Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
PILLOLE PER LA PREPARAZIONE
DI CONCORSI PUBBLICI
DI ANTONIO GIANGRANDE
Sommario
NORME PRINCIPALI DI RIFERIMENTO
Costituzione
della Repubblica Italiana.
Procedimento ed atto Amministrativo
Principio
del procedimento-atto amministrativo
Documento Unico Programmazione (sezione strategica-operativa) 31 luglio
Bilancio preventivo-previsione 31 dicembre
diligenza ed
impegno proporzionato alla capacità
I principi
generali per la tutela dell’ambiente
VAS
Valutazione ambientale strategica,
VIA
Valutazione di impatto ambientale,
AIA
L'autorizzazione integrata ambientale (AIA)
IMU - CANONE
UNICO PATRIMONIALE
Art. 102 -
Abitualità presunta dalla legge
Art. 105 -
Professionalità nel reato
Art. 108 -
Tendenza a delinquere
1.
Il consenso
dell'avente diritto.
diritto di
cronaca (art 21 Cost.)
diritto di
sciopero (art. 40 Cost.)
7. Caso
fortuito e forza maggiore
8.
L’Ignoranza – errore inevitabile.
PRINCIPI
RELATIVI ALLA NORMA PENALE
principio di
difesa (o di tutela)
Principio di
tipicità
(o divieto di analogia)
Principio di
irretroattività (art. 2 c.p.)
PRINCIPIO
DEL “NE BIS IN IDEM” art 649 c.p.p.
PRINCIPI
RELATIVI AL PROCESSO PENALE
PRINCIPI
RELATIVI AGLI ORGANI GIURISDIZIONALI
PRINCIPI
RELATIVI ALL’IMPUTATO
Il dolo
intenzionale (o
diretto di primo grado)
Il dolo
indiretto (o
diretto di secondo grado)
La colpa per
delitti se riconosciuta
Delitto
tentato, solo per delitti.
Reati contro
la Pubblica Amministrazione
art.
357 c.p
Per Pubblico Ufficiale
art. 358 Gli
incaricati di un pubblico servizio
Art. 359
sono persone che esercitano un servizio di pubblica necessità
MALVERSAZIONE A DANNO DELLO STATO (ART. 316 BIS C.P.)
INDEBITA
PERCEZIONE DI EROGAZIONI A DANNO DELLO STATO (ART. 316-TER C.P.)
CORRUZIONE
PER L’ESERCIZIO DELLA FUNZIONE (ART. 318 C.P. C.D. IMPROPRIA)
CORRUZIONE
PER UN ATTO CONTRARIO AI DOVERI D’UFFICIO (ARTT. 319 C.P. C.D. PROPRIA)
CORRUZIONE
IN ATTI GIUDIZIARI (ART. 319 TER C.P.)
INDUZIONE
INDEBITA A DARE O PROMETTERE UTILITÀ (ART. 319 QUATER C.P. C.D. CONCUSSIONE PER
INDUZIONE)
ISTIGAZIONE
ALLA CORRUZIONE (ART. 322 C.P.)
ABUSO
D’UFFICIO (ART. 323 C.P.)
UTILIZZAZIONE D’INVENZIONI O SCOPERTE CONOSCIUTE PER RAGIONE D’UFFICIO (ART. 325
C.P.);
RIVELAZIONE
ED UTILIZZAZIONE DI SEGRETI DI UFFICIO (ART. 326 C.P.);
RIFIUTO DI
ATTI D’UFFICIO E OMISSIONE (ART. 328 C.P.)
INTERRUZIONE
DI UN SERVIZIO PUBBLICO O DI PUBBLICA NECESSITÀ (ART. 331 C.P.)
Violenza o
minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.)
Resistenza a
un pubblico ufficiale (art. 337 c.p.)
Occultamento, custodia o alterazione di mezzi di trasporto (art. 337 bis c.p.);
Oltraggio a
pubblico ufficiale (art. 341 bis c.p.)
Oltraggio a
Corpo politico, amministrativo o giudiziario (art. 342 c.p.);
Oltraggio a
un magistrato in udienza (art. 343 c.p.);
OFFESA
ALL’AUTORITÀ MEDIANTE DANNEGGIAMENTO DI AFFISSIONI (ART. 345 C.P.);
Traffico di
influenze illecite (art. 346 bis c.p.)
Usurpazione
di funzioni pubbliche (art. 347 c.p.);
Esercizio
abusivo di una professione (art. 348 c.p.)
Violazione
di sigilli (art. 349 c.p.)
Violazione
della pubblica custodia di cose (art. 351 c.p.)
Vendita di
stampati dei quali è stato ordinato il sequestro (art. 352 c.p.);
Turbata
libertà degli incanti (art. 353 c.p.)
Turbata
libertà del procedimento di scelta del contraente (art. 353 bis c.p.)
Astensione
dagli incanti (art. 354 c.p.)
Inadempimento di contratti di pubbliche forniture (art. 355 c.p.)
Frode nelle
pubbliche forniture (art, 356 c.p.)
Quel mafioso
di Pubblico Ufficiale.
Autorità di
pubblica sicurezza
IL
PROCEDIMENTO E L’ATTO AMMINISTRATIVO
PRINCIPIO DI
LIBERTÀ E DIRITTI INVIOLABILI
PRINCIPIO DI
DECENTRAMENTO DELLO STATO
PRINCIPIO DI
LIBERTÀ RELIGIOSA
PRINCIPIO DI
SVILUPPO DELLA CULTURA E DELL'AMBIENTE
Principio
del procedimento-atto amministrativo
Principio di
trasparenza e diritto d’accesso
Principi di
collaborazione e buona fede
Il principio
di semplificazione
I principi
di autonomia e del decentramento.
Il principio
di sussidiarietà.
Il principio
di differenziazione.
Il principio
di responsabilità.
IL
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
Principio di
efficienza ed economicità
Principio di
responsabilità e di unicità dell’amministrazione.
Principio
della copertura finanziaria.
Legge 7
agosto 1990, n. 241 Procedimento amministrativo
Proposta
vincolante o non vincolante
SILENZIO
RIFIUTO o INADEMPIMENTO
1. Rimedi
sostitutivi di carattere soggettivo, sia a livello statale, sia a livello
locale.
2.
Segnalazione dell’inerzia ai servizi ispettivi di controllo
3. Richiesta
di un indennizzo automatico per la violazione del termine.
Atti che non
sono Provvedimenti amministrativi
Struttura
dell'atto amministrativo
Comunicazione dei termini e dell'autorità cui presentare ricorso
Certificati
e storico della residenza
Rilasciate
da una pubblica amministrazione
Legalizzazioni e autenticazioni
STATI
PATOLOGICI DELL’ATTO AMMINISTRATIVO
LA TUTELA IN
SEDE AMMINISTRATIVA
L’ANNULLAMENTO GIURISDIZIONALE-L’ANNULLAMENTO D’UFFICIO
LA SANATORIA
DELL’ATTO AMMINISTRATIVO
Ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica
Funzioni e
competenze del consiglio comunale
L’IPOCRISIA.
IL DIFENSORE CIVICO
ASPETTO ECONOMICO-CONTABILE BILANCIO
Documento Unico Programmazione (sezione strategica-operativa) 31 luglio
Bilancio preventivo-previsione 31 dicembre
diligenza ed
impegno proporzionato alla capacità
Nella Pubblica Amministrazione si può essere assunti a tempo indeterminato:
Nella Pubblica Amministrazione si può essere assunti a tempo indeterminato a
tempo parziale
Nella Pubblica Amministrazione si può essere assunti a tempo determinato con
contratti flessibili:
Il decreto
legislativo n. 150/2009
Autorità
nazionale anticorruzione
Come si
applicano le sanzioni al lavoratore
Le norme
disciplinari del dipendente pubblico
Dal
rimprovero verbale o scritto alla multa pari a 4 ore di retribuzione
Sospensione
da servizio e retribuzione fino a un massimo di 10 giorni
Sospensione
da servizio e retribuzione da 11 giorni fino al massimo di 6 mesi
1. Il
principio del risultato.
3. Il
principio dell’accesso al mercato
progetto di fattibilità
tecnica ed economica (progetto preliminare)
Documento Preliminare Alla Progettazione (DOCFAP)
Documento di indirizzo alla progettazione (DIP)
Progetto di Fattibilità Tecnica ed Economica (PFTE)
Modalità di trasmissione del PFTE al Consiglio Superiore Dei Lavori Pubblici
Carenze
sostanziali dei requisiti
Carenze che
non consentono di individuare la paternità dell’offerta
Carenze del
contenuto delle offerte tecniche ed economiche
Mancata
costituzione della cauzione provvisoria
ADEGUAMENTO. GDPR
PRIVACY – PRINCIPI FONDAMENTALI INTRODOTTI
PREVENZIONE.
PRIVACY BY DESIGN – PRIVACY BY DEFAULT
RESPONSABILITA’
ACCOUNTABILITY
LIMITAZIONE DELLA
FINALITÀ DEI DATI
MINIMIZZAZIONE
DELL’USO DEI DATI
LIMITAZIONE DELLA
CONSERVAZIONE
RESPONSABILITÀ
DEL TITOLARE DEL TRATTAMENTO
Interventi
di manutenzione straordinaria.
L’autocertificazione (la vecchia DIA)
CILA
(Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata)
SCIA
(Segnalazione Certificata di Inizio Attività)
La
Responsabilità del professionista
Condono
edilizio: i requisiti per ottenere la sanatoria straordinaria
I principi
generali per la tutela dell’ambiente
Principio
dell’azione ambientale
Principio
dello sviluppo sostenibile
Principi di
sussidiarietà e di leale collaborazione
Diritto di
accesso alle informazioni ambientali e di partecipazione a scopo collaborativo
Interpello
in materia ambientale
VAS
Valutazione ambientale strategica,
VIA
Valutazione di impatto ambientale,
AIA
L'autorizzazione integrata ambientale (AIA)
CORTE DI
GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
Il diritto
primario dell’Unione europea
Trattato sul
funzionamento dell'Unione europea.
Divieto di
disavanzi pubblici eccessivi
Trattato di
Maastricht (1992-2007)
Trattato di
Lisbona (2007-presente)
il Consiglio
dell'Unione europea (o "Consiglio dei ministri"),
la Corte di
giustizia dell'Unione europea
Organismi
finanziari collegati
Competenze
dell'Unione europea
Cooperazione
internazionale e partenariati di sviluppo
Politica di
coesione economica dell'UE
Politica
sociale e uguaglianza
Assistenza
sanitaria e sicurezza alimentare
Le
classificazione dei veicoli
altri
segnali stabiliti dal regolamento
TITOLO I -
DISPOSIZIONI GENERALI
TITOLO II -
DELLA COSTRUZIONE E TUTELA DELLE STRADE
Capo II -
ORGANIZZAZIONE DELLA CIRCOLAZIONE E SEGNALETICA STRADALE
Capo II -
DEI VEICOLI A TRAZIONE ANIMALE, SLITTE E VELOCIPEDI
Capo III -
VEICOLI A MOTORE E LORO RIMORCHI
Sezione I -
NORME COSTRUTTIVE E DI EQUIPAGGIAMENTO E ACCERTAMENTI TECNICI PER LA
CIRCOLAZIONE
Sezione II -
DESTINAZIONE ED USO DEI VEICOLI
Sezione III
- DOCUMENTI DI CIRCOLAZIONE E IMMATRICOLAZIONE
Capo IV -
CIRCOLAZIONE SU STRADA DELLE MACCHINE AGRICOLE E DELLE MACCHINE OPERATRICI
TITOLO IV -
GUIDA DEI VEICOLI E CONDUZIONE DEGLI ANIMALI
TITOLO V -
NORME DI COMPORTAMENTO
TITOLO VI -
DEGLI ILLECITI PREVISTI DAL PRESENTE CODICE E DELLE RELATIVE SANZIONI
Capo I -
DEGLI ILLECITI AMMINISTRATIVI E DELLE RELATIVE SANZIONI
Sezione II -
DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE ACCESSORIE A SANZIONI AMMINISTRATIVE PECUNIARIE
Capo II -
DEGLI ILLECITI PENALI
Sezione I -
DISPOSIZIONI GENERALI IN TEMA DI REATI E RELATIVE SANZIONI
Sezione II -
SANZIONI AMMINISTRATIVE ACCESSORIE A SANZIONI PENALI
TITOLO VII -
DISPOSIZIONI FINALI E TRANSITORIE
Capo II -
DISPOSIZIONI TRANSITORIE
Art. 3, comma 8, del nuovo codice della strada
L 17-08-1942 N. 1150-Legge urbanistica.
DM 01-04-1968 Distanze minime a protezione del nastro stradale
DPR 16-12-1992 N. 495 Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice
della strada.
Art. 2
C.d.S. Definizione e classificazione delle strade.
B - STRADA
EXTRAURBANA PRINCIPALE
C - STRADA
EXTRAURBANA SECONDARIA
D - STRADA
URBANA DI SCORRIMENTO
E - STRADA
URBANA DI QUARTIERE
E-bis -
Strada urbana ciclabile
F-bis.
Itinerario ciclopedonale
Verbale di
accertamento o Ordinanza Ingiunzione C.D.S.
Quando va in
prescrizione il bollo auto non pagato
DOCUMENTI DA PORTARE ED ESIBIRE:
L’articolo 9-bis del Codice della strada
L’articolo 9-ter, del Codice della strada
L’articolo 100 del Codice della strada, al comma quattordicesimo
L’articolo 116 del Codice della strada, comma 15, seconda parte
L’articolo
149 Distanza di sicurezza tra veicoli.
L’articolo 186 e 187 del Codice della strada
L’articolo 189 del Codice della strada
Rimozione
forzata e blocco art. 159 e 215 cds
il fermo
amministrativo (art. 214)
la confisca amministrativa (art.
213)
il ritiro, della
targa (art. 216)
la sospensione
della carta di circolazione (art. 217)
la sospensione
e la revoca della patente di guida (articoli
218 e 219).
SEQUESTRI E FERMI AMMINISTRATIVI
Sospensione della patente art 218 Codice della Strada
La
revoca della patente art 319 Codice della Strada
Patente a
punti art. 126 bis Codice della strada
Comportamento in caso di incidente
Omissione di
soccorso dopo incidente
I rilievi
planimetrici sulla scena del crimine
Il sistema
della triangolazione
Il sistema
delle rette ortogonali, o delle coordinate cartesiane
Guida sotto
l’influenza dell’alcool o stupefacenti
Accertamento
etilometrico-sostanze stupefacenti.
Lesioni
personali stradali gravi o gravissime
PILLOLE PER LA PREPARAZIONE
DI CONCORSI PUBBLICI
I
commissari d’esame sono nominati dalle Amministrazioni procedenti. Ergo: fanno i
loro interessi.
Il loro
interesse è avere come dipendente un elemento affidabile e/o esperto, più che
preparato.
In
questo senso la Commissione in sede di esame orale:
sceglie
l’affidabilità del candidato in base al nominativo ricevuto da terzi
sceglie
l’esperienza del candidato in base agli incarichi pregressi coperti già in altre
Amministrazioni Pubbliche. In questo caso il giudizio dei commissari è
indirizzato, anche se vi è scena muta.
La
Commissione è preparata in base alle domande da loro poste. Se l’argomentazione
del candidato approfondisce il tema, la si mette in difficoltà.
I Candidati devono
essere preparati.
Per i test scritti
la preparazione si basa sui quiz o domande multiple presenti sul web
(mininterno.net, ecc.) e sulla consultazione della normativa che volta per volta
viene richiamata.
Per l’esame orale
la preparazione si basa sulla metodologia di cui sopra.
Per la
presentazione di se stessi all’orale ognuno sfoggia quello che del curriculum ha
di meglio da offrire. Chi non ha ricoperto incarichi rilevanti, tali da
influenzare la Commissione (l’arte batte la scienza), si affidi alla sua
preparazione.
Nell’esposizione
della risposta, si tenga conto che spesso si è sfortunati nel ricevere le
domande. Mai fare scena muta, in quanto se non si superare l’esame bisogna
essere in grado di essere consapevoli di aver dato il massimo di quanto
studiato.
Se si ha un blocco
mentale: respirare profondamente. Concentrarsi sulla risposta e adottare una
metodologia. Considerare il tema (genus-genere) partendo dalla storia e dai
principi generali e poi entrare nell’argomento (species) parlando della norma di
riferimento, spaziando anche su argomenti collegati. Vedrete: trovato il bandolo
della matassa, un anello si incatena all’altro. Parlerete finché i commissari
diranno: per me può bastare!
La risposta non si
sa: si divaghi nella risposta, spesso i commissari intervengono in soccorso e lì
ci si appiglia. Se l’esame va male, fare tesoro della propria esperienza e della
prova degli altri candidati, cui si è assistito. Colmare la lacuna per essere
preparanti in successive prove.
Antonio Giangrande:
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà
forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un
autodidatta è quello di smerdarsi da solo. Antonio Giangrande
Antonio Giangrande: Inchiesta. Ancora a parlare di concorsi truccati. Questa
volta nelle Forze di Polizia.
Il
metodo di correzione negli esami di Stato o nei concorsi pubblici è sempre lo
stesso: si dichiarano corretti i compiti che non sono stati nemmeno visionati.
Per attestare ciò detto non si abbisogna di microfoni o micro spie nelle segrete
stanze delle commissioni e dei "Compari". Basta verificare i tempi di correzione
se siano sufficienti e controllare le prove se e come sono state corrette, anche
in relazione alle altre prove ritenute idonee. I Tar di tutta Italia ne scrivono
di nefandezze commesse. Nel ribellarsi, però, non si caverà un ragno dal buco:
perchè così fan tutti!! Giudicanti, ingiudicati.
L’inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger,
youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle
denunce inascoltate di centinaia di migliaia di candidati estromessi di tutta
Italia.
Parliamo della Magistratura. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti
in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv.
Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati
corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha
battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992.
Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei
compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della
busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai
esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il
Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria
mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per
gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri,
proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente
del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici
e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre
un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni
zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati
bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno
presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del
pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel
frattempo diventati dei, esercitano.
Parliamo della Avvocatura. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti
in avvocatura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dal dr Antonio
Giangrande, che ha provato sulla sua pelle per ben 17 anni l’ignominia e la
gogna di non essere all’altezza per una funzione meritatissima. Elaborati non
visionati, ma dichiarati corretti. Ha scritto dei saggi in base alla sua
esperienza. Ha pubblicato dei video per chi non vuol leggere. Per questo gli
hanno inibito la professione di avvocato e, addirittura, processato per aver
denunciato e scritto cose che tutti sanno.
Potevano bastare questi esempi per dimostrare l’illibatezza dei nostri tutori
della legalità? Certo che no!!
Parliamo della Guardia di Finanza: Lo dice il maresciallo capo della Finanza
Antonio Izzo ai genitori di un aspirante finanziere, mentre davanti a un caffè
illustra la proposta indecente: 1500 euro in cambio del superamento dei test
attitudinali per il figlio. “Signora, questa è una cosa normale. Voi pensate che
non ci siano persone corrotte? Qui tutto il sistema è corrotto”, scrive Vincenzo
Iurillo su “Il Fatto Quotidiano” del 14 dicembre 2015. «Non si entra in Guardia
di Finanza se non per queste vie». È la frase che il maresciallo della Gdf Bruno
Corosu ha pronunciato, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno" del 24 marzo 2015.
Un finanziere romano e alcuni aspiranti marescialli avevano in casa copia dei
test a risposta multipla del concorso svolto a Bari nell’aprile scorso. Lo hanno
scoperto i militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanzi di
Bari durante le perquisizioni disposte dalla magistratura barese nell’ambito
dell’inchiesta della Procura di Bari dove si ipotizzano i reati di corruzione e
rivelazione di segreti d’ufficio nei confronti di sette persone, tra finanzieri
in servizio e ex militari, tutti romani, e partecipanti al concorso per 297
posti da allievo maresciallo nella Guardia di finanza, scrive “La Gazzetta del
Mezzogiorno” il 2 dicembre 2013.
Parliamo della Polizia Penitenziaria. Concorso agenti polizia penitenziaria a
Roma: scoperti dal servizio di sorveglianza durante i controlli. Tutto per un
posto in carcere. Anche, magari, rischiando il carcere stesso. 88 persone tra
gli undicimila uomini e le duemila donne partecipanti al concorso per agenti
della polizia penitenziaria, tenutosi a Roma tra il 20 e il 22 aprile, sono
state indagate e denunciate a piede libero: le operazioni di controllo
effettuate dalla task force di vigilanza tra i banchi della Nuova Fiera di Roma
hanno infatti portato a scoprire materiale con cui i presunti furbetti cercavano
di passare il test a pieni voti. Ne scrive il 26 aprile 2016 il Messaggero con
Michela Allegri.
E
poi, non poteva mancare lo scandalo per la Polizia di Stato.
Parliamo della Polizia di Stato. Concorso Vice Ispettori: gli esclusi devono
avere delle risposte, scrive Il Sap Nazionale il 21 marzo 2016. I candidati non
idonei alla prova scritta del concorso per 1.400 posti da Vice Ispettore devono
avere delle risposte e tanti dei loro elaborati risultano non essere inferiori
di altri che hanno superato l’esame. E’ quanto emerge con chiarezza dalla
lettera inviata il 18 marzo 2016 dal SAP al Capo della Polizia Alessandro Pansa
e per conoscenza al Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Secondo il SAP non è
accettabile che i numerosi colleghi risultati non idonei alla prova scritta del
concorso siano così bistrattati anche quando, dopo il difficilissimo accesso
agli atti, hanno scoperto le carte e le hanno messe sul tavolo. Documenti che
sono stati analizzati dallo stesso Sindacato, il quale condivide quanto è stato
rappresentato da molti degli esclusi. Non c’è mai stata una manifestazione di
dissenso così forte. Basti pensare che è stata costituita anche un’associazione
chiamata “Tutela e Trasparenza” con l’obiettivo di tutelare i colleghi esclusi
ingiustamente dalla prova scritta. La stessa associazione ha ricordato che la
pubblica amministrazione deve assicurare il rispetto dei principi costituzionali
del buon andamento e dell’imparzialità, senza dimenticare il principio di
trasparenza che deve valere anche per gli appartenenti alla Polizia di Stato. Il
SAP auspica che l’Amministrazione riveda i temi giudicati non idonei e rivaluti
quelli che effettivamente risultano meritevoli di consentire l’accesso alle
prove orali. Da ultimo, e forse la cosa più importante, l’Amministrazione deve
valutare un allargamento dei posti previsti dall’attuale bando, che avrebbe
costi esigui e non paragonabili con quelli abnormi che si dovranno affrontare
con il concorso esterno.
L’incontro organizzato dall’associazione “Tutela & Trasparenza” che si è svolto
lunedì 7 marzo 2016 a Milano presso Hotel Galles, relativa all’esito
dell’accesso agli atti della prova scritta per 1400 v.isp, è stato un autentico
successo di pubblico. Il Presidente Walter Massimiliani ha approfondito il
discorso, ricostruendo per intero gli avvenimenti che hanno portato all’incontro
e, dopo aver precisato che non si tratta di una guerra a coloro che sono stati
ritenuti idonei alla prova scritta ma semplicemente di una richiesta di equità
di giudizio, ha mostrato alcuni dei numerosi elaborati che sono stati analizzati
e per i quali sono state rilevate evidenti criticità sotto vari punti di vista,
in particolare:
presenza di elaborati con segni o frasi non inerenti lo svolgimento della
traccia;
elaborati con ampi passi identici a testi o link presenti sulla rete;
elaborati con contenuti palesemente inadatti e scarsi dal punto di vista
sintattico grammaticale e/o di concetti giuridici. L’Avvocato Leone il 28
gennaio 2016 ha preso parte all’importante incontro/dibattito svoltosi all’Hotel
Holiday Inn di Cava de’ Tirreni (SA) in merito al ricorso per il Concorso
Interno per 1400 Vice Ispettori della Polizia di Stato, organizzato dalla
Associazione di agenti “Tutela e Trasparenza”. Tantissimi i presenti accorsi
presso la sede designata, per cercare di approfondire dal punto di vista
giuridico il bando di concorso, che presenta una serie di criticità degne di
nota, nonché la fase di correzione e di valutazione degli elaborati che, in modo
manifesto, appare illogico e illegittimo.
Al
fine di consentire di capire di cosa stiamo parlando descrivo brevemente il
concorso in argomento: nel mese di giugno 2014 si è svolta una prova
preselettiva articolata con nr. 80 quiz a risposta multipla su 5 materie d’esame
(diritto penale, procedura penale, diritto amministrativo, diritto civile,
diritto costituzionale) cui hanno partecipato 22mila candidati ed alla quale
sono risultati idonei 7032 candidati;
nel mese di gennaio 2015 si è svolta una prova scritta consistente nella stesura
di un elaborato di diritto penale, conclusa da 6355 candidati ed alla quale sono
risultati idonei 2127 candidati che hanno riportato una votazione superiore a
35/50.
Il
17 dicembre 2015, a distanza di 11 mesi dalla prova scritta, è stata diffusa una
lista degli idonei che sin da subito a suscitato forti dubbi di correttezza per
la distribuzione dei voti. Infatti oltre 2/3 degli idonei (più di 1400) hanno
superato la prova con il voto di 35/50; nessun candidato ha conseguito 34/50 e
solo in 73 hanno conseguito la sufficienza compresa tra 30/50 e 33/50. Inoltre,
una gran parte dei candidati sono stati valutati non idonei con il voto di 25/50
e 28/50. Si evidenzia che l’associazione “Tutela & Trasparenza”, ha effettuato
un accesso agli atti straordinario e storico richiedendo ed ottenendo TUTTI i
2127 elaborati dei candidati idonei e TUTTI gli atti endoprocedimentali.
L’analisi di tale materiale effettuata con una task force di colleghi poliziotti
che in dieci giorni ha controllato tutti gli elaborati, ha permesso di scoprire
delle considerevoli anomalie, in particolare:
numerosissimi elaborati con palesi errori sintattico grammaticali diffusi;
numerosissimi elaborati con palesi errori concettuali grossolani e confusione su
elementi basilari di diritto penale tali da stravolgerne completamente le basi;
numerosi elaborati singolarmente identici a libri di testo e/o da documenti
rinvenuti sulla rete internet;
alcuni elaborati con segni o con messaggi di testo rivolti alla commissione
come: SI RINGRAZIA PER L’ATTENZIONE, NOTA PER IL FUNZIONARIO CHE CORREGGE,
SCUSATE PER LA CALLIGRAFIA E GRAZIE et.
Il
lavoro dell’associazione non si è comunque esaurito in tale fase, sono stati
infatti presentati circa 400 ricorsi al TAR, circa 50 al Presidente della
Repubblica e circa 150 istanze di ricorrezione al Dipartimento di P.S., tali
numeri hanno di fatto bloccato le udienze in Camera di Consiglio al TAR Lazio al
punto che ad oggi non risultano ancora calendarizzati la maggior parte dei
ricorsi.
D'altronde di cosa parliamo: è tutta “Cosa nostra”. Si sa la famiglia in Italia
è sacra.
Parliamo del Corpo Forestale. Amici e parenti la grande famiglia della
Forestale. E’ sempre una notizia attuale e quindi utile leggere l’articolo de
“La Stampa” del 13 maggio 2009 riguardo il Corpo Forestale. I figli di dirigenti
e comandanti alla corte di papà. Bravi. Anzi, bravissimi. Ma non c’erano dubbi,
visto che spesso la sapienza passa di padre in figlio. E così, da una parte il
caso, dall’altro le conoscenze e le tante doti è accaduto che tra i 500
vincitori al concorso allievi per il Corpo forestale, molti tra questi sono
figli di comandanti, dirigenti, uomini di stretta vicinanza del capo del Corpo,
Cesare Patrone. Il fato, infatti, è stato così generoso nei loro confronti, che
molti di costoro sono stati, addirittura, assegnati nelle stazioni dove
comandano i loro capo famiglia. Non sfugge, infatti, che la sorte abbia
riservato a Matteo Colleselli la stazione di Candaten proprio nell’area dove
papà, comanda la regione Veneto; e così è accaduto a Stefano Piastrelli figlio
del capo di Perugia, o a Massimiliano Giusti discendente diretto del numero due
della regione Umbria. Ma le regalie della dea bendata non finiscono qui. Tanto
che a trarne beneficio è toccato pure a Matteo Palmieri, «omonimo» del capo
della segreteria del Corpo e destinato in Puglia, terra d’origine, a Francesco
Polci (figlio del vice comandante d’Abruzzo assegnato a Chieti), a Massimo
Priori (omonimo del caposervizio del personale assegnato a Livorno), a Vittorio
Scarpelli (figlio del dirigente del servizio ispettivo assegnato nel vicino
Abruzzo), nonché al figlio del comandante di Taranto, Pasquale Silletti,
assegnato alla stazione di Cassano Murge a Bari, a Dante Stabile, parente del
capo di Napoli finito alla stazione di Boscoreale in Campania. E’ chiaro, però,
che la fortuna non poteva girare a tutti. Ma dove non osò la sorte, giunsero i
«pizzini» del patronato: per Alfonso, figlio di Rosetta, per Emidio figlio di
Cesarina di zio Antonio, o per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria. E ancora,
per Massimiliano, cugino di Rosetta, ma anche per Paolo che è nel cuore di zio
Domenico e altri. Del resto, si sa, in Italia le cose marciano spedite solo se
stanno veramente a cuore a qualcuno. E tra le camicie verdi del Corpo Forestale
la regola, stavolta, non fa eccezione. I capisaldi sembrano tre: l’ambiente e il
soccorso, il rispetto della legge ma anche la famiglia. Non a caso, infatti, a
capo del Corpo è finito Cesare Patrone, figlio dell’ex geometra della Forestale,
Michele. Al suo fianco ci sono anche il fratello Amato (sovrintendente), la
moglie di quest’ultimo Serena Pandolfini (sovrintendente), Domenico, zio del
capo ma ora in quiescenza, dalla fulgida carriera e la figlia di quest’ultimo
Rosa, primo dirigente del Corpo, la quale classificatasi quarta al concorso da
primo dirigente (i posti erano tre) si è vista riconoscere dall’amministrazione
il ruolo, ma senza arretrati per la decorrenza della nomina dal 1 gennaio 2002
(data del posto vacante), secondo quanto stabilito dall’ufficio centrale del
bilancio del Ministero. Nomina sì, dunque, ma senza «indennizzo». Ma per la
serie, la speranza è l’ultima a morire, ecco che in soccorso di Rosa Patrone, la
Camera ha approvato un emendamentino ad hoc che si «applica anche agli idonei
nominati, nell’anno 2008, nelle qualifiche dirigenziali» e che risarcisce e
stabilisce anche le quantificazioni economiche: oltre 177mila euro per il 2008,
24mila per il 2009 e altri 24 mila per il 2010. Insomma, un indennizzo niente
male, che desta non pochi malumori. Così come destano sorpresa i risultati del
concorso per 182 posti da vice ispettore. Dopo la prova scritta tra i primi
posti a piazzarsi ci sono i più stretti collaboratori del capo del Corpo. Uomini
certamente brillanti e qualificati come il suo autista Domenico Zilli (voto 30
su 30), Marco Giurissich della segreteria (30/30), Amato Patrone, fratello del
capo (30/30), Noemi La Motta, segretaria del capo (29,5/30), Serena Pandolfini,
la cognata di Patrone (29,5/30), Claudio Bernardini, segreteria della cugina del
capo del corpo (29/30), Cristiano De Michelis, assistente del capo (29/30),
Quintilia Pomponi, segreteria della cugina del capo (29/30), Vania La Motta,
sorella di Noemi, cognata di Zilli l’autista del capo. Tanta conoscenza e
bravura, nelle prove scritte, ha stupito il parlamentare del Pdl, Marco Zacchera
che in una interrogazione spiega «che dall’esame dei 50 concorrenti che hanno
superato il punteggio di 28/30 appaiono alcune anomalie, ovvero che ben 32 di
essi hanno sede di lavoro a Roma, molti negli uffici dell’ispettorato generale,
mentre altri 8 hanno sede di lavoro in Calabria e solo 10 nel resto d’Italia», e
quindi chiede «di accertare se i testi dei quiz siano stati resi pubblici a
nicchie» e se non si ritenga di «dover sospendere il concorso». Niente da fare,
ovviamente. Il concorso va avanti, così come procede spedita anche un’altra
interrogazione. Stavolta, a siglarla è il parlamentare leghista, Maurizio
Fugatti al quale non sfugge che «dei 29 candidati che hanno riportato voti tra
il 29 e il 30, ben 21 provengono dal medesimo ispettorato generale». Attitudini
spiccate? Chissà. Di certo, nemmeno Fugatti sembra capacitarsi di «un personale
così altamente qualificato in servizio all’ispettorato - scrive - e che sarebbe
consigliabile correggere tale squilibrio sul territorio nazionale, assegnando a
compiti territoriali almeno parte delle migliori risorse ora collocate a
mansioni amministrative». Ma, nonostante ciò, al Corpo si guarda avanti.
L’attenzione nelle ultime ore è rivolta a tutta una serie di promozioni varate
in una delle riunioni del cda della Forestale presieduto dal ministro Zaia.
Anche qui, la fortuna ha lasciato il segno. Tangibile, ma solo per pochi,
«posandosi» sui fascicoli di nove candidati, otto dei quali del nord Italia e
Veneto, che così hanno ottenuto il punteggio massimo pur non avendo alcun titolo
speciale valutabile.
«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente
della Corte d'appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco
(Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio.
Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte
d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del
rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla
Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di
milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola
intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come
quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio
figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte
d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi
dall' ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco
Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a
Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside
della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato
ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri
candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono
minacciati perché non si presentino.
Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che,
per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati
messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per
fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che,
come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una
bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è
stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri
23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione,
abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato.
In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a
non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è
coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria,
accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era
aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza
Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro.
L'inchiesta sull'ateneo messinese, dunque, è tutt'altro che conclusa ed ogni
giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata
dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi
truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore.
Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di
Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire
dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato,
si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende
costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se
intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20
novembre 2008 pagina 20 sezione: cronaca)
ANTONIO
GIANGRANDE: VI SPIEGO COME IN ITALIA SI TRUCCANO I CONCORSI PUBBLICI.
In Italia tutti
sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i
magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del
sistema Italia, ma l'incompetenza e l'imperizia. Non ci credete o vi pare
un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura,
dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso
già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei?
Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi
truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
IL VADEMECUM DEL
CONCORSO PUBBLICO TRUCCATO.
INDIZIONE DEL
CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare
da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli
di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e
somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice
il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il
prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti
presso le Università e gli enti pubblici locali.
COMMISSIONE
D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame sono personalità che hanno
una palese incompatibilità. Per esempio, nella commissione d’esame centrale
presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato è stato nominato
presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione
locale di Corte d’Appello. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21
maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n.
180). Spesso le commissioni d'esame sono mancanti delle componenti necessarie
per la valutazione tecnica della materia d'esame. Le Commissioni d’esame hanno
sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una
crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l'età di
iscrizione all'albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello
stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza
del cognome nell'albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi
appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso
cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell'albo
50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato
nell'albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine, vi sono
commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a
limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta
dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto
da perderci dall'entrata di professionisti più bravi e più competenti».
I CONCORSI FARSA:
spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come
il concorso truffa a 1.940 posti presso l'INPS, bandito per sistemare i
lavoratori socialmente utili già operanti presso l'Ente.
LE PROVE D’ESAME:
spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni
prima, come è successo per il concorso degli avvocati, dei dirigenti scolastici,
o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede
all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle
Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del
tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di
ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in
precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte
le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti
all'estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in
un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la
prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle
relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di
testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE
CONSULTABILE: spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato
ed in tutto gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di
materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati
dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Spesso, come succede
al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da
scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e,
nonostante ciò, discriminati in sede di correzione.
IL MATERIALE
CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare
contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci
dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso
di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i
commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande
consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI
ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed
eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di
tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la
commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della
busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema
da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli
errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di
chiarimenti, valutazione dell'elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente
evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma
espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il
profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle
problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto
approccio a problematiche complesse;
• consultazione
collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico
complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della
busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati
corretti;
• redazione del
verbale.
Queste sono solo
fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome,
se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno
leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei
stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei
diventati tali “a fortuna”.
In effetti, con
migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili.
La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo
reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici
sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la
infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la
corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta
discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione
degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio
composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali
si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il
Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere
l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il
concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura,
il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia
degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori
da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata
verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed
europarlamentari prima considerati "non idonei" e poi promossi agli orali. Al
Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di
accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di
ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008,
che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per
manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la
magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha
battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992.
Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei
compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della
busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai
esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il
Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria
mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per
gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri,
proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente
del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici
e tutti abilitati. O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti
professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio
radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta
per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul
file nel quale il caposervizio di un'agenzia, commissario esaminatore, aveva
preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo
scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A
finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del
concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di
comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che
molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro
genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in
cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati
nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di
nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta»,
«Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele
di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che tutte
le persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI,
RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è
successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi
si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio
Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su "Il
Giornale". Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino
non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex
procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era
il segretario, mi ha raccontato che, quando Carnevale si accorse che i vari
componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo
fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di
Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli
orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un
falso? Possibile? Non è l'unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in
una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima
non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti
per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione
diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani
nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale
gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato
(una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale
episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo
stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali
pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari
attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere
particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella
commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA GIUDIZIARIA.
Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di
giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro
amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di
battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso,
dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza
175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento,
economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una
dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni
sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le
operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per
il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito,
il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”,
secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di
abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion
di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle
commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e
giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del
loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non
promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro
presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento
giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella
massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio.
Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e
umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto
assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione
sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che
supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti.
All'improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di
Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice
amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di
esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento
amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo
tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica
amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione
esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in
relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio
sull'elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul
terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso
a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da
evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante
principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n.
8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le
commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Certo che a
qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì,
ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del
Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga
di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove,
scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine.
"Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno
letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto
che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i
concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto
stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il
magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non
aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da
mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle
mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini,
mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si
è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante
l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza –
Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il
principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono
preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i
magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso
sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver
sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe
già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è
stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è
già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei,
fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in
pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del
presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che,
prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era
autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei,
redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta
fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008),
che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della
decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il
concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale
De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove
scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una
altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato
(Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo
Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la
regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza
(Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi
Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da
irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di
autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e
magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non
ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei
nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima
delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di
concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in
aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove.
Qual è l’organo
deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per
consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente!
Ecco perché urge
una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci
devono mettere naso. Ed ho anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame
di Stato con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio
del mercato o assunzione per nomina del responsabile politico o amministrativo
che ne risponde per lui.
E' da vent'anni che
studio il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco,
in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà.
Purtroppo, non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista,
consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e
censura, l’ho fatto. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o
in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non mi rimane altro che
attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che
esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed
avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitarmi, con
l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al
potere. Ho perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria
incorreggibile: so tutto mi, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel
gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi
non li conosce. Ripeto. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai
Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e
pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente
sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è
preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per
parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso
l’abito, cerca di fare il monaco. Ho costituito un gruppo facebook per
“ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LA LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI", in
quanto parlare di liberalizzazione e di purificazione dell’esame di abilitazione
o di accesso alle carriere pubbliche solo con i praticanti non porta da nessuna
parte. Come sempre.
Dr Antonio
Giangrande
Concorsi Pubblici ed
Abilitazione di Stato.
Concorsi pubblici, in
vigore il nuovo regolamento.
Da lentepubblica.it 17 Luglio 2023
Il nuovo regolamento,
che stabilisce nuove misure destinate alle procedure nei concorsi pubblici, è
entrato in vigore: ecco cosa cambia.
Sono già a regime le
nuove norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le
modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di
assunzione nel pubblico impiego.
Scopriamo dunque quali
sono tutte le novità.
Indice dei contenuti
Concorsi pubblici, in
vigore il nuovo regolamento
Concorsi su base
territoriale
Tetto agli idonei
Pubblicazione bandi
Rappresentatività di
genere
Prova orale
Concorsi pubblici, in
vigore il nuovo regolamento
Le nuove misure sono
entrate ufficialmente in vigore il 14 luglio 2023 fino al 2026, salvo proroghe.
Il testo contiene la disciplina regolamentare che le amministrazioni sono tenute
ad applicare nell’espletamento delle procedure concorsuali.
L’intervento si
inquadra nell’ambito di una riforma di sistema che interessa la pubblica
amministrazione, con l’obiettivo di realizzare un ampio disegno volto alla
riforma della capacità amministrativa della pubblica amministrazione e al
raggiungimento degli obiettivi negoziati con la Commissione Europea nell’ambito
del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Concorsi su base
territoriale
In primo luogo, i
concorsi unici potranno essere organizzati su base territoriale.
In sostanza, chi
partecipa a un concorso pubblico, anche se bandito su base nazionale, potrà
scegliere la Regione per cui partecipare e potrà concorrere solo per quella.
Potranno esserci degli
slittamenti da un ambito territoriale all’altro, solo se in una non vi saranno
abbastanza candidati idonei. Però, il trasferimento potrà avvenire solo tra
Regioni confinanti.
Tetto agli idonei
Ed ancora,
l’amministrazione potrà coprire i posti non assegnati mediante scorrimento delle
graduatorie degli idonei non vincitori dello stesso profilo in altri ambiti
territoriali confinanti con il maggior numero di idonei.
Nei concorsi pubblici
saranno considerati idonei i candidati collocatisi, nella graduatoria
finale, entro il 20% dei posti successivi all’ultimo di quelli banditi.
In caso di rinuncia
all’assunzione o di dimissioni del lavoratore entro 6 mesi dall’assunzione,
l’amministrazione potrà procedere allo scorrimento della graduatoria.
Pubblicazione bandi
I bandi per i concorsi
pubblici saranno pubblicati sul Portale inPA, il portale per il reclutamento del
personale della Pubblica Amministrazione e sul sito dell’ente che organizzerà il
concorso.
Rappresentatività di
genere
In una nota della
Funzione Pubblica, si evidenzia che sarà data una particolare attenzione alla
rappresentatività di genere, con l’obiettivo di eliminare qualsiasi forma di
discriminazione.
Sono previste anche
delle speciali tutele per le donne in stato di gravidanza o di allattamento.
Prova orale
Fino al 31 dicembre
2026, i bandi di concorso, per profili non apicali, potranno prevedere solo lo
svolgimento della prova scritta, eliminando il colloquio orale.
Prova orale nei
concorsi pubblici. Sorteggio delle domande e svolgimento della prova orale in
un’aula aperta al pubblico.
Studio Legale Gallone & Urso il 13 Marzo 2019
In questo periodo si
stanno svolgendo le prove selettive di diverse procedure concorsuali, tra cui
quelle per la selezione di docenti nella scuola pubblica e quelle per dirigenti
medici ed infermieri. In diverse occasioni le commissioni esaminatrici hanno
proceduto allo svolgimento delle prove orali, o colloqui, in palese violazione
della specifica normativa sullo svolgimento dei concorsi pubblici. In
particolare, si fa riferimento al D.P.R. 487/1994 e, per quanto concerne il
personale sanitario, anche ai D.P.R. 483/1997 e D.P.R. 220/2001, i quali
sanciscono il principio inderogabile ed immodificabile secondo cui la
commissione esaminatrice, prima della prova orale, formula i quesiti da
sottoporre ai candidati, che dovranno essere somministrati ai candidati mediante
estrazione a sorte. In nessun caso, quindi, la commissione esaminatrice di un
pubblico concorso può evitare il sorteggio delle domande da porre ai candidati,
e ciò, a prescindere da qualsiasi motivazione addotta dalla stessa. La
giurisprudenza amministrativa ha più volte chiarito che la regola del sorteggio
delle domande è una regola generale ed inderogabile a garanzia della trasparenza
delle prove concorsuali. Al fine di invalidare le prove orali, quindi, non
occorre provare altro. In caso di mancato sorteggio delle domande la prova orale
è radicalmente viziata e deve sempre essere annullata e ripetuta.
Sempre con riferimento
alla prova orale, il problema ha investito anche la possibilità per la
commissione esaminatrice di far svolgere le prove in aule non aperte al
pubblico. Anche questo contrasta nettamente con quanto previsto dalla suindicata
normativa, e pertanto, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che anche in
tale ipotesi le prove orali siano irrimediabilmente viziate, e come tali vadano
annullate e ripetute. E’ accaduto più volte che la commissione esaminatrice
impedisse ai candidati in attesa di sostenere la prova orale di assistere alle
prove dei colleghi, con la motivazione di voler impedire che gli stessi
potessero essere avvantaggiati dal fatto di ascoltare in anticipo domande poi
ripetute. Il Consiglio di Stato, confermando una pronuncia di primo grado, ha
ribadito che le prove orali di qualsiasi procedura concorsuale debbano sempre
svolgersi in un’aula aperta al pubblico in modo che chiunque possa assistervi.
Di conseguenza, nel caso in cui la commissione esaminatrice chieda ai candidati
in attesa di essere esaminati di attendere il loro turno in una stanza separata,
pone in essere un comportamento certamente illegittimo e, in caso di bocciatura,
il candidato potrà senza dubbio ottenere l’annullamento di tale bocciatura
dinnanzi al tribunale amministrativo competente.
Se avete un problema
simile o che comunque concerne la tematica dei concorsi pubblici, non esitate a
contattarci per una consulenza personalizzata.
Diritto del candidato
assistere alle prove orali di concorsi.
Il Consiglio di Stato,
con sentenza n°1626 del 27/03/2015, ha chiarito che è diritto del candidato e di
terzi estranei accedere alle aule di concorso durante le prove orali.
Il candidato che ha
già sostenuto la prova, o deve ancora sostenere il colloquio, ha il diritto di
presenziare alle prove degli altri candidati sia per assicurarsi dello
svolgimento della prova, sia per verificare il corretto operare della
Commissione.
Antonio Giangrande:
la prova orale, madre si tutte le arroganze e presunzioni. In sede di
esame orale ti trovi di fronte una schiera di Commissari di esame che fanno
sfoggio della loro sapienza rispetto a te e rispetto a loro stessi. L’oggetto
dell’esame non verte sulla tua perizia rispetto alle materie esaminandi, ma
sulla capacità di metterti in difficoltà rispetto alla loro presunzione di
saperne più di te e del loro collega commissario. Tu che hai superato a pieni
voti lo scritto ti trovi di fronte una barriera di contestazioni, di
approssimazioni, di fuorvianze, che ti inceppano i ricordi e che minano il tuo
stato psicologico. Se invece sei un amico o conoscente, o, meglio, un
raccomandato, tutto cambia. Le domande sono benevole, o i voti sono in contrasto
con la scena muta, o con risposte incomplete o fuorvianti. I senior, pur senza
limitazioni all’accesso, poi sono penalizzati: non idonei a prescindere. Chi già
opera in altri corpi, magari assunto con un concorso truccato, e per capriccio e
sazietà vuol cambiare, è favorito, pur se incapace. Fortunati una volta,
fortunati per sempre.
Meglio allora se non
si fanno più le prove orali.
Antonio Giangrande: Nei Concorsi Pubblici ci sono due tipi di prove scritte:
Quella con risposte uniche e motivate, la cui correzione è, spesso, lunga,
farraginosa e fatta da commissioni clientelari, familistici e incompetenti che
non correggono o correggono male non avendo il tempo necessario o la
preparazione specifica e che promuovono secondo fortuna o raccomandazione.
Quella con domande multiple, spesso, incoerenti con la competenza richiesta, ma
che garantiscono velocità di correzione e uniformità di giudizio.
Chi è abituato all’aiutino disdegna i quiz, in cui non si può intervenire, se
non conoscendoli in anticipo.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Costituzione della Repubblica Italiana
Legge fondamentale dello Stato
Assemblea Costituente. Schieramento:
Partito Socialista Italiano
Partito Comunista Italiano
Democrazia Cristiana
Partito Liberale Italiano
Partito Repubblicano Italiano
Blocco Nazionale della Libertà
Partito Democratico del Lavoro
Partito d'Azione
Movimento per l'Indipendenza della Sicilia
Concentrazione Democratica Repubblicana
Partito Sardo d'Azione
Promulgazione 27 dicembre 1947 A firma di Enrico De Nicola
In vigore1º gennaio 1948
La Costituzione della Repubblica Italiana è la legge fondamentale dello Stato
italiano, e si posiziona al vertice della gerarchia delle fonti nell'ordinamento
giuridico della Repubblica. Considerata una costituzione scritta, rigida, lunga,
votata, compromissoria, laica, democratica e tendenzialmente programmatica, è
formata da 139 articoli e da 18 disposizioni transitorie e finali.
Approvata dall'Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata dal capo
provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre seguente, pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale n. 298, edizione straordinaria, dello stesso giorno, ed
entrata in vigore il 1º gennaio 1948, ne esistono quattro originali: uno presso
l'archivio storico della Presidenza della Repubblica Italiana, uno presso
l'archivio storico della Camera dei deputati, uno presso l'Archivio Centrale
dello Stato e uno presso la biblioteca del Dipartimento di Scienze Giuridiche
dell'Università del Salento.
Legalità:
riserva di legge, Tassatività, Irretroattività, Tipicità (non analogia)
PRINCIPIO DI LEGALITA’
E’ il principio formale su cui si basa il Sistema Penale ed è fondato sul
Sistema del doppio binario, basato sia sulla pena che sulle misure di sicurezza.
E' sancito dai seguenti articoli:
-
Articolo 23 Cost:
“Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base
alla legge”.
-
Art. 25 Cost.:
"Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di
sicurezza se non nei casi previsti dalla legge."
-
Art. 1 c.p.:
"Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come
reato dalla legge, né con pene che siano da esse stabilite."
-
Art. 2 c.p.:
Successione di leggi penali. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo
la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli
effetti penali.
Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede
esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte
immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135.
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse,
si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia
stata pronunciata sentenza irrevocabile.
Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni
dei capoversi precedenti.
Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e
di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge
convertito in legge con emendamenti.
- Art. 199 c.p.: "Nessuno può essere sottoposto a misure di
sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dai casi
dalla legge stessa preveduti."
Art. 14 cod. civ.
(preleggi) (Applicazione delle leggi penali ed eccezionali). Le leggi penali e
quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano
oltre i casi e i tempi in esse considerati.
Legge di depenalizzazione L. 24 novembre 1981, n. 689
Art. 1 Principio di legalità
Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione.
Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e
per i tempi in esse considerati.
Addebitabilità: Imputabilità
- responsabilità
Gravità
Colpevolezza psicologica:
doloso
preterintenzionale e dolo eventuale
colposo (colpa cosciente come aggravante)
Responsabilità personale
Art. 2043 Codice Civile.
(Risarcimento per fatto illecito).
Qualunque fatto doloso o colposo,
che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a
risarcire il danno.
Articolo 27 cost:
La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e
devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.
Articolo 28 cost.
I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente
responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti
compiuti in violazione di diritti.
In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti
pubblici
Articolo 13 cost. La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione
personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per
atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla
legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge
l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che
devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se
questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati
e restano privi di ogni effetto.
E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a
restrizioni di libertà;
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Articolo 40 Codice
Penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) Rapporto di causalità
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se
l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è
conseguenza della sua azione od omissione.
Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a
cagionarlo.
Articolo 42 Codice
Penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) Responsabilità per dolo o per colpa o
per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva
Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge
come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se
non l'ha commesso con dolo, salvo i casi di
delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge.
La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico
dell'agente, come conseguenza della sua azione od omissione.
Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione
cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.
Legge di depenalizzazione L. 24 novembre 1981, n. 689
Art. 3 Elemento soggettivo
Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è
responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa
dolosa o colposa.
Nel caso in cui la violazione è commessa per errore sul fatto, l'agente non è
responsabile quando l'errore non è determinato da sua colpa.
“Ai sensi dell’art. 8 T.U.L.P.S. le autorizzazione di polizia sono
personali e quindi possono essere rilasciate esclusivamente a persone fisiche e
non a persone giuridiche”.
Responsabilità amministrativa
In diritto, la responsabilità amministrativa è un tipo di responsabilità
patrimoniale prevista dagli ordinamenti giuridici che si pone in capo ad agenti
della pubblica amministrazione (dipendenti e funzionari pubblici ma anche altri
soggetti che svolgono compiti per la p.a.) per un danno alle casse erariali. Le
misure sono tendenzialmente di tipo risarcitorio, di tipo sanzionatorio in
alcuni casi.
In Italia
Il principio della responsabilità del dipendente pubblico è anzitutto statuito
dall'art. 28 della Costituzione della Repubblica Italiana, che recita:
«i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente
responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti
compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si
estende allo Stato e agli enti pubblici»
Regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, in materia di "Approvazione del Codice
penale. Codice Rocco
Il bene giuridico leso è il
buon andamento (fedeltà, onestà, correttezza) e l’imparzialità della Pubblica
Amministrazione
Per il peculato comune e
d’uso: denaro e cosa mobile altrui
Per peculato su errore
altrui, concussione, corruzione: denaro o altra utilità
Per i reati contro la
Pubblica Amministrazione la funzione pubblica di reità è sempre esperita dal
Pubblico Ufficiale e dall’Incaricato di Pubblico Servizio, residuale è quella
dell’esercente un servizio di pubblica necessità.
Corruzione impropria: prima era corruzione per un atto d’ufficio, ora è
corruzione per l’esercizio della funzione.
Concussione: prima era solo Pubblico Ufficiale ed anche induzione, ora è
Pubblico Ufficiale e Incaricato di Pubblico Servizio e solo costrizione.
Sintetizzando, il tratto caratterizzante dei protagonisti delle varie condotte
può essere il seguente:
Peculato appropria 314: Pubblico ufficiale = Incaricato di pubblico servizio;
Concussione costringe 317: Pubblico ufficiale = Incaricato di pubblico servizio;
Induzione indebita induce 319 quater: Pubblico ufficiale = Incaricato di
pubblico servizio
Corruzione offre-riceve 318-319: Pubblico ufficiale corrotto-privato
corruttore/Incaricato di pubblico servizio -1/3
Istigazione alla corruzione 322:
offerta-promessa privato -1/3;
sollecitazione Pubblico ufficiale = Incaricato di pubblico servizio -1/3.
concussione = minaccia arrogante 6-12;
induzione indebita= pressione morale abusante 2-10 anno e 6 mesi;
corruzione: impropria da tre a otto anni; propria da 6 a dieci anni; atti
giudiziari da sei a dodici anni, da sei a quattordici se condanna – 5 anni, da
otto a venti anni se + cinque anni o ergastolo
istigazione alla corruzione= sollecitazione corruttiva 3-8, -1/3 se privato.
Decreto del presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447, in materia di
"Approvazione del codice di procedura penale." Codice Vassalli
Depenalizzazione. Legge 24 novembre 1981, n. 689
Regio decreto 18 giugno 1931 n. 773. Regolamento regio decreto 6 maggio 1940, n.
635. Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza
Legge 1° aprile 1981, n. 121 - Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della
pubblica sicurezza.
La legge 7 marzo 1986, n. 65 ("Legge quadro sull'ordinamento sulla polizia
municipale")
La legge 25 agosto 1991, n. 287 "Aggiornamento della normativa sull'insediamento
e sull'attività dei pubblici esercizi" (G.U. 3.09.1991, n.206).
L. n. 241/1990 ("Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi")
Testo Unico in materia di documentazione amministrativa. (D.P.R. 28 dicembre
2000, n. 445)
(Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 2001)
Il decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 Codice dell'amministrazione digitale
Programmazione
Il principio di responsabilità 28 cost
Il principio dell’azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini contro
la PA e il principio di sindacabilità degli atti amministrativi 113 cost
Principi menzionati specificamente dalla legge n. 241/90 e sono, oltre al
principio di legalità, cinque: economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità
e trasparenza (progressivo aumento nel 2005 si è aggiunta la trasparenza e nel
2009 l'imparzialità
Il principio di semplificazione
Il Principio di Collaborazione e buona fede
Provvedimento espresso 2
Motivazione 3
trasparenza e il principio del diritto all'accesso capo V (art. 22-28) della
legge 241/1990
D.P.R. n. 1199 del 1971, contenente la semplificazione dei procedimenti in
materia di ricorsi amministrativi
Il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 Codice del processo amministrativo
LEGGE 14 gennaio 1994, n. 20. Disposizioni in materia di giurisdizione e
controllo della Corte dei conti.
Legge 17 febbraio 1968 n. 108 elezione; la Legge 16 maggio 1970 n. 281
finanziamento
Ex Legge nº 142/1990.
Il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (anche Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali; abbreviato TUEL o anche TUOEL)
La legge 7 aprile 2014, n. 56 (cd. ‘legge Delrio') per provincie e città
metropolitane
Riconoscimento autonomie locali-decentramento Sussidiarietà (verticale ed
orizzontale), differenziazione ed adeguatezza
Piano Esecutivo di Gestione
(Giunta obiettivi, modalità, tempi)
Entrate: accertamento,
riscossione, versamento
Spese: Impegno, liquidazione,
ordinazione, pagamento
cassa:
Riscossione-Versamento, Pagamento
competenza: Accertamento,
impegno
I conti numerari si differenziano conti numerari certi, assimilati e presunti
D. lgs. 30 marzo 2001 n. 165 contenente le “Norme generali sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.
D.P.R. n. 62/2013, recante «Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a
norma dell'articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165».
Artt. 2104, 2105 e 2106 Codice Civile
Legge 20 maggio 1970 n. 300, art. 7 (Statuto dei Lavoratori)
D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, artt. da 54 a 55 septies (come riscritto dal D.Lgs.
27 ottobre 2009, n. 150)
Contrattazione collettiva di comparto
Il codice disciplinare, peraltro, può essere predisposto dalla contrattazione
collettiva nazionale o aziendale oppure anche unilateralmente dal datore di
lavoro.
Legge 6 agosto 2008, n. 133 (di
conversione del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 detto anche decreto
Brunetta, il cosiddetto decreto anti-fannulloni. La legge delega n.
15/2009. Il decreto legislativo n. 150/2009
Legge 11 agosto 2014, n. 114 Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante misure urgenti per la
semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici
giudiziari.
(art 2094 CC): il lavoratore deve svolgere in maniera diligente i suoi compiti,
permettendo al datore di lavoro di utilizzare le sue energie lavorative;
(art. 2104 CC): ogni attività deve avvenire con impegno e dovrà essere
proporzionata alle capacità del lavoratore, alla tipologia di richiesta
dell’azienda e alle altre attività previste;
il lavoratore dovrà eseguire i compiti indicati, secondo il principio di
gerarchia previsto dal contratto di lavoro;
(art 2105 CC): il dipendente deve sempre mantenere un comportamento di fedeltà
rispetto all’azienda o al soggetto per cui lavora, rispettando le norme sulla
concorrenza e senza arrecare pregiudizio con altra attività simile.
Integrità, Correttezza, Buona
Fede, Proporzionalità, Obbiettività, Trasparenza, Equità, Ragionevolezza,
tracciabilità degli atti.
"Il dipendente deve agire in posizione di indipendenza e imparzialità,
astenendosi in caso di conflitto di interessi. Il citato principio: È
espressamente contenuto tra i "principi generali" nel Codice di comportamento
dei dipendenti pubblici
Principi.
Sanzioni:
Le
sanzioni disciplinari:
principi di tassatività:
previsione normativa
Questo principio trova riconoscimento nell'articolo 1 del Codice penale e
nell'articolo 14 delle preleggi del Codice Civile che stabilisce: “le leggi
penali non possono essere applicate oltre i casi e i tempi in esse stabiliti”.
Tale corollario viene anche definito divieto di analogia in malam partem.
L’elenco delle sanzioni applicabili a carico dei dipendenti è tassativo, con la
conseguenza che non è consentito infliggere al ritenuto responsabile delle
violazioni contestate una pena diversa da quelle previste dalla legge.
di proporzionalità:
secondo gravità
di gradualità.
Principi:
Le sanzioni comunemente previste sono, in ordine di gravità, il rimprovero
verbale, il biasimo scritto, la multa (trattenuta dalla retribuzione e versata
ad un apposito fondo presso l’INPS), la sospensione (dalla retribuzione e dal
lavoro), il licenziamento disciplinare (per giustificato motivo
soggettivo-oggettivo, con preavviso, e per giusta causa, senza preavviso).
Iter :
Quali sono le fasi del procedimento disciplinare?
Il
procedimento disciplinare e le sue fasi: a)
contestazione dell'addebito, b) istruttoria, c) adozione della sanzione.
Ante D.Lgs. n. 50/2016; Post D.Lgs. n. 36/2023
CONTRATTI PUBBLICI. I principi generali del nuovo Codice dei contratti pubblici.
Il Principio del risultato
Il Principio della fiducia
Il Principio dell’accesso al mercato
Garanzie:
RISCHIO OPERTATIVO:
Costruzione, disponibilità, domanda
Regolamento UE 679/16
GDPR –
General Data Protection Regulation – ossia il
Regolamento dell’Unione Europea sulla protezione dei Dati che
ha sostituito l’attuale Direttiva
Privacy 95/46/CE.
L 17-08-1942 N. 1150-Legge urbanistica.
D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380,
Testo unico dell'Edilizia.
D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 Testo Unico Espropri.
DM 14 settembre 2005 Norme tecniche per le costruzioni
Nel quadro generale, la normativa di riferimento resta il D.P.R. 6 giugno 2001
n.380 – Testo Unico dell’edilizia. Esso fornisce all’art. 3 alcune precise
definizioni degli interventi edilizi, così classificati:
Interventi di manutenzione ordinaria.
Interventi di manutenzione straordinaria.
Interventi di restauro e risanamento conservativo.
Interventi di ristrutturazione edilizia.
Interventi di nuova costruzione.
Interventi di ristrutturazione urbanistica.
1.1 La manutenzione ordinaria
1.2 L’autocertificazione (la vecchia DIA)
1.3 CILA (Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata)
1.4 SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività)
1.5 Permesso di Costruire
Differenze tra condono e accertamento di conformità
Dall’analisi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 e le 3 norme sul condono
edilizio risultano evidenti le differenze sostanziali tra le possibilità
previste per l’ottenimento del permesso di costruire in sanatoria:
nel primo caso, la sanatoria ordinaria è vincolata al requisito della doppia
conformità;
nel secondo, al requisito temporale,
nel terzo, al parere delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo (se
presente) e ai limiti volumetrici.
Abusi edilizi: il comune può optare per:
demolizione d'ufficio,
ingiunzione di demolizione
sanzione pecuniaria
acquisizione gratuita al patrimonio comunale
Fiscalizzazione
L'art. 8 del D.P.R. n. 327/2001 prevede che il decreto di esproprio possa essere
emanato qualora:
a) l'opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in
un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato
apposto il vincolo preordinato all'esproprio;
b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità;
c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l'indennità di esproprio.
Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 “Testo Unico Ambientale” o “Codice
dell'ambiente”
Quali sono i principi ambientali?
La politica dell'Unione in materia di ambiente si basa sui principi della
precauzione, dell'azione preventiva e della correzione alla fonte dei danni
causati dall'inquinamento, nonché sul principio «chi inquina paga».
Principio dell’azione ambientale
Principio dello sviluppo sostenibile
Principi di sussidiarietà e di leale collaborazione
Diritto di accesso alle informazioni ambientali e di partecipazione a scopo
collaborativo
Il Testo Unico Ambientale (TUA D.Lgs. 152/06), costituito da 318 articoli e 45
allegati, è suddiviso in diverse sezioni tematiche, che indichiamo di seguito:
Parte I: Disposizioni comuni e principi generali
Parte II: VAS, VIA, AIA
Parte III: Difesa del suolo, tutela delle acque, gestione delle risorse idriche
Parte IV: Gestione dei rifiuti, bonifica dei siti inquinati
Parte V: Tutela dell’aria, riduzione delle emissioni in atmosfera
Parte V-bis: Disposizioni per particolari installazioni
Parte VI: Danni all’ambiente
Parte VI-bis: Ecoreati
A partire dalla data della sua pubblicazione, in G.U. Serie Generale n. 88 del
14-04-2006 – e successivamente alla sua entrata in vigore il 29/4/2006 – sul TUA
sono intervenute numerose modifiche; gli interventi hanno riguardato in
particolare le parti II, IV e V, e sono state inserite due ulteriori parti, la
V-bis e la VI-bis.
Quest’ultima parte aggiunta in seguito alla emanazione della Legge n. 68/2015 in
materia di ecoreati.
VIA, VAS, IPPC: valutazioni ambientali integrate
VIA, VAS, IPPC. Quando si parla di ambiente, soprattutto nei casi in cui gli
amministratori pubblici sono chiamati ad effettuare scelte che incidono sulla
gestione del territorio, è inevitabile imbattersi in questi acronimi, i cui
significati sono ormai noti:
Si tratta del processo che comprende, secondo le disposizioni di cui al titolo
II della seconda parte del decreto, lo svolgimento di una verifica di
assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di
consultazioni, la valutazione del piano o del programma, del rapporto e degli
esiti delle consultazioni, l'espressione di un parere motivato, l'informazione
sulla decisione ed il monitoraggio
Che cosa si intende per VIA In base al Codice ambiente?
La valutazione di impatto ambientale (VIA) è un procedimento diretto ad
accertare la compatibilità ambientale di specifici progetti ed è quindi
successiva, logicamente, alla VAS quando il progetto in esame sia inserito in un
ambito pianificatorio o programmatorio.
è un provvedimento che mira a verificare la compatibilità ambientale di una
determinata attività ed è quindi successiva, logicamente, rispetto alla VIA
quando l'attività in questione sia svolta attraverso un'opera soggetta ad essa.
Si tratta di attività amministrative complesse, caratterizzate da un elevato
grado di interdisciplinarietà e da contenuti tecnici di carattere
specialistico.
I trattati istitutivi sono:
il trattato di Parigi che istituisce la Comunità europea del carbone e
dell’acciaio (1951);
il trattato di Roma che istituisce la Comunità economica europea ed Euratom
(1957);
il trattato Euratom (1957);
il trattato di Maastricht (1992).
I trattati modificativi sono:
l’Atto unico europeo (1986);
il trattato di Amsterdam (1997);
il trattato di Nizza (2001);
il trattato di Lisbona (2007) TFUE - TUE.
la pace, i valori e il
benessere dei suoi popoli
La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea è composta da 54 articoli
che: Assicurano i
diritti e le libertà dei cittadini europei, suddivisi in sei voci: dignità,
libertà, uguaglianza, solidarietà, diritti dei cittadini, giustizia
Legge Quadro 328/2000 "Legge
quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi
sociali"
La Legge 104/1992 "Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i
diritti delle persone handicappate"
DPR 22 dicembre 1986 n. 917 Testo Unico delle imposte sui redditi (TUIR)
Legge 27 dicembre 2019, n. 160 Nuova IMU 2020 - Bilancio di previsione dello
Stato per l'anno finanziario 2020 / Canone Unico Patrimoniale
Legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità per il 2014) TARI
Decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285 e successive modificazioni ''NUOVO
CODICE DELLA STRADA''
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Regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, in materia di "Approvazione del codice
penale.
Regio decreto Legislatura XXVIII Legislatura del Regno d'Italia
Promulgazione 19 ottobre 1930 A firma di Vittorio Emanuele III
Proponente Alfredo Rocco
Se stai cercando l'altro codice firmato come guardasigilli da Alfredo Rocco,
vedi Codice di procedura penale italiano del 1930.
Il Codice Penale è la codificazione e la principale raccolta di norme in materia
di diritto penale nell'ordinamento italiano. Il codice è altresì noto come
"codice Rocco", dal nome del Ministro di grazia e giustizia del Governo
Mussolini che principalmente ne curò l'estensione, Alfredo Rocco.
Insieme alla Costituzione e alle leggi speciali è una delle fonti del
diritto penale italiano, ancora oggi in vigore pur con numerose modifiche.
Storia.
Nel partire dal presupposto che il codice Rocco abbia creato un "modello di uomo
delinquente", l'opinabile ragionamento si conclude sostenendo che le recenti
riforme sono "parziali e scollegate tra loro".
Il primo Codice Penale del Regno d'Italia fu il codice penale
sabaudo del 1839 del Regno di Sardegna, esteso nel 1859 al resto della penisola
durante la realizzazione dell'unità d'Italia. Tuttavia,
dal 1861 al 1889 convissero due codici penali distinti perché la Toscana
continuò ad usare il proprio codice (che prevedeva l'abolizione della pena di
morte dal 1859 dopo che era stata reimmessa nel 1853). L'unificazione normativa
avvenne con il Codice Zanardelli, che porta il nome del Ministro di grazia e
giustizia Giuseppe Zanardelli e venne promulgato il 30 giugno 1889, per entrare
in vigore il 1º gennaio dell'anno seguente.
Durante il governo Mussolini, la promulgazione della legge delega, 4 dicembre
1925 n. 2260, consentì al governo di emendare il codice vigente; la nuova
legislazione venne emanata il 19 ottobre 1930, realizzata tecnicamente sotto la
direzione del Manzini, e con Regio Decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale del 26 ottobre 1930, n. 251 (straordinario) entrato in
vigore il primo luglio 1931. Il regio decreto di promulgazione riporta
in calce le firme del Re d'Italia Vittorio Emanuele III, dell'allora Capo del
Governo Benito Mussolini, e del Ministro di grazia e giustizia Alfredo Rocco.
Il Codice Zanardelli venne completamente sostituito da un Codice penale che
meglio rispondeva alle esigenze del nuovo secolo e, soprattutto, del
nuovo regime fascista.
La dottrina penalistica fascista, al contrario di quella di epoca liberale,
proponeva un sostanziale spostamento dell’attenzione dal reato a colui che lo
commette, andando a creare un modello di “uomo delinquente” (idea influenzata,
in parte, dalle teorie di Cesare Lombroso). Ciò che andava punito non era più il
reato, ma l’uomo stesso che veniva giudicato nelle sue componenti fisiche,
psichiche, sociali e ambientali durante il processo. La pena, infine, andava
commisurata alla pericolosità del delinquente, la quale avrebbe dovuto difendere
e proteggere la società da quest’ultimo. Secondo Mario Sbriccoli il Codice
penale si trasformava, così, in un’arma nelle mani dello Stato da usare contro i
nemici della società che sarebbero, in realtà, i suoi stessi nemici. Questo era
ritenuto il solo modo efficace per tutelare al contempo: lo Stato, la società e
i cittadini. Fu fatto un attento lavoro di «torsione» dell’ordinamento penale
«attraverso aggiustamenti, eccezioni, slittamenti, erosioni e svuotamenti» che
hanno finito per sostituire quel «garantismo indulgenziale» del periodo liberale
con quel «perseguimento repressivo» proprio del regime fascista.
A partire dal secondo dopoguerra, dopo le prime necessarie riforme del 1944 e
del 1947 per adeguare il codice al nuovo ordinamento politico, numerose sono
state le Commissioni di studio che hanno redatto relazioni ed articolati per
l'approvazione di un nuovo codice penale e da più parti politiche il codice
Rocco è stato ampiamente criticato. Inoltre, il mondo accademico e gli operatori
del diritto si sono più volte espressi per la non procrastinabilità di un codice
penale nuovo, moderno e pienamente aderente ai principi costituzionali.
In mancanza di un codice integralmente nuovo, il codice penale è stato riformato
progressivamente, con numerose modifiche apportate dal Parlamento e
dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Dette modifiche sono state
molto numerose, ampie e importanti e hanno cambiato fisionomia al codice, ma
senza un disegno unitario e non sempre apprezzate dalla dottrina.
Le modifiche essenziali
Il codice, pur mantenendo alcuni elementi di severità nella disciplina della
responsabilità penale (peraltro smussati dalla giurisprudenza), è stato
profondamente modificato, ammodernato ed epurato delle disposizioni più
marcatamente anacronistiche e autoritarie, di matrice fascista, che dopo
l'instaurazione della repubblica risultarono in contrasto con la Costituzione.
Tali profondi mutamenti hanno molto cambiato il codice e sono avvenuti sia
attraverso numerose riforme parziali, sia mediante pronunce di illegittimità da
parte della Corte costituzionale. Molti istituti del precedente codice
Zanardelli sono stati ripristinati (esclusione della pena di morte, circostanze
attenuanti generiche, reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico
ufficiale, prova liberatoria per i delitti contro l'onore, reati contro il capo
dello stato, prevalenza della pena pecuniaria per i reati di vilipendio, pari
tutela penale per tutte le religioni, punizione degli attentati politici solo
nei casi di condotte violente) e gran parte delle innovazioni del codice Rocco
sono state abrogate o dichiarate incostituzionali (pena di morte, associazione
antinazionale, associazione internazionale senza autorizzazione, serrata e
sciopero per fini contrattuali, attività antinazionale del cittadino all'estero,
propaganda sovversiva o antinazionale, attentati e offese al capo del governo) o
profondamente modificate (associazione sovversiva, boicottaggio).
Già nel periodo luogotenenziale, comunque, si era provveduto a qualche
importante emendamento; ad esempio, furono ripristinate le circostanze
attenuanti generiche e fu abolita la pena di morte.
In seguito, sono avvenute anche altre riforme, sia nella parte generale che
nella parte speciale. Nella parte generale sono intervenute modifiche in materia
di liberazione condizionale, di bilanciamento delle circostanze, di sospensione
condizionale della pena, di misure di sicurezza, di imputazione delle
circostanze che aggravano la pena, di cause di giustificazione (scriminanti),
l'introduzione del proscioglimento per speciale tenuità del fatto, delle pene
sostitutive e dei percorsi di giustizia riparativa. Nella parte speciale sono
avvenute riforme in tema di reati politici, di delitti sessuali, di delitti
contro la persona, il patrimonio, la pubblica amministrazione e altri ancora; i
reati di vilipendio politico e religioso sono tornati all'impostazione
del Codice Zanardelli (con prevalenza della pena pecuniaria) e i delitti di
attentato sono ora modellati sul tentativo e in parte ridimensionati; è stato
abolito il delitto di fatto diretto a turbare (anche solo pacificamente) gli
organi costituzionali; sono state eliminate tutte le discriminazioni religiose e
di genere inizialmente presenti nel codice; i reati di adulterio, concubinato,
associazioni antinazionali e internazionali, propaganda sovversiva e
antinazionale, duello e turpiloquio sono stati abrogati. Sono invece stati
inseriti reati di terrorismo, di atti persecutori (stalking), contro l'ambiente,
contro il sentimento per gli animali, contro l'eguaglianza e contro i beni
culturali, nonché nuovi delitti a danno dei minorenni, per adeguare il nostro
ordinamento alle mutate e nuove esigenze sociali. Inoltre, sono stati
notevolmente ampliati i reati procedibili a querela.
I progetti di riforma
Una riforma organica del codice penale non è mai stata varata. Dopo la caduta
del fascismo, la dottrina penalistica (Pannain, Delogu, Leone) ritenne infatti
improponibile il ripristino dell'ottocentesco Codice Zanardelli, e osteggiò
anche una riforma ex novo, sostenendo che il rigoroso impianto tecnico del
Codice Rocco bastasse, tutto sommato, a immunizzarlo, negli aspetti di fondo,
dalla politicizzazione. Quindi la «persistenza, sia pure più formale che
sostanziale, di questo codice pare ravvisabile nella sua perfezione
tecnico-giuridica» che fece passare in secondo piano il coinvolgimento politico
e ideologico di Alfredo Rocco. Ciò non significa che il codice sia rimasto
immutato: nei decenni successivi sono intervenute numerose e importanti riforme,
anche col ripristino di varie norme del codice Zanardelli (v. supra), ma senza
un disegno unitario. Tutto ciò ha portato ad una perdita di compattezza e
coerenza logica nel codice penale.
Le riforme intervenute sono state numerose, ampie e profonde, tuttavia non
sempre nel senso auspicato dalla dottrina maggioritaria. Accanto a riforme di
depenalizzazione e ridimensionamento sanzionatorio sono state introdotte riforme
in senso più rigorista e repressivo, in particolare contro il terrorismo ma non
solo.
A distanza di decenni dall'entrata in vigore della Costituzione, la necessità di
un codice nuovo e più moderno, ispirato, oltre che ai principi costituzionali,
alle convenzioni internazionali e al tema dei nuovi diritti, è da più parti
avvertita, e progetti di riforma complessiva sono stati presentati anche in sede
istituzionale (si ricordano le esperienze delle commissioni ministeriali
Pagliaro, progetto Riz e Grosso, del 1988 e 2001), senza tuttavia andare in
porto.
Struttura
Il codice penale è organizzato in tre libri, a loro volta suddivisi in titoli,
capi, sezioni, paragrafi e articoli.
N° titolo |
Titolo |
Articoli |
Libro I |
Dei reati in generale |
1-240 |
Titolo I |
Della legge penale |
1-16 |
Titolo II |
Delle pene |
16-38 |
Titolo III |
Del reato |
39-84 |
Titolo IV |
Del reo e della persona offesa dal reato |
85-131 |
Titolo V
|
Della non punibilità per particolare tenuità del fatto. Della
modificazione, applicazione ed esecuzione della pena |
131-bis-149
|
Titolo VI |
Dell'estinzione del reato e della pena |
149-184 |
Titolo VII |
Delle sanzioni civili |
185-198 |
Titolo VIII |
Delle misure amministrative di sicurezza |
199-240 |
Libro II |
Dei delitti in particolare |
241-649-bis |
Titolo I |
Dei delitti contro la personalità dello Stato |
241-313 |
Titolo II |
Dei delitti contro la pubblica amministrazione |
314-360 |
Titolo III
|
Dei delitti contro l'amministrazione della giustizia |
361-401
|
Titolo IV |
Dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti |
402-413
|
Titolo V |
Dei delitti contro l'ordine pubblico |
414-421 |
Titolo VI |
Dei delitti contro l'incolumità pubblica |
422-452 |
Titolo VI-bis |
Dei delitti contro l'ambiente |
452-bis-452-terdecies |
Titolo VII |
Dei delitti contro la fede pubblica |
453-498 |
Titolo VIII |
Dei delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio |
499-518 |
Titolo VIII-bis |
Dei delitti contro il patrimonio culturale |
518-bis-518-undevicies |
Titolo IX
|
Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume |
519-544
|
Titolo IX-bis
|
Dei delitti contro il sentimento per gli animali |
544-bis-544-sexies
|
Titolo X
|
Dei delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe (abrogato) |
545-555
|
Titolo XI |
Dei delitti contro la famiglia |
556-574-ter |
Titolo XII |
Dei delitti contro la persona |
575-623-ter |
Titolo XIII |
Dei delitti contro il patrimonio |
624-649-bis |
Libro III
Titolo I |
Delle contravvenzioni in particolare
Delle contravvenzioni di polizia |
650-734-bis
650-730 |
Titolo II |
Delle contravvenzioni concernenti l'attività sociale della pubblica
amministrazione |
731-734 |
Titolo II-bis |
Delle contravvenzioni concernenti la tutela della riservatezza |
734-bis |
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Decreto del presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447, in materia di
"Approvazione del codice di procedura penale."
Decreto del presidente della Repubblica Promulgazione 22 settembre 1988 a firma
di Francesco Cossiga
Legislatura X
Proponente Giuliano Vassalli
Schieramento DC, PSI, PLI, PRI, PSDI
Testo Il codice di procedura penale è la raccolta sistematica delle norme che
regolano il processo penale italiano.
L'attuale codice di procedura penale, detto anche "codice Pisapia-Vassalli", fu
introdotto con il decreto del presidente della Repubblica 22 settembre 1988 n.
447, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 250 del 24 ottobre 1988 ed entrò in
vigore il 24 ottobre 1989.
Storia
Il codice di procedura penale italiano del 1865, contenente una prima
regolamentazione organica del processo penale in Italia, fu emanato
nella codificazione del 1865; fu in seguito sostituito da una nuova
codificazione della materia nel 1913 e nuovamente da quella del 1930.
Nuovamente nel 1963 fu presentato un disegno di legge che prevedeva l'emanazione
di una legge di delega al Governo per la riforma dei codici, e dunque anche del
codice di procedura penale. Il disegno di legge delega non si concretizzò
comunque in alcun provvedimento legislativo. L'idea fu ripresa nel 1965 e, dopo
un lungo iter parlamentare, la legge delega fu finalmente approvata nel 1974.
Tale delega al governo conteneva una serie di principi e criteri direttivi a cui
il governo si sarebbe dovuto attenere al fine di emanare un nuovo codice di
procedura penale.
Nel 1978 fu pubblicato un progetto preliminare del nuovo codice, costituito da
656 articoli e 132 disposizioni preliminari. Ancora una volta, il progetto non
si concretizzò nell'emanazione di un nuovo codice e trascorsero ulteriori nove
anni perché si giungesse all'approvazione della legge delega 16 febbraio 1987,
n. 81 per l'emanazione di un nuovo codice; nella norma il parlamento indicava al
governo le direttive cui il nuovo codice di procedura penale si sarebbe dovuto
attenere, tra le quali vi erano l'impellenza di adeguare il processo penale in
Italia al modello delineato nelle Convenzioni internazionali, e l'esigenza di
imperniare il procedimento penale attorno ad un sistema
fondamentalmente accusatorio; ciononostante, alcuni particolari aspetti del
sistema italiano, particolarmente in relazione al dibattimento, fanno tuttora
del processo penale italiano un sistema accusatorio misto.
La delega fu reiterata nelle successive legislature e nella X fu finalmente
adempiuta dal ministro Giuliano Vassalli sulla scorta dei lavori della
commissione ministeriale presieduta da Gian Domenico Pisapia, che gli rassegnò
le sue conclusioni nel 1988. Previo parere parlamentare (ad opera della
Commissione bicamerale presieduta da Ignazio Marcello Gallo), il nuovo codice di
procedura penale fu emanato col decreto del presidente della Repubblica n. 447
del 22 settembre 1988 ed entrò finalmente in vigore il 24 ottobre 1989.
Struttura
Il codice di procedura penale vigente è formato da 746 articoli, suddivisi in 11
libri, e 260 disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie.
Libro primo |
Soggetti |
Titolo I |
Giudice (Artt. 1-49) |
Titolo II |
Pubblico ministero (Artt. 50-54 ter) |
Titolo III |
Polizia giudiziaria (Artt. 55-59) |
Titolo IV |
Imputato (Artt. 60-73) |
Titolo V |
Parte civile, responsabile civile e civilmente obbligato per la pena
pecuniaria (Artt. 74-89). |
Titolo VI |
Persona offesa dal reato (Artt. 90-95) |
Titolo VII |
Difensore (Artt. 96-108) |
Libro secondo |
Atti |
Titolo I |
Disposizioni generali (Artt. 109-124) |
Titolo II |
Atti e provvedimenti del giudice (Artt. 125-133) |
Titolo III |
Documentazione degli atti (Artt. 134-142) |
Titolo IV |
Traduzione degli atti (Artt. 143-147) |
Titolo V |
Notificazioni (Artt. 148-171) |
Titolo VI |
Termini (Artt. 172-176) |
Titolo VII |
Nullità (Artt. 177-186) |
Libro terzo |
Prove |
Titolo I |
Disposizioni generali (Artt. 187-193) |
Titolo II |
Mezzi di prova (Artt. 194-243) |
Titolo III |
Mezzi di ricerca della prova (Artt. 244-271) |
Libro quarto |
Misure cautelari |
Titolo I |
Misure cautelari personali (Artt. 272-315) |
Titolo II |
Misure cautelari reali (Artt. 316-325) |
Libro quinto |
Indagini preliminari e udienza preliminare |
Titolo I |
Disposizioni generali (Artt. 326-329) |
Titolo II |
Notizia di reato (Artt. 330-335) |
Titolo III |
Condizioni di procedibilità (Artt. 336-346) |
Titolo IV |
Attività a iniziativa della polizia giudiziaria (Artt. 347-357) |
Titolo V |
Attività del pubblico ministero (Artt. 358-378) |
Titolo VI |
Arresto in flagranza e fermo (Artt. 379-391) |
Titolo VI bis |
Investigazioni difensive (Artt. 391bis-391decies) |
Titolo VII |
Incidente probatorio (Artt. 392-404) |
Titolo VIII |
Chiusura delle indagini preliminari (Artt. 405-415) |
Titolo IX |
Udienza preliminare (Artt. 416-433) |
Titolo X |
Revoca della sentenza di non luogo a procedere (Artt. 434-437) |
Libro sesto |
Procedimenti speciali |
Titolo I |
Giudizio abbreviato (Artt. 438-443) |
Titolo II |
Applicazione della pena su richiesta delle parti (Artt. 444-448) |
Titolo III |
Giudizio direttissimo (Artt. 449-452) |
Titolo IV |
Giudizio immediato (Artt. 453-458) |
Titolo V |
Procedimento per decreto (Artt. 459-464) |
Titolo V Bis
|
Sospensione del procedimento con messa alla prova (Artt.
464bis-464novies) |
Libro settimo |
Giudizio |
Titolo I |
Atti preliminari al dibattimento (Artt. 465-469) |
Titolo II |
Dibattimento (Artt. 470-524) |
Titolo III |
Sentenza (Artt. 525-548) |
Libro ottavo |
Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica |
Titolo I |
Disposizione generale (Artt. 549) |
Titolo II |
Citazione diretta a giudizio (Artt. 550-555) |
Titolo III |
Procedimenti speciali (Artt. 556-558) |
Titolo IV |
Dibattimento (Artt. 559-567) |
Libro nono |
Impugnazioni |
Titolo I |
Disposizioni generali (Artt. 568-592) |
Titolo II |
Appello (Artt. 593-605) |
Titolo III |
Ricorso per cassazione (Artt. 606-628) |
Titolo IV |
Revisione (Artt. 629-647) |
Libro decimo |
Esecuzione |
Titolo I |
Giudicato (Artt. 648-654) |
Titolo II |
Esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali (Artt. 655-664) |
Titolo III |
Attribuzioni degli organi giurisdizionali (Artt. 665-684) |
Titolo IV |
Casellario giudiziale (Artt. 685-690) |
Titolo V |
Spese (Artt. 691-695) |
Libro undicesimo |
Rapporti giurisdizionali con autorità straniere |
Titolo I |
Disposizioni generali (Art. 696) |
Titolo II |
Estradizione (Artt. 697-722) |
Titolo III |
Rogatorie internazionali (Artt. 723-729) |
Titolo IV |
Effetti delle sentenze penali straniere. Esecuzione all'estero di
sentenze penali italiane (Artt. 730-746) |
Depenalizzazione
Legge 24 novembre 1981, n. 689
Il D.Lgs. 30/12/1999 n. 507
La Depenalizzazione è un artificio finanziario, perché la sanzione risulta
essere più effettiva e gravosa di quella penale.
Non c’è la tenuità del fatto (art. 132-bis c.p.)
Non c’è sospensione (art. 163 c.p.)
La Prescrizione è più alta (art. 28, 689/81 – art. 157 c.p.) e procrastinabile
L’unico difetto è che è inefficace per indigenza e non c’è conversione da
sanzione amministrativa a pena detentiva, (art. 53, 689/81)
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La depenalizzazione, nel gergo giuridico italiano, consiste nel
trasformare illeciti penali in illeciti amministrativi o civili.
Storia
Gli illeciti depenalizzati sono una vasta categoria di fatti corrispondenti a
quelle figure di reato, per lo più di lieve entità o di interesse
prevalentemente privato, che leggi recenti hanno trasformato in infrazioni di
carattere amministrativo o civile, assoggettandoli a sanzioni pecuniarie non
penali.
In Italia, la proliferazione di numerosi illeciti penali contenuti in leggi
speciali, ha indotto il legislatore a depenalizzarli.
La prima disciplina organica in materia di depenalizzazione è la Legge 24
novembre 1981, n. 689, che ha previsto la conversione di diverse fattispecie
penali cosiddette "bagatellari" in illeciti amministrativi. Successive ondate di
depenalizzazione si sono realizzate con la Legge 28 dicembre 1993, n. 561, con
il D.Lgs. 13 luglio 1994, n. 480, e con il D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507.
Ulteriore blocco di depenalizzazione è contenuto nei decreti del 15 gennaio
2016. Il primo (D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7) ha portato alla depenalizzazione
di diverse fattispecie ad interesse perlopiù privatistico, punite ora con
sanzioni pecuniarie di carattere civile. Il secondo (D.Lgs. 15 gennaio 2016, n.
8) segue lo schema tradizionale della depenalizzazione in favore dell'illecito
amministrativo relativamente alle fattispecie penali punite con la sola sanzione
pecuniaria.
Differenza con la normativa sulla particolare tenuità
Il Decreto Legislativo n. 28/2015, ha introdotto una causa di non punibilità che
scatta caso per caso, quando il fatto sia di «particolare tenuità» e quando il
comportamento del colpevole risulti «non abituale». Tale previsione, inserita
nel Codice Penale al neo‑introdotto art. 131‑bis, è applicabile soltanto ai
reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a 5
anni, o la sola pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena predetta.
La qualificazione del fatto come di particolare tenuità non comporta una
depenalizzazione. La depenalizzazione, infatti, è un'operazione che può fare in
termini generali e astratti solo il legislatore. Piuttosto, l'art. 131‑bis c.p.
impone al giudice di valutare in concreto talune caratteristiche del fatto
commesso (modalità della condotta, l'esiguità del danno o del pericolo, ecc.) ai
soli fini della punibilità del reo, senza incidere sulla natura penale
dell'illecito. Se la valutazione è nel senso della particolare tenuità, il
giudice pronuncia sentenza di assoluzione perché l'imputato non è punibile.
Al contrario, l'illecito depenalizzato è per sua natura "più tenue" del reato in
senso stretto. Per queste fattispecie, dunque, le sentenze sono diverse a
seconda del giudice competente e possono essere nel senso dell'accertamento
positivo o negativo dell'illecito.
Sanzione amministrativa
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Una sanzione amministrativa, nell'ordinamento italiano, è una sanzione prevista
dalla legge per la violazione di una norma giuridica che costituisce illecito
amministrativo.
Storia
Dal punto di vista normativo, una delle norme essenziali è stata la legge n. 24
novembre 1981, n. 689 che ha istituito per la prima volta nell'ordinamento un
sistema compiuto di illecito amministrativo, conseguente
alla depenalizzazione di molti reati, puniti sino ad allora con la pena
dell'ammenda. Le sanzioni amministrative sono in genere di tipo pecuniario,
cioè, ingiungono il pagamento di una somma di denaro.
Sanzione pecuniaria
Le sanzioni amministrative pecuniarie, previste dall'art. 10 della legge n.
689/1981, possono essere di due tipi:
fisse, che consistono nel pagamento di una somma non inferiore a euro 10 e non
superiore a euro 15000.
proporzionali, che non hanno limite massimo. La proporzione fra reddito e
sanzione è introdotta nel 2009 per violazioni al codice della privacy se
inefficaci in ragione delle condizioni economiche del contravventore.
La legge stabilisce, inoltre, che tranne casi tassativi espressamente stabiliti
dalla legge, il limite massimo della sanzione amministrativa pecuniaria non può,
per ciascuna violazione, superare il decuplo del minimo.
