro all’anno a bambino (circa 85 euro al giorno), ma ha anche tagliato tutti quei costi diretti che gli enti locali devono sostenere. Pochi, confusi e spesi male. I finanziamenti per l’infanzia e l’adolescenza esistono, ma per capirci qualcosa bisogna districarsi tra una serie di fondi statali, regionali ed europei che non sempre vengono destinati davvero ai minori. Perché oltre a non esserci un monitoraggio a livello istituzionale, non esiste neanche una programmazione chiara e una visione di lungo periodo sull’utilizzo di queste risorse. Così, oltre ai tagli – il Fondo nazionale per l’Infanzia e l’adolescenza dal 2001 al 2015 ha perso oltre il 43% dei finanziamenti, mentre non si riesce a quantificare quanto del Fondo per le politiche sociali sia stato dedicato ai minori – molte regioni, in particolare al sud, hanno difficoltà a programmare e spendere i soldi disponibili. La Campania, ad esempio, non ha ancora programmato, richiesto e utilizzato le risorse statali del 2009, 2010 e 2011, per un totale di oltre 34 milioni di euro. Eppure oggi la copertura dei suoi servizi regionali non raggiunge il 3%. Va meglio invece con i fondi europei con 227 milioni di euro (Fondo di aiuti agli indigenti 2014-2020) che nei prossimi anni saranno utilizzati per assicurare materiale scolastico e accesso gratuito alla mensa a bambini e adolescenti in condizioni di povertà e all’apertura pomeridiana delle scuole in contesti deprivati.

Dal ministero delle Pari Opportunità riceviamo e pubblichiamo .Sostegno ai minori, la precisazione del governo: Gentile Direttore, nell'articolo pubblicato sul vostro sito dal titolo "E per chi fa qualcosa arrivo il taglio dei soldi", a firma Monica D'Ambrosio e Anna Di Russo, nell'ambito di una inchiesta sui bambini rifugiati, appaiono alcune inesattezza circa il ruolo del Dipartimento delle Pari Opportunità  e delle decisioni che è chiamato ad adottare, colgo dunque l'occasione per fare chiarezza sull'intera questione. Gli autori dell'articolo sostengono che dei 27 progetti pilota - finanziati con  Avviso pubblico n.1/2011 per la concessione di contributi per il sostegno a progetto pilota per il trattamento di minori vittime di abuso e sfruttamento sessuale - soltanto uno ha avuto la proroga dei fondi scaduti a fine 2014, il Sacrai, che opera all'interno dell'Università la Sapienza di Roma. E' vero, ma questo non per decisione del Dipartimento, quanto piuttosto, come riportato nell'articolo, grazie ad un emendamento  all'articolo 7 del Milleproroghe, firmato dall'ex ministra Mara Carfagna. Senza mettere in dubbio il  lavoro svolto da Sacrai, va sottolineato che con quell'emendamento, presentato per un'unica struttura,  di fatto non si è provveduto ad un intervento sistemico nei confronti di tutte le strutture coinvolte nei progetti pilota i cui finanziamenti erano relativi a 18 mesi di attività. Ecco perché il Dipartimento, che a questo fine dispone di propri fondi,  ha avviato un monitoraggio per individuare quanti sono i minori attualmente in carico alla varie strutture e di conseguenza  formulare un piano di finanziamento ad hoc per i progetti sperimentali ancora attivi.  Occorre, però,  precisare che la presa in carico di minori non è tra le competenze di questo Dipartimento, a cui spetta la prevenzione del fenomeno  e quindi a tal fine, per gli interventi strutturali e i relativi fondi, sono altri soggetti istituzionali a doversene fare carico, come prevede la legge. Ancora qualche precisazione:  l'avviso pubblico da cui nascono i progetti pilota ha avuto come obiettivo strategico quello di promuovere interventi sperimentali e innovativi a favore dei minori vittime di abuso e sfruttamento sessuale caratterizzati dalla capacità di raccordare tutte le risorse operative e istituzionali del sistema locale. Ma il nostro impegno è mirato anche all'individuazione di livelli minimi di assistenza che siano applicabili e applicati su tutto il territorio nazionale sopperendo a quella disomogeneità che ancora purtroppo persiste. L'esperienza delle strutture impegnate nel progetto pilota,  è dunque diventata una base conoscitiva anche per la redazione di apposite linee guida, come previsto dal III Piano biennale nazionale di azioni e di interventi per la tutela dei diritti e lo  sviluppo dei soggetti in età evolutiva per l'individuazione delle quali è stata attivata  un'azione di monitoraggio, in collaborazione con l'Istituto degli  Innocenti di Firenze,   al fine  di rendere omogeneo su tutto il territorio il servizio delle attività a tale scopo finalizzate. Ma il Dipartimento sull'intera materia ha inteso superare la logica emergenziale, mettendo a punto politiche in grado di contrastare su più fronti il fenomeno. Due gli strumenti a cui si sta lavorando:  il Piano nazionale di contrasto alla tratta e al grave sfruttamento (dove si dedica grande attenzione al fenomeno dei minori non accompagnati che molto spesso finiscono nelle mani di organizzazioni criminali per essere poi destinati al mercato del sesso a pagamento e alla segregazione) e il Piano nazionale di prevenzione e contrasto dell'abuso e dello sfruttamento sessuale dei minori. Entro il prossimo 9 giugno, a tal riguardo, si concluderà il giro di consultazioni che il Dipartimento ha avviato non solo con i soggetti istituzionali coinvolti nella materia ma anche e soprattutto con le associazioni del settore  in vista della stesura finale del Piano antipedofilia nel quale è previsto un rafforzamento del ruolo di coordinamento unico in capo al Dipartimento stesso  al fine di evitare sovrapposizioni e spacchettamenti di deleghe. Il nostro obiettivo finale è quello di mettere a sistema misure e interventi multi-livello e multi-agenzia in grado di rendere efficaci  le azioni programmate e di raccordare l'operato di tutti i soggetti e gli enti  coinvolti nel contrasto di tali fenomeni  garantendo un servizio omogeneo sull'intero territorio nazionale.   Uno degli strumenti individuati nel Piano antipedofilia è quello di centri pilota regionali per la cura e la presa in carico di minori autori e vittime di abusi valorizzando il ruolo e il lavoro delle ong e delle associazioni di settore.  Altro strumento fondamentale sarà un monitoraggio costante di tutta la fase di attuazione degli interventi perché qualunque legge o progetto deve poi poter essere valutato alla luce dei risultati che effettivamente produce in ogni suo aspetto. Lo sfruttamento e l'abuso dei minori sono gravi violazione dei diritti dell'infanzia, una vera e propria forma di schiavitù che va combattuta su più fronti, un fenomeno che si alimenta sia dentro circoscritti ambiti sociali (rapporti famigliari, scolastici, amicali) sia in ambito sovranazionale (pedopornografia, pedofilia, turismo sessuale, tratta di esseri umani).  Come risulta dai dati della Campagna del Consiglio d'Europa contro la violenza sessuale nei confronti dei bambini, in Europa il fenomeno riguarda quasi un minore su cinque  che almeno una volta nell'infanzia  subisce abusi sessuali:  vittime sono i minori di entrambi i sessi anche se la maggioranza sono bambine, di ogni età con percentuali più alte a partire dalla pre-adolescenza e non ci sono particolari differenze tra etnie. L'articolazione e la dimensione stessa del fenomeno indicano la complessità degli interventi necessari, il Dipartimento sta facendo la sua parte e lo sta facendo nel rispetto della normativa nazionale ed europea, ma soprattutto garantendo in ogni passaggio la trasparenza e il rigore a cui è chiamata ogni azione della Pubblica amministrazione. Distinti saluti. Giovanna Martelli, consigliera del Presidente del Consiglio per le Pari Opportunità.

"Gli immigrati rendono più della droga". La mafia nera nel business accoglienza. Così i fascio-mafiosi di Massimo Carminati si sarebbero spartiti secondo i Pm i soldi per i richiedenti asilo. Milioni di euro. Senza controlli, grazie alla logica dell'emergenza. E a rapporti privilegiati con le autorità. La parte delle indagini che riguarda il consorzio Eriches e Salvatore Buzzi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Uno sbarco a Brindisi«Rendono più della droga». Per la mafia nera che comandava su Roma gli immigrati erano un business favoloso. Messi da parte gli ideali politici, la banda fascista che rispondeva agli ordini di Massimo Carminati, arrestato questa mattina insieme ad altre 36 persone, aveva trovato nell'accoglienza dei profughi l'occasione per intascare milioni. Il regista dell'operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L'idea di trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni '80 proprio in prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del consorzio di cooperative Eriches guidava un gruppo capace di chiudere il bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria, manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe «un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l'attività economica del sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione». I documenti dell'operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della mafia fascista svelata da Lirio Abbate su “ l'Espresso ” in numerose inchieste, mostrano nuovi dettagli sull'attività della ramificazione nera di Roma. A partire appunto dall'attività per gli stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?», dice Buzzi al telefono in un'intercettazione: «Non c'ho idea», risponde l'interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E in un'altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. Più chiaro di così. Il suo consorzio, Eriches, dentro cui si trova anche la "Cooperativa sociale 29 giugno", nel 2011 riesce  ad entrare a pieno titolo nella gestione dell'Emergenza Nord Africa: un fiume di soldi (1 miliardo e 300 milioni) gestiti a livello nazionale dalla Protezione Civile e dalle prefetture per l'accoglienza straordinaria delle persone in fuga dalla guerra in Libia e dalle rivolte della Primavera Araba. È in quel periodo che le cooperative di Buzzi, nate come progetto durante la sua permanenza in carcere negli anni '80, arrivano a fatturare oltre 16 milioni di euro solo con l'accoglienza degli stranieri. Business che continueranno a seguire. Anche che sono proseguiti fino ad oggi con la marea umana di Mare Nostrum. Per ottenere immigrati da ospitare, intascando rimborsi che vanno dai 30 ai 45 euro al giorno a persona, Buzzi s'impone nelle trattative. E può contare, stando alle indagini, su referenti di primo piano. Come Luca Odevaine, presidente di Fondazione IntegrAzione ed ex vice capo di Gabinetto di Walter Veltroni al comune di Roma. In qualità di rappresentanza dell'Upi, l'unione delle province italiane, Odevaine seide al “Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza”, da cui, spiega in diversi incontri con Buzzi e i suoi colleghi, può «orientare i flussi che arrivano», favorendo le cooperative amiche, perché ricevano più immigrati e quindi più soldi dallo Stato. In un'altra intercettazione sostiene di poter controllare le decisioni del prefetto Rosetta Scotto Lavina «che è in difficoltà, ha troppi sbarchi, non sa dove mettere le persone», e per questo lui può aiutarla indicandole a chi affidare i fondi. Per questa attenzione, spiega Buzzi in una serie di intercettazioni riportate negli atti, Odevaine avrebbe ricevuto dal clan di Carminati uno stipendio da 5mila euro al mese. Ma non era l'unico riferimento politico del consorzio. Anche l'assessore alle politiche sociali Angelo Scozzafava in una telefonata assicura: «su Roma quanti posti c'hai? Perché me sa che sta per arrivà l'ondata...». Per controllare l'accoglienza degli stranieri, Buzzi avrebbe avuto un accordo «al 50/50», ovvero per dividersi a metà tutti gli appalti, con la rete dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, network di coop cattoliche in cui rientra anche Domus Caritatis, la cooperativa di cui “ l'Espresso ” aveva raccontato le politiche spregiudicate durante l'Emergenza Nord Africa del 2012, quando barboni e adulti furono fatti passare per minorenni pur di ottenere rimborsi duplicati dal ministero (malagestione denunciata da Save The Children e dal Garante per l'Infanzia). Stando agli atti dei Pm, l'accordo per la spartizione del business dei profughi sarebbe stato sancito con Tiziano Zuccolo, rappresentante della rete dell'Arciconfraternita, con cui ancora nel maggio del 2013 Buzzi parlava del “Patto” in riferimento all'arrivo  dei siriani scappati dalla guerra. «Va be’, a Salvato’, noi l’accordo, l’accordo è quello al cinquanta, no?», chiedeva Zuccolo, e Buzzi confermava: «Ok, io sto premendo per riceverne altri 140» e Zuccolo ribadiva: «Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?» Grazie a queste poltiche la holding dominata da Buzzi, che condivideva tutte le scelte, secondo le indagini, con il boss Carminati, è riuscito a ricevere anche fondi europei. Nel 2011 ad esempio ha  avuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati ben 234mila e 400 euro, di cui 130 direttamente da Bruxelles e gli altri dallo Stato. Nel 2012 le cooperative che rispondevano alla “mafia capitale” hanno assistito 1320 famiglie per conto del Comune di Roma nell'ambito di un'altra emergenza, quella abitativa. Ma è stato il 2013 l'anno migliore per il consorzio Eriches, come si legge nel bilancio, chiuso con un margine netto di quasi tre milioni di euro. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», spiega il presidente, Salvatore Buzzi: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello SPRAR, una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore», con rimborsi garantiti da 35 euro al giorno. E pochi controlli sulla qualità degli aiuti. Nel 2013 Eriches ha vinto anche il bando della prefettura di Roma per il Cara di Castelnuovo di Porto, ovvero il centro per richiedenti asilo di Roma: centinaia di posti, continue proteste per le condizioni indegne di vita. L'appalto da 21 milioni di euro è stato però bloccato dal Tar. E nel bilancio Buzzi si lamenta, evocando il conflitto d'interessi: «nonostante le nostre giustificazioni siano state accettate dalla Prefettura, non siamo riusciti ad iniziare il servizio peralcuni “dubbi” provvedimenti adottati della Terza Sezione Ter del TAR Lazio», scrive: «presieduta da Linda Sandulli, la quale, per inciso, è proprietaria insieme al marito di una ditta edile (PROETI Srl) che effettua manutenzioni proprio all’interno del CARA; un enorme conflitto di interessi». «Siamo fiduciosi che il Consiglio di Stato possa a breve ripristinare legalità e diritto», conclude. Forse con un senso, implicito, dell'ironia.

Il nero e i bianchi, la torta delle coop. L'accordo globale di Mafia Capitale. Concorrenza inesistente. Consiglieri comunali compiacenti. L'unico dirigente "contro" allontanato. La squadra  di Carminati godeva su appoggi trasversali per ottenere milioni di euro nel gestire emergenze abitative e migratorie. Ora sono finiti in carcere anche i rappresentanti delle reti cattoliche, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. «Noi che dovemo sta sul pezzo pe’ magnasse un po' de caciotta». Ha ragione, il Nero. Il suo braccio destro Salvatore Buzzi è un lavoratore instancabile. Non conosce domeniche o festivi: è sempre al telefono per spartirsi affari, o impegnato in riunioni, incontri e strette di mano per assicurare a sé o agli amici milioni di euro dal Campidoglio e dal ministero dell'Interno. Mai una pausa. La frase la dice Massimo Carminati, “er Cecato”, ed è riportata nell'ordinanza che ha scoperchiato la seconda parte dell'inchiesta su Mafia Capitale, con 44 arresti e decine di indagati fra politici, amministratori e imprenditori. Il piatto principale è sempre la gestione delle emergenze abitative e dell'accoglienza dei migranti da parte di un ristretto gruppo d'affari. La novità è che ora sono state arrestate le controparti di Buzzi e Carminati: i rappresentanti di quelle coop “bianche” di cui l'Espresso parla da tempo , e che nella Capitale spadroneggiavano nel settore degli aiuti sociali, spalla spalla alla banda di Carminati. Il nero e i bianchi, il neofascista delle trame e le onlus che facevano riferimento al vescovo e agli ordini religiosi. Agli arresti sono finiti infatti Tiziano Zuccolo, della cattolica Domus Caritatis, e Francesco Ferrara, Domenico Cammisa, Salvatore Menolascina e Carmelo Parabita, rappresentanti del consorzio La Cascina, legata a Comunione e Liberazione. Con Buzzi si intendevano alla perfezione. Il giudice li ritiene infatti «partecipi agli accordi corruttivi con Luca Odevaine» - il funzionario stipendiato per assegnare risorse e immigrati agli amici dal tavolo del ministero dell'Interno – oltre che autori di «plurimi episodi di corruzione e di turbativa d’asta dal 2011 al 2014», dimostrando «una spiccata attitudine a delinquere, al fine di ottenere vantaggi economici nell’esercizio della loro attività imprenditoriale». Negli atti si raccolgono così gli accordi e gli intrecci che hanno intorpidito Roma per anni, chiudendola in una rete indistricabile di cooperative – bianche, rosse, nere, incensurate o indipendenti, non cambia – che si accordavano sui progetti prima ancora venissero pubblicate le gare. Nessuna alternativa aveva spazio. C'era chi si metteva d'accordo per quieto vivere, chi sotto minaccia. E chi semplicemente traeva maggior guadagni grazie all'oligopolio. Come il gruppo dei consorzi bianchi di Zuccolo e Ferrara. Uno degli episodi che meglio spiegano  come sono stati spesi in questi anni i fondi per i più poveri, a Roma, riguarda 580 persone - donne, uomini e bambini finiti per strada a cui bisognava trovare un tetto per l'inverno del 2014. Il bando viene pubblicato il 14 luglio. Buzzi e Zuccolo sono molto preoccupati, perché a gestirlo è tale Aldo Barletta, un dirigente che a detta del socio di Carminati «è entrato da 10 giorni ed ha applicato tutto quello che non avevano applicato fino ad adesso», uno che «non cede nemmeno davanti a Gesù e Maria». Era un «pericolo», questo funzionario, per le sue «resistenze ad assecondare le procedure sfavorevoli agli interessi della pubblica amministrazione». E la procedura aperta da lui per trovare casa a quei 580 disperati era considerata un ostacolo: troppo trasparente e favorevole alla concorrenza. Andava aggirata. Come? Con l'alacre attività di cui Buzzi si fa coordinatore. E che consiste nel «far desistere» tutti i potenziali avversari dal partecipare alla gara. Il funzionario “nemico” aveva invitato infatti 15 società a presentare un'offerta. Alcuni nomi, fra gli invitati, risultavano nuovi a Salvatore Buzzi, ed è allora Angelo Scozzafava (indagato), direttore del dipartimento per le Politiche Sociali di Roma, a dargli i contatti necessari. Altri invece li conosceva bene. E inizia con gli sms e le chiamate. Contatta anche a Gabriella Errico, la responsabile della coop “Un Sorriso” che gestiva il centro per minori di Tor Sapienza diventato noto dopo l'aggressione e il caos con gli abitanti del quartiere. Lei risponde «tranquillo», si dichiara «a disposizione» e non partecipa al bando (ora è indagata). Altri fanno maggiori resistenze. Alcuni chiedono favori in cambio, come Alberto Picarelli che desiste dall'occasione ghiotta ma dice: «Salvato' spero che un giorno pure io ti possa... quando ti chiedo qualcosa me ne venga accolta». Con questi piccoli debiti o scambi Buzzi sistema la concorrenza. I colleghi competitor si dissolvono tutti. Rimane la rete di Zuccolo e Ferrara, La Cascina. Ma tutto è sistemato con una telefonata tra amici e un accordo che gli inquirenti definiscono "globale": «Io su quello dei 580 preferirei che andasse completamente deserto, che partecipassi solo io, capisci? Sugli altri dimme te, io ti ci vengo e tu vieni sui miei», dice il braccio destro di Carminati. E Ferrara conferma: «Secondo me tu vieni ed io vengo e poi hai capito, così almeno più è... e poi sti cazzi, cioè hai capito?». Chi ha capito ha capito: tu mi aiuti qui, io ti aiuto lì, e la spartizione è fatta. La manovra non fa una piega. E il 25 agosto alla “manifestazione d'interesse” dei soggetti sul territorio per accogliere quei 580 sfollati si presenta una sola società. La cooperativa Eriches di Salvatore Buzzi. Che si aggiudica così indisturbata l'affare da un milione e seicentomila euro. Turbativa d'asta in piena regola. Ferrara è coinvolto anche in altre pratiche, fra cui la manomissione di una gara indetta il 30 giugno del 2014 dalla prefettura di Roma per assicurare l'accoglienza a 1.278 migranti, oltre a ulteriori 800 richiedenti asilo in arrivo. Valore: 10 milioni di euro. Per ottenere le assegnazioni dei progetti, e far approvare una delibera che assegnasse i fondi fuori bilancio, Ferrara avrebbe partecipato alla «corruzione di consiglieri comunali mediante la promessa della somma di complessivi 130mila euro». La situazione di Eriches e Domus Caritatis/la Cascina era entrata infatti in crisi dopo un rapporto della Finanza, che giudicava illegittime le assegnazioni dirette del Campidoglio a quella ristretta cerchia di imprese sociali di milioni e milioni di euro. Ma né rapporti né dirigenti specchiati sono riusciti a fermarli.

Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.

Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo. 

Profugopoli. Quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati di Mario Giordano. La società che organizza corsi per buttafuori e addetti alle pompe funebri ed è controllata dal noto paradiso fiscale dell'isola di Jersey. L'ex consulente campano che con gli immigrati incassa 24.000 euro al giorno e gira in Ferrari. La multinazionale francese dell'energia. E l'Arcipesca di Vibo Valentia. Ecco alcuni dei soggetti che si muovono dietro il Grande Business dei Profughi: milioni e milioni di euro (denaro dei contribuenti) gestiti dallo Stato in situazione d'emergenza. E proprio per questo sfuggiti a ogni tipo di controllo. Dunque finiti in ogni tipo di tasca, più o meno raccomandabile. Si parla spesso di accoglienza e solidarietà, ma è sufficiente sollevare il velo dell'emergenza immigrazione per scoprire che dietro il paravento del buonismo si nascondono soprattutto gli affari. Non sempre leciti, per altro. Fra quelli che accolgono gli stranieri, infatti, ci sono avventurieri improvvisati, faccendieri dell'ultima ora, speculatori di ogni tipo. E poi vere e proprie industrie, che sulla disperazione altrui hanno costruito degli imperi economici: basti pensare che, mentre il 95 per cento delle aziende italiane fattura meno di 2 milioni di euro l'anno, ci sono cooperative che arrivano anche a 100 milioni e altre che in dodici mesi hanno aumentato il fatturato del 178 per cento. Profugopoli è un fiume di denaro che significa potere, migliaia di posti di lavoro, tanti voti. In sintesi, Mario Giordano ci racconta il dramma dell'immigrazione, attraverso il suo sguardo tagliente, con Profugopoli. In questo saggio dove svela il grande business dei profughi, ovvero milioni e milioni di euro gestiti dallo Stato in situazione d'emergenza, ci espone il suo punto di vista in un reportage che lascerà senza parole il lettore. Gli immigrati rendono più della droga: così si dice nella politica. E visto il fiume di denaro che scorre dietro questo traffico è evidentemente così, tra migliaia di posti di lavoro e tanti voti. Per Giordano dietro il paravento del buonismo si nascondono soprattutto gli affari, e non sempre leciti. Fra quelli che accolgono gli stranieri, infatti, ci sono avventurieri improvvisati e faccendieri dell'ultima ora, speculatori di ogni tipo. Intorno a questa povera gente che giunge da molto lontano e che affronta ogni avversità, ci sono delle vere e proprie industrie che, sulla disperazione altrui, hanno costruito degli imperi economici. Giordano, in Profugopoli, scoperchia così una pentola che non riguarda solo Roma, ma tutta l'Italia. Questo saggio vi anticipa gli scandali che stanno per scoppiare e vi svela ciò che nessuno ha ancora svelato: le coop sospette che continuano inspiegabilmente a vincere appalti, i personaggi oscuri, gli affidamenti dubbi, i comportamenti incomprensibili di alcune Prefetture. Tutti gli scandali sono insopportabili. Ma quelli che si fanno scudo della generosità sono i peggiori. E vanno denunciati, in primo luogo per rispetto ai tantissimi volontari perbene: questo libro è dedicato proprio a loro, che ogni giorno tendono la mano al prossimo senza ritirarla piena di quattrini.

Mario Giordano, ecco chi si riempie le tasche con il business dei migranti. Un libro inchiesta che fa arrabbiare, discutere e un po' anche vergognare, scrive "Panorama" il 7 marzo 2016. Mario Giordano, nell'ultimo libro," Profugopoli. Quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati", (Mondadori 2016) racconta, in un'inchiesta serrata, una storia che fa arrabbiare, discutere e anche un po' vergognare. È la storia dei più incredibili modi per improvvisarsi centro d'accoglienza per migranti e guadagnare molti soldi. Ci sono l'associazione folcloristica (specializzata in tarantella) e l’istituto per odontotecnici. E poi Lady Finanza (bocconiana) e lo speculatore di Londra. Ma anche hotel, agriturismo e residence che rinunciano ad accogliere clienti e turisti e si buttano sul più sicuro “Affare Profugo”. (E se non bastano i posti letto, va bene anche un night club, o una piscina svuotata e riempita di tende.) Privati che affittano case e ville, e il business delle multinazionali. Le grandi coop bianche e le grandi coop rosse, che sono diventate delle vere e proprie industrie con fatturati che si moltiplicano. Un’inquietante inchiesta ci svela chi sono gli “avvoltoi” che oggi stanno speculando in nome dell’accoglienza.

I furbetti della solidarietà arricchiti da Profugopoli. Non solo Mafia capitale. Dalle mini coop alle multinazionali, nel libro di Mario Giordano i nomi di chi si spartisce la torta dell'accoglienza, scrive Massimo Malpica, Martedì 08/03/2016, su "Il Giornale". Un ritratto impietoso di un «sistema». Un sistema che trasforma accoglienza e solidarietà in lucroso business, sulla pelle degli immigrati e di chi la solidarietà la fa davvero. C'è di tutto in Profugopoli, l'ultimo libro del direttore del Tg4 Mario Giordano, che racconta «quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati». Se a scoperchiare il calderone sul tema era stata Mafia Capitale, con il ras delle coop sociali Salvatore Buzzi a vantarsi di far più soldi con gli immigrati che con la droga, il volume di Giordano mostra invece che il malcostume non è questione meramente capitolina né si tratta di un fenomeno episodico. È un sistema. E prescinde da colori politici e confini geografici. Un libro-denuncia che fa nomi e cognomi di quanti, in Italia, si spartiscono la «grande torta» dell'immigrazione, dalle mini-coop alle multinazionali come la Gepsa, legata al gigante transalpino dell'energia Gdf-Suez, che fa incetta di appalti nel settore giocando al ribasso. Viste le differenze, Giordano divide questo esercito di furbetti in categorie. Ci sono gli «improvvisati», come il centro di formazione padovano che, fiutato l'affare, l'estate scorsa ha messo da parte i corsi per buttafuori e becchini per «accogliere» 81 migranti, e incassare 80mila euro al mese. Per non dire dell'associazione folkloristica siciliana che forte del suo «core business» - spettacoli con tamburelli e mandolino - si è aggiudicata, a Trapani, un bando prefettizio per una quarantina di profughi. Seguono gli «affaristi», imprenditori il cui fiuto li ha dirottati verso l'accoglienza, ma sempre con la testa al business, come l'avvocatessa napoletana che in Piemonte, sul Lago Maggiore, alleva capre e asine da latte, e a Busto Arsizio si dedica ad altro, aggiudicandosi 11 appalti per l'accoglienza migranti in 7 mesi tra 2014 e 2015, per oltre 2,5 milioni di euro. Poi tocca a «Specialisti&Colossi», le coop che sul sociale e sugli immigrati hanno costruito le loro fortune, trasformandosi in «imperi fondati sull'altrui disperazione», spiega Giordano, snocciolandone le storie. C'è la coop ferrarese, «monopolista» nonostante le bacchettate di Raffaele Cantone al Comune, quella modenese che nel 2014 ha incassato 13 assegnazioni di immigrati per oltre 2 milioni di euro, e quasi tutte in affidamento diretto, senza bando. Il colosso salentino dell'accoglienza, fondato da una ex colf albanese che «subappalta» i migranti alla chiesa copta lombarda, tenendosi 15 euro a migrante per il disturbo. Il viaggio a Profugopoli, corsa tra follie, sprechi e inchieste in salsa solidale, fa tappa anche dagli albergatori che hanno mollato i clienti paganti per i migranti ospitati a spese dello Stato e si conclude dove tutto è cominciato. Con i «farabutti», quelli pizzicati dalla magistratura, raccontati inchiesta per inchiesta, da «Mafia Capitale» alla mafia vera e propria.

“Profugopoli” di Mario Giordano racconta quanti italiani lucrano sulla tragedia dei migranti. Il business dell’accoglienza a spese nostre (e dei migranti), scrive il 9 marzo 2016 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". Cos’hanno in comune le tarantelle di «Sicilia Bedda» e una coop toscana di derattizzazione? Niente, direte voi. Invece sono in qualche modo sorelle: hanno scoperto il business dei profughi. Capace in un caso di moltiplicare il fatturato fino a 126 volte (centoventisei!) in cinque anni. A spese degli italiani e dei profughi stessi. Che fosse un affarone si era già intuito leggendo la famosa intercettazione di Salvatore Buzzi, uno dei principali protagonisti di «Mafia Capitale»: «C’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno». Il puzzle ricostruito pezzo su pezzo da Mario Giordano in Profugopoli (167 pagine, Mondadori) è però ancora più vasto e spesso ripugnante di quanto sapessimo. E accusa non solo gli «intrallazzatori professionisti, i truffatori patentati, i trafficanti di immigrati, i semplici furbetti di paese» che cercano di strappare più profughi possibili ai volontari veri, quelli che si dannano l’anima sul serio per aiutare il prossimo (come la mamma dello stesso Giordano, cui il libro è dedicato) ma il sistema. Compresi certi prefetti che, per liberarsi dell’ingombro, smaltiscono i nuovi arrivati consegnandoli a chi capita. Dice tutto la storia di Pasquale Cirella, ex-installatore di impianti idraulici del napoletano che dopo aver fondato con incerte fortune la «Family Srl» per la «gestione di alberghi, pensioni, ristoranti, pub, pizzerie…» cambia la «mission» scrivendolo anche a bilancio: «L’emergenza profughi è l’oggetto principale della nostra società». In alleanza con «New Family» di Daniela Carotenuto, già «Miss Paesi Vesuviani», ha fatto per anni man bassa di appalti. Passando tra il 2009 e il 2014 da 44 mila a 5 milioni e mezzo (abbondanti) di euro. Un exploit dovuto anche a come trattava i profughi: al «Di Francia Park», ristorantone per matrimoni poi sequestrato, ne aveva messi trecento su brandine accatastate nelle sale. «I soliti terroni!», dirà qualcuno. «Lady Finanza» Giannina Puddu da quarant’anni «vive e respira la Milano da bere: prima la Bocconi, poi PiazzaAffari» fino a «diventare presidente di Assofinance». Costruita una palazzina a Chieve (Cremona) «è riuscita a vendere solo due appartamenti» e che fa? Fonda la società «Garbata Accoglienza». Dodici giorni dopo, è «ritenuta dalla Prefettura adatta a gestire la drammatica emergenza dei profughi» e piazza i suoi nella palazzina vuota: «Dovevo pagare le rate del mutuo». Il Consorzio di cooperative McMulticons sta a Empoli e dintorni, tratta di «pulizie civili, industriali, sanificazione ambienti, derattizzazione» ed è legato a una Onlus che si occupa di carcerati. Che c’entrano i profughi? Ne prende in carico 141 e ne manda 36, denuncerà redattoresociale.it, in un «casolare diroccato in aperta campagna, a 5 chilometri da Castelfiorentino e lontano da qualsiasi centro abitato» con le «pareti ammuffite, i muri sgretolati, le cucine abbandonate, gli angoli pieni di sporcizia» e «due bagni per 36 persone». Due euro al giorno dello Stato vanno a ogni immigrato (sigarette) e gli altri (da 28 a 38, a seconda dei contratti) a chi gli dà da mangiare e dormire. «A Benevento la Prefettura si fida ciecamente di Maleventum. Non è un gioco di parole, è il nome del consorzio che raccoglie diverse cooperative cui sono stati affidati ben 770 profughi, un’enormità. “Sparsi in 13 centri diversi”». Incassi 2015? «Quasi 9 milioni di euro». La «mente è Paolo Di Donato, che non a caso si definisce “ideatore, creatore e gestore, con oltre 200 dipendenti, del consorzio”». Volete vedere il tipo? «Sul profilo Facebook si mostra a bordo di una Ferrari». In compenso, denuncia ancora redattoresociale.it, per una trentina di giorni, i circa 120 «ospiti» ammassati in una palazzina a Contrada Madonna della Salute «hanno bevuto e si sono lavati con acqua di pozzo». Elio Nave è titolare dell’Hotel Quercia di Rovereto: «Sono stato sempre leghista e sempre lo sarò». Il suo segretario Matteo Salvini spara più contro i profughi che contro gli affaristi? Lui applaude, ma ha spiegato al Corriere delle Alpi che il nuovo business va benissimo: «Non riuscivo a coprire le spese. Avevo già chiuso il ristorante. Poi avevo provato ad aprire una pizzeria…». Adesso è sempre completo: «Senza i profughi avrei dovuto chiudere». «Ospitare i profughi è il nostro nuovo modello economico» dice Giulio Salvi dell’Hotel Bellevue di Cosio Valtellino: «Ho già incassato 700-800.000 euro». Di turisti «non ne venivano più…». Vuoi mettere i profughi? «Ne hanno 70 a 37,5 euro al giorno», spiega Giordano, «Incassano 80.000 euro al mese. In cambio offrono camere modeste, un vecchio televisore e un menù basico, riso e pollo, piatto unico». Il Csfo di Monselice (Padova), fa corsi di formazione per buttafuori e per addetti alle pompe funebri ma non si fa scappare il business e prende in gestione «una cinquantina di immigrati, incassando per ognuno di loro un contributo pari a 34,89 euro al giorno». E dove li piazza? In una ex colonia a mille metri a Pian delle Fugazze. Un’interrogazione accusa: «degrado inaccettabile», «abisso di inciviltà», «bagni intasati», «allagamenti di corridoi»… Fra l’altro, racconta il libro, «vien fatto notare che a tutti gli ospiti sono stati consegnati all’inizio del soggiorno un piatto e due posate in plastica, genere usa e getta. Da mesi sono costretti a mangiare con quelli. Sporchi e rotti. Da far schifo». Ma che razza di società è? Sorpresa: «L’86 per cento del capitale è vincolato nel CalvetTrust, un fondo soggetto alla legge di Jersey». Un paradiso fiscale…

«Profugopoli» quegli affari della coop leccese, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 9 marzo 2016. Esce oggi in libreria «Profugopoli» di Mario Giordano (pagg. 156, euro 17,50), una documentata denuncia di «quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati». Ne anticipiamo uno stralcio su un caso pugliese. "Continua a gestire regolarmente profughi anche l’Integra di Lecce, nonostante le «gravi inadempienze» che le vengono imputate. La cooperativa, molto attiva in tutta Italia, è stata fondata nel Salento da una italo-albanese, Klodiana Çuka: sbarcata sulle nostre coste nel 1992, Klodiana ha cominciato come collaboratrice domestica, poi è stata traduttrice e mediatrice culturale. Di qui l’idea di fare sul serio: la coop, nata nel 2003, dal 2013 è regolarmente iscritta al registro delle imprese, e oggi ha 42 addetti, con sedi a Roma, Milano, Taranto e Avezzano. Nel 2014 si è aggiudicata i progetti di accoglienza gestiti dalla città di Lecce e di alcuni altri Comuni pugliesi. Nel frattempo è scoppiata la grande emergenza e allora ci si è buttata a capofitto, decidendo di giocare anche in trasferta. Ha vinto appalti a Lodi, ha lavorato in convenzione con la Prefettura di Pavia. E soprattutto è sbarcata a Milano, dove nel corso del 2014 ha ottenuto contratti per un totale di 752.766 euro. Una bella impresa per chi aveva cominciato come collaboratrice domestica. Ma in realtà dalle parti di Integra non tutto fila liscio. Al di là delle belle parole con cui la cooperativa si presenta nei suoi documenti ufficiali («sensibilità verso il mondo della migrazione», «creare e implementare una società multietnica e multiculturale», «associazione trasversale guidata dal motto: unire senza fondere, distinguere senza dividere, rimanendo uniti nelle diversità»), la gestione del centro di via Quintiliano a Milano non brilla per efficienza. Tanto che nel febbraio 2015 la Prefettura compie un blitz e lo chiude temporaneamente per «gravi inadempienze», costringendo a trovare un’altra collocazione ai profughi che là dentro erano stipati all’inverosimile, in locali all’apparenza piuttosto devastati. «Sono cose che possono succedere» ha commentato con una certa noncuranza la responsabile Klodiana Çuka. In effetti: cose che possono succedere. Nel novembre 2015 Safwat Bakhit, presidente della Chiesa copta evangelica egiziana della Lombardia, dalle colonne di «Repubblica» denuncia: «Dall’estate del 2014 diamo ospitalità a 92 persone per conto di Integra, ma sono otto mesi che la coop non ci paga». L’associazione di Lecce, infatti, aveva siglato un accordo con la Chiesa copta: quest’ultima si era accollata interamente la gestione dei profughi, Integra avrebbe dovuto girarle 20 dei 35 euro incassati dalla Prefettura per ognuno. Invece, niente. «Hanno abbandonato qui quelle persone, incassano i soldi dallo Stato e non ci pagano» accusa Bakhit. «Si approfittano di noi perché siamo una chiesa e non lasciamo i rifugiati in mezzo alla strada». Avete capito il meccanismo furbetto? Prima Integra ottiene i profughi dalla Prefettura a 35 euro, poi li «gira» alla Chiesa copta a 20 euro. La differenza (15 euro) resta nelle sue tasche, senza fatica alcuna. Ma tutto ciò non basta. Secondo i religiosi, infatti, la coop non verserebbe nemmeno i 20 euro e si terrebbe l’intero bottino, lasciando agli altri le spese del mantenimento profughi. Ma vi pare? «La colpa non è nostra, è la Prefettura che non ci paga regolarmente» si difendono i cooperanti del Salento. Ma anche se fosse vero, la manovra resta piuttosto spericolata. E un po’ sospetta. Sono cose che possono succedere, si capisce. Ma quello che proprio non si spiega è come mai, nonostante tali dubbi e le gravi inadempienze, anche da essa stessa accertate e segnalate con diverse lettere di contestazione, la Prefettura di Milano continui a fidarsi di questa cooperativa di Lecce, improvvisamente sbarcata al Nord. E soprattutto non si capisce come mai continui a concederle affidamenti diretti su base fiduciaria: non solo, infatti, il Prefetto non sospende immediatamente l’appalto da 965.947 euro (in essere dal 1° gennaio 2015), ma addirittura ne sigla un altro il 1° maggio 2015 da 378.329 euro e piazza Integra in testa alla graduatoria della nuova gara (29 dicembre 2015). Davvero una fiducia a prova di bomba, non credete?

LO SPRECO DEI PASTI AI CLANDESTINI.

Le foto che vedete a lato e sotto l'articolo e che ci sono state concesse da un volontario del centro di prima accoglienza di Pozzallo dicono tutto: centinaia di piatti di pasta e carne ancora sigillati e caldi di cottura buttati nei cassonetti della spazzatura all’interno della stessa struttura che ospita i clandestini degli sbarchi, scrive Calogero Castaldo su “Il Corriere di Ragusa”. Anche la frutta fresca finisce tra i rifiuti. Se si tiene conto che questa scandalosa situazione dura da parecchi giorni e che i pasti buttati costano 15 euro al giorno per ciascun migrante, l’entità dello spreco è evidente e suona come uno schiaffo a chi magari non ha di che vivere. Perché i pasti in più finiscono nei cassonetti invece di essere destinati ad altri centri o a persone bisognose che non hanno nulla da mangiare? E’ il comune di Pozzallo a gestire la situazione con denaro pubblico sotto la supervisione della Prefettura, ma il sindaco Luigi Ammatuna (nella foto con il cibo buttato nei cassonetti) ha appreso da noi l’incredibile vicenda: "Non ne sapevo nulla. Resto quantomeno sorpreso, farò gli opportuni controlli". Nessuna risposta al telefono invece dal responsabile del centro. Lo scandaloso spreco non è dovuto solo al numero di pasti sovrastimati e quotidianamente ordinati dal comune alla ditta con sede a Ispica che ha in appalto il servizio, ma anche ai gusti degli stessi clandestini, molti dei quali si rivelano schizzinosi e preferiscono mangiare nei locali pubblici, in quanto il cibo servito al Cpa non è di loro gradimento. Restano queste immagini che colpiscono con la stessa forza di un pugno allo stomaco, soprattutto in questi tempi difficili che costringono un po’ tutti a tirare la cinghia.

Gettati via i pasti dei profughi: si indaga sullo spreco in Sicilia. Mentre continuano gli sbarchi in Sicilia, a Pozzallo errori di gestione e il cibo va nella spazzatura. L'ira del prete di frontiera: potevamo darli a italiani bisognosi, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”. L'ondata di sbarchi continua e sulla costa meridionale della Sicilia è emergenza continua. Gestire la marea di umanità disperata in arrivo non è una passeggiata e i Comuni bussano continuamente a Roma in cerca di risorse. Ecco perché appare ancora più incredibile lo spreco documentato fotograficamente al Centro di primo soccorso e accoglienza di Pozzallo: cassonetti della spazzatura stracolmi di decine e decine di portate di cibo ancora avvolte nel cellophan. Qualcuno dentro la struttura ha fotografato lo spreco e le immagini rimbalzate sul sito locale Ragusanews.com hanno creato un (comprensibile) vespaio. Pasta, carne e frutta: tutto pagato dai contribuenti, tutto finito tra i rifiuti. Come se non bastasse lo sforzo che il Paese sta facendo per l'accoglienza. Uno schiaffo in faccia alla crisi e alle famiglie, anche a quelle italiane, che faticano a riempire il frigorifero. Uno spreco su cui ora indagano i carabinieri della Compagnia di Modica, che hanno sentito i responsabili del Cpsa, ed è stata aperta anche un'inchiesta amministrativa interna alla struttura. Il prefetto di Ragusa, Annunziato Vardè, ha inviato una nota al sindaco, Luigi Ammatuna, e all'Azienda sanitaria provinciale di Ragusa per avere lumi sullo spreco, che sembrerebbe dipendere da un incrocio perverso tra le abitudini alimentari degli immigrati e carenze organizzative del Centro. La convenzione tra Prefettura e Comune prevede, infatti, il rispetto delle tradizioni religiose e una scelta di alimenti non in contrasto con i principi e le abitudini alimentari degli ospiti. E se ciò è stato rispettato - elemento che sarà vagliato per accertarsi del rispetto degli accordi - sarà il caso di ricontare il numero di pasti fornito quotidianamente e la corrispondenza con quello degli ospiti del centro, visto che la convenzione tra Comune e una ditta di Pescara con succursale a Ispica, non lontano dal Cpsa, aggiudicataria del bando, prevede un pagamento di 15 euro al giorno a persona per i pasti. Non prepararli affatto, anziché buttarli, avrebbe significato risparmiare denaro pubblico. Ma c'è di più: se anche si fossero sbagliati i conti, magari perché gli immigrati, riescono a nutrirsi da soli in paese, non si potevano recuperare i pasti girandoli a chi ha bisogno? Il Cpsa replica che non è previsto dalla convenzione. Il che non evita l'indignazione. Imbufalito Don Beniamino Sacco, il prete di frontiera che aveva annunciato di voler devolvere il 10% del finanziamento per accogliere gli immigrati alle famiglie italiane bisognose, e lo sta facendo davvero, in barba alle convenzioni: «L'ho fatto e ne sono felice: così diamo a chi ha bisogno». Il problema dell'accoglienza per don Sacco è «l'improvvisazione» malgrado l'esperienza italiana di 40 anni di sbarchi. «Non sembra esserci volontà di progettazione - dice - nemmeno ora che tanta gente è pronta a venire». Soltanto nel weekend sono stati soccorsi 2.600 immigrati dalla Marina militare. Un centinaio sono sbarcati da soli sulle coste di Pachino (Sr). La metà ha fatto perdere le proprie tracce. «C'è caos nell'accoglienza» - denuncia anche monsignor Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco di Fermo. «Il massimo ribasso favorisce gli albergatori dell'ultim'ora che intendono speculare», dice. Il prelato parla di «un meccanismo automatico» che va dalla comunicazione del Ministero dell'Interno alle Prefetture del numero da accogliere, al coinvolgimento di associazioni, enti e imprenditori disponibili per l'accoglienza. «Chi si aggiudica il bando per 35 euro a ribasso garantirà i servizi adeguati?». L'episodio del cibo sprecato sembra fare eco a questa domanda. E richiede un chiarimento immediato.

Pasti buttati dagli immigrati, la grillina: "Non digeriscono la pasta". A Pozzallo buttato via il cibo per gli immigrati. Per la Lorefice il problema è la pasta: "Non la digeriscono". E suggerisce di adeguare gli orari al ramadan, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Gli sbarchi di clandestini non si arrestano. Complice il bel tempo, il Mediterraneo riversa decine di migliaia di disperati sulle nostre coste. C'è chi fugge dalla guerra e chi cerca semplicemente un lavoro. E, mentre in Italia dilagano disoccupazione e povertà, il fallimento dell'operazione "Mare nostrum" si trasforma in un costo abnorme per le casse pubbliche. Le forze della Marina Militare sono impegnate giorno e notte per salvare i barconi in difficoltà, i centri di prima accoglienza sono al collasso e gli enti locali sono obbligati a ospitare migliaia di immigrati che non sanno nemmeno dove mettere. Eppure per la grillina Marialucia Lorefice la vera emergenza è il tipo di cibo fornito agli stranieri appena sbarcati. Pasta e carne non vanno bene: hanno abitudini alimentari e culturali diverse e, a suo dire, lo Stato italiano è chiamato ad adeguarsi alle loro esigenze. La scorsa settimana la Lorefice ha depositato un'interrogazione sul problema della gestione dei pasti nei centri di prima accoglienza. Lo spunto sono state le fotografie scattate al Centro di primo soccorso e accoglienza di Pozzallo: cassonetti della spazzatura stracolmi di decine e decine di portate di cibo ancora avvolte nel cellophan. Qualcuno dentro la struttura ha fotografato lo spreco e le immagini rimbalzate sul sito locale Ragusanews e riportate dal Giornale hanno creato un vespaio senza precedenti. Pasta, carne e frutta: tutto pagato dai contribuenti, tutto finito tra i rifiuti. Uno spreco su cui è già stata aperta un'inchiesta amministrativa interna alla struttura. E qui è scesa in campo la Lorefice. Non perché sanamente imbarazzata dallo spreco, bensì sulla dieta a cui sarebbero "obbligati" gli stranieri. "Sebbene quelli offerti rispondono alle caratteristiche dieta mediterranea, la migliore, i migranti provengo da zone in cui sono abituati a nutrirsi di cose ben diverse - si legge sulla pagina Facebook della grillina - questo significa che anche la semplice pasta diventa per loro un problema. Non riescono a digerirla". Non solo. A suo dire il problema si porrebbe anche per la carne che i musulmani non possono mangiare. Per tutelare "le tradizioni religiose" degli islamici, la grillina ha addirittura mobilitato la prefettura di Ragusa e il Viminale. Al ministro dell'Interno Angelino Alfano è stato chiesto di estendere le linee di indirizzo nazionale per la ristorazione scolastica e di "modificare gli orari di distribuzione dei pasti, conseguentemente a particolari periodi di preghiera come quello attuale del ramadan". Una richiesta che ha destato non poche polemiche. Il leghista Davide Boni, per esempio, twitta stupito il contenuto dell'interrogazione. Non è l'unico. In uno stato di emergenza come questo, preoccuparsi della dieta degli stranieri ha scatenato un feroce dibattito sulla rete. Tanto che la Lorefice si è vista costretta a fare un secondo post su Facebook per spiegare le proprie intenzioni: "L'Italia non è un Paese razzista, siamo stati e siamo popolo di emigranti anche noi. Chi si spaventa dello straniero, di un pasto dato nel rispetto di una religione diversa è un debole".

La battaglia della deputata grillina per la buona digestione dei migranti. Marialucia Lorefice (M5S): "A Pozzallo non digeriscono la pasta", scrive Claudia Daconto su “Panorama”. C'è una deputata grillina che ha deciso di fare della dieta dei migranti la propria personalissima battaglia politica. Al punto da presentare, il 15 luglio scorso, un' interrogazione a risposta scritta al ministro dell'Interno sul “grave” problema del menù somministrato ai migranti nei centri di prima accoglienza. Contattata da Panorama.it, l'onorevole cittadina ha risposto che “la questione è già abbastanza spiacevole per aggiungere altro”. Sottraendosi quindi alla richiesta di ulteriori chiarimenti, ci ha rimandato alla sua pagina Fb "dove ho già detto quel che dovevo dire". Grazie. Siciliana di Ispica, in provincia di Ragusa, Marialucia Lorefice, 34 anni, è infatti assurta all'onore delle cronache grazie ai presunti disturbi digestivi degli immigrati che arrivano in Italia dopo essere sopravvissuti a fatiche e privazioni indicibili e che, a suo avviso, a differenza di altri milioni di stranieri (compresi quelli di religione araba) che addirittura pagano per mangiare italiano, si troverebbero a disagio con la nostra dieta mediterranea. Le avremmo per esempio voluto chiedere quali sono le sue fonti, se ha avuto occasione di parlare direttamente con queste persone o quale medico o dietista le abbia suggerito che la causa del rifiuto di cibo da parte degli ospiti del CPSA di Pozzallo sia effettivamente la difficoltà a digerirlo. A convincere la deputata (per la quale anche gli orari di somministrazione dei pasti sarebbero in contrasto con le abitudini culturali e religiose degli immigrati), il ritrovamento nei cassonetti dell'immondizia della località siciliana di cibo sigillato ancora caldo proveniente dalla locale struttura d'accoglienza, sarebbe infatti da addebitare un po' alla novità della pasta italiana indigesta, un po' al fatto che mangiare a una certa ora piuttosto che a un'altra non incontrerebbe il gradimento dei migranti. Una teoria in forte contrasto rispetto all'esperienza di molti operatori che da anni sono impegnati nel lavoro di accoglienza e sostegno i quali, come per esempio padre Giovanni Lamanna, direttore del Centro Astalli di Roma, riferendo della sua esperienza presso il centro ascolto all'interno del Cie di Ponte Galeria, sostiene che la richiesta più pressante che arriva da quella gente è sempre la stessa: una sigaretta e qualcosa da mangiare. Qualunque cosa. Lorefice, che fino a 2 anni fa dava ripetizioni di italiano, non si è mai laureata (o almeno così risulta dal suo curriculum vitae) e, oltre alla conoscenza del pacchetto office e della navigazione in internet, vanta capacità artistiche, la conoscenza del pianoforte, attività di volontariato in famiglie disagiate e, come attivista 5 Stelle, la partecipazione a un intervento di pulizia del Belvedere di Ispica, all'operazione “Fiato sul collo in Consiglio comunale” e al banchetto informativo “Raccolta proposte e segnalazioni sprechi”, non si è mai occupata direttamente di temi dell'immigrazione. Nonostante lei stessa riconosca che “la dieta mediterranea, quella servita, sia la migliore”, tuttavia trova ingiusto costringere i migranti, “abituati a nutrirsi di cose ben diverse”, a mangiare pasta. La stessa pasta che in nessuna altra parte del mondo pare crei problemi simili. Avremmo voluto chiedere a Lorefice perché esclude che siano altri i motivi dello spreco di cibo in quella struttura; se non pensa che preoccuparsi della digeribilità dei pasti non sposti l'attenzione da problemi ben più gravi e pressanti come le indecenti condizioni igienico sanitarie in cui si ritrovano a vivere gli ospiti di queste strutture, la carenza di posti letto e addirittura delle celle frigo per conservare dignitosamente i cadaveri di uomini, donne e bambini che perdono la vita in mezzo al mare o le cifre enormi che lo Stato italiano paga ogni anno per tenere aperti centri che assomigliano più a lager che a luoghi di accoglienza. E se di fronte alla quotidiana fatica di migliaia di anziani che vanno a rovistare tra la spazzatura alla chiusura dei mercati o al disagio di milioni di famiglie che, sognandosi i tre pasti al giorno serviti a Pozzallo, fanno cenare i loro figli con latte e biscotti, non teme che iniziative come queste diventino incomprensibili anche per gli stessi elettori grillini. Che infatti, almeno a leggere i commenti al famoso post, non le capiscono.

Riceviamo e pubblichiamo. Desidero precisare di non aver mai parlato con la giornalista, a lei non ho rilasciato nessuna delle dichiarazioni a me attribuite, che dunque sono false. Tengo a sottolineare comunque che lo scopo dell’interrogazione era quello di richiamare l’attenzione del governo sullo spreco dei pasti destinati ai centri d'accoglienza che, se non consumati, vengono gettati dal momento che non è prevista una destinazione alternativa. Uno spreco rispetto al quale sarebbe giusto trovare soluzioni, anche in ragione dello stato di crisi e povertà che vivono troppi cittadini. Inoltre, nell’articolo viene affermato che i migranti “si troverebbero a disagio con la nostra dieta mediterranea”, tanto da non voler consumare i pasti distribuiti nei centri di accoglienza in ragion “della pasta italiana indigesta” e per il fatto che “che mangiare a una certa ora piuttosto che a un'altra non incontrerebbe il gradimento dei migranti”. Tutte affermazioni, quelle riportate nei virgolettati, che non sono contenute nell’interrogazione della sottoscritta e che quindi, sono frutto di conclusioni soggettive e non di documentazione oggettiva. Marialucia Lorefice.

IMMIGRAZIONE: RISORSA? MA QUANTO MI COSTI? UN MILIARDO O 4O MILIARDI DI EURO ALL'ANNO?

Nell’affrontare l’argomento bisogna distinguere la propaganda ideologica dai dati concreti.

Il costo (salato) degli immigrati: oltre un miliardo per mantenerli. Dal 2013 i costi per mantenere gli immigrati sono raddoppiati. I motivi? Il maggior numero di sbarchi e la lentezza dello Stato, scrive Andrea Riva su “Il Giornale”. Quanto costa mantenere un immigrato? Generalmente dai 35 ai 40 euro al giorno. Quanti immigrati ci sono in Italia? All'incirca 81mila. Facendo un rapido conto, come ha rilevato Repubblica, "nel 2015 l'Italia spenderà più di un miliardo di euro per accogliere i migranti. È il record assoluto. Sono 400 milioni in più dello scorso anno, 500 rispetto al 2013". I motivi di questo aumento sono essenzialmente due: il maggior numero di sbarchi e, rileva sempre Repubblica, "la lentezza dello Stato che non riesce a dare in tempi ragionevoli risposte sulle richieste d'asilo". Gli immigrati, infatti, dovrebbero attendere solamente tre settimane per ricevere la conferma della richiesta d'asilo, ma i tempi sono sempre più lunghi perché "chi deve decidere se hanno diritto o no - sulla base di una serie di requisiti, primo tra tutti le condizioni del paese di provenienza - sono le 40 commissioni territoriali nominate dal ministero dell'Interno che dipendono dalle Prefetture". A ciò va aggiunto lo sfruttamento che le coop, come dimostra il caso Mafia capitale, fanno sulle disgrazie dei migranti. E a pagare sono sempre i contribuenti italiani.