Procedura e criteri per determinare l'importo della sanzione
Una volta che l'agente accertante ha redatto il verbale, deve essere notificato
al trasgressore immediatamente o entro 90 giorni salvo che la legge disponga
diversamente. L'importo della sanzione è stabilito dalla legge tra un limite
minimo e il massimo.
Il trasgressore può decidere se rinunciare al procedimento che verrà instaurato
contro di lui pagando entro i termini previsti. In tal caso l'importo dovuto è
pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione
commessa o, se più favorevole, al doppio del minimo della sanzione edittale,
oltre alle spese del procedimento. In questo caso, il trasgressore rinuncia al
procedimento pagando una sanzione agevolata, evitando una possibile pena
maggiore ma anche evitando una possibile archiviazione.
In caso di mancato pagamento, il verbale, gli atti di indagine e l'eventuale
ricorso o scritti difensivi del trasgressore vengono trasmessi dall'agente
accertante all'autorità competente prevista dalla Legge o, in mancanza,
al Prefetto che, verificati i presupposti documentali e sentito il trasgressore
se espressamente richiesto, deciderà l'importo della sanzione.
L'art. 11 della Legge n. 689/1981 dispone che nella determinazione della
sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo e un
limite massimo e nell'applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si
deve aver riguardo a vari criteri:
alla gravità della violazione
all'opera svolta dall'agente per la eliminazione o attenuazione delle
conseguenze della violazione
alla personalità dello stesso
alle sue condizioni economiche.
Il Prefetto o l'autorità competente emette ordinanza-ingiunzione che costituirà,
nei casi previsti, titolo esecutivo. L'ordinanza-ingiunzione può comunque essere
impugnata davanti al giudice civile.
A questa procedura è fatta eccezione per le sanzioni del codice della strada per
le quali invece il verbale stesso, se non pagato e non opposto nei termini di 60
giorni dalla notifica, costituisce automaticamente titolo esecutivo per un
importo pari alla metà del massimo della sanzione edittale senza necessità
dell'intervento dell'Autorità. Per la maggior parte delle sanzioni, è ammesso il
pagamento in misura ridotta pari all'importo minimo della sanzione, estinguendo
il procedimento. Solo la presenza di un ricorso al Prefetto da parte del
trasgressore entro il termine di 60 giorni consente l'avvio del normale
procedimento secondo la Legge 689/1981 e in questo caso l'eventuale
ordinanza-ingiunzione emessa non potrà essere di importo inferiore al doppio del
minimo edittale.
Distinzioni
Nel linguaggio comune, quando si parla (in modo atecnico) di "multa" o
"contravvenzione", ci si riferisce in realtà a una sanzione amministrativa
pecuniaria, in genere conseguenza di un illecito previsto dal Codice della
strada o per aver usufruito di mezzi di trasporto pubblici senza o con titolo di
viaggio inadeguato. Nel diritto penale la multa è invece un tipo
di pena comminata per quei crimini che costituiscono un delitto, figura di
illecito penale che si distingue dalla contravvenzione, ulteriore tipo di reato.
Più precisamente, la qualificazione di un determinato reato come delitto o
contravvenzione dipende dalla stessa tipologia delle sanzioni comminate; nel
primo caso sono previste le pene della multa, della reclusione o dell’ergastolo,
mentre le contravvenzioni sono punite con l'ammenda e/o con l'arresto. La
sanzione amministrativa pecuniaria si distingue quindi dalle sanzioni pecuniarie
penali, ossia la multa e l’ammenda.
Il contesto storico dei reati previsti dal Codice della Strada
By Fabio Piccioni su rivistagiuridica.aci.it
IL CONTESTO STORICO DEI REATI PREVISTI DAL CODICE DELLA STRADA
In questa sede, senza alcuna pretesa di completezza, si procederà ad un
esperimento di pura speculazione giuridica che, nel tentativo di analizzare la
normativa vigente e la revisione proposta al sistema penale del codice della
strada, ne evidenzierà i numerosi punti critici, nonché le difficoltà
pratico-operative in cui si trovano gli organi di polizia stradale.
E ciò anche grazie alle schiette circolari mediante le quali i vari Ministeri si
lasciano andare a ricostruzioni ermeneutiche ed eterointegrazioni adeguatrici
della normativa non sempre condivisibile comunque non consentite dal principio
di legalità, che si articola nel sottocorollario principio di tassatività delle
norme, recato dall’art. 1 c.p. e, per quanto qui rileva, ribadito anche
dall’art. 1 L. 689/81 - altri tempi, altro legislatore.
Ci si interrogherà sulla natura dei singoli istituti, tentando
un’interpretazione metalinguistica delle norme che si amplifica a dismisura,
includendo in sé ogni forma di lettura, comprensione o analisi, fino a dirigersi
non già all’interpretazione ed alla corrispondente teoria, quanto piuttosto
all’interpretabilità delle singole disposizioni ed alla loro funzione
nell’equilibrio globale del sistema giuridico.
Nell’operazione verrà anche evidenziato il gergo, particolarmente ricercato
nella ineleganza, utilizzato dal legislatore, il quale, per disprezzo dell’arte
volgare del discorso, lasciando all’interprete la cura di lavorare la materia
bruta dei concetti soltanto abbozzati della scienza sottintesa e la ricerca dei
costrutti corretti corrispondenti a quelli erronei, finisce per rendere lo
studio degli istituti giuridici proposti una camicia di forza di cui liberarsi
al più presto.
Il continuo alternarsi di sanzioni penali a sanzioni amministrative, infatti,
oltre a manifestare la mancanza di una meditata valutazione politico-criminale
sottesa alle scelte punitive, evidenzia la logica di un intervento assolutamente
sperimentale, degno di chi girovaga ramingo nel grande mondo del diritto
sanzionatorio.
E’ pur vero che non c’è da fidarsi d’un perdigiorno fiorentino, pedante ed
intollerante, che vive del godimento intellettuale derivante dal degenerato
culto della bellezza della parola che si trova nel guardaroba linguistico della
letteratura italiana, tuttavia, non si può pretendere che lo stesso, da umile
giurista, che non esprime pensieri propri, ma che sceglie il materiale di lingua
giuridica con intento di apprendimento, faccia tacere in sé il sentimento,
affatto personale, che ha di certe voci e locuzioni.
Sia consentita quindi, rispettosamente ed entro dati limiti una certa libertà di
manifestazione tesa alla riaffermazione, a dispetto di coloro che mancano di
naturale eloquenza, del diritto della lingua - quale parte fondante la scienza
giuridica - alla vita.
- La Depenalizzazione dei Reati Minori.
In un processo evolutivo di crescita sociale, il concetto etico-giuridico del
fondamento e della funzione della pena subisce nel tempo dei cambiamenti. La
storia del diritto penale ha spesso consentito l’introduzione di sanzioni
amministrative quale diritto punitivo più agile, senza per questo compromettere
o ridurre le difese sociali.
Il fenomeno di crescita incontrollata di norme incriminatrici, verificatosi fin
dalla seconda metà del XVIII secolo, ha fatto sorgere l’esigenza di sottrarre
alla sfera penale quelle figure criminose non più avvertite come tali dalla
mutata coscienza sociale, o poste a salvaguardia di interessi privi di rilievo
costituzionale o riguardanti comportamenti solo marginalmente devianti, al fine
di arginare quel sintomo di “ipertrofia del diritto penale”.
La scelta di lasciare immutato il contenuto dei precetti - sostituendo la
valenza penale con quella amministrativa - si è focalizzata sulla ricerca di
sanzioni diverse, pecuniarie e accessorie, ma più adeguate in termini di
efficacia, incisività e semplicità, irrogate direttamente dall’Autorità
amministrativa.
Le prime esperienze di derubricazione delle ipotesi meno gravi di reato in
illeciti amministrativamente rilevanti, si sono manifestate con la L. 317/1967,
recante Modificazioni al sistema sanzionatorio delle norme in tema di
circolazione stradale e delle norme dei regolamenti locali; L. 950/1967, recante
Sanzioni per i trasgressori delle norme di polizia forestale; L. 706/1975,
recante Sistema sanzionatorio delle norme che prevedono contravvenzioni punibili
con l’ammenda; fino ad approdare alla L. 689/81, recante Modifiche al sistema
penale, che introduce una disciplina generale e organica (tanto da costituire un
vero e proprio “codice di rito”) dell’illecito di diritto pubblico.
Numerose sono state, poi, le leggi di depenalizzazione settoriale tra le quali,
oltre al Nuovo Codice della Strada (D.Lgs. 285/92), si ricordano la L. 561/93,
Trasformazione di reati minori in illeciti amministrativi; il D.Lgs. 480/94,
Riforma della disciplina sanzionatoria contenuta nel T.U.L.P.S., in attuazione
della legge delega 562/93; il D.Lgs. 758/94, Modificazioni alla disciplina
sanzionatoria in materia di lavoro; il D.Lgs. 415/96, Recepimento della
direttiva 93/22/CEE del 10/5/93 e n. 87/345/CEE, concernenti il coordinamento
delle condizioni di redazione, controllo e diffusione del prospetto da
pubblicare per l’ammissione di valori mobiliari alla quotazione ufficiale di una
borsa valori.
In merito si ritiene opportuno riportare un passo della circolare 19/12/1983
della Presidenza Consiglio dei Ministri, avente ad oggetto Criteri orientativi
per la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrative.
«… la sanzione amministrativa presenta un grado di indefettibilità per molti
aspetti superiore a quello dell’omologa sanzione penale pecuniaria; la sua
applicazione effettiva all’autore della violazione riconosciuto responsabile è,
cioè, più saldamente assicurata.
A) La sanzione amministrativa non è, infatti, suscettibile in nessun caso di
sospensione condizionale, che può invece essere concessa - entro certi limiti -
per le condanna alla pena della multa o dell’ammenda non superiori ad una certa
entità.
B) Il termine per la prescrizione dell’illecito amministrativo è fissato in
cinque anni, sensibilmente superiore a quello fissato dall’art. 157 del codice
penale per tutte le contravvenzioni. Inoltre, mentre l’interruzione della
prescrizione del reato non può in nessun caso consentire la protrazione del
termine oltre la metà di quello stabilito come base, la prescrizione
dell’illecito amministrativo può essere procrastinata senza alcun limite, con il
mero compimento periodico di un atto interruttivo, secondo le norme del codice
civile.
Da questo punto di vista, è evidente come - a parità di condizioni - la sanzione
amministrativa possa risultare preferibile alla pena dell’ammenda, quando si
intenda assicurare l’effettiva punizione dell’autore dell’illecito.
D’altro canto … occorre tener conto di un elemento che tende invece ad infirmare
l’indefettibilità della sanzione amministrativa rispetto a quella penale.
A differenza della multa e dell’ammenda, la sanzione amministrativa non eseguita
per insolvibilità del condannato non può essere convertita in sanzione diversa,
incidente sulla libertà personale. La sua efficacia è quindi inconsistente
rispetto ad illeciti che normalmente si riconnettono a situazioni personali di
indigenza … illeciti per i quali è efficace la sola sanzione penale (ovviamente
nei casi in cui non appaia sproporzionata al disvalore del fatto)».
* * *
Il D.Lgs. 30/12/1999 n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del
sistema sanzionatorio), emanato in attuazione della delega conferita al Governo
dall’art. 1 della L. 205/99 ed entrato in vigore il 15 gennaio 2000, rappresenta
un intervento fondamentale, collegato all’istituzione del giudice unico, teso a
restituire efficienza al servizio giustizia. Così, i reati considerati di minore
pericolosità sociale e con sanzioni penali che ormai venivano raramente
applicate, sono stati “degradati” in illeciti amministrativi.
Per quanto qui rileva, incisive sono le modifiche apportate, dal Titolo III del
decreto citato, alla legislazione in materia di circolazione stradale. Il taglio
alle pene riguarda, infatti, molte fattispecie già costituenti reato
contravvenzionale.
Il legislatore delegato, nel rinunciare alla minaccia della sanzione penale ha
compensato l’efficacia deterrente, in nome dell’esigenza di tutela della
collettività, con l’accentuazione delle sanzioni pecuniarie e l’introduzione di
un vigoroso sistema di sanzioni accessorie - che scattano sin dalla prima
violazione e che, in caso di reiterazione (recidiva amministrativa), diventano
definitive: basti pensare alla confisca del veicolo - i cui contenuti
interdittivi possono risultare anche più afflittivi di quelli insiti nella
sanzione penale.
Sono state, così, individuate tre fasce sanzionatorie rapportate all’entità
delle precedenti sanzioni penali: una “bassa”, una “media” e una “alta”.
Le ipotesi di reato depenalizzate, sono quelle già previste dagli articoli:
- 74 c. 6: contraffazione, asportazione, alterazione della targhetta del
costruttore o del numero di identificazione del telaio;
- 83 c. 6: adibire a mezzo di trasporto ad uso proprio un veicolo non provvisto
delle necessarie abilitazioni;
- 88 c. 3: adibire a mezzo di trasporto per conto terzi un veicolo non provvisto
delle necessarie abilitazioni;
- 97 c. 9: abusiva fabbricazione e vendita dei contrassegni di identificazione
per ciclomotori e circolazione con contrassegno contraffatto o alterato;
- 100 c. 12: circolazione con veicolo munito di targa non propria o
contraffatta;
- 113 c. 5: circolazione su strada con macchine agricole e operatrici semoventi
prive delle prescritte targhe di riconoscimento, ripetitrici e di
immatricolazione;
- 114 c. 7: circolazione su strada con macchine agricole e operatrici semoventi
non provviste di tutti i requisiti necessari;
- 116 c. 13: guida senza patente di veicoli;
- 124 c. 4: guida senza patente di macchine agricole o operatrici;
- 136 c. 6: guida con patente rilasciata da Stato estero, per la quale non sia
stata richiesta la conversione, quando sia trascorso un anno dall’acquisizione
della residenza in Italia;
- 168 c. 8: trasporto di merci pericolose senza la prescritta autorizzazione o
in difformità dalle prescrizioni imposte;
- 176 c. 19: violazione del divieto, sulle carreggiate, sulle rampe, sugli
svincoli delle autostrade e delle strade extraurbane principali, di invertire il
senso di marcia, attraversare lo spartitraffico, e di percorrere la carreggiata
nel senso opposto a quello consentito;
- 192 c. 7: violazione dell’obbligo di fermarsi ad un posto di blocco;
- 213 c. 4: abusiva circolazione con veicolo sottoposto a sequestro;
- 216 c. 6: abusiva circolazione durante il periodo in cui sia stata ritirata la
carta di circolazione o la patente di guida;
- 217 c. 6: abusiva circolazione durante il periodo in cui sia stata sospesa la
carta di circolazione;
- 218 c. 6: abusiva circolazione durante il periodo in cui sia stata sospesa la
validità della patente.
* * *
La sezione penale del C.d.S. è stata, in sostanza, notevolmente alleggerita e
solo ben poche previsioni hanno continuato ad avere rilevanza penale, peraltro
in ambiti dove, considerata la gravità delle violazioni, la depenalizzazione si
sarebbe scontrata con le esigenze di tutela minima di beni individuali e
collettivi di primaria importanza.
Il decreto ha, infatti, lasciato inalterate le fattispecie incriminatrici di cui
agli artt. 100 c. 14, 186 cc. 2 e 6, 187 cc. 4 e 5, 189 cc. 6 e 7.
- LA “RIPENALIZZAZIONE” DEGLI ILLECITI AMMINISTRATIVI
Con L. 22/3/2001 n. 85, pubblicata sulla G.U. del 31/3/01 n. 76, il Parlamento
conferiva delega al Governo per l’adozione di un decreto legislativo recante
«disposizioni integrative e correttive del nuovo codice della strada … nonché
della legislazione vigente concernente la disciplina della motorizzazione e
della circolazione stradale» e di separati decreti legislativi, recanti
disposizioni per «integrare, coordinare e armonizzare il nuovo codice della
strada con le altre norme legislative comunque rilevanti in materia» e «norme
integrative e modificative del regolamento di esecuzione». Nel successivo
termine di 3 anni è stata data facoltà al Governo di adottare ulteriori decreti
legislativi recanti «disposizioni integrative e correttive» dei decreti
legislativi “integrativi e correttivi” (sic!) del nuovo codice della strada.
Gli obiettivi che la legge persegue consistono nella «tutela della sicurezza
stradale; riduzione dei costi economici, sociali ed ambientali derivanti dal
traffico veicolare; fluidità della circolazione anche mediante utilizzo di nuove
tecnologie».
Innanzitutto, sono previsti interventi diretti a coordinare e armonizzare le
“norme stradali” con le altre norme legislative, con le norme comunitarie e con
gli impegni assunti dal Paese con la ratifica di accordi internazionali. Si
ricorda, infatti, che la Commissione europea, con la redazione del Piano di
sicurezza stradale 1997/2001, ha posto come principale obiettivo per gli Stati
membri, la riduzione entro il 2010 del 50% dei decessi a seguito di incidenti
stradali.
Nel dicembre 2001 la Commissione interministeriale incaricata elaborava un primo
schema di decreto, contenente oltre 140 articoli, con il quale veniva proposta
un’ampia modifica all’intero impianto del Codice della Strada.
In data 11 gennaio 2002, il Governo presentava un testo ridotto a 82 articoli,
sul quale la IX Commissione Trasporti espresse parere favorevole a condizione di
un ulteriore ridimensionamento del contenuto ai profili essenziali della
riforma, rinviando ad ulteriori decreti l’attuazione degli altri aspetti della
delega.
Dopo soli 4 giorni (entro il limite del termine previsto dall’art. 1 L. 85/01) è
stato emanato il D.Lgs. 15/1/2002 n. 9, recante “Disposizioni integrative e
correttive del nuovo codice della strada, a norma dell’art. 1 c. 1 della L.
22/3/2001 n. 85”, ridotto a 19 articoli. L’intervento non segue un filo logico
per materia, ma affronta quei temi sui quali la comunicazione di massa aveva già
creato notevole risonanza sociale.
Tra le principali (delle molte) novità richieste dal legislatore delegante,
balza evidente la richiesta introductio criminis di cui all’art. 2 lett. t)
L.85/01. Si tratta di un’operazione che ci si permette di definire di
“ripenalizzazione”, perché antitetica a quella di depenalizzazione. A tale
pretesa il legislatore delegato ha dovuto rispondere con una trasposizione sul
piano penale di fattispecie comportamentali già costituenti illecito
amministrativo. E ciò in piena controtendenza sia con il D.Lgs. 507/99 che - con
l’obiettivo di restituire efficienza alla macchina dei procedimenti penali -
aveva provveduto a derubricare in illeciti amministrativi la maggior parte dei
reati stradali, sia con il D.Lgs. 274/00 che - in nome di quel tanto agognato
effetto deflativo del sistema penale - aveva attribuito la competenza per i
“reati minori” al Giudice Penale di Pace prevedendo la modifica delle pene
detentive con pene pecuniarie e, nei casi più gravi, con sanzioni alternative
alla detenzione.
Ne sono scaturite le ipotesi contravvenzionali (non oblabili) previste e punite
dagli artt. 9 c. 8-bis - introdotta dall’art. 2 c. 1 lett. l) D.Lgs. 9/02 - e
141 c. 9 II periodo - introdotta dall’art. 8 D.Lgs. 9/02.
Interessanti modifiche vengono anche apportate agli artt. 186 e 187.
L’entrata in vigore del decreto legislativo era prevista per il 1° gennaio 2003;
tuttavia, la L. 6/8/02 n. 168, di conversione con modifiche del D.L. 20/6/02 n.
121 - che potremmo definire una sorta di “codice della strada per l’estate” -
anticipa la decorrenza al 7 agosto 2002 delle contravvenzioni di “Competizioni
sportive senza autorizzazione” e “Gareggiare in velocità” e della riduzione del
tasso alcolemico consentito a 0,5 g/l.
L’entrata in vigore delle altre modifiche è stata poi ulteriormente prorogata al
30 giugno 2003 dalla L. 27/12/02 n. 284 - Conversione in legge, con
modificazioni del decreto-legge 25/10/02 n. 236, recante disposizioni urgenti in
materia di termini legislativi in scadenza.
- LE ULTERIORI TAPPE VERSO LA COMPLETA ATTUAZIONE DELLA RIFORMA PENALE.
L’allarme sociale determinato dai fatti di crescente pirateria stradale ha
portato il legislatore a ridefinire l’intero impianto sanzionatorio
dell’omissione di soccorso, anche a seguito di incidente con danno alle persone,
mediante l’adozione della L. 9/4/03 n. 72. La riforma, inoltre, ritrasferisce la
cognitio causae degli art. 189 c. 6 cod. strad. e 593 c.p. - a meno di 15 mesi
dalla precedente assegnazione - dal Giudice penale di Pace, al Tribunale in
composizione monocratica.
* * *
Con un provvedimento recante Modifiche ed integrazioni al C.d.S., il Governo -
«ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di integrare le norme ... con
l’obiettivo di pervenire a un più elevato livello di sicurezza già nei prossimi
esodi estivi, caratterizzati da un massiccio incremento della circolazione delle
strade» - ha varato un secondo “codice della strada per l’estate”. Così il 30
giugno 2003, in contemporanea con l’altra parte della riforma disciplinata dal
D.Lgs. 9/02, è entrato in vigore il D.L. 27/6/03 n. 151, contenente 7
maxi-articoli. La riforma, che viaggia su due binari (il D.Lgs. 9/02 e il D.L.
151/03) tra loro intersecanti, risulta di difficile consultazione: i numerosi
rinvii operati, richiedono un lavoro di “taglia e incolla” per tentare di
leggere, prima ancor che di interpretare, le “modifiche alle modifiche”. Per
quanto qui rileva, disposta l’abrogazione della versione degli articoli 186 e
187, già proposta dagli artt. 13 e 14 D.Lgs. 9/02 (mai entrati in vigore),
vengono completamente riscritte le contravvenzioni di guida in stato di ebbrezza
da alcool e da stupefacenti.
Ancora una volta, si è utilizzato l’irrituale strumento del decreto-legge come
un procedimento aperto - una sorta di disegno di legge rinforzato ad urgenza
garantita - che ha consentito rivisitazioni senza limiti. La L. 1/8/03 n. 214,
di ratifica del provvedimento, infatti, ha poco a che vedere con il contenuto
originario del decreto per effetto delle numerose modifiche, aggiunte e
soppressioni, sia sostanziali che procedurali, apportate ed entrate in vigore il
13 agosto 2003. Nel tralasciare l’ozioso problema concernente la emendabilità di
un decreto-legge che modifica un decreto legislativo adottato sulla base di
apposita legge delega - microfilologia di diritto pubblico - si deve prendere
atto dell’ulteriore stravolgimento dell’intero sistema “penale stradale” entrato
in vigore solo un anno prima.
Infatti, il comma 8-bis dell’art. 9 è abrogato, al suo posto è inserito l’art.
9-bis che ridefinisce ex novo la materia. Allo stesso modo, l’art. 9-ter
sostituisce il secondo e terzo periodo del comma 9 dell’art. 141 (tuttavia,
nella tabella allegata all’art. 126-bis, è rimasta la decurtazione di 10 punti
in caso di violazione dell’art. 141 c. 9, III periodo!).
L’opera di “ripenalizzazione” raggiunge il grado massimo di sublimazione.
Le norme eliminate, entrate in vigore solo lo scorso 7/8/02, qualificavano le
violazioni de quo come reati contravvenzionali. Oggi, invece, gli stessi fatti
costituiscono ipotesi di reato a matrice delittuosa, corredate di specifiche
circostanze aggravanti (con pene che aumentano in progressione geometrica)
laddove siano derivate lesioni personali o la morte di qualcuno.
Ennesima modifica anche per la guida sotto l’influenza dell’alcool. Il reato
torna, dopo solo un anno e 7 mesi di cognizione da parte del Giudice Penale di
Pace (dal 2/1/02), nella competenza del Tribunale monocratico. Si esaurisce
così, definitivamente, la competenza penale del giudice di pace per i reati
stradali. Il legislatore non si è, però, occupato di apportare le opportune
modifiche all’art. 4 c. 2 lett. q) D.Lgs. 274/00, che continua, quindi, ad
attribuire l’autorità al giudice onorario.
Il divieto di somministrazione di bevande superalcoliche (con gradazione
superiore al 21% di alcol in volume) in autostrada, già previsto dalle 22 alle
6, dall’art. 14 c. 1 L. 125/01, è esteso alle 24 ore; resta, tuttavia,
consentito il consumo di alcolici e la vendita di superalcolici in bottiglia!
Legalità: riserva
di legge, Tassatività, Irretroattività, Tipicità (non analogia)
PRINCIPIO DI LEGALITA’
E’ il principio formale su cui si basa il Sistema Penale ed è fondato sul
Sistema del doppio binario, basato sia sulla pena che sulle misure di sicurezza.
E' sancito dai seguenti articoli:
-
Articolo 23 Cost: “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere
imposta se non in base alla legge”.
-
Art. 25 Cost.: "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a
misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge."
-
Art. 1 c.p.: "Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente
preveduto come reato dalla legge, né con pene che siano da esse stabilite."
-
Art. 2 c.p.: Successione di leggi penali. Nessuno può essere punito per un fatto
che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli
effetti penali.
Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede
esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte
immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135.
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse,
si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia
stata pronunciata sentenza irrevocabile.
Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni
dei capoversi precedenti.
Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e
di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge
convertito in legge con emendamenti.
- Art. 199 c.p.: "Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non
siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dai casi dalla legge stessa
preveduti."
Art. 14 cod. civ. (preleggi) (Applicazione delle leggi penali ed eccezionali).
Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi
non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati.
Legge di depenalizzazione L. 24 novembre 1981, n. 689
Art. 1 Principio di legalità
Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione.
Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e
per i tempi in esse considerati.
Addebitabilità: Imputabilità - responsabilità
Gravità
Colpevolezza psicologica:
doloso
preterintenzionale e dolo eventuale
colposo (colpa cosciente come aggravante)
Art. 2043 Codice Civile. (Risarcimento per fatto illecito).
Qualunque fatto doloso o colposo,
che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a
risarcire il danno.
Articolo 27 cost: La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e
devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.
Articolo 28 cost. I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici
sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e
amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.
In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti
pubblici
Articolo 13 cost. La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione
personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per
atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla
legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge
l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che
devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se
questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati
e restano privi di ogni effetto.
E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a
restrizioni di libertà;
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Articolo 40 Codice Penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) Rapporto di
causalità
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se
l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è
conseguenza della sua azione od omissione.
Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a
cagionarlo.
Articolo 42 Codice Penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) Responsabilità per
dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva
Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge
come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se
non l'ha commesso con dolo, salvo i casi di
delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge.
La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico
dell'agente, come conseguenza della sua azione od omissione.
Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione
cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.
Legge di depenalizzazione L. 24 novembre 1981, n. 689
Art. 3 Elemento soggettivo
Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è
responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa
dolosa o colposa.
Nel caso in cui la violazione è commessa per errore sul fatto, l'agente non è
responsabile quando l'errore non è determinato da sua colpa.
“Ai sensi dell’art. 8 T.U.L.P.S. le autorizzazione di polizia sono personali e
quindi possono essere rilasciate esclusivamente a persone fisiche e non a
persone giuridiche”.
Responsabilità amministrativa
In diritto, la responsabilità amministrativa è un tipo di responsabilità
patrimoniale prevista dagli ordinamenti giuridici che si pone in capo ad agenti
della pubblica amministrazione (dipendenti e funzionari pubblici ma anche altri
soggetti che svolgono compiti per la p.a.) per un danno alle casse erariali. Le
misure sono tendenzialmente di tipo risarcitorio, di tipo sanzionatorio in
alcuni casi.
In Italia
Il principio della responsabilità del dipendente pubblico è anzitutto statuito
dall'art. 28 della Costituzione della Repubblica Italiana, che recita:
«i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente
responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti
compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si
estende allo Stato e agli enti pubblici»
Esistono diverse e più specifiche fonti, come il Decreto del Presidente della
Repubblica 10 gennaio 1957 n. 3 che configurano una diversificazione tra la
responsabilità del dipendente e quella della pubblica amministrazione.
Presupposti
Gli elementi della responsabilità amministrativo-contabile sono il danno,
l'antigiuridicità della condotta, e il dolo o la colpa grave. Non solo
un'attività posta in essere in assoluta carenza di potere ma anche la mera
illegittimità della condotta integra l'elemento dell'antigiuridicità (Corte dei
Conti, sez. 2a giurisdizionale centrale, n. 44 del 12 febbraio 2003).
Il danno deve essere cagionato dal dipendente nell'esercizio delle sue funzioni
a seguito di una condotta illegittima. Si tratta sicuramente di un danno
patrimoniale ma in seguito alla giurisprudenza costituzionale si aggiunge anche
il danno non patrimoniale, risarcibile a condizione che sia stato leso un
diritto costituzionalmente garantito. Tra questi ricordiamo il danno
all'immagine della pubblica amministrazione.
Il danno alle casse erariali può essere diretto o indiretto: o perché il
dipendente ha danneggiato direttamente lo Stato o perché ha costretto lo Stato a
risarcire un altro cittadino a causa di un errore del dipendente pubblico.
Caratteristiche
È da notare che a differenza delle responsabilità aquiliana ex art 2043, nel
caso della responsabilità amministrativa i giudici hanno limitato la
responsabilità ai soli casi di dolo (intenzione di causare un danno allo Stato)
o di colpa grave (cioè, di una negligenza grave anzi gravissima) per cui un
dipendente pubblico che causa un danno erariale (cioè danno alle casse dello
Stato) ma che lo fa con una negligenza minima non incorre nella responsabilità
amministrativa.
Giudizio
Il giudizio sulla responsabilità amministrativa è di competenza della Corte dei
conti. È una responsabilità perseguita d'ufficio (questo spiega anche la
legittimità della limitazione al dolo e colpa grave). La Corte dei conti ha un
ulteriore potere di attenuazione della responsabilità dell’agente, potere
riduttivo, la valutazione di tutta una serie di circostanze attenuanti.
Fra la citazione in giudizio da parte del Procuratore Regionale e la pronuncia
in primo grado passano raramente più di sei mesi. La proposizione dell'appello
alle tre Sezioni Centrali aggiunge circa un anno alla durata complessiva, come
risulta dai dati annualmente forniti dal Procuratore Generale della Corte dei
conti in sede di inaugurazione dell'anno giudiziario.
Impegni di spesa per l'acquisto di beni e servizi
In caso di impegni di spesa irregolarmente assunti nell'acquisizione di beni e
servizi degli enti locali, il rapporto negoziale intercorre direttamente tra
amministratore o funzionario che ha consentito la fornitura e controparte
privata. L'amministratore o funzionario rispondono col loro patrimonio
personale, realizzandosi la scissione dell'immedesimazione organica tra agente e
P.A., sicché l'ente resta estraneo a impegni di spesa irregolarmente assunti
(Corte di Cassazione, sez. 3a civile, n. 11969 del 25 novembre 1998).
Pena per coloro che concorrono nel reato
Dispositivo dell'art. 110 Codice penale. Quando più persone concorrono nel
medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve
le disposizioni degli articoli seguenti.
Legge di depenalizzazione L. 24 novembre 1981, n. 689
Art. 5 Concorso di persone
Quando più persone concorrono in una violazione amministrativa, ciascuna di esse
soggiace alla sanzione per questa disposta, salvo che sia diversamente stabilito
dalla legge.
Che cosa significa "Responsabile civile"?
Brocardi
E' una parte eventuale del processo ed è colui che è obbligato a risarcire il
danno cagionato dal soggetto che ha posto in essere il reato, l'imputato, con il
quale non deve quindi essere confuso. Può essere citato oppure può intervenire
nel processo volontariamente (si vedano gli artt. 83 e 85 c.p.p.). Si tratta di
un soggetto che, pur non avendo contribuito alla realizzazione del reato deve
provvedere al risarcimento: il responsabile civile è obbligato in solido con
l'imputato.
Tradizionali esempi sono costituiti dal genitore per il figlio, il padrone o il
committente per il commesso, il precettore per l'allievo, il tutore o
l'artigiano per le persone vigilate: la parte privata è chiamata nel giudizio
penale allo scopo di far fronte a casi di responsabilità civile indiretta per
fatto altrui ex art. 2047.
Che cosa significa "Civilmente obbligato per la pena pecuniaria"?
Brocardi
È l'ente o la persona fisica a cui spetta l'obbligo di provvedere al pagamento
della pena pecuniaria (multa o ammenda) comminata all'imputato qualora costui
sia insolvibile. Altro presupposto è che il condannato sia sotto la
responsabilità del civilmente obbligato per la pena pecuniaria in quanto
assoggettata alla sua autorità, direzione o vigilanza, o perché il civilmente
obbligato sia rappresentante, amministratore o dipendente di un ente dotato di
personalità giuridica.
Obbligazione civile per le multe e le ammende inflitte a persona dipendente
Dispositivo dell'art. 196 Codice Penale
Nei reati commessi da chi è soggetto alla altrui autorità, direzione o
vigilanza, la persona rivestita dell'autorità, o incaricata della direzione o
vigilanza, è obbligata, in caso di insolvibilità del condannato, al pagamento di
una somma pari all'ammontare della multa o dell'ammenda inflitta al colpevole,
se si tratta di violazioni di disposizioni che essa era tenuta a far osservare e
delle quali non debba rispondere penalmente).
Qualora la persona preposta risulti insolvibile, si applicano al condannato le
disposizioni dell'articolo 136).
Obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e
delle ammende
Dispositivo dell'art. 197 Codice Penale
Gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato, le regioni, le
province ed i comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne
abbia la rappresentanza, o l'amministrazione, o sia con essi in rapporto di
dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi
inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso
nell'interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso
di insolvibilità del condannato, di una somma pari all'ammontare della multa o
dell'ammenda inflitta.
Se tale obbligazione non può essere adempiuta, si applicano al condannato le
disposizioni dell'articolo 136.
Legge di depenalizzazione L. 24 novembre 1981, n. 689
Art. 6 Solidarietà
Il proprietario della cosa che servì o fu destinata a commettere la violazione
o, in sua vece, l'usufruttuario o, se trattasi di bene immobile, il titolare di
un diritto personale di godimento, è obbligato in solido con l'autore della
violazione al pagamento della somma da questo dovuta se non prova che la cosa è
stata utilizzata contro la sua volontà.
Se la violazione è commessa da persona capace di intendere e di volere ma
soggetta all'altrui autorità, direzione o vigilanza, la persona rivestita
dell'autorità o incaricata della direzione o della vigilanza è obbligata in
solido con l'autore della violazione al pagamento della somma da questo dovuta,
salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto.
Se la violazione è commessa dal rappresentante o dal dipendente di una persona
giuridica o di un ente privo di personalità giuridica o, comunque di un
imprenditore, nell'esercizio delle proprie funzioni o incombenze, la persona
giuridica o l'ente o l'imprenditore è obbligato in solido con l'autore della
violazione al pagamento della somma da questo dovuta.
Nei casi previsti dai commi precedenti chi ha pagato ha diritto di regresso per
l'intero nei confronti dell'autore della violazione.
Art. 7 Non trasmissibilità dell'obbligazione
L'obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione non si trasmette gli
eredi.
Gravità del reato: valutazione agli effetti della pena
Dispositivo dell'art. 133 Codice Penale
Nell'esercizio del potere discrezionale indicato nell'articolo precedente [164,
169, 175, 203], il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta:
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e
da ogni altra modalità dell'azione;
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal
reato;
3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.
Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole
[103, 105, 108; c.p.p. 220], desunta:
1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita
del reo, antecedenti al reato;
3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;
4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
CAPO II Codice Penale - DELLA RECIDIVA, DELL’ABITUALITÀ E PROFESSIONALITÀ NEL
REATO E DELLA TENDENZA A DELINQUERE a cura di Vincenzo Giuseppe Giglio
1. Chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un
altro, può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere
per il nuovo delitto non colposo.
2. La pena può essere aumentata fino alla metà:
1) se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole;
2) se il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla
condanna precedente;
3) se il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o dopo l’esecuzione
della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae
volontariamente all’esecuzione della pena.
3. Qualora concorrano più circostanze fra quelle indicate al secondo comma,
l’aumento di pena è della metà.
4. Se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena,
nel caso di cui al primo comma, è della metà e, nei casi previsti dal secondo
comma, è di due terzi.
5. Se si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera
a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la recidiva è
obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad
un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto (1).
6. In nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il
cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del
nuovo delitto non colposo (2).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza 185/2015, ha dichiarato: 1)
l’illegittimità costituzionale del presente comma, limitatamente alle parole «è
obbligatorio e,»; 2) la manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale del presente comma, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo
comma, Cost.
(2) Articolo così sostituito prima dall’art. 9, DL 99/1974 e poi dall’art. 4, L.
251/2005.
Art. 100 - Recidiva facoltativa (1)
[1. Il giudice, salvo che si tratti di reati della stessa indole, ha facoltà di
escludere la recidiva fra delitti e contravvenzioni, ovvero fra delitti dolosi o
preterintenzionali e delitti colposi, ovvero fra contravvenzioni.]
(1) Articolo abrogato dall’art. 10, DL 99/1974.
Art. 101 - Reati della stessa indole
1. Agli effetti della legge penale, sono considerati reati della stessa indole
non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche
quelli che, pur essendo preveduti da disposizioni diverse di questo codice
ovvero da leggi diverse, nondimeno, per la natura dei fatti che li costituiscono
o dei motivi che li determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri
fondamentali comuni.
1. È dichiarato delinquente abituale chi, dopo essere stato condannato alla
reclusione in misura superiore complessivamente a cinque anni per tre delitti
non colposi, della stessa indole, commessi entro dieci anni, e non
contestualmente, riporta un’altra condanna per un delitto, non colposo, della
stessa indole, e commesso entro dieci anni successivi all’ultimo dei delitti
precedenti.
2. Nei dieci anni indicati nella disposizione precedente non si computa il tempo
in cui il condannato ha scontato pene detentive o è stato sottoposto a misure di
sicurezza detentive.
Art. 103 - Abitualità ritenuta dal giudice
1. Fuori del caso indicato nell’articolo precedente, la dichiarazione di
abitualità nel delitto è pronunciata anche contro chi, dopo essere stato
condannato per due delitti non colposi, riporta un’altra condanna per delitto
non colposo, se il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del
tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita
del colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell’articolo
133, ritiene che il colpevole sia dedito al delitto.
Art. 104 - Abitualità nelle contravvenzioni
1. Chi, dopo essere stato condannato alla pena dell’arresto per tre
contravvenzioni della stessa indole, riporta condanna per un’altra
contravvenzione, anche della stessa indole, è dichiarato contravventore
abituale, se il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del
tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita
del colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell’articolo
133, ritiene che il colpevole sia dedito al reato.
1. Chi, trovandosi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di
abitualità, riporta condanna per un altro reato, è dichiarato delinquente o
contravventore professionale qualora, avuto riguardo alla natura dei reati, alla
condotta e al genere di vita del colpevole e alle altre circostanze indicate nel
capoverso dell’articolo 133, debba ritenersi che egli viva abitualmente, anche
in parte soltanto, dei proventi del reato.
Art. 106 - Effetti dell’estinzione del reato o della pena
1. Agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di
professionalità nel reato, si tiene conto altresì delle condanne per le quali è
intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena.
2. Tale disposizione non si applica quando la causa estingue anche gli effetti
penali.
Art. 107 - Condanna per vari reati con una sola sentenza
1. Le disposizioni relative alla dichiarazione di abitualità o di
professionalità nel reato si applicano anche se, per i vari reati, è pronunciata
condanna con una sola sentenza.
1. È dichiarato delinquente per tendenza chi, sebbene, non recidivo, o
delinquente abituale o professionale, commette un delitto non colposo, contro la
vita o l’incolumità individuale, anche non preveduto dal capo primo del titolo
dodicesimo del libro secondo di questo codice, il quale, per sé e unitamente
alle circostanze indicate nel capoverso dell’art. 133, riveli una speciale
inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell’indole particolarmente
malvagia del colpevole.
2. La disposizione di questo articolo non si applica se l’inclinazione al
delitto è originata dall’infermità preveduta dagli articoli 88 e 89.
Art. 109 - Effetti della dichiarazione di abitualità, professionalità o tendenza
a delinquere
1. Oltre gli aumenti di pena stabiliti per la recidiva e i particolari effetti
indicati da altre disposizioni di legge, la dichiarazione di abitualità o di
professionalità nel reato o di tendenza a delinquere importa l’applicazione di
misure di sicurezza.
2. La dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato può essere
pronunciata in ogni tempo, anche dopo l’esecuzione della pena; ma se è
pronunciata dopo la sentenza di condanna, non si tiene conto della successiva
condotta del colpevole e rimane ferma la pena inflitta.
3. La dichiarazione di tendenza a delinquere non può essere pronunciata che con
la sentenza di condanna.
4. La dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato e quella di
tendenza a delinquere si estinguono per effetto della riabilitazione.
Delinquente: abitualità, professionalità e tendenza nel reato
DI MARIAELENA D'ESPOSITO
Nel sistema penale è frequente parlare di delinquente, ma cosa s’intende
esattamente con tale termine?
Delinquente è un soggetto che pone in essere atti anti-sociali, tali da
configurare come reato secondo la legge penale. Non è da ritenersi delinquente
un qualsiasi reo, ma soltanto il reo che commette un delitto contro la persona,
contro la proprietà pubblica o privata, contro il buon costume. Inoltre, sono
esclusi coloro che commettono reati di lieve entità oppure dipendenti
dall’eccezionalità del momento, essendo riservata tale qualificazione soltanto
ai soggetti che si macchino di reati ritenuti da sempre, indipendentemente dal
momento storico, fatti antisociali.
Il Codice penale individua tre differenti tipologie di delinquenti pericolosi,
in particolare si può considerare: il delinquente abituale, il delinquente
professionale e il delinquente per tendenza.
Il delinquente abituale è classificato come colui che realizza ripetutamente nel
tempo un’attività criminosa, che dimostra una notevole attitudine al reato, che
attenua i freni inibitori rendendo più facile la commissione di delitti. L’art.
102 del Codice penale prevede una presunzione assoluta di pericolosità, ma che
secondo un’interpretazione diffusa, in particolare con la legge 663/1986, si è
avuto modo di trasformare tale presunzione da assoluta a relativa. Ciò comporta
che il giudice deve verificare se il soggetto nel caso concreto sia socialmente
pericoloso o no. L’art. 102 c.p. prevede l’abitualità presunta, che si ha quando
il reo riporti:
una condanna alla reclusione, in misura superiore complessivamente a 5 anni per
3 delitti non colposi, della stessa indole, commessi non contestualmente entro
10 anni;
un’altra condanna per un delitto non colposo, della stessa indole e commesso
entro 10 anni successivi all’ultimo dei delitti precedenti.
L’art. 103 c.p. regola, invece, l’abitualità nel delitto che sussiste quando:
il reo è stato condannato per 2 delitti non colposi;
riporta un’altra condanna per delitto non colposo;
il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il
quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del reo e delle
altre circostanze indicate dall’art. 133 c.p., ritiene che il colpevole è
“dedito al delitto”.
L’art. 104 disciplina l’abitualità nelle contravvenzioni e ricorre quando:
il reo è stato condannato all’arresto per 3 contravvenzioni della stessa indole;
riporta un’altra condanna per una contravvenzione della stessa indole;
il giudice, tenuto conto della specie e della gravità dei reati, del tempo entro
il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole.
Per delinquente professionale si considera un tipo particolare di delinquente
abituale, portatore di una più deplorevole forma di abitualità criminosa. Non è
necessario per la configurazione della professionalità che il reo sia stato già
dichiarato delinquente abituale, ma è necessario che i reati realizzati dal reo
gli forniscano una fonte stabile di mantenimento. Tale situazione si configura
per chi vive sfruttando la prostituzione, o di truffe, ricettazioni e altri
reati contro il patrimonio. Dunque, il delinquente professionale trae da vivere
dai frutti dei delitti.
Il delinquente per tendenza è un soggetto capace di intendere e di volere, che
manifesta mancanza di senso morale e che presenta forti spinte ai delitti di
sangue. La tendenza scaturisce generalmente dalla costituzione di un soggetto,
dal suo modo di essere o dall’ambiente in cui è vissuto.
Il delinquente è una persona imputabile e al tempo stesso pericoloso per il
quale si applicano misure di sicurezza in aggiunta alla pena.
Le misure di sicurezza sono delle misure speciali, che si applicano ai soggetti
considerati socialmente pericolosi e possono affiancare o sostituire la pena
principale. La durata dell’applicazione di tali misure è fissata dalla Legge nel
minimo, ma resta indeterminata nel massimo poiché è impossibile determinare in
anticipo la cessazione della pericolosità del soggetto. Tali misure non possono
essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere
socialmente pericolose. Se la pericolosità persiste, la misura viene rinnovata
in caso contrario, la misura può essere revocata dal Tribunale di Sorveglianza
competente anche prima della scadenza.
Per quanto riguarda gli effetti della dichiarazione di abitualità,
professionalità o tendenza del delinquente ci sono numerose conseguenze
pregiudizievoli:
–aumenti di pena che dipendono dalla recidiva e dall’elevato grado di capacità a
delinquere;
– applicazioni di misure di sicurezza così come analizzato;
Sono previsti altresì, effetti secondari come l’interdizione dai pubblici
uffici, divieto di sospensione condizionale della pena, esclusione della
prescrizione della pena per i delitti e altre fattispecie espressamente previste
dalla legge.
Mariaelena D’Esposito è nata a Vico Equense nel 1993 e vive in penisola
sorrentina. Laureata in giurisprudenza alla Federico II di Napoli, in penale
dell’economia: “bancarotta semplice societaria.”
Ha iniziato il tirocinio forense presso uno studio legale di Sorrento e spera di
continuare in modo brillante la sua formazione.
Collabora con ius in itinere, in particolare per l’area penalistica.
La pericolosità sociale - una panoramica sul delinquente
By Laura Greco
Pericolosità sociale – L’art. 133 c.p. stabilisce che il giudice, nell’esercizio
del suo potere discrezionale deve commisurare la pena alla gravità del reato e
alla capacità a delinquere del colpevole.
1. La pericolosità sociale e il delinquente qualificato
Gli elementi dai quali il giudice può desumere la capacità a delinquere sono
indicati dalla stessa disposizione:
1) Dai motivi a delinquere e dal carattere del
reo;
2) Dai precedenti penali e giudiziari e, in
genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
3) Dalla condotta contemporanea o susseguente al
reato;
4) Dalle condizioni di vita abituale, familiare e
sociale del reo.
Mediante gli elementi individuati dalla legge, il giudice deve valutare la
capacità a delinquere già manifestata in relazione al reato commesso, e ciò
perché la valutazione deve servire alla determinazione della pena che in
concreto deve essere inflitta per il reato commesso e per la sua quantificazione
che, in funzione di questa valutazione, può variare tra il minimo e il massimo
della pena prevista in astratto dalla legge. Questa valutazione viene fatta in
relazione ad un reato che è già stato commesso, quindi, vale per il passato; la
condotta susseguente al reato può comunque essere presa in considerazione
soltanto in quanto attinente al reato commesso.
2. Il delinquente abituale
La dichiarazione di abitualità nel delitto segue, ope legis, ai sensi
dell’art.102 c.p., nei confronti di chi, essendo stato condannato, per tre
delitti dolosi della stessa indole a una pena complessivamente superiore a
cinque anni di reclusione, riporta un’altra condanna per delitto doloso commesso
entro dieci anni dall’ultimo: si tratterebbe di una abitualità presunta dalla
legge.
L’abitualità può essere anche ritenuta dal giudice quando, avendo il reo già
riportato condanna per due delitti dolosi, il giudice possa ritenere che il
colpevole sia dedito al delitto, concludendo per tale qualificazione penale in
ragione della specie e della gravità dei reati commessi, della loro contiguità
temporale, della condotta di vita del colpevole e delle altre circostanze dalle
quali, ai sensi dell’art. 133 c.p., è possibile desumere la capacità a
delinquere.
Nello stesso modo, il giudice può ritenere la qualità di contravventore abituale
se il reo ha già riportato condanna all’arresto per tre contravvenzioni della
stessa indole di quella oggetto dell’ultima condanna.
La presunzione di abitualità equivale a presunzione di pericolosità sociale: il
colpevole è dedito al delitto e, proprio per tale ragione, è probabile che
commetta nuovi delitti. Tale equivalenza, ai fini dell’applicazione delle misure
di sicurezza, propone il problema giuridico dell’abrogazione implicita dell’art.
102, a seguito dell’abrogazione esplicita dell’art. 204 c.p. in forza dell’art.
31, comma I, L. n. 663/1986; l’art. 204 c.p. stabiliva che “nei casi
espressamente determinati la qualità di persona socialmente pericolosa è
presunta dalla legge”, appare evidente come sia meglio attualizzare
l’interpretazione dell’art. 102 c.p. nel senso che, nei casi in cui ricorrano i
requisiti da esso indicati, il giudice deve obbligatoriamente prendere in esame
la pericolosità sociale del reo e, ove sussista, dichiararne l’abitualità nel
reato, resterebbe invece rilasciata alla discrezionalità del giudice la
valutazione dell’opportunità di procedere all’accertamento della pericolosità
sociale nelle figure qualificate di delinquente e di contravventore abituale ai
sensi degli artt. 103 e 104 c.p. in questo modo si ha l’abrogazione delle
presunzioni legali disposta dall’art. 31, comma I,L. n. 663/1986.
La presunzione relativa di pericolosità prevista, dall’art. 275 comma 3, cod.
proc. pen. in ordine alle esigenze cautelari opera in modo diverso per il
concorrente esterno in associazione di stampo mafioso
3. Il delinquente professionale
La figura del delinquente professionale non può essere presunta perché la
dichiarazione di professionalità nel reato comporta l’accertamento in concreto
della pericolosità sociale: il reo che si trovi nelle condizioni richieste dalla
legge per l’accertamento obbligatorio o facoltativo dell’abitualità è dichiarato
delinquente o contravventore professionale, ai sensi dell’art. 105 c.p.,
soltanto a condizione che, “avendo riguardo alla natura dei reati, alla condotta
e al genere di vita” e alle altre circostanze dalle quali si desume la capacità
a delinquere, appaia verosimile che il reo viva abitualmente traendo messi di
sussistenza, almeno in parte, dai proventi dei reati che commette: questo
giudizio implica l’accertamento in concreto della pericolosità speciale perché
il fare del delitto un mestiere crea un’abitudine professionale e,
conseguentemente, il giudizio prognostico di pericolosità sociale è implicito.
4. Il delinquente per tendenza
l’art. 108 c.p. prevede che è dichiarato delinquente per tendenza chi, sebbene,
non recidivo, o delinquente abituale o professionale, commette un delitto doloso
contro la vita o l’incolumità individuale, tale che per sé e unitamente alle
circostanze dalle quali è dato desumere la capacità a delinquere, “riveli una
speciale inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell’indole
particolarmente malvagia del colpevole”.
La dichiarazione di tendenza a delinquere contiene in sé l’accertamento concreto
della pericolosità sociale del reo. La dichiarazione di tendenza a delinquere
non può essere pronunciata che con sentenza di condanna, mentre il non
imputabile deve essere prosciolto.
Tale dichiarazione è subordinata ad un requisito di disvalore e cioè l’indole
particolarmente malvagia del colpevole, come causa della speciale inclinazione
al delitto.
L’art. 108, comma II, precisa che “la disposizione di questo articolo non si
applica se l’inclinazione al delitto è originata dall’infermità prevista dagli
artt. 88-89 c.p.” e cioè dall’infermità che causa il vizio totale o parziale di
mente.
5. Cessazione e riesame della pericolosità sociale
L’art. 207 c.p. stabilisce che “le misure di sicurezza non possono essere
revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere
pericolose”. La cessazione della pericolosità sociale può essere accertata dal
magistrato di sorveglianza anche prima che sia decorso il tempo corrispondente
alla durata minima stabilita dalla legge per la misura di sicurezza applicata;
questo avviene anche nel caso di applicazione provvisoria in corso di
procedimento penale nei confronti del minore, dell’infermo di mente,
dell’ubriaco abituale, della persona dedita all’uso di sostanze stupefacenti o
dell’intossicato cronico.
Per dichiarare la cessazione della pericolosità e quindi la revoca delle misure
di sicurezza, nonché dell’eventuale dichiarazione di delinquente abituale,
professionale o per tendenza, il giudice deve procedere al riesame della
pericolosità e a tal fine deve riconsiderare la condizione della persona per
stabilire se essa è ancora socialmente pericolosa.
Se il riesame non è positivo, il giudice fissa un nuovo termine per un esame
ulteriore che può essere anticipato quando vi sia ragione di ritenere che il
pericolo sua cessato.
La perizia psichiatrica nelle aule dei tribunali
La perizia psichiatrica ha sempre destato curiosità e interesse in ambito
forense per le problematiche che deve affrontare e le valutazioni che ne
conseguono ai fini processuali. Il disturbo psichico, così come descritto e
codificato, ha confini ben precisi e non può essere direttamente correlato ai
reati poiché le dinamiche psicologiche alla base dei delitti sono tante e non
sempre facili da identificare. Nel testo, oltre alla presentazione della
metodologia diagnostica quale può essere dedotta dagli attuali strumenti
nosografici, si va a descrivere ciò che realmente accade nelle aule dei
Tribunali. Riferendosi alla propria esperienza di perito in ambito penale,
l’autore descrive il caso e ne riporta le relative valutazioni, necessarie per
poter comprendere come si arrivi ad un determinato giudizio. In questo modo si
accompagna il lettore lungo il percorso peritale, dalla presa d’atto del reato
all’acquisizione della documentazione sanitaria, fino alla valutazione clinica
del soggetto e alla stesura della perizia. Ne consegue un testo ricco di stimoli
in cui si mette in evidenza il confronto tra il perito e il magistrato, gli
avvocati e i sanitari che hanno avuto o hanno in carico il periziando, andando
ad individuare le ‘difficoltà insite nell’espletamento dell’incarico peritale
che si intrecciano con quelle degli altri attori del processo. Un testo dunque
utile non solo per lo psichiatra e lo psicologo ma anche per il criminologo, il
magistrato e l’avvocato. Ferdinando Pellegrino lavora come psichiatra e
psicoterapeuta in ambito clinico e forense; è dirigente medico nel Dipartimento
Salute Mentale dell’ASL Salerno e docente presso alcune Scuole di Psicoterapia e
Università. Negli ultimi anni sta realizzando percorsi formativi fondati sul
modello del fitness cognitivo-emotivo, incisivi per la prevenzione del disagio
psichico e per l’accrescimento della propria autostima e autoefficacia. Cura, in
qualità di responsabile scientifico e relatore, eventi in diversi ambiti
professionali ed è autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche. Laura Greco
Il delinquente abituale, professionale o per tendenza: le differenze e il
presupposto comune della pericolosità sociale
Dott.ssa Gemma Colariet
Al momento della sentenza di condanna, la dichiarazione di abitualità o
professionalità nel reato, così come di tendenza a delinquere, ha ricadute
notevoli in termini di aumenti di pena stabiliti in base alla recidiva e
all'elevato grado di capacità a delinquere e, ai sensi dell'articolo 109
c.p., comporta l'applicazione delle misure di sicurezza.
Questi effetti non vengono meno finché, come precisa l'ultimo comma del suddetto
articolo 109 c.p., la dichiarazione di abitualità, professionalità nel reato o
di tendenza a delinquere non si estingue per effetto della riabilitazione.
Inoltre, il soggetto dichiarato delinquente abituale, professionale o per
tendenza subisce anche effetti secondari, come l'interdizione dai pubblici
uffici, il divieto di sospensione condizionale della pena, l'esclusione della
prescrizione della pena per i delitti e altre fattispecie espressamente previste
dalla legge.
Prima di distinguere i concetti di abitualità, professionalità e tendenza,
risulta necessario precisare cosa si intende per "delinquente" dal punto di
vista giuridico-criminologico.
È delinquente l'autore di attività criminose, le quali sottolineano una
materiale attitudine a commettere reati. Alla luce di tale dato di fatto, al
delinquente è associato lo status di soggetto pericoloso socialmente.
La pericolosità sociale del delinquente abituale, in primo luogo, può essere
presunta o ritenuta dal giudice.
È presuntivamente delinquente "abituale" colui che, dopo essere stato condannato
alla reclusione in misura superiore complessivamente a cinque anni per tre
delitti non colposi, della stessa indole, commessi entro dieci anni, e non
contestualmente, riporta un'altra condanna per un delitto, non colposo, della
stessa indole, commesso entro i dieci anni successivi all'ultimo dei delitti
precedenti, in cui non va calcolato il tempo in cui il condannato ha scontato
pene detentive o è stato sottoposto a misure di sicurezza detentive.
Ai sensi dell'art. 103 c.p., è delinquente abituale anche chi, dopo essere stato
condannato per due delitti non colposi, riporta un'altra condanna per delitto
non colposo, se il giudice, tenuto conto di fattori quali la specie e la gravità
dei reati, il tempo entro il quale sono stati commessi, la condotta e il genere
di vita del colpevole e le altre circostanze indicate nel capoverso
dell'articolo 133 c.p., ritiene che il colpevole sia "dedito al delitto", abbia
cioè una "consuetudo delinquenti". In questo caso, però, in considerazione della
frequenza nella commissione dei reati, lo status di delinquente abituale e,
dunque, di soggetto pericoloso socialmente, è attribuita discrezionalmente dal
giudice, dunque non in base a parametri ben precisi previsti dal legislatore.
Ancora, l'abitualità nelle contravvenzioni, di cui tratta l'articolo 104 c.p.,
si configura nel caso in cui il condannato alla pena dell'arresto per tre
contravvenzioni della stessa indole, riporta condanna per un'altra
contravvenzione, anche della stessa indole, a meno che il giudice, tenuto conto
della specie e della gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati
commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre
circostanze indicate nel capoverso dell'articolo 133 c.p., non ritenga il
colpevole non sia incline a commettere reati.
È da notare che all'articolo 104 c.p., il legislatore, nel definire l'abitualità
nelle contravvenzioni, non specifichi si debba trattare di reati non colposi,
come invece agli articoli 102 e 103 c.p. a proposito dei delitti. Di
conseguenza, la dottrina appare divisa tra coloro che ritengono che debba essere
presente l'elemento soggettivo nella veste del dolo e coloro che, muovendo
dall'assenza di una menzione specifica nel dettato normativo, propendono per
considerare ugualmente rilevanti dolo e colpa.
Tuttavia, poiché la presunzione di abitualità equivale a presunzione di
pericolosità sociale, ai fini dell'applicazione delle misure di sicurezza, si
pone il problema giuridico dell'abrogazione implicita dell'art. 102 c.p., in
considerazione dell'abrogazione esplicita, con legge 663/1986, dell'art. 204
c.p., secondo cui "nei casi espressamente determinati, la qualità di persona
socialmente pericolosa è presunta dalla legge". Alla luce di ciò, nei casi ex
articolo 102 c.p., il giudice deve obbligatoriamente prendere in esame la
pericolosità sociale del reo e, ove sussista, dichiararne l'abitualità nel
reato, mentre è a discrezionalità del giudice la valutazione circa l'opportunità
di procedere all'accertamento della pericolosità sociale nelle figure
qualificate di delinquente e di contravventore abituale, di cui agli articoli
103 e 104 c.p.
Quanto al delinquente professionale, è colui che, trovandosi già nelle
condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità, avuto riguardo alla
natura dei reati, alla condotta del reo e alle altre circostanze previste
dall'articolo 133 c.p., vive abitualmente, anche in parte soltanto, dei proventi
del reato. Basti pensare a chi vive di truffe, estorsione o altri reati contro
il patrimonio, ad esempio.
In tal caso lo status di pericolosità sociale si basa su un giudizio prognostico
in re ipsa, accertato in concreto nel momento in cui la commissione di delitti
diviene un mestiere. La dichiarazione di delinquenza professionale comporta
quale misura di sicurezza, cioè il provvedimento stabilito in caso di
pericolosità sociale, l'assegnazione ad una colonia o casa agricola per la
durata minima di tre anni, oltre che, naturalmente, gli altri effetti
dell'abitualità criminosa.
Infine, il delinquente per tendenza, ex articolo 108 c.p., è il soggetto non
recidivo, dunque non delinquente abituale o professionale, che commette un
delitto doloso contro la vita o l'incolumità individuale, tale che "riveli una
speciale inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell'indole
particolarmente malvagia del colpevole". Questo presupposto per la dichiarazione
di tendenza a delinquere può essere desunto anche dalle circostanze della
commissione del delitto. La dichiarazione di tendenza a delinquere contiene in
sé l'accertamento concreto della pericolosità sociale del reo. La dichiarazione
di tendenza a delinquere è pronunciata contestualmente alla sentenza di
condanna, a meno che il delinquente per tendenza non sia imputabile e, quindi,
vada prosciolto.
L'articolo 108, comma 2 c.p. precisa che "la disposizione di questo articolo non
si applica se l'inclinazione al delitto è originata dall'infermità prevista
dagli artt. 88-89 c.p." e cioè dall'infermità che causa il vizio totale o
parziale di mente.
Le misure di sicurezza comminate nel caso di pericolosità sociale, in aggiunta o
senza la pena, sono provvedimenti che, come stabilito dall'articolo 207 c.p.,
persistono fino alla cessazione dello status di "socialmente pericoloso" in cui
versa l'individuo. Il magistrato di sorveglianza può ritenere sia cessata la
pericolosità sociale anche prima che sia decorso il tempo corrispondente alla
durata minima stabilita dalla legge per la misura di sicurezza applicata, previo
riesame della condizione del soggetto dichiarato pericoloso socialmente. La
cessazione della pericolosità, naturalmente, oltre a revocare le misure di
sicurezza, fa venir meno anche la dichiarazione di delinquenza abituale,
professionale o per tendenza. Dott.ssa Gemma Colariet
Ai sensi dell'art. 61 del Codice Penale, quali tra le seguenti circostanze,
aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze
aggravanti speciali?
Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze
aggravanti speciali [578 comma 3, 579 comma 3], le circostanze seguenti:
1) l'avere agito per motivi abietti o futili [576 comma 1 n. 2, 577 comma 1 n.
4];
2) l'aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per
conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o
il prezzo ovvero la impunità di un altro reato [576 comma 1 n. 1;
c.p.p. 4, 12 lett. c];
3) l'avere, nei delitti colposi [43], agito nonostante la previsione dell'evento
(colpa cosciente);
4) l'avere adoperato sevizie, o l'aver agito con crudeltà verso le persone
[576 comma 1 n. 2, 577 comma 1 n. 4];
5) l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in
riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa;
6) l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto
volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di
cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato [576 comma 1 n.
3, 576 comma 2; c.p.p. 296];
7) l'avere, nei delitti contro il patrimonio [624-648; c. nav. 1135-1149], o che
comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti determinati da motivi di
lucro [481 comma 2], cagionato alla persona offesa dal reato un danno
patrimoniale di rilevante gravità;
8) l'avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso;
9) l'aver commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri
inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità
di ministro di un culto;
10) l'avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona
incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del
culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente
diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell'atto o a causa
dell'adempimento delle funzioni o del servizio;
11) l'avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche,
ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d'opera,
di coabitazione, o di ospitalità [646 comma 3, 649];
11-bis) l'avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul
territorio nazionale;
11-ter) l'aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto
minore all'interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione;
11-quater) l'avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il
periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione in carcere;
11-quinquies) l'avere, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità
individuale e contro la libertà personale, commesso il fatto in presenza o in
danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di
gravidanza;
11-sexies) l’avere, nei delitti non colposi, commesso il fatto in danno di
persone ricoverate presso strutture sanitarie o presso strutture sociosanitarie
residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, ovvero presso strutture
socioeducative;
11-septies) l'avere commesso il fatto in occasione o a causa di manifestazioni
sportive o durante i trasferimenti da o verso i luoghi in cui si svolgono dette
manifestazioni;
11-octies) l'avere agito, nei delitti commessi con violenza o minaccia, in danno
degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie nonché di chiunque
svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso, funzionali
allo svolgimento di dette professioni, a causa o nell'esercizio di tali
professioni o attività.
Articolo 62 Codice Penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) Circostanze attenuanti
comuni
Fonti → Codice Penale → LIBRO PRIMO - Dei reati in generale → Titolo III - Del
reato → Capo II - Delle circostanze del reato
Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze
attenuanti speciali, le circostanze seguenti:
1) l'aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale;
2) l'aver agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui;
3) l'avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta
di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall'Autorità, e il colpevole
non è delinquente o contravventore abituale o professionale o delinquente per
tendenza;
4) l'avere nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il
patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di
speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l'avere
agito per conseguire o l'avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità,
quando anche l'evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità;
5) l'essere concorso a determinare l'evento, insieme con l'azione o l'omissione
del colpevole, il fatto doloso della persona offesa;
6) l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante
il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o
l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso
dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o
attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato; o l'avere partecipato a
un programma di giustizia riparativa con la vittima del reato, concluso
con un esito riparativo. Qualora l'esito riparativo comporti l'assunzione da
parte dell'imputato di impegni comportamentali, la circostanza è valutata solo
quando gli impegni sono stati rispettati.
L'interdizione legale è in diritto una pena accessoria che viene disposta verso
coloro che siano stati condannati all'ergastolo o alla pena della reclusione per
un tempo non inferiore a cinque anni e per avere commesso un delitto non
colposo.
Che differenza c'è tra l'interdizione legale e quella giudiziale? Mentre con
l'interdizione giudiziale non si può compiere nessun atto di natura personale o
patrimoniale, nell'interdizione legale si ha solo una limitazione della propria
capacità di agire sugli atti di natura patrimoniale.
Quali atti può compiere un interdetto legale?
L'interdetto legale può tuttavia contrarre matrimonio, riconoscere un figlio
naturale e fare testamento. All'interdetto viene affidato un tutore che compie
tutti gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione in nome e per conto
dell'interdetto.
Perdita del diritto di elettorato attivo
Perdita del diritto di elettorato attivo a seguito irrogazione pena accessoria
della interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici.
Quando viene applicata ai sensi dell'art 29 cp la pena accessoria della
interdizione temporanea dai pubblici uffici?
L'interdizione perpetua dai pubblici uffici (art. 29 c.p.) si applica quando una
persona è condannata all'ergastolo oppure se una persona viene condannata alla
reclusione per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni.
L'interdizione è la più importante sanzione interdittrice sancita dall'odierno
sistema penale, anche se il suo contenuto afflittivo è stato di molto diminuito
a seguito di alcune pronunce della Corte costituzionale. Essa può essere
perpetua o temporanea.
L'interdizione, secondo il Codice penale italiano, priva il condannato del
diritto di elettorato attivo e passivo, di ogni pubblico ufficio e di
ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio, della qualità di tutore o
di curatore, dei gradi e delle dignità accademiche nonché della possibilità di
esserne insignito.
L'interdizione, inoltre, consegue alla condanna di un reato realizzato
mediante abuso di poteri o violazione di doveri inerenti alla pubblica funzione
o al pubblico servizio, o come pena accessoria per alcuni reati contro
la pubblica amministrazione.
L’interdizione dai Pubblici Uffici
Dispositivo dell'art. 29 Codice Penale
Fonti → Codice Penale → LIBRO PRIMO - Dei reati in generale → Titolo II - Delle
pene → Capo III - Delle pene accessorie, in particolare
La condanna all'ergastolo e la condanna alla reclusione per un tempo non
inferiore a cinque anni importano l'interdizione perpetua del condannato dai
pubblici uffici; e la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre
anni importa l'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque
[31, 33, 98 2, 139, 140, 314 2, 315 2, 317 2].
La dichiarazione di abitualità [102-104] o di professionalità nel delitto [105],
ovvero di tendenza a delinquere [108], importa l'interdizione perpetua dai
pubblici uffici [33].
Capacità d'intendere e di volere.
Dispositivo dell'art. 85 Codice Penale
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al
momento in cui lo ha commesso, non era imputabile.
È imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere.
Dizionario Giuridico by Brocardi.it
Che cosa significa "Cause di non imputabilità"?
Cause che escludono o incidono sull'imputabilità (art.85) tassativamente
indicate dal Codice penale:
vizio totale di mente (art. 88);
vizio parziale di mente (art. 89);
ubriachezza e intossicazione da sostanze stupefacenti derivanti da caso fortuito
o da forza maggiore (art. 91);
cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti (art. 95);
sordomutismo determinante l’incapacità di intendere e di volere (art. 96);
minore età degli anni 14 (art. 97);
immaturità del soggetto di età compresa tra i 14 e i 18 quando ha determinato
l’incapacità di intendere e di volere (art. 98).
Qualora tali situazioni non escludano l’imputabilità, ma la scemino grandemente,
il giudice può applicare una diminuzione di pena. Gli stati emotivi e passionali
(art. 90) non escludono, né attenuano la pena.
Legge di depenalizzazione L. 24 novembre 1981, n. 689
Art. 2 Capacità di intendere e di volere
Non può essere assoggettato a sanzione amministrativa chi, al momento in cui ha
commesso il fatto, non aveva compiuto i diciotto anni o non aveva, in base ai
criteri indicati nel Codice penale, la capacità di intendere e di volere, salvo
che lo stato di incapacità non derivi da sua colpa o sia stato da lui
preordinato.
Fuori dei casi previsti dall'ultima parte del precedente comma, della violazione
risponde chi era tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non
aver potuto impedire il fatto.
Capacità giuridica e di agire: cosa sono, le differenze.
Redazione avvocato360
La capacità giuridica e la capacità di agire non vanno confuse: la prima,
infatti, si acquisisce con la nascita, la seconda, invece, si acquisisce con il
raggiungimento della maggiore età.
La capacità di agire è diversa dalla capacità giuridica. Quest'ultima è la
capacità di essere titolari di diritti e doveri, mentre la prima consente di
esercitare i propri diritti e assumere doveri.
Capacità di agire: cos'è
La capacità di agire è l'attitudine del soggetto a compiere atti
giuridici attraverso i quali acquista diritti ed assume doveri, il tutto dopo il
compimento del diciottesimo anno di età.
La capacità di agire viene definita dall'art. 2 del Codice civile come
attitudine a compiere manifestazioni di volontà che siano adatte a modificare la
propria situazione giuridica.
Il possesso della capacità di agire consente al soggetto di disporre dei propri
diritti, ad esempio vendendo beni del proprio patrimonio o stipulando contratti
con i quali assume obbligazioni.
La capacità di agire si fonda su tre presupposti:
la capacità di intendere: capacità di comprendere il valore e le conseguenze
delle proprie azioni;
la capacità di volere: possibilità di fare le proprie scelte in modo consapevole
e responsabile;
l'età: si intende la maggiore età, quindi il compimento dei 18 anni.
Alcune persone (minorenni, malati di mente etc.) si trovano in uno stato di
incapacità più o meno grave per il quale:
non sono in grado di compiere nessun atto giuridico valido (incapacità
assoluta);
possono provvedere solo parzialmente ai propri interessi (incapacità relativa).
Capacità di agire: quando si acquista
La capacità di agire si acquista con la maggiore età. Prima del raggiungimento
della maggiore età, il minore è rappresentato dai genitori che ne amministrano i
beni e rispondono degli atti illeciti compiuti nei confronti di terzi. In
materia di rapporti di lavoro, la capacità di agire si acquista a 15 anni,
purché non si tratti di lavori pesanti.
Capacità di agire: quando si perde
La perdita della capacità di agire avviene:
con la morte del soggetto;
con la sentenza di interdizione giudiziale che accerta l'infermità mentale del
soggetto;
nei casi di interdizione legale, che costituisce una sanzione accessoria
prevista dall'art. 32 c.p. e comminata con l'ergastolo o con la condanna per un
delitto non colposo punito con pena non inferiore ai 5 anni.
Accanto alla perdita totale della capacità di agire ci sono situazioni nelle
quali essa viene limitata e sono i casi di inabilitazione e di amministrazione
di sostegno.
Capacità giuridica: cos'è
La capacità giuridica è l'attitudine del soggetto ad essere titolare di diritti
e doveri, si acquista alla nascita e si perde con la morte. Ogni persona
possiede perciò tale capacità per il solo fatto di esistere, a prescindere dalla
durata della sua esistenza.
La nozione di capacità giuridica nasce dall'elaborazione della dottrina che,
superando la concezione giusnaturalistica dell'esistenza di un diritto
originario della persona, considera la titolarità dei diritti come una
concessione dell'ordinamento, al ricorrere di una certa situazione di fatto.
Riconoscere la capacità giuridica per il solo fatto della nascita sta alla base
dell'affermazione del principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.)
nella titolarità dei diritti e delle libertà fondamentali della persona, allo
scopo di assicurare lo svolgimento della sua personalità nelle formazioni
sociali. Il riconoscimento della capacità giuridica, in egual modo all'uomo e
alla donna, è affermato dalla Convenzione di New York del 1979, che sancisce la
nullità di tutti i contratti che limitano la capacità giuridica della donna.
Capacità giuridica: quando si perde
La perdita della capacità giuridica si verifica alla morte fisica del soggetto.
La legge individua il momento della morte fisica nella cessazione irreversibile
di tutte le funzioni dell'encefalo, a prescindere quindi dal perdurare della
funzione circolatoria e respiratoria che può essere indotta dalle tecniche di
rianimazione. La questione dell'individuazione esatta del momento della perdita
della capacità giuridica per causa di morte si è resa indispensabile, ad
esempio, per stabilire quando è possibile procedere all'espianto di organi e
tessuti.
Dal momento della morte della persona, tutti i diritti e doveri della stessa si
trasferiscono in capo agli eredi.
Capacità giuridica delle persone fisiche
La capacità giuridica è una condizione imprescindibile di ogni persona. Alla
persona fisica sono riconosciuti, per il solo fatto della nascita,
determinati status (come la cittadinanza ad esempio), dai quali discendono
diritti ed obblighi. Inoltre, ogni persona fisica diventa titolare, con la
nascita, dei diritti della personalità, definiti come diritti assoluti ed
inalienabili (ad esempio il diritto alla vita, al nome, all'onore etc.).
Capacità giuridica delle persone giuridiche
Anche le persone giuridiche (vale a dire a quella combinazione tra un insieme di
persone e un'organizzazione di beni) è riconosciuta la capacità giuridica in
vista della realizzazione del proprio scopo, purché sia lecito. La capacità
giuridica delle persone giuridiche è ovviamente più limitata rispetto a quella
delle persone fisiche. Nonostante non possano essere titolari di diritti della
personalità posti a tutela esclusiva della persona umana, è loro riconosciuta
una personalità morale, attraverso ad esempio la tutela del nome o
dell'immagine.
In ordine alla capacità giuridica il Codice civile distingue tra enti
pubblici e persone giuridiche private.
Differenze tra capacità giuridica e capacità di agire
Per comprendere la differenza basti pensare al fatto che un bambino, che ha la
capacità giuridica, può essere destinatario di un'eredità, ma non può disporre
in modo autonomo dei beni dell'eredità ricevuta, ad esempio alienandoli.
La capacità giuridica si acquista con la nascita, non soffre attenuazioni e
viene riconosciuta in egual modo a tutte le persone, mentre la capacità di agire
può diminuire o essere perduta totalmente durante il corso della vita, nei casi
di incapacità parziale o totale di agire.
Cause di giustificazione - scriminanti:
quali sono e che effetti producono?
By formazionegiuridica.org. Le cause di giustificazione (dette
anche scriminanti) sono particolari situazioni in presenza delle quali un fatto,
che nella normalità dei casi costituirebbe un reato, non acquista tale carattere
perché consentito o imposto dalla legge.
Questo implica che il comportamento posto in essere dal soggetto agente non
possiede quell'antigiuridicità richiesta per integrare un reato.
Cause di giustificazione previste dal Codice penale
L'art. 50 c.p. prevede che "non è punibile chi lede o pone in pericolo un
diritto col consenso della persona che può validamente disporne".
Tale scriminante si basa sulla carenza di un interesse da tutelare, a seguito
della rinuncia del titolare alla conservazione del bene protetto dalla norma:
non avrebbe senso, infatti, perseguire un soggetto che ha avuto il permesso di
usufruire di un bene con il rischio di metterlo in pericolo o lederlo da parte
del titolare.
In ogni caso, il consenso, per avere efficacia scriminante, deve presentare una
serie di requisiti, cioè, deve essere:
attuale, cioè, esistere prima dell'avvio della condotta;
libero, cioè, non viziato da dolo, minaccia o violenza;
informato, cioè, con tutti i dettagli utili per decidere se concedere il
permesso o meno;
specifico, cioè, manifestato in maniera non vaga.
Infine, il consenso incontra dei limiti riguardo ai beni per i quali può essere
concesso.
Infatti, tali beni sono soltanto quelli disponibili, cioè quelli per i quali lo
Stato non ha un particolare e proprio interesse alla loro conservazione.
I beni indisponibili, al contrario, non possono essere oggetto del consenso in
questione in quanto sono oggetto di interesse diretto da parte dello Stato e
sono: i beni appartenenti allo Stato o a enti pubblici; i beni della
collettività; i beni della famiglia; il diritto alla vita.
Tant'è che, ad esempio, l'art. 579 c.p. punisce "l'omicidio del consenziente",
disponendo che "chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è
punito con la reclusione da sei a quindici anni" (motivo per cui l'eutanasia è
ancora illegale in Italia, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale n.
242/2019).
Per quanto riguarda l'integrità fisica, la libertà personale e l'onore, questi
sono detti beni "relativamente disponibili", nel senso che la loro disponibilità
è vietata quando è contraria alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume.
All'art. 51 c.p. troviamo la scriminante dell’esercizio del diritto per la quale
è disposto che “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto
da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude
la punibilità“.
Vi sono diversi limiti all’applicazione di tale scriminante che possono essere
sia interni, cioè, delimitati dalla norma che riconosce il diritto e ricavabili
da esplicite norme di disciplina, che esterni, cioè, derivanti da altre norme.
Alcuni esempi di esercizio del diritto possono essere dati da:
diritto di cronaca (art 21
Cost.)
per evitare di eccedere i limiti accennati sopra, questo diritto deve essere
circoscritto nel rispetto della verità, della pertinenza e della continenza. A
tal riguardo, la Cassazione ha sancito che “la causa di giustificazione di cui
all’articolo 51 del C.p., sub specie di esercizio del diritto di cronaca, alla
luce dell’interpretazione che la Corte europea dei diritti dell’Uomo dà della
garanzia di cui all’articolo 10 della Cedu, può essere configurata non soltanto
in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, ma anche in
relazione a eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia
medesima” (Cass., sent. n. 38277/2019);
inteso come libertà di dissentire dalle opinioni espresse da altri avendo
riguardo ai limiti della rilevanza sociale dell'argomento e della correttezza
delle espressioni utilizzate;
diritto di sciopero (art. 40
Cost.)
diritto garantito nell’ambito delle
leggi che lo regolano. I suoi limiti esterni risiedono nella libertà dei
soggetti che non vogliono aderire allo sciopero, negli interessi degli utenti
del servizio, nel buon andamento della pubblica amministrazione e nella garanzia
dei diritti e servizi fondamentali del cittadino (come, ad esempio, nell’ambito
della sanità);
diritto di difesa (art. 24, co. 2 Cost.): anche tale diritto incontra un limite:
l’esigenza della corretta amministrazione della giustizia. Infatti, il
difensore, pur potendo adottare tutti gli strumenti che ritiene più opportuni
per la difesa del suo assistito, deve anche prestare attenzione al comportamento
messo in atto. Ad esempio, potrebbe essere commesso il reato di favoreggiamento
nel momento in cui il difensore aiuta il suo assistito ad eludere le indagini.
Ancora, a norma dell'art. 51 c.p., "l'esercizio di un diritto o l'adempimento di
un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica
Autorità esclude la punibilità.
Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'Autorità, del reato
risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di
fatto, abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo.
Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente
alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine".
La norma giuridica da cui deriva il dovere da adempiere può essere una legge o
un atto avente forza di legge (decreti legislativi e decreti-legge), ma anche da
fonti di rango secondario, come regolamenti.
L’ordine dato dall’Autorità, in tal senso, deve avere dei requisiti
di validità senza i quali non può ricorrere la scriminante in questione: la
competenza del superiore ad emanare l’ordine; la soggezione dell’inferiore ad
obbedirvi; il rispetto delle forme previste dalla legge.
L’ordinamento militare italiano individua un limite alla insindacabilità
dell’ordine nella sua manifesta criminosità nell’art. 4 della legge n. 382/1978,
in cui viene disposto che “gli ordini devono, conformemente alle norme in
vigore, attenere alla disciplina, riguardare il servizio e non eccedere i
compiti dell’istituto. Il militare al quale viene impartito un ordine
manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione
costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine
e di informare al più presto i superiori".
Legge di depenalizzazione L. 24 novembre 1981, n. 689
Art. 4 Cause di esclusione della responsabilità
Non risponde delle violazioni amministrative chi ha commesso il fatto
nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima ovvero
in stato di necessità o di legittima difesa.
Se la violazione è commessa per ordine dell'autorità, della stessa risponde il
pubblico ufficiale che ha dato l'ordine.
L’art. 52, co. 1 c.p. dispone che “non è punibile chi ha commesso il fatto per
esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui
contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia
proporzionata all’offesa“.
È il caso della legittima difesa, in cui devono sussistere sia la situazione
aggressiva, che la reazione difensiva e quest’ultima deve essere
necessariamente proporzionata alla prima, altrimenti ci troveremmo in una
situazione di “eccesso di legittima difesa”.
In pratica, la situazione aggressiva deve avere i caratteri di pericolo
attuale e offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui.
Va considerato, quindi, il complesso della situazione tanto aggressiva quanto
difensiva, potendo riconoscersi la scriminante in questione nei casi in cui la
difesa abbia, di regola, quel carattere di proporzionalità, potendo anche essere
superato nei casi limite.
Per ciò che riguarda la legittima difesa domiciliare (l. n. 36/2019), la Corte
di Cassazione si è espressa sancendo che la riforma “non modifica l’impianto
normativo dell’istituto […]. Nemmeno il comma 4, di nuovo conio, dell’art. 52
c.p., sembra consentire un’indiscriminata reazione contro chi si introduca o si
intrattenga, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione
fisica, nella dimora altrui o nei luoghi ad essa equiparati […]. Il requisito
della necessità appartiene, difatti, all’essenza stessa della legittima difesa”
(Cass., sent. n. 21794/2020).
L’art. 53 c.p. disciplina le condizioni che legittimano l’uso delle armi da
parte della Pubblica Autorità, disponendo che “ferme le disposizioni contenute
nei due articoli precedenti, non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine
di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di fare uso
delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla
necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e
comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio,
sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario,
rapina a mano armata e sequestro di persona“.
Collegata alla legittima difesa, questa scriminante subentra, con carattere
sussidiario, quando difettino i presupposti della prima, ma anche
dell’adempimento di un dovere.
La norma fa riferimento al “pubblico ufficiale“, la cui definizione può essere
rinvenuta nell’art. 357 c.p.: “agli effetti della legge penale, sono pubblici
ufficiali coloro i quali esercitano una funzione legislativa, giudiziaria o
amministrativa.
Agli stessi effetti, è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme
di diritto pubblico ed atti autorizzativi e caratterizzata dalla formazione e
dalla manifestazione della volontà della P.A. o dal suo svolgersi per mezzo di
poteri autoritativi o certificativi“.
Presupposti per tale scriminante sono, dunque: l’adempimento di un dovere
d’ufficio; la violenza da respingere; la resistenza da vincere; la proporzione.
Previsto dall’art. 54 c.p., lo stato di necessità integra
quella scriminante secondo cui “non è punibile chi ha commesso il fatto per
esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo
attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente
causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al
pericolo“.
Questa scriminante non opera nei confronti di chi ha un particolare dovere
giuridico di esporsi al pericolo, come ad esempio gli agenti delle forze
dell’ordine.
Anche in tal caso, come per la legittima difesa e l’uso legittimo delle armi, è
necessaria la proporzione tra pericolo e fatto lesivo, facendo, dunque, un
rapporto di valore tra gli interessi in gioco.
Oltre alla proporzione, ulteriori requisiti risiedono nella situazione
necessitante in cui devono sussistere il grave danno alla persona e
la situazione di pericolo e l’azione lesiva necessitata, connotata, come si
accennava, dalla proporzione.
Dispositivo dell'art. 45 Codice Penale
Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore.
Caso fortuito e forza maggiore
AltalexPedia Di Paolo Franceschetti, Avvocato e Docente.
Caso fortuito è l’avvenimento imprevedibile ed eccezionale che si inserisce
d’improvviso nell’azione del soggetto. La forza maggiore è la cosiddetta vis
maior cui resisti non potest, cioè quella forza esterna che determina la persona
a compiere un’azione cui questa non può opporsi.
Caso fortuito e forza maggiore
Ai sensi dell’articolo 45 c.p. Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso
fortuito o forza maggiore.
Caso fortuito è l’avvenimento imprevedibile ed eccezionale che si inserisce
d’improvviso nell’azione del soggetto.
La forza maggiore è la cosiddetta vis maior cui resisti non potest, cioè quella
forza esterna che determina la persona a compiere un’azione cui questa non può
opporsi.
Il caso fortuito
Caso fortuito è l’avvenimento imprevedibile ed eccezionale che si inserisce
d’improvviso nell’azione del soggetto.
L’esempio tipico è quello di un automobilista che viaggia a moderata velocità
mentre un passante, volendo suicidarsi, gli si getta all’improvviso sotto alle
ruote.
Altri esempi sono quelli del segnalatore che durante un’esercitazione di tiro
esce dalla sua postazione prima del tempo ed è colpito da una pallottola; o
quello del macchinista che vede la luce del segnale verde anziché rossa a causa
di un fenomeno fosfonico e che fa proseguire il convoglio causando un disastro.
Talvolta la giurisprudenza fa rientrare nel caso fortuito il fenomeno del malore
che coglie il conducente alla guida, dovendosi ritenere tale però solo il malore
improvviso, di cui non c’erano avvisaglie prima dell’inizio del viaggio.
Alcuni autori hanno significativamente descritto il caso fortuito come
l’incrocio tra una condotta umana e un accadimento naturale, da cui deriva una
conseguenza imprevedibile; esso, infatti, entra in gioco solo se si inserisce in
un’azione umana già in atto (e cioè se esiste un rapporto di causalità tra la
condotta dell’uomo e l’evento). Questo è evidente dalla stessa lettera
dell’articolo 45, ove si dice “non è punibile chi ha commesso il fatto...”,
volendosi in tal modo escludere tutti quegli eventi naturali non riconducibili
alla volontà dell’uomo.
La Cassazione ha descritto il caso fortuito come quell’avvenimento imprevisto e
imprevedibile che si inserisce d’improvviso nell’azione del soggetto e non può
in alcun modo, nemmeno a titolo di colpa, farsi risalire all’attività psichica
dell’agente (Cass. 7285/1990)
La forza maggiore
La forza maggiore è la cosiddetta vis maior cui resisti non potest, cioè quella
forza esterna che determina la persona a compiere un’azione cui questa non può
opporsi.
Esempi tipici sono quelli dell’imbianchino che, mentre lavora su un impalcatura
viene sbalzato da un colpo di vento e finisce per colpire mortalmente un
passante; della chiusura per sciopero degli uffici postali, nel giorno in cui
dovevano essere spediti dei documenti al fine di evitare un reato fiscale;
impossibilità assoluta di reperimento di risorse finanziarie per far fronte a
lavori indispensabili per evitare l’inquinamento di alcune acque.
Rientra nella forza maggiore il cosiddetto costringimento psichico, previsto
dall’articolo successivo (art. 46): Non è punibile chi ha commesso il fatto per
esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica, alla quale non
poteva resistere o comunque sottrarsi. In tal caso del fatto commesso dalla
persona costretta risponde l’autore della violenza.
Collocazione sistematica dei due istituti
Nel momento in cui veniva compilato il codice, alcuni si opposero ad una
codificazione dell’istituto, perché alla regola enunciata dall’articolo 45 si
giunge agevolmente mediante l’applicazione dei principi generali in materia di
colpa, dolo, e nesso di causalità.
Non a caso la trattazione di questi due istituti viene da alcuni autori
effettuata all’interno del nesso di causalità (in quanto si tratterebbe di cause
di esclusione del nesso causale), da altri nell’ambito delle cause di esclusione
della colpevolezza. Mentre secondo un’altra visione essi andrebbero trattati
nell’ambito delle cause di esclusione della suitas.
Oppure vi sono autori che – contestando la collocazione del codice, che
accomunerebbe figure diverse - distinguono, inquadrando il caso fortuito nella
tematica del nesso causale e la forza maggiore nell’ambito della colpevolezza.
Infine, non è mancato chi ha sostenuto che il caso fortuito o la forza maggiore
escludano in radice il fatto tipico, e quindi trascendendo sia il problema del
nesso di causalità sia quello della colpevolezza.
La verità è che entrambe le figure possono, a seconda dei casi, escludere l’uno
o l’altro dei due elementi del reato, o addirittura entrambi; si tratta dunque
di istituti polivalenti, come li definisce Fiandaca-Musco (taluno li ha anche
definiti “senza patria”). Ad esempio, nel caso di malore che colpisce il
conducente, il quale va a sbattere contro un’altra auto, può parlarsi di
esclusione della suitas (ovvero della coscienza e volontà) qualora tale fatto
abbia impedito al soggetto di rendersi conto di quanto stava succedendo; nel
caso invece in cui costui fosse ancora cosciente, ma senza forze per contrastare
gli eventi, forse è più appropriato parlare di una mancanza di colpevolezza.
Giurisprudenza
Il colpo di sonno è sempre addebitabile al conducente, che avrebbe dovuto e
potuto prevederlo in anticipo, evitando di mettersi alla guida in condizioni di
stanchezza (Cass. 4023/1988; 8513/1984).
In caso di incidente, la strada sdrucciolevole non è inquadrabile nel caso
fortuito, in tal caso residuando una colpa del conducente che avrebbe dovuto
prevedere tale circostanza (Cass. 19373/2007).
In caso di incidente sul lavoro, la condotta imprevista del lavoratore non è
riconducibile al caso fortuito, perché le prescrizioni poste a tutela dei
lavoratori mirano a garantire l’incolumità degli stessi anche nei casi in cui
costoro per stanchezza, imprudenza, o malore, o altro ancora, si siano venuti a
trovare in situazioni di pericolo (Cass. 4917/2010).
Lo scorretto attraversamento della strada da parte del passeggero disceso dal
mezzo pubblico mitiga, ma non esclude la colpevolezza del conducente che lo
investa (Cass. 14776/2014)
Il malore del conducente rientra nell’ambito dei fattori incidenti sulla
capacità di intendere e di volere e non nel caso fortuito di cui all’articolo 45
cp, trattandosi pur sempre di un’infermità, ovvero di uno stato morboso,
ancorchè transitorio ascrivibile all’articolo 88. In altri termini il malore
improvviso non è ascrivibile al caso fortuito giacchè questo, descrivendo una
fattispecie in cui il soggetto, psicologicamente non risponde per l’intervento
del fattore causale imprevedibile presuppone pur sempre un’azione umana
cosciente e volontaria mentre il malore improvviso esclude tali connotazioni di
coscienza e volontarietà non realizzando quelle condizioni minime che l’articolo
42 richiede perché un fatto umano astrattamente costitutivo di reato divenga
penalmente rilevante (Cass. 9172/2013).
In tema di omicidio colposo determinato dalla perdita di controllo del veicolo,
nel caso in cui venga prospettata dalla difesa dell’imputato la tesi del malore,
il giudice di merito può correttamente disattenderla qualora manchino elementi
concreti capaci di renderla plausibile e siano presenti elementi idonei a far
ritenere che la perdita del controllo del veicolo sia stata determinata da un
altro fattore non imprevedibile che avrebbe dovuto indurre il conducente a
desistere dalla guida (nella fattispecie la S.C. ha affermato che la dedotta
crisi ipoglicemica dovuta al diabete mellito di tipo 2 di cui era affetto
l’imputato non poteva condurre all’esclusione della responsabilità per il
sinistro occorso, essendo al medesimo ascrivibile la responsabilità di essersi
posto alla guida proprio nelle ore in cui era più alto il rischio del
verificarsi della menzionata crisi ipoglicemica tra l’altro viaggiando anche a
velocità elevata (Cass. 11142/2015).
Cosa dice l'articolo 5 del codice penale?
Art. 5. (Ignoranza della legge penale) Nessuno può invocare a propria scusa
l'ignoranza della legge penale.
Errore di diritto: ignoranza inevitabile della legge penale per lo straniero. By
diritto.it.
Per la teoria generale del diritto, l’errore può essere definito come una falsa
rappresentazione della realtà: esso è distinto dall’ignoranza. Infatti, mentre
quest’ultima si definisce come la mancanza di conoscenza, implicando per tale
ragione un quid negativo, l’errore consiste in una falsa rappresentazione della
realtà derivante da una situazione successiva ad un quid positivo (o facere
positivo).
In ogni modo la dottrina ritiene che, in materia penale, errore di diritto ed
ignoranza, ai fini pratici, coincidano. Non così nel caso di errore di fatto, il
quale soggiace ad una differente disciplina legale che non verrà analizzata con
la presente scrittura.
L’errore motivo
L’errore-motivo può essere determinato sia da un errore di diritto (falsa
rappresentazione o ignoranza di una norma giuridica), sia in un errore di fatto
(falsa rappresentazione di una realtà fenomenica), ma ciò che ci occupa in
questo caso è soltanto l’oggetto finale dell’errore. Se ricade sull’errore nel
divieto, sia esso derivante da legge penale quanto extra penale, è inescusabile,
come sancisce l’art. 5 C.P. secondo cui nessuno può invocare a propria scusante
l’ignoranza della legge (ignorantia legis non excusat).
A delle conclusioni interessanti, ma simili, si perviene se considerassimo
l’ipotesi del dubbio che un soggetto ha nei confronti di un’azione quando
un’ipotesi di illiceità si affaccia nella mente del soggetto nei confronti
dell’agire stesso: si avrà in tale situazione un conflitto tra due o più
rappresentazioni della realtà giuridica (tale azione sarà o non sarà permessa
dall’ordinamento?). Ma a questo punto il soggetto risponderà dell’illecito in
ogni caso, nell’ipotesi in cui agisca nonostante il dubbio sulla liceità del suo
agire, in quanto avrebbe potuto evitare la commissione del reato attivando i
mezzi necessari atti a conoscere il precetto penale ostativo alla legalità del
suo comportamento.
In un solo caso è possibile scusare un’azione oggettivamente illecita nel caso
di “errore inevitabile di diritto” come afferma la sentenza n. 364/1988 della
Corte Costituzionale: “E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 5 cod. pen.
nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge
penale l’ignoranza inevitabile.” Nella motivazione di tale sentenza la Corte
afferma: “chi attenendosi scrupolosamente alle richieste preventive
dell’ordinamento, agli obblighi di solidarietà sociale, di cui all’art. 2
costituzione, adempia a tutti i predetti doveri, strumentali, nella specie
prevedibili e ciò nonostante venga a trovarsi in stato d’ignoranza della legge
penale, non può essere trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per
trascuratezza violi gli stessi doveri. Come è stato rilevato, discende
dall’ideologia contrattualistica l’assunzione da parte dello stato dell’obbligo
di non punire senza preventivamente informare i cittadini su che cosa è vietato
o comandato, ma da tale ideologia discende anche la richiesta, in contropartita,
che i singoli si informino sulle leggi, si rendano attivi per conoscerle, prima
di agire. La violazione del divieto di commettere reati, avvenuta nell’ignoranza
della legge penale, può, pertanto, dimostrare che l’agente non ha prestato alle
leggi dello Stato tutta l’attenzione dovuta. Ma se non v’è stata alcuna
violazione di quest’ultima, se il cittadino, nei limiti del possibile, si è
dimostrato ligio al dovere (ex art. 54, 1° comma, Cost.) e, ciò malgrado,
continua ad ignorare la legge, deve concludersi che la sua ignoranza è
inevitabile, pertanto scusabile”, si è riconosciuto l’esistenza della
scusabilità dell’errore di diritto “inevitabile” che si verifica quando il
soggetto si trovi in uno stato inevitabile d’ignoranza del precetto penale: tale
è colui che attiva tutti i mezzi necessari per conoscere la legge penale e che,
nonostante l’adempimento di tutte le formalità che la legge gli offre, egli
rimane comunque in stato d’ignoranza nei confronti del precetto penale “de quo”.
Successivamente a tale sentenza sono intervenute altre sentenze, questa volta,
della Corte di Cassazione. A tal uopo ne citiamo qualcuna:
“Alla stregua della sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale,
l’errore sul precetto è inevitabile nei casi di impossibilità di conoscenza
della legge penale da parte di ogni consociato. Ma mentre per il comune
cittadino l’inevitabilità dell’errore va riconosciuta ogniqualvolta l’agente
abbia assolto, con il criterio della ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere
di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento per
conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia, per tutti coloro
che svolgono professionalmente una determinata attività, tale dovere è
particolarmente rigoroso, tanto che essi rispondono dell’illecito anche in virtù
di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica. In questa
seconda situazione occorre, cioè, ai fini dell’affermazione della scusabilità
dell’ignoranza, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o
da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale l’agente abbia tratto
il convincimento della correttezza della interpretazione e, conseguentemente
della liceità del comportamento futuro. (Fattispecie nella quale è stata esclusa
l’inevitabilità dell’errore su norme integrative del precetto penale addotto
dall’imputato, biologo accusato di abusivo esercizio della professione medica
per avere effettuato un prelievo di sangue venoso a fini di analisi, essendosi
il medesimo limitato ad allegare alcune pronunce di giudici di merito favorevoli
alla sua tesi e un avviso di natura meramente interna di una pubblica
amministrazione) Cass. penale, sez. VI, 21-02-1997 (06-12-1996), n. 1632”.
“In materia contravvenzionale, è configurabile la cosiddetta “buona fede” ove la
mancata coscienza dell’illiceità derivi non dall’ignoranza della legge, ma da un
elemento positivo e cioè da una circostanza che induce nella convinzione della
sua liceità, come un provvedimento dell’autorità amministrativa, una precedente
giurisprudenza assolutoria o contraddittoria una equivoca formulazione del testo
della norma (Cass. penale, sez. III, 21-04-1989 (08-03-1989), n. 6160).
“Nelle contravvenzioni la buona fede del trasgressore diventa rilevante quando
si risolve – in presenza ed a causa di un elemento positivo estraneo all’agente
– in uno stato soggettivo tale da escludere la colpa. Ne deriva che difetta
l’elemento psicologico, per scusabilità dell’errore, qualora l’agente abbia
tratto il convincimento di liceità da un fatto positivo dell’autorità. (Nella
specie l’agente si era recato in Lucca in virtù di un permesso del magistrato di
sorveglianza, pur contravvenendo ad un foglio di via obbligatorio con divieto di
ritorno in quella città per tre anni – la cassazione ha ritenuto corretta la
decisione di proscioglimento adottata dalla corte d’appello, che aveva
considerato scusato il comportamento dello imputato sia perché conforme al
suddetto permesso, sia perché in precedenza il ricorrente già era stato assolto
per fatto analogo (Cass. penale, sez. I, 17-07-1989 (14-07-1988), n. 10424)”.
“La esclusione della colpevolezza nelle contravvenzioni non può essere
determinata dall’errore di diritto dipendente da ignoranza non inevitabile della
legge penale, quindi, dal mero errore di interpretazione, che diviene scusabile
quando è determinato da un atto della pubblica amministrazione o da un
orientamento giurisprudenziale univoco e costante, da cui l’agente tragga la
convinzione della correttezza dell’interpretazione normativa e, di conseguenza,
della liceità della propria condotta. (Cass. penale, sez. III, 21-04-2000
(17-12-1999), n. 4951)”.
Si può quindi definire come “errore inevitabile di diritto” quell’errore che
viene commesso da colui il quale, pur avendo attivato tutti i mezzi necessari
affinché potesse conoscere la legge penale, pur avendo richiesto pareri ad
autorità competenti autorizzate dalla legge ad agire nell’interesse di
determinati soggetti giuridici, agisca senza la coscienza dell’illiceità,
nonostante l’antigiuridicità obbiettiva del suo comportamento.
Sarà il giudice che di volta in volta accerterà la presenza dell’errore
inevitabile di diritto il quale, una volta rilevato, renderà il soggetto non
responsabile della condotta oggettivamente antigiuridica messa in essere dal
tale soggetto.
Le questioni di merito
In una recente sentenza di merito (Tribunale di Reggio Emilia, 15 luglio 2019),
un cittadino straniero accusato del delitto di contraffazione del contratto di
lavoro necessario al rilascio del titolo di soggiorno, non si era consapevole di
stare commettendo un illecito (Cass. Penale, Sez. V, n. 2506, 24/11/2016),
essendosi affidato alla prestazione professionale di un’agenzia di
intermediazione per l’espletamento delle pratiche di rinnovo del permesso.
Secondo il giudice, la consapevolezza della falsità del rapporto di lavoro non
poteva prescindere dalla conoscenza di alcune norme extrapenali integratrici del
precetto: quelle che concorrono a determinare i criteri di legalità del
contratto di lavoro e del rapporto giuridico da esso creato, ed in negativo
delineano i contorni della condotta sanzionata. Gli atti di falsificazione sono
stati in questo caso giudicati ascrivibili ad un’organizzazione attiva nel
settore e con legami col territorio, come l’agenzia di intermediazione,
piuttosto che all’imputato privo di tali mezzi.
Sulla questione la giurisprudenza di merito ha un andamento oscillante: nella
maggior parte dei casi non si attribuisce un peso allo status di straniero in
quanto tale, ma in alcuni ciò avviene grazie al corroboramento di un elemento
oggettivo, quale ad esempio proprio la consulenza di “professionisti la cui
opera è regolata dalla legge e dotati di specifiche competenze
tecnico-giuridiche”.
La giurisprudenza di merito sembra avvalorare il legittimo affidamento del
cittadino straniero nella professionalità di questi soggetti, riconoscendo la
scusante dell’inevitabile ignoranza della legge penale.
OGGETTO:
Offensività: bene giuridico leso;
NESSO:
Materialità: azione o omissione esistente
Per il
peculato comune e d’uso: denaro e cosa mobile altrui
Per
peculato su errore altrui, concussione, corruzione: denaro o altra utilità
Per i
reati contro la Pubblica Amministrazione la funzione pubblica di reità è sempre
esperita dal Pubblico Ufficiale e dall’Incaricato di Pubblico Servizio,
residuale è quella dell’esercente un servizio di pubblica necessità.
Sintetizzando, il tratto caratterizzante dei protagonisti delle varie condotte
può essere il seguente:
Peculato appropria 314: Pubblico ufficiale = Incaricato di pubblico servizio;
Concussione costringe 317: Pubblico ufficiale = Incaricato di pubblico servizio;
Induzione indebita induce 319 quater: Pubblico ufficiale = Incaricato di
pubblico servizio
Corruzione offre-riceve 318-319: Pubblico ufficiale corrotto-privato
corruttore/Incaricato di pubblico servizio -1/3
Istigazione alla corruzione 322:
offerta-promessa privato -1/3;
sollecitazione Pubblico ufficiale = Incaricato di pubblico servizio -1/3.
concussione = minaccia arrogante 6-12;
induzione indebita= pressione morale abusante 2-10 anno e 6 mesi;
corruzione: impropria da tre a otto anni; propria da 6 a dieci anni; atti
giudiziari da sei a dodici anni, da sei a quattordici se condanna – 5 anni, da
otto a venti anni se + cinque anni o ergastolo
istigazione alla corruzione= sollecitazione corruttiva 3-8, -1/3 se privato.
PRINCIPIO DI LEGALITA’
Principio di riserva di legge
Principio di tassatività
Principio di tipicità
(o divieto di analogia)
Principio di irretroattività
PRINCIPIO DI MATERIALITA'
PRINCIPIO DI OFFENSIVITA'
PRINCIPIO DI SOGGETTIVITA'
PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA
PRINCIPIO DI TERRITORIALITA’
PRINCIPIO DI OBBLIGATORIETA’
PRINCIPIO DEL “NE BIS IN IDEM”
Quali sono gli elementi del diritto penale?
Da Wikipedia. Le norme penali di regola risultano costituite da due elementi: -
il precetto - la sanzione
Il precetto è il comando di tenere una certa condotta, e cioè di non fare una
determinata cosa o di compiere una data azione, e il più delle volte è
implicito; ad esempio, la legge penale in materia di omicidio.
Descrizione. Il sistema penale italiano è fondato sul doppio binario: le pene
sono indirizzate a punire il fatto, le misure di sicurezza a prevenire
comportamenti illeciti del reo, che si basano su un giudizio di pericolosità
sociale della sua personalità.
Principi generali. Il diritto penale è retto da quattro principi fondamentali:
già accolto dallo Statuto Albertino, ha ricevuto definitiva consacrazione nella
Costituzione repubblicana del 1948.
È sancito dall'art. 1 del c.p. secondo cui «Nessuno può essere punito per un
fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene
che non siano da essa stabilite».
L'importanza di questo principio è rafforzata dall'art. 25 comma 2 della
Costituzione, che stabilisce: «Nessuno può essere punito se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso». Il principio di
legalità esprime l'applicazione di quattro "sotto principi":
1) la riserva di legge della fonte penale;
2) l'irretroattività della norma penale;
3) la sufficiente determinatezza e la tassativa applicazione della norma penale;
4) il divieto di analogia in malam partem di norma non eccezionale (cfr art. 14
Prel.).
Art. 1. Codice Penale (Reati e
pene: disposizione espressa di legge)
Nessuno può essere punito per un
fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene
che non siano da essa stabilite.
Art. 2. (Successione di leggi penali)
Nessuno può essere punito per un
fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.
Nessuno può essere punito per un
fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata
condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.
((Se vi è stata condanna a pena
detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la
pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena
pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135)).
Se la legge del tempo in cui fu
commesso il reato e le posteriori sono diverse,
si applica
quella le
cui disposizioni
sono più favorevoli
al reo,
salvo che
sia stata
pronunciata sentenza
irrevocabile.
Se si tratta di leggi eccezionali
o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.
Le disposizioni di questo articolo
si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un
decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con
emendamenti.
Legge di depenalizzazione L. 24 novembre 1981, n. 689
Art. 1 Principio di legalità
Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione.
Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e
per i tempi in esse considerati.
non si può ravvisare un reato se la volontà criminale non si manifesta in una
condotta esterna
la volontà criminale deve manifestarsi
in un comportamento esterno che leda o ponga in pericolo uno o più beni
giuridici
un fatto può essere penalmente attribuito solo se vi sono i presupposti per
ritenere sia obiettivamente e soggettivamente imputabile al suo agente. Questo
principio si desume dal disposto dell'art. 27, comma 1 della Costituzione,
secondo cui "la responsabilità penale è personale".
Oltre a questi è presente anche il concetto di frammentarietà: il concetto che
esprime come l'applicazione del diritto penale avvenga in modo puntiforme, a
seguito di una scelta del legislatore che decide quali fatti specifici debbano
essere classificati come reati e quindi puniti, lasciando alcune aree dell'agire
umano scoperte dal suo intervento.
Elementi. Questo ramo del diritto pubblico, volto a collegare una sanzione ad un
comportamento legalmente previsto come criminoso, è diviso in tre elementi
costitutivi: fatto, personalità, conseguenze.
rappresenta l'oggettività del diritto
penale, senza di esso si avrebbe un diritto penale del sospetto, che andrebbe a
commisurare la pena in assenza della conseguenza di un comportamento. La
necessità di un elemento oggettivo comporta che non sono ammessi processi alle
intenzioni, e, secondo un orientamento prevalente, il fatto è penalmente
rilevante se vìola il principio di lesività (Nullum crimen sine iniuria).
rappresenta il momento illuminante del
diritto penale, significa che il soggetto, affinché possa esser punito deve
essere imputabile. Non esiste una norma simile, a parte e più limitatamente v.
art. 428 c.c., nell'ordinamento civilistico, in diritto penale l'imputabilità
rappresenta la soggettività di diritto penale, senza di questa non avrebbe senso
infliggere al colpevole la pena, poiché questa (art. 27 Costituzione) ha
finalità retributiva e riabilitativa, e di nessun reinserimento sociale potrebbe
beneficiare chi non è in grado di comprendere il significato della pena stessa.
sono rappresentate dalle sanzioni che
seguono la violazione della norma penale. Anche in diritto civile vi sono
conseguenze sanzionatorie della violazione della normativa di riferimento, con
l'essenziale differenza, però, che queste hanno solo carattere pecuniario o
obbligatorio e consistono in risarcimenti derivanti da responsabilità
(contrattuale o extracontrattuale), non potendo avere carattere privativo della
libertà personale.
L'ordinamento penale italiano prevede una serie di norme volte a delineare i
limiti spaziali e personali dell'applicazione della legge penale.
L'ordinamento italiano recepisce 4 principi basilari, che non sono applicati in
maniera esclusiva o tendenzialmente rilevante, ma in modo concorrente e
coordinato:
La legge penale punisce chiunque
delinqua nello stato di riferimento;
La legge penale si applica a coloro che
commettono reati che offendano beni appartenenti allo stato di riferimento o
cittadini dello stesso;
La legge penale si applica a tutti i reati, ovunque e da chiunque commessi;
La legge penale si applica a tutti i
reati commessi da un cittadino dello stato di riferimento, indipendentemente dal
locus commissi delicti
Si estrinsecano attraverso il principio di obbligatorietà, che sottopone alla
legge penale tutti coloro, cittadini o stranieri, che si trovino nel territorio
dello stato italiano e, in casi specifici, anche cittadini e stranieri che si
trovino all'estero.
Principi del diritto penale.
Gennaro Rotunno
PRINCIPIO DI SOGGETTIVITA'
Un comportamento umano costituisce reato quando, oltre ad essere tipico e
compiuto in assenza di cause di giustificazione, è anche riferibile alla volontà
dell'agente (art. 27 Cost). A seguito della sentenza n.364/1988 della Corte
costituzionale, è divenuto principio di colpevolezza, diventando il presupposto
della personalità della responsabilità penale e si oggettiva in un giudizio di
rimproverabilità per l'atteggiamento.
E’ il principio formale su cui si basa il Sistema Penale ed è fondato sul
Sistema del doppio binario, basato sia sulla pena che sulle misure di sicurezza.
E' sancito dai seguenti articoli:
- Art. 25 Cost.: "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a
misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge."
– Art. 1 c.p.: "Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente
preveduto come reato dalla legge, né con pene che siano da esse stabilite."
- Art. 2. (Successione di leggi penali): “Nessuno può essere punito per un fatto
che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.
Nessuno può essere punito per un
fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata
condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.
- Art. 199 c.p.: "Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non
siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dai casi dalla legge stessa
preveduti."
Art. 14 cod. civ. (preleggi) (Applicazione delle leggi penali ed eccezionali).
Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi
non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati.
Legge di depenalizzazione L. 24 novembre 1981, n. 689
Art. 1 Principio di legalità
Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione.
Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e
per i tempi in esse considerati.
Il principio di legalità formale ha quattro corollari:
qualsiasi comportamento per costituire reato deve essere previsto dalla legge e
qualsiasi condotta per costituire reato deve corrispondere alla descrizione
legale, contenuta nella norma incriminatrice;
necessità della formulazione di una fattispecie tipica, che specifichi ciò che è
penalmente lecito o illecito;
Principio di tipicità
(o divieto di analogia)
è reato solo quel fatto che il legislatore ha espressamente e tassativamente
considerato come tale. Eccezione a tale corollario è la c.d. l'interpretazione
estensiva. A tal proposito, meritano menzione i concetti di interpretazione e
analogia. L’interpretazione giuridica è quel procedimento logico attraverso il
quale si chiarisce e si spiega il significato di una norma. Nell’applicare la
legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello palese del
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e della
intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una
precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili
o materie analoghe, se vi sono ancora dubbi, si decida secondo i principi
generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
Principio di irretroattività
(art. 2 c.p.)
nessuno può essere punito per un fatto che non fosse previsto come reato al
momento in cui fu commesso (è operante nei riguardi delle norme incriminatrici
ma non rispetto alle misure di sicurezza, riguarda inoltre tutte le norme
giuridiche, anche se non penali, da cui potrebbe dipendere la rilevanza penale
sopravvenuta);
Si ha poi la successione di leggi, quando una norma si estingue ed un’altra le
subentra. Il fenomeno successorio delle leggi penali è regolato col principio di
irretroattività della norma incriminatrice, sia nell’ipotesi in cui la legge
istituisca un nuovo titolo di reato, sia quando il mutamento di uno degli
elementi costitutivi di preesistente fattispecie criminose, rende punibili fatti
che prima non lo erano. Nel dettaglio: - abolitio criminis: se la nuova norma
non prevede più come reato, un fatto che in precedenza era considerato tale, si
applica il principio di retroattività della legge. - abrogazione: si ha quando
una fattispecie di portata più generale, succede ad una precedente di portata
più specifica, ossia è l’istituto mediante il quale il legislatore determina la
cessazione dell’efficacia di una norma giuridica. - modificazione: prevede due
casi: Teoria della continuità del tipo di illecito: si ha una modificazione se
tra due norme il bene giuridico protetto e le modalità di aggressione allo
stesso sono uguali. Teoria del rapporto di continenza: si ha una modificazione
quando la nuova norma introduce una fattispecie con elementi di specialità
rispetto alla disposizione precedente. La Cassazione ha stabilito che vi è
sempre l’individuazione della normativa di favore per il reo, quindi fra due
leggi, una nuova e una vecchia, occorre applicare quella che tra le due risulti
più vantaggiosa per il reo, ossia che condurrà a conseguenze meno gravose per il
reo. Il principio di retroattività non è applicato per le leggi eccezionali
(situazioni anormali) e temporanee (hanno vigore entro un limite di tempo da
esse determinato). In questi casi si applica solo e sempre la disposizione in
vigore nel tempo in cui è stato commesso il fatto.
Il reato deve necessariamente consistere in un fatto umano materialmente
palesatosi nel mondo esteriore e la sola intenzione di commettere un reato non è
punibile.
Occorre che il reato sia realmente ed effettivamente offensivo del bene protetto
della norma incriminatrice.
Tutti gli atti dello Stato, compresi quelli legislativi, incontrano nel
territorio il loro limite spaziale di efficacia. La Legge penale italiana
obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovino nel territorio dello
Stato (art. 3 comma 1 c.p.p.). Chiunque commette un reato nel territorio dello
Stato è punito secondo la legge italiana (art 6 comma 1 c.p.p.). La legge penale
italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovino all’estero,
ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto
internazionale (art 3 comma2 c.p.p).
E' definito territorio dello Stato:
- Il territorio della Repubblica, ossia: La terraferma nei limiti fissati dai
confini politici. Il mare territoriale che comprende le zone di mare
dall’estensione di 12 miglia marine, lungo le coste continentali e insulari. La
spazio aereo sovrastante il territorio ed il mare territoriale. Il sottosuolo,
fin dove l’uomo può ricavare utilità. Le ambasciate.
- Le navi e gli aerei, dovunque si trovino, salvo che siano soggetti secondo il
diritto internazionale, a una legge territoriale straniera. Le navi mercantili
private all’estero sono soggette alle leggi locali, le navi militari o dello
Stato, a bordo sono sempre da considerarsi territorio italiano, mentre per i
fatti commessi dall’equipaggio sceso a terra, si applicherà la legge dello Stato
in cui si trovano.
Vi sono dei reati che, anche se commessi all’estero saranno sempre puniti
incondizionatamente dallo Stato italiano:
Delitti contro le personalità dello Stato.
Delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e uso di tale sigillo.
Delitti di falsità di monete in corso legale nel territorio dello Stato e in
valori di bollo o carte di credito.
Delitti commessi da Pubblici Ufficiali a servizio dello Stato abusando di poteri
o violando i dover inerenti alle loro funzioni.
Ogni reato per cui speciali disposizioni di legge o di convenzioni
internazionali stabiliscano l’applicabilità della legge italiana.
Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o
l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, oppure ivi si
è verificato l’evento.
Il delitto comune commesso all’estero, da italiano o da straniero, è punibile in
Italia e secondo la legge italiana a condizione che: si tratti di delitto, sia
punito con la reclusione, il reo sia presente in Italia.
E’ ammesso eccezionalmente il riconoscimento delle sentenze emesse da Tribunali
stranieri al fine di: Per stabilire la recidività, ovvero per definire la
tendenza a delinquere.
Quando secondo la legge, si dovrebbe sottoporre la persona a misure di
sicurezza. Quando importa condanna a restituzione o risarcimento, che devono
essere fatti valere in Italia. Caso particolare è il c.d. delitto politico.
E’ delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato
ovvero un diritto politico del cittadino, è altresì considerato delitto politico
il delitto comune determinato in tutto o in parte, da motivi politici. I delitti
politici sono diretti, quando offendono gli interessi politici dello Stato nella
sua essenza unitaria, sono indiretti quelli che offendono un diritto politico
del cittadino per impedirgli di partecipare alla vita attiva dello Stato.
Rientrano in questa categoria i delitti anarchici e quelli commessi per finalità
di terrorismo. In questo contesto, fattispecie rilevante è l'estradizione (art.
13 c.p.). Consiste nella consegna che uno Stato fa di un individuo, che si sia
rifugiato nel suo territorio, ad un altro Stato, perché ivi venga sottoposto al
giudizio penale o alle sanzioni penali. Può essere attiva, quando l’Italia
riceve in consegna un individuo che si trova all’estero o passiva, quando
l’Italia consegna ad uno Stato Straniero un individuo qualora questi abbia
commesso un reato che quello Stato è interessato a punire. L’estradizione non è
ammissibile tranne i casi espressamente previsti dalle convenzioni
internazionali, è vietata per i reati politici ad eccezione dei delitti di
genocidio, per motivi di razza, religione o nazionalità e per reati puniti
all’estero con la pena di morte. La legge italiana pone le seguenti condizioni
per l'estradizione: il fatto che forma l’oggetto della domanda di estradizione
deve essere preveduto come reato sia dalla legge italiana che da quella
straniera; non si deve trattare di reato per il quale le convenzioni
internazionali facciano divieto di estradizione; l’estradando deve essere
straniero, in caso contrario deve essere consentita nelle convenzioni
internazionali. In tema di estradizione vi è il principio di specialità, ossia
lo Stato richiedente ha l’obbligo di non processare l’estradato per un fatto
anteriore o diverso da quello per cui è stata concessa l’estradizione e ha il
dovere di non assoggettare lo stesso ad una pena diversa da quella relativa al
fatto per cui è stata concessa.
Il nostro diritto positivo dispone che, la legge penale italiana, obbliga tutti
coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salvo
le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto
internazionale. Ciò è sancito dal brocardo “ius excludendi alios”: sul proprio
territorio, lo Stato non riconosce nessun’altra autorità al di fuori della
propria.
Le immunità sono particolari prerogative riconosciute a determinate persone che
adempiono funzioni o ricoprono uffici di particolare importanza. Esse si
sostanziano nell’esenzione di questi soggetti da ogni conseguenza penale, in
ragione della loro qualifica personale e derivano o dal diritto pubblico interno
o dal diritto internazionale: diritto interno:
riguardano il Capo dello Stato, che non è responsabile degli atti compiuti
nell’esercizio delle sue funzioni (tranne che per alto tradimento o attentato
alla Costituzione).
Riguardano inoltre: i membri del Parlamento e i Consiglieri regionali, per le
opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (nessun
membro del Parlamento può essere arrestato senza l’autorizzazione della Camera
di appartenenza, salvo reati per i quali è obbligatoria la cattura), i Giudici
della Corte Costituzionale e i membri del C.S.M. Nessuna immunità è prevista per
i reati comuni.
Riguarda il diritto internazionale: riguardano i Capi di Stato esteri che si
trovano in tempo di pace in Italia, il Papa, i Ministri degli Affari esteri e i
membri stranieri dei tribunali arbitrari, gli agenti diplomatici accreditati
presso il Capo dello Stato, Consoli, Vice Consoli e Agenti consolari, reparti di
truppe straniere autorizzati dallo Stato, diplomatici stranieri, membri del
Parlamento Europeo e della Corte dell’Aja
Il principio del "ne bis in idem" sostanziale, esclude che per uno stesso ed
unico fatto, una persona possa essere chiamata a rispondere di titoli diversi di
reato. Questo principio costituisce il fondamento dei criteri destinati ad
evitare la contemporanea applicazione di più norme ad uno stesso fatto, fenomeno
definito concorso apparente di norme coesistenti.
Si parla di concorso apparente di norme coesistenti in tutte le ipotesi in cui
due o più norme sembrano, in astratto, applicabili al medesimo fatto, ma in
concreto l’applicazione di una esclude l’altra. La ratio di tale disciplina è
escludere che al colpevole venga applicato il regime del concorso di reati in
modo ingiustificato. Nello stabilire la regola di cui sopra, il legislatore
italiano ha accolto il c.d. criterio di specialità, secondo il quale lex
specialis derogat legi generali. I criteri per dirimere il conflitto apparente
di norme e quindi per applicare il principio del ne bis in idem in astratto sono
tre:
Criterio di specialità (art. 15 c.p.): presuppone che tra due norme esista un
rapporto di genere a specie e comporta la priorità della norma speciale su
quella generale. La norma è speciale quando contiene, oltre agli elementi
compresi nella fattispecie generale, anche degli elementi particolari e
specifici. Questo principio ha molta rilevanza nel risolvere casi in cui due o
più leggi possano regolare lo stesso fatto giuridico, e quindi vi siano dubbi su
quale decisione adottare. Questo criterio stabilisce pertanto la supremazia
delle leggi speciali sul Codice civile, e delle leggi riguardanti un preciso
settore su quelle generiche. Da ultimo le Sezioni Unite della Cassazione con la
sentenza n. 1963 del 21 gennaio 2011, hanno precisato che il principio di
specialità, quale criterio di soluzione dell’eventuale concorso tra norme penali
incriminatici e norme amministrative sanzionatorie, presuppone il confronto
strutturale tra le rispettive fattispecie astratte.
Criterio di sussidiarietà: le cosiddette norme sussidiarie si applicano solo se
non possono trovare applicazione altre norme primarie. Il criterio di
sussidiarietà sarebbe in grado di individuare una relazione fra norme che
prevedono gradi diversi di offesa al medesimo bene giuridico: ad esempio, fra la
contravvenzione di atti contrari alla pubblica decenza e il delitto di atti
osceni. In tali casi, la norma che prevede l'offesa più grave andrebbe applicata
in sostituzione della fattispecie che prevede un'offesa di grado minore.
Criterio di consunzione o assorbimento: esso afferma che, quando la commissione
di un reato è solitamente accompagnata dalla commissione di un secondo ulteriore
reato (si pensi ad una truffa commessa millantando credito), la comune
valutazione sociale porta ad escludere che al medesimo soggetto possano essere
addebitati ambo i reati: in tutti questi casi andrebbe solo applicata la norma
che prevede la pena più grave. Secondo prevalente dottrina, tale criterio
sarebbe l'espressione di un principio più generale, detto appunto “ne bis in
idem” sostanziale, accolto dal legislatore penale in sede di disciplina del
concorso di norme penale.
il principio della contestazione
il principio del contraddittorio
il principio di lealtà processuale
il principio del libero convincimento del giudice
il principio della motivazione
il principio di pubblicità
il principio di parità fra accusa e difesa
il principio del favor rei
il principio del favor libertatis
Quali sono i principi costituzionali che regolano il processo penale?
il principio del contraddittorio:
secondo cui lo svolgimento del processo deve avvenire nel contradditorio tra le
parti;
il principio della motivazione:
il quale dispone che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere
motivati;
il principio del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso.
La Costituzione Parte II Ordinamento della Repubblica Titolo IV La Magistratura
Sezione II Norme sulla giurisdizione
Articolo 111 La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato
dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in
condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura
la ragionevole durata. Nel processo penale, la legge assicura che la persona
accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata
riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico;
disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa;
abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le
persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e
l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e
l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un
interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo.
Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione
della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di
dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente
sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore. La
legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in
contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di
natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. Tutti i
provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati [cfr. artt. 13 c.2 , 14 c.2
, 15 c.2 , 21 c.3]. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà
personale [cfr. art. 13], pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o
speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge [cfr.
art. 137 c.3]. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei
tribunali militari in tempo di guerra [cfr. art. 103 c.3 , VI c.2]. Contro le
decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in
Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione [cfr. art.
103 c.1,2].
Articolo 113 cost. Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre
ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi
dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa [cfr. artt. 24
c.1, 103 c.1,2, 125 c.2 ].
Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari
mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.
La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti
della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge
stessa.
Principi del processo penale.
2017 by Gennaro Rotunno
PRINCIPI FONDAMENTALI DEL PROCESSO PENALE ITALIANO
Il principio di uguaglianza,
sancito dall’art. 3 Cost. è il principio fondamentale dell’ordinamento italiano.
Vi sono poi dei principi relativi alla giurisdizione penale e sono:
il diritto alla tutela giurisdizionale
(artt. 24-113 Cost.); il principio del doppio grado di giurisdizione (primo
grado e appello);
l’amministrazione della giustizia in nome del popolo
(art. 101 Cost.; indica che l’amministrazione della giustizia è funzione
esercitata in nome dello Stato-comunità); il giusto processo (art. 111 Cost.).
L’art. 25 Cost. sancisce il fondamentale principio di precostituzione del
giudice, stabilendo che nessuno può essere distolto dal giudice naturale
precostituito per legge. Lo scopo di tale norma è quello di garantire che il
cittadino sia sempre giudicato da un organo individuabile in astratto dalla
legge, in base a criteri oggettivi, relativi alla competenza. Gli uffici
giudiziari sono organizzati con legge, è la legge a stabilire le sedi di
Tribunali e Corte d’appello, nessuno può essere giudicato da un organo istituito
successivamente al fatto o cui sia stata attribuita competenza successivamente
al verificarsi del fatto.
L’art. 102 Cost. afferma che la funzione giurisdizionale è esercitata da
magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento
giudiziario, non possono essere istituiti giudici speciali (ad esempio, giudice
amministrativo) o straordinari (ad esempio, costituiti appositamente dopo la
commissione di un fatto).
L’art. 101 Cost. afferma che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, questa
norma garantisce l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere dello
Stato, per quanto riguarda l’esercizio della funzione giurisdizionale. L’art.
104 Cost. sancisce che la magistratura costituisce un ordine autonomo ed
indipendente da ogni altro potere, l’effettiva indipendenza della magistratura è
garantita dal C.S.M., il quale è l’unico organo che può disporre il mutamento di
funzioni e sedi dei magistrati in ordine all’art. 107 Cost. (principio di
inamovibilità dei giudici).
L’art. 24 Cost. afferma che la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e
grado del procedimento e si sostanzia nell’assistenza tecnico-professionale nel
corso del giudizio e nella necessità del contraddittorio.
Articolo 25 cost.
Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge [cfr.
art. 102].
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
prima del fatto commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti
dalla legge
L’art. 27 Cost. afferma che l’imputato non è considerato colpevole sino alla
condanna definitiva, la presunzione di colpevolezza può essere considerata come
regola di giudizio, collegata al principio dell’onere della prova e come
criterio generale, relativo allo status dell’imputato e del suo trattamento
durante il processo.
L’art. 13 Cost. afferma che la libertà personale è inviolabile, ne discendono i
seguenti principi: la riserva assoluta di legge (le restrizioni della libertà
sono ammesse solo se previste dalla legge); la riserva dell’autorità giudiziaria
(solo il giudice può porre limitazioni al diritto di libertà personale);
l’obbligo della motivazione (tutti i provvedimenti restrittivi della libertà
personale devono essere motivati). L’eccezionalità dei casi in cui l’autorità di
Polizia può adottare provvedimenti restrittivi poiché l’esigenza di repressione
di reati non consente l’intervento del giudice, entro 48 ore vanno comunicati al
giudice per la convalida, infine la previsione dei termini massimi consentiti
per la custodia cautelare.
PRINCIPI RELATIVI AL PROCESSO PENALE.
Nel nostro ordinamento l’iniziativa dell’azione penale tocca solo al P.M., il
quale ha l’obbligo sancito dalla Costituzione, del suo esercizio. Il giudice non
può iniziare d’ufficio un’indagine, ne può adottare provvedimenti senza una
richiesta del P.M. Si distinguono dunque i seguenti principi:
il principio della contestazione:
secondo il quale nessuno può essere condannato per un fatto per il quale non sia
stato posto in condizione di difendersi;
il principio del contraddittorio:
consiste nella partecipazione delle parti (P.M. e imputato) alle fasi del
processo;
il principio di lealtà processuale:
consiste nel dovere di collaborare all’attuazione delle volontà della legge di
modo che l’interesse individuale ad una sentenza favorevole rimanga subordinato
all’interesse generale all’emanazione di una sentenza giusta;
il principio del libero convincimento del giudice:
sancisce che il giudice valuta la prova, dando conto nella motivazione dei
risultati acquisiti e dei criteri adottati;
il principio della motivazione:
dispone che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati;
il principio dell’oralità e della concentrazione:
una caratteristica peculiare del processo accusatorio è quella di bandire la
prova scritta e di esigere che la prova si formi in presenza del giudice, nel
libero confronto delle parti. Quello dell’oralità è un principio tendenziale che
deve contemplarsi con le concrete esigenze del processo, in quanto la legge
riconosce l’eventualità di un’anticipata acquisizione probatoria e comunque il
giudice in fase di giudizio, deve tener conto del materiale acquisito in
dibattimento e riversato nel verbale, che è atto scritto, onde consentire la
successiva verifica in caso di impugnazione. La concentrazione del procedimento,
significa che una sola udienza processuale dovrebbe essere sufficiente a
definire il giudizio, senza rinvio ulteriore ad altra data;
il principio di pubblicità:
le fasi propriamente processuali, quelle in cui avviene il confronto tra P.M. e
imputato, davanti al giudice, sono pubbliche per quanto concerne la celebrazione
del dibattimento, mentre restano non pubbliche l’udienza preliminare, quella per
l’incidente probatorio e alcuni riti alternativi che si svolgono davanti al
G.I.P, o quando le circostanze lo richiedono (minori, ecc.);
il principio di parità fra accusa e difesa:
è inerente alla fase processuale davanti al giudice. La fase precedente prevede
una posizione privilegiata del P.M., in quanto abilitato dalla legge a
sviluppare una serie di attività, di concerto con la P.G., dirette ad acquisire
gli elementi necessari per decidere se esercitare o meno l’azione penale;
il principio del favor rei:
sta ad indicare che va data prevalenza all’interesse dell’imputato rispetto
all’interesse punitivo dello Stato, infatti la sentenza di assoluzione, potrà
aversi non solo quando risulti l’innocenza di una persona, ma anche quando
manchi, sia insufficiente o contraddittoria la prova della sua colpevolezza.
Spetta all’ufficio dell’accusa (P.M.) provare la colpevolezza dell’imputato, la
difesa ha solo la facoltà e non l’obbligo di addurre le prove a discarico;
il principio del favor libertatis:
concerne la sfera della libertà personale del reo, ne costituiscono concreta
espressione, l’attribuzione al giudice in via esclusiva, del potere di limitare
o sopprimere la libertà personale dell’imputato e la considerazione che la
custodia cautelare in carcere deve essere l’extrema ratio;
il principio del ne bis ne idem:
prevede che l’imputato prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile, non
potrà essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto. by
Gennaro Rotunno
dolo, colpa e preterintenzione (colpevolezza)
condotta colpevole (azione o omissione), evento e nesso causale (tipicità,
materialità)
Dispositivo dell'art. 43 Codice penale
Il delitto: è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o
pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa
dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come
conseguenza della propria azione od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione
deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente;
è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è
voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia,
ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo
per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per
queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
Il dolo nell’ordinamento giuridico-scheda di diritto, Dott.ssa Concas Alessandra
Il dolo nell’ordinamento giuridico indica la volontà cosciente di una persona,
che si estrinseca in una modalità di condotta, caratterizzata dall’arrecare
danno altrui.
In diritto penale il dolo è il metodo normale di imputazione soggettiva per i
delitti.
Lo stabilisce l’articolo 42 del codice penale, secondo il quale nessuno può
essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha
commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo
espressamente previsti dalla legge.
Il dolo è richiesto come condizione per la punibilità nei delitti, e non anche
nelle contravvenzioni, che indifferentemente possono essere compiute con dolo o
con colpa.
Si considera dolo la forma di colpevolezza originaria, fondamentale, più grave e
maggioritaria. Originaria perché è quella sviluppata più anticamente (il
concetto di colpa è di formulazione più tarda), fondamentale perché è quella
considerata la vera forma di volontà colpevole, più grave perché è quella in cui
vi è più stretta correlazione tra la volontà e il fatto materiale tipico e una
maggiore intensità criminosa, maggioritaria perché la maggior parte dei reati è
dolosa.
Nozione codicistica
Il dolo è definito dall’articolo 43 del codice penale, rubricato “elemento
psicologico del reato” che 1 recita:
Il delitto è doloso o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o
pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa
dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come
conseguenza della propria azione od omissione.
è preterintenzionale o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione
deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente
è colposo o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è
voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia,
ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo
per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per
queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
Questa definizione postula due elementi strutturali fondamentali ai fini della
presenza o non presenza del dolo, che è a rappresentazione e la volontà e
rappresenta un compromesso tra le due teorie principali che si contendevano il
campo al tempo dell’emanazione del Codice penale, la teoria della
rappresentazione e la teoria della volontà.
La teoria della rappresentazione concepiva la volontà e la rappresentazione
quali fenomeni psichici distinti: in particolare ritenevano i suoi sostenitori
che la volontà aveva ad oggetto il movimento corporeo dell’uomo, mentre le
modificazioni del mondo esterno provocate dalla condotta si riteneva potessero
costituire solo oggetto di previsione mentale.
La teoria della volontà privilegiava l’elemento volitivo del dolo nel
convincimento che potessero costituire oggetto di volontà anche i risultati
della condotta.
I suoi sostenitori consideravano la previsione o rappresentazione un mero
presupposto della volontà.
Il Codice penale ha raggiunto un compromesso tra le due teorie dando pari
dignità ai due elementi, quello cognitivo della rappresentazione e quello
volitivo della volontà.
Le diverse forme del dolo
Sulla base del diverso atteggiarsi e combinarsi tra loro di questi due elementi,
la dottrina ha enucleato distinte forme di manifestazione del dolo di seguito
descritte.
più approfonditamente, ricorre quando il soggetto mira a realizzare, con la sua
azione od omissione, l’evento tipicizzato nella norma penale (nei reati di
evento) o la condotta criminosa (nei reati di condotta), nello specifico “quel
risultato”. Esso si configura come conseguenza di un evento cagionato quale il
risultato di quello voluto e rappresentato dall’agente.
Ad esempio, un soggetto esplode alcuni colpi di pistola all’indirizzo di un
altro individuo al fine di provocarne la morte.
La realizzazione del fatto illecito è causa della condotta, ne costituisce la
finalità obiettiva. In questa forma di dolo assume un ruolo dominante la
volontà.
ricorre quando l’evento non è l’obiettivo dell’azione od omissione dell’agente,
il quale tuttavia prevede l’evento come presupposto necessario (il caso “di
scuola” è quello di A che intende rapire il politico B, e, per farlo, deve
uccidere gli uomini della scorta: l’uccisione degli uomini della scorta, pur non
essendo l’evento voluto, è un presupposto necessario per l’evento voluto, cioè
il rapimento di B) o come conseguenza certa (in dottrina si fa l’esempio di un
armatore che provochi l’incendio di una delle sue navi al fine di ottenere il
risarcimento dell’assicurazione, pur sapendo che dalla sua condotta discenderà
come conseguenza certa o altamente probabile la morte dell’equipaggio) della sua
condotta, e lo accetta come strumento per perseguire un fine ulteriore.
Nel dolo diretto (di secondo grado) il soggetto conosce gli elementi che
integrano la fattispecie di reato e prevede come sicuro o altamente probabile
che la sua condotta porterà a integrarli. In questa forma di dolo assume un
ruolo dominante la previsione.
Ad esempio, colui che lancia un sasso dal ponte di un’autostrada vuole colpire
una macchina a caso, non importa quale (dolo indiretto). Colui che lancia dal
medesimo ponte un sasso vuole colpire una macchina in particolare, cioè quella e
solo quella (dolo intenzionale).
è una forma di dolo indiretto.
Si ha quando l’agente pone in essere una condotta che sa che vi sono concrete
(rectius: serie) possibilità (o secondo una teoria affine concrete probabilità)
produca un evento integrante un reato eppur tuttavia accetta il rischio di
cagionarli.
È questa accettazione consapevole del rischio che fa differire questa figura
dall’affine figura della colpa cosciente.
L’agente decide di agire accettando il rischio del verificarsi dell’evento.
Nella colpa cosciente, anche detta colpa con previsione dell’evento – ben
distante dal dolo eventuale ma talvolta difficilmente distinguibile dal dolo
eventuale l’agente prevede l’evento, ma esclude (erroneamente) che questo si
possa realizzare, e, se avesse compreso che l’evento in questione sarebbe venuto
in essere, non avrebbe agito.
Un esempio è dato da Tizio che guida l’automobile a velocità estrema e si
rappresenta la possibilità di incidente, ma continua a correre fiducioso nella
sua abilità di guidatore e convinto che questo non si verificherà.
Dolo eventuale. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
In diritto il dolo eventuale è un tipo di manifestazione del dolo in cui
l'agente compie un’azione, che di per sé può essere lecita, prevedendo ed
accettando che le conseguenze della sua condotta possano configurare un illecito
penale.
Ad esempio: Tizio supera un’automobile in condizioni di asfalto scivoloso
(azione imprudente, ma non penalmente rilevante) prevedendo e accettando il
rischio di poter perdere il controllo e provocare un incidente mortale. Se
l’incidente si verifica e qualcuno perde la vita, Tizio sarà accusato di
omicidio doloso, con dolo eventuale.
È proprio la previsione e accettazione del rischio che fa differire questa
figura dall'affine figura della colpa cosciente. L'agente decide di agire "costi
quel che costi".
Secondo una ricostruzione più attenta e rigorosa, il dolo eventuale è integrato
quando il soggetto agente si rappresenta in maniera sufficientemente precisa
l'evento che potrebbe derivare dalla propria condotta e lo accetta
(rappresentazione + accettazione dell'evento). Tale accettazione deve avvenire a
seguito di un giudizio di bilanciamento operato dall’agente nel quale sono posti
a confronto due beni, interessi, obiettivi o eventi e all’esito del quale uno
risulta sacrificabile agli occhi del reo, pur di provare a perseguire l’altro.
L’indagine circa tale operazione deve essere effettuata dall'organo giudicante
attraverso la valorizzazione di tutte le circostanze che caratterizzano il caso
concreto e tramite la valutazione (spesso problematica e ambivalente) di alcuni
dei c.d. “indicatori del dolo”; la mera tenuta della condotta non può essere
considerata, per sé stessa, un indice nel senso dell'avvenuta accettazione
dell'evento.
Sebbene il dibattito sia aperto, la giurisprudenza impiega talvolta la prima
formula di Frank, secondo cui il giudicante per ravvisare il dolo eventuale deve
porsi la seguente domanda: se il soggetto agente avesse saputo in anticipo del
verificarsi dell'evento a seguito della sua azione o omissione, si sarebbe
astenuto dalla condotta delittuosa? In caso di risposta negativa si potrà
configurare il dolo eventuale. Detta formula funziona nel caso in cui per
definire i confini del dolo eventuale si ritenga di assimilare il caso in cui
l'evento non è certo, ma solo possibile, con il caso in cui l'evento è certo,
ferma restando sempre la necessità che il soggetto stia cercando di perseguire
un obiettivo principale e diverso. Resta invece aperto il dibattito se si vuole
ravvisare una differenza tra le due casistiche, ossia se si ritenga meritevole
di attenzione e di indagine la differenza che si verifica a livello psicologico
tra chi, cercando di perseguire l'obiettivo principale, si rappresenta un altro
evento e lo accetta anche se fosse certo, e chi invece eviterebbe la condotta se
l'evento fosse certo. Basti l'esempio di chi è consapevole di essere infetto da
HIV, lo taccia al partner sessuale ed abbia comunque un rapporto non protetto:
in presenza di rappresentazione del contagio e di tenuta, ciò nonostante, della
condotta, sembrerebbe ravvisabile il dolo eventuale (accettazione dell'evento,
seguita dalla condotta), ma di fronte alla formula di Frank l'agente potrebbe
rispondere che, se fosse stato certo di contagiare il partner sessuale, si
sarebbe astenuto dal rapporto non protetto.
L'accettazione dell'evento ulteriore è ciò che differenzia il dolo eventuale
anche dalla preterintenzione ("oltre le intenzioni"). Nella preterintenzione,
l'agente vuole cagionare un danno, ma non così grave come quello che in effetti
si realizza in concreto. Ad esempio, se durante una colluttazione Tizio dà un
pugno a Caio, Tizio vuole senz'altro percuotere Caio, e di questo è pienamente
responsabile. Se però Caio perde l'equilibrio, cade e muore battendo la testa,
la morte di Caio va oltre quella che era la volontà lesiva di Tizio, e anche
oltre le sue previsioni sulle conseguenze della sua condotta. Per cui, non si
tratta di omicidio colposo, perché Tizio voleva provocare un danno a Caio, ma
non è nemmeno omicidio doloso, perché Tizio non voleva la morte di Caio. È
invece omicidio preterintenzionale, perché l'evento che di fatto si è verificato
va oltre le intenzioni di Tizio.
Differenza con la colpa cosciente
Nella colpa cosciente, anche detta colpa con previsione dell'evento, ben
distante dal dolo eventuale, chi agisce prevede sì l'evento, ma esclude
(erroneamente) che questo si possa realizzare. Un esempio è dato da Tizio che
guida a tutta velocità la macchina e si rappresenta la possibilità di incidente,
ma continua a correre fiducioso nella sua abilità di guidatore e convinto che
ciò non si verificherà. Secondo una ricostruzione più rigorosa, la colpa
cosciente è caratterizzata dalla previsione dell'evento, in assenza però di una
successiva accettazione dello stesso: tale definizione appare a ben vedere più
coerente con i caratteri essenziali dell'elemento soggettivo della colpa,
evitando inoltre di introdurre nel medesimo concetto elementi a esso estranei e
consentendo, in un'ottica classificatoria, di coprire tutte le possibili
fattispecie che si possono presentare nel caso concreto.
Il labile confine tra dolo eventuale e colpa cosciente
La ricostruzione storica e giurisprudenziale e la sentenza delle Sezioni Unite
Tyssenkrupp
Di Giancarlo Marino Avvocato.
L’art. 43 c.p. rubricato “elemento psicologico del reato” fornisce la
definizione del dolo, della preterintenzione e della colpa quali elementi
soggettivi del reato. In particolare, si ravvisa il dolo quando l’agente abbia
voluto e preveduto l’evento dannoso o pericoloso quale conseguenza della sua
azione o omissione.
Secondo l’impostazione prevalente oggetto del dolo sarebbe il fatto tipico e ciò
si evince dal combinato disposto degli artt. 43, 47 c.p. poiché l’errore sul
fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell’agente.
Nonostante il Codice penale non fornisca una gradazione dell’elemento soggettivo
doloso, sia la giurisprudenza che la dottrina maggioritaria riconoscono tre
diverse forme di intensità: il dolo intenzionale; il dolo diretto; il dolo
eventuale.
Nel dolo intenzionale l’agente si rappresenta e vuole, quale scopo della sua
condotta, l’evento dannoso o pericoloso indipendentemente dal fatto che questi
si rappresenti come certo, probabile o meramente possibile. Si tratta della più
grave declinazione dell’elemento soggettivo doloso che giustifica una maggiore
serietà della risposta punitiva ex art. 133 c.p.
Viceversa, nel dolo diretto il reo si rappresenta l’evento come certo o
altamente probabile e, tuttavia, non agisce al precipuo fine di cagionarlo.
Nondimeno, proprio perché l’agente è consapevole della certa o dell’altamente
probabile verificazione dell’evento si giustifica la riconduzione della sua
responsabilità alla colpevolezza dolosa.
Ben più controversa è la definizione del dolo eventuale poiché nel corso degli
anni si sono confrontati diversi approcci ermeneutici anche in rapporto al
confine con la colpa con previsione.
Diritto penale e processo, Direttore scientifico: Spangher Giorgio, Ed. IPSOA,
Periodico. Mensile di giurisprudenza, legislazione e dottrina - La Rivista segue
l'evoluzione del diritto penale sostanziale e processuale.
L’evoluzione giurisprudenziale del dolo eventuale e della colpa cosciente: tesi
a confronto
Secondo la tesi tradizionale il dolo eventuale consisterebbe nell’accettazione
del rischio di cagionare un evento che si rappresenta nella mente del reo solo
come possibile; esso si distinguerebbe, allora, dalla colpa cosciente connotata
dal momento della rappresentazione dell’evento e da una sua
“contro-rappresentazione negativa” in ragione della sicura fiducia della non
verificazione dello stesso. Ne consegue che il carattere ragionevole della
previsione è prova della rappresentazione in negativo dell’evento e, pertanto,
l’agente risponderebbe a titolo di colpa cosciente. Viceversa, nel caso in cui
la speranza fosse del tutto irragionevole ovvero assente si riscontrerebbe il
dolo eventuale.
Parte della giurisprudenza ha criticato siffatta impostazione per due ordini di
ragioni.
In primo luogo, viene osservato che definire il dolo eventuale come accettazione
del rischio di un evento rappresentato come possibile non ricondurrebbe tale
declinazione del dolo nella colpevolezza dolosa. Inoltre, si rileva che la colpa
cosciente non possa consistere in una “contro previsione negativa dell’evento”
proprio sulla scorta del tenore letterale dell’art. 61 nr. 3 c.p. che fa
espresso riferimento alla previsione dell’evento e non anche ad una sua
rappresentazione negativa.
Pertanto, a parere di tale giurisprudenza sarebbe necessario accertare il dolo
eventuale con maggior rigore già sul piano della rappresentazione dell’evento
che non deve porsi come semplice dubbio irrisolto ovvero come meramente
possibile, bensì come concreta possibilità di verificazione dall’azione o
omissione dell’agente.
Inoltre, proprio al fine di ricondurre il dolo eventuale nella colpevolezza
dolosa sarebbe necessaria, altresì, una scelta consapevole e ponderata
attraverso l’utilizzo della c.d. formula Frank; occorre quindi domandarsi se
l’agente avrebbe comunque agito nonostante la previsione certa dell’evento. In
caso di risposta affermativa il reo verserebbe nel dolo eventuale.
Altra parte della giurisprudenza ha abbracciato, invece, una visione economica
del dolo eventuale che sottenderebbe un lucido temperamento di interessi
attraverso il bilanciamento dal vantaggio perseguito derivante dall’illecito e
le sue conseguenze negative. Ad avviso di tale orientamento vi sarebbe dolo
eventuale nel caso in cui, oltre la rappresentazione dell’evento, l’agente
l’abbia accettato, sia pure nella sua forma eventuale, quale costo indiretto
ovvero danno da pagare per il raggiungimento del fine da questi perseguito.
L’intervento delle Sezioni Unite
Sulla definizione del dolo eventuale ed il suo confine con la colpa con
previsione si sono espresse più di recente le Sezioni Unite Tyssenkrupp le quali
hanno elaborato il principio di diritto in base al quale si ravvisa dolo
eventuale quanto l’agente si sia rappresentato con significativa probabilità la
verificazione dell’evento e ciò nonostante, dopo aver soppesato il fine
perseguito e il costo da pagare, abbia comunque agito con ciò aderendo ad esso.
Diritto penale, a cura di Cadoppi Alberto, Canestrari Stefano, Manna Adelmo,
Papa Michele, Ed. Utet Giuridica. Trattato in 3 tomi e oltre 8.000 pagine.
Analizza il sistema penale e tutti i tipi di reati e di contravvenzioni previsti
dal codice penale.
Viceversa, nella colpa cosciente la volontà del reo non è diretta verso
l’evento, che pur si rappresenta come concretamente possibile nella mente dello
stesso quale conseguenza della sua azione ovvero omissione, derivante dalla
violazione di regole specifiche di condotta ovvero per negligenza, imprudenza o
per altro biasimevole motivo.
Le Sezioni Unite, quindi, forniscono quindi una definizione più rigorosa del
dolo eventuale al fine di ricondurlo alla colpevolezza dolosa, con ciò
sconfessando la tesi della rappresentazione che non riveniva una qualche
adesione all’evento. In primo luogo, affinché si possa ravvisare il dolo
eventuale è necessario un presupposto negativo ovvero l’insussistenza del dolo
intenzionale e del dolo diretto.
Ciò posto, nel dolo eventuale sarebbe comunque necessaria sia la concreta
rappresentazione dell’evento che un lucido e ponderato processo volitivo volto a
bilanciare l’interesse perseguito e l’eventuale costo da pagare per
raggiungerlo. Ne consegue che nel dolo eventuale l’evento non solo viene
accettato ma vi è anche una concreta adesione psichica che giustifica il più
grave trattamento sanzionatorio, ciò che non avviene nella colpa cosciente.
Del resto, nella colpa con previsione l’agente non soppesa il fine perseguito ed
il prezzo da pagare, bensì questi agisce ovvero omette l’azione doverosa a causa
della sua negligenza, imprudenza ovvero imperizia pur rappresentandosi l’evento
come concretamente probabile.
Ben consapevoli del labile confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, le
Sezioni Unite forniscono una serie di indici dai quali desumere l’elemento
soggettivo dell’agente. Si tratta, a ben vedere, di criteri volti a fornire la
prova nel processo penale dell’elemento psicologico del reo.
Nello specifico, si deve tenere conto: della personalità del reo e delle sue
esperienze pregresse; della condotta concomitante al reato (ad esempio il numero
dei colpi e zone attinte); della condotta successiva al fatto; della lontananza
dalle regole cautelari; dal contesto lecito ovvero illecito; la probabilità di
verificazione dell’evento; delle conseguenze negative per l’agente derivanti
dall’illecito.
Infine, viene previsto, quale criterio per eccellenza, l’utilizzo della prima
formula Frank in base alla quale bisogna domandarsi cosa avrebbe fatto l’agente
nel caso in cui l’evento si fosse da questi rappresentato certo.
Tuttavia, nonostante l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite Tyssenkrupp,
la giurisprudenza più recente aderisce a due diverse impostazioni.
Un primo orientamento sovente fa ricorso alla teoria dell’accettazione del
rischio unitamente alla prima formula Frank, con ciò non ritenendo necessaria
una analitica dimostrazione del dolo eventuale attraverso il ricorso degli altri
indici dal quale desumerlo.
Viceversa, altra parte della giurisprudenza ribadisce i principi di diritto
enunciati dalle Sezioni Unite ritenendo necessaria una concreta e rigorosa prova
del dolo eventuale mediante l’ausilio, dove possibile, di tutti gli indici
indicati.
Infine, giova rammentare il dibattito dottrinale in ordine alla definizione di
dolo eventuale, e della sua prova, sulla scorta di quanto affermato dalle
Sezioni Unite. In particolare, la dottrina evidenzia la criticità del ricorso
alla formula Frank e degli altri criteri per desumere il dolo eventuale poiché
ciò condurrebbe ad una definizione dello stesso a base “normativa” e non anche
quale dato psicologico reale. Comunque, per alcuni autori non è ben chiaro se
gli indici enunciati dalle Sezioni Unite abbiano effettivo valore di puro
accertamento dell’elemento soggettivo ovvero finiscano, in via ineluttabile, per
condizionarne la definizione.
I tipi di dolo by Fiorella Belcore
Quali sono le tipologie di dolo e qual è la differenza con il concetto di colpa?
Secondo quanto previsto dall’art. 43 del c.p.: “Il delitto è doloso, o secondo
l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato
dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto,
è dall’agente previsto e voluto come conseguenza della
propria azione od omissione. Il dolo, pertanto, corrisponde alla concreta
volontà di determinare e di eseguire un’azione criminosa.
Il dolo può essere classificato in dolo intenzionale, dolo diretto e indiretto.
Il dolo intenzionale o di primo grado si verifica quando l’azione dell’agente si
concretizza in una condotta di tipo criminosa. Segue il dolo diretto di secondo
grado che si verifica quando il soggetto conosce gli elementi del reato e
risulta così consapevole che tale condotta porterà ad un’azione criminosa.
Il dolo indiretto o eventuale, invece, prevede che l’agente non agisca con
l’intenzione di commettere un reato, ma con la consapevolezza che ciò potrebbe
accadere.
Il dolo viene denominato generico quando l’agente pone in essere la sua azione
in maniera volontaria e consapevole. E’ altresì, qualificato come specifico
quando si consegue ad uno specifico obiettivo. Tra le altre tipologie di dolo
distinguiamo: il dolo di danno quando l’intenzione dell’agente si sostanzia nel
determinare un danno al bene giuridico tutelato; danno di pericolo per mezzo del
quale si creare la parvenza di un pericolo o minaccia di un bene tutelato dalla
norma penale.
Ancora, dolo d’impeto e dolo di proposito. Nel primo caso, l’azione viene
commessa con impeto senza che trascorri un lasso di tempo tra la decisione e
l’azione. Nel secondo caso, la condotta contraria si realizza dopo un
considerevole tempo.
E’ opportuno sottolineare anche la differenza esistente tra il concetto di dolo
e colpa. E’ colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se previsto,
non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o
imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”
(art. 43 codice penale).
è un’altra forma di dolo indiretto e si ha quando l’agente prevede, come
conseguenza certa (dolo diretto) o possibile (dolo eventuale) della sua condotta
il verificarsi di due eventi, ma non sa quale si realizzerà in concreto.
Ad esempio, Tizio spara a Caio volendo indifferentemente ferirlo o ucciderlo.
Tizio si rappresenta come conseguenza della sua azione più eventi tra loro
incompatibili.
che non rileva nel nostro ordinamento,
si ha quando il soggetto mira a realizzare un evento tramite una prima azione,
ma che realizza solo dopo una seconda azione, animata da una intenzione
differente.
Esiste dolo generale di omicidio nella circostanza in cui si avvelena al fine di
uccidere (ma non si uccide) e si impicca la vittima al fine di simulare un
suicidio, e in quel momento si uccide.
corrisponde alla nozione tipica del dolo e consiste nel realizzare tutti gli
elementi del fatto tipico, sua caratteristica è la corrispondenza tra ideazione
e realizzazione. Ad esempio, nell’omicidio doloso, il soggetto agente vuole ed
ottiene la morte di un altro uomo e non hanno rilevanza (se non per come
aggravanti o attenuanti) le motivazioni che lo hanno spinto a tale atto.
consiste in una finalità che l’agente deve prendere di mira per integrare il
reato e che accompagna tutti gli elementi del fatto tipico ma che non è
necessario si realizzi effettivamente per aversi il reato.
Ad esempio, nel furto la finalità dell’agente è quella di arricchirsi, ma il
reato si consumerà anche se questo fine non verrà raggiunto ma esclusivamente
con l’appropriazione della cosa altrui.
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sufficiente il dolo eventuale
Articolo 82 Codice Penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) by Brocardi
Offesa di persona diversa da quella alla quale l'offesa era diretta
Quando, per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un'altra
causa, è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l'offesa era
diretta (1), il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno
della persona che voleva offendere (2), salve, per quanto riguarda le
circostanze aggravanti e attenuanti, le disposizioni dell'articolo 60 (3).
Qualora, oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla quale l'offesa
era diretta (4)(5), il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più
grave, aumentata fino alla metà.
Note
(1) La norma disciplina il cd aberratio ictus, ovvero le ipotesi in cui l'agente
offende, per errore nei mezzi di esecuzione o per errore dovuto ad altra causa,
persona diversa da quella voluta. La punibilità è qui espressa a titolo di dolo,
che deve essere accertato con riferimento alla persona nei cui confronti
l'offesa era diretta e non a quella cui la stessa è stata cagionata.
Sussistono due tipologie di questa forma di reato aberrante: monolesiva e
bi-plurilesiva. Tale comma si occupa della prima tipologia, in cui, quindi,
l'agente risponde di un unico reato, per la violazione più grave in cui viene
assorbito il reato meno grave. Si pensi al caso in cui un soggetto spara a uno
ma colpisce, uccidendolo, un terzo, che si trova vicino alla vittima designata,
risponderà di omicidio in danno di questi nella cui previsione rimane assorbito
il tentato omicidio.
(2) Ovviamente l'ordinamento reputa irrilevante quale soggetto l'agente volesse
offendere, considerando allo stesso modo i titolari specifici del bene giuridico
di volta in volta tutelato (es.: la vita umana nel delitto di omicidio).
(3) Il rimando all'art. 60 (no circostanze aggravanti, sì quelle attenuanti, il
quale disciplina il regime delle circostanze in caso di errore sulla persona
dell'offeso, si spiega in quanto il reato aberrante si basa su un errore, che,
nello specifico, incide sulla mera esecuzione del fatto costituente reato.
Quindi, se ne ricorrono i presupposti, l'agente ha in questi casi titolo per
vedersi addebitate le circostanze del caso.
(4) Tale comma tratta, invece, la c.d. aberratio ictus bi- o plurilesiva, la
quale si caratterizza in quanto l'agente offende, oltre alla vittima designata,
anche a una o più persone. In merito però si devono distinguere tre ipotesi
differenti:
1) l'offesa viene arrecata alla vittima designata ed a persona diversa;
2) l'offesa viene arrecata alla vittima designata ed a due o più persone
diverse;
3) l'offesa viene arrecata a due o più persone diverse senza la vittima
designata.
Solo la prima ipotesi rientra appieno nella previsione del comma in esame, le
altre due sono indirettamente a questo ricondotte dalla dottrina, anche se si
registrano orientamenti contrastanti. Nello specifico, per quanto attiene al
secondo punto, alcuni autori ritengono che l'agente debba rispondere a titolo
di aberratio per l'offesa alla vittima designata e quella meno grave arrecata
alle ulteriori vittime, a titolo di colpa per gli altri reati secondo le regole
del concorso di reati. Relativamente all'ultima ipotesi, alcuni ritengono che
uno degli eventi, nello specifico il meno grave, andrebbe attribuito a titolo di
dolo, secondo i principi dell'aberratio, mentre l'ulteriore potrebbe essere
addebitato a titolo di colpa secondo le regole del concorso di reati.
(5) Per quanto riguarda il profilo della punibilità, il soggetto qui risponde a
titolo di dolo dell'evento voluto nei confronti della vittima designata e a
titolo di responsabilità oggettiva (art. 43 3) dell'evento ulteriore non voluto
nei confronti delle persone offese per errore.
La dottrina si è poi dibattuta anche in merito alla natura giuridica di tale
fattispecie di reato aberrante. Secondo alcuni si tratterebbe di un reato unico,
in quanto proprio l'ulteriore evento attribuito a titolo di responsabilità
oggettiva non potrebbe integrare un altro autonomo reato e di conseguenza non vi
sarebbe alcuna scindibilità dei fatti riuniti. Secondo altri si configurerebbe,
invece, una pluralità di reati, integranti un'ipotesi di concorso formale di
reati con applicazione di una disciplina sanzionatoria unitaria. Di conseguenza
l'autonomia dei singoli reati rivivrebbe nel momento in cui, ad esempio, solo
per uno di essi sia applicabile l'amnistia o l'indulto.
Ratio Legis
La norma tratta uno dei due casi di aberratio, che non deve essere confusa con
la c.d. aberratio causae (od itineris causarum), non esplicitamente disciplinata
dal codice e frutto di una creazione dottrinale e giurisprudenziale, che si
riferisce ai casi in cui l'evento che l'agente vuole realizzare si produce, ma
attraverso un processo causale svoltosi in modo diverso da quello previsto. Qui
invece il legislatore ha voluto fornire certezza in merito a quelle situazioni
in cui sussiste una divergenza tra il voluto e il realizzato.
Brocardi
“Aberratio ictus”
Aberrazione del colpo inferto
Spiegazione dell'art. 82 Codice Penale
La norma in esame, nonostante sia inserita nel capo relativo al concorso di
reati, rappresenta in realtà un corollario della disciplina dell'errore (art.
[[n47]] e ss.).
Ad ogni modo, l'aberratio ictus dispone che, quando per errore nell'uso dei
mezzi di esecuzione del reato, o per altra causa, è cagionata un'offesa ad una
persona diversa da quella a cui l'offesa era diretta, il colpevole risponde come
se avesse colpito la persona originariamente presa di mira, salvo quanto
previsto dall'art. 60 in tema di circostanze.
Inoltre, qualora sia offesa anche la persona presa originariamente di mira, il
colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave, aumentato sino
alla metà (aberratio plurilesiva).
La differenza fra l'istituto in esame e l'error in persona di cui
all'art. 60 (con il quale comunque condivide il regime delle circostanze
attenuanti ed aggravanti), sta nel fatto che qui l'errore rilevante ricade
nella fase esecutiva, mentre quello dell'art. 60 è un errore che ricade
nella fase intellettiva, in cui si scambia una persona per un'altra.
Nell'aberratio ictus la volontà si forma invece correttamente, ma l'agente
realizza un fatto diverso da quello voluto a causa di un errore di natura
esecutiva.
Il fatto che vi sia comunque stata una volontà criminosa, seguita oltretutto
dall'effettiva commissione di un reato, rende irrilevante l'errore esecutivo, ma
giustamente non verranno poste a carico dell'agente le circostanze aggravanti
che riguardano le condizioni o qualità della persona effettivamente offesa, o i
rapporti tra questa ed il colpevole. Verranno invece valutate a suo favore le
circostanze attenuanti riguardanti le condizioni, le qualità o i rapporti
predetti.
Articolo 83 Codice Penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)
Evento diverso da quello voluto dall'agente
Fuori dei casi preveduti dall'articolo precedente, se, per errore nell'uso dei
mezzi di esecuzione del reato, o per un'altra causa, si cagiona
un evento diverso da quello voluto (1) il colpevole risponde, a titolo di colpa,
dell'evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto
colposo (2).
Se il colpevole ha cagionato altresì l'evento voluto, si applicano le regole
sul concorso dei reati (3).
Note
(1) La norma disciplina la cd aberratio delicti ovvero quella situazione in cui,
nel corso dell'esecuzione di un reato, si realizza un evento diverso da quello
voluto. Poniamo l'esempio di un soggetto che spara verso un altro per ucciderlo,
se lo manca e provoca però un incendio è reato aberrante del tipo suddetto,
perché si agisce per commettere un reato ma ne realizza uno diverso.
2) Per quanto attiene al profilo della punibilità, la norma si riferisce
espressamente alla "colpa", in quanto l'agente dell'evento diverso, non voluto e
nemmeno previsto come probabile, non può risponderne a titolo di dolo. Secondo
l'orientamento prevalente, contrariamente a chi vi riconosce una colpa generica
o addirittura una responsabilità oggettiva, qui si verserebbe in un'ipotesi
di colpa specifica, in quanto l'evento si verifica in conseguenza della
violazione di una norma giuridica. Così argomentando, è possibile individuare
nell'aberratio delicti plurioffensiva un'ipotesi di concorso di reati, tra
quelli voluti e quelli per errore commessi.
(3) Tale comma si riferisce all'ipotesi specifica di aberratio
delicti plurioffensiva, in cui viene consumato, oltre al reato diverso, anche
quello voluto. Riprendendo il caso della nota 1, il soggetto si ferisce la
vittima sia provoca un incendio. Ovviamente, l'agente risponde a titolo di dolo
dell'evento voluto e a titolo di colpa per l'evento o gli eventi non voluti.
Ratio Legis
A tale norma è sottesa la medesima ragione, posta a fondamento dell'articolo
precedente in relazione all'istituto dell'aberratio ictus. Il legislatore ha
voluto, difatti, anche in tale sede, porre certezza in relazione ai casi in cui
viene a realizzarsi una divergenza tra il voluto e il realizzato, che qui però
si coglie sul piano dell'evento, e non della persona offesa.
Brocardi
“Aberratio delicti” Aberrazione del delitto
ConsulenzaSpiegazione dell'art. 83 Codice penale
Diversamente da quanto previsto nell'articolo precedente in tema di aberratio
ictus, qui viene disciplinato il caso di aberratio delicti, ovvero una
divergenza tra il reato voluto e di reato effettivamente realizzato, causato da
un errore nella fase esecutiva.
L'aberratio delicti può essere monolesiva quando si cagiona un evento diverso da
quello voluto; è plurilesiva quando si cagiona altresì l'evento voluto.
Nella fattispecie monolesiva il colpevole risponderà a titolo di colpa per
l'evento non voluto (quando il fatto è previsto dalla legge come delitto
colposo), mentre in quella plurilesiva, si applicano le regole previste per
il concorso di reati (artt. 71 e ss.).
In quest'ultimo caso la dottrina ha precisato che, se l'vento voluto si sia
arrestato alla fase del tentativo (art. 56, mentre l'evento non voluto sia stato
interamente posto in essere, la fattispecie plurilesiva viene comunque a
configurarsi, dato che il termine “evento” va inteso tanto come lesione
materiale quanto come messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma
incriminatrice. Escludere il tentativo dall'ambito applicativo dell'aberratio
delicti plurilesiva comporterebbe infatti un ingiustificato vuoto di tutela,
posto che il soggetto, nonostante abbia commesso atti diretti in modo non
equivoco a commettere l'evento voluto, risponderebbe solamente a titolo di colpa
per l'evento realizzato e non voluto.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
In diritto penale, la locuzione latina aberratio delicti si riferisce a
un'ipotesi d'errore nella fase esecutiva di un reato, che si verifica quando
il reo provoca un evento diverso da quello voluto. Esempio: Tizio lancia un
sasso per infrangere una vetrina, ma sbagliando la mira ferisce Caio che passava
nelle vicinanze; in questo caso non si realizza l'evento voluto
di danneggiamento, ma quello non voluto di lesione personale.
Il Codice penale italiano disciplina l'aberratio delicti all'art. 83 (Evento
diverso da quello voluto dall'agente): “art. 83 c.p. Fuori dei casi preveduti
dall'articolo precedente, se, per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del
reato, o per un'altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il
colpevole risponde, a titolo di colpa, dell'evento non voluto, quando il fatto è
preveduto dalla legge come delitto colposo. Se il colpevole ha cagionato altresì
l'evento voluto, si applicano le regole sul concorso dei reati”. Dalla norma
discende la distinzione tra due forme di aberratio delicti.
L'aberratio delicti monoffensiva o monolesiva, descritta dal primo comma,
consiste nel cagionare solo l'evento non voluto (reato aberrante). Il reo
risponde del fatto commesso «a titolo di colpa», purché il reato sia previsto
dalla legge in forma colposa. Nell'esempio sopra citato, Tizio potrebbe
rispondere di tentato danneggiamento e di lesione colposa. Se invece fosse
avvenuto l'inverso, e cioè se nel tentativo di ferire Caio avesse infranto la
vetrina, potrebbe rispondere solo di tentata lesione, poiché il danneggiamento
colposo non è reato (pur essendo illecito civile).
In dottrina si fa notare come la disposizione dell'art. 83 c.p., dietro la
parvenza di responsabilità per colpa, adombri un'ipotesi di responsabilità
oggettiva (vietata dall'art. 27 Cost.). Se così non fosse, la norma sarebbe
priva di senso, poiché in sua assenza il fatto colposo ‒ anche quando commesso
nel corso di un'attività criminosa ‒ sarebbe egualmente punito secondo le regole
generali. Si deve ritenere allora che la norma punisca come reato colposo un
fatto che, in ipotesi, potrebbe anche essere incolpevole; ciò in applicazione
della massima qui in re illicita versatur, tenetur etiam pro casu.
Un ambito problematico è tuttavia rappresentato dal tentativo rispetto al
delitto voluto e non realizzato: in tale ipotesi, infatti, si ricadrebbe sempre
nell'aberratio delicti bilesiva, poiché l'autore, ad un tempo, verrebbe chiamato
a rispondere, a titolo di colpa, del delitto non voluto, e, a titolo di
tentativo, del delitto voluto ma non realizzato. In proposito, da un lato si
evidenzia che non vi sarebbe alcun motivo giuridicamente apprezzabile per
escludere l'operatività del cumulo dettato dal concorso materiale di reati;
dall'altro si potrebbe addivenire ad un'interpretatio abrogans del primo comma,
poiché la commissione di un delitto in luogo di un altro, per regola, presuppone
il tentativo rispetto al delitto non consumato.
L'aberratio delicti plurioffensiva o plurilesiva, descritta dal secondo comma,
si verifica quando il reo cagiona l'evento non voluto oltre all'evento voluto.
In questo caso egli risponde del fatto voluto a titolo di dolo, e del reato
aberrante a titolo di colpa, applicando le norme sul concorso di reati. Il
“titolo di colpa” menzionato dalla legge si riferisce anche in questo caso alle
sole conseguenze sanzionatorie, e non all'imputazione del fatto, che, come
visto, è a titolo di responsabilità oggettiva.
Ipotesi speciali
La giurisprudenza più recente considera la fattispecie dell'art. 586 c.p. (Morte
o lesioni come conseguenza di altro delitto) un'ipotesi speciale aggravata
di aberratio delicti plurilesiva.
art. 586 c.p. Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale
conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si
applicano le disposizioni dell'articolo 83, ma le pene stabilite negli
articoli 589 e 590 sono aumentate. In questo caso l'evento non voluto è
costituito dalla morte o dalla lesione di una persona. Il reato voluto
dev'essere un delitto doloso e non può ovviamente consistere:
nelle lesioni o nelle percosse, poiché in tal caso si applicherebbe la norma che
incrimina l'omicidio preterintenzionale; in un altro reato rispetto al quale la
morte o le lesioni sono già previste come eventi aggravanti (es.: abuso dei
mezzi di correzione o di disciplina, rissa, epidemia).
Nel concorso di persone in un reato, può verificarsi un caso assimilabile
all'aberratio delicti, disciplinato dall'art. 116 c.p. sotto la rubrica Reato
diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti. La responsabilità penale, in
questo caso, è sancita in capo a un concorrente nel reato per il reato diverso
commesso dai correi e da lui non voluto. È una delle più note ipotesi superstiti
di responsabilità oggettiva del Codice Rocco, e ha richiesto l'intervento
della Corte costituzionale per conciliare la norma con il dettato della
Costituzione. Dottrina e giurisprudenza sono divise nell'ammettere la
configurabilità di un'aberratio delicti concorsuale plurilesiva.
Dott.ssa Concas Alessandra
In diritto civile il dolo è uno dei vizi del consenso, si descrive come un
errore (del quale eredita la teorizzazione generale, ma non necessariamente la
disciplina positiva) qualificato dall’essere indotto in errore da parte di
altri.
Secondo il codice civile il dolo come vizio del consenso ed è causa di
annullamento del contratto Questo tipo di rimedio è fornito se concorrono alcuni
elementi ulteriori alla struttura base del raggiro.
Dal punto di vista strutturale si distingue:
Da un lato il cosiddetto dolo vizio del consenso in senso stretto vale a dire,
quel raggiro che, senza di esso, l’altra parte non avrebbe contrattato.
Genericamente si potrebbe dire che l’oggetto del raggiro e i modi di
realizzazione sono indifferenti, una volta che si accerti che la controparte,
vista e considerata la situazione in concreto, non avrebbe emesso l’atto
volitivo necessario all’accordo.
Questo tipo di dolo apre le porte all’annullamento.
Dall’altro lato il cosiddetto dolo incidente, ovverosia quel raggiro che non ha
determinato il consenso, ma ne ha determinato le condizioni concrete; potendo
cioè, assumersi che la parte vittima avrebbe comunque contrattato, ma avrebbe
preteso condizioni più favorevoli. Resta tutta la difficoltà di distinguere in
concreto quest’ipotesi dalla precedente: ausilio possono fornire le sentenze
della Suprema Corte di Cassazione e le norme sull’interpretazione contrattuale.
Quest’ultimo tipo di dolo apre le porte al risarcimento del danno da parte del
contraente di mala fede, che dovrà essere pari alla differenza tra condizioni
diverse e condizioni attuali (la concreta determinazione resta comunque un
problema nell’interpretazione corrente).
Da un lato il dolo vizio perpetrato dalla controparte, dall’altro lato il dolo
vizio perpetrato da un terzo, in quest’ultimo caso l’annullamento è concesso se
i raggiri erano noti alla controparte della vittima e se questa controparte ne
abbia tratto vantaggio.
Nell’illecito extracontrattuale il dolo è uno dei modi di imputazione soggettiva
della condotta (art. 2043 c.c.).
La colpa nel diritto penale: definizione e classificazioni.
Avv. Luca Salvatore Pennisi
La colpa nel diritto penale: definizione e classificazioni
La colpa è un elemento soggettivo del reato che comporta una responsabilità
penale nei casi espressamente previsti dalla legge.
Secondo l’articolo 43 del Codice penale “Il reato è colposo, o contro
l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si
verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per
l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
In altre parole, la colpa penale sussiste quando un soggetto commette un fatto
delittuoso agendo con volontà, ma senza alcuna consapevolezza delle conseguenze
della sua azione.
Questo avviene in tutti i casi in cui l’azione o l’omissione si verifica a causa
della negligenza, imprudenza o imperizia o dell’inosservanza da parte del
soggetto, di fonti normative come leggi e regolamenti, ordini o discipline.
Principali definizioni di colpa
Anche la colpa si può classificare in diversi modi, come avviene per il dolo,
vediamo insieme quali:
la colpa si definisce specifica quando è conseguenza dell’inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini, discipline o in generale di norme che impongono particolari
cautele.
Si definisce, invece, generica quando è determinata da imprudenza, (ad esempio
guidare ad alta velocità), negligenza (agire con distrazione, ad esempio
dimenticare un colpo in un’arma riposta in un armadio) o imperizia (compiere una
determinata azione senza avere le cognizioni tecniche necessarie, ad esempio per
un neopatentato guidare un’auto di grossa cilindrata).
la colpa si definisce propria nel caso il cui soggetto non era intenzionato a
creare l’evento dannoso che è conseguito alla sua azione/omissione, ovvero nei
casi in cui manca la volontà dell’evento.
La colpa impropria, invece, è un’ipotesi eccezionale, che si verifica quando il
soggetto risponde di reato colposo nonostante l’evento sia stato da lui voluto
(ad esempio per eccesso colposo nelle contravvenzioni, per erronea supposizione
della sussistenza di cause di giustificazione e per errore di fatto).
la colpa cosciente si verifica quando il soggetto ha previsto l’evento illecito
anche se non lo ha voluto. In questo caso il confine tra la colpa e il dolo
eventuale è molto sottile e nella maggior parte dei casi il legislatore nel caso
di colpa cosciente stabilisce pene più severe.
La colpa è invece incosciente, quando il soggetto non ha previsto e voluto
l’evento cagionato con la sua condotta.
Differenza tra colpa e colpevolezza
Infine, è opportuno precisare che la colpa non va confusa con la colpevolezza
che ha degli elementi strutturali che la compongono ossia: Il dolo o la colpa;
L’assenza di attenuanti; La conoscenza delle norme penali violate; La capacità
di intendere e di volere.
La colpa è quindi solo un elemento costitutivo della colpevolezza che partecipa
ad aggravare la colpevolezza per l’illecito compiuto. avvocato Pennisi Luca
Salvatore
Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale.
Responsabilità obiettiva
Dispositivo dell'art. 42 Codice penale
Nessuno può essere punito per un'azione od omissione preveduta dalla legge
come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se
non l'ha commesso con dolo, salvo i casi di
delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge.
La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico
dell'agente, come conseguenza della sua azione od omissione.
Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione
cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa.
Dispositivo dell'art. 43 Codice penale
Il delitto: è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o
pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa
dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come
conseguenza della propria azione od omissione;
è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione
deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente;
è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è
voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia,
ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo
per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per
queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto
giuridico.
By Brocardi Differentemente dai delitti che sono normalmente puniti dal
legislatore per dolo, a patto che la legge non parli espressamente di colpa o
preterintenzione come nelle ipotesi previste dagli articoli art. 589 del
c.p. e art. 584 del c.p., le contravvenzioni sono punite sia se commesse con
dolo che con colpa. Ciò però non esclude che possa essere rilevante stabilire se
la colpevolezza abbia assunto la forma del dolo o della colpa, soprattutto per
quanto riguarda la commisurazione della pena (133) e la dichiarazione di
abitualità nel reato (104). Si ricordi poi che vi sono alcune contravvenzioni
punibili solo a titolo di dolo (es.: 660, molestie e disturbo alle persone) ed
altre punibili solo a titolo di colpa (es.:712, incauto acquisto perché, se
doloso scatterebbe il più grave reato di ricettazione
Delitto tentato
AltalexPedia, Paolo Franceschetti Avvocato e Docente
Risponde di delitto tentato chi compie atti idonei diretti in modo non equivoco
a commettere un delitto, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica.
Premessa: la consumazione del reato
Il delitto è consumato quando la fattispecie prevista dalla legge come reato è
completa in tutti i suoi elementi costitutivi.
Non importa che il reo non abbia realizzato completamente il piano che aveva in
mente; l'importante è che il fatto posto in essere corrisponda in tutto e per
tutto alla fattispecie prevista dal legislatore. Così, ad esempio, se un ladro
entra in una casa per rubare 10 cose e riesce a rubarne solo due non abbiamo un
reato tentato, ma consumato; la fattispecie del furto, infatti, si realizza
quando qualcuno si impossessa di una cosa altrui e rubare due cose è sufficiente
per integrarne gli estremi, anche se il reo non è riuscito completamente nel suo
intento.
Si distingue la fase della consumazione da quella della perfezione.
E’ perfetto il reato in cui sono presenti tutti gli elementi minimi per la
fattispecie di reato (ad esempio viene compiuto il primo atto relativo ad un
sequestro di persona e la vittima viene chiusa nella stanza).
Il reato è consumato quando si è concluso l’ultimo momento dell’atto criminoso,
o, come preferiscono altri, quando il reato perfetto ha raggiunto la sua massima
gravità concreta (ad esempio la vittima sequestrata viene rilasciata).
Il delitto tentato; cenni preliminari
Struttura. Il tentativo compiuto e incompiuto
La figura del delitto tentato è delineata nell’articolo 56 ove è detto che:
Chi compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto,
risponde di delitto tentato se l'azione non si compie o l'evento non si
verifica.
Atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto sono quelli che
esteriorizzano un'intenzione criminosa, senza però che il crimine sia stato
commesso; o perché manca l'evento, nonostante la condotta sia stata realizzata,
oppure perché la condotta è stata realizzata solo in parte.
Si distingue poi un tentativo compiuto da uno incompiuto. La distinzione la si
ricava dal testo dell’articolo 56, ove è detto “quando l’evento non si compie o
l’azione non si verifica”:
il tentativo compiuto si ha quando il reo ha posto in essere tutto l’iter
criminoso, fino alla fine, ma l’evento non si è verificato (ad es. l’omicida
spara un colpo che non colpisce il bersaglio); è incompiuto quando la condotta
criminosa non è stata portata a termine. Il tentativo come reato perfetto e
autonomo
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il delitto tentato, contrapposto al delitto consumato, indica in diritto
penale un delitto che non è giunto alla sua consumazione perché non si è
verificato l'evento voluto dal reo o perché, per ragioni indipendenti dalla
sua volontà, l'azione non è comunque giunta a compimento.
In Italia
Il Codice penale italiano disciplina il tentativo all'art. 56, rubricandolo
come delitto tentato:
«Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto,
risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si
verifica.
Il colpevole di delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a
dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e, negli altri casi con la pena
stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.
Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena
per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso.
Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il
delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.»
È opportuno precisare che il reato nella forma tentata costituisce titolo
autonomo di reato rispetto al reato compiuto: la sua configurabilità si fonda
sulla combinazione tra la fattispecie di reato-base ed il disposto dell'art. 56
c.p.
Criteri di configurabilità
Sono due i criteri di configurabilità del tentativo previsti dal nostro Codice
penale:
l'idoneità degli atti a commettere un delitto;
l'univocità degli atti diretti a commettere un delitto.
L'idoneità va valutata dal giudice con il criterio della "prognosi postuma",
ovvero in concreto ed ex ante. L'espressione "in concreto" indica che non si
deve considerare solo l'astratta adeguatezza dei mezzi preposti al compimento
del delitto, bensì è necessario valutarli nella reale e concreta situazione in
cui si inseriscono, perché un atto può essere astrattamente idoneo a commettere
il delitto, ma può non esserlo nella situazione concreta, e viceversa: per
esempio sparare ad una persona è atto astrattamente idoneo a cagionare la morte,
ma non così se la vittima è posta ad una distanza notevolmente superiore alla
gittata dell'arma utilizzata. Oppure, ancora, somministrare un comune medicinale
non è atto astrattamente idoneo a provocare la morte, ma può esserlo se il
paziente in questione è fortemente allergico ad esso. L'espressione "ex ante"
indica che il giudizio va ricondotto al momento della commissione dell'ultimo
atto che ha caratterizzato la sua condotta: infatti, giudicando "ex post", a
fatto compiuto cioè, qualsiasi tentativo risulterebbe inidoneo, poiché il reato
non è stato realizzato.
Per quanto concerne l'univocità, invece, si deve avere riguardo per l'intenzione
del soggetto sotto il profilo dell'oggettività: non è ad esempio atto diretto in
maniera univoca a commettere un omicidio l'acquisto di una pistola da parte di
un individuo, il quale potrebbe ben usare l'arma al poligono di tiro. Il
concetto di univocità è strettamente legato a quello di dolo, infatti, sarebbe
un controsenso logico parlare di un delitto tentato non doloso, in quanto il
tentativo presuppone necessariamente la volontà di consumare il reato nella sua
dimensione oggettiva.
Il giudice, infatti, nel giudicare i casi concreti, dovrà interpretare le
fattispecie normative adeguandosi alle disposizioni della Costituzione, in
particolare al principio di offensività e al principio di colpevolezza di cui
rispettivamente agli artt. 25 e 27 Cost.