L'invasione degli immigrati ci costa 55 milioni al mese. I dati choc del Viminale: per gli stranieri ospitati nelle strutture di accoglienza spendiamo quasi due milioni di euro ogni giorno. Ma sono cifre destinate a salire, scrivono Domenico Ferrara e Andrea Indini su “Il Giornale”. Quasi due milioni di euro al giorno. Poco più di 55 milioni al mese. Oltre 660 milioni all'anno. Benvenuti nel bilancio preventivo dell'esodo degli immigrati in Italia. Sono numeri da capogiro quelli che, in nome della tanto decantata accoglienza, sborsiamo per il mantenimento dei 61.238 stranieri che, a oggi, sono ospitati dalle strutture messe a disposizione dal nostro Paese. Numeri tenuti al ribasso, ma che nella realtà lievitano vertiginosamente. Perché se è vero che il Viminale stanzia 30 euro al giorno per dare vitto e alloggio a ogni straniero, è pur vero che molto spesso la cifra è più alta. «Fino al 31 agosto scorso abbiamo avuto una convenzione con un'associazione di Ragusa, quindi con il ministero dell'Interno, che ci rimborsava 80 euro pro capite a immigrato per tutta la gestione del centro. Dal primo settembre, invece, la Prefettura ci ha fatto la proposta di rimborsarci soltanto 35 euro», tuonava nel settembre scorso Luigi Ammatuna, sindaco di Pozzallo, uno dei comuni più «colpiti» dall'emergenza immigrazione. «Già abbiamo avuto cali in fatto di immagine e di presenze turistiche - spiegava il primo cittadino - non possiamo mettere soldi che non abbiamo e che sarebbero debiti fuori bilancio». Come aveva svelato Ammatuna, ogni extracomunitario ospitato dall'hotel Italia arrivava anche a costare 80 euro al giorno. Cifra che fa indignare se paragonata agli «altri» 80 euro, il bonus tanto sbandierato da Renzi. Solo che agli italiani toccano una volta al mese. I soldi spesi nel centro di prima accoglienza di Pozzallo coprono i pasti, la scheda telefonica e un kit che contiene un paio di tute, alcune magliette, il ricambio di mutande, lo spazzolino e il dentifricio, il bagnoschiuma e l'asciugamano. Si capisce, quindi, come siamo ben lontani dalla media dei 30 euro al giorno su cui abbiamo calcolato i 660 milioni di euro sborsati in un anno. Nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, per fare un altro esempio, ci sono quasi 4mila persone che attendono che venga evasa la richiesta. Un'attesa che, però, può durare anche più di un anno e che costa al giorno circa 34 euro a persona. I dati del Viminale, aggiornati al 31 ottobre 2014, parlano 61.238 immigrati attualmente presenti sul territorio italiano. Nello specifico, 32.335 sono ospitati in strutture temporanee, altri 10.206 vivono nei Centri governativi per richiedenti asilo, 18.697 occupano invece gli spazi dedicati ai rifugiati (Sprar). Sin dall'inizio della fallimentare operazione Mare Nostrum, il Viminale ha diviso gli immigrati regione per regione, con evidenti disparità. La Sicilia è quella che ne ospita di più: ben 14mila. Seguono il Lazio (quasi 8mila), la Puglia (quasi 6mila) e la Lombardia (quasi 5mila). Ma quello che fa più impressione è l'impennata impressionante che, da gennaio a ottobre si è registrata. Se all'inizio dell'anno, gli extracomunitari erano circa 17mila, nel giro di soli nove mesi le presenze nei centri di prima accoglienza sono quasi quadruplicate arrivando così a quota 61mila. Secondo un recente report dell'Eurostat, infatti, l'Italia è sicuramente il Paese più «accogliente» di tutto il Vecchio Continente. Nel 2013 Roma ha respinto il 36% delle richieste di asilo presentate, mentre Berlino ne ha bocciate il 74%, Parigi l'83% e Londra l'82%. Lascia, poi, l'amaro in bocca vedere che, mentre vengono spesi 660 milioni per mantenere gli immigrati, il governo taglia quasi la stessa cifra al ministero della Difesa e circa la metà al comparto sicurezza.

Immigrati, un tesoro nascosto nella gabbia degli stereotipi. Articolo tratto dal sito di Nigrizia. La cronaca, come la strage dei gommoni, ha sempre il sopravvento. E alla fine il senso comune sull'immigrazione si appiattisce sugli stereotipi dell'emergenza e dell'allarme sociale. Uno studio mostra, invece, come gli stranieri non siano un costo, bensì una ricchezza che salva, ad esempio, le casse previdenziali italiane, scrive Gianni Ballarini su "La Repubblica". Scriviamo sotto dettatura degli orrori della "strage dei gommoni". Con centinaia di persone scomparse nel Canale di Sicilia nella seconda settimana di febbraio. Trecento? Quattrocento? Mille migranti? Che importa? Sono corpi e storie senza peso specifico. Che affollano la nostra già traboccante cattiva coscienza. Quante altre stragi silenziose e ignote si sono susseguite ritmicamente in questi giorni, in questi mesi, in questi anni? Stragi utili, forse, per qualche giorno di commozione. Che si esaurirà presto - tra imbarazzante impotenza e burocratica indifferenza - senza lasciare conseguenze. Se non una: appiattire mediaticamente il fenomeno dell'immigrazione sugli stereotipi della cronaca. I migranti rappresentati solo come quelli che muoiono in mare, che sbarcano, che sono coinvolti in fatti di violenza o, peggio ancora, di terrorismo. Vittime o carnefici. Sfruttati o sfruttatori. Mentre l'immigrazione è anche altro: un fattore strutturale della società italiana. Non marginale. E neppure solo emergenziale o di allarme sociale. Gli 846 articoli di giornale analizzati. La Fondazione Leone Moressa, con il contributo di Open society foundations, all'interno del progetto Il valore dell'immigrazione, ha monitorato per sei mesi, nel 2014, tre importanti quotidiani italiani (??la Repubblica, Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore) analizzandone 846 articoli dedicati all'immigrazione. Solo il 12% racconta il migrante che esce dalla gabbia dello stereotipo; quello inserito nella società, integrato, con un lavoro e che porta perfino benefici al sistema economico in generale. Tutto il resto è, appunto, sbarchi, emergenza profughi, criminalità, proteste. L'individuo scompare. I ricercatori hanno calcolato che, mediamente, solo una notizia su dieci rappresenta lo straniero in modo positivo. E questo contribuisce a costruire un senso comune negativo sull'immigrazione. Gli italiani sono i peggio informati. Da un sondaggio condotto da una tra le principali società britanniche di ricerca e marketing, Ipsos Mori, gli italiani risultano tra i peggio informati sulle caratteristiche di base del proprio paese. Valutano, ad esempio, che gli immigrati siano il 30% della popolazione, quando sono invece il 7%; mentre sottostimano, paradossalmente, il numero di contribuenti stranieri, ritenendo ininfluente quanto migliorino la previdenza sociale. Pensano, anzi, che usufruiscano in misura maggiore dei benefici sociale, quando, invece, accade esattamente l'opposto. Sono gli studiosi della Fondazione Leone Moressa a ricordarcelo: sommando tutte le entrate pubbliche dovute all'immigrazione (gettito fiscale, irpef, imposta sui consumi, sui carburanti, i permessi di soggiorno e i mutui previdenziali) e le spese (sanità, scuola, servizi sociali, accoglienza e spese per l'immigrazione irregolare) vi è un saldo positivo di quasi 4 miliardi di euro (16,5 miliardi di entrate; 12,6 miliardi di spese). Dagli stranieri 123 miliardi, l'8% del Pil nazionale. Sono gli stranieri, di fatto, a sostenere la nostra spesa pubblica. E ogni anno pompano nel sistema circolatorio italiano 123 miliardi di euro, l'8,8% della ricchezza prodotta in Italia. I 3,5 milioni di contribuenti nati all'estero pagano quasi 7 miliardi di tasse, mentre i 2,4 milioni di occupati stranieri rappresentano il 10,8% degli occupati totali. Certo, il loro tasso di disoccupazione, tra il 2007 e il 2013, è cresciuto ben più di quello degli italiani (9 punti contro 3) e ancora oggi uno straniero dovrebbe lavorare 80 giorni in più all'anno per avere la stessa retribuzione di un italiano, a livello medio. Ma è spiccato il loro spirito imprenditoriale. Secondo dati Confesercenti, nel secondo trimestre del 2014, il commercio è cresciuto di oltre 57mila occupati. Di questi, 31mila hanno trovato posto in un'attività gestita da imprenditori non italiani.

Quanto costano davvero gli immigrati. Uno studio della fondazione Leone Moressa ha realizzato il bilancio economico della presenza degli stranieri in Italia, scrive Caterina Michelotti su “ThePostInternazionale”. Uno studio condotto dalla fondazione Leone Moressa, un istituto di studi e ricerche nato nel 2002, ha realizzato il bilancio economico sulla presenza degli immigrati in Italia. La ricerca "L'economia dell'immigrazione: costi e benefici" rivela che il contributo da parte degli immigrati all'economia del Paese è pari a quasi 4 miliardi di euro ogni anno. Cose utili da sapere:

- Quanto ha speso l'Italia per gli immigrati: nel 2012 lo Stato italiano ha speso 12,6 miliardi di euro per l'arrivo di nuove famiglie di immigrati sul suolo italiano.

- Le spese comprendono gli oneri per i servizi sanitari (3,7 miliardi), quelli educativi (3,5), i servizi sociali (0,6), gli alloggi (0,4), la giustizia (1,8), le spese del ministero degli Interni per la gestione (1,0) e i trasferimenti economici (1,6).

- Calcolando che la spesa pubblica in Italia è stata di 800 miliardi, i costi dell’immigrazione sono stati l'1,57 per cento della quota complessiva.

- Quanto ha ottenuto l'Italia dagli immigrati: lo Stato, nel 2012, ha ottenuto 16,5 miliardi di euro dagli stranieri così suddivisi:

- Una parte delle entrate - vale a dire 7 miliardi di euro circa - deriva dal pagamento dell’Irpef (4,9 miliardi di euro), dall’imposta sui consumi (1,4 miliardi), sugli oli minerali (0,84), su lotto e lotterie (0,21) e per tasse e permessi (0,25).

- A ciò vanno aggiunti 8,9 miliardi di contributi previdenziali per gli stranieri.

- Il totale delle entrate di 16,5 miliardi di euro nel 2012 ha quindi coperto con scarto i 12,6 miliardi di spesa pubblica. I cittadini stranieri hanno fruttato 3,9 miliardi di euro all’economia italiana.

- Occupazione: gli immigrati creano anche lavoro. In Italia possiedono l’8,2 per cento delle aziende totali e, grazie a queste, producono 85 miliardi di valore aggiunto.

- Mentre il bilancio delle attività italiane è negativo, dal momento che nel 2012 almeno 50mila imprese hanno dovuto chiudere per via della crisi, gli stranieri hanno investito a tal punto da far crescere di 18mila il numero delle attività commerciali degli immigrati rispetto all'anno precedente.

Gli immigrati sono un peso o una risorsa? Si chiede Paolo Bramante su “IBTimes”. Dopo il naufragio di qualche giorno fa, in cui sono morte centinaia di persone, sono partite le polemiche sulla gestione degli sbarchi, polemiche legittime ma che in alcuni casi sono andate oltre la questione. Diversi politici hanno fatto intendere che l’Italia, abbandonata da tutta l’Europa, è l’unico Paese a farsi carico di coloro che scappano da guerre e povertà, dipingendo un Paese pieno di stranieri che portano solo problemi. La realtà è però diversa. Innanzitutto facciamo chiarezza sui numeri: secondo i dati ISTAT in Italia al 1° gennaio 2015 risultavano residenti circa 5 milioni di stranieri, a fronte di una popolazione complessiva di 60 milioni di individui. La percentuale di stranieri regolari è quindi dell’8%, mentre gli irregolari nel 2013 erano circa 300 mila, secondo la stima della Fondazione Ismu - Iniziative e Studi sulla Multietnicità, parliamo quindi di cifre piccole. I 300 mila irregolari sono un problema, perché se va bene lavorano in nero e se va male delinquono, il che ci porta al tema carcerario: quanti sono gli stranieri in carcere? L’ultimo rapporto ISTAT ci dice che nelle carceri italiane abbiamo 62.536 detenuti, di cui 21.854 stranieri (il 34,9%), una percentuale molto alta, che fa capire come il processo di integrazione sia ancora molto lontano. La delinquenza è un costo sociale ed economico, ma la maggioranza degli stranieri lavora e paga le tasse: parliamo di 2,3 milioni di occupati stranieri (in aumento del 5% nell'ultimo anno rispetto al precedente), mentre i lavoratori italiani sono circa 20 milioni (diminuiti dello 0,1%). Ciò significa che la popolazione straniera, pur essendo solo l’8%, rappresentano oltre il 10% dei lavoratori. Secondo l’elaborazione dei dati ISTAT effettuata dalla Fondazione Leone Moressa gli stranieri hanno contribuito con 123 miliardi di PIL, che rappresenta l’8,8% della ricchezza italiana complessiva: di nuovo una percentuale maggiore rispetto alla popolazione. Adesso sappiamo che l’immigrazione ci porta tanti bei soldi, ma quanto ci costa fronteggiare l’immigrazione? Dati ufficiali non ce ne sono, secondo un calcolo del Sole 24 Ore ci costa circa 1 miliardo l’anno, ma in questo calcolo sono considerati solo gli sbarchi. Se a questo aggiungiamo i costi sociali si può arrivare ad ipotizzare anche un costo totale di 10 miliardi annui, una cifra comunque molto inferiore ai benefici economici che porta l’immigrazione. Dobbiamo anche tenere conto che molti immigrati coi loro contributi previdenziali pagano le pensioni a noi italiani, lo ha spiegato molto bene l’attuale presidente dell’INPS Tito Boeri due anni fa: “I pagamenti erogati dallo stato per i lavoratori extracomunitari sono nettamente inferiori rispetto ai contributi versati. Questo succede perché in molti casi i lavoratori extracomunitari arrivano nel nostro Paese, lavorano e versano i contributi per poi tornare al loro Paese d’origine senza aver maturato la condizione necessaria per richiedere l’assistenza previdenziale”. Quindi spesso lasciano a noi italiani i loro contributi e non parliamo di piccole cifre: nel 2009 abbiamo avuto oltre 6 miliardi di euro di contributi da lavoratori stranieri. Un dato negativo è rappresentato dalle cosiddette rimesse dei lavoratori stranieri, cioè il denaro inviato ai propri Paesi d’origine, che di fatto toglie loro una fetta di ricchezza da usare per i consumi. Secondo un’analisi del Centro Studi "ImpresaLavoro" negli ultimi 10 anni sono stati inviati ai Paesi d’origine quasi 60 miliardi di euro, ma la crisi si è fatta sentire e nel 2014 solo 5,3 miliardi sono usciti dall’Italia, il livello più basso dal 2007. Da tutti questi dati possiamo affermare che l’immigrazione è sicuramente una risorsa, ma deve migliorare la gestione e l’integrazione, allontanando dal Paese chi non viene qui per studiare o lavorare, ma solo per delinquere.

I veri costi e benefici dell’immigrazione, scrive Alessandro Giovannini su “Affari Internazionali”. Alessandro Giovannini è Associate Researcher al Centre for European Policy Studies. Se i cambiamenti climatici a volte ci fanno dubitare che esistano ancora le stagioni come l'abbiamo sempre conosciute, c'è una stagione che da oramai più di un decennio arriva con certezza: quella del dibattito sulla immigrazione. Che si concentra su tre argomenti: i) l’Unione europea (Ue) ci lascia soli nella gestione degli immigrati; ii) gli immigrati costano troppo per le nostre finanze pubbliche; iii) gli immigrati sono un peso inutile per il paese. Con l'aiuto di dati e statistiche ufficiali è possibile capire i costi e i benefici legati all’immigrazione.

Abbandonati dall’Ue. Quante risorse impiega effettivamente la Ue per sostenere l'Italia nella gestione dei flussi migratori? Il programma europeo per la “Solidarietà e Gestione dei flussi migratori” riconosce all’Italia (così come ad altri paesi Ue “di frontiera”) risorse finanziare ad hoc per sostenere gli oneri più gravosi di questa attività rispetto ad altri paesi, realizzando così un meccanismo di solidarietà finanziaria tra paesi membri. Il programma opera concretamente attraverso quattro fondi: il Fondo per le frontiere esterne, il Fondo per i rimpatri, il Fondo europeo per i rifugiati e il Fondo per l'integrazione dei cittadini di paesi terzi. Il primo fondo prevede risorse per la Polizia di Stato, la Guardia di Finanza, la Marina Militare, le Capitanerie di Porto e il Ministero degli Affari Esteri per finanziare un'attività di controllo e di sorveglianza delle frontiere esterne. Il Fondo europeo per i Rimpatri è destinato a migliorare e agevolare la gestione dei rimpatri, sostenendo finanziariamente gli sforzi compiuti dall’Italia (come dagli altri Stati membri beneficiari) per questa attività. È gestito direttamente del ministero dell’Interno ed è stato utilizzato per finanziare l’attuazione di programmi di rimpatrio volontario e forzato, voli charter congiunti con altri Stati membri o Frontex e attività di formazione del personale di scorta. Anche in questo caso il Fondo opera in co-finanziamento con lo Stato membro, coprendo così circa il 50%/75% dei costi delle attività. Il Fondo europeo per i Rifugiati è destinato a finanziare progetti di capacity building per creare situazioni di accoglienza durevoli negli Stati membri. Il Fondo non finanzia direttamente l’attività istituzionale per l’accoglienza, ma azioni che mirano ad integrarla e a rafforzarla. Infine, il Fondo per l'integrazione dei cittadini di paesi terzi co-finanzia azioni concrete a sostegno del processo di integrazione degli immigrati, favorendo al tempo stesso la creazione di buone pratiche volte a sostenere la cooperazione interna ed esterna allo Stato. Le somme del fondo vengono gestite dal Ministero dell’Interno e più precisamente dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione. Secondo uno studio a cura di Lunaria del 2013, tra il 2005 e 2013 l’Italia ha partecipato a tredici progetti finalizzate alla lotta dell’immigrazione irregolare finanziati da questo fondo. Le risorse stanziate per finanziare queste attività ammontano a 38,2 milioni di euro, di cui 33,3 milioni di provenienza comunitaria.

Immigrati troppo cari. Sulla base dell’analisi effettuate da Lunaria, il costo totale delle politiche di contrasto all’immigrazione clandestina più il costo di funzionamento di tutto il sistema accoglienza degli immigrati è stato di circa 1 miliardo e 500 milioni (di cui circa 230 milioni finalizzati dalla Ue) nel periodo 2005-2012. Una cifra, secondo molti, eccessiva. Ma quale è l’impatto generale dell’immigrazione sulle nostre finanze pubbliche? L'Ocse lo ha recentemente calcolato, guardando al fenomeno migratorio nel suo insieme. Da un lato, gli immigrati hanno, in media, una struttura di età più favorevole. Le tasse che pagano sono maggiori dei servizi che ricevono. In particolare gli immigrati finanziano il sistema pensionistico più che usufruirne. D'altra parte però, la stessa struttura di età degli immigrati si traduce, rispetto alla media, in maggiori spese per l'istruzione - hanno infatti più figli in età scolare - e minori acconti di imposta indiretta poiché percepiscono un reddito minore. L'impatto fiscale complessivo sul Pil è positivo per l’Italia come per la maggior parte dei paesi europei analizzati, come mostra la Figura 1. Come si vede, l’immigrazione gioca un ruolo cruciale nella spesa pensionistica.

Gli immigrati peso inutile per l’Italia. Gli effetti positivi dell’immigrazione, tuttavia, non si esauriscono nell'impatto sulle finanze pubbliche. L’immigrazione assume un’importanza economica particolare in un paese come l’Italia che ha forti problemi di invecchiamento della popolazione. L’invecchiamento della forza lavoro pone un problema di sostituzione: le corti giovanili che entreranno nella forza lavoro sono infatti più piccole di quelle dei baby-boomers che vanno in pensione. Il profilo anagrafico degli immigrati potrebbe in parte compensare questo squilibrio in Italia come nel resto della Ue, sostenendo così la crescita economica. Ad esempio, in Italia (come anche nel Regno Unito), tutta o quasi tutta la crescita della forza lavoro verificatesi tra il 2000 e il 2010 è dovuta all’arrivo di nuovi immigrati. La presenza degli immigrati, tuttavia, non solo aiuta a mantenere la dimensione della forza lavoro, ma garantisce anche un adeguato apporto di competenze per rispondere alle continua crescita dei posti di lavoro altamente qualificati. La figura 2 fornisce una panoramica generale dei livelli medi di istruzione degli immigrati in entrata nella forza lavoro nel 2010 rispetto ai livelli di coloro che ne sono usciti nello stesso anno. In Europa, in media, la percentuale di immigrati entrati nella forza lavoro che hanno livelli di istruzione bassa è stata inferiore a quella degli anziani che si sono ritirati dal mondo del lavoro; specularmente, la percentuale di nuovi entranti con elevati livelli di istruzione è stata più alta. Questo non è, tuttavia, il caso dell’Italia in cui la percentuale di immigrati con alti livelli di istruzione è stata fra le più basse a livello europeo, una riprova che il paese non è in grado di attrarre un’immigrazione di alto livello.

Immigrati, la risorsa che non sappiamo gestire. Sul tema dei migranti, d'attualità a causa dei tragici sbarchi sulle nostre coste, ci sono molti equivoci. Perché chi arriva via mare è solo una porzione di chi entra clandestinamente in Europa. E perché non è vero che i nuovi arrivati rubano lavoro. Come dimostra la Germania, che ha più immigrati di noi ma meno disoccupati, scrive Giovanni Gozzini su “L’Espresso”. Iniziamo da un punto che tutti dimenticano: gli ingressi illegali in Europa di migranti che attraversano il Mediterraneo (con il loro carico di disperazione e di morte) sono la piccolissima punta di un iceberg. Nei loro anni di punta toccano le 60mila unità: più o meno il 10% dell’immigrazione clandestina europea. Come accade sull’altro fronte di guerra delle migrazioni internazionali – il confine tra Stati Uniti e Messico – la stragrande maggioranza dei clandestini è infatti composta in realtà da «overstayers», cioè da persone che entrano legalmente (con un visto turistico, generalmente) e poi prolungano il loro soggiorno oltre i termini di legge, confidando in una regolarizzazione futura dopo un periodo più o meno lungo vissuto sfuggendo alla legge. I fatti danno loro ragione: non si prendono rischi nel viaggio di trasferimento, quasi sempre spendono molto meno di chi si affida alle organizzazioni criminali, possono contare sulla rete di protezione dei loro connazionali che li hanno preceduti (esattamente come don Vito Corleone e Cosa Nostra per i migranti italiani di un secolo fa). Non sono (come invece siamo portati a immaginare) i più poveri nelle loro società originarie: hanno livelli di reddito e scolarizzazione tali da consentirgli la conoscenza (magari immaginaria ma proprio per questo ancora più potente) di un altro mondo diverso dal proprio e la progettazione di un trasferimento e di una nuova vita. I più poveri sono invece fissati al loro piccolo ambiente di precarietà quotidiana, dal quale sono incapaci di sollevare lo sguardo. Sono questi ultimi le vittime che si affidano ai trafficanti, credono alle loro bugie e affidano loro tutti i risparmi per affrontare un viaggio pericolosissimo.

I MIGRANTI NON SONO TUTTI UGUALI. Tutti noi possiamo constatare di persona questa differenza: tra le clandestine filippine o peruviane (che appartengono alla prima categoria di overstayers meno poveri) e, per esempio, le ragazze nigeriane che attraversano il Mediterraneo e rimangono schiave del racket della prostituzione. Per le prime la scelta di migrare corrisponde a una strategia, magari disperata ma pur sempre razionale, per garantire la sopravvivenza di un intero nucleo familiare (parte del quale rimane nel paese d’origine). Le rimesse (i soldi che questi migranti mandano a casa) hanno da tempo superato il volume finanziario globale degli aiuti ufficiali che i paesi ricchi elargiscono ai paesi poveri e si avviano a raggiungere il livello degli investimenti esteri delle multinazionali. Un’altro fenomeno poco conosciuto è che circa la metà del totale degli immigrati in Europa torna a casa dopo un periodo medio di cinque anni. Per le donne nigeriane che arrivano in Italia la scelta di migrare corrisponde praticamente a una nuova forma di riduzione in schiavitù. Si stima che il giro di denaro mosso dal movimento illegale di esseri umani si collochi ormai poche spanne sotto quello del traffico internazionale di stupefacenti. Gli scafisti che talvolta i nostri poliziotti riescono a catturare rappresentano l’ultimo anello (sottopagato e rischioso) di una catena che spesso lega insieme diverse organizzazioni criminali: da quella stanziata nel paese d’origine, che convince i disgraziati a partire a quella terminale, stanziata nel paese di destinazione, che ne organizza lo sfruttamento e la vita da clandestini senza futuro. Sono queste reti criminali a costituire la più vistosa differenza con le migrazioni storiche del passato e, insieme, il decisivo problema da affrontare con gli strumenti della repressione e della collaborazione tra paesi. Qualsiasi politica vera di gestione del problema migratorio dovrebbe partire da qui.

IL PROBLEMA DEI PROFUGHI. C’è però un’eccezione che negli ultimi tre anni ha acquisito una sempre maggiore centralità: i profughi, frutto della nuova e recente instabilità politica della sponda sud del Mediterraneo. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite, che dagli anni Cinquanta si occupa del problema, è abituato a gestire tra i 15 e i 20 milioni di persone ogni anno. Vengono da guerre civili endemiche e dimenticate («conflitti a bassa intensità» sono definite nel cinico linguaggio delle scienze sociali, perché non superano i mille morti all’anno) nel cuore dell’Africa e dell’Asia. Occasionalmente anche da guerre più famose (Afghanistan, Iraq). La politica dell’Onu è di non farli allontanare troppo dalle zone d’origine per rendere più facile il rientro e non dare troppa noia (con malsani attendamenti di bisognosi) ai paesi vicini. Ma in Siria, per esempio, non è stato possibile. Due milioni di siriani (il numero è in costante aumento) sono stati costretti a fuggire dalle loro case e a trovare rifugio nei campi oltre confine in Libano, Giordania, Turchia. In questo caso le nostre distinzioni saltano: nei campi si ritrovano insieme ricchi e poveri, colti e analfabeti. Una piccolissima parte di loro – di nuovo quella più fragile e con meno difese culturali – sale sui barconi della morte. Da decenni i clandestini sfruttano la confusione tra migrazione economica e migrazione politica: tra le poche cose che conoscono c’è il diritto d’asilo. Chi emigra sa che se riesce a dimostrare di essere perseguitati in patria nessuno può chiudergli la porta in faccia. La polizia tedesca ha sempre avuto un bel daffare a distinguere tra turchi e curdi, tra chi voleva venire a lavorare e chi scappava dalla guerra. Per questa ragione nascono i centri di identificazione, a Lampedusa come altrove: possiamo chiamarli anche lager ma non è che esistano molte alternative. Una delle disgrazie (forse la maggiore) del tema migrazioni è di prestarsi a facilissime propagande ma nello stesso tempo di non essere risolvibile per vie altrettanto facili. Gli imprenditori politici della paura che proclamano «ognuno a casa sua» vanno contro a millenni di storia umana, compresi Giulio Cesare e Cristoforo Colombo. Loro nemmeno lo sanno né gli importa. Ma invece dovrebbe.

DISOCCUPAZIONE? NON DIAMO LA COLPA AGLI IMMIGRATI. Perché gli Stati Uniti e la Germania hanno più immigrati di tutti e meno disoccupazione? Perché più dell’80% degli immigrati in Italia si concentra nel nord mentre la disoccupazione al sud è doppia che al nord? Per sfatare uno di più diffusi luoghi comuni dell’ignoranza (gli immigrati ci tolgono posti di lavoro) i sociologi usano la formula 3D. Non si tratta della terza dimensione ma più semplicemente di una sigla composta dalle iniziali di dirty, dangerous, demanding (sporco, pericoloso, faticoso): sono le caratteristiche delle occupazioni che gli immigrati vanno a riempire – dai badanti ai raccoglitori di pomodori – e che i nostri giovani con titolo di studio cercano di evitare. Esiste un mercato del lavoro duale: uno per i nativi e uno per gli immigrati. Ecco perché negli Stati Uniti la disoccupazione, nonostante la crisi bancaria, è al 6% con 46 milioni (il 15% della popolazione) di immigrati. E in Germania al 5% con 10 milioni (12% della popolazione) di immigrati. Forse dovremmo pensarci, noi italiani che cerchiamo di dare la colpa della disoccupazione (al 13%) ai 5 milioni di immigrati (9% della popolazione). E dovremmo pensare di più al fatto che, secondo le ultime stime, quei cinque milioni di immigrati garantiscono il 12% del nostro prodotto lordo (molte pensioni dei tanti vecchi 'indigeni' …) ma solo il 3% delle entrate fiscali: perché dirty, nel nostro caso, significa sommerso e la colpa è del datore di lavoro quasi sempre italiano. Sarebbe una svolta epocale e una prova di grande trasparenza se governo e imprenditori fissassero ogni anno la quota di immigrati di cui la nostra base produttiva ha bisogno perché non è soddisfatta dall’offerta di lavoro interna. I clandestini gestiti (con più soldi dall’Unione Europea di quanti oggi non arrivino) sulla base di questa mappa. I criminali spiati, inseguiti, catturati e condannati con la collaborazione dei governi stranieri. I migranti liberati dalla schiavitù e dai falsi sogni. I profughi aiutati a ritornare nei loro paesi. Le guerre civili portate al tavolo del negoziato grazie all’eliminazione delle milizie che tengono in ostaggio le popolazioni e la pace. Come un dannato labirinto, la globalizzazione mostra la concatenazione di ogni problema. Possiamo farcene sopraffare. Oppure possiamo scegliere da dove partire e incominciare a dipanare la matassa.

Le balle sugli immigrati: loro una risorsa? E' falso, scrive Gilberto Oneto su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta. Cifre alla mano, ecco perché impoveriranno ulteriormente l'Italia. I numeri su lavoro, pensioni e la super crescita demografica. In queste settimane il dibattito si infuoca attorno alla manovra economica e tutti hanno suggerimenti su dove e come ridurre le spese. Nessuno però dice mai di intervenire su una delle voragini che si inghiottono i soldi della comunità: l’immigrazione. È stata abilmente fatta passare l’idea che gli immigrati siano una risorsa, una ricchezza, che siano quasi i soli a contribuire in positivo alle dissestate casse comuni. Sull’immigrazione è stata fatta una colossale opera di disinformazione. I principali gruppi di motivazioni che vengono solitamente tirati fuori per giustificare l’immigrazione sono: 1) che i nuovi cittadini pagheranno le nostre pensioni, 2) che gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, 3) che gli immigrati sono una risorsa economica, 4) che sono una ricchezza sociale, 5) che pongono rimedio alla nostra denatalità, 6) che abbiamo il dovere della solidarietà. Vediamo di esaminare soprattutto i punti aventi incidenza economica, non senza avere prima fatto una indispensabile premessa. Il fenomeno è cruciale ma le informazioni per conoscerlo e governarlo sono approssimative. I soli dati ufficiali che si hanno a disposizione sono quelli che riguardano i regolarizzati. Restano vaghi i numeri di quelli appena arrivati o che vivono nel mondo dell’illegalità. Ci si deve perciò affidare principalmente alle informazioni della Caritas-Migrantes che, pur ricevendo finanziamenti pubblici, è una struttura privata che svolge i compiti che toccherebbero allo Stato, ma è  anche e soprattutto una organizzazione di parte e questo non la aiuta a fornire le garanzie di imparzialità che la struttura pubblica, pur nelle sue lentezze e inefficienze, dovrebbe invece garantire. La Caritas è anche condizionata dalle sue scelte ideologiche, dal suo evidente schieramento a favore dell’immigrazione e dell’accoglienza a qualsiasi costo e condizione, oltre che dal non trascurabile dettaglio che proprio dall’ambaradan dell’immigrazione trae sostanziosi finanziamenti. Secondo il Dossier statistico 2010 della Caritas-Migrantes, ci sarebbero in Italia all’inizio del 2010 4.235.000 stranieri residenti, o 4.919.000 considerando quelli non ancora iscritti all’anagrafe. Gli stranieri sono triplicati in un decennio e aumentati di quasi un milione nell’ultimo biennio. I clandestini sono stimati fra i 500 e i 700 mila, ma non è certo scorretto pensare che siano almeno il doppio. Si arriva perciò a una cifra di più di 6 milioni di persone (quasi l’11% della popolazione residente, uno straniero ogni 9 italiani), cui vanno aggiunti circa 500 mila naturalizzati italiani negli ultimi anni.  Metà circa degli immigrati sono donne. Nel 2007 gli stranieri erano 3.690.000, il 5,6% della popolazione.

PAGANO LE PENSIONI? Grande risalto è stato dato al fatto che i contributi degli immigrati hanno aiutato l’Inps a rimettere un po’ a posto i conti. In effetti l’arrivo di tanti nuovi contribuenti che non percepiranno pensioni per un po’ di tempo è salutare. Si tratta però di una situazione temporanea perché, a partire da 20 anni da oggi (quando a maturare pensioni di vecchiaia o anzianità cominceranno a esserci moltitudini di immigrati), si riproporrà anche nella comunità foresta lo stesso schema attuale di un rapporto fra lavoratori e pensionati sbilanciato a favore di questi ultimi, a meno che non si conti su un continuo afflusso di immigrati giovani paganti. In tale caso si tornerebbe in qualche modo al sistema a ripartizione su cui in anni di boom demografico si era basato il sistema pensionistico, facendo saltare ogni buona intenzione di trasformarlo in un sistema a capitalizzazione. Insomma gli immigrati non risolvono i problemi del sistema pensionistico italiano ma lo spostano solo un po’ più in là nel tempo. Oggi il rapporto fra pensionati e abitanti è di circa 1 a 5 per gli italiani e di 1 a 25 per gli stranieri: il divario diminuirà costantemente fino a stabilizzarsi sullo stesso rapporto a meno che - come detto - il numero degli immigranti non continui a crescere in misura esponenziale. Dai dati Inps più recenti e completi disponibili (III Rapporto su immigrati e previdenza), risulta che nel 2004 gli stranieri iscritti ai ruolini pensionistici erano 1.537.380, e cioè meno della metà  del totale degli immigrati di allora. Non cambia la situazione nel 2010, quando - secondo la Caritas - gli iscritti all’Inps sarebbero circa due milioni, e cioè circa il 40% dei regolari. Questi versano un totale di 7,5 miliardi in contributi previdenziali; nel 2007 le pensioni erogate erano 294.025 con una spesa annua di 2 miliardi e 564 milioni. Oltre a queste c’è una cifra imprecisata ma piuttosto alta per prestazioni sociali d’altro genere. Ci sarebbe così un saldo attivo di qualche miliardo. Occorre notare che il bilancio è migliorato da quando è stata soppressa la facoltà prima concessa agli immigrati di farsi rimborsare i contributi versati in caso di rimpatrio, rafforzando la tendenza a permanere in Italia.

I DATI NON TORNANO. Per essere un gruppo sociale la cui presenza viene giustificata come “forza lavoro”, occorre notare come la percentuale di stranieri che pagano i contributi previdenziali sia sospettosamente bassa. Questo significa che la più parte di loro non paga i contributi sociali perché lavora in nero, o evade, o non lavora affatto, o fa “lavori” (criminalità, droga e prostituzione) che non hanno vocazione né possibilità di essere assoggettati a contributi. I numeri non tornano. Comprendendo anche gli irregolari, meno di un terzo degli stranieri versa contributi previdenziali: una percentuale inferiore a quella del totale degli italiani al di sotto dei 65 anni (39.318.000 nel 2010)  che sono regolarmente occupati (più di 21 milioni), e cioè il 54,7%. Risulta perciò piuttosto evidente (e preoccupante) che l’attuale attivo del bilancio previdenziale degli stranieri sia rapidamente destinato a esaurirsi (salvo una crescita esponenziale degli immigrati e una irrealistica dilatazione del mercato del lavoro) e che perciò la presenza degli stranieri non risolverà ma aggraverà i problemi pensionistici.  É del tutto falso affermare che gli stranieri pagheranno le nostre pensioni: lo fanno in parte marginale oggi per la loro età media più bassa, ma impoveriranno ulteriormente in avvenire le sempre più esigue risorse del paese.

Gli stranieri una risorsa? Macché: ci costano 40 miliardi l'anno, scrive ancora Gilberto Oneto su “Libero Quotidiano”. Come ogni anno, la Caritas Migrantes ha presentato il suo rapporto annuale sull’immigrazione. Come sempre il documento ha ricevuto «fraterna» accoglienza da parte di quasi tutti gli organi di informazione che contano, che gli hanno così conferito una sorta di ufficialità, di insindacabile verità. È - come sempre - piuttosto strano che sia una struttura privata a «dare i numeri» sull’immigrazione, invece di uno dei tanti organismi statali che si occupano della materia. Dov’è - ad esempio - il Ministero che era stato inventato per «valorizzare» la simpatica signora Kyenge? La Caritas non è al di sopra delle parti, non è l’arbitro del gioco ma uno dei giocatori e - come tale - ci mette del comprensibile settarismo. Prendere per buoni i suoi dati è come farsi certificare la velocità da un automobilista, magari col piede un po’ pesante. Quest’anno la presentazione del Dossier capita in un momento un po’ sfigato, nel bel mezzo della bufera giudiziaria che (finalmente) sta devastando il peloso mondo dell’accoglienza e del business dell’immigrazione. Naturalmente l’organizzazione ecclesiale è al di sopra di ogni sospetto (a parte l’incidente del presidente della Caritas di Trapani accusato di concussione e reati sessuali «multiculturali») ma suona pur sempre beffardo che in un turbinio di scandali e porcherie collegate alla gestione dell’immigrazione ci venga a proporre i suoi soliti mantra quali fossero verità di fede. Il primo e più gettonato è che gli stranieri siano un affare per l’Italia perché «rendono» più di quel che costano e perché rivitalizzano energie economiche che sembrano un po’ rilassate fra gli indigeni. Il dogma si basa sul calcolo secondo cui i foresti, che sono l’8,1% della popolazione produrrebbero l’8,8% del Pil. Già sui numeri c’è da fare qualche osservazione. Mancano dal conteggio i clandestini (c’è chi dice un milione) e non si valuta l’età media delle comunità: la percentuale di stranieri in età da lavoro è molto più alta di quella dei «vecchi» italiani. Non sarebbe più corretto fare un confronto entro la fascia dell’età produttiva, nella quale gli stranieri regolari sono circa il 12%? Ma il vero calcolo da fare riguarda dati con i quali la Caritas si cimenta solo parzialmente . Il conto va fatto sul contributo fiscale e previdenziale degli stranieri, dalla cui somma va detratta una lunghissima lista di voci: erogazioni previdenziali, spese sanitarie (ricoveri, operazioni, medicine, assistenza a parenti, pronto soccorso ecc.), quota parte della spesa per l’istruzione (i fruitori stranieri del servizio scolastico sono circa il 10% in rapida crescita), quota parte della spesa per la gestione di ordine pubblico, giustizia e detenzione (circa un terzo del totale), rimesse legali e clandestine, insolvenze nei pagamenti di servizi, quote di ammortamento dell’edilizia popolare affidata a stranieri, costo dell’accoglienza (che la Caritas conosce in dettaglio), oltre ad alcuni altri parametri di più difficile quantificazione, come le attività illegali e il costo sociale dei comportamenti asociali di molti ospiti. Anni fa, un conteggio approssimativo dava un peso dell’immigrazione gravante sui cittadini italiani di 30-40 miliardi l’anno: altro che «risorsa», altro che «ricchezza», altro che «vantaggio per l’economia italiana»!

ZINGARI ED IMMIGRATI: GLI SPRECHI SOLIDALI.

Roma, la casta degli zingari: per ogni famiglia 2750 euro al mese, scrive Beatrice Nencha su “Libero Quotidiano”, Mantenere una famiglia rom in un Centro di raccolta della capitale costa al Comune di Roma circa 33mila euro l'anno, pari a 2.750 euro al mese a nucleo famigliare. Quasi il triplo rispetto all’assistenza domiciliare garantita dal Campidoglio a un disabile invalido al cento per cento, che percepisce tra gli 850 e i 900 euro mensili di rimborsi con cui pagare il proprio badante, che spesso non arrivano a coprire nemmeno tutte le spese. Continuano a infiammare la polemica politica i dati svelati dal Rapporto Centri di Raccolta s.p.a. stilato dall’Associazione 21 Luglio e presentato mercoledì in Campidoglio, secondo cui «il sistema dell’accoglienza per soli rom a Roma vale 8 milioni, una cifra superiore del 30% rispetto allo scorso anno: è quanto ha speso il Comune di Roma nel 2014 per segregare e violare i diritti umani di 242 famiglie rom nei cosiddetti «centri di raccolta». Il primo a denunciare questo «strabismo» dei fondi, destinati con profusione ai nomadi rispetto ai tagli subiti dai portatori di handicap, è il capogruppo della lista Marchini, Alessandro Onorato. Che in un post pubblicato su Facebook, picchia duro: «Nel 2014 Ignazio Marino ha fatto spendere al Comune di Roma 33mila euro l’anno per ogni famiglia Rom. Una vergogna ancora più grande se pensiamo che una famiglia che ha un bambino autistico o con una malattia gravemente invalidante percepisce al massimo 500 euro al mese». Dopo l’ultima proposta dell’assessore alle Politiche sociali Francesca Danese di destinare il bonus Casa anche ai Rom, Onorato annuncia che «a breve la lista Marchini presenterà una delibera per indicare percorsi alternativi», sul superamento dei Centri di raccolta. Che, secondo il consigliere, stanno diventando un grimaldello per creare pericolosi percorsi privilegiati anche all’interno della Pubblica amministrazione: «Mesi fa la giunta Marino ha fatto un bando da 300mila euro in cui si conferisce un punteggio più elevato alle Coop che assumono Rom per ripulire i campi nomadi. Così, oltre a discriminare i disoccupati romani, si premiano gli artefici stessi del degrado dei campi». Dopo la sparata dell’assessore Danese sul bonus Casa, furenti anche le associazioni dei disabili, che si vedono tagliare i fondi per servizi come trasporto, laboratori e attività sociali. «A me, disabile al 100% su sedia a rotelle, il Comune garantisce 900 euro al mese di assistenza domiciliare per la badante, che però mi costa complessivamente 1.479 euro» spiega Roberta Sibaud, vicepresidente della Consulta Handicap di un Municipio. Più duri i commenti su Facebook dei romani, stufi di vedere spuntare insediamenti Rom o centri per rifugiati, che stanno per riversarsi anche in zone residenziali come l’Olgiata (Roma Nord). «Ho incontrato in XV Municipio il prefetto Gabrielli, disponibile a valutare un sito alternativo per accogliere i cento rifugiati in arrivo, destinati nell’ex Scuola privata Socrate in località San Nicola», commenta la consigliera Lavinia Mennuni. «Siamo contrari alla realizzazione di un centro di accoglienza a San Nicola: come Fdi-An non vogliamo che questa operazione porti altro disagio, emarginazione sociale e povertà». E se il prefetto annuncia l’arrivo di altri 2mila richiedenti asilo, l’assessore Danese cerca di arginare l’emergenza dopo l’incontro di ieri tra Viminale, Comuni e Regioni sull’emergenza immigrazione: «Roma accoglie già oltre 10mila richiedenti asilo. Con tutta l’area metropolitana si arriva a 66mila totali. Questi numeri non possono consentire ulteriori aggravi. Abbiamo raggiunto il nostro tetto».

Clandestini, ecco dove li ospitiamo, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”. Il governo italiano spende circa 35 euro al giorno per ogni profugo. La cifra finisce solo in minima parte agli stranieri (meno di tre euro al dì) mentre il resto è destinato a chi si occupa della loro accoglienza. Solitamente, si tratta di cooperative specializzate o albergatori. L’esecutivo, il ministro dell’Interno Angelino Alfano in testa, giudica  questa politica un esempio di civiltà e di doverosa accoglienza per chi sbarca nel nostro Paese scappando dalla fame o dalla guerra. Di ben altro avviso alcuni partiti, su tutti la Lega Nord di Matteo Salvini, che parlano apertamente di spreco e di discriminazione verso gli italiani indigenti. È un dibattito che si trascina ormai da alcuni mesi, e con la bella stagione è lecito immaginare che gli arrivi sulle coste meridionali possano moltiplicarsi. Nelle ultime ore, per esempio, è stata segnalata una partenza di circa 1.500 persone dalla Libia a bordo di imbarcazioni fatiscenti, dalle quali sono subito partite richieste di aiuto. In queste pagine Libero ha raccolto solo qualche esempio fotografico delle strutture che, in tutta Italia, ospitano i profughi: ci sono alberghi, alcuni dei quali di categorie più che dignitose, alcuni edifici comunali che erano destinati agli anziani, bed and breakfast, ostelli. Va ricordato che ai profughi vanno garantiti colazione, pranzo e cena. Beni di prima necessità per l’igiene personale, dal sapone al rasoio. Poi schede telefoniche e lenzuola pulite.

Busto Arsizio, soldi per aiutare i profughi: loro li spendono in scommesse, scrive di Claudia Osmetti su “Libero Quotidiano”. «Quell’incontro è una presa in giro». Roberto Maroni, presidente di Regione Lombardia, non le manda certo a dire, nemmeno al ministro Alfano. Così, ieri, ha fatto sapere che lui al vertice istituzionale per l’accoglienza dei profughi proprio non ci avrebbe messo piede: a rappresentare la Rosa Camuna sono stati gli assessori Bordonali e Garavaglia, ma il vertice del Pirellone proprio no. Il motivo? «Ci convocano per decidere come distribuire i clandestini e poi, due giorni prima, fanno una circolare che ordina ai prefetti di assegnarli». Come a dire, appunto, ci prendono per i fondelli. E intanto scoppia la polemica sulle politiche di integrazione made in Italy. Nel senso: molti degli immigrati che sbarcano in Sicilia e poi arrivano (anche) in Lombardia usano gli aiuti giornalieri che ricevono per scommettere sulle partite di calcio. O per giocare al Lotto. Più raramente per sfidare la dea bendata con un gratta&vinci. Sì, perché il governo dà loro un tetto sotto cui stare, servizi per integrarsi e qualche spiccio per far fronte alle spese quotidiane. Giusto aiutare chi ha bisogno. Eppure a Busto Arsizio succede che quella paghetta giornaliera (non è molto: meno di tre euro) non venga sempre usata per prendere qualche bene di prima necessità. Nossignori. Viene investita in ricevitoria. Se ne è accorto Giampiero Reguzzoni, vicesindaco della città in quota Lega Nord, una mattina facendo colazione al bar. «Li ho visti lì», racconta: «Io bevevo il caffè e intanto c’erano quattro o cinque profughi che scommettevano». Allora li ha seguiti e si è ritrovato di fronte alla palazzina che, a Busto, ospita proprio loro: i migranti dell’emergenza sbarchi. Non succede solo in provincia. Il dubbio è che accada anche a Milano, basta fare un giro per le lottomatiche e i botteghini. Ne abbiamo girati dodici dal centro di Milano a Loreto. E tutti i gestori confermano che sono molti i clienti stranieri. Chi sono? «Per lo più uomini, intorno alla quarantina, africani o comunque di Paesi arabi: spendono due o tre euro alla volta» racconta qualcuno. E, guarda caso, quella è proprio la cifra che ricevono quotidianamente a titolo di aiuto. «Come fai a sgamarli, non siamo mica tenuti a chiedere i documenti», taglia corto un altro. «È comunque gente che gioca pochi spicci e non con regolarità», chiosa un terzo. L’identikit, insomma, sembra proprio combaciare. Va detto, non c’è nulla di irregolare. Per scommettere o comprare un gratta&vinci non serve un documento d’identità. E i profughi non fanno eccezione: possono disporre di quella piccola somma come meglio credono. Certo, però, la fila al botteghino per fare una puntata al Lotto lascia perplessi. Soprattutto se si pensa ai soldi stanziati dal governo per far fronte a quelli che si pensa siano bisogni dei profughi un po’ più impellenti. «Se venisse provato, sarebbe l’ennesima dimostrazione che non dovremmo dar loro nemmeno un euro», commenta Igor Iezzi, consigliere comunale per il Carroccio a Palazzo Marino: «Quelli sono soldi sprecati, che potremmo usare diversamente, magari per i milanesi in difficoltà che certo non li userebbe per scommettere sulle partite di calcio».

I migranti rifiutano l'hotel per motivi religiosi. Succede in provincia di Livorno. Alcuni sono risaliti sul pulmino: "Non possiamo restare nella struttura con donne sposate o sole", scrive Mario Neri su “La Repubblica”. Alcuni sono risaliti sul pulmino, altri si sono appoggiati alle fiancate con le braccia incrociate. «Qui non ci restiamo, la nostra religione e le nostre tradizioni non ce lo permettono». È andato avanti tutta la mattina il braccio di ferro fra forze dell’ordine, operatori sociali e un gruppo di migranti arrivati a Campiglia Marittima, in provincia di Livorno, che si rifiutavano di alloggiare all’Hotel i Cinque Lecci. Alla fine, dopo ore di tensioni e trattative, sono stati trasferiti in mini appartamenti di un’altra struttura per le vacanze. «Si tratta di 13 rifugiati dei venti destinati in Toscana dalla Sicilia e arrivati stamani con un pullman in questa zona  – dice il commissario di polizia di Piombino, Walter Delfino – che non hanno gradito la sistemazione a causa di motivazioni etnico-religiose. Sono giovani fra i 20 e i 25 provenienti da Gambia, Ghana, Zimbabwe e Kenya, tutti musulmani che non accettavano la convivenza con donne sposate e donne sole. Sono in Italia da 18 mesi, finora erano alloggiati a Trapani, prima nel grande centro di accoglienza e poi in piccoli appartamenti dove potevano vivere da soli». In Toscana sono arrivati dal centro di smistamento di Trapani ieri e stamani, con un pullman, sono stati trasferiti nella struttura accompagnati da alcuni responsabili della cooperativa a cui è affidata la gestione dell’accoglienza. Ma all’arrivo del pullman alcuni si sono rifiutati di entrare. Qualcuno perfino di scendere dal bus. In un primo momento era sembrato che, fra i motivi delle proteste dei profughi, ci fosse anche l’assenza di wifi e tv all’interno del residence. La notizia è stata smentita dalla questura e dalla prefettura che ha confermato invece la tesi dei motivi etnico religiosi. Ma Luca Guidi, responsabile della cooperativa Diogene a cui è affidata la struttura per l'accoglienza, precisa meglio: «Hanno vissuto in un centro a Trapani molto bello, pieno di comfort, con alloggi separati. Già l'idea di trasferirsi l'avevano presa di malavoglia - dice - Li ho accompagnati io da Livorno e già durante il viaggio verso Campiglia, accorgendosi di arrivare in un luogo isolato, in una zona rurale e lontana dalla città, avevano cominciato a lamentarsi. Una volta arrivati hanno cominciato a far questioni sulla qualità e sulla posizione dell'albergo. E' arrivato Delfino (il commissario di polizia ndr) ed è venuto fuori che, per il fatto di essere musulmani non gradivano mangiare insieme nella stessa sala con le donne, inoltre si sono lamentati che nelle stanze non c'era la tv e il wifi, sebbene ci fosse internet e gli avessimo detto che a breve ci sarebbero state anche i televisori. Insomma, rispetto ai 25 rifugiati che già ospitiamo si sono mostrati un po' bizzosi. Ma alla fine abbiamo trovato la soluzione. Li abbiamo portati a vedere gli appartamenti che avevamo qui (fanno parte dello stesso progetto di accoglienza ndr) e hanno accettato di rimanere. Non ci sono stati scontri, solo un po' di tensione. Qui gli altri si sono sistemati bene, c'è un sacco di gente che ci porta aiuti, che viene a regalare abiti e vestiti per questi migranti. Non sprechiamo questo capitale di fiducia con l'odio». Walter Delfino, del commissariato di polizia, smentisce la questione wi-fi e tv: «Assolutamente no – dice – le lamentele erano legate solo a motivi di convivenza. Ai Cinque Lecci avrebbero dovuto pranzare e cenare nella sala dell’hotel insieme a donne sposate e donne sole. E alcuni musulmani la promiscuità è blasfema». Per questo i migranti che hanno protestato a un certo punto della discussione con la polizia hanno chiesto di tornare in Sicilia, in un struttura che li aveva ospitati per un anno e mezzo. Ma il ritorno non era più possibile. «A questo punto per evitare di creare anche conflitti etnici – precisa il dirigente di polizia – sono stati trasferiti in quattro mini appartamenti di una struttura ricettiva a 100 metri di distanza. Il titolare aveva dato la disponibilità alla prefettura di Livorno per settembre di partecipare ai progetti di accoglienza, ma vista la situazione ha accettato di partire prima».

Ma a quanto sembra la realtà è un’altra.

Donne sposate nell'hotel: i profughi si fanno spostare. Appena arrivati si rifiutano di scendere dal pulmino: non volevano stare in un hotel dove erano già state donne sposate, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. L'hotel disposto dalla prefettura proprio non gli andava giù e sono riusciti a farsi spostare. Alcuni immigrati africani, trasferiti oggi dalla Sicilia alla Toscana e destinati alla provincia di Livorno, hanno fatto i diavoli a quattro perché non gradivano la sistemazione nell'albergo di Campiglia Marittima ottenendo così di essere sistemati in mini-appartamenti che solitamente sono usati per le vacanze estive. I motivi della protesta? Svariati e abbastanza fantasiosi. Tra questi anche la presenza in hotel di donne sposate. Non appena sono scesi dal pullman, gli immigrati (tutti ragazzi di età compresa tra i 20 e i 25 anni e provenienti da Gambia, Ghana, Zimbabwe e Kenya) hanno iniziato ad avanzare un'infinità di pretese. Tra queste l'inopportunità, per motivi etnico-religiosi, di alloggiare in una struttura dove sono presenti donne sposate che fanno parte di un altro gruppo di clandestini arrivati in precedenza. Una prossimità che la loro religione non consente. Ma a invastitire gli africani ci sarebbero anche il peggioramento della logistica e degli spazi: "Non abbiamo uno spazio dove cucinare autonomamente". Cosa che evidentemente erano abituati a fare quando si trovavano in Sicilia. La discussione si è fatta subito incandescente. Gli immigrati sono addirittura arrivati a chiedere alla polizia di poter tornare in Sicilia dove sono stati già ospitati un anno e mezzo. Alla fine è stata trovata la soluzione e il gruppo è stato sistemato in quattro mini-appartamenti di una struttura turistica situata a poca distanza. Nella decisione le autorità italiane hanno dovuto anche tenere conto di potenziali dissidi che si possono creare fra etnie diverse.