Desistenza volontaria e recesso volontario
Per quanto concerne il terzo comma dell'art. 56 c.p., esso configura due
distinte ipotesi. La desistenza volontaria si ha quando l'agente interrompe
l'azione o l'omissione (tenendo in quest'ultimo caso la condotta doverosa) prima
che il processo causale sia iniziato, mentre il recesso volontario presuppone
che il processo causale sia iniziato, per cui presuppone una vera e propria
"controcondotta". Si comprende pertanto il diverso trattamento sanzionatorio,
atteso che la desistenza non comporta l'applicazione della pena prevista per il
delitto tentato (l'agente sarà punibile solo se gli atti che ha già compiuto
configurano di per sé un reato), mentre il recesso è una circostanza attenuante
del delitto tentato.
Per quanto concerne il requisito della "volontarietà", si registrano in dottrina
diverse opzioni interpretative:
a) la più rigorosa la interpreta come "spontaneità", escludendo la volontarietà
quindi in quei casi in cui la desistenza o il recesso siano frutto di calcolo
utilitaristico o di semplice paura;
b) un orientamento più favorevole al reo ritiene esclusa la volontarietà nel
momento in cui la prosecuzione della condotta sia impossibile materialmente;
c) un orientamento intermedio interpreta la volontarietà come "possibilità di
scelta ragionevole" e la ritiene esclusa non soltanto nel caso in cui la
prosecuzione della condotta sia materialmente impossibile, ma anche quando, pur
essendo materialmente possibile, è sconsigliata da circostanze che inducano una
persona ragionevole a desistere.
Che cosa significa "Concorso di reati"?
By Brocardi.it. Situazione che si realizza quando una persona commette più
infrazioni della legge penale, per cui deve rispondere di più reati. Nel sistema
penale vigente il concorso di reati può assumere l'aspetto di un
concorso materiale, quando un individuo commette una pluralità di reati ponendo
in essere condotte diverse (artt. 71 ss), formale, quando invece la pluralità di
reati è commessa con un'unica condotta (artt. 81, comma 1). Nel primo caso, in
virtù del criterio del cumulo materiale temperato delle pene, si applicano tante
sanzioni quanti sono le infrazioni commesse, mentre nel secondo caso, invece,
per il principio del cumulo giuridico, si commina la pena prevista per il reato
più grave con un aumento fino al triplo, che non potrà mai superare l'ammontare
del cumulo materiale.
Concorso di reati
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il concorso di reati si riferisce all'ipotesi prevista dal diritto penale, in
cui un unico soggetto è al contempo responsabile di più reati. In Italia il
fenomeno è disciplinato dagli articoli 71 e seguenti del Codice penale, nei
quali si distingue tra concorso materiale di reati e concorso formale di reati.]
Concorso materiale
Il concorso materiale si ha nell'ipotesi che uno stesso soggetto con più azioni
od omissioni (ovvero "condotte") commette una pluralità di reati (ad esempio
quando Tizio con diversi colpi di pistola uccide più persone). Il concorso
materiale si definisce "omogeneo" quando il soggetto commette più violazioni di
una stessa norma penale; si definisce "eterogeneo" quando si violano norme
diverse con molteplici condotte (ad esempio Tizio che compie una rapina in un
ufficio postale e ruba un’auto successivamente per assicurarsi la fuga).
Il Codice penale punisce duramente il concorso materiale dei reati, adottando il
cumulo delle pene, rispondente al principio tot crimina tot poenae secondo cui
il reo risponderà della somma delle pene previste per i singoli reati; tale
asprezza di trattamento è però temperata dalla previsione di alcuni limiti, la
pena non può superare i 30 anni se si tratta di reclusione, i 5 anni se si
tratta di arresto e comunque il quintuplo della pena più grave.
Concorso formale
Si ha concorso formale (o ideale) di reati quando un medesimo soggetto con una
sola condotta commette più reati (ad esempio quando Caio ingiuria una platea).
Si ha concorso formale eterogeneo quando si commettono fattispecie di reati
diversi (per esempio: il padre che stupra la figlia commette con una sola
condotta i reati di stupro e incesto). Si parla di concorso formale omogeneo
quando la condotta si riconduce allo stesso reato, commesso più volte (per
esempio: l'esplosione di un ordigno che cause la morte di più persone). Il
trattamento sanzionatorio del concorso formale è meno rigoroso di quello
previsto per il concorso materiale. Nel primo caso, infatti, si applica
il cumulo giuridico secondo cui va applicata la pena prevista per il reato più
grave, aumentata fino al triplo, nel secondo il "cumulo materiale temperato",
con la previsione appunto di una "attenuazione" di pena. Tale trattamento più
mitigato è stato introdotto nel 1974 con la legge 7 giugno 1974 n.220, che ha
sostituito il cumulo materiale previsto in origine dal Codice Rocco sia per il
concorso formale sia per il concorso materiale.
La stessa riforma ha esteso l'applicazione del cumulo giuridico anche al reato
continuato.
Concorso apparente
Si ha concorso apparente quando la molteplicità di reati è solo apparente, in
quanto la violazione della norma penale è sostanzialmente unica.
Ad esempio: Tizio vuole uccidere Caio a coltellate, non risponderà sia di
lesioni che di omicidio, ma soltanto per omicidio; questo perché secondo
l'esposto dell'art 84 (reato complesso) le disposizioni riguardanti il concorso
formale e materiale non si applicano quando la legge considera come elementi
costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che di per sé
costituirebbero, per sé stessi, reato.
Approfondimento teorico
Il fenomeno del concorso di reati è ricco di risvolti teorici particolarmente
complessi, essendo com'è al centro di uno dei dibattiti più lunghi e controversi
della scienza penale contemporanea.
Tale dibattito prende le mosse dalla seguente domanda: quando l'azione è unica e
quando è possibile parlare di pluralità di azioni?
Secondo Francesco Antolisei, l'azione (es., l'uccidere con un pugnale) è
costituita da singoli atti (le singole pugnalate): in base a questa distinzione,
è possibile affermare che l'azione ha carattere unitario quando si sia in
presenza di un legame finalistico fra gli atti e tali atti siano altresì
caratterizzati dalla cosiddetta contestualità (cioè, si susseguano nel tempo
senza apprezzabile interruzione). Inoltre, secondo l'illustre giurista, parlare
di unità di azione non deve far trascurare l'aspetto che si è comunque in
presenza di più fatti tipici o eventi (ad esempio, chi uccide incendiando la
macchina nella quale si trova la vittima). Il concorso ideale (o formale) di
reati prevederebbe allora una pluralità di fatti o eventi, i quali hanno in
comune (in modo totale o parziale) l'azione, o l'omissione, cioè il processo
esecutivo.
Secondo Fiandaca e Musco, ad unità di azione, però, non sempre corrisponde unità
di reati, ad esempio:
chi rubi un'arma al fine di costringere, per suo mezzo, la vittima ad avere un
rapporto sessuale, compirebbe senz'altro due diversi reati, ossia il furto e
la violenza sessuale. Inoltre, laddove la fattispecie incriminatrice tuteli
beni altamente personali (quali, ad esempio, la vita o l'integrità fisica), si
verifica sempre una pluralità di reati: se, con la medesima azione, si ledano
soggetti passivi diversi (per esempio, una bomba che esplode uccidendo più
passanti).
Diversamente, laddove la fattispecie tuteli beni giuridici diversi da quelli
altamente personali, una medesima azione non sempre integra una pluralità di
reati (ad esempio, il furto di un oggetto che appartiene a più proprietari). Per
stabilire se ci trovi in presenza di un concorso formale omogeneo, e non di un
unico reato, il criterio fondamentale accolto dalla giurisprudenza, è quello
della molteplicità delle offese al bene giuridico tutelato dalla norma
incriminatrice. Ad esempio: Se lanciando una granata si uccidono o si feriscono
più persone, si producono più offese ai beni della vita o della integrità
fisica, con conseguente concorso di reati di omicidio
Concorso materiale e concorso formale di reati
By Francesco Maria Romanelli. Il concorso di reati: concorso materiale e
concorso formale di reati. Il reato continuato (cd. continuazione tra reati)
Definizione di concorso formale e concorso materiale di reati
Il concorso di reati si verifica quando un medesimo soggetto commette più reati.
Il nostro Codice penale distingue due tipi di concorso di reati, prevedendo un
diverso trattamento sanzionatorio.
Si ha concorso materiale di reati quando uno stesso soggetto commette più
reati mediante più azioni od omissioni.
Si ha concorso formale di reati, invece, quando uno stesso soggetto commette più
reati con una sola azione od omissione.
Il concorso materiale è omogeneo se l'agente viola più volte la stessa norma di
legge (es. Tizio uccide più persone) mentre è eterogeneo se le norme violate
sono diverse, prevedendo reati diversi (es. Tizio ruba una bici, poi commette
una rapina e successivamente uccide una persona).
Anche il concorso formale è omogeneo se l'agente viola, con una sola azione od
omissione, più volte la stessa norma di legge (es. Tizio, con un solo colpo di
fucile, uccide Caio ed il proiettile trapassa il corpo dell'uomo uccidendo anche
Sempronio) mentre è eterogeneo se la pluralità di violazioni commesse dalla
stessa persona concerne diverse norme di legge (es. Tizio incendia la propria
casa per conseguire il prezzo di un'assicurazione precedentemente stipulata).
Al concorso materiale di reati (omogeneo o eterogeneo) si applica il
principio tot crimina, tot pena, cioè il cumulo materiale, per cui al colpevole
sono irrogate le pene previste per ciascun reato, cumulandosi tra loro.
Tale cumulo, tuttavia, è moderato da alcuni limiti previsti dagli artt. 72-79
c.p., dando vita al cumulo materiale temperato.
Per il concorso formale è, viceversa, previsto il cumulo giuridico disciplinato
dall'art. 81 co. 1 c.p., che stabilisce che l'autore di più reati in concorso
formale è "punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più
grave, aumentata sino al triplo".
Il reato continuato (cd. continuazione di reati)
La definizione di "reato continuato" (rectius continuazione di reati,
trattandosi di più delitti) è presente nell'art. 81 cpv c.p., secondo cui "alla
stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo
disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o
di diverse disposizioni di legge".
Ebbene, come si può desumere, il reato continuato è una particolare
manifestazione del concorso materiale di reati, la cui differenza si rinviene
nel "medesimo disegno criminoso".
Il medesimo disegno criminoso consiste in uno scopo unitario in cui si collocano
le singole azioni od omissioni nonché la pluralità di reati commessi.
L'identità del disegno criminoso costituirebbe sintomo di "minor proclività a
delinquere" e giustificherebbe un trattamento sanzionatorio più mite: in deroga
al cumulo materiale temperato, che si applica al concorso materiale, sarà
applicato il cumulo giuridico. Ed infatti la dicitura "alla stessa pena
soggiace" si riferisce alla pena che "dovrebbe infliggersi per il reato più
grave aumentata sino al triplo" (art. 81 co. 1 c.p. in tema di concorso
formale).
Elementi costitutivi della continuazione di reati sono:
a) pluralità di azioni od omissioni, che possono essere commesse "anche in tempi
diversi", potendo intercorrere anche un notevole lasso di tempo. Tuttavia,
l'eccessiva distanza cronologica tra i diversi episodi può essere ostativa a
provare l'identità del disegno criminoso;
b) pluralità di violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge, per
cui potrà configurarsi il reato continuato omogeneo o eterogeneo;
c) medesimo disegno criminoso, ossia l'effettiva peculiarità del reato
continuato, che serve a differenziarlo dal mero concorso materiale di reati.
Esso consiste nell'identità del disegno criminoso, la quale richiede, oltre
all'elemento intellettivo consistente nella rappresentazione anticipata del
programma criminoso, anche l'unicità dello scopo.
Il reato continuato, quindi, consta di più condotte criminose poste in essere in
attuazione di un programma criminoso tendente a realizzare un obiettivo
unitario.
La Suprema Corte di Cassazione ha fornito, nel tempo, i vari indici rivelatori
dell'identità del disegno criminoso, quali: la distanza cronologica tra i fatti,
la modalità della condotta, la tipologia dei reati, il bene giuridico tutelato,
le condizioni di tempo e luogo. Non necessariamente devono essere presenti tutti
i predetti indici, essendo sufficiente la constatazione anche soltanto di alcuni
di tali elementi purché significativi.
Ambito di applicazione della continuazione
L'unicità del disegno criminoso richiede che i singoli reati siano
caratterizzati dalla piena volontà: ciò non sussiste nei reati colposi in cui
l'evento non è voluto dall'agente.
Pertanto, la continuazione non è ammissibile tra reati dolosi e reati colposi od
anche tra reati colposi.
E' ammissibile tra delitti e contravvenzioni e tra contravvenzioni qualora si
accerti che l'elemento psicologico delle predette sia costituito dal dolo.
E' ammissibile anche per reati commessi dopo il passaggio in giudicato della
condanna, essendo previsto l'incidente di esecuzione ai sensi dell'art. 671
c.p.p. al fine di applicare la continuazione tra reati già giudicati
con sentenza irrevocabile, nonché per i recidivi reiterati, col limite previsto
ai sensi del comma 4 dell'art. 81 c.p. secondo cui l'aumento per la
continuazione non può essere inferiore ad 1/3.
E', inoltre, ammissibile tra reato associativo e singoli reati commessi in
attuazione del programma criminoso ma il Giudice dovrà accertare, caso per caso,
se nel programma criminoso siano stati inseriti più reati fine già individuati
nei loro tratti essenziali.
L'istituto della continuazione tra reati, infine, è compatibile con l'aggravante
del nesso teleologico di cui all'art. 61 n. 2 c.p. poiché, mentre la
continuazione consiste nel ricondurre più reati ad un programma criminoso
comune, il nesso teleologico è caratterizzato dalla strumentalità di un reato
rispetto ad un altro. Pertanto, se da un lato il nesso teleologico è sintomo di
identità di disegno criminoso, dall'altro non necessariamente la continuazione
implica il nesso teleologico.
Regime sanzionatorio
La continuazione prevede il cumulo giuridico, per cui il soggetto è punito con
la pena che il Giudice intenderà infliggere per il reato più grave aumentata
sino al triplo.
Per i recidivi reiterati, invece, l'aumento per il reato più grave non può
essere inferiore ad 1/3 (oscillerà, quindi, da un minimo non inferiore ad 1/3 ad
un massimo non superiore al triplo).
Se la continuazione è applicata in sede di cognizione, si ha riguardo alla pena
più grave considerata in astratto mediante comparazione delle forbici edittali
previste per le singole fattispecie di reato. In caso di parità di massimi
edittali sono confrontati i rispettivi minimi ed i delitti sono da considerarsi
più gravi delle contravvenzioni.
In sede di esecuzione si tiene conto della pena in concreto inflitta dai diversi
Giudici.
Quanto al rapporto con le circostanze del reato, mantenendo i reati commessi la
loro autonomia, le forme di manifestazione del reato-base e quelle che
concernono i reati satellite si riferiscono soltanto all'uno ed agli altri.
Le circostanze, quindi, servono innanzitutto per individuare il reato più grave
perché il Giudice deve considerare non solo la pena edittale ma anche le
variazioni di tale pena causate dalla presenza di circostanze.
L'aumento per la continuazione opera sulla pena inflitta per il reato
circostanziato qualora la circostanza si riferisca alla violazione più grave.
Qualora, invece, la circostanza si riferisce al reato satellite influisce sul
potere discrezionale del Giudice di quantificare l'aumento.
Infine, l'aumento per la continuazione non soggiace al giudizio di comparazione
previsto dall'art. 69 c.p. tra le circostanze.
Natura giuridica
E' controverso se la continuazione debba considerarsi un unico reato oppure se
le singole violazioni di legge conservino la loro autonomia.
La dottrina dominante sostiene che essa sia da considerare come reato unico
oppure come pluralità di reati in base agli effetti che derivano per l'imputato.
Il reato continuato è considerato unico reato:
a) per l'applicazione ed esecuzione della pena;
b) per la sospensione condizionale della pena;
c) per l'oblazione;
d) per il dies a quo della prescrizione.
E' considerato, invece, come distinti reati:
a) in relazione al tempo necessario a prescrivere il reato;
b) per applicare le misure di sicurezza;
c) per applicare le circostanze.
Articolo 71 Codice Penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)
Condanna per più reati con unica sentenza o decreto
Quando, con una sola sentenza o con un solo decreto, si deve
pronunciare condanna per più reati (1) contro la stessa persona (2), si
applicano le disposizioni degli articoli seguenti.
Note
(1) La norma fornisce la definizione di concorso di reati, specificando le due
ipotesi. Quando, infatti, un soggetto commette più reati violando più volte la
stessa disposizione di legge, si parla di concorso omogeneo, mentre, invece, si
verifica un concorso eterogeneo, quando sono violate diverse disposizioni di
legge.
(2) L'ipotesi in esame si riferisce al caso in cui una persona viene condannata
con un'unica sentenza o decreto per più fatti costituenti reato e non deve
essere confusa con il concorso di pene inflitte con sentenze o decreti diversi,
di cui all'articolo 80, che si riferisce alla situazione in cui un soggetto, già
condannato, o deve subire un'altra condanna con un successivo provvedimento o
devono essere eseguiti a suo carico più provvedimenti di condanna.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il cumulo giuridico è quell'istituto, alternativo al cumulo materiale, che
limita la misura della pena da irrogare:
in caso di concorso formale di reati, ossia quando l'agente viola diverse
disposizioni di legge, o commette più violazioni della stessa disposizione di
legge, con una sola azione od omissione;
in caso di reato continuato, ossia quando l'agente commette, anche in tempi
diversi, più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge, con più
azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso (se viene meno il
vincolo della continuazione, per contro, torna ad applicarsi il regime generale
del cumulo materiale).
Commisurazione della pena
Il Codice penale prevede che sia inflitta la pena prevista per il reato più
grave aumentata sino al triplo (art. 81 del codice penale). Inoltre, è previsto
che la pena irrogata tramite il cumulo giuridico non possa essere maggiore di
quella che sarebbe stata applicata dal giudice utilizzando il metodo del cumulo
materiale, che è invece applicato nei casi di concorso materiale di reati. Il
reato più grave è da intendersi come quello per il quale è prevista la pena più
grave in astratto, esimendo la valutazione circostanziata in concreto. Opposto
invece è l'orientamento dottrinale, secondo cui va operato il cosiddetto
"accertamento in concreto": la violazione più grave diverrebbe quindi quella a
cui il giudice infligge la sanzione più elevata nel caso concreto.
Lgs. n.
472/97, rubricato “Concorso di violazioni e continuazione“. Con il termine
cumulo giuridico si fa riferimento al trattamento sanzionatorio previsto in caso
di concorso formale di violazioni e delle violazioni continuate.
CUMULO GIURIDICO Art. 8 /L. 689/81 - Salvo che sia diversamente stabilito dalla
legge, chi con un'azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono
sanzioni amministrative o commette più violazioni della stessa disposizione,
soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave aumentata fino al
triplo. Alla stessa sanzione prevista dal precedente comma soggiace anche chi
con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno posto in essere in
violazione di norme che stabiliscono sanzioni amministrative, commette anche in
tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse norme di legge .... in
materia di previdenza ed assistenza obbligatorie.
Art. 8 bis - Reiterazione delle violazioni - Omissis - Le violazioni
amministrative successive alla prima non sono valutate ai fini della
reiterazione (che ha gli effetti stabiliti dalla legge) quando sono commesse in
tempi ravvicinati e riconducibili ad una programmazione unitaria.
Art. 198 cds Salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con una
azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni
amministrative pecuniarie, o commette più violazioni della stessa disposizione,
soggiace alla pena prevista per la violazione più grave aumentata fino al
triplo. In deroga a quanto disposto nel comma 1, nell'ambito delle aree pedonali
urbane e nelle zone a traffico limitato, il trasgressore ai divieti di accesso e
agli altri singoli obblighi e divieti (es. sosta) o limitazioni soggiace alle
sanzioni previste per ogni singola violazione (Cumulo materiale).
Articolo 81 Codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)
Concorso formale. Reato continuato
È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave
(1) aumentata sino al triplo (2) chi con una sola azione od omissione viola
diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima
disposizione di legge (3).
Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni (4), esecutive di un
medesimo disegno criminoso (5), commette anche in tempi diversi (6) più
violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge (7).
Nei casi preveduti da quest'articolo, la pena non può essere superiore a quella
che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti (8).
Fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale
o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia
stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma, l'aumento
della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena
stabilita per il reato più grave.
Note
(1) L'espressione "reato più grave" è stata a lungo dibattuta. In precedenza, la
dottrina riteneva che si dovesse aver riguardo delle pene che in concreto il
giudice riteneva di dover irrogare per ciascuno dei reati concorrenti, tenendo
conto sia della pena edittale, che delle circostanze aggravanti od attenuanti.
Ora, invece, è prevalente l'orientamento, sostenuto anche dalla giurisprudenza
della Corte di Cassazione, occorre considerare il titolo dei reati concorrenti e
la previsione astratta delle pene edittali previste, se poi tali pene sono
identiche nel minimo e nel massimo, allora rilevano anche altri criteri come
quelli di cui all'art. art. 133 del c.p.
(2) La dottrina si è poi interessata anche al tema dell'aumento della pena. Un
orientamento risalente non riteneva applicabile l'articolo in esame nel caso di
concorso tra delitti e contravvenzioni, dal momento che le pene, essendo diverse
tra loro, non permettevano l'aumento di pena fino al triplo, oltre a violare il
principio di legalità. Si pensi all'ipotesi in cui concorrevano un delitto per
cui era prevista la reclusione ed una contravvenzione per la quale era
irrogabile l'ammenda. Ora, successivamente all'intervento delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione, è possibile applicare la norma in esame anche qualora
concorrano reati sanzionati con pene di genere e specie diverse, in quanto si
applica la pena prevista per la violazione più grave, aumentata fino al triplo,
restando in tale aumento assorbite e sostituite le pene, anche di specie
diverse, originariamente previste per i reati meno gravi. Se si riprende il caso
di cui sopra, quindi, si aumenterà la reclusione ed in tale aumento verrà
assorbita la pena dell'ammenda prevista per la contravvenzione). Non si viene
così a violare il principio di legalità, il quale, infatti, si riferisce non
solo alla pena comminata dalle singole fattispecie legali, ma anche a quella che
risulta dalle disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, tra cui
rientra l'articolo in esame.
(3) Il primo comma quindi si riferisce al cd concorso formale, ovvero al caso in
cui la pluralità di reati è conseguenza di un'unica azione od omissione, posta
in essere dal reo in unico contesto spazio-temporale o con un unico episodio
comportamentale. Affinché, quindi, tale concorso si realizzi sono necessari tre
requisiti essenziali. In primo luogo, deve trattarsi di reati commessi dalla
stessa persona, i quali poi devono essere commessi con una sola azione od
omissione ed infine con tale condotta unica devono essere violate diverse
disposizioni di legge o più violazioni della stessa disposizione. Il concetto di
condotta unica rimane uno dei più dibattuti in dottrina. Secondo alcuni bisogna
avere riguardo al profilo naturalistico, ovvero alla contiguità spazio-temporale
degli atti, facendo così rilevare anche processi esecutivi distinti ed autonomi.
Tuttavia, la dottrina dominante predilige un'interpretazione più restrittiva
basata sulla considerazione dello schema astratto della fattispecie, quindi solo
sul piano oggettivo, senza rifarsi ad elementi soggettivi di collegamento.
(4) Il secondo comma configura l'istituto della continuazione di reati o reato
continuato. Si tratta di un'ipotesi speciale di concorso che si verifica quando
con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, si
commettono, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa o diversa
disposizione di legge. È stato però dal legislatore inserito nell'articolo
dedicato al concorso formale dal quale di differenzia sotto l'aspetto
dell'elemento unificante che nel concorso formale è l'unicità della azione od
omissione, mentre nel reato continuato è l'unicità del disegno criminoso
all'interno del quale si pongono le varie azioni. Quindi il reato continuato è
configurabile, ad esempio, nel caso in cui un soggetto ruba un'auto al fine di
commettere un omicidio, che effettivamente compie, per poi concludere il disegno
criminoso occultando il cadavere.
(5) Il disegno criminoso, quale elemento caratteristico del reato continuato,
deve essere unico e tale unicità si realizza quando le singole azioni delittuose
fanno parte di un unico progetto, che deve essere quindi pensato, deliberato
nelle linee essenziali e atto a conseguire un determinato fine. Quando questo
progetto viene meno per circostanze non previste, viene meno la continuazione
tra i reati.
(6) La norma non richiede la realizzazione contestuale dei reati, che possono,
quindi, essere commessi anche in tempi diversi, in quanto non è la connessione
cronologica tra i reati, ma l'identità del disegno criminoso ad essere il
fondamento della continuazione. Tuttavia, una parte della giurisprudenza,
ritiene che l'unicità può venir meno qualora intervenga un notevole lasso di
tempo tra le diverse azioni criminose. Si ricordi poi che si configura
un'ipotesi di reato continuato anche quando il nuovo fatto da giudicare sia
commesso dopo una condanna per altro reato, se ne ricorrono i presupposti. Per
chiarire si pensi al caso di un padre che uccide i violentatori della figlia e,
dopo aver aver scontato la pena, commette il secondo omicidio originariamente
programmato.
(7) L'istituto del reato continuato può riguardare reati dello stesso tipo
oppure diversi (es.: furto, rapina, omicidio, porto illegale d'armi), di uguale
o di diversa natura (delitti e contravvenzioni possono integrare a
continuazione, solo se la contravvenzione è stata commessa).
(8) Per quanto attiene al calcolo delle pene, così come per il concorso formale,
è adottato il metodo del cumulo giuridico, senza mai superare i limiti che
operano per il concorso materiale e seguendo sempre i parametri di cui
all'art. art. 133 del c.p.. L'aumento delle pene, quindi, può essere effettuato
senza indicare le frazioni di pena dei singoli reati satellite, in quanto
calcolato in misura globale.
CUMULO GIURIDICO
Ratio Legis
La norma disciplina il concorso formale di reati, ovvero la pluralità delle
violazioni penali, cagionate con un'unica azione, applicandovi un particolare
sistema sanzionatorio, più favorevole al reo in quanto evita le asprezze tipiche
del cumulo materiale.
Per quanto riguarda il reato continuato, a fondamento di questa scelta del
legislatore vi è il riconoscimento di una minore pericolosità sociale in capo a
colui che commette più reati in esecuzione di un medesimo disegno criminoso,
rispetto a chi commette più reati autonomi, essendosi egli ribellato solo una
volta agli imperativi della normativa penale.
Brocardi
“Poena maior absorbet minorem”
La pena maggiore assorbe quella minore
Spiegazione dell'art. 81 Codice penale
Il concorso formale di reati si configura quando lo stesso soggetto commette,
con una sola azione od omissione, più reati.
Il concorso formale può essere:
omogeneo, quando l'agente viola più volte contestualmente la medesima norma
penale;
eterogeneo, quando l'agente viola contemporaneamente diverse norme
incriminatrici.
Per quanto riguarda i criteri discretivi tra unità e pluralità di azione, la
teoria normativa (ad oggi prevalente) considera come unica azione, quella tipica
rilevante, e quindi vi sarà concorso formale quando venga messo in atto un unico
progetto esecutivo interamente riconducibile allo schema astratto di una
pluralità di fattispecie.
Ci si troverà innanzi ad un'unica azione quando si realizzino tutti i
presupposti minimi che integrano la fattispecie incriminatrice, anche se la
condotta tipica, dal punto di vista naturalistico, si realizza con il compimento
di più atti (si pensi all'azione di percosse, che dal punto di vista giuridico è
un'azione unica anche se attuata con più pugni).
Per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, la norma in esame prevede il
ricorso al criterio del cumulo giuridico, tramite il quale si applica all'autore
la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al
triplo.
Per contro, i singoli reati vanno considerati distintamente ad ogni altro
effetto giuridico, come in tema di prescrizione, amnistia, indulto ed in genere
per tutte le cause di estinzione del reato o della pena.
Per quanto riguarda l'importante figura del reato continuato, per il quale il
codice prevede la stessa disciplina del concorso formale nel caso in cui un
soggetto, con più azioni od omissioni esecutivo di un medesimo disegno
criminoso, commetta anche in tempi diversi, più violazioni della stessa norma o
violi più norme incriminatrici, esso rappresenta un istituto ispirato al favor
rei.
Il più favorevole trattamento sanzionatorio (rispetto al cumulo materiale di
pene) trova il suo fondamento nella minore riprovevolezza di chi commetta sì una
serie di reati, ma in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, ribellandosi
in tal modo solo una volta agli imperativi della legge penale.
Nel concorso formale di reati vi è un'unica azione od omissione rilevante,
mentre nel reato continuato vi è una pluralità di azioni od omissioni, legate
dalla medesimezza del disegno criminoso.
Per quanto riguarda l'intervallo di tempo tra un'azione ed un'altra, esso può
anche consistere in un notevole lasso temporale, purché vi si possa ravvisare
l'unicità del disegno. Quest'ultimo, secondo la prevalente concezione
teleologica, consiste in una iniziale programmazione di compiere una pluralità
di reati, dall'inizio preordinati alla realizzazione di un unico fine. Non è
comunque richiesta la preventiva programmazione dettagliata delle modalità
tramite cui si realizzeranno le singole azioni delittuose, essendo sufficiente
che esse siano compreso nell'originario disegno criminoso.
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno più volte confermato l'applicabilità
dell'istituto della continuazione anche tra reati puniti con pene di specie
diversa (v. art. 17), anche per la semplicità con cui normalmente si può
individuare la violazione più grave tra delitti e contravvenzioni.
Il terzo comma specifica che in ogni caso la pena irrogata non può superare i
limiti di cui all'art. 78.
Per quanto riguarda i condannati cui sia stata riconosciuta
la recidiva reiterata ex art. 99 comma 4, l'aumento di pena non può comunque
essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.
SPIEGAZIONE ESTESA
A livello generale, la ratio della disposizione di cui all’art. 81 risiede
nell’esigenza di mitigare l’effetto del cumulo materiale delle pene,
sostituendolo col cumulo giuridico, per l’ipotesi in cui si realizzi un concorso
formale di reati e nel caso di reato continuato, in virtù del minor disvalore
recato dal compimento di fatti realizzati attraverso un'unica azione od
omissione o sorretti da un unico progetto criminoso. In tali casi, il reo si
pone in contrasto con l’ordinamento giuridico una sola volta, pur realizzando
diverse ipotesi criminose.
Si ha concorso formale di reati nel momento in cui, con una sola azione od
omissione, si viola più volte la medesima disposizione di legge
(concorso omogeneo) o diverse norme incriminatrici (concorso eterogeneo).
La dottrina distingue, sulla base del bene giuridico tutelato, quando ci si
trovi, o meno, al cospetto di più violazioni di una stessa disposizione
incriminatrice.
A tal riguardo, allorquando si tratti della lesione o della messa in pericolo di
beni giuridici diversi da quelli strettamente personali, l’unicità dell’azione
potrà essere ritenuta sussistente anche in presenza di più soggetti passivi (si
pensi al caso del furto commesso verso più persone); viceversa, quando ad essere
scalfito sia un bene giuridico personale, come quello della vita o
dell’integrità fisica, la causazione del danno verso una pluralità di soggetti
passivi sarà idonea a configurare una pluralità di reati e, quindi, un concorso
formale ex art. 81 c.p.
Per quanto attiene all’elemento soggettivo, è necessario osservare come siano
ritenuti necessari, secondo la dottrina e la giurisprudenza, più processi di
ideazione e volizione dei singoli reati. Ogni singolo reato posto in essere, con
la medesima azione od omissione, deve essere il frutto di una autonoma
determinazione criminosa in capo all’agente, configurandosi altrimenti un unico
reato, estraneo in quanto tale alla logica applicativa dell’art. 81 c.p.
Per quanto riguarda in particolare la nozione di “medesimo disegno criminoso”,
rilevante al fine della configurazione del reato continuato, molto si è discusso
in dottrina e in giurisprudenza, al fine di offrire all’interprete una
definizione sufficientemente chiara e univoca.
Ciò che sembra emergere dalle sentenze che hanno statuito sul punto è che per
medesimo disegno criminoso si intenda una determinazione volitiva unitaria del
reo, il quale si sia configurato l’intero iter criminoso, quantomeno nelle sue
“linee essenziali”. È pacifico, infatti, che non sia richiesta una progettazione
specifica e dettagliata delle modalità di svolgimento di ogni singolo reato,
bastando che l’autore si fosse prefigurato fin dal principio, in modo
da escludere l’occasionalità dei reati posti in essere nel medesimo contesto, il
programma criminoso. Basta che un singolo episodio criminoso si realizzi in modo
occasionale, per precludere la sussistenza della figura del reato continuato.
Tale rappresentazione unitaria non coincide, e anzi si distingue, dal programma
di vita delinquenziale posto in essere dal reo, con il quale lo stesso abbia
deciso di commettere una serie indeterminata di reati, facendo di tale modalità
uno stile di vita, senza tuttavia aver chiaro in anticipo quali saranno i
delitti che verranno commessi.
Ai fini dell’individuazione del medesimo disegno criminoso, essendo impossibile
o comunque particolarmente arduo indagare nelle più profonde intenzioni
dell’autore, di stampo eminentemente soggettivo, si fa ricorso in giurisprudenza
ad una serie di indici presuntivi, in presenza dei quali è dato al giudice di
affermare la presenza della continuazione.
Ai fini del riscontro della continuazione, nessuno di essi è determinante, così
come non serve che siano tutti contemporaneamente presenti. Essi, in quanto
indici, sono liberamente apprezzabili ed utilizzabili dal giudice, al quale
solamente spetterà attribuire ad uno o a più di essi un ruolo nella
configurazione della continuazione, che dovrà comunque essere correttamente
motivata in sentenza, anche attraverso il richiamo a tali indicatori.
Tra questi elementi rientrano, a titolo di esempio, le condizioni di luogo e
tempo in cui si è svolta l’azione, le modalità della condotta posta in essere,
la tipologia dei reati e i beni giuridici lesi o messi in pericolo.
Tra i vari indici, rilevanza preminente assume quello della distanza cronologica
tra i fatti.
Più in particolare, secondo quanto sostenuto anche di recente dalla Corte di
Cassazione, l’esistenza di un apprezzabile scarto temporale tra la commissione
di una violazione ed un’altra, non è da solo sufficiente ad escludere la
sussistenza del reato continuato.
Il notevole lasso temporale intercorrente tra le violazioni può certo costituire
un indice idoneo ad escludere la continuazione, ma solo se suffragato dalla
presenza di ulteriori elementi in tal senso, quali la modalità di esecuzione
altamente diversificata tra i diversi episodi criminosi, la diversità dei beni
giuridici violati o, ancora, l’assoluta eterogeneità dei reati posti in essere.
Si ritiene in giurisprudenza che nemmeno l’intervento di una sentenza
irrevocabile di condanna sia sufficiente, di per sè, ad escludere il medesimo
disegno criminoso. Anche l’intervallo temporale, quindi, deve essere valutato di
volta in volta e in concreto, non potendo essere assunto in maniera assoluta né
per escludere né, viceversa, per ammettere la continuazione, allorquando le
singole violazioni siano poste in essere contestualmente ma al di fuori di un
processo volitivo unitario. Non a caso, la lettera della disposizione fa
riferimento alle più azioni od omissioni commesse “anche in tempi diversi”.
Ogni indice utilizzato dal giudice, lo si ripete, deve essere rigorosamente
argomentato nella motivazione della sentenza, potendo gli indici costituire solo
fattori sintomatici, che non si possono tradurre in congetture o supposizioni
ingiustificate. Nello stesso senso, anche lo status di tossicodipendente,
indicato dall’art. 671 del c.p.p. tra gli elementi che il giudice deve prendere
in considerazione per concedere la continuazione, non deve far pensare ad una
automaticità tra presenza dell’indice presuntivo e sussistenza della
continuazione. Lo status di tossicodipendenza può condurre, valutato all’interno
di un più complessivo quadro probatorio, al riconoscimento della continuazione.
Come noto, la continuazione può essere riconosciuta anche in fase di esecuzione,
richiedendosi però, da parte del condannato, uno specifico onere di allegazione
delle sentenze di cui si chiede l’unificazione.
La giurisprudenza, infatti, non ritiene adeguata, ai fini del riconoscimento
della continuazione in executivis, la mera indicazione della contiguità
temporale tra gli addebiti o tra le tipologie di reato commesse.
Sarà sufficiente, tuttavia, indicare gli estremi delle sentenze rilevanti. Per
la sua struttura, che richiede una preventiva ideazione, seppure per linee
generali, dell’intero processo criminoso, la figura del reato continuato viene
ritenuta incompatibile con la categoria dei reati colposi. In giurisprudenza è
invalsa la prassi di considerare il reato come continuato allorché la
continuazione sortisca per il reo effetti favorevoli, come avviene per la
determinazione della pena secondo il metodo del cumulo giuridico.
Viceversa, si ritiene che i singoli reati vadano considerati e valutati
autonomamente allorquando il vincolo di continuazione tra gli stessi condurrebbe
a conseguenze deteriori per l’autore del reato, in una chiara ottica di favor
rei. Così, per esempio, le cause estintive dei diversi reati andranno
considerate singolarmente per ciascuna fattispecie criminosa.
Anche il dies a quo per il calcolo della prescrizione deve essere individuato in
relazione a ciascun reato, secondo quando attualmente emerge dal disposto del
comma 1 dell’art. 158 c.p.
Altra questione altamente discussa in merito al reato continuato è quella
relativa all'individuazione della “violazione più grave”, in merito alla quale
molto si è detto, in dottrina e giurisprudenza, giungendo infine alla
conclusione per cui l’individuazione della violazione più grave va condotta
sulla base dell’astratta previsione legale, senza tenere conto della valutazione
compiuta in concreto dal giudice, e tenendo invece conto delle singole
circostanze in cui la fattispecie si è manifestata (si veda sul punto Cass. Sez.
Un. n. 25939 del 13 giugno 2013). Nel caso di parità di massimi edittali,
bisognerà guardare alla pena più elevata nel minimo.
Interessante è poi la questione sulla compatibilità tra la figura del reato
continuato e quella del concorso cosiddetto “anomalo”, disciplinato
dall’art. 116 c.p. In tal caso, la giurisprudenza ritiene che per l’imputato
riconosciuto concorrente nel reato ai sensi dell’art. 116 non potrà essere
riconosciuta la continuazione, che richiede la programmazione complessiva
dell’iter criminoso e non, come richiesto per il concorso anomalo, la semplice
“prevedibilità logica”. Infine, importanza rilevante, anche per i riflessi
applicativi nella prassi giudiziaria, riveste la questione della configurabilità
della continuazione tra i reati associativi e i singoli reati-fine. A tal
proposito, la giurisprudenza ha affermato che, ai fini della sussistenza della
continuazione, non è in alcun modo sufficiente la continuità temporale tra i
reati o la medesimezza del contesto di luogo o di tempo, essendo viceversa
necessario, per configurare il medesimo disegno criminoso, uno stesso momento
ideativo, sia per il reato associativo, che per i singoli reati fine, concepiti
fin dall’inizio dall’associato, quantomeno nelle loro linee essenziali. Per
quanto riguarda infine la determinazione della pena in caso di reati avvinti dal
vincolo della continuazione e puniti però con pene eterogenee, sarà necessario
fare ricorso al meccanismo di conversione di cui all’art. 135 c.p. In tal modo,
quando, per esempio, la pena per il reato satellite sia di tipo detentivo (per
es.: arresto), mentre quella per il reato più grave sia pecuniaria, sarà
necessario convertire la pena detentiva del reato satellite nella corrispondente
quantità di pena pecuniaria, che andrà aggiungersi alla pena base.
Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo II - Dei
delitti contro la pubblica amministrazione artt. 314-360
Capo I - Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione
artt. 314-335 bis
Capo II - Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione artt. 335
-356
Capo III - Disposizioni comuni ai capi precedenti artt. 357-360
Capo I - Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione
Art. 314 — Peculato
Art. 315 — Malversazione a danno di privati [ABROGATO]
Art. 316 — Peculato mediante profitto dell'errore altrui
Art. 316 bis — Malversazione di erogazioni pubbliche
Art. 316 ter — Indebita percezione di erogazioni pubbliche
Art. 317 — Concussione
Art. 317 bis — Pene accessorie
Art. 318 — Corruzione per l'esercizio della funzione
Art. 319 — Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio
Art. 319 bis — Circostanze aggravanti
Art. 319 ter — Corruzione in atti giudiziari
Art. 319 quater — Induzione indebita a dare o promettere utilità
Art. 320 — Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio
Art. 321 — Pene per il corruttore
Art. 322 — Istigazione alla corruzione
Art. 322 bis — Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere
utilità, corruzione e istigazione alla corruzione, abuso d'ufficio di membri
delle Corti internazionali o degli organi delle Comunità europee o di assemblee
parlamentari internazionali o di organizzazioni internazionali e di funzionari
delle Comunità europee e di Stati esteri
Art. 322 ter — Confisca
Art. 322 ter 1 — Custodia giudiziale dei beni sequestrati
Art. 322 quater — Riparazione pecuniaria
Art. 323 — Abuso d'ufficio
Art. 323 bis — Circostanze attenuanti
Art. 323 ter — Causa di non punibilità
Art. 324 — Interesse privato in atti di ufficio [ABROGATO]
Art. 325 — Utilizzazione d'invenzioni o scoperte conosciute per ragione di
ufficio
Art. 326 — Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio
Art. 327 — Eccitamento al dispregio e vilipendio delle istituzioni, delle leggi
o degli atti dell'autorità [ABROGATO]
Art. 328 — Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione
Art. 329 — Rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un
agente della forza pubblica
Art. 330 — Abbandono collettivo di pubblici uffici, impieghi, servizi o lavori
[ABROGATO]
Art. 331 — Interruzione d'un servizio pubblico o di pubblica necessità
Art. 332 — Omissione di doveri di ufficio in occasione di abbandono di un
pubblico ufficio o di interruzione di un pubblico servizio [ABROGATO]
Art. 333 — Abbandono individuale di un pubblico ufficio, servizio o lavoro
[ABROGATO]Art. 334 — Sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro
disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorità amministrativa
Art. 335 — Violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose
sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o
dall'autorità amministrativa
Art. 335 bis — Disposizioni patrimoniali
Capo II - Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione
Art. 336 — Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale
Art. 337 — Resistenza a un pubblico ufficiale
Art. 337 bis — Occultamento, custodia o alterazione di mezzi di trasporto
Art. 338 — Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o
giudiziario o ai suoi singoli componenti
Art. 339 — Circostanze aggravanti
Art. 339 bis — Circostanza aggravante. Atti intimidatori di natura ritorsiva ai
danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario.
Art. 340 — Interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di
pubblica necessità
Art. 341 — Oltraggio a un pubblico ufficiale [ABROGATO]
Art. 341 bis — Oltraggio a pubblico ufficiale
Art. 342 — Oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario
Art. 343 — Oltraggio a un magistrato in udienza
Art. 343 bis — Corte penale internazionale
Art. 344 — Oltraggio a un pubblico impiegato [ABROGATO]
Art. 345 — Offesa all'Autorità mediante danneggiamento di affissioni
Art. 346 — Millantato credito [ABROGATO]
Art. 346 bis — Traffico di influenze illecite
Art. 347 — Usurpazione di funzioni pubbliche
Art. 348 — Esercizio abusivo di una professione
Art. 349 — Violazione di sigilli
Art. 350 — Agevolazione colposa
Art. 351 — Violazione della pubblica custodia di cose
Art. 352 — Vendita di stampati dei quali è stato ordinato il sequestro
Art. 353 — Turbata libertà degli incanti
Art. 353 bis — Turbata libertà del procedimento di scelta del contraente
Art. 354 — Astensione dagli incanti
Art. 355 — Inadempimento di contratti di pubbliche forniture
Art. 356 — Frode nelle pubbliche forniture
Capo III - Disposizioni comuni ai capi precedenti
Art. 357 — Nozione del pubblico ufficiale
Art. 358 — Nozione della persona incaricata di un pubblico servizio
Art. 359 — Persone esercenti un servizio di pubblica necessità
Art. 360 — Cessazione della qualità di pubblico ufficiale
Da Studio legale Mazzocchi, Stacchiotti, Caucci.
I reati contro la Pubblica Amministrazione (art. 314 – art. 360 c.p.) si
suddividono in due grandi categorie: da un lato, ci sono i delitti commessi dai
pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio contro la Pubblica
Amministrazione, come peculato, concussione e corruzione, dall’altro, ci sono i
delitti commessi dai privati contro la Pubblica Amministrazione, come violenza o
minaccia a un pubblico ufficiale, resistenza a un pubblico ufficiale,
interruzione di pubblico servizio.
Capo III - Disposizioni comuni ai capi precedenti artt. 357-360
deve intendersi colui che esercita una pubblica funzione legislativa,
giudiziaria o amministrativa, formando e manifestando, nell’ambito di una
potestà regolata dal diritto pubblico, la volontà della Pubblica Amministrazione
ovvero esercitando poteri deliberativi, autoritativi o certificativi (es.
Ufficiale Giudiziario, Carabinieri e agenti della Pubblica Sicurezza, consulenti
tecnici, portalettere, notai, magistrati, messo notificatore per conto di
Equitalia).
sono, invece, coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio,
da intendersi quale attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica
funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri, deliberativi,
autorizzativi e certificativi, tipici di quest’ultima (es. impiegati di enti
pubblici, gli esattori delle società concessionarie di erogazione del gas, i
custodi dei cimiteri, le guardie particolari giurate). Non possono in ogni caso
essere ricondotte alle attività degli incaricati di un pubblico servizio quelle
che si esauriscono nella mera esecuzione di ordini o istruzioni altrui, essendo
richiesto un minimo di potere discrezionale, che implichi lo svolgimento di
mansioni “intellettuali” in senso lato.
1) i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni
il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello
Stato, quando dell'opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi;
2) i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando
un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità
mediante un atto della pubblica Amministrazione [360].
Capo I - Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione
artt. 314-335 bis
1.
È il reato commesso dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio
(quindi reato proprio), che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il
possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se
ne appropria. La pena prevista è la reclusione da quattro a dieci anni e sei
mesi. Esempio di peculato è quando un tesoriere comunale, o un altro funzionario
che amministra denaro statale, si appropria di somme appartenenti all’ente
pubblico.
È richiesta l’appropriazione di denaro o altra cosa mobile con un
comportamento uti dominus (cioè, come se ne fosse il proprietario).
2.
Al secondo comma è disciplinato il Peculato d’uso, che si configura quando il
funzionario pubblico si appropria della cosa al solo scopo di farne uso
momentaneo e, dopo tale uso, la restituisce immediatamente. In questo caso, la
pena è la reclusione da 3 a 6 anni.
Esempio tipico è l’uso per fini personali, da parte del pubblico funzionario,
del telefono assegnatogli per esigenze di ufficio; in questo caso l’agente
distoglie il bene fisico costituito dall’apparecchio telefonico, di cui ha il
possesso per ragioni di ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica,
piegandolo a fini personali, per il tempo dell’uso, restituendolo, alla
cessazione dell’uso, alla sua destinazione originaria. Il dolo in questo caso è
specifico, perché consistente nell’intenzione di usare momentaneamente i beni.
3.
L’art. 316 c.p. regola, inoltre, il Peculato mediante profitto dell’errore
altrui, che ci concretizza nella condotta del pubblico ufficiale o
dell’incaricato di un pubblico servizio che, nell’esercizio delle funzioni o del
servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé
o per un terzo, denaro o altra utilità. La pena è la reclusione da sei mesi a
tre anni. Il D. Lgs. 75/2020 – che ha recepito la Direttiva (UE) 2017/1371 (cd.
Direttiva PIF) recante norme per la “lotta contro la frode che lede gli
interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale” ha previsto, con
l’aggiunta del secondo comma, un aumento nel massimo edittale fino a quattro
anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il
danno o il profitto sono superiori a euro 100.000.
Punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, estraneo alla
pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o
dalle Comunità europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a
favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di
attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità. L’ipotesi
criminosa si caratterizza per l’ottenimento di finanziamenti pubblici in modo
lecito e per il successivo utilizzo degli stessi per finalità diverse da quelle
sottese all’erogazione.
Ad esempio, commette il reato di malversazione l’imprenditore edile che dopo
aver conseguito fondi europei per la realizzazione di immobili destinati
all’edilizia popolare, decide poi di investire i succitati fondi ottenuti in un
diverso progetto edilizio, volto alla costruzione di un centro commerciale.
Fattispecie introdotta dalla Legge n. 300/2000 (art. 4), che punisce, salvo che
il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640-bis, chiunque consegue
indebitamente, per sé o per altri, mediante l’utilizzo o la presentazione di
dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante
l’omissione di informazioni dovute, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o
altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati
dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee. La pena è la
reclusione da sei mesi a tre anni.
Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un
pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri la pena è,
invece, della reclusione da uno a quattro anni, così come inserito dalla legge
n. 3/2019.
Se il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione Europea e il danno o il
profitto sono superiori a euro 100.000 la pena è della reclusione da sei mesi a
quattro anni, così come inserito dal D. Lgs n. 75/2020.
Si applica, invece, la sola sanzione amministrativa del pagamento di una somma
di denaro da euro 5.164 a euro 25.822 nel caso in cui la somma indebitamente
percepita sia pari o inferiore a euro 3.999,96. Tale sanzione non può comunque
superare il triplo del beneficio conseguito.
La condotta si concretizza nell’indebito conseguimento, per sé o per altri, di
fondi, comunque denominati, concessi o erogati dallo Stato, da altri Enti
pubblici o dalle Comunità Europee, mediante condotte commissive (l’utilizzo o
nella presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non
vere) od omissive (omissione di informazioni dovute). A differenza della
malversazione, che integra le ipotesi di distrazione delle risorse e d’indebito
utilizzo di fondi regolarmente erogati e conseguiti, l’art. 316 ter punisce le
attività connesse a un momento precedente.
La fattispecie in esame risulta applicabile solo qualora non sia configurabile
l’ipotesi di truffa ai danni dello Stato (art. 640 bis c.p.). Il discrimine tra
l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e la truffa aggravata
per il conseguimento di erogazioni pubbliche sono l’induzione in errore ed il
verificarsi di un danno patrimoniale, elementi questi che caratterizzano,
appunto, il delitto di truffa.
Per costrizione è il reato commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di
un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità (cioè, facendo valere la
sua posizione e strumentalizzando la propria qualifica soggettiva) o dei suoi
poteri (utilizzando in modo distorto le attribuzioni del proprio ufficio)
costringe o induce (vecchia previsione) taluno a dare o a promettere
indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità. La pena è la
reclusione da sei a dodici anni.
Si definisce come reato proprio, in quanto può essere commesso soltanto da un
funzionario della PA ed è quello più gravemente sanzionato. In alcuni casi, può
comportare anche l’interdizione dagli uffici, perpetua o temporanea. In
sostanza, può essere accusato di questo comportamento illegale chi si fa dare o
promettere, per sé o per altri, denaro (la cosiddetta “mazzetta” o “tangente”),
o un altro vantaggio anche non patrimoniale abusando della propria posizione.
Caso noto è quello del funzionario della PA che chiede di nominare una persona
come tecnico per l’esecuzione di alcune opere da lui imposte. La condotta può
esplicitarsi in due differenti modalità: costrizione ed induzione.
Si possono citare come esempi il professore che pretende una prestazione
sessuale da una studentessa minacciandola di non farle passare l’esame, o il
funzionario comunale che chiede somme di denaro per compiere l’atto
amministrativo cui è tenuto per legge, sotto la minaccia di non effettuarlo, o
il dirigente Asl che costringe il titolare di un ristorante a somministrargli
pasti gratis, chiedendo allusivamente al titolare se l’esercizio era a posto con
le autorizzazioni di Legge, oppure il caso di un carabiniere che, accennando
alla possibilità del ritiro della patente, costringe il responsabile di un
sinistro stradale a risarcirgli immediatamente il danno provocato, anziché
incardinare la normale procedura di risarcimento del danno. Reato procedibile
d’ufficio.
TESTO ORIGINARIO Art. 317 - Concussione. «Il pubblico ufficiale, che, abusando
della sua qualità o delle sue funzioni, costringe o induce taluno a dare o a
promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altra utilità, è punito
con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa non inferiore a lire
tremila. Si applicano le disposizioni del capoverso dell’art. 314».
RIFORMA DEL 1990 (LEGGE N. 86) Art. 317- Concussione «Il pubblico ufficiale o
l’incaricato di un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi
poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o
ad un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a
dodici anni».
RIFORMA DEL 2012 (LEGGE N.190)
Art. 317 - Concussione «Il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o
dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a
un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da sei a dodici
anni».
Art. 319 quater - Induzione indebita a dare o promettere utilità. «Salvo che il
fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di
pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce
taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra
utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni Nei casi previsti dal
primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione
fino a tre anni.».
RIFORMA DEL 2015 (LEGGE N. 69) Art. 317 - Concussione «Il pubblico ufficiale o
l'incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi
poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un
terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da sei a dodici anni.»
Concussione Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La concussione (dal latino tardo concussio «scossa, eccitamento» dunque
«pressione indebita, estorsione») è il reato del pubblico ufficiale che,
abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringa (concussione
violenta) qualcuno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro
o altra utilità anche di natura non patrimoniale.
Reato tipico dell'ordinamento giuridico penale della Repubblica Italiana, la
fattispecie concussiva non è presente nella maggior parte degli ordinamenti
europei e internazionali (al suo posto troviamo l'estorsione aggravata). I beni
tutelati dalla fattispecie sono pubblici (buon andamento e imparzialità
della pubblica amministrazione) e allo stesso tempo anche privati (tutela contro
abusi di potere e lesioni della libertà di autodeterminazione). Tra i delitti
dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, la concussione è il
reato più gravemente sanzionato.
Oggi, a seguito della riforma introdotta dalla legge 6 novembre 2012, n.190, è
prevista la reclusione da sei a dodici anni (anche anteriforma era il reato
contro la pubblica amministrazione più sanzionato). La normativa italiana di
contrasto al fenomeno concussivo è contenuta nel Codice penale e precisamente
nel Libro II, Titolo II Dei delitti contro la pubblica amministrazione (art.
314-360).
Disciplina normativa
Nella legislazione italiana, il reato è previsto dall'articolo 317 del Codice
penale italiano:
«Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, abusando
della sua qualità o dei suoi poteri costringe taluno a dare o a promettere
indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la
reclusione da quattro a dodici anni.»
La legge 6 novembre 2012 n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la
repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione),
ha distinto il reato di concussione all'art. 317 c.p., il quale al suo interno
inglobava sia la condotta costrittiva che quella induttiva. La concussione
cd. costrittiva è rimasta configurata dall'art. 317, ma limitatamente al
pubblico ufficiale, mentre la cd. concussione per induzione, definita Induzione
indebita, è prevista dal nuovo art. art. 319 quater.
La fattispecie dell’art 317 ora prevede la sola ipotesi di condotta concussiva
del P.U.
L'art. 319 quater (rubricato Induzione indebita a dare o promettere utilità),
invece, dispone:
«Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o
l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi
poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo,
denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni.
Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è
punito con la reclusione fino a tre anni.»
Caratteristiche
La concussione è un reato proprio, in quanto può essere commesso solo
dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.
La condotta incriminata consiste nel farsi dare o nel farsi promettere, per sé o
per altri, denaro ("mazzetta" nel gergo giornalistico) o un altro vantaggio
anche non patrimoniale abusando della propria posizione. Prima della legge 6
novembre 2012, n. 190, soggetto attivo del reato poteva essere anche
l'incaricato di pubblico servizio.
Modalità della condotta
La condotta può esplicitarsi in due differenti modalità: costrizione e
induzione.
La costrizione è intesa nel senso di coercizione psichica relativa, cioè essa
implica la prospettazione di un male ingiusto alla vittima, la quale rimane
tuttavia libera di aderire alla richiesta o di subire il male minacciato.
La concussione rientra certamente tra i cosiddetti reati di cooperazione con la
vittima in quanto il comportamento della vittima è determinante ai fini della
configurabilità della fattispecie, infatti, qualora non avvenisse la dazione o
la promessa il reato non si configurerebbe; è però ammesso il tentativo, che si
configura qualora il soggetto pubblico compia atti diretti a costringere o
indurre taluno a dare o promettere, ma effettivamente non seguano la dazione o
la promessa.
Il soggetto passivo secondo l'impostazione originaria del Codice Rocco era solo
la pubblica amministrazione; oggi invece, alla luce dei valori costituzionali
che pongono l'accento sulla centralità della persona nel sistema giuridico, il
soggetto passivo è anche il concusso, coartato nel suo diritto alla libera
autodeterminazione e leso nella sua integrità patrimoniale.
Il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di compiere il reato. Il
reato non è configurabile per colpa.
L'abuso delle qualità e l'abuso dei poteri
Il pubblico agente "abusa" della propria qualità quando non si limita a
dichiararne il possesso, o al limite, a farne sfoggio, ma, per il contesto,
l'occasione, le modalità in cui viene fatta valere, essa appare priva di altra
giustificazione che non sia quella di far sorgere nel soggetto passivo
"rappresentazioni induttive o costrittive di prestazioni non dovute", deve cioè
assumere efficacia psicologicamente motivante.
L'abuso dei poteri avviene nel momento in cui l'agente li esercita fuori dai
casi o al di là dei limiti, stabiliti dalla legge: quando non dovrebbero essere
esercitati ovvero quando dovrebbero essere esercitati in modo diverso.
Rapporti con altri reati
Concussione e truffa aggravata
La truffa aggravata è configurabile quando la qualità o funzione del pubblico
ufficiale concorrono in via accessoria alla determinazione della volontà del
soggetto passivo, che viene convinto con artifici o raggiri ad una prestazione
che egli crede dovuta. Invece deve ravvisarsi concussione tutte le volte che
l'abuso delle qualità o della funzione del pubblico ufficiale si atteggia come
causa esclusivamente determinante, così da indurre il soggetto passivo
all'ingiusta dazione che egli sa non dovuta.
Concussione e corruzione propria
La differenza tra le due figure, non sempre facilmente delineabile, risiede per
la giurisprudenza maggioritaria nel metus publicae potestatis.
Se la dazione o la promessa sono compiute dal privato, in quanto posto in uno
stato di soggezione derivante dall'abuso del soggetto pubblico, si integra
l'ipotesi di concussione; viceversa, se i due soggetti liberamente agiscono per
un risultato comune, si integra l'ipotesi di corruzione.
Nel caso della concussione, il concusso cerca di evitare un danno (certat de
damno vitando), mentre, nella corruzione, cerca di ottenere un vantaggio (certat
de lucro captando).
Si parla di corruzione impropria quando, per compiere la transazione corrotta,
il pubblico ufficiale deve porre in essere atti conformi ai doveri d'ufficio.
La corruzione sia propria che impropria può essere antecedente o susseguente. È
detta antecedente quando la retribuzione è pattuita anteriormente al compimento
dell'atto e al fine di compierlo, mentre è detta susseguente invece quando la
retribuzione concerne un atto contrario ai doveri d'ufficio già compiuto.
Concussione e corruzione ambientale
La corruzione ambientale è quel fenomeno per il quale una persona viene convinta
che determinati comportamenti, quali la prestazione dell'indebito, siano dovuti
a una ormai consolidata prassi popolare utilizzata da tutti e per questo, anche
se non lecita, "normale"; chiaro che, affinché si configuri il reato, c'è sempre
bisogno che il privato venga indotto da un comportamento del pubblico agente.
Concussione e induzione indebita
Il delitto di induzione indebita è realizzabile tanto dal pubblico
ufficiale quanto dall'incaricato di pubblico servizio, quando invece la
concussione è realizzabile solo dal pubblico ufficiale. Nel caso dell'induzione
poi, è prevista anche la punibilità anche del privato, ovvero di colui che ha
subito il reato, con la reclusione fino a 3 anni.
Si configura nelle ipotesi in cui il pubblico ufficiale, per l’esercizio delle
sue funzioni, indebitamente riceva, per sé o per un terzo, denaro od altra
utilità, o ne accetti la promessa. In poche parole, è un accordo (cd. pactum
sceleris) tra un funzionario pubblico ed un soggetto privato, mediante il quale
il primo accetta dal secondo, per l’esercizio delle sue funzioni, denaro o altra
utilità. La pena è la reclusione da tre a otto anni. Tale condotta è punita
anche quando è compiuta da un incaricato di pubblico servizio, ma, in tal caso,
la pena è ridotta in misura non superiore a un terzo (art. 320 c.p.).
La fattispecie in esame, prescindendo dalla necessità di individuare specifici
atti oggetto del pactum sceleris, va a reprimere le condotte caratterizzate
dall’asservimento della funzione pubblica.
Un esempio è la condotta di un appartenente alla Guardia di Finanza che riceve,
da soggetti interessati ad avere informazioni circa gli accertamenti fiscali
svolti a carico delle proprie società, somme di danaro con cadenza mensile e
regalie per asservire stabilmente la propria attività agli interessi personali
dei suddetti privati e delle loro società mediante il compimento di atti
contrari ai doveri di ufficio agevolando costoro nelle verifiche fiscali,
predisponendo le risposte da fornire ai verificatori e rivelando notizie di
ufficio riservate sull’andamento delle verifiche stesse.
Mentre il reato di concussione è connotato dall’abuso costrittivo del pubblico
ufficiale, attuato mediante minaccia, esplicita o implicita, di un danno da cui
deriva una grave limitazione della libertà di autodeterminazione del
destinatario, la corruzione è, invece, caratterizzata da un accordo liberamente
e consapevolmente concluso, su un piano di sostanziale parità, tra un privato e
un funzionario pubblico verso un comune obiettivo illecito.
Tale fattispecie corruttiva si configura nelle ipotesi in cui il pubblico
ufficiale per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo
ufficio ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di
ufficio riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità o ne accetta la
promessa. Pena da 6 a dieci anni.
Tale condotta è punita anche quando è compiuta da un incaricato di pubblico
servizio, ma, in tal caso, la pena è ridotta in misura non superiore a un terzo
(art. 320 c.p.).
In particolare, la condotta può concretizzarsi in una omissione o in un ritardo
nel compimento di un atto di ufficio ovvero nel compimento di un atto contrario
ai doveri di ufficio, ricomprendendo qualsiasi comportamento del pubblico
funzionario in contrasto con norme giuridiche o che violi i doveri di fedeltà,
imparzialità, segretezza ed onestà, i quali vanno osservati da chiunque eserciti
una pubblica funzione.
Il reato in esame, connotato da un rapporto paritetico tra pubblico ufficiale/
incaricato di un pubblico servizio-corrotto e privato-corruttore così come per
la fattispecie di cui all’art. 318 c.p.c, se ne differenzia in virtù del fatto
che l’atto richiesto al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico
servizio, a fronte della dazione o della promessa di denaro o di altra
utilità, risulta contrario ai doveri d’ufficio.
Il reato è aggravato quando il fatto ha per oggetto il conferimento di pubblici
impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia
interessata l’amministrazione alla quale il pubblico ufficiale appartiene.
Un esempio è la condotta dell’amministratore di una società distributrice di
prodotti farmaceutici che corrisponde denaro ed altre utilità ad alcuni medici
convenzionati con il SSN affinché consiglino ai propri pazienti l’utilizzo di un
determinato integratore alimentare.
Dispositivo dell'art. 319 bis Codice penale. Circostanze aggravanti
La pena è aumentata se il fatto di cui all'art. 319 ha per oggetto il
conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione
di contratti nei quali sia interessata l'amministrazione alla quale il pubblico
ufficiale appartiene nonché il pagamento o il rimborso di tributi [32 quater].
Si configura nelle ipotesi in cui i fatti di corruzione, sia propria (art. 319
c.p.) che impropria (art.318 c.p.), vengano commessi per favorire o danneggiare
una parte in un processo giudiziario (civile, penale o amministrativo). La pena
è la reclusione da sei a dodici anni.
Esso si integra nel momento in cui, uno degli atti corruttivi previsti dagli
artt. 318 e 319 c.p. viene compiuto all’interno di un processo civile, penale o
amministrativo, per favorire o danneggiare una parte processuale (persona fisica
o giuridica che ha avanzato o nei cui confronti è stata avanzata domanda
giudiziale). Si precisa che, all’interno del processo penale sono parti:
l’indagato, il Pubblico Ministero, l’imputato, la parte civile, il responsabile
civile e il civilmente obbligato a sostenere il pagamento della pena pecuniaria.
Elemento di differenziazione rispetto alle ipotesi di corruzione di cui agli
artt. 318 e 319 è la finalità per cui la corruzione viene posta in essere,
costituita dalla volontà di favorire o danneggiare una parte in un processo
penale, civile o amministrativo.
Al comma 2 è prevista un aggravante nel caso in cui dal fatto derivi l’ingiusta
condanna alla reclusione. In particolare, se deriva l’ingiusta condanna di
taluno alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena è della reclusione
da sei a quattordici anni; se deriva l’ingiusta condanna alla reclusione
superiore a cinque anni o all’ergastolo, la pena è della reclusione da otto a
venti anni.
Un esempio è il cancelliere che, attraverso l’assegnazione irregolare dei
processi tramite manipolazione dei criteri automatici di assegnazione, faceva
assegnare ai giudici onorari compiacenti le pratiche giudiziarie di alcuni
avvocati.
Si precisa che tale fattispecie non ricorre soltanto in relazione all’esercizio
delle funzioni giudiziarie cui è subordinata e allo status di colui che le
esercita, ma ha una portata più ampia. Infatti, come precisato dalla Corte di
Cassazione, costituisce “atto giudiziario” qualsiasi atto funzionale a un
procedimento giudiziario, indipendentemente dalla qualifica soggettiva di chi lo
realizza (Cass., Sezioni Unite, n. 15208/2010 con riferimento alla testimonianza
resa in un processo penale).
L’art. 321 c.p. estende le pene previste dagli artt. 318, 319, 319 bis e 319 ter
c.p. per il corrotto anche al corruttore, cioè a chi dà o promette il denaro od
altra utilità.
È il reato del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che,
abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a
promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità. La pena è
la reclusione da sei anni a dieci anni e sei mesi. Chi dà o promette denaro o
altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni ovvero con la
reclusione fino a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari
dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000.
Ad esempio, la richiesta di denaro da parte di un cancelliere, rivolta agli
amministratori di un’azienda coinvolta in un’indagine, accreditando loro la
possibilità di incidere, come impiegato dell’ufficio, sui tempi e sugli esiti
del procedimento.
Tale fattispecie prevede, a differenza della concussione (art. 317 c.p.), che
possa essere commesso non solo dal pubblico ufficiale, ma anche dall’incaricato
di un pubblico servizio (art. 320 c.p.), nonché la punibilità anche del privato
che perfeziona la dazione dell’indebito (art. 321 c.p.).
Sulla differenza con le precedenti fattispecie, la Corte di Cassazione (Sezioni
Unite, sentenza n. 12228/2014) ha osservato che:
il discrimine tra il reato di concussione (art. 317 c.p.) e quello di induzione
indebita a dare o promettere utilità (319-quater c.p.) è un abuso costrittivo
(quindi condotte costrittive) del pubblico ufficiale, attuato mediante violenza
o minaccia di un danno ingiusto, che determina la soggezione psicologica del
destinatario, seppur senza un totale annullamento, della libertà di
autodeterminazione del destinatario, mentre l’induzione indebita si realizza con
una condotta di persuasione, inganno o pressione morale che condiziona in modo
più tenue la volontà del destinatario (mera soggezione psicologica); i reati di
concussione e induzione indebita si distinguono dalle fattispecie corruttive in
quanto i primi due delitti presuppongono una condotta di prevaricazione abusiva
del funzionario pubblico idonea a determinare la soggezione psicologica del
privato, costretto o indotto alla dazione o promessa indebita, mentre l’accordo
corruttivo viene concluso liberamente e consapevolmente dalle parti, su un piano
di parità tra le stesse (par condicio contractualis), ed in grado di produrre
vantaggi reciproci per entrambi i soggetti che lo pongano in essere.
LA CASSAZIONE TORNA SULLA DISTINZIONE TRA CONCUSSIONE E INDUZIONE INDEBITA
Francesco Viganò
Cass. pen., sez. VI, sent. 4 dicembre 2012 (dep. 21 febbraio 2013), n. 8695,
Pres. Cortese, Est. Carcano, Imp. Nardi
La sentenza si impegna altresì nella ricostruzione dei rapporti reciproci tra le
due nuove fattispecie di concussione e di induzione indebita, nonché
dei rapporti tra la nuova fattispecie e quella del 'vecchio' art. 317 c.p.,
concludendo che al fatto contestato all'imputato sarebbe oggi applicabile, in
forza dell'art. 2 co. 4 c.p., la disciplina più favorevole di cui al nuovo art.
319-quater, tale fatto essendo per l'appunto qualificabile come mera "induzione
indebita a dare o promettere utilità".
In merito al primo profilo, la Corte osserva anzitutto che le attuali
fattispecie di cui agli articoli 317 (novellato) e 319-quater c.p. continuano a
distinguersi dalle fattispecie di corruzione, le quali richiedono "una parità
tra i due soggetti e una volontà comune orientata al do ut des; connotazioni
estranee alle due diverse forme di 'costrizione' o 'induzione', il cui
denominatore comune è l'abuso di potere o delle qualità".
Ciò posto, rileva la S.C. che la differenza tra le due diverse ipotesi di
"costrizione" e "induzione" sta "nel mezzo usato per la realizzazione
dell'evento, nel senso che la promessa o la dazione dell'indebito è nella
'concussione' effetto del timore mediante l'esercizio della minaccia, e nella
'induzione', invece, effetto delle forme più varie di attività persuasiva e di
suggestione tacita e di atti ingannevoli".
D'altra parte, la Cassazione precisa che la minaccia costitutiva di una
concussione può essere caratterizzata da "qualsiasi condotta che, anche senza
divenire minaccia espressa, si caratterizza in concreto come una implicita,
seppur significativa e seria intimidazione, tale da incidere e in misura
notevole sulla volontà del soggetto passivo". A caratterizzare la concussione
dovrebbe essere dunque il "timore di un danno minacciato dal pubblico
ufficiale", mentre nell'induzione il pubblico ufficiale farebbe leva piuttosto
sulla sua "posizione di preminenza, per suggestionare, persuadere o convincere a
dare o promettere qualcosa allo scopo di evitare un male peggiore".
Prevede che chiunque offre o promette denaro od altra utilità non dovuti ad un
pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio per l’esercizio
delle sue funzioni o dei suoi poteri, soggiace, qualora l’offerta o la promessa
non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’articolo 318,
ridotta di un terzo. La pena di cui al primo comma si applica al pubblico
ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o
dazione di denaro o altra utilità per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi
poteri.
Se l’offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un
incaricato di un pubblico servizio a omettere o a ritardare un atto del suo
ufficio, ovvero a fare un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace,
qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita
nell’articolo 319, ridotta di un terzo. Tale pena si applica anche al pubblico
ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o
dazione di denaro ad altra utilità da parte di un privato per le finalità
indicate dall’articolo 319.
Il reato è configurabile solo ove l’offerta del privato o la richiesta del
pubblico funzionario non vengano accolte dal destinatario. Tuttavia, ove il
rifiuto non sia stato immediato e siano incorse trattative poi non sfociate in
un accordo, si ritiene configurabile un tentativo di corruzione del quale
rispondono entrambi i soggetti. Nell’istigazione alla corruzione passiva la
condotta consiste nell’offrire o nel promettere denaro o altra utilità non
dovuti al funzionario. L’offerta o la promessa deve essere seria e concreta ed
idonea alla realizzazione dello scopo, tale cioè da indurre il destinatario a
compiere o a ritardare un atto dell’ufficio o del servizio ovvero a fare un atto
contrario a detti doveri.
Ad esempio, risponde di istigazione alla corruzione colui che, al fine di
indurre i pubblici ufficiali, intervenuti per l’accertamento della dinamica di
un sinistro in cui era coinvolto ed in procinto di verificarne le condizioni di
ebbrezza alcolica, ad omettere un atto del loro ufficio, offriva loro una somma
di denaro, offerta non accolta.
Induzione indebita, concussione, istigazione alla corruzione in una pronuncia
della Cassazione
Concussione, induzione indebita, istigazione alla corruzione profili psicologici
delle diverse condotte.
Una sentenza della Cassazione penale sezione VI dell’11.4.2014 (n.32246) in
materia di reati contro la Pubblica Amministrazione, e nella specie del reato di
induzione indebita, ha chiarito quali sono gli aspetti psicologici di
quest’ultimo reato, la ricorribilità del tentativo e anche la differenza con
altre fattispecie criminose quali la concussione e la istigazione alla
corruzione.
La sentenza, resa in sede di impugnazione di ordinanza del tribunale del
riesame, affermò che la qualificazione di induzione indebita della condotta
abusiva di pressione psicologica del pubblico ufficiale che non attinge la
soglia della minaccia, non seguita da una promessa o dazione di denaro o di
utilità da parte dell’extraneus, configura la ipotesi del tentativo ai sensi
dell’art. 56-319 ter c.p.
In tal caso non c’è bisogno di accertare la esistenza dell’ulteriore requisito
dell’indebito vantaggio da parte del privato, elemento capace di corroborare la
fattispecie di reato "consumato", ma ininfluente per concretare ed accertare il
reato nella forma tentata.
In tale pronuncia la Corte ha evidenziato anche i tratti distintivi delle
diverse fattispecie di reati contro la pubblica Amministrazione e cioè la
concussione (art. 317 c.p.) la indizione indebita a dare o promettere utilità
(art. 319 quater c.p) e la istigazione alla corruzione (di cui al comma 4
dell’art. 322 c.p.)
La Corte di Cassazione in quella occasione ha rigettato il ricorso in
riferimento all’applicazione della custodia cautelare, ed alla adeguatezza della
custodia in carcere, ma ha appunto riqualificato il reato da tentativo di
concussione a tentativo di induzione indebita.
Nella parte motivazionale si è soffermata sulla differenza tra i tre reati che
possono essere commessi dai pubblici ufficiali, specificando che;
- Nella concussione si è in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che
limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo:
ricorre quindi un "abuso costrittivo” del pubblico ufficiale verso la parte
privata;
- Nella induzione indebita si ravvisa invece una condotta di persuasione, di
suggestione, di inganno, o di pressione morale che condiziona in modo più tenue
la libertà di autodeterminazione del privato, il quale disponendo di ampi
margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla richiesta di prestazione
non dovuta, nella prospettiva di un tornaconto personale;
- Nella istigazione alla corruzione punibile per condotta del Pubblico
Ufficiale, l’art. 322 c.p. prevede invece una condotta di "sollecitazione” da
parte del Pubblico Ufficiale e nei confronti del privato: in tal caso al privato
viene prospettato un semplice scambio di favori su basi paritarie connotato
dall’assenza di minaccia diretta o indiretta e da ogni ulteriore abuso della
qualità o dei poteri.
La sentenza, pertanto approfondisce l’atteggiamento psicologico della condotta
del Pubblico Ufficiale e dalla stessa possono trarsi per l’appunto i profili
psicologici generali del concussore, dell’abusante e dell’istigatore.
Il concussore pare, allora, colui che pravamente adopera la minaccia per
ottenere utilità dal privato limitando la sua libertà, e la sua pressione è
irresistibile;
Chi commette il reato di induzione indebita, invece, non utilizza la minaccia
ma la persuasione, prospettando al privato il perseguimento di un indebito
vantaggio (ed infatti il privato se accede alla proposta è anch'egli
responsabile penalmente).
Infine, chi istiga alla corruzione non minaccia né comprime altrimenti la
volontà del privato, ma gli prospetta la possibilità di un vantaggio
attraverso la promessa di denaro o altra utilità.
Sintetizzando, il tratto caratterizzante dei protagonisti delle varie condotte
può essere il seguente:
Peculato appropria 314, Concussione costringe 317, Induzione indebita induce 319
quater: Pubblico ufficiale = Incaricato di pubblico servizio
Corruzione riceve 318-319: Pubblico ufficiale/ Incaricato di pubblico servizio
-1/3
Istigazione alla corruzione 322:
offerta-promessa privato -1/3;
sollecitazione Pubblico ufficiale = Incaricato di pubblico servizio
concussione = minaccia arrogante 6-12;
induzione indebita= pressione morale abusante 2-10 anno e 6 mesi;
corruzione: impropria da tre a otto anni; propria da 6 a dieci anni; atti
giudiziari da sei a dodici anni, da sei a quattordici se condanna – 5 anni, da
otto a venti anni se + cinque anni o ergastolo
istigazione alla corruzione= sollecitazione corruttiva 3-8, -1/3 se privato.
A cura della redazione di modernlaw.it
(studio legale associato Castellaneta, D’Argento & partners. MILANO.
L’art 322 bis estende la punibilità delle fattispecie di cui sopra (con
l’aggiunta del reato di peculato) nei confronti di membri appartenenti ad organi
delle Comunità Europee o Stati esteri.
E’ il reato del pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che,
nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge
o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse
proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi
prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio
patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto. La pena è la reclusione
da sei mesi a tre anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di
rilevante gravità.
Ad esempio, integra l’abuso d’ufficio la condotta del responsabile di un ufficio
pubblico che ricorra arbitrariamente e sistematicamente alla collaborazione di
personale esterno, pur potendo far fronte alle esigenze istituzionali attraverso
il personale interno, arrecando vantaggio al privato cui conferisce incarichi
retribuiti.
Circostanze attenuanti (art. 323 bis c.p.c)
Le pene sono diminuite se i fatti previsti dalle fattispecie precedenti sono di
particolare tenuità.
La pena è diminuita da un terzo a due terzi per chi si sia adoperato per evitare
che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le
prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il
sequestro di somme o altre utilità trasferite.
Trattasi di circostanza attenuante di natura soggettiva per la collaborazione
processuale introdotta dalla Legge anticorruzione n. 69/2015.
È il reato del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, che
indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di
sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere
compiuto senza ritardo. La pena è la reclusione da sei mesi a due anni.
Il rifiuto deve essere indebito, cioè contrario ai doveri dell’agente e non
giustificato, e riguardare un atto d’ufficio, ovvero un atto urgente che deve
essere compiuto senza ritardo, come ad esempio sequestri obbligatori
amministrativi o la confisca amministrativa o gli ordini di distruzione degli
immobili abusivi.
Il secondo comma punisce, invece, l’omissione non motivata di atti richiesti,
che si verifica nel caso in cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un
pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia
interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le
ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa
fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il
termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.
Dunque, perché vi sia omissione è necessario la richiesta formale
dell’interessato, il mancato compimento dell’atto entro 30 giorni dalla
ricezione della richiesta e la mancata esposizione dell’interessato, nello
stesso termine, delle ragioni del ritardo.
Dispositivo dell'art. 361 Codice Penale
Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo III
- Dei delitti contro l'amministrazione della giustizia → Capo I - Dei delitti
contro l'attività giudiziaria
Il pubblico ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare all'Autorità
giudiziaria, o ad un'altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne,
un reato di cui ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni, è
punito con la multa da euro 30 a euro 516.
La pena è della reclusione fino ad un anno, se il colpevole è un ufficiale o un
agente di polizia giudiziaria [c.p.p. 57], che ha avuto comunque notizia di un
reato del quale doveva fare rapporto [c.p.p. 330-332, 347].
Le disposizioni precedenti non si applicano se si tratta di delitto punibile
a querela della persona offesa.
Dispositivo dell'art. 362 Codice Penale Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO -
Dei delitti in particolare → Titolo III - Dei delitti contro l'amministrazione
della giustizia → Capo I - Dei delitti contro l'attività giudiziaria
L'incaricato di un pubblico servizio,
che omette o ritarda di denunciare all'Autorità indicata nell'articolo
precedente un reato del quale abbia avuto notizia nell'esercizio o a causa del
servizio [c.p.p. 330-332, 347], è punito con la multa fino a euro 103.
Tale disposizione non si applica se si tratta di un reato punibile
a querela della persona offesa né si applica ai responsabili delle comunità
terapeutiche socio-riabilitative per fatti commessi da persone tossicodipendenti
affidate per l'esecuzione del programma definito da un servizio pubblico.
Dispositivo dell'art. 365 Codice Penale
Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo III
- Dei delitti contro l'amministrazione della giustizia → Capo I - Dei delitti
contro l'attività giudiziaria
Chiunque, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria
assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per
il quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne
all'Autorità indicata nell'articolo 361, è punito con la multa fino a
cinquecentosedici euro.
Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona
assistita a procedimento penale [384]
Differenza fra denuncia e Referto.
Obbligo di referto e obbligo di denuncia
Referto
Art. 334 c.p.p.
“1. Chi ha l’obbligo del referto [c.p. 365] deve farlo pervenire entro
quarantotto ore o, se vi è pericolo nel ritardo, immediatamente al pubblico
ministero o a qualsiasi ufficiale di polizia giudiziaria del luogo in cui ha
prestato la propria opera o assistenza ovvero, in loro mancanza, all’ufficiale
di polizia giudiziaria più vicino.
Il referto indica la persona alla quale è stata prestata assistenza e, se è
possibile, le sue generalità, il luogo dove si trova attualmente e quanto altro
valga a identificarla nonché il luogo, il tempo e le altre circostanze
dell’intervento; dà inoltre le notizie che servono a stabilire le circostanze
del fatto, i mezzi con i quali è stato commesso e gli effetti che ha causato o
può causare. Se più persone hanno prestato la loro assistenza nella medesima
occasione, sono tutte obbligate al referto, con facoltà di redigere e
sottoscrivere un unico atto.”
Art. 365 c.p.
“Chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la
propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un
delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne
all’Autorità indicata nell’articolo 361, è punito con la multa fino a
cinquecentosedici euro.
Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona
assistita a procedimento penale [384]”.
Denuncia
La denuncia è l’atto con il quale chiunque abbia notizia di un reato
perseguibile d'ufficio, ne informa il Pubblico Ministero o un Ufficiale di
Polizia Giudiziaria.
La denuncia può essere presentata in forma orale o scritta. La denuncia deve
contenere l’esposizione dei fatti ed essere sottoscritta dal denunciante o dal
suo avvocato.
La persona che presenta una denuncia ha diritto di ottenere attestazione della
ricezione.
La querela è la dichiarazione con la quale la persona che ha subito un reato
esprime la volontà che si proceda per punire il colpevole e si riferisce ai
reati non perseguibili d’ufficio.
Non ci sono particolari regole per il contenuto dell’atto di querela, ma è
necessario che, oltre ad essere descritto il fatto-reato, risulti chiara la
volontà del querelante che si proceda in ordine al fatto e se ne punisca il
colpevole.
In sintesi:
– il referto, nell’ambito della professione sanitaria, si redige quando riguarda
la persona assistita per una qualsiasi notizia di reato procedibile d’ufficio;
– la denuncia per una qualsiasi notizia di reato procedibile d’ufficio.
Entrambi vanno trasmessi solo ed esclusivamente all’Autorità Giudiziaria (no
Servizi Sociali).
Occorre, poi, tenere presente che non si dovrà fare referto quando lo stesso
esporrebbe la persona assistita -paziente- a procedimento penale.
Chi, esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità, interrompe
il servizio, ovvero sospende il lavoro nei suoi stabilimenti, uffici o aziende,
in modo da turbare la regolarità del servizio, è punito con la reclusione da sei
mesi a un anno e con la multa non inferiore a euro 516. I capi, promotori od
organizzatori sono puniti con la reclusione da tre a sette anni e con la multa
non inferiore a euro 3.098.
Agli effetti della legge penale (art. 359 c.p.), sono persone che esercitano un
servizio di pubblica necessità:
1) i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni
il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello
Stato, quando dell’opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi
(ad esempio l’avvocato iscritta all’albo);
2) i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un
pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità
mediante un atto della pubblica Amministrazione (ad esempio l’attività di
assicurazione contro i rischi della responsabilità civile nella circolazione di
veicoli, trattandosi di attività autorizzata in forza di un atto della pubblica
amministrazione e posta al servizio della collettività, oppure l’agenzia di
pratiche automobilistiche che rilasci un certificato sostitutivo della carta di
circolazione).
Ad esempio, l’ingiustificato inadempimento delle prestazioni proprie
del servizio farmaceutico da parte del titolare di una farmacia in turno di
reperibilità.
I DELITTI DEI PRIVATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE COMPRENDONO:
Capo II - Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione artt. 335
-356
Si configura contro chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o
ad un incaricato di un pubblico servizio, per costringerlo a fare un atto
contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio, è
punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per
costringere alcuna delle persone anzidette a compiere un atto del proprio
ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa.
Un esempio è il caso in cui gli agenti di polizia, intervenuti a seguito di una
lite tra figlio e madre, venivano aggrediti verbalmente e fisicamente appena
giunti sull’ingresso dell’abitazione;
E’ il reato di chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico
ufficiale, o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto
d’ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è
punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
A differenza però del delitto di violenza a pubblico ufficiale di cui all’art.
336, nella fattispecie in esame la violenza o minaccia accompagna il compimento
dell’atto da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico
servizio, non quindi lo precede. Il discrimine è quindi il fattore temporale,
per cui se la violenza o minaccia precede il compimento dell’atto da parte del
pubblico funzionario si configura l’ipotesi di cui all’art. 336, altrimenti, se
la condotta viene attuata durante il compimento dell’atto d’ufficio e allo scopo
di impedirlo, il soggetto risponderà di resistenza ex art. 337.
Ad esempio, la condotta di colui che si sottrae all’identificazione degli
operanti attraverso una complessa manovra di guida nel corso della quale, alla
simulazione di resa, era seguita una fuga dal parcheggio di un centro
commerciale, con concreta esposizione a rischi per le persone, oppure l’uso di
spintoni e movimenti volti a divincolarsi posti in essere dal soggetto fermato,
integrata appunto dalla coscienza e volontà di impedire e/o turbare l’attività
del pubblico ufficiale nello svolgimento del proprio atto d’ufficio;
Circostanze aggravanti (art. 339 p.c.c.) Le pene stabilite nei tre articoli
precedenti sono aumentate se la violenza o la minaccia è commessa nel corso di
manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero con armi, o da
persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo
simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete
associazioni, esistenti o supposte.
Se la violenza o la minaccia è commessa da più di cinque persone riunite,
mediante uso di armi anche soltanto da parte di una di esse, ovvero da più di
dieci persone, pur senza uso di armi, la pena è della reclusione da tre a
quindici anni e, nel caso preveduto dal capoverso dell’articolo 336, della
reclusione da due a otto anni
E’ il reato commesso da chiunque, fuori dei casi preveduti da particolari
disposizioni di legge [330, 331, 431, 432, 433], cagiona una interruzione o
turba la regolarità di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di
pubblica necessità. La pena è la reclusione fino a un anno. Quando la condotta
di cui al primo comma è posta in essere nel corso di manifestazioni in luogo
pubblico o aperto al pubblico, si applica la reclusione fino a due anni.
I capi, promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da uno a cinque
anni.
Ad empio integra la fattispecie in esame la condotta di un gruppo di
manifestanti che, dopo essersi introdotto nella sede di un ente pubblico
territoriale, impedisca di fatto per un apprezzabile periodo di tempo
l’espletamento del servizio di portineria o la condotta del proprietario di
un’autovettura che parcheggi la stessa in una posizione tale da impedire o
comunque ostacolare grandemente il transito di un’autoambulanza, determinando in
tal modo un ritardo nella prestazione del servizio.
A differenza del reato di interruzione di un servizio pubblico o di pubblica
necessità di cui all’art. 331 c.p., classificato come reato proprio per la
qualifica del soggetto che lo può realizzare (imprenditore, in senso lato),
nella fattispecie in esame ex art. 340 c.p. manca tale requisito soggettivo
(titolarità di un’impresa esercente il suddetto servizio);
E’ il reato commesso da chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in
presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico
ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue
funzioni. La pena è la reclusione da sei mesi a tre anni.
La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto
determinato, ma se la verità del fatto è provata o se per esso l’ufficiale a cui
il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo,
l’autore dell’offesa non è punibile (causa di non punibilità).
Il reato si considera, invece, estinto nel caso in cui l’imputato, prima del
giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia
nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza
della medesima;
L’art. 393 bis c.p. disciplina la speciale CAUSA DI NON PUNIBILITA’ DELLA
REAZIONE LEGITTIMA AGLI ATTI ARBITRARI DEI PUBBLICI UFFICIALI, applicabile ai
delitti previsti dagli artt. 336, 337, 338, 339, 339 bis, 341 bis, 342 e 343,
quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il
pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli,
eccedendo con atti arbitrari, i limiti delle sue attribuzioni.
Si configura quando chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli
art. 318, 319 e 319 – ter e nei reati di corruzione di cui all’articolo 322 bis,
sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di
un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322 bis,
indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio
patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico
ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, ovvero per remunerarlo in
relazione al compimento di un atto contrario ai doveri o all’omissione o al
ritardo di un atto del suo ufficio. La pena è la reclusione da un anno a quattro
anni e sei mesi.
Alla medesima pena soggiace chi indebitamente dà o promette denaro o altro
vantaggio patrimoniale.
La pena è aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé
o ad altri, denaro o altra utilità riveste la qualifica di pubblico ufficiale o
di incaricato di un pubblico servizio.
Le pene sono, altresì, aumentate se i fatti sono commessi in relazione
all’esercizio di attività giudiziarie, o per remunerare il pubblico ufficiale o
l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui
all’articolo 322 bis in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri
d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
Se i fatti sono di particolare tenuità, la pena è diminuita.
Vengono, quindi, punite le condotte di chi, vantando un’influenza, effettiva o
meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico
servizio, si faccia dare denaro ovvero altra utilità quale prezzo della propria
mediazione. Ad esempio, un ufficiale di polizia giudiziaria che, avendo ricevuto
una denuncia di reato da parte di un privato, aveva chiesto e ottenuto da
quest’ultimo la corresponsione di una somma di danaro con la quale, a suo dire,
avrebbe dovuto comprare il favore del sostituto procuratore della Repubblica che
aveva in carico il procedimento, onde far sì che lo stesso venisse portato
avanti con sollecitudine.
Trattasi di una fattispecie introdotta tra i “reati presupposto” dalla Legge n.
3/2019 (legge Anticorruzione 2019);
Punisce chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta
una speciale abilitazione dello Stato con la reclusione da sei mesi a tre anni e
con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.
La condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle cose
che servirono o furono destinate a commettere il reato e, nel caso in cui il
soggetto che ha commesso il reato eserciti regolarmente una professione o
attività, la trasmissione della sentenza medesima al competente Ordine, albo o
registro ai fini dell’applicazione dell’interdizione da uno a tre anni dalla
professione o attività regolarmente esercitata.
Si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro
15.000 a euro 75.000 nei confronti del professionista che ha determinato altri a
commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l’attività delle
persone che sono concorse nel reato medesimo.
Esempio è quello di un soggetto, che, spacciandosi per avvocato, aveva trattato
la liquidazione di un sinistro in nome e per conto di un cittadino che si era
inconsapevolmente affidato a lui o l’attività di colui, tipo gestore di una
palestra, che fornisce indicazioni alimentari personalizzate, sulla base della
valutazione delle caratteristiche fisiche di ogni cliente, caratterizzate da
puntuali prescrizioni e previsioni, senza però appartenere alle categorie
professionali che hanno specifiche competenze in tema di bisogni alimentari
(medico biologo, farmacista, dietologo);
È il reato di chiunque viola i sigilli, per disposizione della legge o per
ordine dell’autorità apposti al fine di assicurare la conservazione o l’identità
di una cosa. La pena è la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da euro
103 a euro 1.032. Se il colpevole è colui che ha in custodia la cosa, la pena è
della reclusione da tre a cinque anni e della multa da euro 309 a euro 3.098.