I migranti non gradiscono l'hotel: pochi servizi nelle camere e problemi legati alla religione. Appena arrivati a Campiglia si sono rifiutati di scendere dal pulmino. Poi sono stati convinti ad accettare un'altra struttura, della stessa proprietà. Il Video di Luca Guidi ricostruisce quanto avvenuto, scrive “Il Tirreno”. Nello stesso albergo vivono da giorni altri profughi. Il racconto di Ubaldo Giardelli. "Appena giunti a Campiglia, però, accompagnati dai membri della cooperativa Diogene che si occupa della loro gestione, alcuni di loro si sono rifiutati di scendere dal pulmino. Due o tre hanno anche iniziato a protestare, urlando di non voler scendere. Alcuni di loro, in particolare, hanno lamentato la mancanza di alcuni servizi in hotel, fra i quali il wifi e la tv. Un altro problema è l'isolamento del posto, lontano dal centro abitato. Fra gli altri rilievi evidenziati dai migranti, poi, l'inopportunità, per motivi etnico-religiosi, di alloggiare in una struttura dove già erano presenti una trentina di altri immigrati arrivati in precedenza poiché tra loro ci sono donne sposate, una prossimità che la loro religione non consente. Dai primi accertamenti è emerso che il gruppo è in Italia già da qualche mese. Finora era in Sicilia. Molti di loro avevano iniziato ad inserirsi, avevano anche trovato qualche lavoretto. Hanno qualche soldo in tasca, qualcuno ha anche il telefonino. Sono stati trasferiti perché la struttura che li ospitava deve essere liberata per i nuovi arrivi, ormai quasi quotidiani. I profughi, quindi, si sono trovati a dover ripartire da capo e per questo si sono arrabbiati rifiutandosi di entrare in albergo.  L'hotel 5 Lecci, come detto, già ospita un gruppo di migranti da giorni, che non ha dato alcun problema. Dopo alcune ore di trattative e un giro in macchina a Venturina, i migranti sono stati portati in un'altra struttura, a loro più gradita, l'Hotel Rosa dei Venti, della stessa proprietà.

La proposta di Alfano: “I migranti lavorino gratis”. La proposta del ministro: «Invece di farli stare lì a non far nulla, i Comuni li facciano lavorare». Salvini attacca: schiavista. Santanché: così meno occupazione per gli italiani, scrive “La Stampa”. Matteo Salvini accorre in difesa dei migranti sfruttati. Succede anche questo mentre il tema sbarchi diventa sempre più rovente. La nuova polemica l’accende il ministro dell’Interno, Angelino Alfano. «Dobbiamo chiedere ai Comuni - spiega il titolare del Viminale - di applicare una nostra circolare che permette di far lavorare gratis i migranti. Invece di farli stare lì a non far nulla, che li facciano lavorare». La circolare è dello scorso novembre ed invita tutti i prefetti a far svolgere attività di volontariato gratuite ai richiedenti asilo, perchè «l’inattività dei migranti si riverbera negativamente sul tessuto sociale ospitante». Coinvolgendo i migranti in attività di pubblica utilità a favore delle popolazioni locali, indica il documento, «si assicurano loro maggiori prospettive di integrazione nel tessuto sociale del nostro Paese, scongiurando un clima di contrapposizioni nei loro confronti». Ma le parole di Alfano scatenano un polverone, da sinistra come prevedibile, ma anche da destra. «Non ho parole. Alfano da scafista a schiavista...», commenta il segretario della Lega Nord Salvini, che infierisce: «Alfano sarebbe pagato per impedire che sbarchino, non per sfruttarli!». Sulla stessa linea Daniela Santanchè (Fi): «Alfano riscopre lo schiavismo. Lavoro gratis agli immigrati uguale a più disoccupazione per gli italiani». Da sinistra attacca Arturo Scotto (Sel). «Alfano - dice - si vergogni per frasi su migranti che lavorano gratis per Comuni. Oltre alla decenza si perde pure l’umanità. Ritiri circolare». Gli fa eco il leader dei Verdi Angelo Bonelli: «E’ gravissimo che Alfano, nel bel mezzo di un dramma che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero, insegua il populismo di Salvini». Gianni Bottalico, presidente nazionale delle Acli, si augura che quella del ministro dell’Interno sia «solo una boutade elettorale, altrimenti è una affermazione gravissima, perché non si possono saltare le norme che regolano il lavoro». In difesa di Alfano si schiera l’ex leghista e sindaco di Verona, Flavio Tosi: «Chiedere ai profughi di “sdebitarsi” con chi li ospita e concedergli il permesso umanitario di tre mesi per la libera circolazione in Europa, obbligando tutti gli Stati membri a farsi carico della questione - osserva - credo siano le uniche soluzioni attuabili in questo momento». Più articolato il commento di Gennaro Migliore (Pd), presidente della commissione d’inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti. «I lavori socialmente utili - rileva - costituiscono un percorso di integrazione importante per i richiedenti asilo. Il ministro Alfano indica, dunque, una pratica da applicare, ma deve essere chiaro che i migranti non possono esse utilizzati come manovalanza gratuita, perché al loro lavoro deve esse data dignità».

Migranti, Alfano: “Lavorino gratis”. Salvini: “Ministro da scafista a schiavista”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Il titolare del Viminale vuole chiedere ai comuni di applicare una circolare che permetta di farli lavorare senza compenso. Idea bocciata da Forza Italia a Sel fino alla Lega Nord e ai Verdi. E anche Migliore (Pd) dice: "Sia data dignità al lavoro". In più, per il sindaco di Isola di Capo Rizzuto la "proposta non è fattibile". “Invece di farli stare lì a non far nulla che li facciano lavorare“. Il soggetto sono i migranti e chi parla è il ministro dell’Interno Angelino Alfano, secondo cui, una volta arrivati in Italia potrebbero iniziare a lavorare. Senza percepire un compenso. “Dobbiamo chiedere ai Comuni di applicare una nostra circolare che permette di far lavorare gratis i migranti”, ha proseguito il titolare del Viminale al termine della Conferenza Unificata e prima del vertice sull’immigrazione. Ma da Forza Italia a Sel fino alla Lega Nord e ai Verdi arrivano solo critiche alla proposta del leader Ncd. Il più duro è il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, secondo cui Alfano “da scafista” diventa “schiavista” e così fa “l’affittacamere degli immigrati e fa un favore agli scafisti”. “Alfano – aggiunge – sarebbe pagato per impedire che sbarchino, non per sfruttarli“. In più “dovrebbe evitare gli sbarchi, non dovrebbe voler far lavorare gratis gli immigrati: sono sbigottito“. Il punto per il leader del Carroccio è che “dovrebbe evitare l’arrivo degli immigrati, a meno che non siano profughi, non farli lavorare gratis”, rimarca. “Non voglio dire le solite cose – conclude Salvini – spero solo che se ne vada presto”. D’accordo con Salvini anche la deputata di Forza Italia Daniela Santanchè che su Twitter scrive: “Alfano riscopre lo schiavismo. Lavoro gratis agli immigrati uguale a più disoccupazione per gli italiani”. Stessa posizione per il leader dei Verdi Angelo Bonelli che si domanda: “La soluzione del ministro Alfano al dramma dei migranti è una nuova forma di schiavismo?”. Poi aggiunge: “E’ gravissimo che Alfano nel bel mezzo di un dramma che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero, insegua il populismo di Salvini. Quelle del ministro dell’Interno sono affermazioni che lasciano senza parole ed è per questo che il senatore dei Verdi Bartolomeo Pepe presenterà un’interrogazione parlamentare per chiedergliene conto”. Per il capogruppo Sel Arturo Scotto, poi, Alfano dovrebbe vergognarsi per le frasi su “migranti che lavorano gratis per Comuni. Oltre alla decenza si perde pure l’umanità. Ritiri circolare”. Critico anche il deputato dem Gennaro Migliore, presidente della commissione d’inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti, che ribadisce come debba essere chiaro “che i migranti non possono esse utilizzati come manovalanza gratuita, perché al loro lavoro deve essere data dignità”. Secondo Migliore “la migliore pratica di accoglienza è rappresentata dal modello Sprar, che coinvolge su base volontaria i Comuni e costituisce un sistema di riferimento per l’integrazione. È proprio sulle effettive capacità degli Enti Locali di assorbire e integrare i migranti – sottolinea – che si dovrebbe indirizzare il progetto di infrastrutturazione per l’accoglienza dei migranti”. Il sindaco di Isola di Capo Rizzuto: “Proposta non fattibile” – Ma eventualmente la circolare di Alfano sarebbe concretamente applicabile sul territorio? No: o almeno è infattibile per Gianluca Bruno, sindaco di centrodestra di Isola Capo Rizzuto, comune sulla costa ionica crotonese che negli anni ha legato il proprio nome al centro di accoglienza per immigrati più grande d’Europa, il “Sant’Anna”. Nella struttura gravitano ogni giorno un migliaio di migranti, ma nei momenti “caldi” degli arrivi, il numero può arrivare sino a 1.500, capienza massima del Cara. Gli ospiti del centro non hanno limitazioni e possono uscire quando vogliono per recarsi in paese o spostarsi a Crotone o in qualsiasi altra località. Bruno, dunque, il fenomeno dell’immigrazione lo conosce, avendo sul territorio una simile struttura. “La proposta del ministro – spiega all’Ansa – è da valutare a 360 gradi, non può essere l’applicazione fine a se stessa di una circolare. Ma comunque non è possibile impiegare gratis i migranti visto che la nostra normativa prevede che ogni lavoro abbia un corrispettivo in denaro”. “E poi – si chiede il sindaco – quali lavori dovrebbero fare? Verrebbero occupati nel pubblico o nel privato? Questa dei migranti è sicuramente une tematica importante sulla quale occorrerebbe un ragionamento serio. Un loro impiego potrebbe anche essere una decisione utile, dal momento che potrebbero essere impiegati per la cura del verde pubblico piuttosto che per altri impieghi”. Resta tuttavia il problema di fondo dell’impossibilità, secondo Bruno, del mancato pagamento. Ma anche qualora fosse previsto un compenso, la fattibilità della proposta, secondo Bruno, non sarebbe possibile: “Se pagassimo i migranti per farli lavorare, cosa direbbero poi gli italiani? Potrebbero sentirsi parte lesa dal momento che una eventuale fonte di sostentamento verrebbe dirottata sui migranti per mezzo di un provvedimento. Ciò dimostra che quella dell’immigrazione è veramente una tematica delicata”. La circolare del Viminale – E’ una circolare firmata lo scorso 27 novembre dal capo Dipartimento libertà civili ed immigrazione del ministero dell’Interno, Mario Morcone, a invitare tutti i prefetti a far svolgere attività di volontariato gratuite ai migranti. I massicci flussi migratori, indica la circolare, hanno determinato “una significativa presenza di cittadini stranieri extracomunitari ospitati in tutte le province del nostro territorio”. A seguito di ciò, una delle criticità connesse all’accoglienza “è quella relativa all’inattività dei migranti che si riverbera negativamente sul tessuto sociale ospitante”. Per ovviare a ciò Morcone invita le prefetture a sottoscrivere protocolli d’intesa con gli enti locali per “superare la condizione di passività dei migranti ospitati […] attraverso l’individuazione di attività di volontariato”. In questo modo, “coinvolgendo i migranti in attività volontarie di pubblica utilità svolte a favore delle popolazioni locali, si assicurano loro maggiori prospettive di integrazione nel tessuto sociale del nostro Paese, scongiurando un clima di contrapposizioni nei loro confronti”. Queste attività devono coinvolgere solo i richiedenti asilo in attesa della definizione del ricorso sul rifiuto della domanda di protezione, “ciò nella considerazione che, per i titolari di protezione internazionale, sono previsti altri percorsi di inserimento lavorativo”. Le attività dei richiedenti asilo, stabilisce la circolare, “devono esser svolte esclusivamente su base volontaria e gratuita; devono essere finalizzate al raggiungimento di uno scopo sociale e non lucrativo; deve essere sottoscritta un’adeguata copertura assicurativa non a carico del ministero; deve essere assicurata una formazione adeguata”.

ITALIANI IGNORANTI ED IMMIGRAZIONE: PARLIAMO DI PENSIONI.

Immigrazione e manipolazione: come i media tedeschi hanno falsificato la realtà, scrive Giampaolo Rossi il 4 agosto 2017 su "Il Giornale". È un atto di accusa senza precedenti quello contro i media tedeschi: nel pieno dell’emergenza migranti, tra il 2015 ed il 2016, i principali giornali della Germania hanno deliberatamente falsificato la realtà dando un’informazione unilaterale e acritica del fenomeno abbracciando esclusivamente il punto di vista della Merkel, del suo governo e dell’élite politica ed economica che voleva imporre all’opinione pubblica la “cultura dell’accoglienza indiscriminata”. L’accusa non viene dai soliti polemisti reazionari, da spudorati blogger di destra o dai sempreverdi xenofobi utili per liquidare qualsiasi opposizione al delirio del multiculturalismo ideologico. No. Stavolta l’accusa parte da una ricerca della Fondazione Otto Brenner e realizzata da un pool di ricercatori dell’Università di Lipsia e della Hamburg Media School, coordinati dal prof. Michael Haller; il titolo è “La crisi dei rifugiati sui media” ed è è “lo studio più completo e metodologicamente elaborato sul tema”.

La ricerca ha analizzato oltre 30 mila articoli dei principali giornali nazionali e regionali tedeschi tra il 2015 e il 2016. Oltre 200 pagine dense di numeri e statistiche su quello che hanno prodotto Süddeutsche Zeitung, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Die Welt, Bild, così come le pubblicazioni online e 85 giornali regionali. Dal 2015 al 2016 nessun giornale ha raccontato le preoccupazioni, i timori di una parte crescente della popolazione…La conclusione è devastante: mentre la Merkel imponeva la “politica delle porte aperte” nessuno degli editoriali o degli articoli che riguardavano il tema dell’immigrazione “ha raccontato le preoccupazioni, i timori e anche la resistenza di una parte crescente della popolazione”; in altre parole è come se per i giornali tedeschi, un pezzo (probabilmente maggioritario) dell’opinione pubblica del proprio Paese non fosse esistita. E le rare volte che i giornalisti collettivi hanno provato a raccontare quella parte di Germania preoccupata dall’immigrazione, l’hanno fatto “con un atteggiamento pedagogico” se non “sprezzante”. Chi non era allineato al mito dell’accoglienza era automaticamente xenofobo o razzista…I giornali non hanno saputo (o voluto?) distinguere tra le posizioni veramente xenofobe e razziste di una minoranza, con le legittime e realistiche preoccupazioni di pezzi importanti della società tedesca di fronte all’invasione di oltre un milione di immigrati voluta dalla signora Merkel. E quel sentimento di insicurezza, paura è stato trasformato in razzismo e intolleranza quando non di arretratezza culturale. Insomma il solito snobismo stupido dei menestrelli dell’élite europea.

Per capire il modo in cui i giornali tedeschi hanno manipolato l’opinione pubblica basterebbe qualche dato che emerge dalla ricerca: tra la primavera 2015 e la primavera 2016, nei tre quotidiani principali del paese, solo il 4% degli articoli è stata un’intervista e solo il 6% un report con dati oggettivi. Un articolo su cinque è stato un editoriale di commento che esprimeva ovviamente il parere delle redazioni, “una cifra insolitamente alta”. Nella classifica dei personaggi ascoltati o citati sul tema, due su tre sono stati politici di governo o di partiti favorevoli all’immigrazione; solo il 9% esponenti della giustizia (ufficiali delle Forze dell’Ordine, magistrati, giudici o avvocati) su temi legati all’ordine pubblico; appena il 3,5% studiosi o esperti di temi legati al multiculturalismo, al diritto di famiglia nelle società islamiche o al rapporto tra sunniti e sciiti.

Un caso emblematico è stata la narrazione costruita attorno alla definizione di “Willkommenskultur” o Cultura dell’Accoglienza tanto cara in Italia alla Boldrini, a Saviano e agli esegeti del pensiero sorosiano. I giornali hanno trasfigurato il concetto di Accoglienza, trasformandolo in una parola magica…Secondo lo studio, i giornali tedeschi hanno “trasfigurato il concetto di Accoglienza” trasformandolo in un “obbligo morale (…) una sorta di parola magica” per convincere i cittadini “a svolgere un’attività da buoni Samaritani verso i nuovi arrivati”. Per tutto il 2015 e buona parte del 2016, l’83% dei contenuti giornalistici ha enfatizzato il concetto di Accoglienza, nascondendo l’esistenza di una sempre maggiore fetta di popolazione scettica e dubbiosa sulla Willkommenskultur. E quando l’imposizione moralista non funzionava più, ecco pronta (come in Italia) la ricetta pseudo-economica da imporre come verità incontrovertibile dai soliti tecnici ed esperti: “la Germania ha bisogno di centinaia di migliaia di lavoratori per contrastare l’invecchiamento della popolazione”; ergo chi non vuole accoglierli fa il male della Germania. E così mentre i giornali sovraesponevano le manifestazioni di “benvenuto” agli immigrati, nascondevano le manifestazioni contrarie che si svolgevano in molte città tedesche.

Certo la ricerca ha dei limiti; per esempio non ha preso in considerazione l’informazione televisiva in quanto questo avrebbe richiesto uno studio molto più complesso sul rapporto tra immagine e parola. Ma l’idea di fondo è chiara. Secondo Michael Haller, il Direttore della Ricerca, i giornalisti tedeschi “hanno ignorato il loro ruolo professionale e la funzione informativa dei mezzi di comunicazione” utilizzando “troppo sentimentalismo buonista e troppo poche domande critiche ai responsabili di quelle decisioni”; e questo ha contribuito a generare una profonda divisione nell’opinione pubblica tedesca e un discredito totale verso il mondo dell’informazione. Jupp Legrand, Direttore della Fondazione Brenner, ha specificato che la ricerca mostra “la crisi strutturale del cosiddetto manistream” perché “la realtà descritta dai giornalisti è stata molto lontana da quella che tutti i giorni vivevano i loro lettori”. Un modo elegante e neutro per denunciare che le vere fabbriche di “fake news” in Occidente si trovano nelle redazioni dei grandi giornali del potere economico e culturale. Nei giorni in cui in Europa si sta svelando il fallimento del multiculturalismo progressista; in cui, anche in Italia emerge la stupidità con cui una classe politica irresponsabile e dolosa ha affrontato il tema dell’immigrazione; in cui il disegno criminale costruito attorno ai progetti di immigrazione indotta si fa sempre più evidente, il tema di una corretta informazione è vitale per la tenuta di una democrazia. Se una ricerca simile venisse fatta in Italia i risultati sarebbero forse simili; anche da noi, per anni, i grandi giornali hanno di fatto costruito una narrazione simile a quella tedesca criminalizzando chi non si adeguava al pensiero dominante o ignorando le tante voci di dissenso rispetto alla visione irenica dell’immigrazione. Ora però il clima sembra essere cambiato. Per carità quando i grandi giornali danno spazio agli intellettuali e alle loro profonde riflessioni, la irrealtà ideologica prende il come al solito il sopravvento scivolando quasi nella stupidità.

Ma quando si limitano a fare il loro mestiere, cioè a raccontare la cronaca e i fatti, allora la verità di questa nuova ed epocale tratta degli schiavi spacciata per destino storico, emerge impietosamente. E in questo caso non basteranno i Saviano e le Boldrini a inventarsi la realtà.

"Gli italiani sono ignoranti". Così Boldrini vuole rieducarci. Pubblicata la relazione finale della Commissione JCox voluta da Laura Boldrini. In Italia ci sarebbe una "piramide dell'odio", soprattutto nell'immigrazione. E la presidente vuole rimedi per legge, scrive Giuseppe De Lorenzo, Sabato 22/07/2017, su "Il Giornale". Se non ve ne siete accorti, siete ignoranti. Sì, esatto: gli italiani sono asini. Soprattutto quando si parla di immigrazione. A metterlo nero su bianco è la Commissione Jo Cox della Camera dei deputati, un organismo voluto e presieduto da Laura Boldrini per studiare "l'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni dell'odio". Istituita il 10 maggio 2016, la Commissione "include un deputato per ogni gruppo politico, rappresentanti di organizzazioni sopranazionali, di istituti di ricerca e di associazioni nonché esperti". Fin qui tutto normale. O quasi. Nel senso che la Commissione due giorni fa ha presentato la relazione finale dei suoi temutissimi lavori ed ha emesso la sua sentenza finale sul popolo populista: gli italiani hanno opinioni sbagliate, "stereotipi e false rappresentazioni". E per questo vanno rieducati. La relazione si apre con la spiegazione del concetto della "piramide dell'odio", una sorta di rappresentazione grafica e sociologica di come un "linguaggio ostile e banalizzato" possa trasformarsi in un "crimine d'odio" fino "all'omicidio" contro donne, gay, immigrati e altre religioni. Manco fossimo a Caracas. Segue quindi un lungo elenco di opinioni negative di cui sono soliti macchiarsi i cittadini poco illuminati. Come quelle di chi ritiene che "l’uomo debba provvedere alle necessità economiche della famiglia e che gli uomini siano meno adatti ad occuparsi delle faccende domestiche"; oppure che "una madre occupata non possa stabilire un buon rapporto con i figli al pari di una madre che non lavora". Che maschilisti, questi italiani! Non è tutto. Perché la vera ossessione del documento sono le idee sugli immigrati. Qui l'accusa si trasforma in offesa. Si legge infatti che "secondo l’Ignorance Index di IPSOS MORI, l’Italia risulta il Paese con il più alto tasso del mondo di ignoranza sull’immigrazione". E che cosa penseranno mai i populisti per meritarsi il titolo di ignoranti? Tutte cose normali, ma orribili per la Boldrini. Ritenete che "i datori di lavoro debbano dare la precedenza agli italiani"? Siete retrogradi. Credete che gli immigrati "tolgano lavoro" ai disoccupati nostrani? Solo bugie. Vi azzardate a dire che "i rifugiati sono un peso perché godono dei benefit sociali e del lavoro degli abitanti"? Siete de cattivoni: vitto e alloggio pagato per due anni a 170mila persone, di cui l'80% senza diritto d'asilo, sono un dovere. Non uno spreco. E ancora: credete che “un quartiere si degrada quando ci sono molti immigrati” e che “l’aumento degli immigrati favorisce il diffondersi del terrorismo e della criminalità"? Non sapete cosa dite. Forse i membri della Commissione Jo Cox una casa nelle periferie di Milano e Roma non l'hanno mai avuta. Altrimenti non avrebbero puntato tanto il dito contro chi non desidera migranti nel proprio quartiere (il valore delle case si deprezza rapidamente) e non vorrebbe rom e sinti "come vicini di casa". Ma tant'è. Dopo un lungo elenco di discriminazioni, omofobie e sessismi commessi dagli italiani, si arriva alle medicine proposte dalla Boldrini e i suoi compagni d'avventura. Sono le 56 "raccomandazioni per prevenire e contrastare l'odio" rivolte a governo, Ue, media, giornalisti, associazioni e operatori. E così per abbattere la violenza dovremo "approvare alcune importanti proposte di legge all’esame delle Camere, tra cui quelle sulla cittadinanza e sul contrasto dell'omofobia e della transfobia". Capito? Solo con lo ius soli si sconfigge l'odio: parola di Boldrini. Poi bisogna "rafforzare nelle scuole l’educazione di genere" (leggi: ideologia gender), educare i giovani al "rispetto, apertura interculturale, inter-religiosa" e istituire "un giurì che garantisca la correttezza dell’informazione". Nemmeno Orwell sarebbe arrivato a tanto, eleggendo un padre-padrone dell'informazione che ci rieduchi per legge e ci insegni la bellezza dell'interculturalismo. Viene da chiedersi chi sarà questo gran giurì. Non è che gatta ci cova? Infatti mentre bacchetta i giornali, la Boldrini vorrebbe "rafforzare il mandato dell’UNAR" (quello delle orge gay pagate dallo Stato) e "sostenere e promuovere blog e attivisti no hate o testate che promuovono una contro-narrazione". A chi vorrebbe dare appoggio (e forse soldi)? Magari proprio quei blog che hanno aiutato il Presidente della Camera nella sua raccolta firme "bastabufale.it", come "Il disinformatico" di Paolo Attivissimo, il blog di Paolo Puente o "Butac" di Michelangelo Coltelli. Tutti primi firmatari della campagna anti fake news. A pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca.

La Boldrini vuole imporre il buonismo per legge. Lo studio della commissione istituita dalla presidente: "Per evitare l'odio bisogna controllare l'informazione", scrive Giorgia Meloni, Presidente di Fdi-An, Venerdì 28/07/2017, su "Il Giornale". Caro Direttore, vogliono che le persone siano uccise per strada per la loro opinione politica, come capitato alla deputata britannica anti Brexit Jo Cox? No? E allora è necessario limitare la libertà di espressione, mettere dei filtri a internet, istituire un «gran giurì che garantisca la correttezza dell'informazione». Sarà lo Stato a stabilire cosa è vero e cosa è falso, cosa si può dire e cosa no, quali parole è consentito utilizzare e quali sono vietate, cosa può essere visto e scritto su internet e cosa debba essere oscurato. Ti sembra eccessivo? Allora sei intollerante, xenofobo, razzista e pure pericoloso. Non è la trama di uno scadente film di fantascienza, di quelli con gli alieni di cartapesta con un faro rosso legato sulla testa con lo spago, ma è il documento conclusivo della Commissione istituita dal presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, per prevenire «i fenomeni d'odio». Il ragionamento logico (se così vogliamo definirlo) del documento è il seguente: esiste una «piramide d'odio» nella quale «stereotipi negativi, rappresentazioni false o fuorvianti, insulti, linguaggio ostile» costituiscono la base delle discriminazioni, dei messaggi d'odio e degli «atti di violenza fisica, fino all'omicidio, perpetrati contro persone in base a qualche caratteristica come il sesso, l'orientamento sessuale, l'etnia, il colore della pelle, la religione o altro». Lo «studio» della Commissione sostiene, in altre parole, che esiste un collegamento diretto di causa ed effetto tra un'informazione «non corretta» e la violenza. Da qui la conseguenza del ragionamento: per contrastare la violenza e gli omicidi dei pericolosi xenofobi che affollano le nostre società è giusto e necessario controllare l'informazione. Ma questa è un'aberrazione pericolosa e un'idiozia di cui ridere se non fosse pericolosa. È una tentazione che la sinistra ha da sempre e che ritorna con forza ogni qual volta la sinistra si trova in difficoltà perché perde consenso tra l'opinione pubblica. Invece di ascoltare la voce del popolo, la sinistra vuole controllarla. Perché per questa gente la democrazia è una bella cosa, ma solo finché la maggioranza dice e pensa ciò che vogliono loro. Se emerge un'opinione non gradita, è sufficiente etichettarla come intollerante, xenofoba, razzista o, meglio ancora, fascista. E il problema è risolto. Se la Commissione della Boldrini ha un merito è quello di essere talmente grottesca da smascherare il gioco liberticida che la ispira. Così, nella pericolosa categoria degli «stereotipi e false rappresentazioni», la Commissione inserisce anche l'opinione condivisa dal 48,7% degli italiani: «In condizione di scarsità di lavoro, i datori di lavoro dovrebbero dare la precedenza agli italiani». Ma questa è una posizione che Fratelli d'Italia sostiene apertamente e che in molte Nazioni evolute è legge dello Stato, come negli Stati Uniti, anche sotto la presidenza del democratico Obama. Ma, nella relazione conclusiva della Commissione, troviamo, tra le «pericolose» opinioni da correggere, anche molto altro: la convinzione sostenuta dal 52,6% degli italiani secondo la quale «l'aumento degli immigrati favorisce il diffondersi del terrorismo e della criminalità»; la contrarietà del 41,1% all'apertura di una moschea sotto casa e l'opinione negativa sui rom sposata dall'82% degli italiani. Insomma, per la sinistra la soluzione ai problemi come l'immigrazione incontrollata, il terrorismo, l'islamizzazione forzata dell'Europa, la criminalità dei rom e il degrado è molto semplice: basta vietare per legge di parlarne e di scriverne. Cara presidente Boldrini, caro «gran giurì», cari inquisitori del terzo millennio: non credo che il popolo italiano rinuncerà così facilmente alla propria libertà. Noi siamo figli della democrazia greca, del diritto romano e della cultura europea, non delle satrapie d'Oriente o dell'oscurantismo islamico. E ora accusatemi di diffondere «stereotipi culturali».

La Boldrini alla Meloni: nessun bavaglio per legge. La risposta del portavoce della Boldrini, scrive Roberto Natale, Sabato 29/07/2017, su "Il Giornale".  L'onorevole Giorgia Meloni, sul Giornale di giovedì, dà una rappresentazione del tutto distorta della Commissione Jo Cox, istituita dalla presidente Boldrini alla Camera sui «fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia e razzismo». Chi voglia leggere la relazione finale - reperibile all'indirizzo camera.it/leg17/1313 - appurerà che affermazioni come «sarà lo Stato a stabilire cosa è vero e cosa è falso», oppure che «per contrastare la violenza e gli omicidi dei pericolosi xenofobi è giusto e necessario controllare l'informazione», non hanno nulla a che vedere con le proposte avanzate dalla Commissione, che sono lontanissime da ogni idea di «ministero della Verità». Sarà utile inoltre ricordare che la Commissione Jo Cox ha mostrato una forte attenzione al pluralismo fin dalla sua modalità di composizione. Sono stati infatti chiamati a farne parte un deputato per ogni gruppo politico, esperti, rappresentanti di associazioni e di organismi internazionali. Tra di loro, per il gruppo Fratelli d'Italia, l'onorevole Giovanna Petrenga, che ha partecipato ai lavori della Commissione e che non risulta aver mai sollevato le obiezioni che oggi esprime l'onorevole Meloni. Né a voce durante le riunioni, né presentando emendamenti al testo della relazione finale nei venti giorni che i componenti della Commissione hanno avuto a disposizione. Roberto Natale, portavoce della presidente della Camera Laura Boldrini

Cara Boldrini, giù le mani dalla nostra libertà. A seminare odio è lei, non noi, scrive il 23 luglio 2017 Marcello Foa su "Il Giornale". Diciamolo francamente: “La piramide dell’odio” ovvero la Commissione “Jo Cox” su fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia e razzismo, voluta dalla Boldrini e che ha coinvolto ben 26 persone tra deputati ed esperti a vario titolo, è un falso ideologico. O, detto più, semplicemente un’operazione di bassa e soprattutto pericolosa propaganda. Sì, pericolosa. Già il titolo è fuorviante. Le commissioni, quelle serie, espongono le proprie conclusioni alla fine di una dotta e spassionata analisi, in questo caso, invece si urla una denuncia forte e scioccante. Quel titolo “la piramide dell’odio” antepone il giudizio all’analisi, pone sulla difensiva il lettore, lo colpevolizza a prescindere. E’ un’operazione, spinta, di spin a cui un’istituzione come la Camera dei deputati non dovrebbe mai prestarsi, Ma, si sa, con la Boldrini, tutto diventa relativo. Anche i contenuti di un rapporto che ha richiesto un anno di lavori. Mi aspettavo dati scioccanti su un’Italia intollerante e razzista. E invece esce il quadro di un Paese tollerante. Pensate un po’, il 20% degli italiani pensa che sia disdicevole avere un collega gay. Io lo leggo positivamente: l’80% non ha più pregiudizi omosessuali. Stessa percentuale di chi pensa che gli uomini siano migliori dirigenti o migliori politici delle donne. Non mi scandalizzo affatto per il fatto che il 49,7% ritiene che l’uomo debba provvedere alle necessità economiche della famiglia e questa non può essere considerata una falsa rappresentazione, ma la proiezione di una concezione tradizionale e legittima della famiglia. La Boldrini e i suoi esperti inorridiscono sapendo che la maggior parte degli interpellati ritiene che quartieri ad alta densità di immigrati favoriscano il terrorismo e la criminalità e che il 65% pensa che i rifugiati siano un peso perché godono di benefits sociali e del lavoro degli abitanti. Ma non sono dato scioccanti, bensì inevitabili quando l’immigrazione diventa incontrollata e supera le soglie fisiologiche e quando riguarda un Paese gravato dalle tasse e con un alto tasso di disoccupazione. Il problema non lo risolvi biasimando gli italiani ma ponendo fine a una situazione fuori controllo e rilanciando l’economia del Paese. E se l’80% degli italiani esprime un’opinione negativa rispetto ai rom, inclusi dunque molti elettori di sinistra, forse bisognerebbe chiedersi non se gli italiani siano razzisti ma perché i rom – che non sono più i romantici gitani di una volta – accentuino, con la loro violazione delle più elementari regole civili, la diffidenza nei propri confronti. Questo rapporto è inconsistente ma diventa pericoloso quando propone le misure correttive. Perché emerge la finalità liberticida dell’operazione “boldriniana”. Il vero scopo non è di contrastare un inesistente razzismo ma di mettere a tacere chi non la pensa come vuole lei, chi non si adegua passivamente al politicamente corretto, chi si oppone a sfacciate operazioni di ingegneria sociale. Insomma, chi pensa liberamente diventa un nemico da far tacere. La Boldrini ci ha già provato cavalcando strumentalmente la polemica sulle Fake news. Ora che la fine della legislatura si avvicina e con essa la fine, mai tanto auspicata, del suo mandato di presidente della Camera, costei sa di non avere più tempo e per questo invoca la censura. E lo fa furbescamente. Quando “esige l’autoregolazione delle piattaforme al fine di rimuovere l’hate speech online” e invita a “stabilire la responsabilità giuridica sociale dei provider e delle piattaforme di social e a obbligarli a rimuovere con la massima tempestività i contenuti segnalati come lesivi da parte degli utenti”, intende togliere di mezzo i commentatori scomodi demandando a un entità astratta – “gli utenti” – il compito di giudicare chi semina odio e chi no. Quando propone di “sostenere e promuovere blog e attivisti no hate o testate che promuovono una contronarrazione” compie un’operazione orwelliana, perché si arroga il diritto di stabilire chi detenga la Verità, negando uno degli elementi costitutivi della democrazia: il confronto delle idee. Ma si supera quando sostiene “l’istituzione di un giurì che garantisca la correttezza dell’informazione”. Ma sì un Miniculpop, il Ministero della Censura, che impedirebbe a voi, cari lettori, di leggere questo blog, o goofynomics di Alberto Bagnai o i tweet di Vladimiro Giacchè o i siti che a destra e a sinistra difendono il diritto a un’interpretazione diversa dalla realtà. Questi sono propositi inaccettabili in democrazia e fonte di rabbia e di diffidenza. Nei suoi confronti, cara presidente Boldrini. Perché, a ben vedere, la vera propagatrice d’odio è lei. Non noi.

Migranti, l’ira della Boldrini contro gli italiani “ignoranti e razzisti”, scrive Laura Ferrari venerdì 21 luglio 2017 su "Il Secolo D’Italia". Carcere per i razzisti? L’ultima suggestione firmata Laura Boldrini arriva in concomitanza di un convegno a Montecitorio. “È il tempo di reagire concretamente contro i razzisti”, dice la presidente della Camera chiedendo le maniere forti per contrastare le opinioni discriminatorie, xenofobe e più in generale “razziste”. Carcere? Sanzioni pecuniarie? La presidente della Camera non lo dice chiaramente, ma lascia intendere che il confronto non può essere solamente sulle opinioni. Intervenendo a un convegno a Montecitorio, la Boldrini si è lamentata della scarsa accoglienza dell’Italia nei confronti degli immigrati. Per la Boldrini gli italiani “sono ignoranti, non sanno che i migranti sono una risorsa e che i musulmani rappresentano solo il 6 per cento della popolazione”. Laura Boldrini presenta i dati della relazione finale della Commissione Jo Cox (l’esponente politica della sinistra britannica assassinata da uno squilibrato) che ha istituito contro i fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia e razzismo. Il “non detto” è che non bastano le parole, che si debba intervenire con misure coercitive.  

Boldrini: “I profughi portano un contributo positivo all’Italia”. Per la presidente della Camera, sui temi dell’immigrazione c’è una «clamorosa divaricazione tra i numeri e la realtà percepita. E sono soprattutto le persone che non conoscono, che non hanno accesso ai dati, le persone che probabilmente si limitano ad ascoltare certi esponenti politici o a leggere alcuni giornali, che sono più frequentemente portatrici di atteggiamenti di odio». «Il 65% degli italiani (contro il 21% dei tedeschi) considera i rifugiati un peso perché godono di alcuni benefit, secondo loro, mentre si ignora il contributo positivo che invece danno in termini di saldi fiscali e contributivi». Italiani ignoranti e xenofobi per colpa di alcuni politici e di alcuni media. Ma chi ignora davvero la realtà quotidiana sono gli italiani o la presidente della Camera?  

Mattarella: "I migranti sono una risorsa". E Salvini: "Complice dell'invasione". Il capo dello Stato: "Con le migrazioni gli italiani scoprirono l'identità unitaria". E Salvini lo attacca: "Ipocrita, complice dell'invasione", scrive Giovanni Neve, Martedì 9/05/2017, su "Il Giornale". "La solidarietà davanti alle tragedie dei migranti si scontra con l'intolleranza a cui spesso è legata l'incapacità di comprendere i grandi fenomeni del mondo contemporaneo". Sergio Mattarella parla alla comunità degli italoargentini al teatro Coliseo e attualizza l'esperienza dei loro nonni e padri, ricordando ogni aspetto delle migrazioni passate. Ora, però, "viviamo tempi nei quali le questioni migratorie assumono nuovamente enorme rilevanza. I mezzi di comunicazione portano alla nostra attenzione immani tragedie, in cui i temi della solidarietà e della dignità della persona, si scontrano - prima ancora che con preoccupazioni legate alla sicurezza - con intolleranza, discriminazioni e diffusa incapacità di riuscire a comprendere ciò che è in atto, ciò che sta accadendo nel mondo".

Gli italiani nel mondo. "Un fiume in piena quello che si riversò dall'Italia verso il resto del mondo: 803.000 gli emigrati nel solo anno 1906! In cento anni (1876-1975), emigrarono circa 26 milioni di italiani! Una nazione fuori dalla nazione". Mattarella parla davanti ai 1700 italoargentini riuniti al teatro Coliseo, luogo di cultura di proprietà del governo Italiano a Buenos Aires, e ricorda quando i migranti eravamo noi. Ecco, sottolinea il capo dello Stato, "perché non c'è una sola storia d'Italia ma, accanto a quella del territorio nazionale, si è sviluppata una storia degli italiani: tante storie degli italiani, quante erano le comunità italiane trapiantate all'estero. La storia dell'emigrazione italiana è, prima ancora dell'Unità d'Italia, la storia unitaria del nostro popolo". Mattarella cita Ludovico Incisa di Camerana secondo cui "è all'estero che meridionali e settentrionali, sudditi di regimi diversi, si appropriarono, insieme, di una comune identità, quella italiana. Qui, possiamo ben dirlo, è nata l'italianità. Prima ancora di essere cittadini del Regno d'Italia, gli emigranti provenienti dagli antichi Stati peninsulari si sono riconosciuti italiani a Buenos Aires, in istituzioni e organizzazioni comuni. Qui è stata custodita, sin dai momenti di crisi del processo unitario del Paese, la nostra identità".

Gli immigrati come risorsa. "Lo sviluppo di un Paese va di pari passo con un diminuire delle migrazioni, le due cose sono indissolubilmente legate". Durante la visita di Stato Oltreoceano, Mattarella ripercorre le tappe delle migrazioni italiane all'estero, dall'800 al 1970, quando ben 26 milioni di italiani lasciarono il Paese. E, in particolare, ricorda come in Argentina l'immigrazione è stata "incoraggiata con accordi tra governi, con lo scopo di alleggerire un corpo sociale ritenuto dalle classi dirigenti dell'epoca troppo denso, troppo pesante, misurato su quelle che si ritenevano essere le risorse dell'Italia. Una tesi, quest'ultima infondata, denunciava nel primo dopoguerra Carlo Rosselli". Per il leader di Giustizia e Libertà "la tesi secondo la quale il pauperismo italiano fosse figlio della pressione demografica era totalmente infondata: lo dimostrerà la storia successiva. Nel 1961, Centenario dell'Unità d'Italia, a popolazione raddoppiata, il reddito pro-capite del Paese risulterà quadruplicato". "Ci sono tante storie quante sono le ondate migratorie che si sono succedute, sino a quella del secondo dopoguerra, i cui effetti sono durati sino all'epoca del boom economico italiano, quando si è realizzata la previsione di Antonio Gramsci (del quale abbiamo appena ricordato gli ottant'anni dalla scomparsa). Il leader antifascista - cita il capo dello Stato - preconizzava con lo sviluppo del Paese, il venir meno della funzione dell'Italia come produttrice di riserva operaia per il mondo intero".

La replica di Salvini. L'intervento di Mattarella non è piaciuto a Matteo Salvini. Che su Facebook ha duramente criticato il capo dello Stato per aver detto che "gli immigrati sono una risorsa". "Quanta ipocrisia - ha tuonato il leader della Lega Nord - paragonare i milioni di italiani che emigrarono in cerca di lavoro, e a cui nessuno regalò pranzi, alberghi o telefonini, ai clandestini che sbarcano oggi in Italia e fanno casino, è una vergogna". E ancora: "Stop invasione, Mattarella complice".

Immigrati, la risorsa che non sappiamo gestire. Sul tema dei migranti, d'attualità a causa dei tragici sbarchi sulle nostre coste, ci sono molti equivoci. Perché chi arriva via mare è solo una porzione di chi entra clandestinamente in Europa. E perché non è vero che i nuovi arrivati rubano lavoro. Come dimostra la Germania, che ha più immigrati di noi ma meno disoccupati, scrive Giovanni Gozzini il 16 luglio 2014 su "La Repubblica". Iniziamo da un punto che tutti dimenticano: gli ingressi illegali in Europa di migranti che attraversano il Mediterraneo (con il loro carico di disperazione e di morte) sono la piccolissima punta di un iceberg. Nei loro anni di punta toccano le 60mila unità: più o meno il 10% dell’immigrazione clandestina europea. Come accade sull’altro fronte di guerra delle migrazioni internazionali – il confine tra Stati Uniti e Messico – la stragrande maggioranza dei clandestini è infatti composta in realtà da «overstayers», cioè da persone che entrano legalmente (con un visto turistico, generalmente) e poi prolungano il loro soggiorno oltre i termini di legge, confidando in una regolarizzazione futura dopo un periodo più o meno lungo vissuto sfuggendo alla legge. I fatti danno loro ragione: non si prendono rischi nel viaggio di trasferimento, quasi sempre spendono molto meno di chi si affida alle organizzazioni criminali, possono contare sulla rete di protezione dei loro connazionali che li hanno preceduti (esattamente come don Vito Corleone e Cosa Nostra per i migranti italiani di un secolo fa).

Non sono (come invece siamo portati a immaginare) i più poveri nelle loro società originarie: hanno livelli di reddito e scolarizzazione tali da consentirgli la conoscenza (magari immaginaria ma proprio per questo ancora più potente) di un altro mondo diverso dal proprio e la progettazione di un trasferimento e di una nuova vita. I più poveri sono invece fissati al loro piccolo ambiente di precarietà quotidiana, dal quale sono incapaci di sollevare lo sguardo. Sono questi ultimi le vittime che si affidano ai trafficanti, credono alle loro bugie e affidano loro tutti i risparmi per affrontare un viaggio pericolosissimo.

Tutti noi possiamo constatare di persona questa differenza: tra le clandestine filippine o peruviane (che appartengono alla prima categoria di overstayers meno poveri) e, per esempio, le ragazze nigeriane che attraversano il Mediterraneo e rimangono schiave del racket della prostituzione. Per le prime la scelta di migrare corrisponde a una strategia, magari disperata ma pur sempre razionale, per garantire la sopravvivenza di un intero nucleo familiare (parte del quale rimane nel paese d’origine). Le rimesse (i soldi che questi migranti mandano a casa) hanno da tempo superato il volume finanziario globale degli aiuti ufficiali che i paesi ricchi elargiscono ai paesi poveri e si avviano a raggiungere il livello degli investimenti esteri delle multinazionali. Un altro fenomeno poco conosciuto è che circa la metà del totale degli immigrati in Europa torna a casa dopo un periodo medio di cinque anni.

Per le donne nigeriane che arrivano in Italia la scelta di migrare corrisponde praticamente a una nuova forma di riduzione in schiavitù. Si stima che il giro di denaro mosso dal movimento illegale di esseri umani si collochi ormai poche spanne sotto quello del traffico internazionale di stupefacenti. Gli scafisti che talvolta i nostri poliziotti riescono a catturare rappresentano l’ultimo anello (sottopagato e rischioso) di una catena che spesso lega insieme diverse organizzazioni criminali: da quella stanziata nel paese d’origine, che convince i disgraziati a partire a quella terminale, stanziata nel paese di destinazione, che ne organizza lo sfruttamento e la vita da clandestini senza futuro. Sono queste reti criminali a costituire la più vistosa differenza con le migrazioni storiche del passato e, insieme, il decisivo problema da affrontare con gli strumenti della repressione e della collaborazione tra paesi. Qualsiasi politica vera di gestione del problema migratorio dovrebbe partire da qui.

C’è però un’eccezione che negli ultimi tre anni ha acquisito una sempre maggiore centralità: i profughi, frutto della nuova e recente instabilità politica della sponda sud del Mediterraneo. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite, che dagli anni Cinquanta si occupa del problema, è abituato a gestire tra i 15 e i 20 milioni di persone ogni anno. Vengono da guerre civili endemiche e dimenticate («conflitti a bassa intensità» sono definite nel cinico linguaggio delle scienze sociali, perché non superano i mille morti all’anno) nel cuore dell’Africa e dell’Asia. Occasionalmente anche da guerre più famose (Afghanistan, Iraq). La politica dell’Onu è di non farli allontanare troppo dalle zone d’origine per rendere più facile il rientro e non dare troppa noia (con malsani attendamenti di bisognosi) ai paesi vicini. Ma in Siria, per esempio, non è stato possibile. Due milioni di siriani (il numero è in costante aumento) sono stati costretti a fuggire dalle loro case e a trovare rifugio nei campi oltre confine in Libano, Giordania, Turchia. In questo caso le nostre distinzioni saltano: nei campi si ritrovano insieme ricchi e poveri, colti e analfabeti. Una piccolissima parte di loro – di nuovo quella più fragile e con meno difese culturali – sale sui barconi della morte. Da decenni i clandestini sfruttano la confusione tra migrazione economica e migrazione politica: tra le poche cose che conoscono c’è il diritto d’asilo. Chi emigra sa che se riesce a dimostrare di essere perseguitati in patria nessuno può chiudergli la porta in faccia. La polizia tedesca ha sempre avuto un bel daffare a distinguere tra turchi e curdi, tra chi voleva venire a lavorare e chi scappava dalla guerra. Per questa ragione nascono i centri di identificazione, a Lampedusa come altrove: possiamo chiamarli anche lager ma non è che esistano molte alternative. Una delle disgrazie (forse la maggiore) del tema migrazioni è di prestarsi a facilissime propagande ma nello stesso tempo di non essere risolvibile per vie altrettanto facili. Gli imprenditori politici della paura che proclamano «ognuno a casa sua» vanno contro a millenni di storia umana, compresi Giulio Cesare e Cristoforo Colombo. Loro nemmeno lo sanno né gli importa. Ma invece dovrebbe.

Perché gli Stati Uniti e la Germania hanno più immigrati di tutti e meno disoccupazione? Perché più dell’80% degli immigrati in Italia si concentra nel nord mentre la disoccupazione al sud è doppia che al nord? Per sfatare uno di più diffusi luoghi comuni dell’ignoranza (gli immigrati ci tolgono posti di lavoro) i sociologi usano la formula 3D. Non si tratta della terza dimensione ma più semplicemente di una sigla composta dalle iniziali di dirty, dangerous, demanding (sporco, pericoloso, faticoso): sono le caratteristiche delle occupazioni che gli immigrati vanno a riempire – dai badanti ai raccoglitori di pomodori – e che i nostri giovani con titolo di studio cercano di evitare. Esiste un mercato del lavoro duale: uno per i nativi e uno per gli immigrati. Ecco perché negli Stati Uniti la disoccupazione, nonostante la crisi bancaria, è al 6% con 46 milioni (il 15% della popolazione) di immigrati. E in Germania al 5% con 10 milioni (12% della popolazione) di immigrati. Forse dovremmo pensarci, noi italiani che cerchiamo di dare la colpa della disoccupazione (al 13%) ai 5 milioni di immigrati (9% della popolazione). E dovremmo pensare di più al fatto che, secondo le ultime stime, quei cinque milioni di immigrati garantiscono il 12% del nostro prodotto lordo (molte pensioni dei tanti vecchi 'indigeni' …) ma solo il 3% delle entrate fiscali: perché dirty, nel nostro caso, significa sommerso e la colpa è del datore di lavoro quasi sempre italiano. Sarebbe una svolta epocale e una prova di grande trasparenza se governo e imprenditori fissassero ogni anno la quota di immigrati di cui la nostra base produttiva ha bisogno perché non è soddisfatta dall’offerta di lavoro interna. I clandestini gestiti (con più soldi dall’Unione Europea di quanti oggi non arrivino) sulla base di questa mappa. I criminali spiati, inseguiti, catturati e condannati con la collaborazione dei governi stranieri. I migranti liberati dalla schiavitù e dai falsi sogni. I profughi aiutati a ritornare nei loro paesi. Le guerre civili portate al tavolo del negoziato grazie all’eliminazione delle milizie che tengono in ostaggio le popolazioni e la pace. Come un dannato labirinto, la globalizzazione mostra la concatenazione di ogni problema. Possiamo farcene sopraffare. Oppure possiamo scegliere da dove partire e incominciare a dipanare la matassa.

Le balle sugli immigrati: loro una risorsa? E' falso. L'inchiesta. Cifre alla mano, ecco perché impoveriranno ulteriormente l'Italia. I numeri su lavoro, pensioni e la super crescita demografica, scrive Gilberto Oneto il 6 Ottobre 2011 su "Libero Quotidiano". In queste settimane il dibattito si infuoca attorno alla manovra economica e tutti hanno suggerimenti su dove e come ridurre le spese. Nessuno però dice mai di intervenire su una delle voragini che si inghiottono i soldi della comunità: l’immigrazione. È stata abilmente fatta passare l’idea che gli immigrati siano una risorsa, una ricchezza, che siano quasi i soli a contribuire in positivo alle dissestate casse comuni. Sull’immigrazione è stata fatta una colossale opera di disinformazione. I principali gruppi di motivazioni che vengono solitamente tirati fuori per giustificare l’immigrazione sono: 1) che i nuovi cittadini pagheranno le nostre pensioni, 2) che gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, 3) che gli immigrati sono una risorsa economica, 4) che sono una ricchezza sociale, 5) che pongono rimedio alla nostra denatalità, 6) che abbiamo il dovere della solidarietà. Vediamo di esaminare soprattutto i punti aventi incidenza economica, non senza avere prima fatto una indispensabile premessa. Il fenomeno è cruciale ma le informazioni per conoscerlo e governarlo sono approssimative. I soli dati ufficiali che si hanno a disposizione sono quelli che riguardano i regolarizzati. Restano vaghi i numeri di quelli appena arrivati o che vivono nel mondo dell’illegalità. Ci si deve perciò affidare principalmente alle informazioni della Caritas-Migrantes che, pur ricevendo finanziamenti pubblici, è una struttura privata che svolge i compiti che toccherebbero allo Stato, ma è anche e soprattutto una organizzazione di parte e questo non l’aiuta a fornire le garanzie di imparzialità che la struttura pubblica, pur nelle sue lentezze e inefficienze, dovrebbe invece garantire. La Caritas è anche condizionata dalle sue scelte ideologiche, dal suo evidente schieramento a favore dell’immigrazione e dell’accoglienza a qualsiasi costo e condizione, oltre che dal non trascurabile dettaglio che proprio dall’ambaradan dell’immigrazione trae sostanziosi finanziamenti. Secondo il Dossier statistico 2010 della Caritas-Migrantes, ci sarebbero in Italia all’inizio del 2010 4.235.000 stranieri residenti, o 4.919.000 considerando quelli non ancora iscritti all’anagrafe. Gli stranieri sono triplicati in un decennio e aumentati di quasi un milione nell’ultimo biennio. I clandestini sono stimati fra i 500 e i 700 mila, ma non è certo scorretto pensare che siano almeno il doppio. Si arriva perciò a una cifra di più di 6 milioni di persone (quasi l’11% della popolazione residente, uno straniero ogni 9 italiani), cui vanno aggiunti circa 500 mila naturalizzati italiani negli ultimi anni.  Metà circa degli immigrati sono donne. Nel 2007 gli stranieri erano 3.690.000, il 5,6% della popolazione. 

PAGANO LE PENSIONI? Grande risalto è stato dato al fatto che i contributi degli immigrati hanno aiutato l’Inps a rimettere un po’ a posto i conti. In effetti l’arrivo di tanti nuovi contribuenti che non percepiranno pensioni per un po’ di tempo è salutare. Si tratta però di una situazione temporanea perché, a partire da 20 anni da oggi (quando a maturare pensioni di vecchiaia o anzianità cominceranno a esserci moltitudini di immigrati), si riproporrà anche nella comunità foresta lo stesso schema attuale di un rapporto fra lavoratori e pensionati sbilanciato a favore di questi ultimi, a meno che non si conti su un continuo afflusso di immigrati giovani paganti. In tale caso si tornerebbe in qualche modo al sistema a ripartizione su cui in anni di boom demografico si era basato il sistema pensionistico, facendo saltare ogni buona intenzione di trasformarlo in un sistema a capitalizzazione. Insomma gli immigrati non risolvono i problemi del sistema pensionistico italiano ma lo spostano solo un po’ più in là nel tempo. Oggi il rapporto fra pensionati e abitanti è di circa 1 a 5 per gli italiani e di 1 a 25 per gli stranieri: il divario diminuirà costantemente fino a stabilizzarsi sullo stesso rapporto a meno che - come detto - il numero degli immigranti non continui a crescere in misura esponenziale. Dai dati Inps più recenti e completi disponibili (III Rapporto su immigrati e previdenza), risulta che nel 2004 gli stranieri iscritti ai ruolini pensionistici erano 1.537.380, e cioè meno della metà del totale degli immigrati di allora. Non cambia la situazione nel 2010, quando - secondo la Caritas - gli iscritti all’Inps sarebbero circa due milioni, e cioè circa il 40% dei regolari. Questi versano un totale di 7,5 miliardi in contributi previdenziali; nel 2007 le pensioni erogate erano 294.025 con una spesa annua di 2 miliardi e 564 milioni. Oltre a queste c’è una cifra imprecisata ma piuttosto alta per prestazioni sociali d’altro genere. Ci sarebbe così un saldo attivo di qualche miliardo. Occorre notare che il bilancio è migliorato da quando è stata soppressa la facoltà prima concessa agli immigrati di farsi rimborsare i contributi versati in caso di rimpatrio, rafforzando la tendenza a permanere in Italia. 