Ad esempio, l’asportazione dei sigilli dal veicolo sottoposto a fermo
amministrativo.
Se la violazione dei sigilli è resa possibile, o comunque agevolata, per colpa
di chi ha in custodia la cosa, questi è punito con la sanzione amministrativa
pecuniaria da euro 154 a euro 929 (art. 350 c.p.);
Punisce chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora corpi di
reato, atti, documenti, ovvero un’altra cosa mobile particolarmente custodita in
un pubblico ufficio, o presso un pubblico ufficiale o un impiegato che presti un
pubblico servizio. La pena è, qualora il fatto non costituisca un più grave
delitto, la reclusione da uno a cinque anni;
E’ il reato commesso da chiunque, con violenza o minaccia, o con doni, promesse,
collusioni o altri mezzi fraudolenti, impedisce o turba la gara nei pubblici
incanti [534c.p.c., 576-581 c.p.c., 264] o nelle licitazioni private per conto
di pubbliche Amministrazioni, ovvero ne allontana gli offerenti. La pena è la
reclusione da sei mesi a cinque anni e la multa da euro 103 a euro 1.032.
Se il colpevole è persona preposta dalla legge o dall’Autorità agli incanti o
alle licitazioni suddette, la reclusione è da uno a cinque anni e la multa da
euro 516 a euro 2.065.
Nel caso di licitazioni private per conto di privati, dirette da un pubblico
ufficiale o da persona legalmente autorizzata, le pene sono ridotte alla metà;
Per pubblici incanti deve intendersi la procedura attuata dalla P.A. per la
stipulazione di contratti con i privati e consistente in una gara aperta tra
diversi concorrenti per l’assegnazione del contratto a chi fa l’offerta più
vantaggiosa.
Per licitazione privata si intende la procedura attuata dalla P.A. per la
stipulazione di contratti con i privati e consistente in una gara aperta ad un
numero ristretto di concorrenti, considerati potenzialmente idonei a fornire la
prestazione dovuta, per l’assegnazione del contratto a chi fa l’offerta più
vantaggiosa.
Presupposto del reato è la pubblicazione del bando, non potendovi essere alcuna
consumazione, neanche nella forma tentata, prima di tale momento.
Ad esempio, è stata ritenuta la turbativa a carico del legale rappresentante di
una Srl, che partecipando ad alcune cene con altri imprenditori, metteva a punto
delle combine per aggiudicarsi le gare, predisponendo e pianificando il numero e
le società che dovevano concorrere alla gara di appalto relativa all’affidamento
dei servizi di pulizia e spurgo della rete di fognatura esistente nel territorio
del Comune di Milano, stabilendo la percentuale di ribasso da indicare nelle
singole offerte ed indicando le società che non dovevano partecipare o dovevano
essere estromesse a causa della presentazione di offerte contenenti
documentazione irregolare o sconti più bassi; Ciò a prescindere dal danno
causato alla Pa e dal raggiungimento dell’obiettivo, in quanto, come chiarito
dalla Cassazione, il turbamento si verifica quando la condotta collusiva
influisce soltanto nella regolarità della gara anche senza alterarne i
risultati.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque con violenza o
minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il
procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di
altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del
contraente da parte della pubblica amministrazione è punito con la reclusione da
sei mesi a cinque anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032
Si è ritenuta, ad esempio, configurabile la fattispecie in esame in un caso di
omessa pubblicità del bando di gara sulla Gazzetta Ufficiale e sui quotidiani a
diffusione locale, nonché sul sito del Ministero delle Infrastrutture e
dell’Osservatorio, allo scopo pratico di limitare la conoscenza e/o
conoscibilità del relativo bando ai possibili concorrenti, tanto che pervennero
solo tre offerte ed una sola ditta fu ammessa;
E’ il reato commesso da chiunque, per denaro, dato o promesso a lui o ad altri,
o per altra utilità a lui o ad altri data o promessa, si astiene dal concorrere
agli incanti o alle licitazioni indicati nell’articolo precedente. La pena è la
reclusione sino a sei mesi o la multa fino a euro 516;
Commesso da chiunque, non adempiendo gli obblighi che gli derivano da un
contratto di fornitura concluso con lo Stato, o con un altro ente pubblico,
ovvero con un’impresa esercente servizi pubblici o di pubblica necessità, fa
mancare, in tutto o in parte, cose od opere, che siano necessarie a uno
stabilimento pubblico o ad un pubblico servizio. La pena è la reclusione da sei
mesi a tre anni e con la multa non inferiore a euro 103, aumentata nel caso in
cui la fornitura concerne:
1) sostanze alimentari o medicinali, ovvero cose od opere destinate alle
comunicazioni per terra, per acqua o per aria, o alle comunicazioni telegrafiche
o telefoniche;
2) cose od opere destinate all’armamento o all’equipaggiamento delle forze
armate dello Stato;
3) cose od opere destinate ad ovviare a un comune pericolo o ad un pubblico
infortunio.
Se il fatto è commesso per colpa, si applica la reclusione fino a un anno,
ovvero la multa da euro 51 a euro 2.065. Le stesse disposizioni si applicano ai
subfornitori, ai mediatori e ai rappresentanti dei fornitori, quando essi,
violando i loro obblighi contrattuali, hanno fatto mancare la fornitura;
La norma sanziona la condotta di coloro i quali abbiano in essere un rapporto
contrattuale con lo Stato (o altri Enti Pubblici o servizi di pubblica
necessità), i quali, non adempiendo agli obblighi pattizi, fanno mancare
prodotti o opere essenziali.
Ad esempio, sussiste il reato in esame nel caso in cui, con riferimento a lavori
di costruzione di un viadotto, l’opera costruita, a differenza di quanto
previsto nel capitolato, non assicurava in condizione di sicurezza statica il
traffico di veicoli pesanti oppure quando ci si rende
inadempienti agli obblighi che derivavano dal contratto d’appalto
affidato da un’ Azienda Ospedaliera, eseguendo le opere con “approssimazione,
grossolanità, materiali di qualità scadente e non a regola d’arte” e rendendo
inutilizzabile un intero reparto;
Prevede che chiunque commette frode nell’esecuzione dei contratti di fornitura o
nell’adempimento degli altri obblighi contrattuali indicati nell’articolo
precedente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa non
inferiore a euro 1.032.
Ciò che distingue il reato di frode nelle pubbliche forniture dal meno grave
reato di inadempimento nelle pubbliche forniture è una condotta qualificabile in
termini di malafede contrattuale, consistente nel porre in essere un espediente
malizioso o ingannevole, idoneo a far apparire l’esecuzione del contratto
conforme agli obblighi assunti, non essendo sufficiente il semplice
inadempimento doloso del contratto. Pertanto, oltre agli inadempimenti che si
concretano nella consegna di cosa od opera completamente diversa da quella
pattuita, o di cosa od opera affetta da vizi o difetti, la norma di cui all’art.
356 c.p., richiede anche un comportamento, da parte del privato fornitore, non
conforme ai doveri di lealtà e moralità commerciale e di buona fede contrattuale
(la frode).
Ad esempio, integra il delitto di frode in pubbliche forniture la condotta del
legale rappresentante di un’impresa risultata aggiudicataria di un appalto per
il servizio di refezione scolastica che utilizzi ripetutamente materie prime
diverse da quelle previste nel capitolato speciale d’appalto oppure la consegna
a vari enti ospedalieri committenti dei materiali per uso ortopedico di marche
diverse da quella pattuita, senza avvisare i committenti pubblici della
sostituzione dell’oggetto della fornitura.
La mafia dove non te l'aspetti. Un paradosso tutto italiota. L’uso della
violenza minaccia o, comunque, persuasione o timore reverenziale per costringere
o promettere a dare/non dare una cosa (denaro, altra utilità anche non
patrimoniale), o fare/non fare una cosa, comporta una pena maggiore se commessa
da un Pubblico Ufficiale, uguale o minore se commessa a suo danno.
Concussione: Il Pubblico Ufficiale è punito con la reclusione da sei a dodici
anni.
Estorsione: Chiunque è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la
multa da euro 1.000 a euro 4.000.
Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale: è punito con la reclusione da sei
mesi a cinque anni per un atto contrario all'ufficio;
La pena è della reclusione fino a tre anni per un atto conforme all'ufficio.
Violenza privata: è punito con la reclusione fino a quattro anni.
Violenza o minaccia per costringere (chiunque) a commettere un reato: è punito
con la reclusione fino a cinque anni.
L'Ingiuria. Per quanto riguarda l'offesa a soggetto presente. Se l'ingiuria è
rivolta al cittadino o all'incaricato di Pubblico Servizio non è più reato, se è
rivolta al Pubblico Ufficiale, è REATO, ma solo in pubblico e nell'esercizio
delle sue funzioni, è oltraggio ed è punito con la reclusione da sei mesi a tre
anni salvo che si ripari il danno all'offeso ed all'ente di appartenenza. In
questo caso il reato è estinto.
La Diffamazione. Per quanto riguarda l'offesa a persona non presente. Se la
diffamazione è rivolta al cittadino è punito con la reclusione fino a un anno o
con la multa fino a milletrentadue euro. Se la persona offesa è il Pubblico
Ufficiale prima era punito con la reclusione da sei mesi a due anni. Oggi il
reato specifico è abrogato. Resta solo come aggravante del reato comune: le pene
sono aumentate.
Poi parliamo di Omertà. Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione. Se il pubblico
Ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio omette un atto del suo Ufficio
è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale. L'omessa denuncia di
reato da parte del pubblico ufficiale è punita con la multa da euro 30 a euro
516.
Omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio. L'omessa
denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio è punita con la multa
fino a euro 103.
Omissione di referto. L'omissione di referto è punito con la multa fino a
cinquecentosedici euro.
Poi parliamo di appropriazione di denaro o cosa mobile altrui per sé o per un
terzo.
Peculato. Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio da
quattro a dieci anni e sei mesi; è punito con la reclusione da sei mesi a tre
anni, quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della
cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.
Peculato mediante profitto dell'errore altrui. Il pubblico ufficiale o
l'incaricato di un pubblico servizio è punito con la reclusione da sei mesi a
tre anni.
Appropriazione indebita. Chiunque è punito, a querela della persona offesa, con
la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000.
Concussione. Dispositivo dell'art. 317 Codice Penale Il pubblico ufficiale o
l'incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi
poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un
terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
Estorsione. Dispositivo dell'art. 629 Codice penale Chiunque, mediante violenza
o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé
o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da
cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.
Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale. Dispositivo dell'art. 336 Chiunque
usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un
pubblico servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o
ad omettere un atto dell'ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da
sei mesi a cinque anni. La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto
è commesso per costringere alcuna delle persone anzidette a compiere un atto del
proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa.
Violenza privata. Dispositivo dell'art. 610 Codice penale Chiunque, con violenza
o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito
con la reclusione fino a quattro anni. La pena è aumentata se concorrono le
condizioni prevedute dall'articolo 339. Il delitto è punibile a querela della
persona offesa. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei
confronti di persona incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorre la
circostanza di cui al secondo comma.
Violenza o minaccia per costringere a commettere un reato. Dispositivo dell'art.
611 Codice penale Chiunque usa violenza o minaccia per costringere o determinare
altri a commettere un fatto costituente reato è punito con la reclusione fino a
cinque anni.
Ingiuria [ABROGATO] Dispositivo dell'art. 594 Codice penale Articolo abrogato
dal D.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7. [Chiunque offende l'onore o il decoro di una
persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino
a euro 516.Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante
comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla
persona offesa. La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a
milletrentadue euro, se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto
determinato. Le pene sono aumentate qualora l'offesa sia commessa in presenza di
più persone [595-599].]
Oltraggio a pubblico ufficiale. Dispositivo dell'art. 341 bis Codice penale.
Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone,
offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto
d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni è punito con la
reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata se l’offesa consiste
nell’attribuzione di un fatto determinato. Se la verità del fatto è provata o se
per esso l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo
l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile. Ove
l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante
risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti
dell’ente di appartenenza della medesima, il reato è estinto.
Diffamazione. Oltraggio a un pubblico ufficiale. [ABROGATO]Dispositivo dell'art.
341 Codice penale Articolo abrogato dall'art. 18, L. 25 giugno 1999, n. 205.
[Chiunque offende l'onore o il prestigio di un pubblico ufficiale, in presenza
di lui e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, è punito con la reclusione
da sei mesi a due anni. La stessa pena si applica a chi commette il fatto
mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritto o disegno,
diretti al pubblico ufficiale, e a causa delle sue funzioni. La pena è della
reclusione da uno a tre anni, se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto
determinato. Le pene sono aumentate quando il fatto è commesso con violenza o
minaccia, ovvero quando l'offesa è recata in presenza di una o più persone.
Diffamazione. Dispositivo dell'art. 595 Codice penale Chiunque, fuori dei casi
indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui
reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a
milletrentadue euro. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto
determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino
a duemilasessantacinque euro. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa
[57-58bis] o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico,
la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a
cinquecentosedici euro. Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo
o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in
collegio, le pene sono aumentate.
Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione. Dispositivo dell'art. 328 Codice penale Il
pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente
rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza
pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza
ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. Fuori dei casi
previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico
servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non
compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo,
è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032.
Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta
giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.
Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale. Dispositivo dell'art.
361 Codice Penale Il pubblico ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare
all'Autorità giudiziaria, o ad un'altra Autorità che a quella abbia obbligo di
riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue
funzioni, è punito con la multa da euro 30 a euro 516.La pena è della reclusione
fino ad un anno, se il colpevole è un ufficiale o un agente di polizia
giudiziaria [c.p.p. 57], che ha avuto comunque notizia di un reato del quale
doveva fare rapporto [c.p.p. 330-332, 347].Le disposizioni precedenti non si
applicano se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa.
Omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio. Dispositivo
dell'art. 362 Codice Penale L'incaricato di un pubblico servizio, che omette o
ritarda di denunciare all'Autorità indicata nell'articolo precedente un reato
del quale abbia avuto notizia nell'esercizio o a causa del servizio [c.p.p.
330-332, 347], è punito con la multa fino a euro 103.Tale disposizione non si
applica se si tratta di un reato punibile a querela della persona offesa [120]
né si applica ai responsabili delle comunità terapeutiche socio-riabilitative
per fatti commessi da persone tossicodipendenti affidate per l'esecuzione del
programma definito da un servizio pubblico.
Omessa denuncia aggravata. Dispositivo dell'art. 363 Codice penale Nei casi
preveduti dai due articoli precedenti, se la omessa o ritardata denuncia
riguarda un delitto contro la personalità dello Stato, la pena è della
reclusione da sei mesi a tre anni; ed è da uno a cinque anni, se il colpevole è
un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria [384; c.p.p. 57].
Omessa denuncia di reato da parte del cittadino. Dispositivo dell'art. 364
Codice penale Il cittadino, che, avendo avuto notizia di un delitto contro la
personalità dello Stato, per il quale la legge stabilisce [la pena di morte o]
l'ergastolo, non ne fa immediatamente denuncia all'Autorità indicata
nell'articolo 361, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da
euro 103 a euro 1.032.
Omissione di referto. Dispositivo dell'art. 365 Codice penale Chiunque, avendo
nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od
opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si
debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne all'Autorità indicata
nell'articolo 361, è punito con la multa fino a cinquecentosedici euro. Questa
disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a
procedimento penale [384].
Appropriazione indebita. Dispositivo dell'art. 646 Codice Penale Chiunque, per
procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa
mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela
della persona offesa, con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da
euro 1.000 a euro 3.000.Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di
deposito necessario, la pena è aumentata [Si procede d'ufficio, se ricorre la
circostanza indicata nel capoverso precedente o taluna delle circostanze
indicate nel numero 11 dell'articolo 61.
Peculato. Dispositivo dell'art. 314 Codice penale Il pubblico ufficiale o
l'incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o
servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa
mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci
anni e sei mesi. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni
quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e
questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.
Peculato mediante profitto dell'errore altrui. Dispositivo dell'art. 316 Codice
penale Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, il quale,
nell'esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell'errore altrui,
riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità,
è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è della reclusione da
sei mesi a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari
dell'Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000.
Regio decreto 18 giugno 1931 n. 773. Regolamento regio decreto 6 maggio 1940, n.
635. Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza
Il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (abbr. con l'acronimo TULPS),
nell'ordinamento giuridico italiano, è una legge del Regno d'Italia, in vigore
nella Repubblica Italiana.
Il relativo regolamento di attuazione - tuttora in vigore - venne emanato
col regio decreto 6 maggio 1940, n. 635.
Storia
All'inizio del XX secolo le leggi italiane sulla pubblica sicurezza vennero
raccolte nella forma del testo unico con il R.D. 6 novembre 1926 n. 1848, poi
approvato con regio decreto 18 giugno 1931 n. 773. Nel 1940 venne poi emanato il
relativo regolamento di esecuzione.
Dopo la nascita della Repubblica Italiana, l'atto normativo è rimasto vigente,
sebbene abbia avuto numerose modifiche e mutilato di molti articoli per ripetuti
interventi della Corte costituzionale e del legislatore, al fine di garantirne
compatibilità con il nuovo ordinamento repubblicano.
Materie disciplinate
Il testo regolamenta una serie di attività e autorizzazioni svolgibili e
ottenibili da parte di privati, nonché facoltà e attribuzioni alle autorità di
pubblica sicurezza - come le misure di prevenzione, le ordinanze prefettizie e
il potere di ammonizione - e relativi poteri e di controllo in certe materie
concesse principalmente alle questure e alle prefetture che rimettevano alla
loro discrezionalità la maggior parte delle attività umane al tempo praticate
con limiti considerabili poco garantisti, come ad esempio la facoltà di
sospensione di funzioni religiose. Dopo la caduta del regime fascista, sono
state apportate numerose modifiche con riforme legislative e sentenze
della Corte costituzionale (per esempio in materia di misure di prevenzione,
riunioni pubbliche, funzioni religiose, associazioni).
Contiene inoltre la disciplina normativa di un gran numero di materie,
soprattutto autorizzazioni amministrative, come norme in tema di licenza di
detenzione di armi e licenza di porto d'armi, ma anche disposizioni circa la
regolare ottemperanza agli obblighi scolastici dei figli, norme in tema di
attività di affittacamere e dei pubblici esercizi, vendita e somministrazione di
bevande alcoliche, alcune disposizioni in tema di spettacoli pubblici e della
prevenzione di infortuni, disciplina delle guardie giurate e degli istituti di
vigilanza privata, disciplina in tema di prostituzione, dell'attività
di investigatore privato al divieto di esercizio del "mestiere di ciarlatano".
Analisi e caratteristiche
Emanato durante il governo Mussolini, in un frangente di forte consolidamento
delle attività del controllo di polizia da parte del regime fascista, vi si
riflessero infatti gli indirizzi politici del momento, di più nitida
riconoscibilità nella parte in cui regolavano comportamenti in qualche misura
legati alla politica, e segnatamente all'attività politica dei singoli o a
quelle attività culturali che potessero sollecitarla o orientarla.
Il TULPS si caratterizzò essenzialmente come un testo di polizia amministrativa,
regolando in modo piuttosto dettagliato le modalità di controllo statale delle
attività dei privati che potessero rilevare ai fini della sicurezza pubblica e
dando compiuta definizione di molti punti lungamente dibattuti
in giurisprudenza e in dottrina. Esso fu, in questo senso, anche strumento di
riordino giacché differenze di impostazione od operative addirittura precedenti
all'unità d'Italia continuavano a causare differenza di trattamento delle
medesime fattispecie fra le diverse regioni italiane, sebbene inevitabilmente e
intenzionalmente fu principalmente strumentale alle esigenze del regime
autoritario al potere in quel periodo.
Sebbene la norma regolasse in modo minuzioso taluni aspetti, da un lato lasciava
poca discrezionalità circa l'individuazione di obblighi e divieti, dall'altro
era tuttavia molto generica in diversi punti, lasciando una certa di
discrezionalità alle autorità competenti in materia dei vari settori, nei quali
gli apparati statali, impersonati dai singoli funzionari, potevano applicare
interpretazioni di una certa libertà che si prestavano potenzialmente ad un
utilizzo influenzato dalla politica del tempo. Ad esempio, veniva stabilito il
divieto dell'esercizio del mestiere di ciarlatano, non dandone nel contempo
alcuna definizione, lasciando nella sostanza l'interpretazione
al funzionario preposto, chiamato a interpretare le attività altrui, o al
regolamento di esecuzione del 1940 (ad esempio l'art. 231 di detto regolamento a
proposito del mestiere di ciarlatano).
Testo Unico di Pubblica Sicurezza: brevi riflessioni su alcuni profili.
Articolo di Alessandro Amaolo. In via preliminare, si osserva come il diritto di
polizia, seppur frammentato in molti altri settori dell’ordinamento giuridico,
ricava a tutt’oggi una fra le sue basilari fonti operative in due testi
normativi quali il regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 e nel relativo
Regolamento di esecuzione regio decreto 6 maggio 1940, n. 635. Il primo regio
decreto si compone di ben 224 articoli mentre, invece, il secondo ovvero il
Regolamento di esecuzione si compone di 366 articoli.
In sintesi, si ritiene come una parte del diritto di polizia sia la proiezione
diretta delle norme contenute nei due testi sopraccitati.
I predetti testi normativi, a distanza di molti decenni dalla loro emanazione ed
entrata in vigore, rimangono ancora oggi un ottimo strumento normativo per le
funzioni ed i compiti che sono demandati a tutte le forze di polizia al fine di
prevenire le turbative e per garantire l’ordine, la pace sociale, così come la
sicurezza pubblica dell’intera collettività. Tuttavia, il legislatore è
intervenuto in numerose occasioni novellando ed abrogando alcune parti dei testi
normativi di cui sopra per rispondere alle nuove esigenze sociali ed alle
trasformazioni della società civile. Si osserva come la norma sia essa civile,
penale, amministrativa non vive isolata e cristallizzata nel decorso del tempo,
ma, piuttosto, attraverso le concezioni sociali dominanti di un popolo si evolve
e muta per allinearsi e per rispondere alle esigenze, alle necessità dei
cittadini e della società civile.
Tanto premesso e riportato, il punto di partenza della mia analisi viene
rappresentato proprio dall’art. 1 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 che
costituisce il primo nucleo irriducibile e la genesi di tutto il diritto di
polizia. Pertanto, nel primo comma del predetto articolo si afferma che
l’autorità di pubblica sicurezza veglia al mantenimento dell’ordine pubblico,
alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla tutela della
proprietà; cura l’osservanza delle leggi e dei regolamenti generali e speciali
dello Stato, delle province e dei comuni, nonché delle ordinanze delle autorità;
presta soccorso nel caso di pubblici e privati infortuni. In queste poche parole
si riscontra la necessità per il legislatore italiano di delineare, nello
specifico, il vero e proprio terreno operativo per tutte le forze di polizia
(Polizia di Stato, Polizie Locali, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza,
Corpo Forestale dello Stato etc..).
Ai sensi e per gli effetti del predetto articolo 1 del R.D. n. 773/1931, per
sicurezza dei cittadini (pubblica), si deve intendere un settore relativo alle
misure inerenti alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine
pubblico. Pertanto, le funzioni relative all’ordine pubblico ed alla sicurezza
pubblica restano ancora affidate in via esclusiva allo Stato. Invece, il
concetto di mantenimento dell’ordine pubblico è determinato da quei beni
giuridici fondamentali e da quegli interessi pubblici primari sui quali, secondo
la Carta costituzionale e le leggi ordinarie, si sostiene l’ordinata e civile
convivenza dei consociati nella comunità nazionale. Nei predetti beni giuridici
fondamentali rientrano l’integrità fisica e psichica delle persone, la
sicurezza, il rispetto, la garanzia di ogni altro bene giuridico di fondamentale
importanza per l’esistenza e lo svolgimento dell’ordinamento.
Il T.U.L.P.S. contiene, al suo interno, anche tutta una serie di fattispecie
penali incriminatrici di natura contravvenzionale che sono punite o con
l’arresto o con l’ammenda oppure con la sola ammenda, ma non contiene
fattispecie penali incriminatrici riconducibili a quelle che sono proprie dei
delitti; preciso, inoltre, che soltanto i delitti sono puniti con l’ergastolo,
la reclusione e la multa.
Si osserva come i reati contravvenzionali previsti e puniti dal T.U.L.P.S. hanno
la natura di reati di pericolo e sono muniti di un limitato allarme sociale per
la collettività.
Ciononostante, le nuove concezioni sociali dominanti ed i numerosi interventi
del legislatore hanno depenalizzato molti reati contravvenzionali in illeciti
amministrativi che vengono, adesso, puniti solo con la sanzione amministrativa
pecuniaria. In dettaglio, c’è stato un processo, tutt’ora in essere, di
rivalutazione dell'illecito amministrativo, già introdotto con la legge n.
689/1981 di depenalizzazione, considerato come uno strumento giuridico alquanto
idoneo dal legislatore per impedire e reprimere tutte quelle condotte munite di
minor allarme sociale.
Queste trasformazioni che ha subito il TULPS, nel corso del tempo, trovano
ulteriore conferma in una interessante sentenza della Cassazione penale, sezione
I, sentenza 24 gennaio 2001, n. 683 che afferma quanto segue: “La conduzione
senza licenza di un esercizio pubblico e la detenzione in esso, per la vendita,
di liquori e bevande alcoliche, già penalmente sanzionati, rispettivamente,
dall’art. 665 e dall’art. 686 c.p. (il primo dei quali soppresso ed il secondo
modificato dal D.L.vo 13 luglio 1994, n. 480), sono ora sanzionate in via
amministrativa, quali violazioni dell’art. 86 del T.U. delle leggi di pubblica
sicurezza, dall’art. 17 bis del medesimo T.U., introdotto dall’art. 3 del citato
D.Lgs. n. 480/1994. Alla stregua, poi, di quanto disposto dagli artt. 13 e 14
dello stesso provvedimento normativo, la sanzione amministrativa trova
applicazione, in luogo di quella penale, anche con riguardo ai fatti commessi
prima dell’entrata in vigore della depenalizzazione.
Restando in tema degli illeciti amministrativi e della depenalizzazione, è molto
interessante una sentenza della Cassazione civile, sezione I, 29 settembre 1999,
n. 10800 che stabilito quanto segue: “Allorquando sia contestata la violazione
dell’art. 8 T.U.L.P.S., a norma del quale le autorizzazioni di polizia per
l’esercizio del commercio sono personali e non possono essere trasmesse né dar
luogo a rapporti di rappresentanza, ed inflitta la sanzione di cui all’art. 17
bis T.U.L.P.S., la competenza sanzionatoria, ai sensi dell’art. 17 quinquies
legge citata, è del Prefetto, per il combinato disposto di tale norma e
dell’art. 18 della legge n. 689 del 1981; infatti quest’ultima norma dispone che
l’autorità competente ad emanare l’ordinanza ingiunzione è quella destinataria
del rapporto e il citato art. 17 quinquies prevede che il rapporto relativo alle
violazioni di cui all’art. 17 bis debba essere presentato al prefetto.
(Cassazione civile, sezione I, sentenza 29 settembre 1999, n. 10800).
In tema di autorizzazioni di polizia, si ritiene utile mettere in rilievo quanto
espresso dall’illustre giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato
nella sentenza della Sezione IV del 15 maggio 2000, n. 2717 e, cioè, che “Ai
sensi dell’art. 8 T.U.L.P.S. le autorizzazione di polizia sono personali e
quindi possono essere rilasciate esclusivamente a persone fisiche e non a
persone giuridiche”.
Orbene, in questo contesto si inserisce la figura giuridica ed istituzionale del
Prefetto che svolge un ruolo di primaria importanza all’interno del T.U.L.P.S in
quanto egli stesso è titolare di numerose funzioni ed adempimenti. Infatti,
quale autorità provinciale di pubblica sicurezza, il Prefetto ha la
responsabilità dell'ordine e della sicurezza pubblica e presiede il Comitato
provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica.
In sintesi, Il Prefetto:
rappresenta il governo a livello provinciale;
esercita tutte le funzioni dell'amministrazione periferica dello Stato non
esplicitamente conferite ad altri Uffici;
sovrintende alle rimanenti funzioni amministrative espletate dallo Stato,
coordinandole con quelle esercitate dagli Enti locali, direttamente o mediante
la presidenza della Conferenza permanente dei dirigenti degli Uffici statali;
vigila sulle Autorità amministrative operanti nella provincia e vi si
sostituisce, in caso di urgente necessità, utilizzando le misure del caso
(ordinanze di urgenza).
Il Prefetto è titolare proprio dal T.U.L.P.S., altresì, di un generale potere di
adottare ordinanze che si fonda sull’esigenza di intervenire per rimuovere le
cause che possono pregiudicare l’ordine e la sicurezza pubblica. Tuttavia, le
ordinanze che vengono adottate ed emanate dal Prefetto debbono rispettare sempre
i principi generali dell’ordinamento giuridico e, di conseguenza, debbono essere
conformi alla Costituzione e non debbono sconfinare il terreno – perimetro
riservato agli organi legislativi ed agli altri organi costituzionali. Infine,
le predette ordinanze prefettizie non debbono provvedere in materie che sono
disciplinate dalla legge.
All’interno del T.U.L.P.S., un ruolo di centrale e basilare importanza viene
rivestito proprio dall’art. 86 che offre la definizione ben precisa di pubblico
esercizio.
Infatti, il primo comma del predetto articolo afferma che “Non possono
esercitarsi senza licenza del Questore (ora del Comune, ai sensi dell’art. 19
del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616), alberghi, compresi quelli diurni, locande,
pensioni, trattorie, osterie, caffè o altri esercizi in cui si vendono al minuto
o si consumano vino, birra, liquori od altre bevande anche non alcooliche, né
sale pubbliche o per bigliardi o per altri giuochi leciti o stabilimenti di
bagni, ovvero locali di stallaggio o simili”.
Si ha vendita al minuto ogni qualvolta questa venga effettuata direttamente dal
venditore al consumatore senza intermediari. È, pertanto, ininfluente, ai fini
dell’applicazione dell’art. 86 T.U.L.P.S., che le bottiglie vendute siano
tappate o meno e che il vino o altra bevanda alcoolica sia asportata o consumata
sul posto.
Orbene, per pubblico esercizio s'intende, ai sensi della legge italiana, un
locale aperto al pubblico in cui si svolga un'attività di impresa avente come
oggetto la prestazione di servizi al pubblico. Ai sensi dell'art. 86 del Testo
Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (R.D. 18/06/31, n. 773), per l’apertura
di un pubblico esercizio è necessaria la licenza di polizia, oggi assorbita
dall'autorizzazione rilasciata ai sensi della legge speciale (vedi art. 152
Regolamento di Esecuzione del Testo Unico delle Leggi di pubblica Sicurezza –
R.D. 06/05/40, n. 635). Osservo, altresì, come la predetta richiesta di licenza,
da parte di un privato, per aprire un pubblico esercizio può anche essere
rigettata dalle competenti autorità, allorquando venga accertata la mancanza di
condizioni igienico-sanitarie oppure nel caso in cui la località o la casa non
si prestino ad essere convenientemente sorvegliate.
L'autorizzazione per l'apertura di un pubblico esercizio è ora rilasciata dai
Comune territorialmente competenti.
Il carattere di “pubblicità” di un esercizio, intesa come condizione di
fruibilità del locale, non è dato dall'apparenza esteriore, ma dalla possibilità
concreta per chiunque di accedervi liberamente e di poter fruire dei servizi
erogati.
Lo scopo della sottoposizione a controllo, mediante il regime
dell'autorizzazione di polizia, di talune attività imprenditoriali, è quello di
tutelare la sicurezza, l'incolumità, la moralità, l'igiene delle persone e dei
beni mobili che rispettivamente si affidano o vengono affidati a coloro i quali
gestiscono gli esercizi per la somministrazione di alimenti e bevande, esercizi
ricettivi ed esercizi che prestano servizi di varia natura.
Esistono, inoltre, diverse tipologie di esercizi pubblici, riconducibili
all’art. 86 del TULPS, ma soggetti a leggi speciali di settore:
a) Esercizi dell’attività ricettiva: alberghi, pensioni e locande, dormitori
privati, alberghi diurni e bagni pubblici (regolati dalla legge n. 135/01);
b) Esercizi della somministrazione alimenti e bevande: ristoranti, trattorie,
caffè e bar, osterie ed osterie con cucina, spacci di analcolici e di cibi cotti
con consumo sul posto (ora regolati dalla legge n. 287/91 e, in molte regioni,
da leggi regionali, emanate a seguito di attribuzione alle regioni della potestà
legislativa residuale in materia di commercio interno, ai sensi dell’art. 117,
comma 4, della Costituzione);
c) Esercizi dove si svolgono giochi leciti: sale pubbliche da biliardo e altri
giochi leciti (di cui agli artt. 86 e 110 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza
e alla legge n. 425/95);
d) Esercizi cosiddetti “Internet Point”: esercizi in cui vengono messi a
disposizione del pubblico apparecchi terminali utilizzabili per comunicazioni
telematiche - decreto legge 27 luglio 2005, n. 144, conv. in legge 31 luglio
2005, n. 155.
Anche una piscina, secondo il modesto parere dello scrivente, ancorché compresa
in un più vasto complesso (albergo, villaggio turistico, parco giochi, ecc...),
ha natura di stabilimento di bagni e costituisce un autonomo esercizio pubblico,
secondo la nozione dell’art. 86 T.U.L.P.S., perché aperta nei confronti di un
numero indiscriminato e sempre mutevole di persone. Ne consegue che la gestione
di un siffatto impianto è subordinata ad una autonoma licenza da parte
dell’autorità amministrativa.
In sintesi, si osserva come in conformità all’art. 86 Regio Decreto 18 giugno
1931, n. 773 è da ritenersi aperto al pubblico e quindi soggetto al rilascio di
una speciale licenza del Comune del luogo rispetto al quale, indipendentemente
dalla organizzazione di attività collaterale, sussiste la possibilità di
immediato e indiscriminato accesso da parte di chiunque anche se
subordinatamente al verificarsi di particolari condizioni, quale l’acquisto
della tessera di socio, e nel quale si esercita un’attività che configuri
l’ipotesi di pubblico esercizio.
Destinatario delle norme relative alla gestione degli esercizi pubblici, dettate
dagli artt. 86 e 110 T.U. leggi di P.S., è il titolare della licenza o
autorizzazione amministrativa. Questi, pertanto, fino a quando non sia
autorizzato alla gestione per rappresentanza resta obbligato ad osservare tutte
le prescrizioni imposte dall’autorità di polizia o dalle leggi ed a farle
osservare dai suoi dipendenti e, quindi, anche da colui al quale egli abbia
affidato di fatto l’esercizio dell’azienda. Il rappresentante di fatto, a sua
volta, risponderà delle violazioni, a titolo di concorso con il concessionario
della licenza.
Tuttavia, le licenze di esercizio pubblico, salve le condizioni particolari
stabilite dalla legge nei singoli casi, debbono essere negati a tutti coloro i
quali abbiano riportato alcuna delle condanne penali previste dagli artt. 11 e
92 del T.U.L.P.S. approvato con R.D. 18/6/1931 n. 773.
Più in dettaglio, l’art. 11 del T.U.L.P.S. permette all’autorità amministrativa
la valutazione, in qualsiasi momento, della sussistenza in capo alle persone
autorizzate delle condizioni cui è subordinato il rilascio, fino ad una nuova e
differente considerazione dei presupposti di fatto.
All’interno del T.U.L.P.S. viene in rilievo anche la figura del Questore che è,
nell'ordinamento amministrativo italiano, un'autorità provinciale di pubblica
sicurezza. Il Questore stabilisce le modalità tecnico-operative, utili al
raggiungimento degli obiettivi stabiliti dal Prefetto e dal comitato provinciale
per l'ordine e la sicurezza pubblica. Il rapporto fra le due autorità è ora
improntato al modello del "coordinamento", il cui potere spetta al Prefetto nei
confronti del Questore e dei Comandanti provinciali delle Forze di Polizia
(Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Locale, Corpo Forestale dello Stato
ecc.).
Inoltre, al Questore competono attività in materia di autorizzazioni di polizia,
detenzione di armi, espatrio ed immigrazione; egli è quindi il titolare di tutto
il complesso di uffici di Questura.
Infatti, il Questore, ai sensi e per gli effetti dell’art. 100 T.U.L.P.S., oltre
i casi indicati dalla legge, può sospendere la licenza di un esercizio nel quale
siano avvenuti tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone
pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l’ordine
pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei
cittadini. Inoltre, l’ultimo comma del predetto articolo afferma che, qualora si
ripetano i fatti che hanno determinata la sospensione, la licenza può essere
revocata. In particolare, la Cassazione civile, sezione III, sentenza 18
febbraio 1997, n. 1501 ha stabilito che: “Se vi è pericolo di crollo del locale
adibito ad esercizio pubblico, la licenza è revocabile, pur se l’ipotesi non è
espressamente contemplata nel Tulps, onde tutelare la pubblica incolumità”.
Preciso, altresì, che l’art. 100 del T.U.L.P.S. è applicabile nei confronti di
tutti gli esercizi pubblici e non soltanto a quelli per la somministrazione di
alimenti e bevande.
Tuttavia, la norma riguarda unicamente gli esercizi pubblici e non può essere
applicata ad un locale di pubblico spettacolo o ad altro locale commerciale
diverso da un esercizio pubblico. Si osserva come i poteri previsti dall’art.
100 comma 1 Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773, in tema di revoca e
sospensione delle licenze di commercio per motivi di ordine pubblico e di
pubblica sicurezza, non rientrano tra i compiti di polizia amministrativa
trasferiti alle Regioni ed ai Comuni ai sensi del D.P.R. n. 616 del 1977,
venendo in considerazione competenze e funzioni relative ad ambiti che erano e
restano riservati allo Stato, in quanto attinenti alla salvaguardia dell’ordine
e della sicurezza pubblici. In relazione a tali premesse, deve ritenersi tuttora
esistente il potere del Questore di sospendere la licenza di un esercizio che
sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose, in quanto trattasi di
esercizio di un potere a salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica
(Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza 25 novembre 2003, n. 7777).
In ultima analisi, seppur restaurati ed innovati nel tempo da innumerevoli
interventi normativi del legislatore e della Corte costituzionale, sia il regio
decreto 18 giugno 1931, n. 773 che il relativo Regolamento di esecuzione, regio
decreto 6 maggio 1940, n. 635, conservano a tutt’oggi un ruolo guida (cd.
leading role) di fondamentale importanza per la vita sociale delle persone e per
molti differenti servizi di polizia amministrativa e giudiziaria, così come per
molte autorizzazioni amministrative di polizia.
Concludo, facendo osservare ai lettori che questo mio breve e piccolo contributo
giuridico ha la finalità di mettere in evidenza soltanto alcuni fra i tanti ed
innumerevoli profili ed aspetti che connotano il Testo Unico delle Leggi di
Pubblica Sicurezza ed il suo Regolamento di esecuzione.
(Altalex, Nota di Alessandro Amaolo)
Il Questore, con la riforma della Polizia operata dalla legge 1º aprile n. 121
del 1981, non dipende più dal Prefetto. Prima della riforma era espressamente
stabilito "Il Questore è alle dipendenze del Prefetto". Ora invece il Questore è
Autorità Provinciale tecnica di Pubblica sicurezza con compiti distinti dal
Prefetto, che resta l'Autorità provinciale "politica" di Pubblica sicurezza.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Agente di pubblica sicurezza è una qualifica attribuita in Italia a soggetti
appartenenti all'autorità di pubblica sicurezza.
I soggetti
Gli agenti di pubblica sicurezza sono definiti tali ai sensi dagli articoli 17
18 e 43 del regio decreto 31 agosto 1907, n. 690, che elenca i vari tipi,
stabilendo che gli appartenenti alla Polizia di Stato, all'Arma dei Carabinieri,
alla Guardia di Finanza, alla Polizia Penitenziaria e, nelle regioni a statuto
speciale, ai vari Corpi Forestali regionali sono agenti in servizio
permanente. Sono inoltre agenti anche i membri della Polizia locale, Municipale
e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco.
Sono altresì da considerarsi tali gli agenti, i sottufficiali e gli ufficiali
delle Compagnie Barracellari della Regione Autonoma della Sardegna, sulla base
del Regio Decreto n. 403 del 14 luglio 1898 e della Legge Regionale n.25 del 15
luglio 1988. Sono pure agenti di pubblica sicurezza le Guardie Boschive,
Campestri, Daziarie ed altre dei Comuni nominate in forza di regolamenti,
riconosciute dalle forme di legge e nominate dal Prefetto, come stabilito dal
R.D.L. 30 giugno 1914 n. 563 che disciplinava l'art. 44 del testo unico della
legge sugli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, anche queste guardie sono
munite della qualifica secondo la legge 2 luglio 2002 n. 133.
Infine, ai sensi del decreto-legge 6 maggio 2002, n. 83, convertito con
modificazioni dalla L. 2 luglio 2002, n. 133 (in G.U. 06/07/2002, n.157), la
qualifica di agente di pubblica sicurezza può essere conferita, in modo
eccezionale e temporaneo, ai conducenti di veicoli in uso ad alte personalità
che rivestono incarichi istituzionali di governo. Per quanto riguarda i
requisiti e le modalità di attribuzione della qualifica, fonte è anche il regio
decreto 6 maggio 1940 n. 635 ("Regolamento per l'esecuzione del Testo Unico 18
giugno 1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza"). Ai sensi del
decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 ("Misure urgenti in materia di sicurezza
pubblica") - convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125 - anche il personale in
servizio presso le forze armate italiane può essere chiamato a svolgere funzioni
di polizia, attribuendo agli appartenenti la qualifica di agente di pubblica
sicurezza, solo relativamente ad attività relative al mantenimento dell'ordine
pubblico, e con alcune limitazioni.
L'attribuzione della qualifica
L'attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza è disciplinata
dal R.D. 635/1940 che all'art. 4 bis elenca i requisiti:
essere maggiorenni;
essere in possesso del diploma di scuola media inferiore;
non avere subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo e non essere
stato sottoposto a misura di prevenzione;
avere il godimento dei diritti civili e politici.
Lo stesso art. 4-bis dispone che:
«Sono fatti salvi gli ulteriori requisiti richiesti per l'accesso allo specifico
impiego per il quale è richiesta la qualità di agente di pubblica sicurezza.»
e inoltre:
«All'atto dell'attribuzione della qualità di Agente di pubblica sicurezza,
l'interessato è tenuto a prestare giuramento, in deroga all'art. 231 del decreto
legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 davanti al prefetto o suo delegato, con la
seguente formula: "Giuro di essere fedele alla Repubblica italiana e al suo
Capo, di osservare lealmente le leggi dello Stato e delle regioni e di adempiere
alle funzioni affidatemi con coscienza e diligenza e con l'unico intento di
perseguire il pubblico interesse.
L'attribuzione della qualità di Agente di pubblica sicurezza è revocata, previa
contestazione e nel rispetto de principio del contraddittorio, qualora venga a
mancare taluno dei requisiti prescritti, ed è sospesa nei casi in cui la legge
prevede la sospensione dal servizio o, comunque, quando nei confronti
dell'interessato è adottato un provvedimento restrittivo della libertà
personale.
Le disposizioni del presente articolo, si osservano in tutti i casi in cui
disposizioni di legge o di regolamento rimettono all'autorità amministrativa il
riconoscimento della qualità di Agente di pubblica sicurezza, fatte salve le
disposizioni in vigore per la polizia municipale.»
Il decreto-legge 6 maggio 2002 n. 83, convertito in legge 2 luglio 2002 n. 133,
ha così stabilito nel regolamento per l'esecuzione del T.U. leggi di pubblica
sicurezza, per l'attribuzione della qualità di agente di pubblica sicurezza:
L'art. 5 della citata norma afferma che:
«La nomina ad agente di pubblica sicurezza è conferita ai sensi dell'articolo 43
del testo unico della legge sugli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, di
cui al regio decreto 31 agosto 1907, n. 690 previo accertamento del possesso dei
requisiti di cui all'articolo 4-bis del regolamento per l'esecuzione del testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 6 maggio 1940,
n. 635.»
Il porto d'armi
Riguardo al porto d'armi, l'art. 73 del R.D. 6 maggio 1940, n. 635 stabilisce:
«Il Capo della polizia, i Prefetti, i viceprefetti, gli ispettori provinciali
amministrativi, gli Ufficiali di pubblica sicurezza, i Pretori e i magistrati
addetti al pubblico Ministero o all'ufficio di istruzione, sono autorizzati a
portare senza licenza le armi di cui all'art. 42 della legge.
Gli agenti di pubblica sicurezza, contemplati dagli artt. 17 e 18 della legge 31
agosto 1907, numero 690, portano, senza licenza, le armi di cui sono muniti, a
termini dei rispettivi regolamenti.
Gli agenti di pubblica sicurezza, riconosciuti a norma dell'art. 43 della legge
31 agosto 1907, numero 690, o di disposizioni speciali, possono portare, senza
licenza, le armi di cui al capoverso precedente, soltanto durante il servizio o
per recarsi al luogo ove esercitano le proprie mansioni e farne ritorno, sempre
quando non ostino disposizioni di legge.
La facoltà di portare le armi senza licenza è attribuita soltanto ai fini della
difesa personale.»
Gli art. 42 e 43 del R.D. 635/1940 prevedono le ipotesi speciali per alcuni tipi
di manifestazioni pubbliche, durante le quali è vietato portare munizioni.
L'attribuzione della qualifica per la Polizia Locale
I corpi e servizi di Polizia locale restano disciplinati dalla legge quadro 7
marzo 1986 n. 65, ed in particolare dall'art. 5, ai quali il Prefetto conferisce
al suddetto personale, previa comunicazione del sindaco o del presidente della
provincia (per la polizia provinciale), la qualifica di agente di pubblica
sicurezza, dopo aver accertato il possesso dei seguenti requisiti:
godimento dei diritti civili e politici;
non aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere
stato sottoposto a misura di prevenzione;
non essere stato espulso dalle forze armate italiane o da corpi militarmente
organizzati o destituito dai pubblici uffici.
Il prefetto, sentito il sindaco o il presidente della provincia, dichiara la
perdita della qualità di agente di pubblica sicurezza qualora accerti il venir
meno di alcuno dei suddetti requisiti. Nell'esercizio delle funzioni di agente
di pubblica sicurezza, il personale della polizia locale, municipale e
provinciale è a disposizione rispettivamente del sindaco o del presidente della
provincia e dipende operativamente dalla competente autorità di pubblica
sicurezza, nel rispetto di eventuale protocollo d'intesa stabilito fra questa
autorità e il sindaco o il presidente della provincia. I corpi di polizia locale
svolgono funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza e partecipano ai vari servizi
di ordine pubblico sotto le dipendenze funzionali dell'autorità di pubblica
sicurezza.
Gli addetti al servizio di polizia locale ai quali è conferita la qualità di
agente di pubblica sicurezza possono, previa deliberazione in tal senso del
consiglio, portare, senza licenza, le armi di cui possono essere dotati in
relazione al tipo di servizio nei termini e nelle modalità previsti dai
rispettivi regolamenti, anche fuori dal servizio, purché nell'ambito
territoriale dell'ente di appartenenza e nei casi previsti dalla normativa. La
giurisprudenza, del resto, è consolidata circa le funzioni di pubblica sicurezza
della polizia municipale: la caratterizzazione di ausiliarietà è legata in via
precipua alla funzione in senso generale, e non si riferisce alla figura del
singolo agente di polizia municipale (Cons. Stato, IV, 30 settembre 2002 n.
4982).
I vigili del fuoco
Il personale del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, sia in servizio
permanente che volontario, nell'esercizio delle proprie funzioni gode della
qualifica di agente di pubblica sicurezza, secondo l'art. 8 comma 1 della legge
27 dicembre 1941 n. 1570 ancora vigente anche dopo l'avvenuto riassetto del
Corpo operato dall'art. 35 del decreto-legge 8 marzo 2006 n. 139.
Le compagnie barracellari
Il personale delle Compagnie Barracellari, nell'esercizio delle proprie funzioni
è titolare della qualifica di agente di pubblica sicurezza conferita dal
Prefetto e sulla base del Regio Decreto n. 403 del 14 luglio 1898 e della Legge
Regionale n.25 del 15 luglio 1988. A differenza degli altri corpi di polizia
locale, non si può essere barracello se la Prefettura non conferisce la
qualifica di agente di pubblica sicurezza, per la quale è necessario il possesso
dei seguenti requisiti:
maggiore età;
godimento dei diritti civili e politici;
non aver subito condanna a pene detentive per delitto non colposo e non essere
stato sottoposto a misura di prevenzione;
non essere stato espulso dalle forze armate o da corpi militarmente organizzati
o destituito dai pubblici uffici;
Il Prefetto dichiara la perdita della qualità di agente di pubblica sicurezza
qualora accerti il venir meno di alcuno dei suddetti requisiti. Nell'esercizio
delle funzioni di agente di pubblica sicurezza, il barracello è a disposizione
del Sindaco e dipende operativamente dalla competente autorità di pubblica
sicurezza, nel rispetto dei protocolli d'intesa stabiliti fra questa autorità e
il Sindaco. l barracelli, svolgono funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza e
possono partecipare ai vari servizi di ordine pubblico sotto le dipendenze
funzionali dell'autorità di pubblica sicurezza.
I "barracelli" portano, senza licenza, le armi di cui possono essere dotati nei
termini e nelle modalità stabilite nel Decreto Prefettizio di nomina ad agente
di pubblica sicurezza, limitatamente al servizio ed esclusivamente nell'ambito
territoriale dell'ente di appartenenza e nei casi previsti dalla normativa
vigente.
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Legge 1° aprile 1981, n. 121 - Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della
pubblica sicurezza.
L'autorità di pubblica sicurezza, nell'ordinamento giuridico italiano, è una
entità che si occupa di ordine pubblico e di pubblica sicurezza. Compito
dell'autorità di pubblica sicurezza è dunque quello di garantire le condizioni
di pace sociale, prevenendo i fattori che potenzialmente la minacciano ed
eliminando gli stati di turbativa già in atto.
Caratteristiche
L'autorità di pubblica sicurezza si articola a livello nazionale, provinciale e
locale.
Il Ministro dell'interno è autorità di pubblica sicurezza, a norma dell'art. 1
della legge 1º aprile 1981, n. 121, la quale gli ha attribuito anche la
responsabilità della tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica. Ai sensi
dell'art. 1 del Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773, nonché dell'art. 1 del
Regio Decreto 6 maggio 1940, n. 635 (Regolamento per l'esecuzione del Testo
Unico 18 giugno 1931, n. 773 delle Leggi di Pubblica Sicurezza") essa è
"provinciale e locale":
Le attribuzioni dell'autorità provinciale di pubblica sicurezza sono esercitate
dal prefetto e dal questore. Le attribuzioni dell'autorità locale di pubblica
sicurezza sono esercitate dal capo dell'ufficio di pubblica sicurezza del luogo
(il questore nel capoluogo di provincia e i funzionari preposti ai Commissariati
di Pubblica Sicurezza negli altri comuni) o, in mancanza, dal sindaco in qualità
di ufficiale del Governo, ai sensi del TUEL.
Competenze e funzioni
Ai sensi dell'art. 1 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza) essa: «veglia al mantenimento dell'ordine pubblico, alla
sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla tutela della proprietà;
cura l'osservanza delle leggi e dei regolamenti generali e speciali dello Stato,
delle province e dei comuni, nonché delle ordinanze delle autorità; presta
soccorso nel caso di pubblici e privati infortuni"; "per mezzo dei suoi
ufficiali, e a richiesta delle parti, provvede alla bonaria composizione dei
dissidi privati.»
Assetto organizzativo
L'art. 2 della legge n. 121/1981 prevede che il Ministro dell'interno espleti i
propri compiti in materia di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica
avvalendosi dell'Amministrazione della pubblica sicurezza.
Struttura
Secondo l'art. 3 della legge 121/1981, l'Amministrazione della pubblica
sicurezza è costituita:
dal personale del Dipartimento della pubblica sicurezza e degli altri uffici,
istituti e reparti in cui lo stesso si articola;
dalle autorità provinciali di pubblica sicurezza e dal personale da esse
dipendente;
dalle autorità locali di pubblica sicurezza;
dagli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza che operano sotto la direzione
delle autorità centrali e provinciali di pubblica sicurezza.
Il prefetto dipende gerarchicamente dal Ministro dell'interno, in via diretta,
mentre il questore dipende gerarchicamente dal Capo della polizia - direttore
generale della pubblica sicurezza, il quale è preposto al Dipartimento della
pubblica sicurezza e dipende dal Ministro.
Il sindaco, quando opera come autorità locale di pubblica sicurezza, dipende
funzionalmente dal prefetto e dal questore. Quando eccezionali esigenze di
servizio lo richiedono, il prefetto, o il questore su autorizzazione del
prefetto, può inviare funzionari della Polizia di Stato nei comuni dove non vi è
un commissariato, sospendendo la competenza del sindaco come autorità locale di
pubblica sicurezza.
Ufficiali e agenti di pubblica sicurezza
Le qualifiche di ufficiale e di agente di pubblica sicurezza sono contemplate
nel regio decreto 31 agosto 1907, n. 690 (Testo unico della legge sugli
ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza) che, per quanto tuttora vigente, va
letto alla luce delle rilevanti modifiche nel frattempo apportate
all'ordinamento delle varie forze di polizia.
È attribuita la qualifica di ufficiale di pubblica sicurezza:
agli appartenenti ai ruoli dei commissari e dei dirigenti della Polizia di Stato
(art. 39, comma 3, della legge 121/1981) che, ai sensi dell'art. 12 del R.D.
690/1907, sono considerati permanentemente in funzione (servizio);
agli ufficiali dell'Arma dei Carabinieri sono riconosciute le medesime
attribuzioni e prerogative dell'Ufficiale di P.S. meno quelle di stretta Polizia
Amministrativa. (R.D. 14 giugno 1934 n.1169 Art. 51. Gli ufficiali dei
carabinieri hanno le stesse attribuzioni e prerogative degli ufficiali di
pubblica sicurezza ad eccezione delle mansioni di polizia prettamente
amministrativa. Quando, nella esplicazione di mansioni inerenti all’esercizio di
funzioni devolute dalle leggi di polizia agli ufficiali di P. S. concorrono
contemporaneamente ufficiali dei carabinieri e funzionari di P. S., la direzione
del servizio è demandata a questi ultimi.
ai Comandanti dei Reparti navali e delle unità navali della Guardia di Finanza,
come previsto dall’art. 8-bis del D.Lgs. 68/01.
ai sindaci dei comuni in cui non vi sono ufficiali di pubblica sicurezza (art. 6
del r.d. 690/1907).
Gli appartenenti alla carriera dei funzionari del Corpo di Polizia penitenziaria
rivestono la qualifica di Sostituto Ufficiale di P.S. ai sensi dell'art. 6 del
decreto legislativo 21 maggio 2000, n.146.
ai sostituti commissari e agli ispettori superiori della Polizia di Stato,
nonché ai luogotenenti e marescialli maggiori dell'Arma dei Carabinieri.
Costoro, tuttavia esercitano le funzioni dell'ufficiale di pubblica sicurezza
solo in caso di temporanea assenza o impedimento del medesimo.
Il codice dell'ordinamento militare, a seguito della riforma dell’art. 179 del
C.O.M. D.Lgs. 29 maggio 2017, n. 95, ha previsto che i luogotenenti ed i
marescialli maggiori dell'Arma dei Carabinieri rivestono la qualifica permanente
di sostituti ufficiali di pubblica sicurezza, pertanto, per l'Arma dei
Carabinieri oggi sono individuate tre qualifiche permanenti di P.S. e cioè
quelle di: ufficiale dei CC che ha le medesime attribuzioni e prerogative
dell’ufficiale di P.S. meno le competenze di Polizia Amministrativa, sostituto e
agente.
È invece attribuita la qualifica di agente di pubblica sicurezza:
agli agenti, sovrintendenti e ispettori, fino alla qualifica di ispettore capo,
della Polizia di Stato (art. 17 del R.D. 690/1907, che parla di "guardie di
città", e art. 39, comma 2, della legge 121/1981);
ai militari, brigadieri e marescialli fino al grado di Maresciallo Capo,
dell'Arma dei Carabinieri;
a tutti gli appartenenti alla Guardia di Finanza, alla Polizia Penitenziaria e,
nelle regioni a statuto speciale, ai vari Corpi Forestali regionali (art. 18 del
r.d. 690/1907).
al personale militare delle Forze armate italiane (esclusi gli appartenenti
all'Arma dei Carabinieri), ufficiali e non, dell'Esercito Italiano, della Marina
Militare e dell'Aeronautica Militare che sono impegnati nell'Operazione Strade
sicure secondo la legge 125/2008.
Al personale del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, nell'esercizio delle sue
funzioni, è riconosciuta qualifica di agente di pubblica sicurezza (art. 8, 1°
comma, della legge 27 dicembre 1941, n. 1570, mantenuto in vigore dall'art. 35
del decreto-legge 8 marzo 2006, n. 139, sul riassetto del Corpo).
Ai sensi dell'art. 5 della legge 7 marzo 1986, n. 65, al personale della polizia
municipale e della polizia provinciale può essere attribuita ad personam la
qualifica di agente di pubblica sicurezza mediante decreto del prefetto, su
richiesta del sindaco o, rispettivamente, del presidente della provincia e
previo accertamento del possesso dei requisiti di legge.
Nelle regioni a statuto speciale
Nelle regioni a statuto speciale il sistema delle autorità di pubblica sicurezza
sopra illustrato presenta delle variazioni, in relazioni alle particolari
competenze degli organi regionali.
In Trentino-Alto Adige, dove non vi sono i prefetti, i presidenti delle province
autonome esercitano le attribuzioni spettanti all'autorità di pubblica sicurezza
in materia di industrie pericolose, di mestieri rumorosi ed incomodi, esercizi
pubblici, agenzie, tipografie, mestieri girovaghi, operai e domestici, malati di
mente, intossicati e mendicanti, minori di anni diciotto. Le altre competenze
che le leggi di pubblica sicurezza devolvono al prefetto sono affidate ai
questori (art. 20 dello Statuto regionale).
Nella Valle d'Aosta, dove la provincia è stata soppressa e non vi è quindi un
prefetto, il Presidente della Regione per delegazione del Governo provvede al
mantenimento dell'ordine pubblico, secondo le disposizioni del Governo, verso il
quale è responsabile, mediante reparti di polizia dello Stato e di polizia
locale. In casi eccezionali, quando la sicurezza dello Stato lo richieda, il
Governo assume direttamente la tutela dell'ordine pubblico (art. 44 dello
Statuto regionale).
In Sicilia al mantenimento dell'ordine pubblico provvede il Presidente della
Regione a mezzo della polizia dello Stato, la quale nella Regione dipende
disciplinarmente, per l'impiego e l'utilizzazione, dal Governo regionale. Il
Presidente della Regione può anche chiedere l'impiego delle forze armate dello
Stato. Tuttavia, il Governo può assumere la direzione dei servizi di pubblica
sicurezza, a richiesta del Governo regionale congiuntamente al Presidente
dell'Assemblea e, in casi eccezionali, di propria iniziativa, quando siano
compromessi l'interesse generale dello Stato e la sua sicurezza (art. 31 dello
Statuto regionale).
In Sardegna il Governo può delegare alla Regione le funzioni di tutela
dell'ordine pubblico. In tal caso, queste sono esercitate, nell'ambito delle
direttive fissate dal Governo, dal Presidente della Regione, che, a tale scopo,
può richiedere l'impiego delle forze armate (art. 49 dello Statuto regionale)
Nessuna attribuzione in ordine alla pubblica sicurezza spetta invece alla
Regione Friuli-Venezia Giulia, dove operano regolarmente i prefetti nelle
quattro ex province.
La legge 7 marzo 1986, n. 65 ("Legge quadro sull'ordinamento sulla polizia
municipale")
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Polizia municipale
Polizia locale
Vigili urbani (obsoleto)
Organi di polizia locale ad ordinamento civile con competenza limitata al
territorio del territorio di appartenenza
Compiti
Pubblica sicurezza
Polizia giudiziaria
Polizia amministrativa
Polizia stradale
Polizia ambientale
Polizia edilizia
Polizia commerciale
Polizia ambientale
Polizia di prossimità
Polizia mortuaria
Numero di emergenza
Variabile per ogni comune, il servizio è collegato al 112
Sede Ente locali italiani
Dimensione Circa 26.000 su tutto il territorio nazionale (2022)
Soprannome
La Locale
La Municipale
Vigili urbani
Patrono San Sebastiano
Motto
Ars nostra vis urbis
Colori
Differenti in base alla Regione di appartenenza
Parte di
Comuni italiani
Unione di comuni
Comunità montane
La polizia municipale o polizia locale o nel linguaggio colloquiale vigili
urbani: è una tipologia di polizia locale in Italia a ordinamento civile per la
tutela della sicurezza urbana, ordine pubblico, polizia giudiziaria, polizia
stradale, polizia edilizia, ambientale e annonaria che può essere costituito e
gestito da un comune italiano, sia in forma autonoma oppure consorziata (come
nel caso dell'unione di comuni).
Storia
Dopo l'unità d'Italia il decreto Rattazzi del 1859 sancì la possibilità per gli
enti locali di dotarsi di proprie guardie cittadine, per vigilare sul rispetto
dei propri atti normativi con l'autorizzazione dei governatori provinciali che
potevano anche rifiutare la costituzione dei servizi. Nel 1907 Giovanni
Giolitti, ministro dell'interno del governo Giolitti III, provvide a regolare la
materia riunendo le “guardie di città” nel R.D. 31 agosto 1907, n. 690 dando la
possibilità ai comuni italiani di poter provvedere alla vigilanza dei
regolamenti locali a mezzo proprio personale che doveva essere preventivamente
riconosciuto in possesso di titoli e requisiti necessari. Lo stesso art. 19 del
testo unico del regio decreto n. 690/1907 prevedeva che con l'autorizzazione
del Ministro dell'interno i comuni potessero costituire un servizio di polizia
municipale costituito da ufficiali, sottufficiali e guardie municipali per i
quali non erano previsti i requisiti delle altre "guardie". Tali soggetti erano
preposti all'esecuzione dei provvedimenti straordinari relativi all'igiene,
all'edilizia e alla polizia locale e dipendeva esclusivamente dal sindaco. Oltre
queste "guardie municipali" vi erano le "guardie dei comuni" la cui disciplina
era sottoposta ai prefetti e il servizio era disposto dai questori.
Il ventennio fascista
Durante il ventennio fascista, con diversi regi decreti-legge (R.D.L. 18 ottobre
1925, n. 1846, R.D.L. 9 marzo 1936, n. 472 e R.D.L. 20 febbraio 1939, n. 326)
vennero istituite le divisioni speciali di pubblica sicurezza per le città
di Roma, Napoli e Palermo con la conseguente soppressione dei Corpi dei vigili
urbani e dei guardiani dei giardini. Tali agenti di pubblica sicurezza, definiti
ai sensi di legge "guardie metropolitane" provenienti dal "Corpo degli agenti di
pubblica sicurezza" e dall'esercito, assunsero le funzioni di polizia urbana e
di polizia campestre. Gli ufficiali, i sottufficiali e i vigili urbani dei corpi
dei vigili urbani e dei guardiani dei giardini di queste tre città in possesso
dei requisiti necessari furono ammessi alla selezione per il Corpo degli Agenti
di pubblica sicurezza, come stabilito dal regio decreto n. 690/1907.
Il secondo dopoguerra e la legge n. 65/1986
Solo nell'immediato secondo dopoguerra italiano furono ricostituiti i vari corpi
dei vigili urbani e dei guardiani dei giardini e soppresse le divisioni speciali
di pubblica sicurezza e le guardie metropolitane. Con lo sviluppo esponenziale
della circolazione automobilistica nei centri urbani, ai vigili urbani e ai
guardiani dei giardini, sotto la denominazione originaria di Guardie municipali
che riassumeva tutti i Corpi di polizia urbana, venne anche affidato un ruolo di
primo piano nella regolamentazione e nel controllo del traffico nei centri
abitati. Alla luce del trasferimento di competenza agli enti locali con il
D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, che specifica all'art. 18 polizia locale urbana e
rurale:
«Le funzioni amministrative relative alla materia «polizia locale urbana e
rurale» concernono le attività di polizia che si svolgono esclusivamente
nell'ambito del territorio comunale e che non siano proprie delle competenti
autorità statali.»
Le guardie municipali che costituivano l'area di vigilanza urbana trovarono
infine una nuova disciplina con la legge 7 marzo 1986, n. 65 ("Legge quadro
sull'ordinamento sulla polizia municipale"), e assunsero la denominazione
odierna di operatori di polizia municipale, ed obbligatoriamente inquadrati in
tali corpi posti alla gestione ed alle dipendenze di un comune italiano.
Disciplina normativa
La fonte principale è costituita dalla legge 7 marzo 1986, n. 65 nonché dalle
rispettive leggi regionali specifiche, ove emanate, che ne disciplinino la
formazione degli appartenenti, le caratteristiche delle uniformi e dei relativi
distintivi di grado, le caratteristiche dei mezzi e gli strumenti operativi in
dotazione ai corpi e servizi che i comuni italiani possono liberamente decidere
se costituire o meno. Per strumenti operativi restano esclusi dalla disciplina
della legge regionali le armi e tutti gli strumenti atti a offendere o
finalizzati all'offesa, che sono soggetti ad approvazione della Commissione
consultiva centrale per le armi, di cui all'art. 6 della legge 18 aprile 1975,
n. 110 e autorizzati dal Ministro dell'interno, come anche ribadito delle
sentenze della Corte costituzionale nn. 167/2010 e 35/2011.
Al Sindaco (o Presidente della Provincia) compete vigilare sull'espletamento del
servizio di polizia municipale/locale e impartire le direttive a tal fine
necessarie, spettando al Comandante del Corpo o Servizio (il Corpo viene
istituito solo in presenza di almeno sette operatori) l'addestramento e
l'impiego tecnico/operativo degli appartenenti. Gli appartenenti alla polizia
municipale o locale svolgono nel territorio di competenza e nei limiti demandati
dalle leggi le funzioni loro attribuite dagli artt. 3 e 5 della legge n.
65/1986. Infine, la polizia municipale è inoltre disciplinata da disposizione
legislative regionali, poiché la legge quadro è spesso integrata in ogni regione
da leggi specifiche che disciplinano, ad esempio, gli aspetti relativi ai
distintivi di grado, la foggia delle uniformi e dei mezzi di servizio.
Organizzazione
La polizia municipale può essere organizzata in corpo, su conforme deliberazione
dell'organo assembleare dell'ente locale, quando il numero degli addetti sia
pari o superiore a sette. In tal caso, la polizia municipale o locale viene
elevata al rango di ramo autonomo di amministrazione dell'ente locale e il
relativo responsabile assume la denominazione di comandante, il quale risponde
direttamente al sindaco o all'assessore delegato, del rispetto delle direttive
indicate, nonché dei regolamenti del Corpo approvati con delibera di Consiglio
Comunale, nei quali si indicano fra l'altro le modalità dell'addestramento,
della disciplina e dell'impiego tecnico-operativo (armamento e dispositivi di
protezione individuale) degli appartenenti al Corpo.
Ove l'ente locale abbia istituito il corpo di polizia municipale/locale, il suo
ordinamento e la sua organizzazione saranno disciplinati con apposito
regolamento, che di norma deve prevedere:
comandante (Dirigente o funzionario)
addetti al coordinamento e controllo (Ufficiali di Polizia Locale)
addetti al coordinamento di operatori (Agenti di Polizia Locale addetti al
coordinamento - Sottufficiali di Polizia Locale)
operatori (Agenti di Polizia Locale)
Secondo la sentenza del Consiglio di Stato 14/05/2013, n. 2607 il comandante
della polizia municipale può anche esser soggetto non appartenente al corpo
stesso, potendo anche essere non dirigente, purché sia in servizio presso l'ente
di riferimento e abbia i requisiti necessari per appartenere al corpo.
Attività e funzioni
Opera principalmente come Polizia Giudiziaria e Sicurezza Urbana,
intervenendo su situazioni di degrado urbano, spaccio, risse, rapine, reati
predatori in genere e diversi altri disordini. Alcune Polizie Locali hanno fatto
importanti interventi contro il crimine organizzato (si veda, per esempio,
l'operazione della Squadra Antitratta della Polizia Locale torinese che portò
all'arresto di 44 appartenenti alla mafia nigeriana, o il contrasto alla camorra
da parte della Polizia Locale di Pomigliano d'Arco). Altre funzioni sono:
pubblica sicurezza;
Agenti di Pubblica Sicurezza per conferimento del Regio Decreto 690/1907.
polizia amministrativa;
vigilanza sul rispetto dei regolamenti locali,
servizi di polizia commerciale ed annonaria,
polizia ambientale, sanitaria e tributaria locale.
polizia stradale (nel territorio di competenza, salvo accordi e autorizzazioni
delle autorità statali: questore, giudice delle indagini preliminari, prefetto)
e controllo sulla viabilità urbana.
Alcuni settori tipici di attività possono essere:
contrasto al commercio abusivo;
mantenimento della pubblica sicurezza e dell'ordine pubblico;
reati in materia di stupefacenti;
reati contro il patrimonio;
reati contro le persone;
reati contro l'ambiente;
reati contro la pubblica amministrazione italiana;
tutela dei minori;
tutela del patrimonio pubblico.
Alle attività di cui sopra si aggiunge l'attività d'istituto di polizia
stradale.
I nuclei che si occupano di "sicurezza stradale e codice della strada" hanno nel
corso del tempo implementato le attività di prevenzione e repressione, in
diversi casi anche in coordinamento con le sale operative degli altri organi di
polizia. Innumerevoli le denunce penali per guida in stato d'alterazione
psicofisica (dovuta all'abuso di alcool e all'assunzione di sostanze
stupefacenti o psicotrope), guida senza patente o perché revocata, uso o
falsificazione di documenti (patenti, carte di circolazione, certificati e
contrassegni di assicurazione, ecc.).
Infine, secondo la circolare del Ministero dell'interno n. 3/2001, la qualifica
e le funzioni dell'agente di polizia municipale sono identiche a quelle degli
agenti della Polizia di Stato relativamente all'esecuzione dei trattamenti
sanitari obbligatori assieme al personale sanitario preposto.
Personale
Arruolamento e requisiti
La nomina del personale della polizia municipale avviene
attraverso concorso pubblico, con bando di concorso deliberato dalla giunta
del comune italiano interessato, e pubblicato sulla gazzetta ufficiale della
Repubblica Italiana. Tra i requisiti è necessario essere in regola con gli
obblighi militari, per coloro nati prima del 1985 e l'idoneità psico-fisica alla
mansione che verrà accertata dal medico competente in fase pre-assuntiva. Vi
sono limiti per l'immissione a ruolo di operatore di polizia municipale per
gli obiettori di coscienza al servizio militare di leva (a loro, infatti, è
vietato l'utilizzo delle armi) salvo rinuncia a tale status.
Il contratto di lavoro può essere sia a tempo determinato sia a tempo
indeterminato; tuttavia, possono anche essere banditi concorsi per l'assunzione
a tempo determinato di tipo stagionale o part-time. I requisiti generali per
l'assunzione sono quelli previsti dalla normativa statale sul personale
dipendente degli enti locali; il rapporto di lavoro è regolato dal CCNL Regioni
ed autonomie locali.
Nella fattispecie per essere assunti nella polizia locale, secondo il
vigente CCNL di comparto, necessita osservare che:
Per la categoria Istruttori - ex. Cat. C (ruolo agenti - assistenti -
sovrintendenti):
È richiesto il diploma di maturità superiore quinquennale;
È richiesta l'idoneità psicofisica alla mansione e la disponibilità
incondizionata e l'idoneità all'utilizzo delle armi
È richiesto di base il possesso della patente di guida di categoria B per
autovetture;
in molti bandi di concorso è richiesto anche il possesso della patente A per la
conduzione di motocicli; in alcune località marine e lacuali, in aggiunta può
essere richiesto il possesso della patente nautica.
Per l'accesso ai Funzionari (ex categoria D), quella in cui sono inquadrati i
comandanti, istruttori direttivi e i coordinatori, è necessario un diploma di
laurea, requisito introdotto dalla riforma Brunetta del 2009; sino a tale data
potevano accedere in categoria D - tramite concorso interno - anche dipendenti
non in possesso di laurea.
Status giuridico
La qualifica di agente di pubblica sicurezza è attribuita con decreto di
approvazione emanato dal Prefetto, su richiesta del Sindaco. Requisiti:
godimento dei diritti politici e civili;
non aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere
stato sottoposto a misura di prevenzione;
non essere stato espulso dalle forze armate italiane o dai Corpi militarmente
organizzati o destituito dai pubblici uffici.
Ai sensi della legge n. 65/1986 sono qualificati operatori, come da disposizione
ordinamentale in via generale tratta ancora dall'art. 7, comma 3, lettera c)
della legge sopra richiamata, mentre i quadri intermedi sono
qualificati coordinatori ed addetti al controllo; il comandante viene
definito responsabile del Corpo. Il prefetto revoca la qualità di agente di p.s.
qualora vengano meno i requisiti, senza che ciò faccia venire meno la qualifica
di Agente/Ufficiale, come stabilito all'art. 5 della legge n. 65/1986.
Dotazioni e presidi
Il decreto del Ministero dell'interno 4 marzo 1987, n. 145 (Norme concernenti
l'armamento degli appartenenti alla polizia municipale ai quali è conferita la
qualità di agente di pubblica sicurezza), modificato dal d.m. 18 agosto 1989, n.
341 stabilisce le modalità di porto e detenzione e il tipo di armamento che può
essere adottato con regolamento del consiglio comunale ed è per esclusiva difesa
personale dell'operatore titolare dell'autorizzazione.
Inoltre, ai sensi dell'art. 8 del D.M. 4 marzo 1987, n. 145 agli operatori di
polizia municipale è consentito il porto dell'arma, senza licenza, secondo i
rispettivi regolamenti comunali, oltre che nel territorio del comune di
appartenenza nel quale prestano servizio per raggiungere dal proprio domicilio
il luogo di servizio e viceversa. La scelta di armare o meno il corpo/servizio è
rimessa alla potestà decisionale del Consiglio comunale che provvede con proprio
regolamento in relazione all'esigenza di difesa personale, assumendosi le
responsabilità verso terzi per i danni prodotti dal dipendente. Lo stesso d.m.
145/1987 individua nella “tessera di riconoscimento” della polizia municipale un
sostitutivo di una comune licenza di porto d'armi, soggetta a rinnovo annuale
previo accertamento del permanere dei requisiti stabiliti per il rilascio del
porto d'armi. Non è consentito all'operatore della polizia municipale, come per
gli operatori dei corpi di polizia dello Stato, portare armi non previste dalla
legge nazionale e secondo le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti
locali. L'arma assegnata dal comune secondo le modalità stabilite con
regolamento dell'Ente, a norma del d.m. 4 marzo 1987, n. 145 può essere portata
nell'ambito del territorio di appartenenza anche al di fuori del servizio quando
questo è espressamente previsto dal regolamento approvato dal consiglio comunale
che si fa carico degli effetti civili dell'utilizzo dell'arma da parte del
proprio dipendente.
Riguardo all'armamento, la Commissione consultiva centrale per le armi di cui
all'art. 6 della legge 18 aprile 1975, n. 110 aveva determinato che le
cosiddette mazzette di segnalazione sono armi proprie comunicando, attraverso il
Ministero dell'interno – Dipartimento della pubblica sicurezza – Ufficio per
l'amministrazione generale – Ufficio per gli affari della polizia amministrativa
e sociale n. 557/PAS.12982(10) 8 datata 29 marzo 2011, le procedure di cui
all'art. 4 della legge n. 110/1975 come conseguenti l'adozione di questo
strumento. Sullo stesso argomento vedasi anche quanto stabilito in merito alle
bombolette di gas OC con parere del gabinetto del ministro n. 17119/110 del
gennaio 2006.
Successivamente il Ministero dell'interno si è espresso più volte in maniere
differenti (parere n. 557/PAS.12982(10)8 del 29/3/2011) durante le varie
richieste pervenute dai vari Comandi e spesso si è sollevato un vero e proprio
conflitto tra Stato e Regioni, alla luce della già citata Riforma del Titolo V
con la quale viene demandata alla Regione di "[...] disciplinare le
caratteristiche dei mezzi e degli strumenti operativi in dotazione a Corpi e
Servizi [...]" [1], indicando le prese di posizione del Ministero come un
"sconfinamento" nel contesto normativo, che permette alle Regioni dunque di
dotare gli operatori di validi sistemi di autotutela.
A novembre 2018 il cosiddetto Decreto Sicurezza ha autorizzato l'impiego in via
sperimentale dei taser da parte di Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di
Finanza, Polizia Municipale dei centri con più di 100.000 abitanti. Oltre ai
taser, è stata proposto il conferimento di alcuni presidi di autotutela
quali spray antiaggressione (detti anche key defender) e telecamere sulla
divisa (o body cam).
L'uso di queste ultime è stato autorizzato dal Garante della Privacy, e a
settembre è incominciata la sperimentazione da parte della Polizia locale nei
centri urbani di alcune città di Liguria, Lombardia e Veneto
(Genova, Milano e Varese, Padova e Vicenza, fra questi). La sperimentazione
degli spray urticanti è in corso a Bologna e Brindisi, mentre ad Arezzo si
stanno provando in via sperimentale gli occhiali ad infrarossi, per leggere le
targhe.
Ad oggi, la maggioranza dei corpi/servizi di polizia locale sono armati. In
molti casi è prevista la dotazione di pistola semiautomatica e di strumenti per
la difesa personale non letale quali lo spray urticante, lo sfollagente o
bastone estendibile e le manette. In alcune realtà, generalmente nei comuni
minori, il consiglio comunale ha optato per la dotazione di soli presidi per la
difesa personale, senza autorizzare il porto della pistola. Tuttavia, si
registrano ancora comuni che non hanno predisposto alcun tipo di dotazione
difensiva od armamento per il proprio corpo/servizio di polizia locale,
limitando di fatto l'operatività del servizio sul territorio.
Nuclei, reparti e specializzazioni
A seconda delle dimensioni territoriali dell'ente e dell'organico in forza
presso il Comando di riferimento, l'organigramma può includere più o meno Nuclei
e/o Reparti specialistici a seconda delle esigenze e delle professionalità
presenti. I vari nuclei o reparti cambiano denominazione a seconda delle diverse
realtà operative ma è possibile elencarne alcuni dei più comuni in Italia:
Nucleo pronto intervento reparto radiomobile
Nucleo investigazioni scientifiche
Nucleo di polizia giudiziaria
Nucleo territoriale
Nucleo sicurezza urbana
Nucleo tributi (con esclusivo riferimento ai tributi di competenza dell'ente
locale)
Nucleo polizia annonaria/commerciale
Nucleo polizia edilizia
Nucleo a cavallo
Nucleo polizia ambientale Cinofili
Nucleo lagunare (e/o sommozzatori)
Nucleo Antiviolenza
Nucleo Specialistico Emergenze della Polizia Locale di Milano, specializzato
nella gestione di scenari critici quali T.S.O. e allarmi terroristici, tra cui
quelli con presunti ordigni chimici. Gli operatori di questo reparto hanno
conseguito apposita formazione.
Nucleo Antiabusivismo Commerciale, di solito operante sotto la sezione Nucleo
Controllo Commercio, annonaria e di pubblica sicurezza, opera prevalentemente
sui demani marittimi e sono specializzati in blitz e sequestri di merce
indebitamente posta in commercio, contraffatta o meno. La Regione Emilia-Romagna
è la più nota per usufruire di questi reparti (es. Ravenna, Rimini, Riccione,
Comacchio, Cervia-Milano Marittima) ma di fatto nei Comandi di tutta Italia è
presente questo importante reparto.
Reparto Nautico
Reparti Antisommossa, operanti negli stadi durante partite importanti o in
situazioni critiche di disordini.
Reparti Motociclisti, di solito impiegati per un rapido pronto intervento,
potendo essi muoversi rapidamente nel traffico e raggiungere colleghi in
difficoltà o sopravvenire quando si richiede operatività rapida.
A questo elenco, non esaustivo e puramente generico, si affiancano una serie di
altri Nuclei o Reparti che si vengono a creare a seconda delle problematiche
insite nel territorio. A coordinare le unità e il personale su territorio vi è
una centrale operativa, la quale si occupa di processare le chiamate e inviare
le pattuglie ove viene richiesto l'intervento.
Veicoli in dotazione
La polizia locale utilizza tutta la gamma di veicoli utili per l'espletamento
dei servizi dei propri nuclei e reparti.
I veicoli utilizzati sono:
velocipedi;
ciclomotori;
bighe elettriche;
motocicli;
autoveicoli e autocarri;
Natanti e imbarcazioni
elicotteri reparto volo Polizia Roma Capitale;
aerei leggeri.
Le livree variano sulla base dei regolamenti delle regioni di appartenenza.
Tipicamente si hanno bande di tonalità azzurro o blu su fondo bianco, ma ci sono
anche livree con bande verdi (Piemonte e Lombardia), rosse (Toscana) o colori
dominanti blu con bande bianche (Veneto e Puglia).
Le targhe per i veicoli utilizzati dai corpi di polizia locale (provinciale e
municipale) sono state adottate con decreto 27 aprile 2006, n. 209 del Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti.
Queste targhe hanno dimensioni e foggia analoghe a quelle civili, sebbene i
caratteri alfanumerici abbiano dimensioni più piccole delle targhe normali, e
portano inoltre la scritta per esteso "POLIZIA LOCALE" in colore blu, sopra la
numerazione progressiva. Quest'ultima per le autovetture è del tipo "YA 000 AA"
dove la lettera "Y" è fissa mentre i restanti caratteri saranno progressivi. Il
lotto inaugurale con la combinazione YA 000 AA è stato attribuito alla provincia
di Ancona avvenuta in data 19 gennaio 2009.
Le targhe per i motocicli di polizia locale sono di forma quadrata, con
numerazione progressiva del tipo "YA 00000" disposta su due righe, dove la
lettera "Y" è fissa. Riportano la scritta per esteso "POLIZIA LOCALE" in colore
blu, tra le due righe della numerazione.
Per la guida di tali veicoli è previsto il possesso della patente di guida
stabilita all'art. 139 del codice della strada, per la conduzione di veicoli
adibiti al servizio di polizia stradale.
Denominazione
Nelle lingue minoritarie
Nelle regioni a statuto speciale in cui vige un regime di bilinguismo, la
denominazione Polizia municipale/locale è stata resa nelle seguenti varianti:
Per la Valle d'Aosta, bilingue italiano/francese, Police municipale in francese,
a cui si aggiunge Gemeindepolizei per i comuni trilingui
italiano/francese/tedesco
di Gressoney-Saint-Jean, Gressoney-La-Trinité e Issime, nell'alta valle del Lys;
Per la provincia autonoma di Bolzano, bilingue
italiano/tedesco, Stadtpolizei (nei centri abitati più popolosi,
come Bolzano, Vipiteno e Merano), oppure Gemeindepolizei o Ortspolizei (per i
comuni minori); nei comuni di lingua ladina, trilingui italiano/tedesco/ladino,
si aggiunge la denominazione ladina Polizai de chemun;
In Friuli-Venezia Giulia, per i comuni delle ex province
di Trieste, Gorizia e Udine il cui statuto prevede il bilinguismo
italiano/sloveno, Krajevna Policija;
per i comuni bilingui italiano-friulano, Polizie municipâl.
Nelle lingue gergali
In alcuni dialetti la denominazione del poliziotto preposto al servizio
stradale, detto vigile o vigile urbano è spesso relativa al cappello che una
volta portavano: ghisa a Milano, pizzardone a Roma, tubo a Trieste, o alla loro
posizione presso gli incroci, come il cantuné di Genova. Nella
parlata bolognese invece il termine italiano è sostituito da una deformazione
dell'equivalente anglofono: pulisman.
" L'ordinamento della polizia locale -Legge quadro 65/1986 " cosa è cambiato??
Rino Liuzzi, A cura di Redazione BC-
Il Corpo di Polizia Municipale svolge le funzioni di polizia locale previste
dalla legge, secondo quanto previsto dalla normativa statale (Legge 15.3.1986
n°65) e da quella regionale. La Polizia Municipale espleta una lunghissima serie
di compiti e funzioni che riguardano: la prevenzione e repressione delle
violazioni alle norme contenute in leggi, regolamenti, provvedimenti statali,
regionali e locali; l’informazione, la notificazione e l’accertamento di atti;
il soccorso alla popolazione.
Il Corpo di Polizia Municipale ha lo scopo fondamentale di consentire l’ordinato
svolgimento della convivenza civile all’interno del Comune, operando per
accrescere la sicurezza dei cittadini e la vivibilità della città.
L’ordinamento della Polizia Locale (Legge Quadro 65/1986).
1. Premessa.
La Legge n. 65 del 7/03/1986 fissa i lineamenti fondamentali dell’assetto
ordinamentale e organizzativo della Polizia Locale.
Ma cosa si intende per Polizia Locale? L’insieme delle attività svolte per
assicurare la conservazione e il rispetto dell’ordine giuridico e sociale
nell’ambito degli interessi specifici delle comunità locale.
Nel tempo numerose sono state le accezzioni assegnate alla Polizia Locale, tra
cui Guardie delle Province e dei Comuni, Vigile Urbano, Polizia Municipale ed
infine Polizia Locale; questa evoluzione di definizioni è giustificata
dall’evolversi della figura della guardia dei comuni e delle province sia dal
punto di vista legislativo che sociale con funzione primaria del perseguimento
di un interesse pubblico attraverso l’esercizio di un potere.
L’art. 1 della legge – quadro stabilisce che “I comuni svolgono le funzioni di
polizia locale. A tal fine, può essere appositamente organizzato un servizio di
polizia municipale. I comuni possono gestire il servizio di polizia municipale
nelle forme associative previste dalla legge dello Stato”.
Pertanto, già l’articolo di esordio reca una fondamentale introduttiva
differenza, quella fra i significati e i contenuti particolari del servizio di
polizia municipale e della funzione di polizia locale: nelle funzioni rientrano
tutte quelle attività che l’amministrazione esercita in virtù del suo potere
autoritativo incidendo unilateralmente e coattivamente nella sfera delle
posizioni giuridiche dei terzi al fine di soddisfare interessi collettivi.
Il servizio, invece, identifica tutte quelle attività organizzative, interne e
tecniche, svolte da soggetti pubblici o privati ed aventi un valore strumentale,
finalizzato alla produzione di un effetto o di una realtà immateriale.
Per ciò che concerne il secondo comma dell’art. 1, in relazione alle forme
associative, il Capo V le elenca come segue:
Convenzioni.
Al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati, gli enti
locali possono stipulare tra loro apposite convenzioni.
Consorzi.
Gli enti locali per la gestione associata di uno o più servizi e l’esercizio
associato di funzioni possono costituire un consorzio secondo le norme previste
per le aziende speciali di cui all’articolo 114, in quanto compatibili. Al
consorzio possono partecipare altri enti pubblici, quando siano a ciò
autorizzati, secondo le leggi alle quali sono soggetti.
Unioni di comuni.
Le unioni di comuni sono enti locali costituiti da due o più comuni di norma
contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di
loro competenza.
Esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei comuni.
L’art. 6 della L.N. 65/1986, al comma 2, richiede che siano le Regioni a
provvedere con proprie leggi a stabilire le norme generali per l’istituzione del
servizio, a promuovere servizi ed iniziative per la formazione e l’aggiornamento
degli appartenenti al servizio di Polizia Locale, a promuovere le forme
associative fra i Comuni, a determinare le caratteristiche delle uniformi e dei
distintivi di grado ed infine a disciplinare le caratteristiche dei mezzi e
degli strumenti operativi in dotazione ai corpi o ai servizi.
2. Il Regolamento e la gestione del servizio di polizia locale.
Che differenza c’è tra Corpo e Servizio di polizia locale?
I comuni nei quali il servizio di polizia locale sia espletato da almeno sette
addetti possono istituire il Corpo di polizia locale, disciplinando lo stato
giuridico del personale con apposito regolamento, in conformità ai princìpi
contenuti nella legge 29 marzo 1983, n.93 (legge 30 marzo 2001, n.165).
Dunque, per la disciplina del servizio di polizia locale i Comuni, singoli o in
forma associata, adottano obbligatoriamente un regolamento (approvato dal
Consiglio Comunale) che, all’art. 4 della legge – quadro, deve contenere le
seguenti disposizioni:
le attività vengano svolte in uniforme (tranne in casi necessari e autorizzati);
i distacchi e i comandi sono consentiti solo quando i compiti assegnati
ineriscano alle funzioni di polizia locale e purché la disciplina rimanga quella
dell’organizzazione di appartenenza;
l’ambito ordinario delle attività sia quello del territorio dell’ente di
appartenenza o dell’ente presso cui il personale è stato comandato;
sono autorizzate le missioni fuori dal territorio dell’ente di appartenenza per
soli fini di collegamento delle attività di polizia o di rappresentanza;
in caso di flagranza dell’illecito, sono ammesse le operazioni esterne di
polizia di iniziativa dei singoli durante il servizio e nel territorio di
appartenenza;
sono ammesse missioni esterne per soccorso in caso di calamità e disastri, o per
rafforzare altri Corpi oppure per servizi in particolari occasioni stagionali o
eccezionali, previo accordo fra le amministrazioni interessate.
Il regolamento tende a disciplinare lo stato giuridico del personale
appartenente alla polizia locale e, in particolar modo, ne stabilisce (art. 7)
il contingente numerico degli addetti al servizio (in rapporto al numero degli
abitanti del Comune e ai flussi della popolazione, all’estensione e alla
morfologia del territorio, alle caratteristiche socio – economiche della
comunità locale) nonché il tipo di organizzazione del Corpo (considerando la
densità della popolazione residente e temporanea, della suddivisione del Comune
stesso in circoscrizioni territoriali e delle zone territoriali costituenti aree
metropolitane).
Sempre con Regolamento i Comuni definiscono l’ordinamento e l’organizzazione del
Corpo di polizia locale.
L’ordinamento si articola in responsabile del corpo (Comandante), addetti al
coordinamento e al controllo e operatori (agenti);
L’organizzazione del Corpo deve necessariamente basarsi sul principio del
decentramento delle circoscrizioni o per zone e sul criterio che le dotazioni
organiche per singole qualifiche devono essere stabilite in modo da assicurare
la funzionalità e l’efficienza delle strutture del Corpo.
E’ bene evidenziare che anche nei comuni dove non si costituisce un corpo, il
servizio di polizia locale ha un suo regolamento.
3. Organi e funzioni.
Gli organi della polizia locale sono il Sindaco, il Comandante responsabile del
Corpo, gli ufficiali, sottufficiali e gli operatori.
Il Sindaco (o l’assessore delegato) emana le direttive, controlla l’attività
esperita e adotta i provvedimenti previsti dalle leggi e dai regolamenti.
Il Comandante è responsabile verso il Sindaco dell’addestramento, della
disciplina e dell’impiego tecnico – operativo degli appartenenti al Corpo.
Per gli ufficiali, il più anziano acquisisce la qualifica di vicecomandante.
Gli operatori, ovvero gli agenti, sono tenuti ad eseguire le direttive impartite
dai superiori e dalle autorità competenti. Tra i compiti assegnati si
ricomprendono le attività preventive e di repressione, di vigilanza e di
accertamento.
L’art. 5 della legge – quadro stabilisce che il personale che svolge servizio di
polizia municipale, nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza e nei
limiti delle proprie attribuzioni, oltre che ad essere investito della qualifica
di pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 357 c.p. esercita anche funzioni di
polizia giudiziaria, di polizia stradale e di pubblica sicurezza.
Per quanto concerne le funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza (art. 3 L.N.
65/1986), e nello specifico il conferimento della qualità di agente di P.S., è
necessario precisare che tale qualifica non viene acquisita automaticamente
dall’operatore di polizia locale al momento dell’assunzione, bensì è necessario
che intervenga uno specifico provvedimento, formale che costituisca tale
riconoscimento, emesso dal Prefetto di competenza, previa comunicazione del
Sindaco e a seguito degli accertamenti eseguiti sul possesso dei necessari
requisiti.
L’Agente di polizia locale, ai sensi dell’art. 1 del TULPS, svolge i compiti di
pubblica sicurezza in esso elencati: “l’autorità di pubblica sicurezza veglia al
mantenimento dell’ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro
incolumità e alla tutela della proprietà; cura l’osservanza delle leggi e dei
regolamenti generali e speciali dello Stato, delle province e dei comuni, nonché
delle ordinanze delle autorità; presta soccorso nel caso di pubblici e privati
infortuni”.
Relativamente al porto d’armi la legge – quadro dispone che gli addetti al
servizio di polizia locale ai quali è conferita la qualifica di agente di
pubblica sicurezza possono, previa deliberazione del Consiglio Comunale portare,
senza licenza, le armi in dotazione anche fuori dal servizio, purché nell’ambito
territoriale dell’ente di appartenenza e nei casi previsti dall’art. 4.
inoltre, la qualifica di P.G. (polizia giudiziaria) è attribuita nell’ambito di
competenza del territorio dell’ente di appartenenza e nei limiti dei compiti
istituzionali dei corpi di polizia locale in materia di edilizia, di commercio,
di igiene e sanità, di circolazione stradale e così via.
Tutti gli addetti al servizio di polizia locale (dagli operatori al comandante)
sono agenti di polizia giudiziaria a competenza generale nell’ambito del
territorio di appartenenza quando sono in servizio e, nelle specifiche
attribuzioni rientranti nelle competenze istituzionali del servizio, il
responsabile del servizio (o del Corpo) e gli addetti al coordinamento e
controllo sono altresì ufficiali di polizia giudiziaria.
4. Rapporto tra Sindaco e Comandante.
L’articolo 9, c .1, L. n.65/86 recita così: “il Comandante del Corpo di Polizia
Municipale è responsabile verso il Sindaco dell’addestramento, della disciplina
e dell’impiego tecnico-operativo degli appartenenti al Corpo”.
In merito al ruolo e all’autonomia del Comandante del Corpo, una sentenza del
Consiglio di Stato (11) specifica come il Comandante sia responsabile solo verso
il Sindaco, in quanto quest’ultimo è titolare delle funzioni di polizia locale
che competono al Comune; «… conseguentemente porre il comandante della polizia
municipale alle dipendenze di un funzionario del Comune equivale a trasferire a
quest’ultimo funzioni di governo che per legge competono al sindaco…», con
palese illegittimità.
Con riferimento anche a precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato la
sentenza specifica che la nomina a Comandante del Corpo di polizia municipale
non necessariamente deve essere accompagnata dall’assegnazione di una qualifica
dirigenziale.
Riguardo la natura poi della «… relazione tra Sindaco e Comandante, l’art. 9 l.
n. 65/1986 istituzionalizza una diretta relazione tra il sindaco ed il
Comandante della polizia locale, finalizzata ad assicurare, all’autorità posta
al vertice dell’Amministrazione ed in relazione ai poteri ed ai compiti ad essa
conferiti dai precedenti articoli 2 e 3, il diretto controllo dei profili
organizzativi e funzionali del servizio (addestramento, disciplina, impiego
tecnico-operativo) che presentano la maggiore specificità e delicatezza, proprio
indipendentemente dalla collocazione del servizio stesso all’interno del modello
organizzativo prescelto dall’Ente nell’esercizio del suo potere di
autorganizzazione.
Infine, il Consiglio di Stato, con riferimento anche ad un paio di sentenze
precedenti, chiarisce ancora una volta come riguardo la provenienza del
Comandante, questa funzione non sia “…affidabile ad un dirigente amministrativo
che non abbia lo status di un appartenente al Corpo di polizia municipale…”,
precisando (questo però ai sensi della legge regionale, anche se il principio,
per la sua generalità, si presta ad essere applicato in modo estensivo) «…
l’incompatibilità delle funzioni di comandante con altri incarichi, per evitare
eventuali conflitti di interesse…» e per «…l’evidente pericolo che il ruolo di
controllore e controllato finiscano per sommarsi in un’unica figura…».
A conclusione, il Comandante del Corpo, oltre alla particolare posizione
organizzatoria e funzionale in cui è posto dalla legge 65/86 nei confronti del
Sindaco, gode delle attribuzioni e delle responsabilità che l’ordinamento
statuisce in favore dei funzionari di livello dirigenziale.
Ne consegue un ulteriore e particolare rafforzamento del ruolo di Comandante del
Corpo (soprattutto se dirigente) nell’organizzazione e nella gestione degli
uffici e nell’esecuzione dei compiti propri di questi.
5. La Polizia Locale delle Città Metropolitane.
La Polizia Provinciale si è trasformata nella Polizia Locale della Città
metropolitana di Roma Capitale con l’entrata in vigore della Legge n. 56 del
2014 (Delrio).
Sulla base del nuovo dettato normativo, ne sono stati ridefiniti i compiti
adeguando alle peculiarità del nuovo Ente quanto già derivato dalla
Costituzione, dalle Leggi ordinarie e speciali.
Nell’attuale quadro normativo si configura quale punto di raccordo fra le
Polizie Locali comunali per il coordinamento dei controlli in materia di
rifiuti, tutela ambientale, aria, acqua, bacini lacustri e fluviali, per le
attività di controllo sulle strade extraurbane provinciali.
L’art. 12 della L. N. 65/86 stabilisce espressamente “… gli enti locali diversi
dai Comuni svolgono le funzioni di polizia locale di cui sono titolari, anche a
mezzo di appositi servizi …”.
Proprio in funzione di tale articolo, moltissime province si sono dotate di
strutture di vigilanza a cui sono stati assegnati i compiti di polizia
amministrativa nelle materie di specifica competenza.
La polizia locale della Città Metropolitana si occupa di reati ambientali e,
grazie ad accordi e protocolli d’intesa, delle attività di controllo in materia
ittico-venatoria.
Organo di polizia stradale ai sensi dell’art.12 del Codice della Strada, si
occupa della prevenzione delle violazioni in materia di circolazione stradale
attraverso l’accertamento delle violazioni, la tutela ed il controllo sull’uso
della strada, la predisposizione e l’esecuzione di servizi diretti a regolare il
traffico, la scorta per la sicurezza della circolazione.
Inoltre, gli appartenenti a tale forza di polizia locale, rivestono varie
qualifiche che comportano uno status giuridico quale:
ausiliario di pubblica sicurezza (subordinato ad un provvedimento prefettizio);
agenti di polizia stradale (sia in base all’art. 5 legge – quadro sia in
riferimento al nuovo codice della strada);
agenti di polizia giudiziaria con limitazione territoriale e temporale;
ufficiali e agenti di P.G., limitatamente ai servizi e alle specifiche
attribuzioni di legge e regolamenti.
La legge 25 agosto 1991, n. 287 "Aggiornamento della normativa sull'insediamento
e sull'attività dei pubblici esercizi" (G.U. 3.09.1991, n.206).
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Per pubblico esercizio s'intende, ai sensi della legge italiana, un locale
aperto al pubblico in cui si svolga un'attività di impresa avente come oggetto
la prestazione di servizi al pubblico.
Requisiti
L'autorizzazione per l'apertura di un pubblico esercizio è rilasciata
dal comune, previa domanda finalizzata ad ottenere apposita licenza. La domanda
per la licenza di uno degli esercizi indicati all'art. 86 TULPS deve contenere
le indicazioni relative alla natura e all'ubicazione dell'esercizio e
all'insegna. Tale licenza volge anche funzione di autorizzazione.
Caratteristiche
Il carattere di “pubblicità” di un esercizio, intesa come condizione di
fruibilità del locale, non è dato dall'apparenza esteriore, ma dalla possibilità
concreta per chiunque di accedervi liberamente e di poter fruire dei servizi
erogati.
Lo scopo della sottoposizione a controllo, mediante il regime
dell'autorizzazione di polizia, di talune attività imprenditoriali, è quello di
tutelare la sicurezza, l'incolumità, la moralità, l'igiene delle persone e dei
beni mobili che rispettivamente si affidano o vengono affidati a coloro i quali
gestiscono gli esercizi per la somministrazione di alimenti e bevande, esercizi
ricettivi ed esercizi che prestano servizi di varia natura.
Esercente
L'esercente è un imprenditore commerciale che opera al dettaglio (retail) ovvero
che fornisce prodotti e/o servizi alle persone fisiche (pubblico). Chi possiede
(o gestisce) un negozio, bar, palestra, pizzeria, centro estetico, ecc., è un
esercente.
Trattandosi di imprese che devono acquisire licenze pubbliche gli esercenti
ottemperano a regole peculiari rispetto ad altri imprenditori (ad esempio:
giorni o orari di apertura, bagni pubblici, parcheggio e altre, anche locali).
Tipologia
Esistono inoltre diversi tipi di esercizi pubblici, riconducibili all'art. 86
del TULPS, ma soggetti a leggi speciali di settore:
a) Esercizi dell'attività ricettiva: pensioni e locande, dormitori privati,
alberghi diurni e bagni pubblici (regolati dalla legge n. 135/01);
b) Esercizi della somministrazione alimenti e bevande: ristoranti, trattorie,
caffè e bar, osterie ed osterie con cucina, spacci di analcolici e di cibi cotti
con consumo sul posto (ora regolati dalla legge n. 287/91 e, in molte regioni,
da leggi regionali, emanate a seguito di attribuzione alle regioni della potestà
legislativa residuale in materia di commercio interno, ai sensi dell'art. 117,
comma 4, della Costituzione);
c) Esercizi dove si svolgono giochi leciti: sale pubbliche da biliardo e altri
giochi leciti (di cui agli artt. 86 e 110 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza
e alla legge n. 425/95);
d) Esercizi cosiddetti “Internet Point”: esercizi in cui vengono messi a
disposizione del pubblico apparecchi terminali utilizzabili per comunicazioni
telematiche - decreto legge 27 luglio 2005 n. 144, conv. in legge 31
luglio 2005 n. 155.
Per il tipo di cui alla lett. d) il decreto-legge 29 dicembre 2010 n. 225,
convertito in legge 26 febbraio 2011, n. 10, modificando la norma del 2005 in
tema, ha previsto l'obbligo di ottenere l'autorizzazione fino al 31
dicembre 2011. Considerando tuttavia che non è stato emanato alcun provvedimento
normativo di proroga, la licenza è da considerarsi non più richiesta.
La disciplina dei pubblici esercizi
By avv. Luca Olivetti Introduzione alle leggi che regolano l’attività dei bar e
dei ristoranti
La disciplina dei pubblici esercizi fa ancora riferimento alla legge 25 agosto
1991, n. 287 "Aggiornamento della normativa sull'insediamento e sull'attività
dei pubblici esercizi" (G.U. 3.09.1991, n.206).
In base a questa legge l'esercizio di tale attività è subordinato alla
iscrizione del titolare dell'impresa individuale o del legale rappresentante
della società nel Registro Esercenti il Commercio (R.E.C.) tenuto dalla locale
Camera di Commercio ed al rilascio di apposita autorizzazione all'apertura
dell'esercizio da parte del Sindaco.
Ai fini del rilascio di detta autorizzazione il Sindaco accerta la conformità
del locale ai criteri di sorvegliabilità stabiliti dal Ministero dell'Interno
con decreto 17 dicembre 1992, n. 564.
Inoltre, sulla base delle direttive proposte dal Ministero dell'Industria e
Commercio, le Regioni, sentite le organizzazioni di categoria maggiormente
rappresentative a livello regionale, fissano periodicamente criteri e parametri
atti a determinare il numero delle autorizzazioni rilasciabili nelle aree
interessate.
Con decreto del Presidente della Repubblica 13 dicembre 1995 (G.U. 22.02.1996,
n. 44) è stato emanato l'Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni per la
determinazione del numero di esercizi abilitati alla somministrazione al
pubblico di alimenti e bevande.
Il Comune, dal canto suo, sulla base dei criteri e parametri fissati dalla
Regione, stabilisce, eventualmente anche per singole zone del territorio
comunale, le condizioni per il rilascio delle autorizzazioni.
La legge n.287/1991 prevedeva (all'art.12) l'emanazione di un Regolamento di
esecuzione della legge stessa entro 180 giorni dalla sua entrata in vigore;
detto Regolamento, nonostante che sia stato elaborato dopo ampia consultazione
delle associazioni di categoria, non è mai stato emanato.
Con D.P.R. 4 aprile 2001, n.235 è stato invece emanato un "Regolamento recante
semplificazione del procedimento per il rilascio dell'autorizzazione alla
somministrazione di alimenti e bevande da parte dei circoli privati" (G.U.
20.06.2001, n. 141).
Inoltre, con legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Legge finanziaria 2002) è stato
stabilito (vedi art.52, comma 17) che "a decorrere dal 1° gennaio 2002, le
disposizioni di cui alla legge 11 giugno 1971, n. 426 e successive modificazioni
(cioè le norme che prevedono l'iscrizione al Registro Esercizi al Commercio per
la somministrazione di alimenti e bevande) non si applicano alle sagre, fiere e
manifestazioni a carattere religioso, benefico o politico".
La materia dei pubblici esercizi, dopo l'esito del referendum confermativo del 7
ottobre 2001, è stata ora trasferita alla competenza esclusiva delle Regioni:
spetta ad esse decidere se dare corso all'emanazione di singoli regolamenti di
attuazione, eventualmente coordinati a livello nazionale, ovvero dare seguito
alla formazione di una nuova normativa completamente revisionata, che sia
fondata su una liberalizzazione del settore e sia eventualmente raccordata alla
pianificazione territoriale dei servizi di vicinato.
Esercizi pubblici, by comune di Napoli
Avviso - "Esecuzioni musicali riservate agli avventori di esercizi pubblici"
L'art. 13 del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito con la legge n. 35 del 4
aprile 2012, ha previsto, tra l'altro, l'abrogazione del secondo comma
dell'art. 124 del regolamento di esecuzione del T.U.L.P.S.; pertanto, i bar e
ristoranti, qualora congiuntamente alla principale attività di somministrazione
di alimenti e bevande vogliano abbinare l'attività di esecuzioni musicali
riservate agli avventori del pubblico esercizio, non dovranno più richiedere al
comune alcuna autorizzazione ex art. 69 T.U.L.P.S., né presentare scia
ex art. 19 della Legge 241/90 e ss.mm.ii., a condizione, però, che l'attività
accessoria non si tramuti in pubblico spettacolo, cioè non sia un'attività
dotata di autonoma rilevanza imprenditoriale slegata da quella preponderante di
somministrazione. Resta in ogni caso ferma la necessità di munirsi di nulla osta
di impatto acustico che va richiesto al servizio controlli ambientali. Attività
di somministrazione di alimenti e bevande
normativa di riferimento
La legge 25 agosto 1991, n. 287 recante "Aggiornamento della normativa
sull'insediamento e sull'attività dei pubblici esercizi" è stata modificata ed
integrata dal D.lgs. n. 59 del 26.03.2010, emanato in recepimento della
direttiva CE/2006/123, relativa ai servizi nel mercato interno.
Gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, di cui alla legge 287/91
e s.m.i., sono distinti in:
Esercizi di ristorazione (tipologia A);
Esercizi per la somministrazione di bevande, comprese quelle alcooliche di
qualsiasi gradazione (tipologia B);
Esercizi di cui alla tipologia A e B, in cui la somministrazione di alimenti e
bevande viene effettuata congiuntamente ad attività di intrattenimento e svago
(tipologia C);
Esercizi di cui alla tipologia B, nei quali è esclusa la somministrazione di
bevande alcooliche di qualsiasi gradazione (tipologia D). L'art. 49, comma 4
bis, della legge 30 luglio 2010, n. 122, ha riformulato l'art. 19 della L.
241/90.
In base alla nuova disposizione, ogni atto di autorizzazione, licenza,
concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese
le domande per le iscrizioni in albi e ruoli richieste per l'esercizio di
attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda
esclusivamente dall'accertamento dei requisiti e presupposti richiesti dalla
legge o da atti amministrativi a carattere generale, e non sia previsto alcun
limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione
settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una segnalazione
dell'interessato, salvo alcune eccezioni evidenziate nella norma medesima.
Per effetto di quanto sopra, sono soggette a SCIA (Segnalazione Certificata di
Inizio Attività) le seguenti attività, che erano soggette, per normativa
previgente, o ad autorizzazione rilasciata dal Comune o a Dichiarazione di
Inizio Attività:
1) Nuova apertura di esercizi di attività di somministrazione di alimenti e
bevande al pubblico
L'avvio di una nuova attività di somministrazione di alimenti e bevande,
comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, di cui alla legge 25 agosto
1991, n. 287, prima soggetta, ai sensi dell'art. 64 della legge n. 59/2010, a
rilascio di autorizzazione amministrativa, è subordinato alla presentazione
della SCIA. La segnalazione è corredata, per quanto riguarda gli stati, le
qualità personali e i fatti previsti dagli articoli 46 e 47 del D.P.R.
n.445/2000, dalle dichiarazioni sostitutive delle certificazioni e dell'atto di
notorietà rese e sottoscritte dall'interessato e dalle attestazioni e
asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di conformità da
parte di un'Agenzia per le imprese di cui all'art. 38, comma 4, del decreto
legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in L. 133 del 6/8/2008, attestante la
sussistenza dei requisiti e dei presupposti richiesti dalla legge per
l'esercizio dell'attività. In particolare, il tecnico abilitato, nella relazione
asseverata, corredata degli elaborati tecnici necessari per consentire le
verifiche di competenza dell'Amministrazione, dovrà attestare il rispetto delle
vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica,
sulla destinazione d'uso degli immobili, di tutela e salvaguardia delle zone di
pregio artistico, storico, architettonico ed ambientale, di sicurezza sui luoghi
di lavoro, di sorvegliabilità dei locali, igienico-sanitarie e di impatto
acustico. L'attività oggetto della segnalazione potrà essere iniziata dal giorno
di presentazione della medesima.
2) Apertura per subingresso, modifica superficie, trasferimento di sede. E'
necessario presentare apposita segnalazione certificata d'inizio attività avente
efficacia immediata.
3) Esercizi di somministrazione per particolari categorie di utenti
L'avvio delle sottoindicate attività di somministrazione, riservate a
particolari soggetti, elencate alle lettere a) b) c) d) e) f) g) e h) del comma
6 dell'art. 3 della legge 287/91, come modificato ed integrato dall'art. 64,
c.2, del D.Lgs. 59/2010, sono soggette alla SCIA di cui all'art. 19 della L.
241/90 attualmente vigente:
al domicilio del consumatore;
negli esercizi annessi ad alberghi, pensioni, locande o ad altri complessi
ricettivi, limitatamente alle prestazioni rese agli alloggiati;
negli esercizi posti nelle aree di servizio delle autostrade e nell'interno di
stazioni ferroviarie, aeroportuali e marittime;
negli esercizi di cui all'articolo 5, comma 1, lettera c), nei quali sia
prevalente l'attività congiunta di trattenimento e svago;
nelle mense aziendali e negli spacci annessi ai circoli cooperativi e degli enti
a carattere nazionale le cui finalità assistenziali sono riconosciute dal
Ministero dell'interno;
esercitata in via diretta a favore dei propri dipendenti da amministrazioni,
enti o imprese pubbliche;
in scuole; in ospedali; in comunità religiose; in stabilimenti militari, delle
forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco;
nei mezzi di trasporto pubblico.
4) Somministrazione in commistione con altre attività
Le attività di somministrazione in commistione con altre attività, individuate
con O.S. n.534 del 29/7/2003 e n.1595 del 30/12/2004 (librerie, internet point,
acconciatori e centri estetici, punti SNAI ecc...) sono soggette a segnalazione
certificata di inizio attività con efficacia immediata.
I soggetti che intendano svolgere tale attività, nella forma di bouvette, in
commistione con l'attività principale, hanno l'obbligo di presentare la
segnalazione certificata di inizio attività con efficacia immediata.
5) Variazioni soggettive, cessazione dell'attività
E' necessario presentare apposita comunicazione avente efficacia immediata.
6) Attività di somministrazione in occasione di manifestazioni temporanee
(fiere, mostre, concerti etc.)
L'attività di somministrazione di alimenti e di bevande deve essere esercitata
nel rispetto delle vigenti norme e prescrizioni in materia igienico-sanitaria.
L'attività è soggetta a comunicazione di inizio attività con efficacia
immediata.
Principi fondamentali della Costituzione italiana
Costituzione Italiana: testo e spiegazione dei primi 12 articoli, dove sono
indicati i principi fondamentali. Redazione Studenti
COSTITUZIONE ITALIANA. La Costituzione Italiana, nei suoi primi 12 articoli,
esprime i principi fondamentali su cui poggia la vita dello Stato. Su tali
principi fondamentali della Costituzione devono essere interpretate le norme
costituzionali, quindi, non devono essere usate come espressioni politiche.
Quelli principali sono: principi di democrazia, principio lavorista, di libertà,
di eguaglianza e di pluralismo.
L'elenco completo dei principi fondamentali della Costituzione Italiana:
Democrazia
– art. 1, 1° comma
Sovranità popolare
– art. 1, 2° comma
Inviolabilità dei diritti
– art. 2
Uguaglianza formale ed uguaglianza sostanziale
– art. 3
Diritto al lavoro
– art. 4
Riconoscimento delle autonomie locali
– art. 5
Tutela delle minoranze linguistiche
– art. 6
Libertà religiosa
– art. 8
Sviluppo della cultura, della tutela ambientale e del patrimonio storico ed
artistico
– art. 9
Riconoscimento di collaborazioni internazionali
– art. 10
Ripudio della guerra come strumento di offesa
– art. 11
Struttura della bandiera italiana
– art. 12
L'articolo 1 della Costituzione dichiara che l’Italia è una repubblica
democratica e che la sovranità appartiene al popolo; quindi, Repubblica
democratica significa che tutti i cittadini hanno diritto alle libertà che
nessuno può violare ne limitare; diritto dell’integrità fisica della persona, al
nome, al cognome, alla privacy ecc. I diritti sociali comprendono la libertà di
parola, di pensiero, di religione, di stampa e di riunione. Tra i diritti
politici sono fondamentali, il diritto al voto e di partecipazione alle cariche
pubbliche. I principi fondamentali e la prima parte della Costituzione
contengono, innanzitutto, un ampio riconoscimento dei diritti civili e politici
essenziali, che sono garantiti nella loro immodificabilità: l'uguaglianza
davanti alla legge e l'inviolabilità dei diritti dell'uomo. Espressamente
tutelate sono le minoranze linguistiche. Sono poi riconosciuti esplicitamente i
diritti della famiglia, dei minori, il diritto alla salute, la libertà delle
arti e delle scienze, il diritto all'istruzione.
L’art. 1 sostiene che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro; in sostanza
il sistema democratico ha attribuito al lavoro un valore primario che va a
sostituire il principio quale sosteneva che il nostro sistema sociale era basato
sul censo e condizioni sociali ereditate. L’art. 4 racchiude in sé il principio
lavorista contenuto nell’art. 1, lo rafforza riconoscendo a tutti i cittadini
tale diritto promuovendo le condizioni che rendano effettivo secondo le proprie
possibilità.
L’art. 2 riconosce le libertà civili, infatti, recita che: La repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. In questo caso si
tratta di diritti primari, quali il diritto alla vita e alla salute e delle
libertà civili affermatesi come la libertà di religione, la libertà
d’associazione e di espressione.
Nell’art. 3 si afferma il principio di eguaglianza dei cittadini fondamentale
per il raggiungimento della democrazia. L’eguaglianza si distingue tra
eguaglianza formale e sostanziale. L’eguaglianza formale si rende concreto
quando l’art. 3 afferma che tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge,
quindi eguaglianza rispetto alla legge. Questo principio pone il divieto di
operare discriminazioni irragionevoli ogni volta che situazioni uguali sono
trattate in modo diverso diventando principio di ragionevolezza della legge.
L’eguaglianza sostanziale è affermata nel secondo comma dell’art. 3 in cui si
recita che “è compito della Repubblica rimuovere ostacoli di ordine economico e
sociale”.
L’art. 5 sancisce che: La Repubblica una e indivisibile, riconosce le autonomie
locali [...]. Unità e indivisibilità che nel loro interno trovano forme di
decentramento poiché si riconoscono le autonomie locali e le si promuove.
Gli artt. 7-8 affermano la libertà religiosa poiché tutti sono liberi di
professare liberamente la propria fede religiosa. L’art. 7 afferma: Lo stato e
la chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
Le regole delle chiese possono trovare contrasto con quelle dello Stato,
pertanto, si ha un atteggiamento aconfessionale, nel senso che non si riconosce
nessuna religione di stato per cui tutte le chiese sono poste allo stesso
livello, confessionale nel senso che lo stato eleva una religione di stato,
pertanto, in situazione di privilegio rispetto le altre. Nonostante
l’indipendenza tra stato e chiesa cattolica, grazie al nuovo concordato, accordo
di modifica dei patti lateranensi, si sono mantenuti alcuni punti quali: i
matrimoni tenuti con il rito cattolico continuano ad avere effetti civili;
l’insegnamento della religione nelle scuole non è più obbligatorio; è stabilito
un contributo finanziario a sostentamento del clero. L’art. 8 c. 2 disciplina il
rapporto tra stato e altre confessioni religiose affermando che hanno diritto di
organizzarsi secondo loro statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento
dello stato.
L’art. 9 promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
In questo articolo si rileva l’importanza dello sviluppo attraverso la cultura e
la scoperta di nuove tecnologie purché questo sia eseguito nel rispetto e la
tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione.
ARTICOLI 6, 10, 11 E 12
L’art. 6: La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
L’art. 10: Sancisce il principio secondo il quale s’istaurano i rapporti tra
l’ordinamento giuridico italiano e le norme di diritto internazionale. L’Italia
si conforma alle regole internazionali rende l’effettiva libertà allo straniero
che è privato dell’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla
Costituzione italiana.
L’art. 11: In questo articolo l’Italia ripudia la guerra come strumento di
offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e s’impegna
a promuovere iniziative volte ad assicurare la pace e la giustizia fra Nazioni.
L’art. 12: L’articolo 12 sancisce la norma costituzionale sul tricolore,
l'origine storica e il valore simbolico della bandiera italiana.
Articolo 97 cost.
Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea,
assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.
I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge [95 c.3], in
modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità
dell'amministrazione.
Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le
attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari [28].
Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo
i casi stabiliti dalla legge [51 c.1].
Art. 1. Legge 241/90 (Princípi generali dell'attività amministrativa)
1. L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta
da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di
trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre
disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai princípi
dell'ordinamento comunitario.
1-bis. La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non
autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge
disponga diversamente.
1-ter. I soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative
assicurano il rispetto dei princípi di cui al comma 1, con un livello di
garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in
forza delle disposizioni di cui alla presente legge.
2. La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per
straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria.
2-bis. I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati
ai princìpi della collaborazione e della buona fede.
Quali sono i principi della pubblica amministrazione?
I principi dell'attività amministrativa, nell'ordinamento giuridico italiano,
sono dei principi giuridici a cui deve conformarsi l'attività della pubblica
amministrazione italiana.
Articolo 97 della Costituzione. Da Wikipedia. La Costituzione stabilisce diversi
principi a cui l'attività amministrativa della pubblica amministrazione si deve
conformare, ma quelli che la dottrina ritiene come i più caratterizzanti sono i
principi costituzionali definiti dal secondo comma dell'art 97, che recita: «I
pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che
siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.» Il
comma fissa tre principi, che rappresentano la chiave di volta, del sistema dei
principi per l'attività amministrativa pubblica, che sono:
Principio di legalità; Principio di buon andamento; Principio di imparzialità.
Principi generali
Principi costituzionali
Articolo 3 della Costituzione.
Articolo 5 della Costituzione
Articolo 97 della Costituzione
Articolo 118 della Costituzione
Leggi ordinarie
Legge 241/1990
L. 15 marzo 1997, n. 59 (Bassanini)
Legge 340/2000 (legge di semplificazione 1999)
Decreto legislativo 18 agosto 2000 n.267. Il testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali (TUOEL).
Principi dell'attività amministrativa (ordinamento italiano). Da Wikipedia. I
principi dell'attività amministrativa, nell'ordinamento giuridico italiano, sono
dei principi giuridici a cui deve conformarsi l'attività della pubblica
amministrazione italiana.
Fondamento normativo. I principi a cui si deve conformare l'attività
amministrativa, sono innanzitutto quelli stabiliti dalla Costituzione italiana,
e poi quelli stabiliti dalle leggi ordinarie dello stato.
Principi costituzionali. Alcuni principi giuridici principi presenti nella
costituzione che interessano l'attività amministrativa della pubblica
amministrazione italiana sono:
principio del decentramento amministrativo la Repubblica deve operare il più
ampio decentramento possibile.
principio del riconoscimento delle autonomie locali la Repubblica anche se
indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali;
principio della responsabilità della pubblica amministrazione lo Stato e gli
enti pubblici sono responsabili per i fatti compiuti dai propri dipendenti;
principio della tutela giurisdizionale del privato contro atti della pubblica
amministrazione contro gli atti della pubblica amministrazione è ammessa sempre
la tutela dei propri diritti e dei propri interessi legittimi.
Riconoscimento autonomie locali-decentramento Sussidiarietà (verticale ed
orizzontale), differenziazione ed adeguatezza
Programmazione
Il principio di responsabilità 28 cost
Il principio dell’azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini contro
la PA e il principio di sindacabilità degli atti amministrativi 113 cost
Principi menzionati specificamente dalla legge n. 241/90 e sono, oltre al
principio di legalità, cinque: economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità
e trasparenza (progressivo aumento nel 2005 si è aggiunta la trasparenza e nel
2009 l'imparzialità
Il principio di semplificazione
Il Principio di Collaborazione e buona fede
Provvedimento espresso 2
Motivazione 3
trasparenza e il principio del diritto all'accesso capo V (art. 22-28) della
legge 241/1990
Principio della tutela delle autonomie locali Da Wikipedia.
Art. 3. della Costituzione. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono
eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Articolo 5 della Costituzione che recita: <<La Repubblica, una e indivisibile,
riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo
Stato il più ampio decentramento amministrativo (118); adegua i principi ed i
metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento
(114 e segg., IX).
Articolo 118 della Costituzione. Da Wikipedia. L'articolo 118 ha introdotto nel
nostro ordinamento ulteriori e pregnanti principi; recita il primo comma
dell'articolo: «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che,
per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città
metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza.»
Dopo aver introdotto i principi di sussidiarietà, adeguatezza e di
differenziazione, il quarto comma dello stesso articolo introduce l'ulteriore
principio di sussidiarietà orizzontale quando stabilisce che: «Stato, Regioni,
Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà.» Con quest'ultimo principio
il legislatore stabilisce che è comunque preferibile (dove possibile) soddisfare
i bisogni pubblici tramite l'attività dei privati piuttosto che con quella della
pubblica amministrazione.
Art. 11 D. Lgs. 267/2000 Difensore civico 1. Lo statuto comunale e quello
provinciale possono prevedere l'istituzione del difensore civico, con compiti di
garanzia dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione
comunale o provinciale, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le
disfunzioni, le carenze ed i ritardi dell'amministrazione nei confronti dei
cittadini.
L’art. 2, co. 186, lett. a), L. 23 dicembre 2009, n. 191 ha soppresso la figura
del difensore civico comunale.
Leggi ordinarie. Legge 241/90. L'attività amministrativa persegue i fini
determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di
imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla
presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti,
nonché dai principi dell'ordinamento comunitario.
Legge 241/1990. Da Wikipedia.
Legge 7 agosto 1990, n. 241. La legge n. 241/1990 che ha definito il
procedimento amministrativo, ha definito il principio della trasparenza e il
principio del diritto all'accesso del procedimento amministrativo. Questi, che
potrebbero definirsi come corollari del principio dell'imparzialità
dell'attività amministrativa, stabiliscono che il procedimento e le relative
informazioni devono essere facilmente accessibili da parte di chi ve ne abbia
legittimo interesse. Dall'applicazione di questi due principi ne deriva che: il
procedimento di formazione dell'atto amministrativo è un procedimento pubblico;
l'avvio del procedimento deve essere portato a conoscenza degli interessati; gli
atti finali del procedimento devono essere pubblicizzati; gli interessati hanno
diritto di prendere visione degli atti e dei documenti procedimentali; gli
interessati hanno diritto di ottenere copia degli atti amministrativi. La
pubblica amministrazione: definizione, principi, struttura e profili di
criticità
Principi menzionati specificamente dalla legge n. 241/90 e sono, oltre al
principio di legalità, cinque: economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità
e trasparenza (progressivo aumento nel 2005 si è aggiunta la trasparenza e nel
2009 l'imparzialità). Inoltre, bisogna aspettare il 1997 e il 2000 per avere
reale applicazione dei Principi della Pubblica amministrazione.
Per principio di imparzialità si intende un comportamento oggettivo
dell’amministrazione, che non avvantaggia e non svantaggia nessuno, che opera
facendo prevalere l’interesse pubblico o privato solamente quando lo stesso
abbia il diritto di prevalere e che, inoltre, si astiene in caso di conflitti di
interessi, anche solo potenziale, che possono non garantire il rispetto del buon
andamento dell’amministrazione. Il principio di imparzialità, insieme al
principio di buon andamento, sono il corollario dell’indipendenza dell’azione
amministrativa, sanciti dall’articolo 97, comma 2, della Costituzione. Pertanto,
con tali principi la pubblica amministrazione non deve discriminare i soggetti
coinvolti e deve garantire trattamenti simili in situazioni analoghe.
Principio di buon andamento
Tale principio, desumibile, come già ricordato, dall’articolo 97, comma 2, della
Carta costituzionale, pone l’obbligo alla pubblica amministrazione di agire
sempre nel modo più adeguato al fine di garantire l’interesse pubblico, evitando
ingerenze esterne, come ad esempio quel tipo di influenze di stampo politico. Il
principio in esame è caratterizzato da principi di stampo privatistico come
efficienza, efficacia, celerità, economicità.
L. 59/1997 (Legge Bassanini). Da Wikipedia. Delega al Governo per il
conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma
della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa.
TEMPESTIVITA' DELL'AZIONE AMM.I principi dell’attività amministrativa
Il procedimento amministrativo è lo strumento utilizzato dalle pubbliche
amministrazioni con il fine di perseguire l’azione amministrativa. L’azione
amministrazione, come disposto dall’articolo 1, comma 1, della legge 241 del
1990, persegue determinati fini di legge, per cui si intende che deve rispettare
la normativa vigente. Inoltre, deve rispettare i principi di imparzialità,
trasparenza, pubblicità, efficacia, economicità, nonché i principi comunitari.
Inoltre, l’articolo 97 della Costituzione, al comma 2, prevede nel nostro
ordinativo il principio di imparzialità e di buon andamento
I principi dell’attività amministrativa previste dal legislatore italiano
I principi comunitari.
I principi dell’attività amministrativa previste dal legislatore italiano
Pertanto, a questo punto diventa importante elencare i diversi principi che,
indirettamente e direttamente, deve rispettare l’azione amministrativa.
Il principio di legalità non è espressamente previsto dalla nostra Costituzione,
ma è considerato un principio generale del nostro ordinamento concernente i
rapporti tra la legge e l’azione amministrativa. Tale principio ha ad oggetto il
punto che l’azione amministrativa deve perseguire determinati fini di legge e,
pertanto, avere la corretta copertura legislativa. Tale principio si ricava
dall’articolo 97, comma 2, che stabilisce che l’organizzazione degli uffici
pubblici segue le disposizioni legislative
Per principio di imparzialità si intende un comportamento oggettivo
dell’amministrazione, che non avvantaggia e non svantaggia nessuno, che opera
facendo prevalere l’interesse pubblico o privato solamente quando lo stesso
abbia il diritto di prevalere e che, inoltre, si astiene in caso di conflitti di
interessi, anche solo potenziale, che possono non garantire il rispetto del buon
andamento dell’amministrazione. Il principio di imparzialità, insieme al
principio di buon andamento, sono il corollario dell’indipendenza dell’azione
amministrativa, sanciti dall’articolo 97, comma 2, della Costituzione. Pertanto,
con tali principi la pubblica amministrazione non deve discriminare i soggetti
coinvolti e deve garantire trattamenti simili in situazioni analoghe.
Tale principio, desumibile, come già ricordato, dall’articolo 97, comma 2, della
Carta costituzionale, pone l’obbligo alla pubblica amministrazione di agire
sempre nel modo più adeguato al fine di garantire l’interesse pubblico, evitando
ingerenze esterne, come ad esempio quel tipo di influenze di stampo politico. Il
principio in esame è caratterizzato da principi di stampo privatistico come
efficienza, efficacia, celerità, economicità.
Per principio di trasparenza, possiamo individuare tale principio come un
diritto alla conoscibilità dell’operato della PA all’esterno. Tale principio ha
assunto oggigiorno una connotazione particolare perché, con il decreto
legislativo n. 33 del 14 marzo 2013, nello specifico all’articolo 1, comma 1, la
trasparenza è intesa come accessibilità totale ai documenti e ai dati detenuti
dalla pubblica amministrazione, al fine di promuovere la partecipazione dei
cittadini e il controllo più diffuso al fine di verificare l’effettivo
perseguimento delle finalità istituzionali e del controllo della spesa pubblica.
Diritto di accesso: Il diritto degli interessati di prendere gratuitamente
visione ed (con costo) estrarre copia di documenti amministrativi
Interesse generale pubblico: nessuna motivazione
per atti generali: nessuna motivazione. Gli interessi diffusi fanno capo ad una
formazione sociale non organizzata e non individuabile autonomamente.
per atti generali più specifici: nessuna motivazione. Gli interessi
collettivi sono, dunque, quegli interessi legittimi che fanno capo ad un ente
esponenziale di un gruppo non occasionale
Interesse privato diretto, concreto, attuale
Il diritto di accesso non può essere negato, ove sia sufficiente fare ricorso al
potere di differimento
Quando non vi sono controinteressati: Il diritto di accesso documentale può
essere esercitato in via informale
Per principio di pubblicità si intende appunto che l’amministrazione è tenuta a
pubblicare i documenti e per cui a rendere conoscibili all’esterno alcuni tipi
di essi. La pubblicità pone la soddisfazione dell’esigenza di un controllo
democratico da parte dei cittadini sull’attività svolta dalla pubblica
amministrazione e si realizza con la pubblicazione e comunicazione di documenti,
atti e procedure, al fine di rendere visibile e controllabile l’operato
dell’amministrazione anche dall’esterno.
Tali principi sono divenuti fondamentali nel nostro ordinamento a seguito di
recenti riforme legislative che hanno comportato l’inserimento all’articolo 1,
comma 2-bis, della legge del 7 agosto del 1990, n. 241, dei principi di
collaborazione e buona fede nel rapporto tra il cittadino e la pubblica
amministrazione. Pertanto, tale previsione rafforza ancora di più la visione dei
cittadini, coinvolgendoli nell’azione amministrativa, in quanto gli stessi non
sono più visti come soggetti meramente passivi della stessa ma, bensì in
un’ottica attiva, di tipo partecipativo.
Tale principio è previsto espressamente all’articolo 1 della legge del 7 agosto
1990, n. 241 e rappresenta un criterio direttivo dell’attività amministrativa,
imponendo all’amministrazione di eliminare ogni fase non necessaria al fine di
garantire la rapidità dell’adozione del provvedimento espresso ed è strettamente
legato al principio di non aggravamento del procedimento, quest’ultimo
giustificato solo da risultanze dell’istruttoria, quindi motivato. Inoltre, il
principio di semplificazione è stato potenziato anche con il Decreto Rilancio
che ha disposto una liberalizzazione e semplificazione dei procedimenti
amministrativi in relazione all’emergenza Covid-19. Inoltre, la semplificazione
nel procedimento amministrativo si evince anche dal termine del procedimento
che, ove non previsto, sia di 30 giorni, nonché dall’obbligo di procedere e
provvedere nei casi di procedimenti di iniziativa privata o d’ufficio.
Infine, la legge del 7 agosto del 1990, n. 241, all’articolo 21-nonies, comma 1,
recentemente novellato, prevede che il termine massimo, c.d. ragionevole, entro
il quale l’amministrazione possa esercitare il potere di annullamento d’ufficio,
pertanto provvedimento di secondo grado, a dodici mesi, decorsi i quali il
provvedimento entra in convalescenza.
La Pubblica Amministrazione: Definizioni, Principi, Strutture e Profili di
Criticità. Perrotta Giulio
Il concetto di Pubblica Amministrazione
Il diritto amministrativo si occupa di regolare l’organizzazione, i mezzi e le
forme delle attività della PA nonché i rapporti tra PA e gli altri soggetti
dell’ordinamento, sia nel caso in cui la PA agisca come “autorità” (spendendo il
potere autoritativo) e sia quando la PA agisce come un qualsiasi “soggetto
privato” (utilizzando i mezzi e gli strumenti del diritto privato, come
prescrive l’art. 1-bis, legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 15/2005).
La nozione di PA può essere intesa in senso: a) OGGETTIVO; b) SOGGETTIVO.
In riferimento al punto a), la PA svolge l’attività diretta alla cura concreta
degli interessi pubblici, posta in essere in base alla legge e nel rispetto dei
fini dalla stessa (legge) predeterminati. Merita menzione la differenza tra
“attività politica” e “attività amministrativa”: la prima tendenzialmente
insindacabile in sede giurisdizionale (es. art. 31, TU Consiglio di Stato,
affermante: è esclusa l’impugnazione in sede giurisdizionale degli atti o
provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico); la
seconda, ampiamente discrezionale, ma sempre suscettibile d’essere contestata in
sede giurisdizionale.
In riferimento al punto b), la PA è l’insieme delle strutture costituite per lo
svolgimento di funzioni amministrative. E’ noto, pertanto, che manca una
definizione legislativa di carattere generale, mentre il legislatore si
preoccupa di definire la PA solo in riferimento ad un certo ambito (es. art. 1,
comma 2, T.U. n. 165/2001 in materia di lavoro pubblico).
La Dottrina e la Giurisprudenza hanno elaborato degli INDICI DI RICONOSCIMENTO
DELLA NATURA PUBBLICA DI UN ENTE; per cui, la natura pubblica viene desunta da:
a) esistenza di un sistema di controlli pubblici;
b) partecipazione dello Stato o altro Ente pubblico alle spese di gestione;
c) costituzione su iniziativa pubblica;
d) esistenza di un potere di direzione in capo ad un ente pubblico;
e) ingerenza di un ente pubblico nella nomina degli organi di vertice.
La nozione comunitaria di PA e, anch’essa, multiforme, in base al settore
specifico; per es., in riferimento all’art. 45, par. 4, TFUE, per cui la libera
circolazione dei lavoratori non si applica con riguardo agli impieghi nella PA,
la Sent. Corte Giustizia, 17/12/1980, C-149/79, ha accolto una nozione ristretta
di PA, ritenendo che rientrano nella suddetta deroga solo i posti che implicano
la partecipazione diretta o indiretta all’esercizio dei pubblici poteri e alle
mansioni che hanno ad oggetto, la tutela degli interessi generali dello Stato e
delle altre collettività pubbliche. Restando sempre in ambito comunitario, la
nozione di PA in riferimento alla materia degli appalti è più ampia,
assoggettando anche gli “organismi di diritto pubblico”, cioè qualsiasi soggetto
che (sebbene formalmente privato):
a) soddisfi specificamente bisogni
d’interesse generale non avente carattere industriale e commerciale;
b) abbia personalità giuridica;
c) sia sottoposto all’influenza dominante dello Stato, nonostante ciò, anche a
loro spetta l’obbligo, quando scelgono il contraente, di fare una gara
sottoposta alle regole dell’evidenza pubblica di matrice comunitaria
I principi reggenti la PA e la sua attività
Il principio di legalità. Indica la necessità che l’attività dei pubblici poteri
trovi il proprio fondamento nella legge. Secondo questo principio, non ci può
essere apparato amministrativo, nè attribuzione di poteri se non in base alla
legge. Questa definizione del principio di legalità, deve essere intesa a
livello formale, si affianca ad un principio di legalità sostanziale secondo cui
l’amministrazione, non solo deve agire nei limiti e sulla base di una previsione
di legge, ma altresì in conformità ad una disciplina sostanziale posta dalla
legge. Pertanto, abbiamo tre concezioni del principio di legalità:
a) NON CONTRADDITTORIETA’, nel senso che i regolamenti amministrativi non
possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge;
b) IN SENSO FORMALE, per cui la PA ha solo poteri conferiti dalla legge;
c) IN SENSO SOSTANZIALE, per cui la PA
deve esercitare i suoi poteri in conformità a ciò che la legge prescrive. La
prima riserva di legge è sancita all’art. 97 Cost., che afferma: i pubblici
uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano
assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Tale riserva
di legge è generalmente riconosciuta “relativa”, nel senso che lascia spazio
alle fonti secondarie. Le Sentt. C. Cost., n. 307/2003 e 32/2009 hanno affermato
che l’assoluta indeterminatezza del potere demandato ad una PA senza indicazione
di alcun criterio da parte della legge, viola il principio di legalità
sostanziale desumibile dal 97 Cost... La seconda riserva di legge è sancita
all’art. 95, comma 3 Cost., che afferma: la legge provvede all’ordinamento della
Presidenza del Consiglio dei ministri e determina il numero, le attribuzioni e
l’organizzazione dei ministeri.
Il principio di buon andamento e imparzialità. Questi principi, previsti
dall’art. 97 Cost., prescrive il dovere dell’amministrazione di non
discriminazione delle posizione dei soggetti coinvolti dalla sua azione, nel
perseguimento degli interessi affidati alla sua cura (imparzialità) e l’esigenza
della PA d’essere un soggetto agente efficace, cioè mentre un’impresa privata
agisce con efficienza se raggiunge un certo profitto, per la PA il profitto e
rappresentato dall’utile sociale raggiunto attraverso un più o meno grande
sacrificio di posizioni soggettive (buon andamento).
Per l’art. 97 Cost.: i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di
legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità
dell’amministrazione. In particolare, il BUON ANDAMENTO afferma che l’attività
della PA deve essere diretta a realizzare l’interesse pubblico. Per far ciò,
l’azione amministrativa deve essere guidata non solo dal principio della
legalità ma anche dai principi dell’efficacia ed efficienza. Riguardo il
principio di efficienza o di economicità fa riferimento ha i mezzi impiegati
dall’amministrazione nella propria attività dove un’amministrazione si dice che
è efficiente quando adotta i mezzi più adatti e meno costosi per svolgere i
propri compiti (un’amministrazione che impiega più personale, più denaro,
etc.…agisce in modo inefficiente o comunque non economico). Tale principio in
sostanza ha lo scopo di evitare gli sprechi. Il principio di efficacia riguarda
invece i risultati effettivamente raggiunti dalla PA. Un’amministrazione si dice
che è efficiente se riesce a raggiungere i risultati che si è prefissata di
voler raggiungere. Quindi, per es., l’amministrazione scolastica è efficiente se
riesce a ottenere una buona preparazione culturale o professionale degli
studenti o riesce ad evitare troppe bocciature. Sulla base di tale previsione
normativa, i criteri generali da osservare sono: 1) economicità; 2) rapidità; 3)
efficacia; 4) efficienza; 5) miglior contemperamento dei vari interessi.
In riferimento alla IMPARZIALITA’, si stabilisce che l’attività della pubblica
amministrazione, volta alla realizzazione dell’interesse pubblico, deve essere
svolta con imparzialità. L’imparzialità deve intendersi sia come divieto di
qualsiasi forma di favoritismo nei confronti di alcuni soggetti (divieto di
comportamento negativo), sia come ugual diritto di tutti i cittadini ad accedere
ai servizi erogati dalla PA (obbligo di comportamento positivo).
Questi due principi sono previsti dall’art. 5 Cost., nel quale “si riconosce e
promuove le autonomie locali e attua nei servizi che dipendono dallo Stato, il
più ampio decentramento amministrativo“.
Viene indicato con principio di sussidiarietà, quel principio sociale e
giuridico che stabilisce l’intervento degli Enti pubblici territoriali (Regioni,
Città Metropolitane, Province e Comuni), sia nei confronti dei cittadini sia
degli enti e suddivisioni amministrative ad esso sottostanti (ovvero
l’intervento di organismi sovranazionali nei confronti degli stati membri),
debba essere attuato esclusivamente come sussidio (ovvero come aiuto, dal latino
subsidium) nel caso in cui il cittadino o l’entità sottostante sia
impossibilitata ad agire per conto proprio. Detto in altri termini, il principio
di sussidiarietà stabilisce che le attività amministrative vengono svolte
dall’entità territoriale amministrativa più vicina ai cittadini (i comuni), ma
esse possono essere esercitate dai livelli amministrativi territoriali superiori
(Regioni, Province, Città metropolitane, Stato) solo se questi possono rendere
il servizio in maniera più efficace ed efficiente. Si parla di sussidiarietà
verticale quando i bisogni dei cittadini sono soddisfatti dall’azione degli
enti amministrativi pubblici, e di sussidiarietà orizzontale quando tali
bisogni sono soddisfatti dai cittadini stessi, magari in forma associata e - o
volontaristica.
Il principio di sussidiarietà è stato recepito nell’ordinamento italiano con
l’art. 118 Cost... Tale principio implica che:
a) le diverse istituzioni, nazionali come sovranazionali, debbano tendere a
creare le condizioni che permettono alla persona e alle aggregazioni sociali di
agire liberamente senza sostituirsi ad essi nello svolgimento delle loro
attività: un’entità di livello superiore non deve agire in situazioni nelle
quali l’entità di livello inferiore (e, da ultimo, il cittadino) e in grado di
agire per proprio conto;
b) l’intervento dell’entità di livello superiore debba essere temporaneo e teso
a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore;
c) l’intervento pubblico sia attuato quanto più vicino possibile al cittadino.
Il principio d’adeguatezza stabilisce che l’entità organizzativa che è
potenzialmente titolare di una potestà amministrativa, deve avere
un’organizzazione adatta a garantire l’effettivo esercizio di tali potestà;
l’adeguatezza va considerata sia rispetto al singolo ente, sia rispetto all’ente
associato con altri enti, per l’esercizio delle funzioni amministrative. Il
principio di adeguatezza è citato nell’ordinamento italiano all’art. 118 Cost.,
unitariamente al principio di sussidiarietà e differenziazione. Dal combinato di
questo principio con il principio di sussidiarietà, si ricava che, se l’ente
territoriale a cui è affidata una funzione amministrativa, che per il principio
della sussidiarietà dovrebbe essere quello più vicino al cittadino amministrato,
non ha la struttura organizzativa per rendere il servizio, questa funzione deve
essere attribuita all’entità amministrativa territoriale superiore.
Il principio di differenziazione stabilisce che nell’assegnare una potestà
amministrativa, si devono considerare le caratteristiche degli enti
amministrativi riceventi; queste sono caratteristiche demografiche,
territoriali, associative, strutturali che possono variare anche in misura
notevole nella realtà del paese. Il principio di differenziazione è citato
nell’ordinamento italiano all’art. 118 Cost...2.7.
Il principio della pubblicità e della trasparenza. Con l’emanazione della legge
n. 241/1990 sono stati introdotti questi due nuovi principi. Si tratta di due
principi che fanno riferimento al fatto che l’amministrazione deve permettere ai
cittadini di potersi informare sulle sue attività. Infatti, a riguardo, la legge
n. 241/1990 riconosce a tutti i cittadini di aver il diritto di accesso ai
documenti amministrativi. Non tutti i documenti sono comunque accessibili non lo
sono quelli coperti da segreto di stato, quelli indicati dal governo con proprio
decreto, etc…
Dall’applicazione di questi due principi ne deriva che:
a) il procedimento di formazione dell’atto amministrativo e un procedimento
pubblico;
b) l’avvio del procedimento deve essere portato a conoscenza degli interessati;
c) gli atti finali del procedimento devono essere pubblicizzati;
d) gli interessati hanno diritto di prendere visione degli atti e dei documenti
procedimentali;
e) gli interessati hanno diritto di ottenere copia degli atti amministrativi.
Per l’art. 28 Cost: “I funzionari ed i dipendenti dello stato e degli enti
pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e
amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la
responsabilità civile si estende anche allo Stato e agli enti pubblici”. Questo
principio ci dice che determinati soggetti che svolgono la propria attività in
un determinato ufficio, devono rendere conto della loro attività svolta perché
di quegli atti compiuti essi ne rispondono in solido con l’amministrazione.
Si tratta di principi disciplinati dagli:
a) art. 24 Cost. (tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri
diritti e interessi legittimi);
b) art. 113 Cost. (contro gli atti della PA è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di
giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può
essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate
categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono
annullare gli atti della PA nei casi e con gli effetti previsti dalla legge
stessa).
Secondo questi principi, tutti possono agire in giudizio per tutelare i propri
diritti soggettivi e gli interessi legittimi, dinanzi ad un giudice ordinario
quando vi è stata una violazione dei diritti soggettivi dove qui il giudice
ordinario se vi è stata una violazione di un diritto soggettivo, disapplica
l’atto amministrativo dichiarandolo illegittimo, oppure dinanzi ad un giudice
amministrativo quando è stato violato un interesse legittimo dove qui il giudice
annulla l’atto amministrativo illegittimo. Leggi L. 59/1997 (Legge Bassanini)
LA RIFORMA DEGLI ENTI LOCALI ALLA LUCE DELLA LEGGE BASSANINI. CAPITOLO 2.
Rosanna Sangiuliano, Diritto degli enti locali XII edizione, Edizioni Giuridiche
Simone 2001, Cap 21.
La legge 15 marzo 1997, n.59.
Questa legge nasce da un’iniziativa del Governo tesa a riformare le strutture
della Pubblica Amministrazione attraverso un esteso decentramento di funzioni e
competenze amministrative dallo Stato alle Regioni ed agli enti locali. Si
tratta di un provvedimento legislativo di rango primario, che reca principi e
riforme di portata generale, appena al di sotto di quelli di rango
costituzionale. Con il termine di federalismo amministrativo si vuole intendere
la massima concessione di autonomia da parte dello Stato in favore di Regioni,
Province e Comuni, attuabile con legge ordinaria, senza modifiche alla
Costituzione. Il meccanismo della cessione di poteri statuali verso le
periferiche è molteplice. A discrezione del legislatore delegato, esso potrà
concretizzarsi in trasferimento, cioè in una definitiva dismissione di
competenze da parte dello Stato; potrà tradursi in deleghe, quindi in cessioni a
tempo indeterminato ma revocabili di esercizio di poteri dello Stato; potrà
infine consistere nell’attribuzione ex novo di funzioni e compiti nascenti dal
ridisegno delle strutture amministrative.
L’art. 1 della L. 59/1997 stabilisce che, con successivi D.Lgs., sono trasferite
alle Regioni ed agli enti locali:
tutte le funzioni amministrative relative alla cura degli interessi ed alla
promozione dello sviluppo delle rispettive Comunità (criterio sostanziale);
tutte le funzioni amministrative localizzabili nei rispettivi territori, anche
se esse siano attualmente esercitate da organi o amministrazioni centrali o
periferiche allo Stato (criterio formale territoriale). Per converso restano
allo Stato le funzioni relative alla cura degli interessi nazionali e quelle non
localizzabili in aree definite del territorio nazionale; in generale tali
materie sono state evidenziate usufruendo del principio di sussidiarietà
(enunciato in modo compiuto per la prima volta nel Trattato di Maastricht), in
base al quale lo Stato deve trattenere a sé solamente quelle funzioni che per
loro natura non possono essere attribuite agli enti minori in quanto
incompatibili con le dimensioni degli stessi. Un concetto d’immediata
comprensione se si pensa al federalismo fiscale: rendendo più stretto il cerchio
fra l’ente che tassa e il cittadino che paga aumenta il controllo sulla spesa e
induce gli amministratori ad una maggiore efficienza e trasparenza; il rischio è
quello di sottrarre il prelievo tributario al controllo del Governo e vederne
aumentare il peso. In buona sostanza il meccanismo funziona così: al Comune
vanno tutte le funzioni amministrative con l’esclusione di quelle che esso non
può svolgere date le proprie ristrette dimensioni; queste sono attribuite alla
Provincia, o dove presente alla Comunità Montana, con l’esclusione di quelle che
non possono essere adeguatamente svolte in ambito provinciale. Queste devono
essere riservate alle Regioni o, se esulino anche dall’ambito territoriale e di
interesse regionale, alla Stato. Il riparto delle competenze verso gli enti
territoriali è ancorato anche ad altri principi quali:
PRINCIPI DI RIFERIMENTO PER IL RIPARTO DELLE COMPETENZE
Principio di responsabilità ed unicità dell’amministrazione
Principio di efficienza ed economicità
Principio di cooperazione
Principio di completezza
Principio di omogeneità
Principio di adeguatezza
Principio di differenziazione
Principio della copertura finanziaria
Principio di autonomia organizzativa e regolamentare
Le competenze non cedute agli enti locali devono essere attribuite alle Regioni,
cui spettano anche compiti di programmazione nelle materie conferite a Province
e Comuni.
per cui il conferimento dovrà assicurare efficienza ed economicità delle
funzioni che saranno poi svolte dalle Regioni e dagli enti locali, il
legislatore delegato può sopprimere le funzioni ed i compiti divenuti superflui.
Principio di cooperazione fra Stato, Regione ed enti locali.
Per cui ciascun servizio o attività amministrativa dovrà essere identificabile
in capo ad un unico organo responsabile, singolo o collegiale.
Strettamente correlato al precedente vuole che nell’attribuzione delle funzioni
e delle responsabilità amministrative si tenga conto delle funzioni già
esercitate, attribuendo funzioni e compiti omogenei allo stesso livello di
governo.
In base a questo principio l’amministrazione che riceve il conferimento di
funzioni e compiti in base al principio di sussidiarietà deve essere idonea
organizzativamente a garantirne l’esercizio, al limite in forma associata con
altri enti.
per cui il legislatore nell’allocazione delle funzioni da conferire dovrà tenere
conto anche delle diverse caratteristiche degli enti riceventi.
I decreti legislativi delegati non potranno conferire funzioni se non previa
verifica della capacità finanziaria degli enti riceventi.
Principio di autonomia organizzativa e regolamentare.
Agli enti riceventi dovrà essere garantita autonomia organizzativa e
regolamentare, con particolare riguardo alle funzioni conferite, anche allo
scopo di rendere effettiva la responsabilità, con l’attribuzione di poteri
d’azione commisurati alle incombenze amministrative conferite.
La legge 15 maggio 1997, n.127
Con questa legge sono adottate misure urgenti per lo snellimento dell’attività
amministrativa e di procedimenti di decisione e di controllo, sono inoltre
introdotte rilevanti modifiche nell’ordinamento degli enti locali.
Possiamo riassumere le innovazioni introdotte nel seguente elenco:
attribuzione agli enti locali di maggiori poteri in materia di potestà auto
organizzativa e di gestione del personale;
ulteriore riduzione dell’ambito di competenza dei Consigli comunali e
provinciali il cui ruolo si circoscrive con chiarezza alle funzioni di indirizzo
e di controllo politico;
attribuzione di maggiori poteri al Sindaco rispetto alla Giunta (tra cui il
nuovo potere di scelta discrezionale del Segretario dell’Ente);
piena attuazione del principio di separazione fra politica ed amministrazione;
riforma della dirigenza degli enti locali, molte competenze operative, prima
attribuite al sindaco od alla giunta spettano ora ai manager;
ridefinizione della figura del Direttore generale, del quale possono dotarsi i
Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o i consorzi di Comuni che,
tutti insieme, raggiungano tale popolazione;
riforma dei Segretari comunali e provinciali;
drastica riduzione dei controlli regionali sugli enti locali;
altre innovazioni in materia di funzionamento dei Consigli comunali e
provinciali;
di Aziende speciali e di società per azioni a partecipazione comunale;
di semplificazione dei procedimenti di gestione del patrimonio comunale e
provinciale ed in materia contabile, a integrazione e completamento del disegno
tracciato dal D.lgs. 77/1995.
Le leggi 16 giugno 1998, n. 191 e 8 marzo 1999 n. 50.
Queste due sono conosciute anche come "Bassanini ter" e "Bassanini quater"; in
particolare la prima ha previsto: l’ampliamento dei criteri ai quali le Regioni
devono attenersi nel trasferire funzioni e compiti agli enti locali: al criterio
di sussidiarietà si aggiungono i criteri di efficienza ed economicità;
disposizioni innovative in materia di stato civile e di certificazione
anagrafica nonché in materia di dichiarazioni sostitutive e di semplificazione
della domanda di ammissione agli impieghi; disposizioni normative sia in materia
di formazione del personale dipendente che di lavoro a distanza nelle pubbliche
amministrazioni; disposizioni normative in materia di edilizia scolastica.
La legge 24 novembre 2000, n. 340
Con il varo della legge 340/2000 (legge di semplificazione 1999) sono indotte
ulteriori novità in tema di snellimento degli istituti e delle procedure
amministrative. In relazione agli Enti Locali si prevede in particolare:
l’obbligo di adottare nei procedimenti di interesse dello sportello unico le
misure organizzative necessarie allo snellimento delle attività istruttorie
dirette a realizzare, ristrutturare e riconvertire gli impianti produttivi;
l’estensione dell’ambito di applicazione dell’istituto dell’autocertificazione;
lo snellimento dell’attività dell’istituto della conferenza dei servizi e dei
relativi processi decisionali; la delegificazione di numerosi procedimenti tra
cui quelli connessi alle espropriazioni, al rilascio delle concessioni edilizie
e di altri atti di assenso concernenti l’attività edilizia.
Legge 7
agosto 1990, n. 241
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La legge 7 agosto 1990, n. 241 è una legge della Repubblica Italiana, firmata
dal Presidente del Consiglio dei ministri Giulio Andreotti e dal Presidente
della Repubblica Francesco Cossiga, e più volte modificata e migliorata nel
corso degli anni.
La legge, per il contenuto delle sue disposizioni, ha rappresentato una notevole
innovazione per l'attività della pubblica amministrazione italiana e più in
generale per il diritto amministrativo italiano, introducendo il diritto di
accesso agli atti amministrativi in Italia.
Il contenuto
Riassumendo il contenuto della legge, esso può essere sintetizzato come segue:
sono stati introdotti diversi momenti e meccanismi tramite i quali il privato
può intervenire nell'attività della pubblica amministrazione;
introduzione di una disciplina generale dell'istituto della conferenza di
servizi;
i provvedimenti amministrativi devono riportare obbligatoriamente la motivazione
"giuridica" (ad eccezione degli atti aventi portata generale ed astratta, come i
regolamenti);
l'autorità amministrativa ha l'obbligo di dare comunicazione o notizia
dell'avvio del procedimento amministrativo;
la previsione dell'esistenza degli interessi legittimi collettivi;
l'individuazione della figura responsabile del procedimento amministrativo e la
previsione dell'obbligo di comunicazione del responsabile agli interessati dal
provvedimento amministrativo;
l'istituzione degli accordi integrativi o sostitutivi tra privati e pubblica
amministrazione, come possibilità per sostituire provvedimenti di carattere
amministrativo;
disciplina del silenzio amministrativo nei casi previsti dalla legge;
l'istituto della denuncia di inizio attività nei casi in cui sia richiesta
un'autorizzazione;
l'introduzione del diritto di accesso agli atti amministrativi in Italia, che
prevede la possibilità per i cittadini di avere accesso agli atti della pubblica
amministrazione, di poterne prendere visione ed estrazione di copia.
Innovazioni principali
Obbligo di adozione di provvedimento espresso
Viene formalmente sancito il dovere di conclusione del procedimento tramite
l'adozione di un provvedimento espresso, sia che il procedimento abbia avvio
da istanza che d'ufficio.
Il legislatore prevede sanzioni a carico dell'amministrazione con l'obbligo di
provvedere, ad esclusione dei casi di silenzio amministrativo qualificato e dei
concorsi pubblici, al risarcimento del danno ingiusto procurato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento,
oltre il diritto ad ottenere un indennizzo per il semplice ritardo, secondo
quanto previsto dalla legge.
Il diritto di accesso agli atti amministrativi
La richiesta di accesso va presentata all'amministrazione che detiene
il documento e deve essere regolarmente motivata. La pubblica amministrazione
deve decidere entro 30 giorni (fatti salvi eventuali ricorsi), trascorsi i quali
la richiesta si intende respinta. Sono comunque esclusi i documenti coperti
da segreto di Stato.
In particolare, riguardo al diritto di accesso, le caratteristiche sono
enunciate nel capo V (art. 22-28) della legge 241/1990:
la previsione del requisito un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento al quale è chiesto l'accesso;
il diritto all'accesso è negato qualora dalla loro divulgazione possa derivare
una lesione (...) alla sicurezza e alla difesa nazionale, quando i documenti
riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche e persone
giuridiche;
l'amministrazione, prima di rispondere positivamente, deve verificare ed
informare eventuali controinteressati che potrebbero avere pregiudizio da un
eventuale esercizio del diritto d'accesso;
il successivo art. 25 stabilisce che il giudice amministrativo (ovvero il
Tribunale amministrativo regionale, detto TAR, in primo grado e il Consiglio di
Stato in appello), sussistendone i presupposti, ordina l'esibizione dei
documenti richiesti, peraltro avvalendosi di un rito processuale particolarmente
celere con termini dimezzati.
Altre disposizioni di rilievo, come una normazione generale dell'istituto
della conferenza di servizi, l'introduzione dell'obbligo della motivazione
del provvedimento amministrativo e la creazione della figura del responsabile
del procedimento amministrativo e l'individuazione di termini entro i quali un
procedimento amministrativo debba concludersi.
Procedimento amministrativo
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il procedimento amministrativo, nell'ordinamento giuridico italiano, è una
sequenza ordinata di atti finalizzata all'emanazione di un provvedimento
amministrativo.
Esso definisce l'azione dell'amministrazione pubblica nel perseguimento
del pubblico interesse e la vincola al rispetto di regole preordinate,
caratteristica generale dei moderni ordinamenti, ed è supervisionato
dal responsabile del procedimento amministrativo. Da non confondersi con
il processo amministrativo, che è invece il procedimento giurisdizionale per
controversie di diritto amministrativo.
Caratteristiche
Il procedimento amministrativo si configura come una serie di atti tramite i
quali la pubblica amministrazione provvede a definire e manifestare la propria
volontà, ovvero a produrre gli effetti giuridici propri di una determinata
fattispecie. A livello definitorio, possiamo dire che, affinché un atto
amministrativo sia perfetto ed efficace, esso deve essere emanato dopo avere
seguito un particolare iter, comprendente più atti e operazioni, che, nel loro
complesso prendono il nome di procedimento amministrativo.
Il procedimento amministrativo può essere definito come la forma della funzione,
cioè attraverso una serie coordinata di attività ed atti procedimentali risulta
l'intermediario tra due situazioni statiche: il potere (momento iniziale
dell'attribuzione) e il provvedimento (momento finale della produzione).
Il procedimento amministrativo garantisce la corretta formazione della volontà
della pubblica amministrazione e il rispetto dei principi sanciti all'art. 97
della Costituzione, di legalità, imparzialità e buon andamento
dell'amministrazione.
Principi giurisprudenziali comuni ai procedimenti
Esistono una serie di principi comuni a tutti i tipi di procedimento
amministrativo elaborati dal giudice amministrativo; essi sono:
necessarietà: la mancanza del procedimento comporta l'annullabilità
dell'esercizio dell'attività;
esatta e completa individuazione dei fatti e degli interessi: l'amministrazione
deve valutare gli interessi su cui la decisione andrà ad influire, nel caso i
fatti assunti alla base della decisione siano infondati, il procedimento è
illegittimo;
congruità, coerenza, logicità o ragionevolezza con il presupposto: ci deve
essere corrispondenza tra le premesse che hanno mosso l'amministrazione e le sue
conseguenze;
imparzialità, con radici nell'art. 97 della Costituzione;
conoscibilità;
proporzionalità: la scelta dell'amministrazione deve comportare il minor
sacrificio possibile sia per le finanze pubbliche che per l'eventuale lesione di
diritti o interessi privati.
I principi dell'attività amministrativa
Per discutere adeguatamente del procedimento amministrativo è importante fare
anche luce su una serie di elementi e principi correlati alle attività
amministrative.
La norma fondamentale in materia di organizzazione dell'azione amministrativa
risiede nell'art. 97 della Costituzione, il quale afferma che "i pubblici uffici
sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati
il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione".
Tale disposizione viene riassunta in dottrina e in giurisprudenza nel criterio
supremo della ragionevolezza dell'azione amministrativa. L'art.97 si indirizza
immediatamente e programmaticamente al legislatore.
La legge 241/1990, nel dettare le regole del procedimento amministrativo, fa
propri i principi costituzionali di buon andamento e imparzialità e vi aggiunge
gli ulteriori criteri della economicità, efficacia, efficienza, imparzialità,
pubblicità, trasparenza.
Infatti, recita l'art. 1 al comma 1:
«l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da
criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di
trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre
disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi
dell'ordinamento comunitario.»
Atti giuridici della pubblica amministrazione
Come detto, il procedimento è funzionale alla determinazione della volontà e
degli atti della pubblica amministrazione, affinché un atto amministrativo (o un
provvedimento, che è una sottospecie di atto), deve di regola essere emanato a
seguito di un particolare iter comprendente più atti giuridici, che, nel loro
complesso prendono il nome di procedimento amministrativo. La validità di ogni
atto del procedimento è condizionata dalla efficacia di quelli che lo devono
precedere, e, cioè, dei presupposti (su questo v. F. Ancora, L'individuazione
dell'atto amministrativo presupposto, in Giurisdiz. amm., 2009, n. 9) Si ricorda
come gli atti giuridici posti in essere dalla pubblica amministrazione possono
essere:
atti di diritto pubblico, posti in essere secondo i principi e le forme del
diritto pubblico; in questo caso la pubblica amministrazione agisce come organo
pubblico, dotato anche di poteri di imperio e si pone su un piano di supremazia
rispetto ai destinatari dei propri atti; quando la pubblica amministrazione
emette degli atti seguendo le norme di diritto pubblico, i privati sono tenuti
ad assoggettarsi, ma, qualora tale assoggettamento non avvenisse spontaneamente,
la pubblica amministrazione potrà utilizzare la forza pubblica per dare
esecuzione alle proprie situazioni manu militari. Se il privato ritenesse leso
il proprio diritto potrà ricorrere al Tribunale amministrativo regionale per
farlo valere, ma potrà anche invitare l'amministrazione ad agire in autotutela,
che sarà libera di modificare o revocare l'atto, accogliendo la segnalazione del
privato su violazioni di legge o regolamento.
atti di diritto privato, posti in essere dalla pubblica amministrazione
allorquando agisca secondo le norme civili, ponendo in essere negozi di diritto
privato. La pubblica amministrazione si troverà così su un piano di parità
rispetto agli altri soggetti privati dell'ordinamento.
Negli ultimi anni si è andato affermando il principio tendenziale che guarda con
favore al superamento del vecchio dogma che attribuiva alla pubblica
amministrazione, in generale, il dovere di agire mediante poteri di imperio.
Tale orientamento è stato consacrato con la L. 15/2005, che ha aggiunto il comma
1-bis all'art. 1 della legge 241/1990 sancendo il principio generale secondo cui
le amministrazioni pubbliche nell'adozione di atti di natura non autoritativa
agiscono secondo le norme del diritto privato; tale disposizione è riferita
all'intera azione amministrativa.
L'impressione generale è comunque, secondo il Napolitano, che: «il diritto
privato (...) possa diventare effettivamente il principio ordinatore dell'azione
amministrativa, soltanto laddove si riescano a contemperare le esigenze di
flessibilità e di parità con i caratteri essenziali del necessario regime
funzionale dell'amministrazione.»
Procedimento amministrativo e diritto di accesso
Il procedimento amministrativo è regolato principalmente dalla legge 241/1990,
che ne stabilisce i principi, anche in accordo agli orientamenti europei circa
il cosiddetto "giusto procedimento". È evidente come da tale normativa vengano
comunque coperti gli aspetti principali del procedimento.
Già al capo primo sono diversi i principi richiamati. L'articolo 1 fa
riferimento ai fini perseguiti dall'azione amministrativa, che devono essere
quelli determinati dalla legge.
Inoltre, si aggiunge che l'azione amministrativa è retta dai criteri di
economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità, trasparenza secondo le
disposizioni di legge e i principi dell'ordinamento comunitario. Sempre all'art.
1 viene inserito un chiaro riferimento all'utilizzo degli strumenti negoziali da
parte dell'autorità amministrativa allorché adotti atti di natura non
autoritativa, salvo che la legge disponga diversamente; ciò deve comunque sempre
avvenire nel rispetto dell'interesse pubblico e dei fini istituzionali
dell'amministrazione. Con tale norma si è semplicemente presupposto che lo
strumento negoziale privato possa meglio conciliare gli interessi pubblici con
la tutela di quelli privati, o col loro minor sacrificio.
Altro principio espressamente citato è il divieto di aggravamento del
procedimento: esso fa divieto all'amministrazione, se non per straordinarie e
motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria, di aggravare il
procedimento, nel senso di aggiungere controlli, ispezioni, richieste di
documenti, e quant'altro possa rendere più oneroso il procedimento per
l'amministrazione e il privato senza un concreto motivo di interesse pubblico,
questo a tutela dell'economicità e dell'efficacia dei procedimenti, nonché del
minor sacrificio possibile degli interessi dei privati.
Altro punto ormai consolidato del procedimento amministrativo riguarda i tempi
di conclusione del procedimento e il dovere di conclusione con provvedimento
espresso. Tali principi obbligano la pubblica amministrazione a concludere in
maniera esplicita i procedimenti, sia quelli iniziati ad istanza di parte, sia
quelli iniziati d'ufficio, in modo da conferire "certezza" al suo operato e un
tempo limite cui il privato possa fare affidamento per eventuali iniziative
avverso il silenzio dell'amministrazione.
Elementi e principi del procedimento
Per lungo tempo il procedimento amministrativo è stato argomento di acceso
dibattito, a causa della mancanza di una disciplina generale; questo problema è
stato risolto definitivamente con l'entrata in vigore della legge 241/1990,
successivamente novellata dalla legge 15/2005 e dalla legge 80/2005. La
normativa in parola, in armonia con l'art. 97 della Costituzione, fissa regole
generali ispirate ai seguenti principi:
principio del giusto procedimento, comprendente il "diritto di partecipazione
degli interessati", l'"identificazione preventiva dell'ufficio e del
responsabile del procedimento" e il "diritto di accesso" degli interessati ai
documenti;
principio di semplificazione, volto a snellire e rendere più celere il
procedimento.
Fasi del procedimento
La struttura del procedimento varia secondo l'organo competente ad emanare
l'atto terminale, la forma di quest'ultimo, il potere che viene esercitato ecc.
Si può però articolare la sequenza di atti e operazioni in alcune fasi,
riscontrabili nella generalità dei casi:
fase dell'iniziativa;
fase istruttoria;
fase costitutiva;
fase integrativa dell'efficacia.
Non costituiscono, invece, una fase del procedimento ma, semmai, un procedimento
a sé, i controlli successivi. Anch'essi possono essere di legittimità o di
merito ma, in questo caso, l'esito positivo della verifica non condiziona
l'efficacia dell'atto mentre, sulla base dell'esito negativo, può essere
adottato un provvedimento di rimozione dell'atto stesso (annullamento) o dei
suoi effetti (revoca). Le fasi del procedimento amministrativo sono descritte in
particolare nei successivi sottoparagrafi.
Fase dell'iniziativa
La fase dell'iniziativa è quella in cui viene avviato il procedimento. L'avvio
può essere deciso dallo stesso organo competente ad adottare l'atto terminale
(avvio d'ufficio) o essere conseguenza di un atto d'impulso, che può provenire
da un privato (istanza) o da un altro organo pubblico (richiesta, detta proposta
quando, oltre a chiedere l'avvio del procedimento, indica anche il contenuto del
suo atto terminale).
Fase istruttoria
La fase istruttoria comprende le attività volte alla ricognizione e alla
valutazione degli elementi rilevanti per la decisione finale. È questa la fase
che presenta maggior variabilità secondo la natura del procedimento. Nella fase
istruttoria l'organo competente (detto organo attivo) può acquisire il giudizio
di un altro organo, di solito collegiale (detto organo consultivo), per decidere
con cognizione di causa. L'atto con il quale viene manifestato tale giudizio è
detto "parere", che può essere:
parere facoltativo, se l'organo attivo non è tenuto a chiederlo;
parere obbligatorio, se l'organo attivo è tenuto a chiederlo ma non a decidere
in conformità ad esso;
parere vincolante, se l'organo attivo è tenuto a chiederlo e a decidere in
conformità ad esso.
Nell’accertamento valutativo spicca il ruolo del responsabile, che può anche
proporre o indire la conferenza di servizi, quando sono coinvolti vati interessi
pubblici nel procedimento e promuovere la conclusione di accordi con i privati.
L’art. 20 che prevede l’eventualità della indizione della conferenza di servizi
CONFERENZA SERVIZI: Preliminare, Istruttoria, Decisoria.
Semplificata (asincrona senza riunione), Simultanea (sincrona)
Fase costitutiva o decisoria
La fase costitutiva (detta anche fase "deliberatoria" o "decisoria") è quella in
cui l'organo competente, sulla base delle risultanze dell'istruttoria, assume la
sua decisione e adotta l'atto terminale. Quest'ultimo, al termine della fase
costitutiva, è perfetto, ma non necessariamente efficace, ossia in grado di
produrre i suoi effetti. L'atto che conclude il procedimento può non avere
natura di provvedimento.
Fase integrativa dell'efficacia
La fase integrativa dell'efficacia comprende gli eventuali atti e operazioni,
successivi all'adozione dell'atto terminale, necessari affinché questo divenga
efficace. Rientrano in questa fase, tra gli altri:
la comunicazione o pubblicazione, in varie forme, dell'atto, quando questo è
recettizio, ossia quando la sua efficacia è condizionata alla conoscenza da
parte del destinatario;
i controlli preventivi nel corso dei quali un organo diverso da quello attivo
(detto organo di controllo) verifica la conformità dell'atto all'ordinamento
("controllo di legittimità") o la sua opportunità ("controllo di merito");
l'esito positivo di tale verifica è condizione necessaria affinché l'atto possa
divenire efficace;
l'esecuzione forzata del provvedimento, anche avvalendosi della forza pubblica,
qualora uno o più privati non vi ottemperino
Termini
Il termine del procedimento, per le amministrazioni statali, ove non sia già
indicato dalla legge, è stabilito con decreto del presidente del Consiglio dei
ministri su proposta del Ministro competente e sentito il Ministro della
funzione pubblica. In mancanza il termine è fissato dalla legge 241/1990, come
modificata dalla legge 69/18 giugno 2009, in 30 giorni.
Tale termine può essere sospeso per l'acquisizione di valutazioni tecniche di
organi o enti appositi, ma per un periodo massimo, comunque, non superiore a
ulteriori 30 giorni. I termini del procedimento, inoltre, possono essere
sospesi, per una sola volta, ove l'amministrazione debba acquisire informazioni
e certificazioni inerenti a stati e qualità non attestati in documenti in suo
possesso e non direttamente acquisibili presso altre amministrazioni. Scaduti i
termini, ove l'amministrazione risulti inadempiente o non concluda il
procedimento, salvi i casi di silenzio-assenso, finché perdura l'inadempimento e
comunque non oltre un anno, gli interessati possono presentare ricorso avverso
il silenzio, anche senza necessità di diffida. Il giudice amministrativo conosce
della fondatezza dell'istanza ed è fatta salva la riproponibilità dell'istanza
di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.
La partecipazione procedimentale
Una recente sentenza del Consiglio di Stato (la n. 7972/2020,
riguardante Tim, Vivendi e Consob) ha ribadito l'importanza della partecipazione
alla fase di istruttoria di tutte le parti la cui sfera giuridica sarebbe
intaccata dal provvedimento (la cosiddetta "partecipazione procedimentale"); in
caso di atti che agiscono sulla sfera giuridica di una categoria di soggetti, è
invece necessaria la cosiddetta consultazione pubblica. In linea generale, la
giurisprudenza amministrativa, in virtù dell'art. 21-octies della legge
241/1990, non considera in linea generale invalidante l'assenza di una fase di
consultazione ("dequotazione della legalità procedimentale").
Diverso è il caso degli atti emanati da autorità amministrative indipendenti le
quali, pur essendo enti pubblici, possiedono la capacità di emanare atti
amministrativi qualificabili come leggi e afferenti agli ambiti propri di
ciascuna autorità amministrativa indipendente e questo cozza con il principio di
legalità, secondo cui le leggi possono essere emanate solo dagli organi
costituzionali della Repubblica Italiana. La giurisprudenza ha chiarito la
liceità di tale eccezione al principio di legalità (esplicitamente sancito
dalla Costituzione della Repubblica Italiana), dal momento che la legge non è in
grado di andare in profondità su certi temi troppo specialistici, nei quali
invece le autorità amministrative indipendenti possiedono maggiore
specializzazione e competenza. È però richiesto il pieno rispetto della
partecipazione di tutte le parti la cui sfera giuridica è interessata dal
procedimento (siano esse organismi collettivi o singoli soggetti). Data la
necessità di fornire delle garanzie di copertura, ancorché incompleta, del
principio costituzionale di legalità, la mancata completa attuazione della
partecipazione procedimentale può portare, secondo le previsioni della sentenza
del Consiglio di Stato n. 7972/2020, persino all'annullamento di un atto
(autoritativo, sanzionatorio o anche meramente dichiarativo purché abbia un
qualche impatto sulla sfera giuridica altrui) di un'autorità amministrativa
indipendente inerente a un regolamento "qualificabile come legge" dalla stessa
emanato.
Restrittivi: fare non fare (sanzioni)
Ablativi reali: Togliere
Personali: fare o non fare
Obbligatori: prestazione patrimoniale
La Pubblica Amministrazione esercita una pubblica funzione legislativa,
giudiziaria o amministrativa, formando e manifestando, nell’ambito di una
potestà regolata dal diritto pubblico, la volontà della Pubblica Amministrazione
ovvero esercitando poteri deliberativi, autoritativi o certificativi.
Atto
amministrativo rappresentazione volontà, provvedimento atto con obbligo
positivo/negativo
Elementi
necessari: Gli elementi essenziali dell'atto amministrativo sono il soggetto,
l'oggetto, il contenuto, la finalità, la forma ed il destinatario;
Elementi
accidentali:
termine, condizione, onere e riserva
PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO:
è atto a costituire una modifica delle situazioni giuridiche soggettive
Caratteri: Unilateralità, tipicità, nominatività, esecutività, inoppugnabilità (È
l'idoneità del provvedimento a divenire definitivo decorso un breve termine di
decadenza per l'impugnazione),
efficacia (notificazione, controlli), perfezione, validità
Statali-periferici; Particolari-generali; Ampliativi-restrittivi;
Costitutivi-dichiarativi
In cosa si differenziano le autorizzazioni e le abilitazioni?
Entrambe sono provvedimenti discrezionali, ma mentre nelle prime alla P.A. è
riconosciuta una discrezionalità amministrativa nelle seconde ad essa è
riconosciuta una discrezionalità tecnica
STRUTTURA: Intestazione, preambolo, presupposti di fatto e motivi giuridici,
motivazione, integrazione dell’efficacia.
FASI:
iniziativa, istruttoria, decisoria motivata, integrativa dell’efficacia
(eventuale)
MOTIVAZIONE: presupposti di fatto e di diritto (ragioni giuridiche)
No per atti a contenuto normativo e generale
Nel caso di manifesta inammissibilità della domanda, si conclude il
procedimento con un provvedimento espresso in forma semplificata
ACCESSO:
Civico, Generalizzato, Documentale (interesse diretto, concreto ed attuale)
REDAZIONE: Precisione, coerenza, semplicità, economia, chiarezza, correttezza
ortografica e grammaticale
NULLITA’: difetto assoluto di
attribuzione (incompetenza assoluta), violazione o elusione del giudicato, altri
casi espressamente previsti dalla legge”.
ANNULLABILITA’: Incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge
INESISTENZA:
imperfetto quando non sia concluso il suo ciclo di formazione.
INEFFICACE: quando, benché perfetto, non è idoneo a produrre effetti giuridici,
in quanto sono inesistenti i requisiti di efficacia
richiesti, ineseguibile quando diventa inefficace per il sopravvenire di
un atto ostativo.
PATOLOGIA E VIZI DELL’ATTO AMMINISTRATIVO by Gennaro Rotunno
Si considera vizio dell’atto amministrativo la divergenza tra la fattispecie in
concreto, posta in essere dalla P.A., ed il modello astratto predeterminato in
sede normativa. In diritto amministrativo la fattispecie in concreto deve essere
conforme alle norme di legge ed alle regole di opportunità. I vizi possono
essere di legittimità (atto che si discosta da quanto disposto dalle norme) o di
merito (atto non rispondente alle regole di buona amministrazione).
Si definisce amministrazione attiva quella P.A. che chiede il parere e
agisce direttamente per la realizzazione dell'interesse pubblico mediante
l'adozione di provvedimenti amministrativi;
mentre per amministrazione consultiva si intende quell'amministrazione
che rilascia il parere.
L’ INIZIATIVA DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
Da appuntidigiurisprudenza.it.
Il procedimento si apre con l’iniziativa, che può essere ad istanza di parte
ovvero d’ufficio. (art. 2 l. 241/90).
L’iniziativa ad istanza è caratterizzata dal fatto che il dovere di procedere
sorge a seguito dell’atto di impulso proveniente da un soggetto privato oppure
da un soggetto pubblico diverso dall’amministrazione cui è attribuito il potere,
o da un organo differente da quello competente a provvedere.
In caso di formazione del silenzio inadempimento il privato può nuovamente
riproporre l’istanza, come previsto dall’art. 2 l. 241/90 che dispone che “è
fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne
ricorrano i presupposti”.
Negli ultimi due casi l’istanza consiste in un atto amministrativo: la
richiesta, la designazione e la proposta.
La richiesta è l’atto d’iniziativa consistente in una manifestazione di volontà
mediante il quale un’autorità sollecita ad un altro soggetto pubblico
l’emanazione di un determinato provvedimento amministrativo. Es. la richiesta di
parere ex art. 16 l.241/90.
Dalla richiesta si distingue la designazione, la quale consiste nella
indicazione di uno o più nominativi all’autorità competente a provvedere ad una
nomina.
Quest’ultima è l’atto di iniziativa, avente anche contenuto valutativo, con cui
si suggerisce l’esplicazione di una certa attività. Essa può
essere vincolante o non vincolante. Nel primo caso la proposta comporta il
dovere dell’amministrazione procedente di conformarsi alla stessa e di far
proprio il contenuto dell’atto proposto.
Ove si tratti di proposta non vincolante, si ritiene sussistente la possibilità
dell’amministrazione di valutare l’opportunità di esercitare il potere o di non
seguirla.
Una domanda dei privati interessati, tendente ad ottenere un provvedimento a
loro favore.
L’istanza proviene dal solo cittadino ed è espressione della sua autonomia
privata.
Mentre la richiesta, la designazione e la proposta conseguono all’esplicazione
di un potere pubblico e mirano alla cura di interessi pubblici, l’istanza è
posta in essere in funzione di interessi particolari.
Il d.lgs. 126/2016 ha previsto che le amministrazioni statali, con decreto del
ministro competente, adottano moduli unificati e standardizzati che definiscono,
per tipologia di procedimento, i contenuti tipici dei dati delle istanze.
Ai sensi dell’art. 41 d.lgs. 82/2005 le amministrazioni gestiscono i
procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie dell’informazione e della
comunicazione, nei casi e nei modi previsti dalla normativa vigente.
Esse raccolgono in un fascicolo informatico tutti i dati e i documenti. Ogni
atto e documento può essere trasmesso alle amministrazioni con l’uso delle
tecnologie dell’informazione della comunicazione se formato ed inviato nel
rispetto della vigente normativa.
Tutte le ipotesi di atti di iniziativa sopra richiamate ad eccezione della
proposta non vincolante sono comunque caratterizzate dal fatto che sorge, quale
effetto endoprocedimentale (atto preparatorio), il dovere per l’amministrazione
di procedere.
Il Testo Unico in materia di documentazione amministrativa stabilisce che tutte
le istanze e le dichiarazioni da presentare alla p.a. o ai gestori o esercenti
di pubblici servizi possono essere inviate anche per fax e via telematica. Per
quanto riguarda i documenti da chiunque trasmessi ad una p.a. tramite fax o con
altro mezzo telematico idoneo ad accertare la fonte di provenienza soddisfano il
requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da
quella del documento originale.
Di frequente le istanze hanno anche un contenuto rappresentativo di interessi
svolgendo una funzione anticipatrice di quella che la legge affida alle memorie
e osservazioni che possono essere prodotte nel corso dell’istruttoria: talora la
legge prevede l’onere in capo al richiedente di allegare atti o documenti volti
ad attestare il ricorrere di determinati requisiti, consentendo così di
agevolare l’accertamento di fatti e la verifica dei requisiti. A fronte
dell’istanza l’amministrazione deve dar corso al procedimento, ma può anche
rilevarne l’erroneità o la incompletezza; in tale ipotesi, prima di rigettare
l’istanza essa deve procedere alla richiesta della rettifica.
Il dovere per l’amministrazione di procedere sorge soltanto quando l’ordinamento
riconosca la sussistenza di una posizione qualificata in capo al privato.
In caso contrario l’atto del privato non si configura come istanza in senso
proprio bensì come mera denuncia, mediante la quale si rappresenta una data
situazione di fatto all’amministrazione, chiedendo l’adozione di provvedimenti
e/o di misure senza tuttavia che l’ordinamento riconosca in capo a quel privato
un interesse protetto.
Dal combinato disposto di una serie di articoli della l. 241/90 emerge una sorta
di “statuto” dei procedimenti ad istanza di parte. In particolare, ad essi si
applica l’art. 10 bis che impone di comunicare agli istanti i motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza e l’art. 20 che prevede l’eventualità della
indizione della conferenza di servizi, e la possibilità di definizione del
procedimento mediante silenzio-assenso, purché non ricorrano i casi di
esclusione.