I DATI NON TORNANO. Per essere un gruppo sociale la cui presenza viene giustificata come “forza lavoro”, occorre notare come la percentuale di stranieri che pagano i contributi previdenziali sia sospettosamente bassa. Questo significa che la più parte di loro non paga i contributi sociali perché lavora in nero, o evade, o non lavora affatto, o fa “lavori” (criminalità, droga e prostituzione) che non hanno vocazione né possibilità di essere assoggettati a contributi. I numeri non tornano. Comprendendo anche gli irregolari, meno di un terzo degli stranieri versa contributi previdenziali: una percentuale inferiore a quella del totale degli italiani al di sotto dei 65 anni (39.318.000 nel 2010) che sono regolarmente occupati (più di 21 milioni), e cioè il 54,7%. Risulta perciò piuttosto evidente (e preoccupante) che l’attuale attivo del bilancio previdenziale degli stranieri sia rapidamente destinato a esaurirsi (salvo una crescita esponenziale degli immigrati e una irrealistica dilatazione del mercato del lavoro) e che perciò la presenza degli stranieri non risolverà ma aggraverà i problemi pensionistici.  É del tutto falso affermare che gli stranieri pagheranno le nostre pensioni: lo fanno in parte marginale oggi per la loro età media più bassa, ma impoveriranno ulteriormente in avvenire le sempre più esigue risorse del paese. 

Inps, Boeri: "Abbiamo bisogno di immigrati". Il presidente dell'Inps, Boeri: "Non chiudiamo le frontiere. Abbiamo bisogno di immigrati. Rischio buco da 38 miliardi", scrive Franco Grilli, Martedì 4/07/2017, su "Il Giornale". "Non abbiamo bisogno di chiudere le frontiere. Al contrario, è proprio chiudendo le frontiere che rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale. Siamo consapevoli del fatto che l'integrazione degli immigrati che arrivano da noi è un processo che richiede del tempo e comporta dei costi". Così nella sua relazione annuale il presidente Inps Tito Boeri. "È anche vero che ci sono delle differenze socio-culturali che devono essere affrontate e gestite e che l'immigrazione, quando mal gestita, può portare a competizione con persone a basso reddito nell'accesso a servizi sociali, piuttosto che nel mercato del lavoro - aggiunge - Ma una classe dirigente all'altezza deve avere il coraggio di dire la verità agli italiani: abbiamo bisogno di un numero crescente di immigrati per tenere in piedi il nostro sistema di protezione sociale". Boeri ha inoltre evidenziato come "gli immigrati che arrivano da noi siano sempre più giovani: la quota degli under 25 che cominciano a contribuire all’Inps è passata dal 27,5% del 1996 al 35% del 2015", corrispondenti a "150mila contribuenti in più ogni anno. Un dato, ha fatto rilevare, in grado di compensare il calo delle nascite nel nostro Paese, la minaccia più grave alla sostenibilità del nostro sistema pensionistico, che è attrezzato per reggere ad un aumento della longevità, ma che sarebbe messo in seria difficoltà da ulteriori riduzioni delle coorti in ingresso nei registri dei contribuenti rispetto agli scenari demografici di lungo periodo". "L'analisi fatta oggi dal presidente Boeri conferma semplicemente che gli immigrati stanno sostituendo gli italiani non solo a livello demografico ma anche a livello lavorativo", accusa quindi Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato e responsabile organizzazione e territorio della Lega Nord, "Proprio ieri l'Istat ha rilevato che a maggio la disoccupazione generale è all'11,3%, ovvero 11 italiani su 100 non hanno un lavoro, e che la disoccupazione giovanile è al 37%, una cifra che coincide alla perfezione con quel 35% di giovani immigrati che, stando a Boeri, stanno invece versando contributi all'Inps. I conti sono semplici: il 37% dei nostri ragazzi non ha lavoro perché al loro posto lavorano i giovani immigrati. E stavolta a dirlo non è la Lega ma è il presidente Inps, di nomina renziana, Boeri..."

Tito Boeri: "Senza migranti non pagheremmo le pensioni. Subito incentivi per garantire il futuro ai giovani". Il presidente dell'Inps a Repubblica delle Idee: "I sindacalisti sono un argine contro il populismo ma dovrebbero ridurre per primi i privilegi. Dal taglio dei vitalizi ai politici 140 milioni di euro per i poveri", scrive Rosario Di Raimondo il 16 giugno 2017 su "La Repubblica". "Se chiudessimo le frontiere ai migranti non saremmo in grado di pagare le pensioni. Ogni anno gli stranieri versano otto miliardi di euro in contributi e ne prelevano tre. È vero, un giorno avranno la pensione pure loro, però molti torneranno al loro Paese d'origine. I loro versamenti saranno a fondo perduto". Tito Boeri definisce l'istituto che presiede da un paio d'anni, l'Inps, un ente di "protezione sociale" e non di previdenza. Nel suo intervento a Repubblica delle Idee, intervistato da Francesco Manacorda al centro San Domenico, pensa ai "100mila giovani che ogni anno se ne vanno all'estero" e a chi perde il lavoro a 55 anni, trovandosi in mezzo a una strada. Dice che serve un intervento su vitalizi e le pensioni d'oro, e dà uno schiaffetto ai sindacati, comunque lodati come "un argine contro il populismo": "Ma pure loro devono ridurre i privilegi".

"Anni di crisi hanno creato il populismo". Professore lo è rimasto, Boeri, che nel curriculum ha pur sempre scritto Bocconi ("E mi manca scrivere per Repubblica...", ammette all'inizio). Parte dalle origini del populismo, che di fatto coincidono con l'aumento delle disparità, della rabbia sociale, della povertà: "Anni di crisi hanno creato una forte domanda di protezione sociale. Ma non ci sono state risposte adeguate. Questi anni, uniti al rigetto della classe dirigente hanno scatenato il populismo: "Abbiamo bisogno di un reddito minimo, di un salario minimo per la protezione delle persone, per chi di fronte alla globalizzazione rischia di cadere in povertà".

"Disoccupazione giovanile intollerabile. Subito incentivi". La crisi parte dall'inizio. Dai giovani, formati e laureati, che non trovano lavoro. "Il livello della disoccupazione giovanile è intollerabile. Nel 2015, col Jobs Act, ci sono stati quasi un milione di contratti a tempo indeterminato grazie all'azzeramento degli oneri per le aziende. Allora perché non pensare di fiscalizzare i contributi dei giovani?". In altre parole continuare con questi incentivi, ridurre le tasse a chi assume. "I giovani - continua Boeri - sono già destinati a pensioni più basse, sarebbe una misura di equità. Centomila giovani l'anno vanno all'estero, persone che abbiamo istruito. C'è qualcosa che non funziona".

"I sindacalisti diano l'esempio se vogliono essere credibili". Il presidente dell'Inps torna poi sulla polemica con i sindacati riguardo alle "pensioni d'oro". C'è un meccanismo che da tempo favorisce alcune categorie di dipendenti pubblici, che l'Istituto di previdenza ha cercato di eliminare. Ma la proposta è ferma al ministero del Lavoro. "I sindacati sono un argine contro il populismo, la voce delle persone disperate - premette Boeri -. Ma devono essere credibili, applicare al loro interno le regole in vigore per gli altri lavoratori. Abbiamo provato a eliminare un trattamento di favore per via amministrativa. Avevamo detto ai leader sindacali: fatelo voi. Così non è stato. Quindi abbiamo fatto a modo nostro".

"Dal taglio dei vitalizi 140 milioni di euro per i poveri". Infine un vecchio cavallo di battaglia: il taglio dei vitalizi parlamentari e delle pensioni alte. "Non parliamo di cifre simboliche - avverte Boeri strappando più di un applauso - Penso alle pensioni superiori ai 5mila euro al mese. Chi ha avuto di più dia qualcosa a chi è in difficoltà, a chi ha perso il lavoro a 55 anni". Non solo: "Ricalcolando i vitalizi dei parlamentari con il sistema contributivo, potremmo recuperare 140 milioni di euro l'anno. Pure il doppio se consideriamo pure i consiglieri regionali. Sarebbero altre risorse per le persone povere".

 “Senza migranti niente pensioni”. È ufficiale: Boeri non sa come funziona l’Inps, scrive Filippo Burla il 17 giugno 2017 su "Il Primato Nazionale". Il presidente dell’Inps non sa come funziona l’ente che dirige. Può essere? Certo, specie sei un bocconiano e le esperienze passate (Mario Monti in testa a tutti) non depongono a favore di chi ha fatto curriculum nel prestigioso ateneo milanese. Tito Boeri non sembra intenzionato a discostarsi da questa trama, dato che dimostra una certa lacunosità di ragionamento mentre è impegnato nel tirare la volata alla legge sullo ius soli. “Se chiudessimo le frontiere ai migranti non saremmo in grado di pagare le pensioni”, spiega Boeri alla platea radical chic de “La Repubblica delle idee”, convegno organizzato dall’omonimo quotidiano. Perché? “Ogni anno gli stranieri versano otto miliardi di euro in contributi e ne prelevano tre”, prosegue snocciolando i bilanci dell’ente, che però dimentica fondarsi ormai in larga parte su un sistema di tipo contributivo, per cui ciò che viene versato sarà prima o dopo chiesto indietro sotto forma delle varie prestazioni assistenziali (ad esempio assegni di disoccupazione) o previdenziali (pensioni). Ed è ormai noto che se oggi ancora ancora il sistema si regge, sul lungo termine l’apporto degli stranieri è destinato non a puntellare, bensì a a mandare gambe all’aria i conti dell’Inps. Questo però Boeri, che fa il finto tonto, lo sa benissimo e cerca allora un qualche appiglio per non dover ammette che la situazione economica dell’ente nell’arco di qualche decennio – e il lungo termine è l’unico periodo valido per analizzare un istituto di previdenza sociale – andrà progressivamente deteriorandosi. “È vero – riconosce allora il bocconiano – un giorno avranno la pensione pure loro, però molti torneranno al loro Paese d’origine. I loro versamenti saranno a fondo perduto”. E chi l’ha deciso? Boeri stesso? Sulla base di cosa? Ma soprattutto, se con la scellerata legge sullo ius soli – alla quale, con queste parole, lui stesso tira la voltata – si sta facendo, al contrario, di tutto perché gli immigrati restino qui vita natural durante?

Boeri scandaloso. Facciamo chiarezza e diciamo la verità, scrive Giancarlo Marcotti il 24 luglio 2017. Le recenti esternazioni del Presidente dell’Inps, Tito Boeri, hanno generato un vespaio di polemiche (a ragione!) ma soprattutto hanno creato una confusione pazzesca, nell’opinione pubblica. Ed allora facciamo un po’ di ordine e chiarezza. Gli interventi di Boeri sono stati due! E per la precisione il 19 luglio nel corso dell’Audizione, presso la Commissione esteri alla Camera, davanti al “Comitato permanente sugli italiani nel mondo”. E la seconda, il giorno successivo, il 20 luglio nel corso dell’Audizione alla Camera davanti alla “Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione e sulle condizioni di trattenimento dei migranti”. Quindi sono due interventi diversi nei quali vengono trattate due tematiche diverse che non devono essere confuse, e in particolare nel primo caso Boeri si scaglia contro le “prestazioni assistenziali erogate a residenti all’estero”, mentre nel secondo caso elogia “l’immigrazione regolare dalla quale le casse dell’Inps avrebbero tratto benefici”. Nel mio articolo dal titolo “Sicuri che Tito Boeri stia bene?” pubblicato il 21 luglio mi riferivo esclusivamente al secondo intervento del Presidente dell’Inps, e non posso che ribadire quanto già scritto in quell’occasione, ossia che le argomentazioni di Boeri non possono essere profferite da una persona nel pieno possesso delle proprie facoltà. Dire che nei confronti dell’Inps gli immigrati regolari hanno un “saldo attivo” di 5 miliardi in quanto eseguono versamenti contributivi per 8 miliardi di euro mentre al momento usufruiscono di “pensioni ed altre prestazioni sociali” per 3 miliardi di euro, è un ragionamento che farebbe un avventore di un bar di quart’ordine … solo se ubriaco fradicio. Nel mio articolo non mi sono neppure dilungato su altre assurdità dette dal Presidente dell’Inps, ed allora colgo l’occasione per farlo ora. Boeri infatti afferma tra l’altro “Abbiamo calcolato che fin qui gli immigrati ci hanno regalato, tra virgolette, circa un punto di pil di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni. E ogni anno questi contributi a fondo perduto degli immigrati valgono circa 300 milioni di euro di entrate aggiuntive nelle casse dell’Inps”.

Caro Sig. Tito Boeri, questi sono numeri a capocchia. Intanto dovrebbe specificare meglio: come sono stati eseguiti quei “calcoli”? Ma anche avendo una fiducia sconfinata in coloro che guidano le nostre Istituzioni e dando credito al Presidente dell’Inps basta fare un semplicissimo conto per capire che sta dando dei numeri a capocchia. Boeri ci dice che i “contributi a fondo perduto, chiamiamoli così, degli immigrati valgono circa 300 milioni” all’anno. Ebbene premesso che non si capisce come possa esser stata calcolata una simile cifra (come si può infatti stabilire che dei contributi versati oggi non si tradurranno in pensioni domani), e dando per scontato che il fenomeno immigratorio in Italia è certamente recente e non risale a più di 25 anni fa, se anche fosse vero che gli immigrati versano 300 milioni di euro all’anno di entrate aggiuntive nelle casse dell’Inps (cosa del tutto inverosimile), sapete in quanti anni si raggiunge la cifra di 1 punto di pil? Ossia 16,5 miliardi di euro? IN 55 ANNI!!!!!!

Basta fare una divisione 16.500.000.000 diviso 300.000.000 = 55

Cioè secondo i “calcoli” di Boeri negli ultimi 55 anni, ogni anno, i lavoratori immigrati stranieri ci hanno versato 300 milioni di euro a fondo perduto, ossia “contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni”.

Quindi, caro Boeri, secondo te già 55 anni, fa cioè nel 1962, gli immigrati ci “regalavano” 300 milioni di euro (anzi a quel tempo quasi 581 miliardi di lire!!!) e così ogni anno successivo, nel 1963, nel 1964 … fino a oggi?!?

Ma dai!!! Mai sentita una idiozia di tale portata. E la cosa più scandalosa è che nessuno (nemmeno l’opposizione) fa notare a Boeri che sta dicendo delle fesserie colossali!!! Solo per darvi un’idea della panzana detta da Boeri, sapete a quanto ammontava nel 1962 (tradotto in euro) l’intero debito pubblico italiano? A 4,64 miliardi di euro! Ed era pari al 34,17% del Pil che a sua volta ammontava a 13,586 miliardi di euro (IL DEBITO PUBBLICO ERA PARI AL 34,17% del PIL!!! Ma ci pensate?).

Volete rapportarlo ai giorni nostri? Cioè calcolare l’incidenza dell’inflazione negli ultimi 55 anni? In termini reali quindi il debito pubblico italiano nel 1962 era pari a poco più di 103 miliardi di euro (pensate oggi sono 2.260 miliardi!!! ossia 22 volte tanto) mentre il Pil era di 301,6 miliardi (oggi è di poco superiore a 1.650 miliardi!!! quindi solo 5,5 volte tanto). E tutto questo, naturalmente, dando per assodato che gli immigrati ci “regalino” “contributi a fondo perduto” cosa del tutto falsa e ridicola. C’è però chi vuol far notare che forse Boeri si riferisce ad immigrati regolari che hanno prestato la loro attività lavorativa in Italia, ma solo per un breve periodo, e che per questo non avrebbero diritto ad un assegno pensionistico. NIENTE DI PIU’ FALSO!!!

Anzi è proprio vero il contrario, ossia: I LAVORATORI IMMIGRATI, IN QUESTO AMBITO, HANNO MAGGIORI DIRITTI RISPETTO AGLI ITALIANI. Solo in Italia poteva accadere una cosa simile. In pratica per avere il diritto a vedersi riconosciuta una pensione di vecchiaia col metodo contributivo, un italiano deve avere all’incirca 66 anni ed almeno 20 anni di contribuzione, mentre per uno straniero rimpatriato non viene richiesta la contribuzione minima di 20 anni. Non ci credete? Anch’io non ci credevo. Ed allora ho consultato il sito dell’Inps ed ho trovato questo:

Trattamenti pensionistici ai lavoratori stranieri rimpatriati. Cliccateci sopra e leggete voi stessi: “Nel caso di pensione di vecchiaia calcolata con il sistema contributivo, i lavoratori stranieri assunti dopo il 1° gennaio 1996 possono percepire, in caso di rimpatrio, la pensione di vecchiaia al compimento del 66° anno di età, sia per uomini che per donne, oltre adeguamenti alla speranza di vita, e anche se non sono maturati i previsti requisiti (dunque, anche se hanno meno di 20 anni di contribuzione)”.

Più chiaro di così!!! Ribadisco, questo è riportato sul sito dell’INPS. In ogni caso, per concludere con questo argomento, ricordiamo che, proprio perché il fenomeno migratorio in Italia è piuttosto recente, le pensioni erogate a lavoratori stranieri che abbiano prestato la loro attività lavorativa, per un periodo di tempo più o meno lungo, nel nostro Paese sono al momento in numero abbastanza esiguo. Ed ora fatemi fare anche alcune considerazioni sull’altra audizione di Boeri, quella avvenuta il giorno precedente e riguardante le “prestazioni assistenziali erogate a residenti all’estero”, della quale NON mi ero occupato nell’articolo citato all’inizio. In questo caso TUTTI i giornalisti della carta stampata italiana, ed i media in generale, hanno dimostrato per l’ennesima volta la loro totale insipienza.

Ebbene, ecco alcuni titoli apparsi sui media italiani in merito: “373 mila pensioni italiane pagate all’estero. Tito Boeri: “Spendiamo 1 miliardo e in parte finanziamo la spesa sociale di altri Paesi. È un’anomalia” (Huffington Post), “Boeri: “Paghiamo 1 miliardo di pensioni all’estero, ma hanno versato contributi per pochi anni” (Repubblica), “Pensionati, fuga all’estero dove le tasse sono più basse: ecco i paradisi scelti dagli italiani” (Il Mattino). Insomma se ci limitiamo nella lettura dei titoli sembra proprio che Boeri ce l’abbia con l’ultima moda degli italiani, ossia quella di andarsi a godere gli anni della pensione in Paesi nei quali il costo della vita è inferiore al nostro e soprattutto è estremamente più basso il carico fiscale. Ma non è così! Boeri non si riferisce a quelle persone! Ed in molti cascano nell’errore. Anche fra coloro che criticano Boeri. Come ad esempio il responsabile economico della Lega Nord, Claudio Borghi oppure l’economista Giulio Sapelli che rimproverano al Presidente dell’Inps di essere contraddittorio. Da un lato infatti egli sarebbe un europeista convinto e fautore del libero mercato, ma nel contempo si lamenta del fatto che i cittadini siano liberi di circolare e stabilire la propria residenza all’interno dei Paesi dell’Unione.

NESSUNO, MA PROPRIO NESSUNO, HA FATTO UN SEMPLICISSIMO CALCOLO. Tutti i giornali riportano i dati forniti da Boeri, ossia 1 miliardo di euro per 373.000 prestazioni. Anche in questo caso basta fare una semplicissima divisione: 1.000.000.000/ 373.000 = 2.681 euro. Ossia una media di 2.681 euro all’anno … NON STIAMO PARLANDO DI PENSIONI (come comunemente intendiamo con quel termine), ma come aveva ben specificato Boeri di “prestazioni assistenziali erogate a residenti all’estero”.

Le “prestazioni assistenziali” erogate dall’Inps sono essenzialmente di due tipi: l’assegno sociale, che viene riconosciuto a cittadini in condizioni economiche disagiate, e gli assegni a favore delle persone con invalidità. E, visto l’emolumento medio annuale che abbiamo facilmente calcolato (2.681 euro), è chiaro che ci si riferisce proprio a questa casistica. Quindi nulla a che fare con gli italiani che, al termine della loro attività lavorativa durata 30 o 40 anni, hanno scelto di trasferire la loro residenza all’estero. In quel caso ovviamente, avremmo dovuto parlare di vere e proprie pensioni e di importi medi certamente più elevati. Non voglio in questo caso difendere Boeri, perché è proprio lui che (volutamente?) ha creato confusione. Egli ha specificato che queste erogazioni vengono riconosciute a persone che hanno durate di contribuzione “molto basse”, per un terzo addirittura inferiori ai tre anni, per il 70% inferiori ai 6 anni e per l’83% inferiori ai dieci anni. In particolare egli ha precisato che: “si tratta in tutti i casi di durate contributive molto basse e a fronte di queste i beneficiari possono accedere a prestazioni assistenziali quali le integrazioni al minimo o la quattordicesima. Quindi c’è chiaramente uno iato tra l’entità e la durata dei contributi e la possibilità ad accedere a delle prestazioni che vanno molto al di là dei contributi versati”. Chi sono dunque queste persone? Visto che Boeri non ce lo dice provo ad ipotizzare che si stia riferendo in particolare ad italiani che abbiano iniziato la loro attività lavorativa nel nostro Paese, ma che dopo poco tempo siano emigrati. In ogni caso Boeri si lamenta della mancata “reciprocità”, ma certamente sono anche tanti gli italiani ritornati nel nostro Paese dopo aver lavorato all’estero e che godono, perciò, di pensioni erogate loro da Istituti di previdenza di altri Stati. Infine Boeri aggiunge che “Non mancano poi “le pratiche di prestazioni indebite”, che il Presidente dell’Inps ha quantificato in “circa 101 mila, di cui 60 mila sono in corso di recupero su pensione, mentre le rimanenti vengono riscosse con rimesse in denaro. L’importo complessivo da recuperare è di circa 270 milioni di euro”. La “maggior parte degli indebiti è in Argentina (27,5%), seguono Australia (quasi 15%), Francia, Canada e Usa” (tutte e tre con il 9%)”. E nessuno aveva dubbi nemmeno sulla proliferazione di “pratiche indebite”, ma, caro Boeri, è proprio l’Istituto che tu presiedi a dover scoprire i soliti “furbetti” ed evitare così che venga sperperato denaro pubblico. Giancarlo Marcotti per "Finanza In Chiaro"

Inps: immigrati in pensione anche se non hanno maturato i contributi, scrive Salvatore Recupero l'1 ottobre 2016 su "Il Primato nazionale". In questo periodo l’Inps è sempre al centro delle cronache, anche se stavolta l’Istituto nazionale di previdenza sociale non fa parlare di sé per qualche esternazione del suo presidente Tito Boeri. A questo giro il casus belli riguarda il trattamento pensionistico dei lavoratori extracomunitari. A sollevare il caso è Francesco Borgonovo sul quotidiano La Verità, diretto da Maurizio Belpietro. Borgonovo denuncia il trattamento di favore riservato ai salariati stranieri: “L’extracomunitario che, dopo il primo gennaio 1996, ha versato contributi all’Inps, se torna in patria ha diritto alla pensione, anche se non ha raggiunto il minimo di versamenti previsti dalla normativa vigente”. Incredibile ma vero. Un italiano per avere diritto alla pensione di vecchiaia deve avere versato nelle casse dell’Inps almeno venti anni di contributi. Il migrante, invece può ricevere lo stesso trattamento, anche se non ha maturato gli stessi requisiti. Non si capisce perché il nostro stato sociale continua ad essere così esterofilo. L’unica certezza è che la denuncia di Borgonovo non si basa su una maliziosa interpretazione di qualche circolare ministeriale. Al contrario, basta andare sul portale dell’Istituto nazionale di previdenza sociale, per dimostrare quanto scritto dal giornalista del quotidiano diretto da Belpietro. Infatti, alla voce “Trattamenti pensionistici ai lavoratori extracomunitari rimpatriati” si può leggere, quanto segue: “Si devono distinguere due casi, a seconda che la pensione venga calcolata con il sistema contributivo o retributivo. Nel primo caso, i lavoratori extracomunitari assunti dopo il primo gennaio 1996, possono percepire, in caso di rimpatrio, la pensione di vecchiaia (calcolata col sistema contributivo) al compimento del sessantaseiesimo anno di età e anche se non sono maturati i previsti requisiti (dunque, anche se hanno meno di venti anni di contribuzione). Nel secondo caso, i lavoratori extracomunitari assunti prima del 1996 possono percepire, in caso di rimpatrio, la pensione di vecchiaia (calcolata con il sistema retributivo o misto) solo al compimento del sessantaseiesimo anno di età sia per gli uomini che per le donne e con venti anni di contribuzione”. Come si vede, c’è una discriminazione gravissima nei confronti di chi ha la sola colpa di essere italiano. Una disparità di trattamento che non si riesce neanche a circoscrivere. Perché non si capisce quale sia il minimo di contributi che il lavoratore allogeno deve versare per percepire l’assegno pensionistico. Questo contraddice anche la normativa dello stesso ente pubblico che definisce la pensione di vecchiaia “come una prestazione economica costituita dal versamento mensile di una somma di denaro da parte dell’Inps in favore di un lavoratore che abbia raggiunto una determinata età e che abbia versato un certo numero di contributi”. Veniamo ora alle responsabilità. Stavolta non c’entra la Boldrini. Il responsabile va cercato nel centro destra. Diciamo che è stata una colossale svista del duo Fini-Bossi. Infatti, la legge 189/2002 (la legge Bossi-Fini, appunto) prevede che al lavoratore extracomunitario che rientra nel sistema contributivo puro (quello attualmente in vigore) venga pagata la pensione di vecchiaia anche se l’interessato non ha raggiunto il minimo dei versamenti previsto dalla normativa vigente. Se ancora ce ne fosse bisogno ecco un altro esempio del dilettantismo politico del governo di centro destra. Anche se è bene ricordare, come fa il quotidiano La Verità, che: “La legge 189/2002 ha posto fine a una incredibile facoltà riconosciuta agli extracomunitari dalla legge 335/1995 (legge Dini), in base alla quale chi rientrava in patria senza avere raggiunto il diritto a pensione poteva chiedere la restituzione dei contributi pagati, compresa la quota a carico dell’azienda”. Da notare la generosità di Lamberto Dini nei confronti dei migranti, che conferma la predisposizione benevola della grande finanza nei confronti del fenomeno migratorio. In conclusione, dunque, viene sfatato il mito del migrante che, come Atlante, si fa carico della tenuta del nostro sistema previdenziale. L’immigrato che decide di rientrare in patria, insomma, non perde i contributi versati. Pertanto, nelle casse dell’Inps non c’è alcun tesoretto lasciato dai lavoratori stranieri. Recupero Salvatore

Bomba sulle pensioni: gli immigrati faranno fallire l'Inps, scrive l'1 Maggio 2016 "Libero Quotidiano". C'è una tegola che grava sui conti dell'Inps. Un rischio concreto che però i tecnici e i politici cercano di occultare sotto strati di buoni sentimenti. Quante volte abbiamo sentito ripetere che "gli immigrati salveranno le nostre pensioni"? Beh, le cose stanno in un modo un po' diverso. A spiegarlo è Gian Carlo Blangiardo, docente all'Università di Milano Bicocca, tra i più autorevoli demografi in Italia. Non un pericoloso populista, dunque, ma uno studioso di rango, senza pregiudizi (lo dimostra il titolo di uno dei saggi dai lui curati sull’immigrazione: L' immigrato. Una risorsa a Milano). Blangiardo snocciola dati, e ci fa aprire gli occhi su un problema molto serio. Giorni fa La Stampa ha pubblicato un articolo sul futuro prossimo del nostro sistema pensionistico. E ha indicato il 2030 come «anno zero», quello in cui i conti dell'Inps saranno in pericolo. Che cosa accadrà? "Arriveremo al punto in cui il sistema pensionistico sarà a rischio a causa delle variazioni dei potenziali pensionati. Gli ingressi nel sistema pensionistico tenderanno ad aumentare e crescerà il divario fra chi lascia la pensione (perché muore) e chi ne riceve una. Allora il sistema pensionistico dovrà cercare di far quadrare i conti. Ma c' è un altro problema".