L’iniziativa d’ufficio è prevista dall’ordinamento nelle ipotesi in cui il tipo
di interessi pubblici affidati alla cura di un’amministrazione, ovvero il
continuo e corretto esercizio del potere-dovere attribuito al soggetto pubblico,
esiga che questi si attivi automaticamente al ricorrere di alcuni presupposti,
indipendentemente dalla sollecitazione proveniente da soggetti esterni. Le
segnalazioni debbono normalmente essere soggette ad una verifica, la quale in
ogni caso attiene alla sufficienza del fatto rappresentato ai fini
dell’attivazione del procedimento.
La motivazione, elemento strutturale, del provvedimento amministrativo, Deve
indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la
decisione dell'amministrazione in relazione alle risultanze dell'istruttoria,
richiamando espressamente quanto esposto nel preambolo
Caratteristiche del termine nel procedimento amministrativo su tesionline.it
Tratto da DIRITTO AMMINISTRATIVO di Beatrice Cruccolini
Caratteristiche del termine nel procedimento amministrativo
Come nel processo, anche nel procedimento, i termini si distinguono in:
(o di decadenza): il decorso del tempo è fatto impeditivo dell’esercizio della
situazione soggettiva e se questa è esercitata, o è inutilmente data, o rende
viziato l’atto.
il termine fissato dalla norma ha valore indicativo costituendo regola di buona
amministrazione per l’autorità cui spetta la potestà di prorogarli.
il superamento del termine non impedisce
l’esercizio della situazione soggettiva o del potere, ma comporta o può
comportare una sanzione a carico di chi lo ha trasgredito.
Caratteristiche della gestione dei tempi del procedimento amministrativo
Il sistema dei tempi (legislatore ’90) trova il suo “garante” nella figura del
RESPONSABILE, il quale, funge da autorità guida del procedimento e gestisce la
successione seriale delle fasi, costituendo il referente per i soggetti pubblici
e privati.
Responsabile = Persona fisica. Ad esso compete “rispettare e fare rispettare i
termini entro i quali il procedimento dovrà obbligatoriamente concludersi con un
provvedimento espresso.
Egli esercita un ruolo attivo e di controllo in tutta la sequenza
procedimentale, dal momento dell’avvio sino all’adozione dell’atto finale.
E’ chiamato a valutare l’esistenza dei presupposti necessari per l’emanazione
del provvedimento, verificando anche tramite l’accertamento d’ufficio, le
condizioni di ammissibilità dell’istanza e i requisiti di legittimazione.
In caso di “istanze erronee o incomplete” il responsabile può chiederne la
rettifica e in ogni caso deve provvedere all’acquisizione d’ufficio degli atti
se l’interessato dichiari che “fatti stati e qualità siano attestati in
documenti già in possesso della stessa amministrazione procedente o di altra
p.a. o che la p.a. è tenuta a certificare”. Quindi il responsabile del
procedimento deve cooperare con il privato e soccorrerlo nel compimento degli
adempimenti richiesti.
Nella fase istruttoria: deve promuovere la richiesta di pareri e valutazioni
tecniche, sollecitare il rilascio degli stessi, nonché esaminare i documenti
versati nel procedimento.
Nell’accertamento valutativo spicca il ruolo del responsabile, che può anche
proporre o indire la conferenza di servizi e promuovere la conclusione di
accordi con i privati.
Una volta finita l’istruttoria, egli dovrà trasmettere gli atti all’organo
competente per l’adozione, salvo che non spetti a lui la competenza.
Definizione del divieto dell'aggravamento del procedimento amministrativo
Problema della DEROGA dei termini e delle ragioni che la possono determinare.
LEGGE del ’90. Ha notevolmente circoscritto il potere riconosciuto in passato
all’autorità procedente, affermando che “la p.a. non può aggravare il
procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo
svolgimento dell’istruttoria”.
Il divieto d’aggravamento si configura, perciò, come un vero e proprio principio
giuridico che impone alla p.a. di non rallentare il proc. con la previsione di
termini inopinatamente lunga o con la richiesta di adempimenti istruttori
inutili o particolarmente complessi, salvo che ciò non sia determinato da
straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria.
E’ inoltre, richiesta l’esplicita indicazione agli interessati del nuovo termine
per provvedere.
Il requisito della straordinarietà dovrà essere interpretato in modo rigoroso e
il giudice potrà rilevare la violazione del principio di non aggravamento ogni
volta che l’amministrazione invochi generalmente le ragioni istruttorie senza
precisare i motivi di fatto o di diritto che impongono la deroga del termine o
il rallentamento del procedimento.
Esistenza di un sub procedimento
L’esistenza di un sub procedimento non incide sull'unicità del termine finale ma
pone problemi di coordinamento e computo.
Nei pareri e valutazioni tecniche la palese incongruenza tra il termine di 30 gg
e quello più lungo per rilascio degli stessi, deve essere superata ex lege o con
espressa determinazione dell'amministrazione
In mancanza di tale computo, l'avvio del procedimento determina la sospensione
del termine principale.
In altre ipotesi di subprocedimenti che non sfociano in pareri o valutazioni
tecniche, o nell'ipotesi di atti endoprocedimentali, rilasciati da
amministrazione preposte alla tutela ambientale... sono previsti accordi
organizzativi aventi ad oggetto determinazioni dei tempi (per rispettare
l'unicità del termine).
In mancanza di accordo o previsione normativa l'amministrazione procedente deve
subire inerzia altrui qualora l'atto richiesto riguardi "interessi
costituzionalmente forti": conclusione procedimento con provvedimento negativo,
entro il termine stabilito.
Si ricavano perciò, due importanti conseguenze sotto il profilo teorico e
pratico:
1. Il termine finale del procedimento non può considerarsi perentorio, ma più
tecnicamente COMMINATORIO, sia nei proc. ad istanza di parte sia in quelli
d’ufficio.
Il non provvedere entro il termine rituale non estingue il potere
dell’amministrazione, ma può comportare una reazione sanzionatoria
nell’interesse dei soggetti nei cui confronti è stato iniziato il procedimento
incompiuto. In pratica: il superamento dei tempi procedimentali legittima il
privato a reagire contro l’inerzia della p.a., avvalendosi dei mezzi di tutela
amministrativa, risarcitoria e penale.
PROCEDIMENTI D’UFFICIO: ad impulso della stessa p.a. procedente.
PROCEDIMENTI AD ISTANZA DI PARTE: instaurato con atto propulsivo
dell’interessato cui, pertanto, corrisponda o meno l’obbligo della p.a. di
procedere.
Per entrambi i casi opera il termine finale di cui all’art. 2 l. 241/1990
PROCEDIMENTI CONTENZIOSI
PROCEDIMENTI NON CONTENZIOSI
A seconda che sia richiesto o meno in contraddittorio tra le parti, prima
dell’emanazione della l. 241/90 la contenziosità era prevista solo per talune
tipologie procedimentali (es. proc. disciplinare, proc. espropriativi, proc.
concessione di acque…); oggi invece la legge riconosce la contenziosità come
regola generale dell’azione amministrativa, pur se non come principio
costituzionale (corte Cost., sent. 210/1995).
1. a) Nei procedimenti ad istanza di parte, il termine si colloca all’interno
della relazione “DIRITTO SOGGETTIVO” – OBBLIGO” che si instaura tra il privato
che presenta la domanda e la p.a. che è obbligata a provvedere. Poiché si
riproduce un assetto di rapporti corrispondenti a quello esistente tra creditore
– debitore, il modello concettuale di riferimento deve rinvenirsi nel termine
per l’adempimento delle obbligazioni, quindi applicabilità del regime
civilistico.
1. b) Per i procedimenti d’ufficio, il termine svolge essenzialmente una
FUNZIONE DI GARANZIA, collocandosi all’interno della relazione tra il potere
dell’amministrazione che incide negativamente nella sfera giuridica del
destinatario e l’interesse legittimo oppositivo di quest’ultimo. In tal caso il
rapporto di riferimento è il termine per l’esercizio dei diritti potestativi o
il termine perentorio.
Questa 2° tesi coglie il nuovo ruolo svolto dal termine del procedimento:
infatti il FATTORE TEMPORALE non rappresenta un mero elemento integrativo della
fattispecie costitutiva del potere esercitato dall’amministrazione, ma svolge
una funzione di garanzia dei destinatari del provvedimento, collocandosi
all’interno di una relazione di tipo OBBLIGATORIO (diritto dell’istante ad una
risposta e obbligo della p.a. di provvedere).
Costituiscono FATTORI INNOVATIVI rispetto al passato:
1.L’autodeterminazione di tempi certi per la chiusura dei procedimenti;
2.L’individuazione di un responsabile.
Restano comunque 2 problemi:
a) La qualificazione del comportamento omissivo della p.a. (silenzio).
b) La validità o meno di un eventuale provvedimento tardivo.
SILENZIO = “comportamento di inazione”.
La legge qualifica l’inerzia della p.a. equiparando la condotta omissiva agli
effetti di un provvedimento di rigetto o di accoglimento
dell’istanza: c.d.
nelle 2 fattispecie:
SILENZIO DINIEGO
SILENZIO ASSENSO
Laddove manchino qualificazioni legislative esplicite, il silenzio può comunque
assumere valore di COMPORTAMENTO CONCLUDENTE se sussiste un rapporto giuridico
tra amministrazione e cittadino per effetto del quale la prima abbia l’obbligo
di provvedere: c.d. SILENZIO RIFIUTO o SILENZIO INADEMPIMENTO, per indicare la
situazione che si verifica quando il privato presenta una istanza alla p.a. e
questa, pur avendo l’obbligo di provvedere, rimanga inerte (violazione obbligo
di provvedere).
SILENZIO SIGNIFICATIVO → FONTE: è la legge
→ è frutto dell’opera “creativa” del
giudice, mosso dall’esigenza di assicurare agli amministrati un minimo di
garanzia.
Va precisato che il SILENZIO non integra alcun provvedimento fittizio, né
tacito, ma costituisce un mero comportamento. Perciò è preferibile parlare di
SILENZIO INADEMPIMENTO, anziché silenzio rifiuto, al fine di sottolineare che
l’inerzia costituisce violazione di un obbligo di provvedere posto a carico
dell’autorità per la tutela del soggetto interessato all’emanazione dell’atto.
In base al consolidato orientamento giurisprudenziale, l’omissione di
provvedimento da parte della p.a. può acquistare rilevanza, come ipotesi di
silenzio inadempimento, solo qualora sussista un obbligo di provvedere e
l’interessato abbia formalmente diffidato l’amministrazione assegnandogli un
termine per adempiere.
Art. 2 della legge sul procedimento: determinato il superamento dell'iter di
emersione del silenzio rifiuto, fondato sulla diffida sostituendolo con un iter
basato semplicemente sul decorso del termine. Nel sistema antecedente la diffida
aveva la funzione di "rendere univoco il silenzio come espressione volontà
negativa" attraverso fissazione di un termine tale da concretizzare
inadempimento.
Ciò non ha più senso in un sistema dove ogni procedimento ha termine certo.
Laddove la p.a. non emani un provvedimento entro il termine prestabilito, si
determina una violazione dell'obbligo di provvedere con automatica formazione
del silenzio inadempimento e conseguente possibilità per l'interessato di
esperire ricorso giurisdizionale.
Il giudice può imporre obbligo di pronuncia espressa, in caso di fondatezza
della pretesa sostanziale prospettata.
Nell’affermare il carattere cogente del termine, la norma prevede un triplice
ordine di fonti per la sua determinazione: LEGGE; REGOLAMENTO; ATTI DELLA
SINGOLA AMMINISTRAZIONE.
Per ciascun tipo di procedimento “il termine può essere già disposto per legge o
regolamento”. Qualora manchino disposizioni di legge o di regolamento spetta
alle p.a. determinare il termine entro cui deve concludersi il procedimento,
diversificando la disciplina secondo le diverse tipologie di provvedimento.
TERMINE
Il giorno iniziale. Avvio del procedimento, e varia a seconda del tipo di
iniziativa:
Nel caso di proc. d’ufficio, si identifica con l’atto di affidamento della
pratica all’unità organizzativa responsabile.
Nei proc. ad istanza di parte, con il giorno di “ricevimento della domanda e
della richiesta”, cioè con la data del timbro risultante nel protocollo di
arrivo dell’amministrazione.
In entrambi i casi dovrà essere comunicato dal responsabile a tutti i soggetti
interessati al procedimento.
Il termine finale ha carattere unitario, si riferisce, cioè, all’intero
procedimento e non a fasi di esso e a sub- procedimenti.
Il termine “unico” risponde infatti alla Ratio della normativa di tutelare il
cittadino, fornendogli una “garanzia temporale certa e identificabile della
conclusione del procedimento”.
Poco convincente il tentativo di ricostruire la natura del termine partendo
dalla distinzione tra procedimento su istanza e d’ufficio, atteso che non esiste
una corrispondenza biunivoca tra tipo di iniziativa e natura del provvedimento
finale.
Perplessi lascia anche l’individuazione di un termine perentorio (di decadenza)
in caso di procedimento d’ufficio, atteso che la deroga al principio della
inesauribilità del potere dovrebbe trovare un preciso fondamento nelle
disposizioni normative.
Le condizioni del silenzio inadempimento
Il SILENZIO-INADEMPIMENTO costituisce una fattispecie a formazione progressiva
per il cui funzionamento sono necessarie 3 CONDIZIONI:
1.L’INERZIA DELLA P.A. PROCEDENTE, PROTRATTA PER ALMENO 60 GIORNI DALL’AVVIO DEL
PROCEDIMENTO.
2.L’ESPERIMENTO DI UNA DIFFIDA FORMALE AD ADEMPIERE, NOTIFICATA PER MEZZO DI UN
UFFICIALE GIUDIZIARIO.
3.L’ULTERIORE INERZIA DELLA P.A. PROTRATTASI PER ALMENO 30 GIORNI DALLA DIFFIDA.
Definizione e qualificazione giuridica dell’inerzia della P.A.:
dottrina e giurisprudenza oscillano tra 2 posizioni contrapposte:
1.una FORMALISTICA che considera il silenzio quale “PRESUPPOSTO PROCESSUALE PER
L’IMPUGNAZIONE.”
2.l’altra SOSTANZIALISTICA, che gli attribuisce il significato di “PROVVEDIMENTO
NEGATIVO”.
Entrambe le tesi sono state superate alla luce della legge sul procedimento, in
quanto non colgono l’essenza del fenomeno.
La previsione legislativa dell’obbligatorietà, in via generale, di una
conclusione ESPLICITA e TEMPESTIVA del procedimento amministrativo attribuisce,
infatti, al comportamento inerte il significato di un inadempimento in tale
ottica, il silenzio è innanzitutto un COMPORTAMENTO ILLEGITTIMO, un fatto di
DISFUNZIONE AMMINISTRATIVA consistente nella violazione dell’obbligo di
provvedere.
“VIOLAZIONE” nel senso di “NON ESERCIZIO” del potere amministrativo, una
negazione della funzione.
Il silenzio e l’omissione d’atti d’ufficio. Contrariamente alla legge sul
procedimento, richiede quale presupposto per il perfezionamento della
fattispecie un previo atto di diffida. Una volta scaduti i termini
predeterminati dall’amministrazione senza che questa si sia pronunciata, il
cittadino interessato può denunciare per omissione d’atti d’ufficio il pubblico
ufficiale o l’incaricato di un pubblico sevizio che entro “30 gg. dalla
richiesta scritta dell’interessato non compia l’atto del suo ufficio e non
esponga le ragioni del ritardo”.
Il c.p. configura, dunque, l’omissione come un “reato a richiesta”, cioè, spetta
al privato invocare l’adempimento della p.a. e in caso di silenzio, adire
eventualmente il giudice per far valere la responsabilità penale della persona
fisica competente all’adozione dell’atto.
Rapporto silenzio – omissione d’atti d’ufficio:
1.Il silenzio rilevante dal punto di vista amministrativo non coincide con
l’omissione d’atti d’ufficio. Infatti, non ogni ipotesi di inadempimento
configura per ciò stesso un reato e viceversa.
2.In entrambi i casi viene in considerazione l’inerzia, ma le 2 fattispecie si
differenziano per quanto riguarda l’accertamento della condotta omissiva, che
nella nuova configurazione del reato omissivo presuppone un preciso atto di
diffida ad adempiere. Atto finalizzato principalmente a rilevare il dolo
specifico a carico del responsabile e si rivela superflua nel procedimento
amministrativo ove l’elemento psicologico dell’agente è del tutto irrilevante e
la fissazione di un termine per adempiere elimina ogni pericolo di incertezza
per il cittadino.
In definitiva:
Si deve osservare che il termine di 30 gg. introdotto dalla norma incriminatrice
non influisce sulla problematica del termine conclusivo del procedimento che
decorre dall’avvio di quest’ultimo e non dall’atto di messa in mora.
Si ricavano due importanti conseguenze:
1. Fino alla scadenza del termine stabilito dalla legge o dai regolamenti la
condotta del responsabile può essere qualificata come dolosamente omissiva, in
quanto “l’atto d’ufficio” può essere legittimamente adottato entro lo spazio
temporale che la normativa vigente stabilisce;
2. La diffida penalmente rilevante dovrebbe essere notificata solamente dopo il
decorso del termine penale stabilito dall’amministrazione per la conclusione
del procedimento, in quanto anteriormente a tale data non può configurarsi alcun
inadempimento dell’amministrazione e l’atto di messa in mora sarebbe comunque da
ritenere inefficace.
Silenzio – inadempimento e Omissione d’atti d’ufficio
Sono fattispecie autonome in quanto la legge sul procedimento ha fornito al
legislatore penale l’autore del reato, senza identificare l’inerzia
amministrativa con quella criminosa. Tuttavia, spetta all’interprete coordinare
le 2 discipline, atteso che “l’atto d’ufficio” e il ritardo nell’adozione del
provvedimento costituiscono elementi normativi della fattispecie penale da
qualificarsi sulla base delle disposizioni che regolano il procedimento. Ne
consegue che nessuna omissione penalmente rilevante è configurabile ove non vi
sia un superamento dei tempi stabiliti in via amministrativa e il responsabile
eventualmente denunciato dovrà essere assoluto perché il “fatto non sussiste” o
comunque risulta scriminante dal legittimo esercizio del diritto al termine.
Prevede 3 rimedi posti dall’ordinamento a disposizione del privato:
1.Attivazione dei poteri sostitutivi;
2.Segnalazione dell’inerzia ai servizi ispettivi di controllo;
3.Richiesta di un indennizzo automatico per la violazione del termine.
Amministrazioni centrali:
le disposizioni riguardanti il pubblico impiego prevedono che l’interessato,
dopo la scadenza del termine finale per l’adozione del provvedimento, possa
proporre istanza al dirigente generale, il quale dovrà provvedere entro 30 gg.
dalla ricezione della stessa sostituendosi al responsabile inerte.
Se il provvedimento è di competenza del dirigente generale, l’istanza andrà
inviata al ministro che, pur non potendo esercitare i poteri di avocazione un
tempo riconosciutigli, dovrà comunque provvedere alla nomina di un commissario
che si sostituisca al dirigente inerte.
Amministrazioni locali:
la legge Bassanini prevede lo stesso procedimento qualora comuni e province
omettano di compiere atti obbligatori per legge, il cittadino potrà ricorrere al
difensore civico (nel caso in cui sia istituito) o al CORECO, detti organi, dopo
aver diffidato l’amministrazione inerte, potranno nominare un commissario per il
compimento dell’atto onesto.
2. In caso di inosservanza dei tempi procedimentali, è riconosciuto al soggetto
interessato all’adozione dell’atto finale, il potere di segnalare agli organi
preposti al controllo interno e agli uffici ispettivi dell’amministrazione, i
procedimenti chiusi in ritardo, invocando l’applicazione delle sanzioni previste
in caso di protratta inerzia nell’adozione del provvedimento.
La reiterata chiusura del procedimento oltre i termini previsti può configurare:
a) un illecito disciplinare per il responsabile del procedimento;
b) e può integrare una causa di responsabilità ed. dirigenziale per il manager
preposto all’ufficio inerte.
3. Questo terzo rimedio si concretizza nell’indennizzo a favore del privato in
caso di violazione dei termini procedimentali.
Tra le disposizioni più significative introdotte dalla legge Bassanini c’è il
riconoscimento di forme di indennizzo automatico e forfettario nei casi di:
a) mancato rispetto del termine procedimentale
b) di mancata o ritardata adozione del provvedimento
c) di ritardato o incompleto assolvimento degli obblighi e delle prestazioni da
parte della p.a.
Caratteristiche del provvedimento tardivo e l'atto soppressorio
Problema dell’eventuale validità di un provvedimento tardivo, cioè, emanato
dalla p.a. dopo l’intervenuta maturazione del termine. Bisogna verificare se il
decorso del tempo fissato dal legislatore senza la p.a. provveda, comporti o
meno la decadenza della stessa dall’esercizio del potere.
Definizione di indennizzo automatico
La norma persegue un duplice obbiettivo:
Il campo di applicazione di questa disposizione è circoscritto ai procedimenti
avviati su iniziativa di parte in cui l’interessato vanta, in genere, situazioni
soggettive di tipo pretensivo: quindi: accelerazione dei tempi ed effettività
dei termini procedimentali.
Indennizzo: “prestazione in denaro con funzione compensativa, dovuta in presenza
di un danno non antigiurico”, infatti l’ordinamento prevede la possibilità di
erogare un indennizzo per rispondere ad un’esigenza di giustizia sostanziale,
riequilibrando il pregiudicato subito legittimamente dal privato a fonte di un
beneficio concreto della collettività. Si parla di responsabilità da atti leciti
o legittimi, poiché in tali ipotesi non si verifica un danno ingiusto, cui
l’ordinamento reagisce con il risarcimento, ma una modificazione della sfera
giuridica di 2 soggetti, con incremento dell’uno a carico dell’altro.
L’obbligazione indennitaria è perciò prevista in funzione di una composizione di
interessi e discende dalla esigenza di garantire un giusto corrispettivo al
soggetto la cui sfera giuridica sia stata sacrificata per il prevalere di un
diverso e superiore interesse.
Strumento di reintegrazione completa della sfera giuridica violata.
Conduce ad un risultato inferiore rispetto alla perdita subita, che viene
“ristorata” solo in parte con una somma congrua.
A fronte dell’inerzia della p.a. il cittadino può ricorrere al giudice
amministrativo per chiedere l’accertamento dell’illegittimità da silenzio –
rifiuto e/o per ottenere l’annullamento dell’eventuale provvedimento tardivo di
diniego.
Tale rimedio è stato fino ad oggi l’unica forma di tutela prevista
dall’ordinamento in caso di comportamento omissivo della p.a. o di ritardata
adozione del provvedimento.
E’ necessario che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima e
colpevole della p.a., l’interesse al bene della vita cui l’interesse legittimo
si correla e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla
luce dell’ordinamento positivo.
Interessi pretensivi. La loro lesione si configura nel caso di illegittimo
diniego del provvedimento o ingiustificato ritardo nell’adozione dello stesso,
occorrerà quindi procedere ad un giudizio prognostico, onde stabilire “se il
pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non
tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo
affidamento circa la sua conclusione positiva”.
Problema: rapporti tra risarcimento del danno e indennizzo per violazione del
termine del procedimento, nonché tra giudizio amministrativo e civile.
Indennizzo – Risarcimento del danno
Lex Bassanini 1: indennizzo, caratterizzato da una funzione prettamente
sanzionatorie, può essere affiancato da una parallela azione risarcitoria volta
a tutelare l’interesse legittimo leso dalla mancata o tardiva conclusione del
procedimento.
In tal caso il privato dovrà fornire la prova dei presupposti soggettivi ed
oggettivi dell’illecito, nonché dell’effettivo nocumento economico subito.
Il mancato rispetto del termine di procedimento amministrativo
Art. 2, L. n° 241 individua il comportamento dell’amministrazione in termini di
vero e proprio obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento
espresso e di ripristinare tempi prestabiliti.
Situazione passiva di obbligo di provvedere della p.a.
Situazione di diritto soggettiva del privato di ottenere, entro il termine
previsto, un altro espresso di qualsiasi contenuto.
“Il diritto soggettivo non riguarda l’emanazione entro il termine del
provvedimento amministrativo, richiesto, ma l’esercizio della potestà
amministrativa di provvedere a prescindere dalla satisfattività della decisione
per l’interesse sostanziale fatto valere”.
Si può perciò parlare di “diritto al termine” quale situazione soggettiva
formale, di natura procedimentali consistente nella pretesa del privato ad
ottenere una risposta nei tempi prestabiliti.
In quest’ottica il tempo = bene avente valore autonomo nel patrimonio del
soggetto e la violazione dei termini da parte della p.a. si traduce
automaticamente nel pregiudizio che deve essere riparato.
Il danno conseguente alla violazione dell’obbligo di provvedere è solo quello
derivante dallo stato di incertezza dovuto alla mancata definizione del
procedimento. Si tratta perciò di una responsabilità formale.
indennizzo
La previsione dell’indennizzo a favore del privato per il caso di mancato
rispetto dei tempi del procedimento viene a costituire un implicito
riconoscimento normativo della costruzione teorica del c.d. diritto soggettivo
al termine e al contempo fornisce un’adeguata tutela alla predetta situazione
soggettiva assicurando un ristoro patrimoniale al suo titolare in caso di
lesione.
Quindi si può attribuire una finalità sanzionatorie a questa figura volta a
punire l’inosservanza dei termini stabiliti per la conclusione del procedimento
e a prevenire future condotte inerti della p.a. Tale funzione prevale su quella
risarcitoria, e ciò è dimostrato dal carattere automatico e forfetario
dell’indennizzo che non richiede la dimostrazione di danno effettivo, ma
esclusivamente il mero fatto oggettivo della violazione di un obbligo.
Testo Unico in materia di documentazione amministrativa. (D.P.R. 28 dicembre
2000, n. 445)
(Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 2001)
Atto amministrativo.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Un atto amministrativo è, nel diritto amministrativo italiano, un atto
giuridico posto in essere da un'autorità amministrativa nell'esercizio di una
sua funzione amministrativa. Esso è espressione di un potere amministrativo,
produttivo di effetti indipendentemente dalla volontà del soggetto o dei
soggetti cui è rivolto.
La sequenza di atti amministrativi all'interno di un procedimento
amministrativo, sotto la supervisione di un responsabile del procedimento
amministrativo, porta invece all'emanazione di un provvedimento amministrativo.
Un atto amministrativo è:
in quanto ha efficacia indipendentemente
dalla volontà del soggetto cui è destinato (a cui può anche essere imposto);
dato che non sono considerati atti
amministrativi quegli atti posti in essere dall'autorità amministrativa nei
confronti di sé stessa (detti atti meramente interni, come le circolari);
in quanto ciascuna tipologia di atto è
prevista nominativamente dalla legge.
Esso infine è sempre emanato da un'autorità amministrativa (atto soggettivamente
amministrativo) nell'esercizio delle sue funzioni amministrative (atto
oggettivamente amministrativo).
Esecutorietà.
Si riferisce alla capacità della P.A. di dare esecuzione ai propri atti con
mezzi propri, anche coattivamente, senza il ricorso all'autorità giudiziaria.
Quando l'atto amministrativo ha natura imperativa, la legge può munirlo
dell'esecutorietà, vale a dire che, diversamente dai contratti e dagli altri
rapporti di diritto privato, non richiede alla pubblica amministrazione di adire
l'autorità giudiziaria per accertarne la validità e ottenerne l'esecuzione
coattiva da parte della forza pubblica.
Simmetricamente, il cittadino ha il diritto di adire la giustizia
amministrativa per impugnare gli atti amministrativi.
I requisiti sono le componenti che incidono sulla validità e sull'efficacia
dell'atto e quindi si distinguono in:
requisiti di legittimità,
la cui mancanza comporta l'annullabilità dell'atto amministrativo
requisiti di efficacia,
necessari invece perché l'atto produca concretamente i suoi effetti.
I requisiti di legittimità sono i requisiti che la legge richiede perché l'atto
amministrativo, oltre che esistente, sia valido, cioè, legittimo; la loro
mancanza, perciò, è un vizio e comporta l'illegittimità dell'atto.
Controllo e invalidità
Un atto amministrativo può essere invalido
perché contrario a norme giuridiche, e allora si tratta di un atto
amministrativo illegittimo, oppure perché è contrario al principio
costituzionale della buona amministrazione (art. 97 della costituzione), e
allora si tratta di un atto amministrativo inopportuno.
L'atto illegittimo può essere viziato in modo più o meno grave, dando luogo a
due categorie di invalidità degli atti amministrativi: gli atti nulli e gli atti
annullabili.
Un atto amministrativo è nullo se:
c'è incompetenza assoluta (colui
che ha emanato l'atto non aveva potere di farlo);
manca uno degli elementi essenziali (inesistenza o indeterminabilità del
soggetto o dell'oggetto, illegittimità del contenuto, mancanza di finalità
intesa come interesse pubblico, eccetera).
violazione o elusione del giudicato
(quando il nuovo atto emanato dalla pubblica amministrazione, a seguito di
sentenza, riporta i medesimi vizi già censurati, ovvero tenti di aggirare il
giudicato).
Mentre un atto amministrativo risulta annullabile quando:
c'è incompetenza relativa (l'organo
che ha emanato l'atto è competente, ma non colui che se ne è occupato ad esempio
perché inferiore gerarchicamente a chi ne aveva il potere);
c'è violazione di legge (l'atto
va contro una legge dello Stato);
c'è eccesso di potere (disparità
di trattamento, illogicità della motivazione, ingiustizia manifesta, eccetera).
La differenza più spiccata tra nullità e annullabilità sta nel fatto che l'atto
amministrativo annullabile perde efficacia se la parte che ne ha diritto chiede
e ottiene l'annullamento, quello nullo è privo di efficacia sin da quando nasce.
Per parte della dottrina esiste una terza categoria di invalidità degli atti
amministrativi: quella degli atti amministrativi inesistenti.
Efficacia
L'efficacia è la qualità dell'atto amministrativo di poter validamente produrre
gli effetti per i quali è stato posto in essere.
L'atto amministrativo, in quanto prodotto dalla Pubblica Amministrazione per
finalità di pubblico interesse è produttivo di effetti indipendentemente, ma
anche contro, la volontà del soggetto, o dei soggetti, interessato dall'atto.
In base alla loro efficacia gli atti amministrativi si distinguono in:
atti costitutivi,
che creano, modificano od estinguono un rapporto giuridico preesistente
atti dichiarativi,
che si limitano ad accertare una data situazione senza influire su di essa
Nella generalità dei casi gli atti amministrativi hanno efficacia, e quindi
operano, dal momento in cui sono posti in essere (normalmente ci si riferisce a
questo momento come alla fase decisoria).
Per disposizione di legge o della stessa amministrazione gli atti amministrativi
possono però avere efficacia differita, cioè, hanno efficacia a partire da un
periodo futuro. Rispetto all'efficacia dell'atto amministrativo si riporta la
pronuncia del Consiglio di Stato sez. VI, 7 agosto 2002, n. 4126 che recita:
«I provvedimenti amministrativi hanno carattere costitutivo e producono effetti
a decorrere dalla data della loro emanazione, con la sola eccezione dei casi in
cui una norma disponga diversamente (perché richiede il superamento di un
controllo preventivo di legittimità ovvero la notifica dell'atto al suo
destinatario), oppure dei casi in cui un obbligo di fare (ad esempio imposto con
un provvedimento contingibile ed urgente) divenga concretamente esigibile a
seguito della sua comunicazione al destinatario.»
Generalmente ci si riferisce ai casi in cui l'atto amministrativo diviene
efficace in un momento successivo a quello in cui è stato deliberato dall'organo
che ne aveva la competenza, come agli atti che necessitano di un'ulteriore fase,
che è la fase integrativa dell'efficacia.
In genere si distingue tra la categoria dei provvedimenti amministrativi ed una
categoria residuale di atti che non ricade nella prima.
Autorizzazioni
Licenze
Concessioni, tra cui una forma particolare è il permesso di costruire
Ordine
Atti ablatori
Pareri
Atti di controllo
Atti propulsivi
Atti ricognitivi
Atti paritetici
Un atto amministrativo, nella generalità dei casi, presenta una struttura
formale composta da:
Requisito:
intestazione (indica
l'autorità da cui emana l'atto); errore o mancanza: irregolarità
preambolo (contiene
le norme di legge e gli articoli in base ai quali l'atto è stato adottato);
errore o mancanza: illegittimità
motivazione (valuta
comparativamente gli interessi, indicando le ragioni per le quali si preferisce
soddisfare un interesse in luogo di un altro); Errore o mancanza: Illegittimità
dispositivo (è
la parte precettiva, che costituisce l'atto di volontà della pubblica
amministrazione) errore o mancanza: irregolarità
termine;
condizione;
riserva;
onere;
luogo;
errore o mancanza: irregolarità
data;
errore o mancanza: irregolarità
sottoscrizione (contiene
la firma dell'autorità che emana l'atto o di quella delegata) errore o mancanza:
irregolarità
Contenuto:
Rispetto al contenuto dell'atto amministrativo si distinguono:
elementi:
essenziali
accidentali
naturali
La mancanza di un elemento essenziale determina la nullità dell'atto
amministrativo, mentre la mancanza di un requisito determina
l'annullabilità dell'atto amministrativo, cioè la possibilità che sia annullato,
su istanza di parte o d'ufficio da parte della Pubblica Amministrazione.
Gli elementi accidentali si possono applicare soltanto agli atti amministrativi
negoziali; infatti, rispetto agli atti amministrativi gli elementi accidentali
non hanno ragion d'essere (si pensi, ad esempio, all'assurdo di una
certificazione di nascita sottoposta a condizione sospensiva).
Gli elementi accidentali devono essere possibili e leciti. Gli elementi
accidentali illeciti o impossibili non comportano la nullità o l'annullabilità
dell'atto amministrativo, ma si considerano come non apposti.
Gli elementi naturali sono quegli elementi che si considerano sempre inseriti
nell'atto, anche se non apposti espressamente, in quanto previsti dalla legge
per il tipo astratto di atto.
Sono elementi essenziali dell'atto amministrativo:
I presupposti
la capacità del soggetto che
emana l'atto
la dichiarazione
l'oggetto
la causa
la motivazione
la forma
Il destinatario
Di norma sono indicati anche i presupposti;
la volontà
(an della scelta e quid del contenuto dispositivo del provvedimento, distinta
dalla motivazione che specifica l'interesse pubblico curato);
esternazione
(modi in cui sono resi conoscibili all'esterno gli elementi del provvedimento, a
sua volta conforme ad una specifica disciplina di legge).
Il soggetto che emana l'atto amministrativo deve avere la capacità, ovvero la
competenza, ad emanarlo. Se l'atto è emanato da un soggetto che non è organo
della pubblica amministrazione, non si è in presenza di un atto amministrativo.
In casi particolari espressamente previsti dalla legge, l'attività posta in
essere da un privato può qualificarsi come amministrativa e ci si riferisce al
privato come ad un funzionario di fatto; un esempio è il caso di un cittadino
che in presenza di catastrofi naturali svolga volontariamente attività di natura
pubblica.
La dichiarazione è l'atto con cui la Pubblica Amministrazione rende conoscibile
al suo esterno la propria volontà. In alcuni casi il silenzio può assumere la
valenza di una dichiarazione di volontà come per il silenzio-assenso o
il silenzio-rifiuto.
L'oggetto è la res su cui l'atto amministrativo incide.
La causa è la finalità tipica di pubblico interesse prevista dall'ordinamento
per l'atto.
Ad esempio, la causa dell'espropriazione consiste nel trasferimento coattivo del
bene da un cittadino privato alla Pubblica Amministrazione, dietro il
corrispettivo di un indennizzo.
Alla pubblica amministrazione non è attribuito un generico potere di porre in
essere tutti quegli atti che realizzino l'interesse pubblico; al contrario sono
attribuiti tanti poteri specifici, ciascuno dei quali realizza uno specifico
interesse pubblico, rappresentato dalla causa.
La motivazione si collega sia alla dichiarazione che alla forma dell'atto
amministrativo.
Per l'articolo 3 della legge 241 del 1990, ad esclusione degli atti normativi e
di quelli a contenuto generale, deve riportare:
le circostanze (di fatto o di diritto, materiali, spaziali) al verificarsi delle
quali l'autorità può provvedere.
che hanno determinato le ragioni dell'amministrazione
Sussiste un vizio di eccesso di potere se il presupposto indicato non è conforme
alla realtà.
La forma è un elemento che si lega alla dichiarazione, determinato per legge.
Nel diritto amministrativo la forma degli atti è tendenzialmente libera, potendo
l'atto amministrativo rivestire sia la forma scritta (es. un verbale) sia la
forma orale (es. un atto iussivo) sia la forma simbolica o per immagini (es. un
segnale stradale, che dai più si ritiene essere un atto di natura iussiva). In
genere è la legge che stabilisce quale forma l'atto debba assumere, in ossequio
ai principi di tipicità e nominatività degli atti. In difetto, occorre valutare
il grado di incidenza dell'atto sulle situazioni giuridiche dei destinatari e la
natura degli interessi in gioco, richiedendosi preferibilmente la forma scritta
nel caso di provvedimenti limitativi della sfera giuridica altrui.
Se la forma è essenziale, la sua violazione comporta, di regola, l'annullabilità
dell'atto ed il relativo vizio è quello della violazione di legge. Se si ritiene
peraltro che la forma sia un elemento costitutivo all'atto, la sua mancanza
comporta la nullità dell'atto. Se invece la violazione attiene ad un aspetto
meramente formale, che non incide sugli elementi essenziali, allora il vizio può
essere sanato mediante autocorrezione (es., in caso di mera irregolarità) ovvero
mediante il principio del raggiungimento dello scopo.
Su questi concetti tradizionali è sopravvenuto il Codice dell'Amministrazione
Digitale (d. Lgs. 7 marzo 2005, n. 82), che all'art. 40, nella versione del
D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, impone in via generale la forma elettronica
(es. teleamministrazione), salvo rarissime eccezioni.
È l'organo pubblico o il soggetto privato nei cui confronti si producono gli
effetti del provvedimento. Il destinatario deve essere determinato o
determinabile: la sua mancanza determina la nullità dell'atto, l'errata
individuazione comporta l'annullabilità.
Per controinteressato si
intende quel soggetto individuato o facilmente individuabile (c.d. elemento
formale) che manifesti un interesse alla conservazione di un atto amministrativo,
la cui validità è contestata da uno o più ricorrenti.
Nel 2018, il Consiglio di Stato ha stabilito che la pubblicazione nei siti web
istituzionali non fonda in sé alcuna presunzione legale di conoscenza da parte
dei destinatari né tantomeno da parte della generalità dei cittadini
potenzialmente coinvolti. In altre parole, gli interlocutori della pubblica
amministrazione non hanno alcun obbligo di consultare tali fonti né si possono
ritenere informati mediante questa tipologia di esternazione comunicativa, salvo
una specifica disposizione di legge che gli attribuisca valore legale. La
presunzione conoscitiva è il presupposto dell'efficacia erga omnes e
dell'opponibilità dell'atto, nonché della decorrenza dei termini di impugnazione
presso la giustizia amministrativa.
I singoli atti di norma riportano in calce le molteplici modalità di
esternazione comunicativa legale e la relativa legge di riferimento. I
principali canali di comunicazione restano la Gazzetta Ufficiale e i bollettini
regionali.
Sono elementi accidentali:
il termine
che indica il giorno dal quale l'atto deve iniziare a produrre gli effetti o
cessa di averne.
la condizione;
che subordina l'efficacia dell'atto al verificarsi di un fatto futuro incerto.
la riserva,
allorché la pubblica amministrazione nel provvedere su una data materia, si
riserva di adottare future determinazioni in ordine all'oggetto stesso
l'onere,
che determina un ampliamento della sfera giuridica del destinatario.
È da notare che si procede in maniera quasi analoga per i contratti
Il termine rappresenta un momento futuro e certo a partire dal quale (è il
cosiddetto termine iniziale) o fino al quale (è il cosiddetto termine finale)
l'atto avrà efficacia. Il termine può essere posto discrezionalmente solo agli
atti per i quali la legge non prescrive diversamente; infatti, è la legge stessa
che prevede l'apposizione di un termine.
La condizione rappresenta un avvenimento futuro ed incerto.
Può trattarsi di una condizione sospensiva, per cui gli effetti dell'atto si
realizzano al verificarsi dell'avvenimento, o di una condizione risolutiva, per
cui gli effetti dell'atto cessano al verificarsi dell'avvenimento. La condizione
può essere apposta a tutti gli atti discrezionali di amministrazione attiva e a
quelli di controllo ma non può essere apposta agli atti consultivi.
Il modo (modus o onere) può essere apposto ad un atto amministrativo solo nei
casi previsti dalla legge; ad esempio, la licenza di guida può comportare un
modo (l'uso degli occhiali) per il privato.
L'art. 3 comma 4 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 sancisce che "in ogni atto
notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l'autorità cui è
possibile ricorrere", e questo è il motivo per cui molti atti amministrativi
riportano la riga finale in cui vengono indicati i giorni entro cui è possibile
ricorrere e l'autorità a cui presentare ricorso. Secondo la giurisprudenza, la
mancata indicazione di tale informazione non pregiudica l'efficacia dell'atto,
ma potrebbe far decadere i termini indicati dalla legge per il ricorso (a meno
che "non si siano verificate in concreto conseguenze pregiudizievoli per i
destinatari ed impedimenti al raggiungimento dello scopo cui è preordinata la
prevista formalità").]
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Un certificato (dall'espressione
tardo-latina certum facere, "dichiarare vero", composta da certum, "certo",
e facere, "fare"), spesso detto anche attestato, è un documento contenente
una certificazione, intesa quale atto giuridico e, più precisamente,
dichiarazione di conoscenza di fatti, atti o qualità, rilasciata in forma
scritta da un soggetto investito di determinate attribuzioni.
Precisazione linguistica. A parte rarissimi casi (esclusivi del diritto
pubblico), per parlare di certificazione in senso stretto, il primo fondamento è
la indipendenza tra soggetto che emette i requisiti e soggetto che valuta la
conformità ai detti requisiti. L'altro fondamento è l'indipendenza tra soggetto
che valuta la conformità ai requisiti e soggetto che li applica. In ambito di
diritto privato questi due fondamenti sono ben attuati osservando che gli enti
normatori non sono gli enti di accreditamento, questi non sono gli organismi di
certificazione che sono ovviamente altro dai soggetti che applicano le norme e
che devono essere valutati.
Spesso utilizzati come sinonimi, "certificazione" e "certificato" sono due
concetti distinti:
certificazione: è il processo che, attraverso diverse operazioni di valutazione
e accertamento svolte da soggetti terzi, accreditati e autorizzati, conferisce
(in caso di esito positivo) il certificato (la certificazione è dunque una
sequenza di attività, non un documento);
certificato: è il risultato o output del processo di certificazione, documentato
attraverso una dichiarazione formale.
Con linguaggio non propriamente corretto, si usa "certificazione" al posto di
"certificato", come nelle espressioni "mi deve consegnare la certificazione..."
oppure "ho le certificazioni necessarie..." e simili.
Come sinonimi di certificato e certificazione sono usati anche i termini
"attestato" e "attestazione". Alcuni autori, però, riservano quest'ultimo ai
casi in cui la dichiarazione di scienza è "originaria", in quanto riferita a
fatti o atti direttamente percepiti o compiuti da chi la rilascia; parlano,
invece, di certificazione quando la dichiarazione di scienza è "derivativa",
riferendosi a fatti, atti o qualità non direttamente percepiti o compiuti da chi
la rilascia, ma risultanti da elementi obiettivi, quali registri o documenti cui
l'ordinamento giuridico riconosce particolare efficacia probatoria. Sono stati
proposti anche altri criteri di distinzione basati, ad esempio, sul tipo di
certezza creata dall'atto: legale nel caso della certificazione notiziale nel
caso dell'attestazione. Vi sono comunque alcuni usi impropri e tecnicamente
sbagliati del concetto di certificazione e certificato. Di seguito alcuni
esempi.
Nel contesto della certificazione accreditata secondo gli standard degli enti di
normazione nazionali e internazionali (UNI, ISO, ecc.), "certificazione" è un
termine ben preciso, previsto dalla norma UNI EN ISO 17000. In termini sintetici
si può dire che il certificato è un attestato di conformità (rilasciato rispetto
ad una specifica precisata, non esiste la certificazione generica) emesso da un
soggetto, terzo e indipendente, autorizzato (qualificato, accreditato,
abilitato) a farlo (per legge, per norme ISO e relativi accordi di
riconoscimento, ecc.). Negli altri casi occorre usare la dizione "dichiarazione
di conformità" o attestato di conformità e non certificato di conformità, specie
quando trattasi della cosiddetta "autocertificazione". In particolare, per
parlare di certificazione (e non mera attestazione) il certificatore, per essere
accreditato, deve essere anche indipendente ovvero essere un terzo tra le parti
coinvolte. Per tale motivo è scorretto parlare di "certificazione" nei casi in
cui il soggetto certificato sia lo stesso (o ha delle dipendenze) che certifica,
oppure quando chi esegue una determinata attività (ad esempio la formazione) sia
anche colui il quale rilascia un "certificato" al soggetto che ha fruito di tale
attività. Un altro caso simile di uso improprio del termine si ha nella
"certificazione" di dati (numero visitatori, quantità venduta, posizionamento
sul territorio, ecc.) da parte dell'interessato, cioè il soggetto
fornitore/produttore dei dati. Infine, dunque, per i motivi sopra esposti,
"certificazione" non è un sinonimo di "qualificazione" né, tanto meno, di
"normazione".
Le certificazioni sono spesso, ma non necessariamente, rilasciate da
una pubblica amministrazione, nel qual caso si parla di "certificazione
amministrativa" (e conseguentemente di "certificato amministrativo"), e siamo in
presenza di una particolare specie di atto amministrativo.
Nell'ordinamento italiano una definizione positiva di certificato amministrativo
è contenuta nell'art. 1, comma 1, lettera f), del decreto del presidente della
Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445 (Testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia di documentazione amministrativa) secondo il quale
per certificato s'intende "il documento rilasciato da una amministrazione
pubblica avente funzione di ricognizione, riproduzione o partecipazione a terzi
di stati, qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri
pubblici o comunque accertati da soggetti titolari di funzioni pubbliche". Lo
stesso decreto stabilisce i casi in cui i privati possono presentare, in luogo
del certificato, una dichiarazione sostitutiva di certificazione o
una dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà.
In ambito "privato" ovvero fuori dalla sfera della PA, i soggetti autorizzati a
rilasciare certificati sono, ad esempio:
gli organismi di certificazione;
i revisori contabili;
le Certification authority.
I primi sono di prassi accreditati da un ente di accreditamento; i secondi
devono essere iscritti in un albo pubblico; i terzi sono accreditati da enti
governativi.
In generale le certificazioni sono destinate a dare certezza di fatti, atti o
qualità; in certi casi, però, si tratta di una certezza legale, perché
l'ordinamento impone alla generalità dei consociati il dovere di considerare
come certo quanto affermato nell'atto, dovere che vale anche per il giudice di
fronte al quale fa, quindi, prova legale; in altri casi, invece, tale dovere
manca e si parla di "certezza notiziale". Si ritiene che le certificazioni
creatrici di certezza legale possano provenire solo da funzionari pubblici o da
privati che esercitano funzioni pubbliche.
In quanto dichiarazioni di conoscenza (o, come si usa dire, di scienza) le
certificazioni producono gli effetti giuridici stabiliti dall'ordinamento, a
prescindere dalla volontà di chi le rilascia: sono, in altri termini, meri atti
giuridici.
Altri impieghi
Esiste una casistica di usi del termine certificato o termini simili che, a
seconda del contesto, possono essere corretti/legittimi oppure semplicemente
impropri (ci si riferisce soprattutto al caso in cui occorrerebbe usare i
termini "attestazione" o "dichiarazione").
Certificato di origine
Il certificato di origine della merce, in Italia, è il documento rilasciato
dalla Camera di commercio che attesta l'origine della merce, cioè il luogo in
cui la merce è stata prodotta o ha subito l'ultima trasformazione sostanziale e
accompagna i prodotti esportati in via definitiva verso paesi extracomunitari o
anche comunitari qualora l'importatore lo richieda espressamente. Il certificato
ha due finalità: doganale e creditizia.
Pur senza valore legale e per scopi diversi da quelli della legge comunitaria,
un certificato di origine potrebbe essere comunque emesso dal produttore o
venditore, come qualsiasi dichiarazione che, in questo caso, non sarebbe
ovviamente un certificato.
Casi particolari di certificazione sono la legalizzazione e l'autenticazione,
dette certificazioni pedisseque perché non sono generalmente contenute in un
documento a sé, ma apposte in calce al documento cui si riferiscono.
è la certificazione della provenienza di un documento dall'autorità competente
ad emetterlo. È diffusa a livello internazionale, nei casi in cui un documento
formato in un ordinamento venga utilizzato in un altro. Nei paesi che hanno
sottoscritto la Convenzione dell'Aia del 1961, tra i quali l'Italia, può essere
sostituita dall'apostille.
è la certificazione che un documento è stato sottoscritto da una determinata
persona, avendolo sottoscritto alla presenza di chi certifica ed essendo questi
certo della sua identità. Poteri di autenticazione sono attribuiti
al notaio cosiddetto latino, negli ordinamenti di civil law dove è presente, e
al notary public degli ordinamenti di common law.
L'asseverazione è un'attestazione di fatti, osservazioni, pareri, attestazioni,
progetti rilasciata (secondo i disposti di legge) da privati (ad esempio, in
Italia: liberi professionisti); anche in questi casi, seppure erroneamente, si
parla di certificazione.
Il certificato di origine della merce, in Italia, è il documento rilasciato
dalla Camera di commercio che attesta l'origine della merce, cioè il luogo in
cui la merce è stata prodotta o ha subito l'ultima trasformazione sostanziale e
accompagna i prodotti esportati in via definitiva verso paesi extracomunitari o
anche comunitari qualora l'importatore lo richieda espressamente.
Nella formazione o addestramento e relativa eventuale qualifica diversi
dall'ambito scolastico/universitario di tipo statale (o comunque riconosciuta
pubblicamente), in pratica quella erogata da soggetti privati in ambito di
formazione professionale, si dovrebbe invece dire attestazione (a volte
documentata attraverso i cosiddetti "patentini" o "diplomi" di qualifica). A
meno che la formazione preveda poi un esame per rilascio di certificato (di
conformità), rispetto ad uno standard, come nei casi di formazione del personale
sotto accreditamento. Inoltre, occorre ben distinguere quando la certificazione
o la qualifica sia obbligatoria per legge (in uno stato) oppure è facoltativa o
è un libero requisito contrattuale tra le parti.
Va da sé che, nei casi di attività non regolamentate e/o non accreditate,
chiunque può attestare ciò che gli pare: in questi casi, è la credibilità del
soggetto che vale come requisito.
Un certificato digitale fornisce fiducia (trust) sulla sicurezza di un
sistema/piattaforma informatica. Qui è legittimo l'uso del termine certificato
perché solo taluni soggetti e solo attraverso regole internazionalmente
accettate possono rilasciare certificati digitali.
Nel commercio o comunque cessione/distribuzioni di beni e manufatti, è diffuso
l'uso del "certificato di garanzia" e "certificato di autenticità". Ambo le
dizioni sono improprie ma sopravvivono per ragioni storiche.
Il cosiddetto "Certificato di garanzia" è un documento mediante il quale il
produttore/venditore dichiara che il prodotto è protetto da una determinata
garanzia. L'uso è improprio per due motivi: "certificato" è usato al posto di
"attestazione" e, soprattutto, nella stragrande maggior parte dei casi è già la
legge che impone una garanzia (come, ad esempio, nell'Unione europea nei
confronti del consumatore), quindi, la mera dimostrazione dell'acquisto (es.
ricevuta) è più che sufficiente per pretendere l'applicazione della garanzia
legale (lo dice la legge, ad esempio il Codice del consumo), non serve alcun
"certificato". Questo è anche conseguenza dell'ignoranza del consumatore il
quale, sbagliando, dà importanza a questo documento quando invece non ne ha
alcuna, a meno che non si riferisca alla garanzia commerciale (spesso a
pagamento) che però è un plus rispetto a quella legale. E comunque in questo
caso si tratta di un normale documento (contrattuale) di garanzia, è fuorviante
scomodare il termine certificato.
"Certificato di autenticità" è un documento emesso da un privato con il quale si
descrivono le caratteristiche o proprietà di un prodotto materiale, dichiarando
che esso sia stato realizzato da un determinato produttore (specie quando è un
soggetto famoso). Orbene: tale documento non è un "certificato" ma una semplice
attestazione (questo non significa che non abbia un generico valore,
ovviamente). Invece, se si volesse un vero certificato allora il produttore (o
il venditore) dovrebbe esibire quello rilasciato da un organismo di
certificazione, specificatamente accreditato per eseguire certificazioni per
quello specifico prodotto (per determinati prodotti, anche per uno specifico
lotto/partita). In questo caso il "valore aggiunto" sarebbe che c'è anche il
riconoscimento di un soggetto indipendente e autorizzato in tal senso.
La
semplificazione della documentazione amministrativa.
By regione.basilicata.it.
AUTOCERTIFICAZIONE = Strumento di semplificazione. Anche se Non è corretto
parlare di autocertificazione, ma di sistema delle DICHIARAZIONI SOSTITUTIVE DI
CERTIFICAZIONI
La semplificazione della documentazione amministrativa
Sistema delle dichiarazioni sostitutive: modifica di prospettiva dell'azione
amministrativa, perché consente ai soggetti che entrano in contatto con le
amministrazioni di non dover fornire obbligatoriamente i certificati o,
comunque, i documenti a comprova di situazioni, fatti, stati e qualità.
Sono sufficienti:
1. le dichiarazioni sostitutive dei certificati o documenti medesimi;
2. le dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà.
Testo Unico in materia di documentazione amministrativa. (D.P.R. 28 dicembre
2000, n. 445)
(Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 2001)
Articolo 1(R) Definizioni
1. Ai fini del presente testo unico si intende per:
a) DOCUMENTO AMMINISTRATIVO ogni rappresentazione, comunque formata, del
contenuto di atti, anche interni, delle pubbliche amministrazioni o, comunque,
utilizzati ai fini dell'attività amministrativa. Le relative modalità di
trasmissione sono quelle indicate al capo II, sezione III del presente testo
unico.
b) DOCUMENTO INFORMATICO la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati
giuridicamente rilevanti.
c) DOCUMENTO DI RICONOSCIMENTO ogni documento munito di fotografia del titolare
e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica
amministrazione italiana o di altri Stati, che consente l'identificazione
personale del titolare.
d) DOCUMENTO D'IDENTITA' la carta di identità ed ogni altro documento munito di
fotografia rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico,
dall'amministrazione competente dello Stato italiano o di altri Stati, con la
finalità prevalente di dimostrare l'identità personale del suo titolare.
e) DOCUMENTO D'IDENTITA' ELETTRONICO il documento analogo alla carta d'identità
elettronica rilasciato dal comune fino al compimento del quindicesimo anno di
età.
f) CERTIFICATO il documento rilasciato da una amministrazione pubblica avente
funzione di ricognizione, riproduzione e partecipazione a terzi di stati,
qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri pubblici o
comunque accertati da soggetti titolari di funzioni pubbliche.
g) DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA DI CERTIFICAZIONE il documento, sottoscritto
dall'interessato, prodotto in sostituzione dei certificati di cui alla lettera
f).
h) DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA DI ATTO DI NOTORIETA' il documento, sottoscritto
dall'interessato, concernente stati, qualità personali e fatti, che siano a
diretta conoscenza di questi, resa nelle forme previste dal presente testo
unico.
i) AUTENTICAZIONE DI SOTTOSCRIZIONE l'attestazione, da parte di un pubblico
ufficiale, che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo
accertamento dell'identità della persona che sottoscrive.
l) LEGALIZZAZIONE DI FIRMA l'attestazione ufficiale della legale qualità di chi
ha apposto la propria firma sopra atti, certificati, copie ed estratti, nonché
dell'autenticità della firma stessa.
m) LEGALIZZAZIONE DI FOTOGRAFIA l'attestazione, da parte di una pubblica
amministrazione competente, che un’immagine fotografica corrisponde alla persona
dell'interessato.
n) FIRMA DIGITALE il risultato della procedura informatica (validazione) basata
su un sistema di chiavi asimmetriche a coppia, una pubblica e una privata, che
consente al sottoscrittore tramite la chiave privata e al destinatario tramite
la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la
provenienza e l'integrità di un documento informatico o di un insieme di
documenti informatici.
o) AMMINISTRAZIONI PROCEDENTI le amministrazioni e, nei rapporti con l'utenza, i
gestori di pubblici servizi che ricevono le dichiarazioni sostitutive di cui
alle lettere g) e h) o provvedono agli accertamenti d'ufficio ai sensi
dellÕart.43.
p) AMMINISTRAZIONI CERTIFICANTI le amministrazioni e i gestori di pubblici
servizi che detengono nei propri archivi le informazioni e i dati contenuti
nelle dichiarazioni sostitutive, o richiesti direttamente dalle amministrazioni
procedenti ai sensi degli articoli 43 e 71.
q) GESTIONE DEI DOCUMENTI l'insieme delle attività finalizzate alla
registrazione di protocollo e alla classificazione, organizzazione, assegnazione
e reperimento dei documenti amministrativi formati o acquisiti dalle
amministrazioni, nell'ambito del sistema di classificazione d'archivio adottato;
essa effettuata mediante sistemi informativi automatizzati.
r) SISTEMA DI GESTIONE INFORMATICA DEI DOCUMENTI l'insieme delle risorse di
calcolo, degli apparati, delle reti di comunicazione e delle procedure
informatiche utilizzati dalle amministrazioni per la gestione dei documenti.
s) SEGNATURA DI PROTOCOLLO l'apposizione o l'associazione, all'originale del
documento, in forma permanente e non modificabile delle informazioni riguardanti
il documento stesso.
Articolo 7 (L) Redazione e stesura di atti pubblici
1. Le leggi, i decreti, gli atti ricevuti dai notai, tutti gli altri atti
pubblici, e le certificazioni sono redatti, anche promiscuamente, con qualunque
mezzo idoneo, atto a garantirne la conservazione nel tempo.
2. Il testo degli atti pubblici comunque redatti non deve contenere lacune,
aggiunte, abbreviazioni, correzioni, alterazioni o abrasioni. Sono ammesse
abbreviazioni, acronimi, ed espressioni in lingua straniera, di uso comune.
Qualora risulti necessario apportare variazioni al testo, si provvede in modo
che la precedente stesura resti leggibile.
Articolo 18 (L-R) Copie autentiche
1. Le copie autentiche, totali o parziali, di atti e documenti possono essere
ottenute con qualsiasi procedimento che dia garanzia della riproduzione fedele e
duratura dell'atto o documento. Esse possono essere validamente prodotte in
luogo degli originali. (L)
2. L'autenticazione delle copie può essere fatta dal pubblico ufficiale dal
quale è stato emesso o presso il quale è depositato l'originale, o al quale deve
essere prodotto il documento, nonché da un notaio, cancelliere, segretario
comunale, o altro funzionario incaricato dal sindaco. Essa consiste
nell'attestazione di conformità con l'originale scritta alla fine della copia, a
cura del pubblico ufficiale autorizzato, il quale deve altresì indicare la data
e il luogo del rilascio, il numero dei fogli impiegati, il proprio nome e
cognome, la qualifica rivestita nonché apporre la propria firma per esteso ed il
timbro dell'ufficio. Se la copia dell'atto o documento consta di più fogli il
pubblico ufficiale appone la propria firma a margine di ciascun foglio
intermedio. Per le copie di atti e documenti informatici si applicano le
disposizioni contenute nell'articolo 20. (L)
3. Nei casi in cui l'interessato debba presentare alle amministrazioni o ai
gestori di pubblici servizi copia autentica di un documento, l'autenticazione
della copia può essere fatta dal responsabile del procedimento o da qualsiasi
altro dipendente competente a ricevere la documentazione, su esibizione
dell'originale e senza obbligo di deposito dello stesso presso l'amministrazione
procedente. In tal caso la copia autentica può essere utilizzata solo nel
procedimento in corso. (R)
19-bis (L) (1) Disposizioni concernenti la dichiarazione sostitutiva
1. La dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, di cui all'articolo 19,
che attesta la conformità all'originale di una copia di un atto o di un
documento rilasciato o conservato da una pubblica amministrazione, di un titolo
di studio o di servizio e di un documento fiscale che deve obbligatoriamente
essere conservato dai privati, può essere apposta in calce alla copia stessa.
Articolo 19 (R) Modalità alternative all'autenticazione di copie
1. La dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà di cui all'articolo 47
può riguardare anche il fatto che la copia di un atto o di un documento
conservato o rilasciato da una pubblica amministrazione, la copia di una
pubblicazione ovvero la copia di titoli di studio o di servizio sono conformi
all'originale. Tale dichiarazione può altresì riguardare la conformità
all'originale della copia dei documenti fiscali che devono essere
obbligatoriamente conservati dai privati.
Articolo 21 (R) Autenticazione delle sottoscrizioni
1. L'autenticità della sottoscrizione di qualsiasi istanza o dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà da produrre agli organi della pubblica
amministrazione, nonché ai gestori di servizi pubblici è garantita con le
modalità di cui all'art. 38, comma 2 e comma 3. (R)
2. Se l'istanza o la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà è presentata
a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1 o a questi ultimi al fine della
riscossione da parte di terzi di benefici economici, l'autenticazione è redatta
da un notaio, cancelliere, segretario comunale, dal dipendente addetto a
ricevere la documentazione o altro dipendente incaricato dal Sindaco; in tale
ultimo caso, l'autenticazione è redatta di seguito alla sottoscrizione e il
pubblico ufficiale, che autentica, attesta che la sottoscrizione è stata apposta
in sua presenza, previo accertamento dell'identità del dichiarante, indicando le
modalità di identificazione, la data ed il luogo di autenticazione, il proprio
nome, cognome e la qualifica rivestita, nonché apponendo la propria firma e il
timbro dell'ufficio. (R)
Articolo 30 (L) Modalità per la legalizzazione di firme
1. Nelle legalizzazioni devono essere indicati il nome e il cognome di colui la
cui firma si legalizza. Il pubblico ufficiale legalizzante deve indicare la data
e il luogo della legalizzazione, il proprio nome e cognome, la qualifica
rivestita, nonché apporre la propria firma per esteso ed il timbro dell'ufficio.
Articolo 31 (L) Atti non soggetti a legalizzazione
1. Salvo quanto previsto negli articoli 32 e 33, non sono soggette a
legalizzazione le firme apposte da pubblici funzionari o pubblici ufficiali su
atti, certificati, copie ed estratti dai medesimi rilasciati. Il funzionario o
pubblico ufficiale deve indicare la data e il luogo del rilascio, il proprio
nome e cognome, la qualifica rivestita, nonché apporre la propria firma per
esteso ed il timbro dell'ufficio.
Articolo 35 (L -R)
Documenti di identità e di riconoscimento
1. In tutti i casi in cui nel presente testo unico viene richiesto un documento
di identità, esso può sempre essere sostituito dal documento di riconoscimento
equipollente ai sensi del comma 2. (R)
2. Sono equipollenti alla carta di identità il passaporto, la patente di guida,
la patente nautica, il libretto di pensione, il patentino di abilitazione alla
conduzione di impianti termici, il porto d'armi, le tessere di riconoscimento,
purché munite di fotografia e di timbro o di altra segnatura equivalente,
rilasciate da un’amministrazione dello Stato. (R)
3. Nei documenti d'identità e di riconoscimento non è necessaria l'indicazione o
l'attestazione dello stato civile, salvo specifica istanza del richiedente. (L)
1. Le dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47 sono esenti
dall'imposta di bollo.
2. L'imposta di bollo non è dovuta quando per le leggi vigenti sia esente da
bollo l'atto sostituito ovvero quello nel quale è apposta la firma da
legalizzare.
Articolo 38 (L-R) Modalità di invio e sottoscrizione delle istanze
1. Tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla pubblica
amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi possono essere
inviate anche per fax e via telematica. (L)
Articolo 38 (L-R) Modalità di invio e sottoscrizione delle istanze
1. Tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla pubblica
amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi possono essere
inviate anche per fax e via telematica. (L)
2. Le istanze e le dichiarazioni inviate per via telematica, vi comprese le
domande per la partecipazione a selezioni e concorsi per l'assunzione, a
qualsiasi titolo, in tutte le pubbliche amministrazioni, o per l'iscrizione in
albi, registri o elenchi tenuti presso le pubbliche amministrazioni, sono valide
se effettuate secondo quanto previsto dall'articolo 65 del decreto legislativo 7
marzo 2005, n. 82. (L) (1)
3. Le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre
agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici
servizi sono sottoscritte dall'interessato in presenza del dipendente addetto
ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata
di un documento di identità del sottoscrittore. La copia fotostatica del
documento è inserita nel fascicolo. La copia dell'istanza sottoscritta
dall'interessato e la copia del documento di identità possono essere inviate per
via telematica; nei procedimenti di aggiudicazione di contratti pubblici, detta
facoltà è consentita nei limiti stabiliti dal regolamento di cui all'articolo
15, comma 2 della legge 15 marzo 1997, n. 59. (L) (2)
3-bis. Il potere di rappresentanza per la formazione e la presentazione di
istanze, progetti, dichiarazioni e altre attestazioni nonché per il ritiro di
atti e documenti presso le pubbliche amministrazioni e i gestori o esercenti di
pubblici servizi può essere validamente conferito ad altro soggetto con le
modalità di cui al presente articolo. (3)
Articolo 39 (L) Domande per la partecipazione a concorsi pubblici
1. La sottoscrizione delle domande per la partecipazione a selezioni per
l'assunzione, a qualsiasi titolo, in tutte le pubbliche amministrazioni, nonché
ad esami per il conseguimento di abilitazioni, diplomi o titoli culturali non è
soggetta ad autenticazione.
Articolo 41 (L) Validità dei certificati
1. I certificati rilasciati dalle pubbliche amministrazioni attestanti stati,
qualità personali e fatti non soggetti a modificazioni hanno validità
illimitata. Le restanti certificazioni hanno validità di sei mesi dalla data di
rilascio se disposizioni di legge o regolamentari non prevedono una validità
superiore.
Articolo 43 (L-R) Accertamenti d'ufficio
1. Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad
acquisire d'ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di
cui agli articoli 46 e 47, nonché tutti i dati e i documenti che siano in
possesso delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da parte
dell'interessato, degli elementi indispensabili per il reperimento delle
informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione
sostitutiva prodotta dall'interessato. (L) (1)
Articolo 45 (L-R) Documentazione mediante esibizione
1. I dati relativi a cognome, nome, luogo e data di nascita, la cittadinanza, lo
stato civile e la residenza attestati in documenti di identità o di
riconoscimento in corso di validità, possono essere comprovati mediante
esibizione dei documenti medesimi. E’ fatto divieto alle amministrazioni
pubbliche ed ai gestori o esercenti di pubblici servizi, nel caso in cui
all'atto della presentazione dell'istanza sia richiesta l'esibizione di un
documento di identità o di riconoscimento, di richiedere certificati attestanti
stati o fatti contenuti nel documento esibito. E’, comunque, fatta salva per le
amministrazioni pubbliche ed i gestori e gli esercenti di pubblici servizi la
facoltà di verificare, nel corso del procedimento, la veridicità e l'autenticità
dei dati contenuti nel documento di identità o di riconoscimento. (L)
2. Nei casi in cui l'amministrazione procedente acquisisce informazioni relative
a stati, qualità personali e fatti attraverso l'esibizione da parte
dell'interessato di un documento di identità o di riconoscimento in corso di
validità, la registrazione dei dati avviene attraverso l'acquisizione della
copia fotostatica non autenticata del documento stesso. (R)
3. Qualora l'interessato sia in possesso di un documento di identità o di
riconoscimento non in corso di validità, gli stati, le qualità personali e i
fatti in esso contenuti possono essere comprovati mediante esibizione dello
stesso, purché l'interessato dichiari, in calce alla fotocopia del documento,
che i dati contenuti nel documento non hanno subito variazioni dalla data del
rilascio. (R)
Articolo 46 (R) Dichiarazioni sostitutive di certificazioni
1. Sono comprovati con dichiarazioni, anche contestuali all'istanza,
sottoscritte dall'interessato e prodotte in sostituzione delle normali
certificazioni i seguenti stati, qualità personali e fatti:
a) data e il luogo di nascita;
b) residenza;
c) cittadinanza;
d) godimento dei diritti civili e politici;
e) stato di celibe, coniugato, vedovo o stato libero;
f) stato di famiglia;
g) esistenza in vita;
h) nascita del figlio, decesso del coniuge, dell'ascendente o discendente;
i) iscrizione in albi, registri o elenchi tenuti da pubbliche amministrazioni;
l) appartenenza a ordini professionali;
m) titolo di studio, esami sostenuti;
n) qualifica professionale posseduta, titolo di specializzazione, di
abilitazione, di formazione, di aggiornamento e di qualificazione tecnica;
o) situazione reddituale o economica anche ai fini della concessione dei
benefici di qualsiasi tipo previsti da leggi speciali;
p) assolvimento di specifici obblighi contributivi con l'indicazione
dell'ammontare corrisposto;
q) possesso e numero del codice fiscale, della partita IVA e di qualsiasi dato
presente nell'archivio dell'anagrafe tributaria;
r) stato di disoccupazione;
s) qualità di pensionato e categoria di pensione;
t) qualità di studente;
u) qualità di legale rappresentante di persone fisiche o giuridiche, di tutore,
di curatore e simili;
v) iscrizione presso associazioni o formazioni sociali di qualsiasi tipo;
z) tutte le situazioni relative all'adempimento degli obblighi militari, ivi
comprese quelle attestate nel foglio matricolare dello stato di servizio;
aa) di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di
provvedimenti che riguardano l'applicazione di misure di sicurezza e di misure
di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti
nel casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa;
bb) di non essere a conoscenza di essere sottoposto a procedimenti penali;
bb-bis) di non essere l'ente destinatario di provvedimenti giudiziari che
applicano le sanzioni amministrative di cui al decreto legislativo 8 giugno
2001, n. 231; (2)
cc) qualità di vivenza a carico;
dd) tutti i dati a diretta conoscenza dell'interessato contenuti nei registri
dello stato civile;
ee) di non trovarsi in stato di liquidazione o di fallimento (3) e di non aver
presentato domanda di concordato. (R)
Articolo 47 (R) Dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà
1. L'atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti che siano a
diretta conoscenza dell'interessato è sostituito da dichiarazione resa e
sottoscritta dal medesimo con la osservanza delle modalità di cui all'articolo
38. (R)
2. La dichiarazione resa nell'interesse proprio del dichiarante può riguardare
anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli
abbia diretta conoscenza. (R)
3. Fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge, nei rapporti con
la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi, tutti gli
stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell'articolo
46 sono comprovati dall'interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di
atto di notorietà. (R)
4. Salvo il caso in cui la legge preveda espressamente che la denuncia
all'Autorità di Polizia Giudiziaria è presupposto necessario per attivare il
procedimento amministrativo di rilascio del duplicato di documenti di
riconoscimento o comunque attestanti stati e qualità personali dell'interessato,
lo smarrimento dei documenti medesimi è comprovato da chi ne richiede il
duplicato mediante dichiarazione sostitutiva. (R)
Articolo 48 (R) Disposizioni generali
1. Le dichiarazioni sostitutive hanno la stessa validità temporale degli atti
che sostituiscono.
2. Le singole amministrazioni predispongono i moduli necessari per la redazione
delle dichiarazioni sostitutive, che gli interessati hanno facoltà di
utilizzare. Nei moduli per la presentazione delle dichiarazioni sostitutive le
amministrazioni inseriscono il richiamo alle sanzioni penali previste
dall'articolo 76, per le ipotesi di falsità in atti e dichiarazioni mendaci ivi
indicate. Il modulo contiene anche l'informativa di cui all'articolo 10 della
legge 31 dicembre 1996, n. 675.
3. In tutti i casi in cui sono ammesse le dichiarazioni sostitutive, le singole
amministrazioni inseriscono la relativa formula nei moduli per le istanze.
Articolo 53 (R) Registrazione di protocollo
1. La registrazione di protocollo per ogni documento ricevuto o spedito dalle
pubbliche amministrazioni è effettuata mediante la memorizzazione delle seguenti
informazioni:
a) numero di protocollo del documento generato automaticamente dal sistema e
registrato in forma non modificabile;
b) data di registrazione di protocollo assegnata automaticamente dal sistema e
registrata in forma non modificabile;
c) mittente per i documenti ricevuti o, in alternativa, il destinatario o i
destinatari per i documenti spediti, registrati in forma non modificabile;
d) oggetto del documento, registrato in forma non modificabile;
e) data e protocollo del documento ricevuto, se disponibili;
f) l'impronta del documento informatico, se trasmesso per via telematica,
costituita dalla sequenza di simboli binari in grado di identificarne
univocamente il contenuto, registrata in forma non modificabile.
2. Il sistema deve consentire la produzione del registro giornaliero di
protocollo, costituito dall'elenco delle informazioni inserite con l'operazione
di registrazione di protocollo nell'arco di uno stesso giorno.
3. L'assegnazione delle informazioni nelle operazioni di registrazione di
protocollo effettuata dal sistema in unica soluzione, con esclusione di
interventi intermedi, anche indiretti, da parte dell'operatore, garantendo la
completezza dell'intera operazione di modifica o registrazione dei dati.
Segnatura di protocollo
1. La segnatura di protocollo è l'apposizione o l'associazione all'originale del
documento, in forma permanente non modificabile, delle informazioni riguardanti
il documento stesso. Essa consente di individuare ciascun documento in modo
inequivocabile. Le informazioni minime previste sono:
a) il progressivo di protocollo, secondo il formato disciplinato all'articolo
57;
b) la data di protocollo;
c) l'identificazione in forma sintetica dell'amministrazione o dell'area
organizzativa individuata ai sensi dell'articolo 50, comma 4.
2. L'operazione di segnatura di protocollo va effettuata contemporaneamente
all'operazione di registrazione di protocollo.
3. L'operazione di segnatura di protocollo può includere il codice
identificativo dell'ufficio cui il documento è assegnato o il codice
dell'ufficio che ha prodotto il documento, l'indice di classificazione del
documento e ogni altra informazione utile o necessaria, qualora tali
informazioni siano disponibili già al momento della registrazione di protocollo.
4. Quando il documento è indirizzato ad altre amministrazioni ed è formato e
trasmesso con strumenti informatici, la segnatura di protocollo può includere
tutte le informazioni di registrazione del documento. L'amministrazione che
riceve il documento informatico può utilizzare tali informazioni per
automatizzare le operazioni di registrazione di protocollo del documento
ricevuto.
5. Con Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta
dell'Autorità per l'informatica nella pubblica Amministrazione di concerto con
il Ministro per la funzione pubblica, sono stabiliti il formato e la struttura
delle informazioni associate al documento informatico ai sensi del comma 4.
Articolo 56 (R) Operazioni ed informazioni minime del sistema di gestione
informatica dei documenti
1. Le operazioni di registrazione indicate all'articolo 53 e le operazioni di
segnatura di protocollo di cui all'articolo 55 nonché le operazioni di
classificazione costituiscono operazioni necessarie e sufficienti per la tenuta
del sistema di gestione informatica dei documenti da parte delle pubbliche
amministrazioni.
Articolo 57 (R) Numero di protocollo
1. Il numero di protocollo è progressivo e costituito da almeno sette cifre
numeriche. La numerazione è rinnovata ogni anno solare.
Articolo 63 (R) Registro di emergenza
1. Il responsabile del servizio per la tenuta del protocollo informatico, della
gestione dei flussi documentali e degli archivi autorizza lo svolgimento anche
manuale delle operazioni di registrazione di protocollo su uno o più registri di
emergenza, ogni qualvolta per cause tecniche non sia possibile utilizzare la
normale procedura informatica. Sul registro di emergenza sono riportate la
causa, la data e l'ora di inizio dell'interruzione nonché la data e l'ora del
ripristino della funzionalità del sistema. (R)
2. Qualora l'impossibilità di utilizzare la procedura informatica si prolunghi
oltre ventiquattro ore, per cause di eccezionale gravità, il responsabile per la
tenuta del protocollo può autorizzare l'uso del registro di emergenza per
periodi successivi di non più di una settimana. Sul registro di emergenza vanno
riportati gli estremi del provvedimento di autorizzazione. (R)
3. Per ogni giornata di registrazione di emergenza è riportato sul registro di
emergenza il numero totale di operazioni registrate manualmente. (R)
4. La sequenza numerica utilizzata su un registro di emergenza, anche a seguito
di successive interruzioni, deve comunque garantire l'identificazione univoca
dei documenti registrati nell'ambito del sistema documentario dell'area
organizzativa omogenea. (R)
5. Le informazioni relative ai documenti protocollati in emergenza sono inserite
nel sistema informatico, utilizzando un'apposita funzione di recupero dei dati,
senza ritardo al ripristino delle funzionalità del sistema. Durante la fase di
ripristino, a ciascun documento registrato in emergenza viene attribuito un
numero di protocollo del sistema informatico ordinario, che provvede a mantenere
stabilmente la correlazione con il numero utilizzato in emergenza. (R)
Articolo 67 (R) Trasferimento dei documenti all'archivio di deposito
1. Almeno una volta ogni anno il responsabile del servizio per la gestione dei
flussi documentali e degli archivi provvede a trasferire fascicoli e serie
documentarie relativi a procedimenti conclusi in un apposito archivio di
deposito costituito presso ciascuna amministrazione. (R)
2. Il trasferimento deve essere attuato rispettando l'organizzazione che i
fascicoli e le serie avevano nell'archivio corrente. (R)
3. Il responsabile del servizio per la gestione dei flussi documentali e degli
archivi deve formare e conservare un elenco dei fascicoli e delle serie
trasferite nell'archivio di deposito. (R)
Articolo 68 (R) Disposizioni per la conservazione degli archivi
1. Il servizio per la gestione dei flussi documentali e degli archivi elabora ed
aggiorna il piano di conservazione degli archivi, integrato con il sistema di
classificazione, per la definizione dei criteri di organizzazione dell'archivio,
di selezione periodica e di conservazione permanente dei documenti, nel rispetto
delle vigenti disposizioni contenute in materia di tutela dei beni culturali e
successive modificazioni ed integrazioni.
2. Dei documenti prelevati dagli archivi deve essere tenuta traccia del
movimento effettuato e della richiesta di prelevamento.
3. Si applicano in ogni caso, per l'archiviazione e la custodia dei documenti
contenenti dati personali, le disposizioni di legge sulla tutela della
riservatezza dei dati personali.
Articolo 69 (R) Archivi storici
1. I documenti selezionati per la conservazione permanente sono trasferiti
contestualmente agli strumenti che ne garantiscono l'accesso, negli Archivi di
Stato competenti per territorio o nella separata sezione di archivio secondo
quanto previsto dalle vigenti disposizioni in materia di tutela dei beni
culturali.
Articolo 71 (L-R) Modalità dei controlli
1. Le amministrazioni procedenti sono tenute ad effettuare idonei controlli,
anche a campione in misura proporzionale al rischio e all'entità del benefìcio,
e nei casi di ragionevole dubbio, sulla veridicità delle dichiarazioni dì cui
agli articoli 46 e 47, anche successivamente all'erogazione dei benefici,
comunque denominati, per i quali sono rese le dichiarazioni. (L).
2. I controlli riguardanti dichiarazioni sostitutive di certificazione sono
effettuati dall'amministrazione procedente con le modalità di cui all'articolo
43 consultando direttamente gli archivi dell'amministrazione certificante ovvero
richiedendo alla medesima, anche attraverso strumenti informatici o telematici,
conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei
registri da questa custoditi. (R)
3. Qualora le dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47 presentino delle
irregolarità o delle omissioni rilevabili d'ufficio, non costituenti falsità, il
funzionario competente a ricevere la documentazione dà notizia all'interessato
di tale irregolarità. Questi è tenuto alla regolarizzazione o al completamento
della dichiarazione; in mancanza il procedimento non ha seguito. (R)
4. Qualora il controllo riguardi dichiarazioni sostitutive presentate ai privati
di cui all'articolo 2, l'amministrazione competente per il rilascio della
relativa certificazione è tenuta a fornire, su richiesta del soggetto privato
corredata dal consenso del dichiarante, conferma scritta, anche attraverso l'uso
di strumenti informatici o telematici, della corrispondenza di quanto dichiarato
con le risultanze dei dati da essa custoditi. (R)
Articolo 72 (L) Responsabilità in materia di accertamento d'ufficio e di
esecuzione dei controlli
1. Ai fini dell'accertamento d'ufficio di cui all'articolo 43, dei controlli di
cui all'articolo 71, le amministrazioni certificanti individuano un ufficio
responsabile per tutte le attività volte a gestire, garantire e verificare la
trasmissione dei dati o l'accesso diretto agli stessi da parte delle
amministrazioni procedenti.
2. Le amministrazioni certificanti, per il tramite dell'ufficio di cui al comma
1, individuano e rendono note, attraverso la pubblicazione sul sito
istituzionale dell'amministrazione, le misure organizzative adottate per
l'efficiente, efficace e tempestiva acquisizione d'ufficio dei dati e per
l'effettuazione dei controlli medesimi, nonché le modalità per la loro
esecuzione.
3. La mancata risposta alle richieste di controllo entro trenta giorni
costituisce violazione dei doveri d'ufficio e viene in ogni caso presa in
considerazione ai fini della misurazione e della valutazione della performance
individuale dei responsabili dell'omissione.
Articolo 73 (L) Assenza di responsabilità della pubblica amministrazione
1. Le pubbliche amministrazioni e i loro dipendenti, salvi i casi di dolo o
colpa grave, sono esenti da ogni responsabilità per gli atti emanati, quando
l'emanazione sia conseguenza di false dichiarazioni o di documenti falsi o
contenenti dati non più rispondenti a verità, prodotti dall'interessato o da
terzi.
Articolo 74 (L-R) Violazione dei doveri d'ufficio
1. Costituisce violazione dei doveri d'ufficio la mancata accettazione delle
dichiarazioni sostitutive di certificazione o di atto di notorietà rese a norma
delle disposizioni del presente testo unico. (L)
2. Costituiscono altresì violazioni dei doveri d'ufficio:
a) la richiesta e l'accettazione di certificati o di atti di notorietà (L);
b) il rifiuto da parte del dipendente addetto di accettare l'attestazione di
stati, qualità personali e fatti mediante l'esibizione di un documento di
riconoscimento; (R)
c) la richiesta e la produzione, da parte rispettivamente degli ufficiali di
stato civile e dei direttori sanitari, del certificato di assistenza al parto ai
fini della formazione dell'atto di nascita; (R)
c-bis) il rilascio di certificati non conformi a quanto previsto all'articolo
40, comma 02. (L) (1)
Articolo. 75.(R) Decadenza dai benefici
1. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal controllo di cui
all'articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il
dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento
emanato sulla base della dichiarazione non veritiera.
1-bis. La dichiarazione mendace comporta, altresì, la revoca degli eventuali
benefìci già erogati nonché il divieto di accesso a contributi, finanziamenti e
agevolazioni per un periodo di 2 anni decorrenti da quando l'amministrazione ha
adottato l'atto di decadenza. Restano comunque fermi gli interventi, anche
economici, in favore dei minori e per le situazioni familiari e sociali di
particolare disagio. (L).
Assenza di precedenti penali: va dichiarata la sentenza di patteggiamento? Tar
Puglia, sentenza 27 agosto 2021, n. 1328
Assenza di precedenti penali: va dichiarata la sentenza di patteggiamento?
Le amministrazioni hanno l’onere di predisporre i modelli di dichiarazione più
opportuni per evitare fraintendimenti per il cittadino (Tar Puglia n. 1328/2021)
Di Simone Marani, Avvocato
Con la sentenza del 27 agosto 2021, n. 1328, il TAR Bari si sofferma
sull'interessante tema dell’incidenza del patteggiamento in ambito dichiarazioni
pubbliche e sull'obbligo delle amministrazioni di precisare nei modelli
dichiarativi la sua valenza specifica in modo indipendente (testo in calce).
Il caso vedeva un professionista, colpito in passato da una condanna a seguito
di “patteggiamento”: censurare per eccesso di potere per travisamento dei
presupposti di fatto e di diritto e falsa applicazione dell'art. 75, d.p.r. 28
dicembre 2000, n. 445, nonché contraddittorietà dell'azione amministrativa del
Ministero dello sviluppo economico, in quanto il modulo di autocertificazione
predisposto dall'amministrazione, dal medesimo sottoscritto, prevedeva solo che
il dichiarante indicasse di avere o non avere riportato condanne penali e di
avere o meno procedimento penali in corso.
Secondo il ricorrente, non doveva essere considerata come “condanna penale” la
sentenza di patteggiamento, emanata a seguito di intesa tra il PM e il
difensore, senza che vi fosse stato alcun dibattimento o un pregnante
approfondimento dell'illecito contestato.
Il giudice amministrativo precisa innanzitutto come l'istituto del
patteggiamento, ex art. 444 c.p.p., consista in un procedimento penale avente
funzione deflattiva dei procedimenti penali, la cui pronuncia è espressamente
equiparata ad una pronuncia di condanna, equiparazione esplicata dal nostro
legislatore con la legge del 12 giugno 2003, n. 134.
Viene rammentato, altresì, che le amministrazioni pubbliche di norma hanno cura
di esplicitare nel modulario sottoposto a coloro che debbano rilasciare
dichiarazioni sostitutive di certificazioni e/o di atto notorio, la necessità di
indicare specificamente le condanne subite anche a seguito di sentenze di
patteggiamento.
Il modulo sottoposto dal Ministero per lo sviluppo economico, invece, era di
tipo specifico e richiedeva di indicare le condanne subite solo per alcuni
reati, poiché solo gli illeciti penali annoverati nello schema della
dichiarazione risultavano ostativi allo svolgimento dell'incarico.
Il professionista, posto davanti ad uno schema di dichiarazione preciso circa i
reati rilevanti da dichiarare, riteneva di non dovere dichiarare espressamente
anche le condanne a seguito di sentenze di patteggiamento. Conseguentemente, non
poteva ritenersi che il dichiarante avesse voluto sottoscrivere una
dichiarazione non veritiera, ai sensi dell'art. 75 del d.p.r. 28 dicembre 2000,
n. 445, ma solo una dichiarazione irregolare o incompleta, ai sensi dell'art.
71, comma 3, del medesimo d.p.r., suscettibile di essere oggetto di
approfondimento da parte dell'amministrazione circa l'incidenza delle
dichiarazioni lacunose.
Articolo 76 (L) Norme penali
1. Chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei
casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del Codice penale e
delle leggi speciali in materia. La sanzione ordinariamente prevista dal Codice
penale è aumentata da un terzo alla metà.
2. L'esibizione di un atto contenente dati non più rispondenti a verità equivale
ad uso di atto falso.
3. Le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 e le
dichiarazioni rese per conto delle persone indicate nell'articolo 4, comma 2,
sono considerate come fatte a pubblico ufficiale.
4. Se i reati indicati nei commi 1, 2 e 3 sono commessi per ottenere la nomina
ad un pubblico ufficio o l'autorizzazione all'esercizio di una professione o
arte, il giudice, nei casi più gravi, può
applicare l'interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione e
arte.
Dichiarazioni Mendaci: Art 495 Cp Denuncia Per Falsa Dichiarazione. By
studioavvocato24
Come una dichiarazione mendace ha a che fare con l’autocertificazione?
La parola mendace ha un significato che si estende anche alle autocertificazioni
durante i periodi di lock down in quanto si riferisce a tutte le dichiarazioni
fondate sulla menzogna e sull’inganno, fallace, falso.
Reato di dichiarazione mendace art. 495 c.p. Quando sussiste il reato di
dichiarazioni mendaci?
Le ipotesi di reato previste in caso di falsa dichiarazione rese ad un pubblico
ufficiale possono essere principalmente due:
il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, di cui
all’articolo 483 del Codice penale;
il reato di falsa attestazione o dichiarazione ad un pubblico ufficiale sulla
identità o su qualità personali proprie o di altri, di cui all’articolo 495 del
Codice penale.
In entrambi i casi (sia con l’art 483 cp o con l’art 495 cp) si tratta
di delitti contro la fede pubblica: il primo di falsità in atti pubblici, il
secondo di falsità personale.
In entrambi i casi (sia dichiarare con l’art 483 cp o rendere con l’art 495 cp
un’informazione falsa, sia dare falsa testimonianza art 372 c.p. è reato) è
inoltre presente l’elemento doloso in quanto il dichiarante è consapevole di
effettuare delle dichiarazioni mendaci ad un pubblico ufficiale.
Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico
Dispositivo dell'art. 483 Codice penale: Chiunque attesta falsamente al pubblico
ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la
verità, è punito con la reclusione fino a due anni.
Se si tratta di false attestazioni in atti dello stato civile [449], la
reclusione non può essere inferiore a tre mesi.
Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su
qualità personali proprie o di altri.
Dispositivo dell'art. 495 Codice penale
Chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo
stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona è punito con la
reclusione da uno a sei anni.
La reclusione non è inferiore a due anni:
1) se si tratta di dichiarazioni in atti dello stato civile [483 2, 567 2; 449];
2) se la falsa dichiarazione sulla propria identità, sul proprio stato o sulle
proprie qualità personali è resa all’autorità giudiziaria da un imputato o da
una persona sottoposta ad indagini, ovvero se, per effetto della falsa
dichiarazione, nel casellario giudiziale [c.p.p. 603] una decisione penale viene
iscritta sotto falso nome.
Il decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82
Cosa prevede il codice dell'amministrazione digitale?
Il Codice dell'amministrazione digitale è il principale strumento normativo
attraverso il quale le PA italiane possono tradurre in modalità digitale i
principi di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di
trasparenza previsti nell'art 1 della Legge 7 agosto 1990, n. 241
Cosa dice il D Lgs n 82 2005?
Le pubbliche amministrazioni utilizzano, nei rapporti interni, in quelli con
altre amministrazioni e con i privati, le tecnologie dell'informazione e della
comunicazione, garantendo l'interoperabilità dei sistemi e l'integrazione dei
processi di servizio fra le diverse amministrazioni nel rispetto delle Linee
guida.
Codice dell’amministrazione digitale, cos’è e quali sono i punti principali da
conoscere
Il Codice dell’amministrazione digitale rappresenta il punto di riferimento
normativo per guidare la trasformazione digitale della PA in Italia fornendo
utili indicazioni anche a cittadini e provider, per la corretta gestione di
documenti informatici e processi amministrativi digitalizzati.
Pubblicato su agendadigitale.eu da Francesca Cafiero, Andrea Lisi, avvocato,
esperto in diritto dell'informatica e privacy
Codice amministrazione digitale
La rivoluzione digitale della PA è un percorso che ha attraversato gli ultimi 15
anni (circa) della storia del nostro Paese e sta ancora proseguendo lungo
diverse traiettorie: il CAD – Codice dell’amministrazione è il punto di
riferimento normativo per guidare questo percorso.