Ovvero?

"È quello che io chiamo "effetto invecchiamento importato"".

Di che cosa si tratta?

"A partire dal 2030 avremo numerose persone non nate in Italia che raggiungeranno l'età per andare in pensione (attorno ai 65 anni). Parliamo di circa 200 mila persone all' anno che si aggiungono ai nostri figli del baby boom degli anni 60. Quindi non solo avremo a che fare con persone nate e invecchiate in Italia, ma anche con stranieri nati altrove e invecchiati qui".

Quali saranno le conseguenze di questo "invecchiamento importato"?

«Ci saranno per l'appunto circa 200 mila persone l'anno che diverranno anziane e avranno diritto alla pensione. Il fatto è che si tratta di soggetti che hanno iniziato tardi a contribuire. Perché magari si sono regolarizzati in età avanzata, anche a quarant' anni. Succederà quindi che queste persone avranno diritto alla pensione, ma i loro assegni saranno estremamente bassi, forse sotto i minimi di decenza. Se fra quindici anni ci troveremo tantissima gente in queste condizioni, qualcuno - anche legittimamente - dirà che queste persone non hanno abbastanza, e che si deve intervenire».

Nel senso che lo Stato dovrà in qualche modo aumentare quelle pensioni basse.

«È un problema latente, ma succederà. E dobbiamo tenerlo presente al momento di fare leggi e riforme».

Molti sostengono - lo ha detto anche il presidente dell'Inps Tito Boeri- che gli immigrati sono necessari per pagare le nostre pensioni.

"Questa è una affermazione che va letta nel modo giusto. Le faccio un esempio su di me. Fra tre anni andrò in pensione. Se guardo quello che verso oggi, tra l'università e il resto, e considero quello che ottengo in cambio, risulto una sorta di benefattore. Ma non sarà sempre così. Io mi aspetto che presto lo Stato mi renda quando andrò in pensione quello che io ho versato".

Lo stesso ragionamento vale per gli stranieri che oggi «anticipano» denaro che in seguito dovranno legittimamente ricevere.

"Sugli immigrati non possiamo limitarci a fare un discorso di cassa. Oggi il bilancio dell'immigrazione può essere anche positivo, perché abbiamo persone giovani che versano i contribuiti e non incassano. Boeri dice una cosa vera quando sostiene che i soldi degli stranieri servono anche a pagare le pensioni erogate oggi. Ma il ragionamento non può fermarsi qui. Dobbiamo considerare il sistema di competenza. E cioè calcolare che quello che viene versato oggi a fini contributivi è una anticipazione. Gli immigrati non stanno dando un contributo al Paese: stanno versando una somma che sta lì in attesa di essere restituita".

Quindi l'arrivo degli immigrati non salverà il nostro sistema pensionistico, tutt'altro.

«Ripeto: non si possono fare solo discorsi di cassa. Certo, un vantaggio l'immigrazione lo porta, da quel punto di vista. Ma i contributi versati oggi dagli immigrati giovani non risolvono il problema dell'invecchiamento della popolazione».

Perché anche gli immigrati invecchiano, appunto.

"Per invertire la tendenza sull'invecchiamento, servirebbero flussi di immigrati tali da pompare costantemente persone giovani, al ritmo di almeno 400-500 mila individui all'anno".

Beh, è quello che alcuni politici e analisti auspicano o teorizzano.

"Certo, una cosa del genere rallenterebbe l'invecchiamento. Ma porrebbe una serie di problemi collaterali. Come si fa a integrare un numero così alto di persone? Da tempo studiamo il problema dell'integrazione. Quello che emerge è che la vera soluzione è il tempo. Più c' è anzianità migratoria - cioè più gli immigrati passano del tempo qui - più c' è la possibilità che si integrino. Ma se hai ogni anno dei flussi di giovani così alti, come si fa a integrare? Il sistema ha dei limiti".

Dunque oggi l'immigrazione non risolve il problema dell'invecchiamento.

"Lo sposta. Gli immigrati ci danno una boccata d' ossigeno. Poi però anche gli immigrati invecchieranno e i nodi verranno al pettine".

Nel senso che dovremo restituire i loro i contributi che oggi versano per avere domani una pensione.

"Certamente, visto che solo una minima parte rientrerà al Paese d' origine. Del resto, scusate, ma non possiamo pensare che gli stranieri siano privi di buon senso. Se uno arriva qui da giovane e poi invecchia, perché dovrebbe andarsene proprio in tarda età? E cioè quando ha più bisogno di assistenza, quando magari ha figli e nipoti, insomma una famiglia? Dovrebbero tornare a casa da vecchi? Ma nemmeno per idea. Restano qui, e usufruiscono dei servizi. Hanno capito come funziona il sistema e se hanno dei diritti li esercitano. È molto raro che il sogno di tornare in patria si concretizzi in vecchiaia. Anche perché i legami si allentano. Se uno vuole tornare a casa lo fa magari durante le vacanze, non certo rinunciando alla cittadinanza o anche solo alla residenza e ai benefici che porta".

O magari torna a vivere in patria, ma con la pensione italiana. Succede già. In sostanza, quello che gli immigrati ci danno oggi dovremo renderlo poi, probabilmente con gli interessi.

"Sì, quello che ci danno dovremo restituirlo, forse anche di più. Prendiamo una cosa che dice Boeri, e cioè che ci sono gli immigrati che versano contributi, magari per un periodo limitato, e poi se ne vanno. Motivo per cui abbiamo accumulato un tesoretto da 3 miliardi. Sinceramente, io penso che se quel tesoretto non viene utilizzato in fretta, rischiamo seriamente di perderlo. Qualcuno dirà che non è giusto tenerselo. Prima o poi l'Unione europea o qualche altro organismo simile sosterrà che non stiamo rispettando princìpi di equità, e che dobbiamo restituire il tesoretto. Certo, ci vorrà tempo, ci vorranno accordi con i Paesi di provenienza degli immigrati. Ma presto o tardi chi ha versato contributi qui - fosse anche solo per un paio d' anni - vorrà che gli siano restituiti. E il tesoretto si ridimensionerà, per lo meno".

Oltre alle pensioni, il problema incombente è quello della sanità.

"È chiaro che ci sono dei rischi anche per il sistema sanitario, che per ora scricchiola ma tiene. Fra circa quarant' anni in Italia ci saranno 1,2 milioni di ultra novantacinquenni. Oggi sono meno di 200 mila. Tenendo presente che praticamente tutti prendono l'accompagnamento, cioè 500 euro al mese, fate i conti. Moltiplicate 1,2 milioni per 500 euro e otterrete quanto ci costerà tutto questo".

Eppure, dicono i dati dell'istituto «Osserva-Salute», l' aspettativa di vita degli italiani è calata. Per la prima volta dal Dopoguerra siamo di fronte a una inversione di tendenza.

"Diciamo la verità. L' aspettativa di vita degli italiani è già calata quattro volte dal Dopoguerra. Per la precisione nel 1975, nel 1980, nel 1983 e nel 2003. E tutte le volte che è diminuita (di 0,2 massimo 0,3 anni), l'anno dopo è aumentata di 0,6-0,7 anni. Può darsi che succeda anche nel 2016. La tendenza di fondo indica un progressivo aumento della sopravvivenza. E anche per questo bisogna vedere se il sistema sanitario potrà tenersi in piedi". Intervista di Francesco Borgonovo.

Regaliamo agli immigrati la pensione sociale E loro tornano in patria a vivere come nababbi. Per la legge bisogna avere la residenza stabile in Italia. Ma gli immigrati si mettono in tasca i soldi e se ne vanno. E l'Agenzia delle entrate non può neppure controllare se sono davvero poveri, scrive Matteo Carnieletto, Lunedì 2/03/2015, su "Il Giornale". Si godono la vecchiaia a casa loro, campando alle spese dello Stato italiano. Gli stranieri che ottengono l'assegno sociale e poi tornano nel proprio Paese sono sempre di più. Anche perché è facile: basta una semplice autocertificazione. E anche se l'Inps scopre che qualcuno è scappato in patria, può farci poco o nulla. Molto spesso gli immigrati conoscono la legge (e i suoi benefici) meglio degli italiani. Sanno come aggirare le regole e come piegarle ai propri interessi. Accade anche con l'assegno sociale, una prestazione economica che viene concessa ai cittadini, italiani e stranieri, che si trovano in condizioni economiche particolarmente gravi. Il reddito annuo di chi lo richiede non deve superare 5.800 euro. Ottenerlo, soprattutto per gli stranieri, è abbastanza facile. Basta avere residenza stabile e abituale da dieci anni in un Comune italiano, essere titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo, non superare la soglia di reddito richiesta e, ovviamente, avere compiuto 65 anni. Solo in Lombardia, come ci assicura una fonte dell'Inps, sono circa 5mila gli stranieri che hanno richiesto questo tipo di assegno. Gran parte di questi, però, una volta intascato il malloppo, è tornata nel proprio Paese d'origine, dove ha potuto condurre - anzi, conduce tuttora - una vita da nababbo alle nostre spalle. Quando un italiano fa richiesta per poter ottenere l'assegno sociale, invece, scattano tutti i controlli di routine. Vengono setacciati i dati dell'Agenzia delle entrate, della Camera di commercio e dell'Inps e si verifica che chi ha richiesto l'assegno sia in regola. Con gli stranieri questi controlli sono tecnicamente impossibili perché non sempre all'estero - soprattutto nei paesi dell'Est Europa e del Nord Africa - esistono banche dati. La valutazione dei limiti di reddito di chi ne fa richiesta si basa quindi su una semplice (e incontestabile) autocertificazione. E quando l'Inps chiama gli stranieri a rapporto, ecco che arrivano le scuse più disparate: «Ho perso il passaporto», «non riesco più a tornare in Italia», «un mio parente è malato gravemente». Ma se c'è qualcuno che proprio non riesce a trovare i documenti per rientrare c'è anche, come ci racconta una fonte, chi ha più passaporti (italiano, straniero, rinnovato) e presenta all'Inps quello che conviene maggiormente, ovvero quello che non certifica l'espatrio. Se paragoniamo, poi, l'assegno sociale alle cosiddette «pensioni minime» si nota che chi usufruisce dell'assegno sociale - ovvero chi non ha lavorato o non è riuscito a versare contributi adeguati - prende all'incirca quanto chi ha lavorato tutta una vita e che, magari, percepisce la pensione minima: 448,52 euro contro 501. Poco più di 50 euro di differenza. A 70 anni scatta però la maggiorazione sociale e, così, la forbice si riduce ulteriormente. Per il 2013, per esempio, la differenza è stata di soli 13 euro. Ma c'è un'altra beffa per i lavoratori italiani: la legge Fornero stabilisce che un uomo vada in pensione a 66 anni e 3 mesi. Ben un anno in più rispetto a quanto richiesto per l'assegno sociale. Significa che uno straniero che magari non abita nemmeno in Italia possa godere della pensione prima di un nostro connazionale. Come tamponare questo enorme flusso di denaro? Si potrebbe usare la tessera sanitaria regionale, che ha sostituito il vecchio codice fiscale e che viene impiegata anche come carta nazionale dei servizi, da «strisciare» alla frontiera un po' come si fa quando si timbra il cartellino al lavoro. In questo modo si potrebbe attivare un sistema di allerta nei data base dell'Inps che, in automatico, bloccherebbero la prestazione assistenziale. Un'alternativa potrebbe essere introdurre l'obbligo del ritiro in contanti del denaro (solo per gli stranieri, sia chiaro) abolendo la possibilità di accrediti sui conti correnti bancari o postali, così da certificare mensilmente, con firma al ritiro, la dimora effettiva e abituale nello Stato italiano. Infine, una terza ipotesi: stilare un vademecum di controlli per gli uffici, in modo da sottrarre l'iniziativa al libero arbitrio dei funzionari e facilitare l'accesso alle (poche) banche dati esistenti. Intanto, però, il saccheggio continua.

Contributi: italiani perdono tesoretto. A stranieri pensione anche dopo 5 anni, scrive il 2 ottobre 2016 Laura Naka Antonelli su "Wall Street Italia" jornal". Se non versano contributi per almeno 20 anni, i lavoratori italiani perdono tutto il tesoretto versato. “Gli immigrati (invece) prendono la pensione anche con cinque anni di contributi”. E’ quanto riporta un articolo di “La Verità”, nuovo quotidiano fondato da Maurizio Belpietro sbarcato nelle edicole da qualche giorno. L’articolo, firmato dalla penna di Francesco Borgonovo, sottolinea: “E’ tutto scritto lì, sul sito dell’Inps. Con tagliente semplicità, quasi con una punta di burocratico compiacimento, viene illustrato il privilegio di cui godono i lavoratori immigrati”.

Di fatto, continua: “non è vero che gli stranieri lasciano un tesoretto: se tornano a casa possono riprendersi ciò che hanno dato. E senza le restrizioni previste per gli italiani. Riscuotono anche se non hanno effettuato i versamenti minimi”.

L’immigrato che decide di rientrare in patria, insomma, non perde i contributi versati.

“Tutt’altro. Ha diritto ad avere una pensione di vecchiaia erogata dall’Inps esattamente come i cittadini italiani. E qui la questione si fa interessante. Il sito dell’Inps spiega che, per “gli extracomunitari rimpatriati” si devono distinguere due casi, “a seconda che la pensione venga calcolata con il sistema contributivo o retributivo”.

E qui si può andare a leggere quanto risulta dalla pagina del sito Inps che porta il nome “Prestazioni pensionistiche rimpatriati”.

Così sotto il titolo “Trattamenti pensionistici ai lavoratori extracomunitari rimpatriati”: “in caso di rimpatrio definitivo il lavoratore extracomunitario con contratto di lavoro diverso da quello stagionale conserva i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati in Italia e può usufruire di tali diritti anche se non sussistono accordi di reciprocità con il Paese di origine”.

Sotto il sottotitolo “Pensione di vecchiaia”: Si devono distinguere due casi, a seconda che la pensione venga calcolata con il sistema contributivo o retributivo. Nel primo caso, i lavoratori extracomunitari assunti dopo il 1° gennaio 1996, possono percepire, in caso di rimpatrio, la pensione di vecchiaia (calcolata col sistema contributivo) al compimento del 66° anno di età e anche se non sono maturati i previsti requisiti (dunque, anche se hanno meno di 20 anni di contribuzione). Nel secondo caso, i lavoratori extracomunitari assunti prima del 1996 possono percepire, in caso di rimpatrio, la pensione di vecchiaia (calcolata con il sistema retributivo o misto) solo al compimento del 66° anno di età sia per gli uomini che per le donne e con 20 anni di contribuzione.

Questo, quanto scrive l’Inps e riporta il quotidiano La Verità. Andando a scavare più in profondità, si nota tuttavia un articolo pubblicato sul sito Pensionioggi.it che sulla pensione di vecchiaia scrive praticamente la stessa cosa, ma che ricorda come sia stata la legge Bossi-Fini del governo Berlusconi a stabilire il “favoritismo” di cui parla il giornale di Belpietro. Se l’intenzione era di attaccare il governo Renzi o in generale la sinistra, insomma, Belpietro ha fatto una bella gaffe.” Ai lavoratori extracomunitari con rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato rimpatriati spetta al compimento dei 66 anni di età e 7 mesi (65 anni e 7 mesi le donne). Dal 2018 il requisito sarà parificato a 66 anni e 7 mesi per entrambi i sessi. Fin qui siamo nel solco della norma di carattere generale, quella che non fa differenze in base alla nazionalità del lavoratore. Ma è un altro discorso se si guarda al requisito contributivo (quello appunto citato dal quotidiano La Verità). Qui occorre dividere la materia in due antitetiche situazioni: 1) se la pensione è liquidata con il sistema retributivo o misto (cioè se il lavoratore è in possesso di contribuzione al 31 dicembre 1995), si applica in toto la normativa italiana, senza alcuna deroga; perciò la colf/badante dovrà raggiungere il minimo dei 20 anni di versamenti per avere diritto alla pensione; 2) se il lavoratore ricade, invece, nel contributivo puro (cioè non era in possesso di contribuzione al 31 dicembre 1995) la legge Bossi-Fini (legge 189/2002)prevede che la pensione venga pagata anche se l’interessato non ha raggiunto il minimo dei versamenti previsto dalla normativa vigente. Per i cittadini italiani e i comunitari, invece, la pensione di vecchiaia nel sistema contributivo può essere liquidata solo in presenza di almeno 20 anni di contributi a condizione, peraltro, che l’importo dell’assegno non risulti inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale) oppure, se non è rispettato il predetto importo soglia a 70 anni e 7 mesi in presenza di almeno 5 anni di contributi effettivi. In sostanza per gli extracomunitari nel sistema contributivo, la pensione viene pagata dall’Italia qualunque sia il numero dei contributi versati”. E a tal proposito l’articolo del quotidiano La Verità mette in evidenza che “per gli stranieri, tutte queste restrizioni non esistono”, visto che “l’extracomunitario che, dopo il 1° gennaio 1996, ha versato contributi all’Inps, se torna in patria ha diritto alla pensione anche se non ha raggiunto il minimo di versamenti previsti dalla normativa vigente”. Ora, anche se Pensioni Oggi rileva che “è opportuno ricordare che la legge 189/2002 (dunque Bossi-Fini) ha posto fine a una incredibile facoltà riconosciuta agli extracomunitari dalla legge 335/1995 (legge Dini), in base alla quale chi rientrava in patria senza avere raggiunto il diritto a pensione poteva chiedere la restituzione dei contributi pagati, compresa la quota a carico dell’azienda”, si nota come l’articolo del quotidiano di Belpietro fa riferimento a una normativa non voluta dal governo Renzi, ma addirittura dal governo Berlusconi.

Immigrati in pensione con 5 anni di contributi, scrive il17 Ottobre 2016 maicolengel su Butac. Il 30 settembre 2016 sulla testata cartacea La Verità compare questo articolo a firma Francesco Borgonovo. L’articolo non essendo riportato sul web ci ha messo un po’ ad entrare in circolazione, ma nell’ultima settimana una foto che inquadra l’articolo ha cominciato ad essere condivisa un po’ ovunque. Le segnalazioni sono fioccate.

Ma è vero che: Gli immigrati prendono la pensione anche con cinque anni di contributi?

Per i più pigri: Sì è vero, gli immigrati possono prendere la pensione di vecchiaia a 66 anni col sistema contributivo anche con soli 5 anni di contributi. Anche gli italiani prendono la pensione di vecchiaia col sistema contributivo con soli 5 anni di versamenti, solo che devono raggiungere i 70 anni d’età per averne diritto. La differenza d’età è data dalla modifica dell’aspettativa di vita, applicata agli italiani, non applicata (ad oggi) agli stranieri.

Per i più curiosi: Borgonovo nel suo articolo ci spiega: Se un immigrato ha vissuto e lavorato per un periodo in Italia, non è vero che se decide di rientrare in patria perde i contributi versati. Tutt’altro. Ha diritto ad avere una pensione di vecchiaia erogata dall’Inps esattamente come i cittadini italiani. E qui la questione si fa interessante. Il sito dell’Inps spiega che, per gli “extracomunitari rimpatriati” si devono distinguere due casi, “a seconda che la pensione venga calcolata con metodo contributivo o retributivo”. Per gli stranieri che rientrano nel retributivo tutto avviene come per gli italiani: “I lavoratori extracomunitari assunti prima del 1996 possono percepire, in caso di rimpatrio, pensione di vecchiaia (calcolata con il sistema retributivo o misto) solo al compimento del 66° anno di età sia per gli uomini che per le donne e con 20 anni di contributi.” Giusto, nessuna differenza in base alla nazionalità o alla cultura.

La faccenda cambia nel caso in cui gli stranieri rientrino nel sistema contributivo. Spiega l’Inps che i “lavoratori extracomunitari assunti dopo il 1° gennaio 1996, possono percepire, in caso di rimpatrio, la pensione di vecchiaia (calcolata col sistema contributivo) al compimento del 66° anno d’età e anche se non sono maturati i previsti requisiti (dunque anche se hanno meno di 20 anni di contribuzione)”.

Tutto corretto ma…Borgonovo non racconta bugie, quanto riportato qui sopra è reale, quello che però Borgonovo non evidenzia a sufficienza (pur riportandolo poco dopo) è che un italiano avrà le stesse identiche condizioni a 70 anni, 4 anni dopo. L’età è variata in base all’aspettativa di vita nel nostro paese, e varierà ulteriormente come ci spiega il sito dell’INPS: al compimento dei 70 anni di età e con 5 anni di contribuzione “effettiva” (obbligatoria, volontaria, da riscatto) – con esclusione della contribuzione accreditata figurativamente a qualsiasi titolo – a prescindere dall’importo della pensione. Per effetto dell’adeguamento alla speranza di vita il requisito anagrafico dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, è di 70 anni e 3 mesi e dal 1° gennaio 2016 al 31 dicembre 2018 è di 70 anni e 7 mesi. Dal 2019 lo stesso requisito potrà subire ulteriori incrementi per effetto dell’adeguamento alla speranza di vita. Fino al 2007 l’età pensionabile era di 57 anni, nel 2008 è stata aumentata a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne, con la possibilità (sempre col sistema contributivo) di averne accesso anche solo con 5 anni di contributi. Il fatto che l’età sia stata spostata in avanti è dovuto solo ed unicamente ad un adeguamento delle aspettative di vita. Adeguamento che evidentemente non c’è stato per il lavoratori extracomunitari che siano tornati a casa, dove non è detto che le aspettative di vita siano aumentate. Esattamente come succede in Italia, l’aumento previsto per il 2019 pare non ci sarà, se le statistiche confermeranno che l’aspettativa di vita si sia fermata, riportava il Messaggero: I dati recenti, infatti, attestano che per la prima volta nella storia del nostro Paese si registra un calo dell’aspettativa di vita. Il dato, rilevato lo scorso febbraio dall’Istat, è dovuto ad una riduzione della prevenzione sanitaria dovuta al perdurare della crisi economica. Nel 2015 l’aspettativa di vita era di 80,1 anni per gli uomini e di 84,7 anni per le donne. L’anno precedente, nel 2014, invece, l’aspettativa di vita era di 80,3 anni per gli uomini e di 85 anni per le donne.

Concludendo. Sì, è vero, ad oggi un italiano deve attendere 4 anni di più di uno straniero se vuole avere una pensione di vecchiaia col sistema contributivo e non ha versato 20 anni di contributi. Che sia corretto o meno il discorso sull’aspettativa di vita non spetta a me deciderlo.

Pensioni, così le regole per gli extracomunitari che tornano nel paese d'origine, scrive Venerdì 7 Ottobre 2016 Bruno Franzoni su "Pensioni Oggi". I contributi Inps che i lavoratori extracomunitari pagano in Italia non vanno perduti se gli interessati rimpatriano. Tutto ciò ovviamente vale anche per il lavoro domestico, quindi per colf e badanti. I lavoratori stranieri che hanno versato in Italia i contributi hanno diritto alle prestazioni pensionistiche al pari di un qualsiasi lavoratore italiano. Nè vengono persi al momento in cui essi tornino al paese d'origine per "godersi" la pensione e ciò anche se tra Italia e i Paesi dei rimpatriati non sia stato stipulato un accordo di reciprocità. Basta che essi maturino i requisiti stabiliti dalla normativa italiana e questi conservano i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati e hanno diritto alla pensione guadagnata con il versamento dei contributi e del proprio lavoro. Naturalmente costoro hanno titolo alla pensione a condizione che raggiungano i requisiti stabiliti dalla legge italiana, requisiti che sono in parte diversi rispetto a quelli imposti ai cittadini italiani, comunitari e per gli stessi extracomunitari residenti. 

Le regole per il trattamento di vecchiaia. Prendiamo la pensione di vecchiaia: ai lavoratori extracomunitari con rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato rimpatriati spetta al compimento dei 66 anni di età e 7 mesi (65 anni e 7 mesi le donne). Dal 2018 il requisito sarà parificato a 66 anni e 7 mesi per entrambi i sessi. Fin qui siamo nel solco della norma di carattere generale, quella che non fa differenze in base alla nazionalità del lavoratore. Ma è un altro discorso se si guarda al requisito contributivo. Qui occorre dividere la materia in due antitetiche situazioni: 1) se la pensione è liquidata con il sistema retributivo o misto (cioè se il lavoratore è in possesso di contribuzione al 31 dicembre 1995), si applica in toto la normativa italiana, senza alcuna deroga; perciò la colf/badante dovrà raggiungere il minimo dei 20 anni di versamenti per avere diritto alla pensione; 2) se il lavoratore ricade, invece, nel contributivo puro (cioè non era in possesso di contribuzione al 31 dicembre 1995) la legge Bossi-Fini (legge 189/2002) prevede che la pensione venga pagata anche se l'interessato non ha raggiunto il minimo dei versamenti previsto dalla normativa vigente (cfr: Circolare inps 45/2003). Per i cittadini italiani e i comunitari, invece, la pensione di vecchiaia nel sistema contributivo può essere liquidata solo in presenza di almeno 20 anni di contributi a condizione, peraltro, che l'importo dell'assegno non risulti inferiore a 1,5 volte l'importo dell'assegno sociale) oppure, se non è rispettato il predetto importo soglia a 70 anni e 7 mesi in presenza di almeno 5 anni di contributi effettivi. In sostanza per gli extracomunitari che rimpatriano nel paese d'origine nel sistema contributivo, la pensione viene pagata dall'Italia qualunque sia il numero dei contributi versati. È opportuno ricordare che la legge 189/2002 ha posto fine alla facoltà riconosciuta agli extracomunitari dalla legge 335/1995 (legge Dini), in base alla quale chi rientrava in patria senza avere raggiunto il diritto a pensione poteva chiedere la restituzione dei contributi pagati, compresa la quota a carico dell'azienda. 

Il caso dei superstiti. Regole molto più restrittive per la pensione ai superstiti, quando ovviamente ne sono stati raggiunti i requisiti richiesti dalla legislazione italiana, validi per tutti gli assicurati. La Bossi Fini ha limitato fortemente questo diritto nei confronti dei rimpatriati nel paese d'origine. Pertanto attualmente se il decesso si è verificato successivamente all'età di vecchiaia, cioè a 66 anni e 7 mesi per gli uomini e 65 anni e 7 mesi per le donne (prima della Legge Fornero il requisito anagrafico era pari a 65 anni) i superstiti del rimpatriato hanno diritto alla prestazione applicando le disposizioni vigenti per la generalità dei lavoratori italiani; se, invece, il decesso è anteriore al compimento della citata età non spetta mai la pensione nei confronti dei superstiti del rimpatriato.