Cos’è il codice dell’amministrazione digitale
Il Codice dell’amministrazione digitale è il principale strumento
normativo attraverso il quale le PA italiane possono tradurre in modalità
digitale i principi di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità
e di trasparenza previsti nell’art 1 della Legge 7 agosto 1990, n. 241
(contenente – come noto – le nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).
Una domanda utile da porci per conoscere il Codice dell’amministrazione
digitale è perché è stato scelto proprio un “Codice” quale riferimento per la
digitalizzazione del sistema Paese?
Originariamente codex significava “libro
compatto cucito sul dorso contenente materiale giuridico”. La legge per
antonomasia è dunque il codice, definito da Tarello “un libro di regole
giuridiche organizzate secondo un sistema (un ordine) e caratterizzate
dall’unità di materia, vigente per tutta l’estensione geografica dell’area di
unità politica (per tutto lo Stato), rivolto a tutti i sudditi o soggetti
all’autorità politica statale, da questa autorità voluto e pubblicato, abrogante
tutto il diritto precedente sulla materia da esso disciplinata e perciò non
integrabile con materiali giuridici previgenti, e destinato a durare a lungo”.
E dunque non poteva che essere un “testo unico” che riunisce e organizza le
norme riguardanti i diritti di cittadinanza digitale (ma non solo) il
riferimento per guidare la trasformazione della Pubblica Amministrazione.
Considerandone la natura, l’attuale Codice meriterebbe di essere piuttosto
semplificato e ridotto al massimo a una decina di articoli; invece, nel tempo si
è tramutato in un coacervo di buoni principi, regole tecniche e disquisizioni
metafisiche su strategie che (purtroppo) cambiano ogni anno.
Breve storia e aggiornamenti
2005.
Istituito con il decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, il Codice
dell’amministrazione digitale nel tempo ha subito diversi aggiornamenti.
Possiamo di fatto affermare che il Codice – forse proprio per la sua attinenza
con una materia tanto variegata – è stato da sempre considerato alla stregua di
un sistema informativo, da sottoporre a periodiche “patch” per renderlo più
usabile e sicuro. In tali interventi normativi si è spesso modificato l’assetto
formale e probatorio di documenti informatici e firme, oltre che di tutte le
principali questioni relative alla digitalizzazione documentale (dalla
generazione delle copie/duplicati informatici alla conservazione digitale dei
documenti sino alla stessa natura e struttura delle regole tecniche previste
nell’art. 71). Ma procedendo con ordine, addentriamoci di seguito in una
cronistoria di alcune delle principali modifiche apportate alla sua struttura.
2006.
A soli tre mesi dalla sua entrata in vigore, il Codice dell’amministrazione
digitale trova col D. Lgs. 4 aprile 2006, n. 159 le sue prime correzioni ed
integrazioni, apportate dal Legislatore per eliminare incertezze o dubbi
interpretativi emersi in dottrina o posti dai più diretti destinatari del
Codice. Il decreto correttivo, modificando in diversi punti l’articolato del
Decreto legislativo n. 82/2005, traspone nel “corpus” del Codice l’intero testo
del Decreto legislativo n. 42 del 2005 (contestualmente abrogato), recante la
disciplina del Sistema pubblico di connettività e la Rete Internazionale delle
Pubbliche Amministrazioni.
2008.
Sono stati modificati i commi 4 e 5 dell’art. 23, rispettivamente aventi ad
oggetto il regime di validità delle copie su supporto informatico di documenti
analogici originali, e la possibilità di individuare, con decreto del presidente
del
Consiglio dei ministri, particolari tipologie di documenti analogici originali
di cui sostanzialmente deve essere garantita la conservazione analogica.
Entrambi i commi sono poi stati rimossi con contestuale inserimento degli artt.
23-bis, 23-ter e 23-quater nel corso del 2010.
2009.
Nel 2009 sono stati introdotti, con legge 18 giugno 2009, n. 69:
il comma 2-bis all’art. 6, attribuendo alle pubbliche amministrazioni regionali
e locali la facoltà di assegnare ai cittadini residenti caselle di PEC atte alla
trasmissione di documentazione ufficiale;
i commi 2-ter e 2-quater all’art. 54, obbligando le amministrazioni pubbliche a
pubblicare sui propri siti internet l’indirizzo PEC a cui il cittadino possa
rivolgersi per qualsiasi richiesta ai sensi del CAD e il registro dei processi
automatizzati rivolti al pubblico e tramite i quali i cittadini possano
verificare a distanza lo stato di avanzamento delle pratiche;
il comma 2-bis all’art. 2, estendendo l’applicabilità di una serie di
disposizioni del CAD anche ai soggetti privati preposti all’esercizio di
attività amministrative;
il comma 8-bis all’art. 66, con cui è stata data la possibilità di rilasciare,
fino al 31 dicembre 2010, anche ai titolari di carta di identità elettronica
(CIE), la carta nazionale dei servizi (CNS) e le altre carte elettroniche ad
essa conformi.
Successivamente, con il decreto-legge primo luglio 2009, n. 78, sono stati
introdotti:
l’art. 57-bis (Indice degli indirizzi delle pubbliche amministrazioni), con il
quale è stato istituito, al fine di assicurare la trasparenza delle attività
istituzionali l’indice degli indirizzi delle amministrazioni pubbliche, nel
quale sono indicati la struttura organizzativa, l’elenco dei servizi offerti e
le informazioni relative al loro utilizzo, gli indirizzi di posta elettronica da
utilizzare per le comunicazioni e per lo scambio di informazioni e per l’invio
di documenti a tutti gli effetti di legge fra le amministrazioni e fra le
amministrazioni ed i cittadini;
la lettera c-bis all’art. 65, comma 1, estendendo le modalità validamente
utilizzabili per le istanze e le dichiarazioni presentate alle pubbliche
amministrazioni per via telematica.2016 – 2017
Sino ad arrivare alle corpose abrogazioni e revisioni contenute nei decreti
legislativi 179/2016 e D.Lgs. 217/2017 che hanno dovuto adattare il Codice alle
novità contenute nel regolamento (UE) 23 luglio 2014, n. 910, del Parlamento
europeo e del Consiglio in materia di identificazione elettronica e servizi
fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno (e che ha abrogato
la direttiva 1999/93/CE). Attraverso queste riforme si sono necessariamente
riformulati molti articoli in materia di documenti informatici e firme
elettroniche, cercando di garantire finalmente un assetto più stabile e in linea
con la normativa europea e che non continuasse ad oscillare.
2020-2021.
Codice dell’amministrazione digitale 2020 – 2021
Durante il 2020-2021, il Codice dell’amministrazione digitale è stato
ulteriormente modificato tramite il decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, il
decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, il decreto-legge 10 settembre 2021, n. 121,
il decreto-legge 6 novembre 2021, n. 152, la legge di bilancio. Se il DL 76/2020
ha introdotto molte (a volte confuse) novità nei concetti di identità digitale,
domicilio digitale e accesso ai servizi digitali, regolamentando anche un codice
di condotta tecnologico del quale si attende ancora la stesura, più
significative appaiono le modifiche apportate dal decreto-legge 31 maggio 2021,
n. 77, finalizzato, tra l’altro, a “semplificare e agevolare la realizzazione
dei traguardi e degli obiettivi stabiliti dal Piano Nazionale di Ripresa e
Resilienza”.
Vari gli ambiti di intervento di detto decreto-legge. Ad esempio, sono stati
attribuiti maggiori poteri (anche di carattere sanzionatorio) all’AgID, sono
state istituite l’Anagrafe nazionale dell’istruzione (ANIST) e l’Anagrafe
nazionale dell’istruzione superiore (ANIS); è stato istituito altresì il Sistema
di gestione di deleghe (SGD), per consentire ai cittadini di delegare l’accesso
ai servizi ad altri soggetti che siano titolari di identità digitale; è stato
ampliato l’elenco delle basi di dati di interesse nazionale.
Struttura del codice amministrazione digitale
Evidenziamo che una delle caratteristiche che dovrebbe avere un Codice è quella
della sistematicità. Ci si aspetterebbe, cioè, di sfogliare il CAD allo stesso
modo in cui sfoglia qualunque altro Codice, sperando di avere a che fare con un
quadro normativo di riferimento omogeneo ed armonioso. Ma si tratta di
un’aspettativa che è stata presto disattesa. Con il CAD siamo in presenza di
un complesso di disposizioni – decisamente poco votate alla chiarezza, alla
stabilità e al perdurare nel tempo – caratterizzate, inoltre, da
un’applicabilità limitata.
Analisi contenuti più significativi Codice dell’amministrazione digitale
Forse l’aspetto più significativo presente nel CAD è l’introduzione nel nostro
ordinamento di un nutrito elenco di diritti in capo a cittadini e
imprese (purtroppo non sempre disposti in modo ordinato ed efficace). L’agere
amministrativo in chiave digitale andrebbe sviluppato secondo il CAD come
specifica concretizzazione da parte della PA di tali diritti e non come
riedizione più digitale della precedente burocrazia analogica. Qui di seguito i
principali diritti di cui dispone il cittadino in seguito all’entrata in vigore
del CAD:
diritto alla propria identità digitale
diritto a comunicare e partecipare digitalmente
diritto al proprio domicilio digitale
diritto a servizi on-line semplici e integrati
diritto alla alfabetizzazione informatica
diritto a non esibire certificati alla PA
diritto alla trasparenza amministrativa digitale
diritto alla protezione dei propri dati digitali
diritto all’accessibilità e usabilità
Volendo andare ad analizzare i principali contenuti del Codice
dell’amministrazione digitale e delle nuove Linee guida AgID occorre sicuramente
soffermarsi su:
Le esigenze di gestione e controllo di dati, informazioni e documenti per
organizzazioni pubbliche e private
Identità e strumenti di identificazione nel contesto digitale
Documenti informatici e firme elettroniche nel quadro normativo attuale: nozione
ed evoluzione normativa.
Organizzazione delle pubbliche amministrazioni
Secondo il CAD le pubbliche amministrazioni nell’organizzare autonomamente la
propria attività devono utilizzare le tecnologie dell’informazione e della
comunicazione per la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia,
economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione nel
rispetto dei principi di uguaglianza e di non discriminazione, nonché per
l’effettivo riconoscimento dei diritti dei cittadini e delle imprese in
conformità agli obiettivi indicati nel Piano triennale per l’informatica nella
pubblica amministrazione.
Di fatto, secondo il CAD le PA devono tradurre al loro interno il fondamentale
principio del “digital first” predisponendo un modello efficace, quindi,
definire processi, metodologie e regole per un records management che sia
finalizzato a mantenere custodito nel tempo il contesto di dati (anche
strutturati), informazioni e documenti (anche e soprattutto nativi) digitali
rilevanti per l’ente pubblico, fondendo e coordinando in modalità
digitale principi essenziali del diritto e dell’archivistica.
In particolare, il CAD definisce e chiarisce che tutti i documenti
amministrativi devono nascere informatici e devono essere trattati dalle PA in
un sistema affidabile di gestione documentale, come specificato nelle regole
tecniche (oggi affidate a Linee Guida AgID).
Documento informatico
Nel CAD ritroviamo la seguente definizione di documento informatico: “documento
elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati
giuridicamente rilevanti” (C.A.D., art. 1, comma 1, lett. p) che si contrappone
a quella di documento analogico, definito come documento non informatico (art.
1, comma 1, lett. p-bis). In base all’art. 20 del CAD, il documento informatico
soddisfa il requisito della forma scritta (acquisendo anche il valore probatorio
di cui all’art. 2702 Cod. civ., ossia della scrittura privata) quando vi è
apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una
firma elettronica avanzata o, comunque, è formato, previa identificazione
informatica del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati
dall’AgID con modalità tali da garantire sicurezza, integrità e immodificabilità
del documento e, in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità
all’autore.
La formulazione dell’art. 20 del CAD, comunque, ricomprende la validità
giuridica anche per il documento informatico che in generale rispecchi i
requisiti di sicurezza, integrità e immodificabilità e a cui sia apposta una
qualunque firma elettronica, anche una firma elettronica semplice (purché,
appunto, la riconducibilità all’autore sia “manifesta e inequivoca”).
Le disposizioni dell’art. 20 del CAD risultano, quindi, in linea con l’attuale
concezione di documento informatico e con quella di documento elettronico,
prevista dal Regolamento eIDAS (Reg. 910/2014/UE). In tal senso, documento
informatico è il “contenuto” che si dovrebbe adattare a molti “contenitori” per
essere formato, gestito e conservato, e che può avere, infatti, molti formati,
molte firme, può essere oggetto di molti strumenti di trasmissione, ma ne devono
essere comunque garantite la sicurezza, l’immodificabilità e l’integrità. Nello
specifico, dunque, il documento non deve essere necessariamente scritto o
redatto sotto forma di un testo, bensì può essere costituito da un qualsiasi
flusso di dati in forma elettronica: l’importante è che tale contenuto sia
“stored”, cioè, reso statico e preservato nella sua integrità nel tempo.
Firme elettroniche e certificati
Se “prima” i documenti dovevano essere necessariamente firmati e sottoscritti,
ora i documenti informatici sono formati e trasmessi attraverso partner fidati
come previsto dal Regolamento eIDAS (Reg. 910/2014/UE) che si occupa di
identificazione elettronica e servizi fiduciari. Viene sancito, dunque,
un’ulteriore evoluzione, un passaggio fondamentale: dal “segnare” un documento
al “consegnare” un documento (informatico). Il partner fidato, che garantisce
certi processi informatici o eroga “servizi fiduciari” è il soggetto che –
previa verifica di affidabilità da parte delle autorità competenti nel caso in
cui siano soggetti “qualificati” – concorre alla formazione, gestione, firma,
trasmissione, conservazione dei documenti informatici.
Proprio in questa prospettiva, in effetti, le firme elettroniche “non firmano”
(o, meglio, non sottoscrivono documenti), ossia non sono apposte “sul documento”
per attribuirne l’imputabilità giuridica, bensì sono associate a quel
contenuto giuridicamente rilevante, “validando” processi digitali: esse, cioè,
attribuiscono quel contenuto – con un diverso valore giuridico e probatorio in
base alla sicurezza e all’affidabilità del processo – a un determinato soggetto
dell’ordinamento.
Linee guida siti web pubblica amministrazione
Secondo il CAD le pubbliche amministrazioni devono realizzare siti istituzionali
su reti telematiche che rispettano i principi di accessibilità, nonché di
elevata usabilità e reperibilità, anche da parte delle persone disabili,
completezza di informazione, chiarezza di linguaggio, affidabilità, semplicità
di consultazione, qualità, omogeneità ed interoperabilità. Con Linee guida sono
definite le modalità per la realizzazione e la modifica dei siti delle
amministrazioni.
Le Linee Guida AgID di design per i siti della pubblica
amministrazione contengono pertanto una serie di elementi condivisi, di
carattere visivo ed estetico, nonché regole di usabilità e struttura, e hanno
l’obiettivo di semplificare l’accesso ai servizi e la fruizione delle
informazioni online. Hanno lo scopo di migliorare la navigazione e l’esperienza
del cittadino, in qualità di utente del sito web di una pubblica
amministrazione, dunque di migliorare il rapporto e la comunicazione tra il
cittadino e la pubblica amministrazione. Tali Linee Guida di fatto sono utili
per concretizzare alcuni di quei diritti fondamentali di cittadinanza digitale
prima elencati
Codice dell’amministrazione digitale, le priorità
Per concludere è possibile affermare che il CAD sembra finora aver pagato lo
scotto di una sorta di “peccato originale”. Il Legislatore ha provato a
disciplinare in un unico sistema normativo sia ambiti pubblicistici sia
privatistici nel contesto digitale, spesso complicando inutilmente processi che
ben avrebbero potuto essere semplificati e svilendo alcuni indispensabili
presidi di garanzia per l’integrità, la sicurezza e l’imputabilità giuridica,
che invece dovrebbero caratterizzare i documenti amministrativi che entrano a
far parte dell’archivio di una PA (alla cui certezza giuridica – è giusto
ricordarlo – è attribuito il valore di fede pubblica).
In ogni caso, Il Codice, pur nella sua imperfezione, complessità, scarsa
sistematicità e incompiutezza, resta un formidabile corpus normativo che
potrebbe garantire al cittadino una rivoluzione in termini di rapporto
trasparente con la PA in chiave digitale. Il problema è che non sempre c’è reale
consapevolezza su questo e soprattutto sul fatto che la chiave di volta per
arrivare a una PAD digitale non è la tecnologia da sviluppare.
Infatti, per una PA partire in un percorso delicato e complesso dalla fine (e
cioè dalla scelta del software o del partner tecnologico), senza aver maturato
consapevolezza, significa continuare a ripetere scelte ottuse, stupide, che la
porteranno a sbattere il muso contro un muro di bit che non sarà in grado di
controllare. Il CAD, se letto correttamente, insegna questo. Il problema è che
manca una formazione specifica e diffusa in grado di farlo comprendere agli
amministratori pubblici.
Art. 21 e ss legge 241/90
L’atto può essere:
invalido
quando difetti o sia viziato uno degli elementi prescritti, ovvero quando vi sia
lesione dell’interesse concreto tutelato dalla norma violata; a seconda della
gravità dei vizi l’atto può essere nullo (mancanza di un elemento essenziale) o
annullabile (adottato in violazione di legge).
Irregolare
quando presenta un vizio per il quale la legge non commina conseguenze negative
per l’atto stesso ma solo delle sanzioni amministrative a carico dell’agente.
Imperfetto
quando non sia concluso il suo ciclo di formazione.
Inefficace
quando, benché perfetto, non è idoneo a produrre effetti giuridici, in quanto
sono inesistenti i requisiti di efficacia richiesti.
Ineseguibile
quando diventa inefficace per il sopravvenire di un atto ostativo.
E’ invalido quando è difforme dalla
legge che lo disciplina:
se la norma è giuridica, vi sarà vizio di legittimità e quindi l’atto sarà
illegittimo,
se la norma rientra tra quelle di buona amministrazione, vi sarà vizio di merito
e l’atto sarà inopportuno.
Il provvedimento amministrativo prevede la nullità quando manca degli elementi
essenziali, quando è viziato da difetto assoluto di attribuzione (incompetenza
assoluta quando l’atto adottato dalla P.A. è inerente a materia riservata ad
altro potere dello Stato) o atto, già censurato, adottato in violazione (in
toto) o elusione (con modifiche) del giudicato. Gli elementi essenziali sono:
la qualità di P.A. in capo al soggetto che emette il provvedimento;
l’individuazione del soggetto o dell’oggetto nei cui confronti il provvedimento
ha effetti;
l’esistenza di una norma attributiva del potere alla P.A. procedente;
la volontà della P.A di adottare l’atto e la forma, laddove prevista dalla
legge.
La giurisdizione in tema di nullità spetta al giudice amministrativo e le
conseguenze della nullità sull’atto sono l’inesistenza giuridica,
l’inesecutorietà, l’inannullabilità e l’insanabilità.
L’atto amministrativo che presenti vizi
di legittimità, che incidono sugli elementi essenziali di esso, è illegittimo e
come tale annullabile. L’azione di annullamento è disciplinata per violazione di
legge, eccesso di potere e incompetenza. L’atto annullabile è immediatamente
efficace, ma è suscettibile di essere rimosso con una pronuncia costitutiva del
giudice amministrativo. E’ illegittimo l’atto che presentando un vizio sugli
elementi essenziali, risulta difforme dalla normativa che disciplina la sua
validità; illecito non sarà mai un atto, bensì un comportamento al quale la
legge ricollega una responsabilità e una sanzione per l’autore.
Quando il provvedimento amministrativo non è annullabile? In caso di violazione
di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento sia palese che il suo contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso
La violazione delle norme che disciplinano la sfera di attribuzione di un dato
organo, da luogo:
all’incompetenza assoluta (quando l’atto adottato dalla P.A. è inerente a
materia riservata ad altro potere dello Stato);
o incompetenza relativa (quando un organo amministrativo invade la sfera di
competenza di un altro organo appartenente allo stesso settore amministrativo).
Per potersi configurare eccesso di potere occorre invece un potere discrezionale
della P.A., uno sviamento di tale potere e la prova dello sviamento. Tra le
figure più rilevanti di eccesso di potere vi sono:
il travisamento ed erronea valutazione dei fatti (P.A. ritiene esistente un
fatto inesistente);
la contraddittorietà tra più atti (atti contrastanti tra loro);
l’ingiustizia manifesta (si pensi per scarso rendimento ad impiegato infortunato
sul lavoro);
la disparità di trattamento (provvedimenti diversi per identiche situazioni).
La violazione di legge è una figura residuale, comprensiva di tutti gli altri
vizi di legittimità che non configurino né incompetenza relativa né eccesso di
potere. I casi di violazione di legge possono essere:
i vizi di forma (inosservanza delle regole prescritte per la manifestazione di
volontà);
il difetto di motivazione o motivazione insufficiente;
l’inosservanza delle disposizioni relative alla valida costituzione dei
collegi;
il contenuto illegittimo;
il difetto di presupposti legali e la violazione dei criteri di economicità,
efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa.
L’esistenza di un vizio di legittimità comporta che l’atto è giuridicamente
esistente, è efficace ed esecutorio, finché non venga annullato. L’annullamento
avviene solo a seguito di un provvedimento dell’autorità amministrativa o di una
del giudice amministrativo. L’atto annullabile può essere sanato, ratificato o
convertito in un atto valido.
Non sono suscettibili di classificazione; il fondamento di tali vizi non risiede
nella contrarietà dell’atto a norme giuridiche, ma nella violazione del
principio di buona amministrazione. Possono invalidare solo gli atti
discrezionali e consistono nella violazione da parte della P.A. di norme non
giuridiche di opportunità, di equità, di eticità e di economicità.
Il D.P.R. n. 1199 del 1971, contenente la semplificazione dei procedimenti in
materia di ricorsi amministrativi,
by studiolegaleCaruso.it
Aspetti generali
Recita il primo comma dell'art. 113 della Costituzione:
"Contro gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di
giurisdizione ordinaria o amministrativa".
Il sistema di tutela offerto dal nostro ordinamento ai cittadini "contro gli
atti e i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti privati
che la legge ad esse equipara" è garantito dall'impianto normativo e
giurisprudenziale della Giustizia Amministrativa (Scoca) che prevede due ordini
di giurisdizione quella ordinaria e quella amministrativa, appunto.
Ma accanto ai rimedi giurisdizionali il nostro ordinamento prevede una terza
via, di tipo non giurisdizionale: la tutela in via amministrativa.
Secondo autorevole dottrina la tutela in via amministrativa è caratterizzata dal
fatto che essa viene attuata su ricorso degli interessati, attraverso un
procedimento amministrativo e al di fuori di ogni intervento del giudice
ordinario o amministrativo, onde la relativa materia rientra nel quadro dei
procedimenti amministrativi di riesame" (Virga).
Si deve al Sandulli la ricostruzione sistematica dei ricorsi amministrativi oggi
consolidata nella scienza pubblicistica.
L'autore definisce la categoria dei ricorsi amministrativi come: "quelle istanze
che i soggetti interessati possono presentare ad una autorità amministrativa
perché questa risolva ex autoritate sua una controversia insorta nell'ambito del
sistema della pubblica amministrazione".
Resta, pur sempre, il problema della natura giuridica dei ricorsi amministrativi
posto che è la stessa amministrazione a dover risolvere la controversia.
La funzione che l'amministrazione adita svolge non è di tipo giurisdizionale ma
è attività amministrativa "giustiziale", considerata funzione amministrativa di
secondo grado in quanto chiamata a decidere in contraddittorio con le parti
interessate, una controversia concreta ed attuale, occasionata da un proprio
antecedente atto amministrativo.
Sostanzialmente l'ordinamento colloca il ricorso amministrativo nell'ambito
degli strumenti giustiziali predisposti per consentire al cittadino leso in una
posizione soggettiva giuridicamente rilevante di ottenere giustizia: anche il
ricorso amministrativo ha, dunque carattere contenzioso.
Va, comunque, tenuto presente:
1) il ricorso amministrativo si sviluppa nell'ambito dell'amministrazione
particolare nella quale sorge il problema, mentre l'attività giurisdizionale
appartiene all'ordinamento generale;
2) l'Amm.ne che decide il ricorso è direttamente interessata dall'esito
medesimo;
3) manca quindi un soggetto super partes idoneo a giudicare.
Dobbiamo peraltro distinguere "il ricorso amministrativo" dai "reclami" o
"denunce" che possono essere presentate alla p.a. da chiunque o per qualunque
motivo.
Essi sono privi di tutela giuridica (spesso non trovano riscontro in alcuna
norma), inoltre, non comportano l'obbligo di provvedere da parte
dell'amministrazione presso la quale il reclamo o la denuncia viene inoltrato.
I ricorsi amministrativi hanno invece valore di rimedio giuridico ed obbligano
l'amministrazione adita a pronunciarsi sul ricorso, in quanto viene posto in
essere un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge.
Il D.P.R. n. 1199 del 1971, contenente la semplificazione dei procedimenti in
materia di ricorsi amministrativi, ha dettato una disciplina generale in
materia di ricorsi amministrativi operando una armonizzazione con le norme
contenute nella coeva legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali ed
ha previsto le tipologie di ricorsi amministrativi che a seguire verranno
descritte.
Si intersecano con la materia dei ricorsi amministrativi, poi, le recenti novità
introdotte dalla Legge n. 15 del 2005 alla legge sul procedimento amministrativo
in quanto, tra l'altro, preordinate a deflazionare il contenzioso amministrativo
risolvendo le controversie già in sede procedimentale (si pensi, ad esempio,
all'istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10 bis della L. n.
241/1990).
DPR 24 novembre 1971, n. 1199.
Strumenti di tutela, amministrativa e giurisdizionale, riconosciuti dalla legge
in favore dell'interessato, nel corso del procedimento e nei confronti del
provvedimento finale ovvero nei casi di adozione del provvedimento oltre il
termine predeterminato per la sua conclusione e i modi per attivarli (art. 35,
comma 1, lettera h), D.lgs. 14 marzo 2013, n. 33). By trasparenza.uniurb.it
1. TUTELA AMMINISTRATIVA. Il ricorso
amministrativo consiste in una istanza diretta dal soggetto che vi abbia
interesse ad una Pubblica Amministrazione al fine di ottenere, senza
l’intervento giurisdizionale, l’annullamento, la revoca o la riforma di un atto
amministrativo. La disciplina dei ricorsi amministrativi è rinvenibile nel DPR
24 novembre 1971, n. 1199 “Semplificazione dei procedimenti in materia di
ricorsi amministrativi”. I ricorsi amministrativi si distinguono in gerarchico,
in opposizione e straordinario al Presidente della Repubblica.
Ricorso gerarchico
Il ricorso gerarchico (proprio)
consente di impugnare un provvedimento non definitivo dinanzi all’organo
gerarchicamente sovraordinato a quello che ha emanato l’atto. È possibile far
valere sia vizi di legittimità che vizi di merito, per la tutela dei diritti
soggettivi e degli interessi legittimi.
Il ricorso gerarchico (improprio)
è altresì possibile nei confronti di atti emanati da organi rispetto ai quali
non sia individuabile un superiore gerarchico, ma soltanto nelle ipotesi
espressamente previste dalla legge. Il ricorso deve essere proposto entro 30
giorni dalla data della notificazione o della comunicazione in via
amministrativa dell'atto impugnato e da quando l'interessato ne abbia avuto
piena conoscenza. Decorsi 90 giorni dalla data di presentazione del ricorso
senza che l’Amministrazione abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende
respinto a tutti gli effetti, e contro il provvedimento impugnato è esperibile
il ricorso all'autorità giurisdizionale competente, o quello straordinario al
Presidente della Repubblica.
Ricorso in opposizione
Il ricorso in opposizione è proposto allo stesso organo che ha emanato l’atto. È
un rimedio a carattere eccezionale essendo ammesso solo nei casi espressamente
stabiliti dalla legge e per i motivi da essa previsti. Può essere proposto sia
per motivi di legittimità che di merito, e sia a tutela di interessi legittimi
che di diritti soggettivi. Sotto il profilo del procedimento, per il ricorso in
opposizione valgono, in quanto applicabili, le stesse norme del ricorso
gerarchico.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
Contro gli atti amministrativi definitivi è ammesso ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica per motivi di legittimità da parte di chi vi abbia
interesse. Il ricorso straordinario è alternativo rispetto al ricorso
giurisdizionale, pertanto una volta che sia stato proposto un ricorso
giurisdizionale, non è possibile il ricorso straordinario da parte dello stesso
interessato. Il ricorso deve essere proposto nel termine di 120 giorni dalla
data della notificazione o della comunicazione dell'atto impugnato o da quando
l'interessato ne abbia avuto piena conoscenza. La decisione del ricorso
straordinario è adottata con decreto del Presidente della Repubblica su proposta
del Ministero competente.
2. TUTELA GIURISDIZIONALE. La giustizia amministrativa italiana è organizzata
secondo il sistema della doppia giurisdizione.
- tutela giurisdizionale ordinaria. Il giudice ordinario è competente a
decidere delle violazioni dei diritti soggettivi con il potere di disapplicare
l’atto amministrativo che risulti illegittimo e di dichiararne l’illegittimità.
- tutela giurisdizionale amministrativa. Il giudice amministrativo è
competente a giudicare delle violazioni degli interessi legittimi, salvo i casi
di giurisdizione esclusiva in cui lo stesso giudice amministrativo giudica sulle
violazioni dei diritti soggettivi, ad annullare gli atti amministrativi
illegittimi, nonché, in alcuni casi tassativi, a sostituirli o a riformarli in
parte.
Tutela giurisdizionale amministrativa.
La giurisdizione amministrativa è esercitata dai Tribunali Amministrativi
Regionali (TAR) e dal Consiglio di Stato secondo le norme del Codice del
Processo Amministrativo (CPA) di cui al D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Sono
devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si
faccia questione di interessi legittimi, e, nelle particolari materie indicate
dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato
esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o
comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere,
posti in essere da pubbliche amministrazioni (o da soggetti ad esse equiparati o
comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo).
Azioni esperibili innanzi al giudice
amministrativo:
- azione di annullamento (art. 29 CPA) – proponibile nel termine di 60 giorni, a
pena di decadenza;
- azione di condanna (art. 30 CPA) – esperibile nel termine di 120 giorni, a
pena di decadenza;
- azione avverso il silenzio della PA (art. 31 CPA) – esperibile fino a che
perdura l’inadempimento e comunque non oltre 1 anno dalla scadenza del termine
di conclusione del procedimento amministrativo;
- declaratoria di nullità (art. 31 CPA) – proponibile nel termine di 180 giorni,
a pena di decadenza;
- azione contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso
ai documenti amministrativi nonché per la tutela del diritto di accesso civico
connessa all’inadempimento degli obblighi di trasparenza (art. 116 CPA) –
proponibile nel termine di 30 giorni.
Per i provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di lavori pubblici,
servizi e forniture il ricorso è esperibile nel termine di 30 giorni, a pena di
decadenza (art. 119 CPA).
Sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in
materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni, nonché, in sede di giurisdizione esclusiva, le controversie
relative ai rapporti di lavoro di cui all'art. 3 del D.lgs. 165/2001, ivi
comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi (art. 63, comma 4,
D.lgs. 165/2001). Si specifica che le controversie in materia di rapporto di
lavoro del personale contrattualizzato, successive alla stipula del relativo
contratto, sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario. Salvo quanto
previsto dall'art. 23 CPA, nei giudizi davanti ai TAR è obbligatorio il
patrocinio di avvocato. Avverso le sentenze dei TAR è ammesso appello al
Consiglio di Stato, ove è obbligatorio il ministero di avvocato ammesso al
patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori.
Il nostro ordinamento prevede una serie di rimedi contro gli atti illegittimi
e/o inopportuni. L’atto viziato può essere oggetto:
di una sentenza del giudice amministrativo che annulli l’atto su ricorso
giurisdizionale dell’interessato;
di una decisione dell’autorità amministrativa che annulli l’atto su ricorso
amministrativo dell’interessato;
di un atto amministrativo, adottato d’ufficio dalla P.A. che ritiri l’atto
viziato (c.d. atto di ritiro).
Gli atti di ritiro sono quei provvedimenti amministrativi a contenuto negativo,
emanati in base ad un riesame dell’atto compiuto nell’esercizio del medesimo
potere amministrativo, esercitato con l’emanazione dell’atto, al fine di
eliminare l’atto viziato. Gli atti di ritiro sono discrezionali, esecutori,
formali, motivati obbligatoriamente e provvedimenti recettizi.
E’ un provvedimento amministrativo di secondo grado con il quale viene ritirato
con efficacia retroattiva (ex tunc, ossia dalla data della sua emanazione) un
atto amministrativo illegittimo, per la presenza di vizi di legittimità
originari dell’atto.
E un provvedimento amministrativo di secondo grado con cui la P.A. ritira con
efficacia non retroattiva (ex nunc) un atto inficiato da vizi di merito, in base
ad una nuova valutazione delle ragioni di convenienza ed opportunità, per le
quali l’atto fu emanato. La revoca determina l’inidoneità del provvedimento
revocato a produrre ulteriori effetti e l’obbligo di provvedere all’indennizzo
degli eventuali pregiudizi verificatisi in danno di soggetti direttamente
interessati.
Esistono due tipi di revoca:
1. l’autorevoca (dall’autorità che ha
emanato l’atto);
2. la revoca gerarchica (dall’autorità gerarchicamente superiore).
L’esercizio del potere di revoca presuppone una mancanza attuale di rispondenza
dell’atto alle esigenze pubbliche e l’esistenza di un interesse pubblico,
concreto ed attuale all’eliminazione dell’atto inopportuno.
E’ un atto di ritiro che si attua per il sopravvenire di nuove circostanze di
fatto che rendono l’atto non più rispondente al pubblico interesse. Gli atti
suscettibili di abrogazione sono gli stessi che possono essere revocati; gli
effetti si producono ex nunc.
E’ un atto di ritiro con efficacia ex nunc che la P.A. utilizza nei confronti di
precedenti atti ampliativi delle facoltà dei privati in caso di:
inadempimento degli obblighi o degli oneri incombenti sui destinatari;
mancato esercizio da parte degli stessi delle facoltà derivanti dall’atto
amministrativo;
venir meno di requisiti necessari per la costituzione e la continuazione del
rapporto.
E’ un atto di ritiro che si esplica nei confronti di atti non ancora efficaci.
Perché possa farsi luogo al ritiro è sufficiente l’accertamento di illegittimità
o inopportunità dell’atto.
L’atto che non sia radicalmente nullo ma solo annullabile può essere sanato con
una successiva manifestazione di volontà della P.A.; al riguardo si distinguono
convalescenza e conservazione. Nella convalescenza, che tende direttamente ad
eliminare il vizio che inficia l’atto, rientrano le figure:
(procedimento con cui vengono eliminati i vizi di legittimità di un atto,
precedentemente emanato dalla stessa autorità);
(provvedimento con cui viene eliminato il vizio di incompetenza relativa, da
parte dell’autorità astrattamente competente);
(atti invalidi o per mancanza si presupposto di legittimità o per il mancato
compimento di un atto preparatorio del procedimento).
tende a rendere l’atto, nonostante la sua invalidità, inattaccabile da parte dei
soggetti destinatari con ricorsi amministrativi o giurisdizionali. Le ipotesi
sono:
(conservazione oggettiva che dipende dal decorso del tempo, entro il quale
l’interessato avrebbe dovuto presentare ricorso);
(causa di conservazione soggettiva, che
dipende da un comportamento con cui il soggetto privato dimostra di essere
d’accordo con l’operato della P.A. e si preclude la possibilità di impugnare
l’atto);
(considera un atto invalido come appartenente ad un altro tipo, valido, di cui
esso presenta in requisiti di forma e sostanza);
(manifestazione di volontà con cui l’autorità ribadisce una sua precedente
determinazione).
by Gennaro Rotunno
RICORSO DI TUTELA (annullamento-rettifica-rateizzazione entro 30 giorni):
Giurisdizionale: atto definitivo Tribunale
atto definitivo Tar (interessi legittimi e diritti in alcuni casi);
Amministrativo: atto non definitivo Gerarchico in autotutela
proprio (autotutela)
improprio (altro Ente)
Atto definitivo In Opposizione solo per legge
Atto definitivo Straordinario al Presidente della Repubblica
L'annullamento d'ufficio
è un provvedimento amministrativo di secondo grado con cui viene ritirato, con
efficacia retroattiva (ex tunc), un atto amministrativo illegittimo, per la
presenza di vizi di legittimità originari dell'atto
La revoca
nel diritto amministrativo è un atto amministrativo di secondo grado mediante il
quale viene ritirato un altro atto amministrativo, con efficacia immediata (ex
nunc). Tale istituto può essere operato in via di autotutela da parte della
pubblica amministrazione.
Quando si può avere la revoca di un atto amministrativo? La revoca può essere
adottata per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, per mutamento della
situazione di fatto, nonché per una nuova valutazione dell'interesse pubblico
originario.
Si riportano innanzitutto integralmente le norme del d.P.R. del 1971 n. 1199 che
regolamentano il ricorso gerarchico
Art. 1
Contro gli atti amministrativi non definitivi è ammesso ricorso in unica istanza
all'organo sovraordinato, per motivi di legittimità e di merito, da parte di chi
vi abbia interesse.
Contro gli atti amministrativi dei Ministri, di enti pubblici o di organi
collegiali è ammesso ricorso da parte di chi vi abbia interesse nei casi, nei
limiti e con le modalità previsti dalla legge o dagli ordinamenti dei singoli
enti.
La comunicazione degli atti soggetti a ricorso ai sensi del presente articolo
deve recare l'indicazione del termine e dell'organo cui il ricorso deve essere
presentato.
Termine - Presentazione.
Art. 2
Il ricorso deve essere proposto nel termine di trenta giorni dalla data della
notificazione o della comunicazione in via amministrativa dell'atto impugnato e
da quando l'interessato ne abbia avuto piena conoscenza.
Il ricorso è presentato all'organo indicato nella comunicazione o a quello che
ha emanato l'atto impugnato direttamente o mediante lettera raccomandata con
avviso di ricevimento. Nel primo caso, l'ufficio ne rilascia ricevuta. Quando il
ricorso è inviato a mezzo posta, la data di spedizione vale quale data di
presentazione.
I ricorsi rivolti, nel termine prescritto, a organi diversi da quello
competente, ma appartenenti alla medesima amministrazione, non sono soggetti a
dichiarazione di irricevibilità e i ricorsi stessi sono trasmessi d'ufficio
all'organo competente.
Sospensione dell'esecuzione.
Art. 3
D'ufficio o su domanda del ricorrente proposta nello stesso ricorso o in
successiva istanza da presentarsi nei modi previsti dall'art. 2, secondo comma,
l'organo decidente può sospendere per gravi motivi l'esecuzione dell'atto
impugnato.
Istruttoria.
Art. 4
L'organo decidente, qualora non vi abbia già provveduto il ricorrente, comunica
il ricorso agli altri soggetti direttamente interessati ed individuabili sulla
base dell'atto impugnato.
Entro venti giorni dalla comunicazione del ricorso gli interessati possono
presentare all'organo cui è diretto deduzioni e documenti.
L'organo decidente può disporre gli accertamenti che ritiene utili ai fini della
decisione del ricorso.
Decisione.
Art. 5
L'organo decidente, se riconosce che il ricorso non poteva essere proposto, lo
dichiara inammissibile. Se ravvisa una irregolarità sanabile, assegna al
ricorrente un termine per la regolarizzazione e, se questi non vi provvede,
dichiara il ricorso improcedibile. Se riconosce infondato il ricorso, lo
respinge. Se lo accoglie per incompetenza, annulla l'atto e rimette l'affare
all'organo competente. Se lo accoglie per altri motivi di legittimità o per
motivi di merito, annulla o riforma l'atto salvo, ove occorra, il rinvio
dell'affare all'organo che lo ha emanato.
La decisione deve essere motivata e deve essere emessa e comunicata all'organo o
all'ente che ha emanato l'atto impugnato, al ricorrente e agli altri
interessati, ai quali sia stato comunicato il ricorso, in via amministrativa o
mediante notificazione o mediante lettera raccomandata con avviso di
ricevimento.
Silenzio.
Art. 6
Decorso il termine di novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso
senza che l'organo adito abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende
respinto a tutti gli effetti, e contro il provvedimento impugnato è esperibile
il ricorso all'autorità giurisdizionale competente, o quello straordinario al
Presidente della Repubblica.
Il ricorso gerarchico è un rimedio giustiziale di portata generale, che
presuppone l'esistenza di una struttura amministrativa di tipo gerarchico e
quindi che vi sia un organo dotato di poteri di supremazia che gli consentono di
annullare o modificare d'autorità gli atti posti dall'organo subordinato.
L'atto deve, comunque, provenire da un soggetto dotato del potere di operare
esternamente.
Il carattere generale del rimedio del ricorso gerarchico fa sì che in relazione
alla sua proposizione non si fa distinzione fra diritti soggettivi e interessi
legittimi e fra legittimità e merito. Il ricorso potrà proporsi dunque anche a
tutela di diritti soggettivi e anche per motivi di merito.
Il d.P.R. 1199/1971 e la c.d. l. TAR (l. 1034/1971) hanno introdotto due
importanti riforme nell'ambito del ricorso gerarchico:
a) previsione di un’unica istanza: il ricorso gerarchico è ammesso in unica
istanza anche nei casi in cui i gradi di gerarchia siano più di uno.
Di conseguenza, con il ricorso gerarchico potrà adirsi solo l'organo
immediatamente superiore a quello che ha emanato l'atto anche se intermedio; una
volta intervenuta una decisione su tale ricorso, tale decisione non è a sua
volta suscettibile di impugnazione in via gerarchica.
b) facoltatività del ricorso gerarchico: essendo stato ammesso il ricorso
giurisdizionale al tribunale amministrativo anche contro i provvedimenti non
definitivi è stata resa facoltativa la proposizione del ricorso gerarchico.
In base al principio generale dell'alternatività dei rimedi amministrativi e
giurisdizionali, il legislatore (art. 20 l. TAR) ha risolto i casi di pendenza
contemporanea di ricorso amministrativo gerarchico a tutela di interessi
legittimi e ricorso giurisdizionale al TAR utilizzando i seguenti criteri:
1) se l'interessato ha proposto ricorso gerarchico, occorre distinguere due
ipotesi: se nei 90 giorni interviene la decisione dell'autorità amministrativa,
egli potrà proporre ricorso giurisdizionale contro tale decisione; se non
interviene alcuna decisione della P.A., egli potrà ricorrere al TAR contro il
provvedimento già impugnato con il ricorso gerarchico. In proposito la
giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che nel caso in cui un atto
sia stato impugnato con ricorso gerarchico è ammissibile contro lo stesso atto
ricorso al TAR in sede giurisdizionale anche prima dello scadere dei 90 giorni.
In tal caso il ricorso amministrativo diventa improcedibile (cfr. C.d.S. Ad.
Plen. 16/1989).
2) se è proposto ricorso al TAR da un altro cointeressato (diverso da chi ha
proposto ricorso gerarchico), il ricorso gerarchico diviene improcedibile.
In tal caso l'Amministrazione è tenuta ad informare chi ha proposto il ricorso
gerarchico della pendenza del ricorso giurisdizionale. Entro trenta giorni da
tale comunicazione, chi ha proposto tempestivamente il ricorso gerarchico può
ricorrere al G.A.
3) le regole della preferenza del ricorso giurisdizionale su quello
amministrativo non trovano applicazione per quei motivi (come quelli di merito)
che non possono proporsi in entrambe le sedi. In tali casi, la scelta del
cointeressato per la via giurisdizionale non preclude all'autorità adita in sede
amministrativa di pronunciarsi limitatamente ai motivi di merito.
Il ricorso deve essere redatto per iscritto ad substantiam. Esso deve indicare:
l'autorità adita, le generalità del ricorrente, gli estremi del provvedimento
impugnato, i motivi su cui il ricorso si fonda e la sottoscrizione del
ricorrente o del suo procuratore speciale. Per gli enti pubblici la
sottoscrizione deve essere preceduta dalla deliberazione autorizzativa
dell'organo collegiale competente.
Per la proposizione del ricorso gerarchico è previsto un unico termine di trenta
giorni. Esso decorre, per i soggetti direttamente contemplati nell'atto dalla
notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa del provvedimento
impugnato, in mancanza, dalla data in cui l'interessato ne ha avuto piena
conoscenza; per coloro invece che non siano direttamente contemplati dal
provvedimento, il termine decorre dalla data di pubblicazione dell'atto.
Il ricorso può essere presentato sia all'autorità che ha emanato l'atto, sia a
quella superiore a cui l'atto è diretto.
La presentazione può avvenire o mediante consegna diretta all'ufficio, o
mediante notificazione a mezzo ufficiale giudiziario, o mediante raccomandata
con avviso di ricevimento.
L'autorità adita con il ricorso gerarchico ha il dovere giuridico di
pronunciarsi sul ricorso e il privato, correlativamente, vanta una pretesa
tutelata a che il proprio ricorso venga deciso. Poiché però può accadere che
l'organo che dovrebbe decidere non si pronunci, il legislatore ha attribuito un
significato all'inerzia serbata dall'autorità adita dettando una disciplina per
il silenzio - rigetto.
Trascorsi, infatti, novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso senza
che l'organo adito abbia comunicato la decisione, la fase contenziosa
amministrativa si intende esaurita e l'interessato potrà proporre ricorso
giurisdizionale direttamente contro il provvedimento originario già impugnato
con il ricorso gerarchico.
Il decorso dello spatium deliberandi di novanta giorni costituisce il
presupposto processuale per la proposizione del ricorso giurisdizionale contro
il provvedimento originario.
Il procedimento contenzioso si conclude con la decisione, che viene adottata
dall'autorità adita con il ricorso gerarchico.
La decisione deve essere adeguatamente motivata dandosi contezza delle ragioni
che hanno indotto l'autorità ad adottare la soluzione prescelta.
Per Giurisprudenza pacifica una volta emessa la decisione, l'organo decidente
consuma il suo potere e non può annullare o revocare la decisione stessa: la
decisione sul ricorso gerarchico, sia di accoglimento che di rigetto sostituisce
ed assorbe il provvedimento originario impugnato; è quindi contro tale decisione
che l'ulteriore ricorso giurisdizionale va proposto.
Tuttavia, secondo un consolidato indirizzo, in sede di ricorso giurisdizionale
contro una decisione adottata a seguito di ricorso gerarchico, sono
inammissibili i motivi che non siano stati proposti in sede gerarchica nei
confronti dell'atto impugnato; ciò al fine di evitare la possibile elusione dei
termini perentori entro i quali proporre ricorso giurisdizionale (C.d.S. Sez. IV
30.6.2005 n. 3504; Sez. IV 10.6.2004 n. 3756).
Va altresì precisato che nel caso di successiva proposizione di un ricorso
giurisdizionale al Tribunale Amministrativo Regionale, si determinano effetti
devolutivi che consentono al giudice non solo di pronunciarsi sulla decisione
gerarchica, ma altresì di sindacare il provvedimento sottostante considerando
legittimo contraddire l'autorità che ha emanato il provvedimento impugnato e non
quella che ha adottato la decisione giustiziale (C.d.S. Sez. VI 9.2.2006 n.
527).
Costituisce un rimedio di carattere eccezionale previsto volta per volta in
relazione ad atti posti in essere da organi che non hanno un superiore
gerarchico. Dall'eccezionalità dei casi deriva l'eccezionalità del regime:
ciascuno dei ricorsi previsti dalla legge è regolato autonomamente, salva, per
le lacune e il caso di compatibilità, la possibilità di una applicazione
estensiva delle regole dettate per il ricorso gerarchico.
I provvedimenti contro i quali eccezionalmente è ammesso il ricorso gerarchico
improprio non potrebbero essere impugnabili in via gerarchica o perché emanati
da un organo collegiale, ovvero perché adottati da un ente diverso da quello a
cui appartiene l'autorità decidente.
In materia di ricorsi gerarchici impropri la Giurisprudenza ha chiarito:
Le disposizioni contenute nel d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199 sono di generale
applicazione per tutti i ricorsi gerarchici, sia propri che impropri (Consiglio
Stato, sez. VI, 16 settembre 2003, n. 5234).
Non sussiste in astratto alcun motivo di ordine giuridico per escludere che in
materia di accesso sia ammissibile un ricorso di tipo amministrativo, comunque
configurato o denominato (riesame, ricorso gerarchico proprio, ricorso
gerarchico improprio, ecc.) (Consiglio Stato, sez. VI, 27 maggio 2003, n. 2938).
Va qualificato come ricorso gerarchico improprio, in quanto rivolto
all'impugnativa di un giudizio tecnico emesso da un organo tecnico collegiale,
il ricorso avverso il giudizio delle commissioni mediche locali istituite presso
ogni Asl per l'accertamento dei requisiti psico-fisici per l'abilitazione alla
guida, ex art. 122 comma 5, d.lg. 30 aprile 1992 n. 285. Pertanto, a tale
rimedio giustiziale si applicano i principi elaborati in materia di ricorsi
gerarchici (Consiglio Stato, sez. II, 19 febbraio 2003, n. 736).
La disciplina di cui all'art. 6 d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199, in materia di
formazione del silenzio rigetto sul ricorso gerarchico si applica anche ai
ricorsi gerarchici impropri proposti per la revisione dei prezzi di appalto di
opere pubbliche, ai sensi dell'art. 4 d.lg. C.p.S. 6 dicembre 1947 n. 1501;
tuttavia, l'inutile decorso del termine di novanta giorni ha effetti solo
processuali, sicché non viene meno il potere dell'autorità investita dal ricorso
di deciderlo (Consiglio Stato, sez. IV, 24 febbraio 2000, n. 983).
Il venir meno in via interpretativa del ricorso gerarchico improprio, in difetto
di espressa previsione normativa, andrebbe a depotenziare gli strumenti di
tutela di cui il cittadino può valersi in una materia nella quale i profili di
merito, non conoscibili in sede giurisdizionale, hanno grande rilevanza
(Consiglio Stato a. gen., 10 giugno 1999, n. 8).
Anche questo è un rimedio di tipo eccezionale con il quale il soggetto si
rivolge alla autorità che ha emanato l'atto con valore di mera denuncia ed è
soggetto al regime dei ricorsi gerarchici; in particolare si ritiene generale
l'ammissibilità dell'impugnativa per i motivi di merito.
Al ricorso in opposizione ed al ricorso gerarchico improprio si applicano, in
quanto compatibili, le disposizioni in materia di ricorso gerarchico.
Recita testualmente l'art. 7 del d.P.R. 1199 del 1971:
"Nei casi previsti dalla legge, il ricorso in opposizione è presentato
all'organo che ha emanato l'atto impugnato.
Per quanto non espressamente previsto dalla legge, valgono, in quanto
applicabili, le norme contenute nel capo I del presente decreto. "
La Giurisprudenza del Consiglio di Stato ha precisato:
"L'espressione contenuta nell'art. 7 d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199 "nei casi
previsti dalla legge", in cui è ammessa l'esperibilità del ricorso in
opposizione, deve intendersi riferita a qualsiasi atto normativo" (Consiglio
Stato, sez. V, 06 marzo 1991, n. 199).
"Ai sensi degli art. 6 e 7 d.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199, dopo il 90mo giorno
dalla presentazione del ricorso in opposizione e in mancanza di provvedimento
esplicito, il ricorso stesso deve ritenersi respinto e contro l'atto originario
è consentito esperire il ricorso giurisdizionale nel termine perentorio di 60
giorni" (Consiglio Stato, sez. V, 11 gennaio 1989, n. 7).
Si riportano integralmente le norme del d.P.R. del 1971 n. 1199 che
regolamentano il ricorso straordinario
Ricorso.
Art. 8
Contro gli atti amministrativi definitivi è ammesso ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica per motivi di legittimità da parte di chi vi abbia
interesse.
Quando l'atto sia stato impugnato con ricorso giurisdizionale, non è ammesso il
ricorso straordinario da parte dello stesso interessato.
Termine - Presentazione.
Art. 9
Il ricorso deve essere proposto nel termine di centoventi giorni dalla data
della notificazione o della comunicazione dell'atto impugnato o da quando
l'interessato ne abbia avuto piena conoscenza.
Nel detto termine, il ricorso deve essere notificato nei modi e con le forme
prescritti per i ricorsi giurisdizionali ad uno almeno dei controinteressati e
presentato con la prova dell'eseguita notificazione all'organo che ha emanato
l'atto o al Ministero competente, direttamente o mediante notificazione o
mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Nel primo caso
l'ufficio ne rilascia ricevuta. Quando il ricorso è inviato a mezzo posta, la
data di spedizione vale quale data di presentazione.
L'organo, che ha ricevuto il ricorso, lo trasmette immediatamente al Ministero
competente, al quale riferisce.
Ai controinteressati è assegnato un termine di sessanta giorni dalla
notificazione del ricorso per presentare al Ministero che istruisce l'affare
deduzioni e documenti ed eventualmente per proporre ricorso incidentale.
Quando il ricorso sia stato notificato ad alcuni soltanto dei controinteressati,
il Ministero ordina l'integrazione del procedimento, determinando i soggetti cui
il ricorso stesso deve essere notificato e le modalità e i termini entro i quali
il ricorrente deve provvedere all'integrazione.
Opposizione dei controinteressati.
Art. 10
I controinteressati, entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione del
ricorso, possono richiedere, con atto notificato al ricorrente e all'organo che
ha emanato l'atto impugnato, che il ricorso sia deciso in sede giurisdizionale.
In tal caso, il ricorrente, qualora intenda insistere nel ricorso, deve
depositare nella segreteria del giudice amministrativo competente, nel termine
di sessanta giorni dal ricevimento dell'atto di opposizione, l'atto di
costituzione in giudizio, dandone avviso mediante notificazione all'organo che
ha emanato l'atto impugnato ed ai controinteressati e il giudizio segue in sede
giurisdizionale secondo le norme del titolo III del testo unico delle leggi sul
Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, e del
regolamento di procedura, approvato con regio decreto 17 agosto 1907, n. 642
(1).
Il collegio giudicante, qualora riconosca che il ricorso è inammissibile in sede
giurisdizionale, ma può essere deciso in sede straordinaria dispone la
rimessione degli atti al Ministero competente per l'istruzione dell'affare.
Il mancato esercizio della facoltà di scelta, prevista dal primo comma del
presente articolo, preclude ai controinteressati, ai quali sia stato notificato
il ricorso straordinario, l'impugnazione dinanzi al Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale della decisione di accoglimento del Presidente della Repubblica,
salvo che per vizi di forma o di procedimento propri del medesimo (2).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza 29 luglio 1982, n. 148 ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui, ai fini
dell'esercizio della facoltà di scelta ivi prevista, non equipara ai
controinteressati l'ente pubblico, diverso dallo Stato, che ha emanato l'atto
impugnato con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
(2) La Corte costituzionale, con sentenza 29 luglio 1982, n. 148 ha dichiarato
in applicazione dell'articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui, ai fini
della preclusione dell'impugnazione contro la decisione di accoglimento del
ricorso straordinario, per effetto del mancato esercizio della facoltà di
scelta, prevista dal primo comma dello stesso articolo, non equipara ai
controinteressati l'ente pubblico, diverso dallo Stato, che ha emanato l'atto
impugnato, al quale sia stato notificato il ricorso medesimo.
Istruttoria del ricorso - Richiesta di parere.
Art. 11
Entro centoventi giorni dalla scadenza del termine previsto dall'art. 9, quarto
comma, il ricorso, istruito dal Ministero competente, è trasmesso, insieme con
gli atti e i documenti che vi si riferiscono, al Consiglio di Stato per il
parere.
Trascorso il detto termine, il ricorrente può richiedere, con atto notificato al
Ministero competente, se il ricorso sia stato trasmesso al Consiglio di Stato.
In caso di risposta negativa o di mancata risposta entro trenta giorni, lo
stesso ricorrente può depositare direttamente copia del ricorso presso il
Consiglio di Stato.
I ricorsi con i quali si impugnano atti di enti pubblici in materie per le quali
manchi uno specifico collegamento con le competenze di un determinato Ministero
devono essere presentati alla Presidenza del Consiglio dei ministri che ne cura
la relativa istruttoria.
Organo competente ad esprimere il parere sul ricorso straordinario.
Art. 12
Il parere sul ricorso straordinario è espresso dalla sezione o dalla commissione
speciale, alla quale il ricorso è assegnato.
La sezione o la commissione speciale, se rileva che il punto di diritto
sottoposto al loro esame ha dato luogo o possa dar luogo a contrasti
giurisprudenziali, può rimettere il ricorso all'Adunanza generale.
Prima dell'espressione del parere il presidente del Consiglio di Stato può
deferire alla Adunanza generale qualunque ricorso che renda necessaria la
risoluzione di questioni di massima di particolare importanza.
Nei casi previsti nei due commi precedenti l'Adunanza generale esprime il parere
su preavviso della sezione o della commissione speciale, alla quale il ricorso è
assegnato.
Parere su ricorso straordinario.
Art. 13
L'organo al quale è assegnato il ricorso, se riconosce che l'istruttoria è
incompleta o che i fatti affermati nell'atto impugnato sono in contraddizione
con i documenti, può richiedere al Ministero competente nuovi chiarimenti o
documenti ovvero ordinare al Ministero medesimo di disporre nuove verificazioni,
autorizzando le parti ad assistervi ed a produrre nuovi documenti. Se il ricorso
sia stato notificato ad alcuni soltanto dei controinteressati, manda allo stesso
Ministero di ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli
altri secondo le modalità previste nell'art. 9, quinto comma. Se ritiene che il
ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una
questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente
infondata, sospende l'espressione del parere e, riferendo i termini e i motivi
della questione, ordina alla segreteria l'immediata trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 23 e
seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 , nonché la notifica del provvedimento
ai soggetti ivi indicati. Se l'istruttoria è completa e il contraddittorio è
regolare, esprime parere (1):
a) per la dichiarazione di inammissibilità, se riconosce che il ricorso non
poteva essere proposto, salva la facoltà dell'assegnazione di un breve termine
per presentare all'organo competente il ricorso proposto, per errore ritenuto
scusabile, contro atti non definitivi;
b) per l'assegnazione al ricorrente di un termine per la regolarizzazione, se
ravvisa una irregolarità sanabile, e, se questi non vi provvede, per la
dichiarazione di improcedibilità del ricorso;
c) per la reiezione, se riconosce infondato il ricorso;
d) per accoglimento e la rimessione degli atti all'organo competente, se
riconosce fondato il ricorso per il motivo di incompetenza;
e) per l'accoglimento, salvo gli ulteriori provvedimenti dell'amministrazione,
se riconosce fondato il ricorso per altri motivi di legittimità.
(1) Alinea modificato dall'articolo 69, comma 1, della legge 18 giugno 2009, n.
69.
Decisione del ricorso straordinario.
Art. 14
La decisione del ricorso straordinario è adottata con decreto del Presidente
della Repubblica su proposta del Ministero competente, conforme al parere del
Consiglio di Stato. [Questi, ove intenda proporre una decisione difforme dal
parere del Consiglio di Stato, deve sottoporre l'affare alla deliberazione del
Consiglio dei ministri.] (1)
[Qualora il Ministro competente per l'istruttoria del ricorso non intenda
proporre al Consiglio dei ministri una decisione difforme dal parere del
Consiglio di Stato, la decisione del ricorso deve essere conforme al parere
predetto.] (2)
Qualora il decreto di decisione del ricorso straordinario pronunci
l'annullamento di atti amministrativi generali a contenuto normativo, del
decreto stesso deve essere data, a cura dell'Amministrazione interessata, nel
termine di trenta giorni dalla emanazione, pubblicità nelle medesime forme di
pubblicazione degli atti annullati.
Nel caso di omissione da parte dell'amministrazione, può provvedervi la parte
interessata, ma le spese sono a carico dell'amministrazione stessa.
(1) Comma modificato dall'articolo 69, comma 2, lettera a), punti 1) e 2), della
legge 18 giugno 2009, n. 69.
(2) Comma abrogato dall'articolo 69, comma 2, lettera b), della legge 18 giugno
2009, n. 69.
Revocazione.
Art. 15
I decreti del Presidente della Repubblica che decidono i ricorsi straordinari
possono essere impugnati per revocazione nei casi previsti dall'art. 395 del
Codice di procedura civile.
Nei casi previsti nei numeri 4 e 5 dell'art. 395 del codice di procedura civile
il ricorso per revocazione deve essere proposto nel termine di sessanta giorni
dalla data della notificazione o della comunicazione in via amministrativa o
della pubblicazione del decreto impugnato nei modi stabiliti dai regolamenti
particolari delle singole amministrazioni; negli altri casi il termine di
sessanta giorni decorre dal giorno della scoperta o dell'accertamento del dolo o
della falsità o del recupero dei documenti.
Al ricorso per revocazione sono applicabili, le norme contenute nel presente
capo.
Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (nella Regione Sicilia
al Presidente della Regione) costituisce un procedimento amministrativo di
secondo grado, attivabile su ricorso dei singoli interessati, di carattere
spiccatamente contenzioso ed avente ad oggetto atti amministrativi definitivi
ivi compresi i provvedimenti delle autorità indipendenti (c.d.S. Sez. I 2.2.2005
n. 12042).
Tale ricorso è denominato straordinario non già nel senso di ricorso
eccezionale, bensì nel senso che può proporsi quando non è più esperibile il
ricorso gerarchico che abbiamo esaminato nel capitolo VIII par. 2.
Nonostante la sua riconosciuta natura amministrativa, il ricorso straordinario
viene dal vigente ordinamento disciplinato su un piano parallelo a quello del
ricorso giurisdizionale.
Il parallelismo si rivela sostanzialmente sotto tre profili che lo differenziano
dal ricorso gerarchico:
1) è consentito solo per motivi di legittimità;
2) deve essere notificato ai controinteressati;
3) è alternativo rispetto al ricorso giurisdizionale, nel senso che non è più
ammesso quando contro lo stesso provvedimento definitivo sia stato presentato
ricorso giurisdizionale.
Poiché il ricorso giurisdizionale offre maggiori garanzie rispetto a quello
straordinario, deve essere consentita la libera scelta fra le due forme di
tutela non solo al ricorrente, ma anche alle altre parti (capitolo I par. 5) che
non possono subire passivamente una scelta effettuata al di fuori della loro
volontà.
E' per questo che viene consentita la facoltà del controinteressato di
richiedere che la decisione sul ricorso straordinario sia devoluta al tribunale
amministrativo in sede giurisdizionale. Tale facoltà è stata riconosciuta anche
all'autorità amministrativa che ha emanato l'atto impugnato, quando si tratti di
ente pubblico diverso dallo Stato.
Il ricorso straordinario deve essere proposto entro il termine perentorio di 120
giorni. Va diretto al Capo dello Stato e redatto su carta da bollo.
Esso deve indicare il provvedimento impugnato, i motivi di impugnativa, recare
la sottoscrizione del ricorrente o del suo procuratore anche se non si richiede
l'autenticazione della firma.
Il procedimento si svolge attraverso le seguenti fasi:
1) notifica: il ricorso va notificato ad almeno un controinteressato; non è
invece richiesta a pena di decadenza la notifica alla autorità che ha emanato
l'atto, quando questa appartenga ad una amministrazione statale.
2) deposito: il deposito può avvenire indifferentemente o presso il Ministero a
cui fa capo l'autorità che ha emanato l'atto impugnato in ragione della materia
che forma oggetto dell'atto stesso e dei poteri che con l'atto sono stati
esercitati o presso l'organo che ha emanato l'atto o presso la sede dell'ente
pubblico che ha emanato l'atto stesso.
3) presentazione delle controdeduzioni: i controinteressati possono presentare
le loro controdeduzioni entro sessanta giorni dalla notificazione del ricorso
eventualmente allegando documenti a sostegno delle loro eccezioni.
4) adozione di provvedimenti cautelari: l'art. 3 secondo comma della legge
205/2000 ha ammesso la possibilità di adottare provvedimenti cautelari in seno
al giudizio stesso.
5) istruttoria da parte del Ministero competente: il ricorso straordinario viene
istruito dal Ministero competente; nel caso in cui difetti uno specifico
collegamento con la competenza di un determinato Ministero sarà istruito dalla
Presidenza del Consiglio.
6) parere del Consiglio di Stato: conclusa l'istruttoria il Ministero competente
deve trasmettere gli atti e i documenti unitamente al proprio rapporto al
Consiglio di Stato per il prescritto parere.
Va in proposito precisato che la recente legge n. 69/2009 contenente
Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività
nonché in materia di processo civile, ha previsto all'art. 13, 1° c. che se
ritiene (la Sezione) che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente
dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti
manifestamente infondata, sospende l'espressione del parere e, riferendo i
termini e i motivi della questione, ordina alla segreteria l'immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ai sensi e per gli effetti di
cui agli artt. 23 e segg. della legge 11 marzo 1953, n. 87, nonché la notifica
del provvedimento ai soggetti ivi indicati.
Inoltre, il successivo art. 14, 1° comma, dello stesso d.P.R. viene così
modificato: "La decisione del ricorso straordinario è adottata con decreto del
Presidente della Repubblica su proposta del Ministero competente, conforme al
parere del Consiglio di Stato", mentre è soppressa la disposizione secondo la
quale il Ministero, ove intenda proporre una decisione difforme dal detto
parere, deve sottoporre l'affare alla deliberazione del Consiglio dei ministri.
Infine, il 2° comma dell'art. 14 è stato abrogato.
Con tali innovazioni, il legislatore ha definitivamente sancito la natura
vincolante del parere reso dal Consiglio di Stato e, di conseguenza, eliminato
la possibilità di intervento (a dire il vero, in pratica assai infrequente) di
un organo politico, quale è il Consiglio dei ministri, nella fase decisoria del
ricorso, che aveva contribuito non poco ad incidere sull'ibridismo del gravame.
7) decisione: il ricorso straordinario viene deciso con decreto del Presidente
della Repubblica su proposta del Ministro competente in base al parere Consiglio
di Stato.
La decisione è adottata con decreto presidenziale adeguatamente motivato.
Il decreto va sottoposto al visto della Corte dei conti.
L'amministrazione è tenuta a comunicare al ricorrente, unitamente alla
decisione, il parere emesso sul ricorso dal Consiglio di Stato.
Non è prevista condanna alle spese.
Il decreto del Presidente della Repubblica che decide il ricorso Straordinario
può essere impugnato innanzi alla giurisdizione amministrativa ma solo per
errores in procedendo (vizi di forma e di procedimento).
Contro la decisione sul ricorso straordinario può proporsi inoltre il ricorso
per revocazione allo stesso Presidente della Repubblica nei casi previsti
dall'art. 395 c.p.c.
Per l'inerzia da parte della P.A. nel dare esecuzione alla decisione, non potrà
esperirsi lo speciale ricorso alla giurisdizione di merito per l'esecuzione del
giudicato già previsto dall'art. 27 n. 4 T.U. C.S. e dall'art. 37 TAR, ora
disciplinato dall'art. 112 del nuovo codice del processo amministrativo, perché
nel caso in esame, manca il "giudicato" che non può formarsi su una decisione
avente natura amministrativa. Tuttavia, l'interessato potrà mettere in mora
l'amministrazione e contro il silenzio – rifiuto potrà esperire il normale
ricorso alla giurisdizione di legittimità dei tribunali amministrativi.
Recita testualmente l'art. 48 del nuovo codice del processo amministrativo:
Giudizio conseguente alla trasposizione del ricorso straordinario
1. Qualora la parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario
ai sensi degli articoli 8 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica
24 novembre 1971, n. 1199, proponga opposizione, il giudizio segue dinanzi al
tribunale amministrativo regionale se il ricorrente, entro il termine perentorio
di sessanta giorni dal ricevimento dell'atto di opposizione, deposita nella
relativa segreteria l'atto di costituzione in giudizio, dandone avviso mediante
notificazione alle altre parti.
2. Le pronunce sull'istanza cautelare rese in sede straordinaria perdono
efficacia alla scadenza del sessantesimo giorno successivo alla data di deposito
dell'atto di costituzione in giudizio previsto dal comma 1. Il ricorrente può
comunque riproporre l'istanza cautelare al tribunale amministrativo regionale.
3. Qualora l'opposizione sia inammissibile, il tribunale amministrativo
regionale dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio
in sede straordinaria.
La norma in esame attribuisce alla parte nei cui confronti stato proposto
ricorso straordinario, non più ai controinteressati il potere di proporre
opposizione.
In tal caso il giudizio segue dinanzi al tribunale amministrativo regionale se
il ricorrente, entro il termine perentorio di sessanta giorni dal ricevimento
dell'atto di opposizione, deposita nella relativa segreteria l'atto di
costituzione in giudizio, dandone avviso mediante notificazione alle altre
parti.
Le pronunce sull'istanza cautelare rese in sede straordinaria perdono efficacia
alla scadenza del sessantesimo giorno successivo alla data di deposito dell'atto
di costituzione in giudizio ma il ricorrente può comunque riproporre l'istanza
cautelare al tribunale amministrativo regionale.
Qualora l'opposizione sia inammissibile, ma il giudizio può essere deciso in
sede straordinaria, il tribunale amministrativo regionale dispone la
restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio in sede
straordinaria.
Il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 Codice del processo amministrativo
Il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 - conosciuto anche come codice del
processo amministrativo - è una legge della Repubblica Italiana che regola il
funzionamento del processo amministrativo innanzi ai TAR e al Consiglio di
Stato.
Storia
Venne emanato in attuazione dell'articolo 44 della legge delega 18 giugno 2009,
n. 69, che autorizzava il governo al riordino del processo amministrativo, ed è
entrato in vigore il 16 settembre del 2010.
Con il Decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 195, entrato in vigore l'8
dicembre 2011, sono state apportate disposizioni correttive ed attuative, così
come previsto dall'art. 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009 n. 69 che aveva
delegato il governo ad adottare il codice.
Caratteristiche
Struttura
Il Codice in questione è composto di 137 articoli (la bozza ne prevedeva 154),
oltre a 23 articoli tra norme di attuazione, transitorie e di abrogazione,
suddivisi in cinque libri, a loro volta divisi in capi e ha in calce tre
allegati, articolati nel seguente modo:
Libro Primo “Disposizioni Generali”;
Libro Secondo “Processo Amministrativo di Primo Grado”;
Libro Terzo “Impugnazioni”;
Libro Quarto “Ottemperanza e Riti Speciali”;
Libro Quinto “Norme Finali”
Allegati:
Allegato 2 “Norme d'attuazione”;
Allegato 3 “Norme transitorie”;
Allegato 4 “Norme di coordinamento e abrogazioni”.
Rappresentanza processuale
Le parti possono stare in giudizio unicamente se assistite da
un avvocato difensore. In determinate materie, quali diritto di accesso agli
atti, elettorato, di libera circolazione nell'Unione Europea, la parte può stare
in giudizio personalmente. Per i giudizi davanti al Consiglio di Stato, però, è
sempre richiesto il patrocinio di un avvocato abilitato al patrocinio avanti le
giurisdizioni superiori.
Contraddittorio
Il contraddittorio è regolarmente costituito qualora il ricorso sia notificato
al resistente e ai controinteressati, qualora ve ne fossero.
Giurisdizione amministrativa.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La giustizia amministrativa ha il compito di accertare che la pubblica
amministrazione non abbia assunto provvedimenti che danneggiano un diritto
soggettivo o un interesse legittimo del cittadino.
Descrizione
L'esistenza di un sistema di giustizia amministrativa è una delle
caratteristiche essenziali dello stato di diritto poiché, in questo modo, si
rende effettiva la sottoposizione della pubblica amministrazione alla legge,
secondo il principio di legalità. Essa però è caratteristica precipua degli
ordinamenti giuridici di civil law, cioè quelli nei quali
l'eredità napoleonica ha conferito agli atti della pubblica amministrazione, di
esercizio di poteri autoritativi, la caratteristica dell'immediata
"esecutorietà".
È evidente che la tutela giurisdizionale offre maggiori garanzie al soggetto
leso rispetto ai ricorsi amministrativi, per la posizione di terzietà e di
indipendenza dal potere esecutivo in cui si trova il giudice. In certi
ordinamenti, principalmente quelli di common law, la tutela nei confronti della
pubblica amministrazione è demandata, in linea di principio, agli stessi giudici
competenti per le controversie tra privati (cosiddetto sistema monistico),
mentre in altri ordinamenti è demandata a giudici speciali (giudici
amministrativi, che caratterizzano il cosiddetto sistema dualistico). Vi sono
anche ordinamenti (ad esempio, la Spagna) che adottano una soluzione intermedia,
demandando tale tutela a sezioni specializzate degli organi giurisdizionali
ordinari.
Ulteriore catalogazione possibile è quella degli ordinamenti in cui il giudice
amministrativo (Francia, Germania, Austria ecc.) ha competenza generale per
i rapporti di cui è parte la pubblica amministrazione (mentre sono eccezionali i
casi in cui - in un giudizio di cui è parte la pubblica amministrazione - è
competente il giudice ordinario); invece in altri ordinamenti, come ad esempio
in Belgio e i Paesi Bassi, la competenza generale rimane al giudice ordinario e
la devoluzione al giudice amministrativo di determinate materie, che coinvolgano
l'esercizio dei pubblici poteri, è espressamente qualificato come speciale.
Agli ordinamenti di cui si è detto si contrappongono quelli, principalmente
di common law, ma anche di civil
law (Norvegia, Danimarca, Giappone, Argentina, Cile, Brasile, Perù ecc.), in cui
la tutela nei confronti della pubblica amministrazione è demandata, in linea di
principio, agli stessi giudici competenti per le controversie tra privati.
In Italia il discrimine con la giurisdizione comune riposa nel fatto che la
giurisdizione amministrativa è posta a tutela degli interessi legittimi degli
amministrati nei confronti dell'esercizio di un potere della pubblica
amministrazione (competente è il giudice amministrativo); viceversa, sotto
questo profilo la tutela di diritti soggettivi - quando si è in carenza assoluta
di un potere della pubblica amministrazione - resta di competenza del giudice
ordinario.
Organi
In alcuni degli ordinamenti in cui è presente il giudice amministrativo è unico
(come il Tribunal de lo Contencioso-Administrativo dell'Uruguay), in altri vi
sono più giudici amministrativi, articolati su due (come in
Italia, Finlandia e Polonia) o tre (come in Francia, Germania, Grecia e Svezia)
gradi, analogamente ai giudici ordinari, con il giudice di ultima istanza che
può essere un organo a sé (in certi ordinamenti denominato consiglio di stato,
sul modello francese) o una sezione specializzata dell'unica corte suprema ad
esempio, in Ucraina, in certi paesi latinoamericani, come Ecuador e Cile, e in
molti paesi dell'Africa francofona). Il giudice di ultima istanza può inoltre
essere di sola legittimità (o di cassazione), secondo il modello francese, o
anche secondo il modello tedesco.
In taluni ordinamenti, accanto al giudice amministrativo con competenza
generale, esistono giudici competenti per specifiche materie. Un esempio è
offerto dalla Corte dei conti presente in certi ordinamenti, tra cui Francia,
Italia e Belgio. Possono essere fatti rientrare in questa categoria anche i
giudici tributari presenti, ad esempio, in Italia e Germania.
I magistrati degli organi giurisdizionali amministrativi hanno di solito
uno status differenziato rispetto a quelli che compongono gli organi della
giurisdizione ordinaria e non sempre gli è riconosciuto lo stesso grado
d'indipendenza dal parlamento e dal governo. D'altra parte, in alcuni paesi,
come Francia e Italia, il consiglio di stato, posto al vertice della
giurisdizione amministrativa, è organo non solo giurisdizionale ma anche
amministrativo, svolgendo funzioni consultive per gli organi del potere
esecutivo.
Funzioni. I mezzi di tutela
La tutela delle situazioni giuridiche nei confronti della pubblica
amministrazione può essere demandata ad un organo della stessa pubblica
amministrazione, adito dal soggetto leso mediante un ricorso amministrativo di
tipo giustiziale. In alternativa, attraverso il ricorso giurisdizionale
amministrativo è possibile rivolgersi ad un giudice investito della controversia
a seguito dell'esercizio di un'azione da parte del soggetto leso.
Ricorsi amministrativi. I ricorsi amministrativi possono essere rivolti allo
stesso organo che ha emanato l'atto con il quale è stata lesa la situazione
giuridica (opposizione), al suo superiore gerarchico (ricorso gerarchico) o ad
altro organo. In particolare, rientrano in quest'ultima categoria i ricorsi agli
organi del contenzioso amministrativo, presenti in alcuni ordinamenti: si tratta
di organi amministrativi collegiali che, peraltro, possono unire
alle competenze in materia di ricorsi anche altre competenze amministrative.
Poteri
I poteri del giudice amministrativo (e, quindi, le azioni innanzi ad esso
esperibili) sono tendenzialmente più limitati rispetto a quelli del giudice
ordinario, in virtù di un'interpretazione rigorosa del principio di separazione
dei poteri. In tutti gli ordinamenti il giudice amministrativo ha il potere
di annullare gli atti della pubblica amministrazione (eccettuati gli atti
politici) affetti da discrezionalità. Non tutti gli ordinamenti, invece,
consentono di esperire altre azioni, oltre quella di annullamento, come l'azione
di condanna dell'amministrazione o all'adempimento di un obbligo oppure l'azione
di mero accertamento: si va da ordinamenti, come quello tedesco, che mettono a
disposizione degli amministrati un'ampia gamma di azioni ad altri, come quello
italiano fino alla fine del XX secolo, che si limitano all'azione di
annullamento.
Giurisdizione amministrativa (ordinamento italiano).
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L'ordinamento italiano ha adottato un peculiare criterio di ripartizione della
giurisdizione, imperniato sulla natura della situazione giuridica soggettiva
lesa: se è un diritto soggettivo sussiste la giurisdizione ordinaria, se invece
è un interesse legittimo sussiste la giurisdizione amministrativa (questo
criterio generale è peraltro integrato da quello basato sulla materia nei casi
eccezionali di giurisdizione esclusiva, fermo restando l'esercizio del potere
autoritativo della PA). La tutela giurisdizionale è perciò ripartita, ai sensi
dell'articolo 113 della Costituzione, fra gli organi di giurisdizione ordinaria
e quelli di giurisdizione amministrativa, secondo il criterio della natura
della situazione giuridica tutelata.
Il criterio di riparto basato sulla differenza diritto soggettivo/interesse
legittimo è cominciato a sbiadire nel tempo, grazie anche al susseguirsi delle
pronunce giurisprudenziali che hanno registrato l'evoluzione in materia. Al
criterio costituzionale si affiancano dunque altri criteri, tra cui il più
rilevante è sicuramente quello che vede attribuire la giurisdizione al Giudice
Amministrativo ogni qual volta la Pubblica Amministrazione agisce in veste
autoritativa. Al contrario, nei casi in cui la PA non agisce in veste di
autorità, la giurisdizione spetta al Giudice Ordinario (Corte Cost. n. 204 del
2004 e 191 del 2006). Nell'approvazione del codice del processo
amministrativo italiano, infatti, si riteneva che non fosse stata contemplata
"l’azione di condanna ad un facere, detta di adempimento, nella quale la
sentenza predetermina l’atto da emanare o l’attività da compiere da parte della
Pubblica Amministrazione": tuttavia, il T.A.R. Lombardia ne ha facilmente
dimostrato "l’ammissibilità, a codice invariato, fingendo di interpretarlo come
se nulla fosse successo. È bastato ragionare alla rovescia, partendo dalla
descrizione che il codice fa delle sentenze per poi risalire all’ammissibilità
della domanda, cioè alla tipologia dell’azione". D'altro canto, sotto altre
forme quest'esigenza è soddisfatta anche da altre giurisdizioni, come dimostra
il nobile officium della Court of Session scozzese ovvero la nomina del
commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza.
Nel sistema italiano di giustizia amministrativa sono presenti sia i ricorsi
amministrativi, sia la tutela giurisdizionale; l'ordinamento italiano ha
adottato un peculiare criterio di ripartizione della giurisdizione, imperniato
sulla natura della situazione giuridica soggettiva lesa: se è un diritto
soggettivo sussiste la giurisdizione ordinaria, se invece è un interesse
legittimo sussiste la giurisdizione amministrativa; questo criterio generale è
peraltro integrato da quello basato sulla materia, nei casi di giurisdizione
esclusiva (si tratta di eccezioni che, però, sono andate espandendosi nel corso
degli anni).
I primi sono esperibili innanzi ad organi amministrativi non giurisdizionali e
sono, di regola, il ricorso gerarchico proprio e il ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica; sono, invece, esperibili nei soli casi previsti
dalla legge il ricorso in opposizione e il ricorso ad altri organi
amministrativi (detto ricorso gerarchico improprio).
Struttura
In Italia, la giurisdizione amministrativa si suddivide in tre categorie:
giurisdizione generale di legittimità: ha ad oggetto l'invalidità dell'atto
amministrativo ed è preordinata al suo annullamento;
giurisdizione di merito: riguarda il merito, come ad esempio, il giudizio di
ottemperanza;
giurisdizione esclusiva: è il complesso delle materie che, sebbene afferenti a
diritti soggettivi, sono devoluti dalla legge alla giurisdizione amministrativa.
Organi
In Italia sono giudici amministrativi con competenza generale i tribunali
amministrativi regionali (TAR) e il Consiglio di Stato. In Sicilia, oltre al TAR
con sede a Palermo e sezione distaccata a Catania, vi è il Consiglio di
giustizia amministrativa (CGA), organo previsto dallo Statuto speciale che
svolge nell'isola le funzioni proprie del Consiglio di Stato e che il D.Lgs. 24
dicembre 2003, n. 373, qualifica come sezione distaccata dello stesso.
Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa è l'organo di
autogoverno dei magistrati del Consiglio di Stato e dei TAR, con un ruolo simile
a quello del Consiglio superiore della magistratura per i magistrati ordinari;
organi analoghi esistono anche per i magistrati della Corte dei conti.
Funzioni giurisdizionali amministrative con competenza per specifiche materie
sono attribuite alla Corte dei conti, ai Tribunali Regionali delle acque
pubbliche, al Tribunale Superiore delle acque pubbliche, ai tribunali militari,
alla Corte militare di appello e alle commissioni tributarie provinciali e
regionali.
Processo amministrativo.
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Il processo amministrativo nell'ordinamento italiano è un tipo di procedimento
giurisdizionale che può essere utilizzato da parte di una persona, fisica o
giuridica, e a cui può rivolgersi al fine di ottenere la tutela di un interesse
legittimo di cui è titolare, o al fine di soddisfare una pretesa
risarcitoria derivante da una lesione di un suo diritto soggettivo ed ora anche
di un suo interesse legittimo.
Fondamento normativo
La possibilità per il cittadino di difendere le proprie posizioni è indicata
fondamentalmente dagli articoli 24, 103 e 113. della Costituzione della
Repubblica Italiana.
Azioni proponibili
Le azioni proponibili dinanzi al giudice amministrativo sono caratterizzate da:
1) Generalità: deriva dalla disposizione dell'articolo 24 della
Costituzione, la quale stabilisce che tutti possono agire in giudizio;
2) Astrattezza: deriva dalla disposizione dell'articolo 24 della
Costituzione, il quale stabilisce che tutti possono agire in giudizio per la
tutela dei propri diritti e interessi legittimi. Dunque, da questo capiamo che
tutti potranno proporre azioni a tutela di situazioni giuridiche soggettive
indipendentemente dalla concreta esistenza delle stesse. Non si dovrà dare prova
che la situazione giuridica soggettiva sostanziale esiste in concreto per
rendere la domanda ricevibile, ma soltanto affermare la sua esistenza
astrattamente e chiederne la tutela;
3) Autonomia: la sentenza di rigetto del giudice non influirà sui
presupposti dell'azione, ma solo sulla situazione di cui si richiede la tutela.
Possono, cioè, esistere i presupposti per l'azione e dunque essere questa
ricevibile, ma poi giungere ad una sentenza di rigetto riguardo alla situazione
giuridica soggettiva di cui si richiede tutela. L'una non influisce sull'altra,
perciò si può dire che l'azione è in posizione di autonomia rispetto alla
situazione giuridica soggettiva sostanziale dedotta in giudizio.
È possibile proporre le seguenti azioni giurisdizionali:
Azione costitutiva: la comune forma per ottenere l'annullamento di un
provvedimento ritenuto illegittimo;
Azione dichiarativa (o di accertamento): finalizzata ad ottenere
una sentenza con la quale il giudice può dichiarare, ad esempio, la nullità di
un atto o di un provvedimento amministrativo ex Legge 7 agosto 1990, n. 241,
articolo 21septies, in materia di "Nuove norme in materia di procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.";
oppure dichiarare l'inadempimento della Pubblica Amministrazione a seguito di un
preciso dovere di provvedere a seguito di istanza di parte o dovere ex lege, ai
sensi dell'art. 2 comma 5 Legge 7 agosto 1990, n. 241. Si tratta, ex Legge 6
dicembre 1971, n. 1034, articolo 21bis, in materia di "Istituzione dei Tribunali
Amministrativi Regionali", di un procedimento particolare perché fissa termini
diversi rispetto al ricorso ordinario (diverso, dunque, dai 60 giorni
normalmente previsti per l’impugnazione dei provvedimenti emessi dalla P.A.;
Azione risarcitoria: finalizzata ad ottenere un risarcimento del danno per
illecito civile e/o lesione di interesse legittimo. È stata ritenuta ammissibile
dalla giurisprudenza con la sentenza 500/1999 della Cassazione;
Azione sommaria: sono azioni a cognizione sommaria il decreto ingiuntivo (ai
sensi dell'art. 633 codice di procedura civile, ex art. 8 Legge 21 luglio 2000,
n. 205, articolo 8, in materia di "Disposizioni in materia di giustizia
amministrativa."), la sentenza succintamente motivata (art. 26 L. TAR), le
ordinanze anticipatorie di cui agli artt. 186bis e 186ter c.p.c, come richiamate
dall'art. 8 legge citata;
Azione cautelare: il ricorrente può richiedere al giudice di porre in essere
tutti i provvedimenti che riterrà opportuni per la tutela della pretesa, secondo
la fondatezza del fumus boni iuris e del periculum in mora, fra cui anche i
provvedimenti cautelari innominati ex art. 700 c.p.c. (art. 21 c. 8 L. TAR);
Azione esecutiva: definita nell’ambito del processo amministrativo
anche giudizio di ottemperanza; attesa la provvisoria esecutività delle sentenze
di primo grado, il ricorrente, previa diffida e inutilmente decorso il termine
di 30 giorni, può adire il giudice che ha emesso la sentenza per ottenere tutela
esecutiva e, se necessario, ottenere la nomina di un commissario ad acta.
Organi competenti
Sono organi della Giustizia Amministrativa il T.A.R. e, quale organo di appello,
il Consiglio di Stato. Per la Regione Siciliana è organo d'appello il Consiglio
di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, che agisce come sezione
distaccata del Consiglio di Stato.
Sono giudici amministrativi speciali la Corte dei conti, il Tribunale Superiore
per le Acque Pubbliche, le Commissioni per i ricorsi in materia di brevetti, i
Commissari Regionali per la Liquidazione degli Usi Civici, i Consigli Nazionali
di alcuni ordini professionali.
Tipologia dei processi
A seconda delle materie trattate, il processo amministrativo si articola in:
Rito ordinario;
Riti speciali;
Riti semplificati.
Analogie con il rito civile
Il processo amministrativo per alcuni versi è simile al processo civile, essendo
entrambi basati sul sistema dispositivo ad impulso di parte, nonché sul
principio del contraddittorio, dell'oralità e della collegialità; per altro
verso, il processo amministrativo differisce da quello civile per la presenza
necessaria dei controinteressati e per la limitazione dei mezzi istruttori
ammessi in alcune giurisdizioni.
Istruttoria, Generalità
L'istruttoria è quella parte del processo in cui viene ricostruito il fatto e si
distingue in questo senso dalla trattazione che invece riguarda l'individuazione
degli aspetti giuridici. L'istruttoria, benché molto più attenuata, è presente
anche nel processo amministrativo. Di norma in tale tipologia di processo non
sono gli aspetti di fatto ad essere origine della controversia, ma quelli di
diritto. Nell'istruttoria, l'aspetto più importante è quello della prova, visto
che si deve ricostruire un fatto controverso.
Nel procedimento amministrativo, sarà il responsabile del procedimento a doverla
curare: l’assenza o la scarsa efficienza della sua azione possono poi portare
all’annullabilità dell’atto emesso per difetto di istruttoria (è una delle
ipotesi di c.d. eccesso di potere).
Il principio anche nel processo amministrativo è quello che l'onere della
prova spetta a chi compie l'affermazione, ma, poiché la posizione delle parti è
diversa rispetto ad altri tipi di processo (il ricorrente è infatti un privato e
l'altra parte è l'amministrazione), per ovviare alla situazione di disparità del
ricorrente rispetto all'autorità pubblica è stato coniato il concetto
di principio di prova dove si chiede solo un inizio di dimostrazione della
fondatezza della propria pretesa.
Competente per l'istruttoria è il presidente del tribunale. La Legge 21 luglio
2000, n. 205 conferisce al presidente il potere di richiedere tramite ordinanza
istruttoria atti e documenti in relazione ai quali il provvedimento è stato
emanato. Inoltre, l'articolo 23 conferisce allo stesso il potere di porre in
essere gli incombenti istruttori che ritenga opportuni. Essendo incaricato della
decisione, ha poi poteri istruttori anche il Collegio, che può disporne dove non
ritenga chiarita la situazione di fatto.
Mezzi di prova
Tornando al discorso sulla prova nel processo amministrativo, oltre ad una
normativa dedicata, vi è la possibilità di utilizzare i mezzi previsti nel
processo civile (tale orientamento è confermato dalla Corte costituzionale con
sentenza numero 146/1987).
I mezzi di prova sono essenzialmente:
Atti e documenti: costituiscono la tipologia principale, visto che l'attività
dell'amministrazione è riportata in documenti;
Verificazioni: sono ammesse nella giurisdizione generale di legittimità. Sono il
mezzo con il quale il giudice verifica se una situazione di fatto corrisponde a
quanto rappresentato nel provvedimento impugnato: a tal fine si seguono le norme
presenti nel Codice di Procedura Civile;
Chiarimenti: sono delle relazioni con le quali l'amministrazione indica i
presupposti di fatto che hanno portato all'emanazione del provvedimento;
Consulenza tecnica: ai sensi dell'articolo 44 del Regio decreto 26 giugno 1924,
n. 1054, in materia di "Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio
di Stato", il giudice amministrativo può sempre richiedere la consulenza tecnica
d'ufficio, la quale consiste nell'utilizzo di un esperto che coadiuva il compito
del giudice.
Testimonianza: è un mezzo di prova ammesso nella giurisdizione esclusiva.
Nella giurisdizione amministrativa non sono ammessi come mezzi di prova
la confessione e il giuramento, considerato che sono prove legali e pertanto
legate all'indisponibilità della pretesa sostanziale.
Udienza di discussione
Dopo la conclusione della fase istruttoria, occorre che una delle parti presenti
una nuova istanza per la fissazione dell'udienza di discussione. Tale richiesta
deve essere inoltrata entro un anno dalla conclusione dell'istruttoria
altrimenti opera la perenzione del ricorso.
Ricevuta la domanda viene formato il fascicolo d'ufficio e trasmesso al
Presidente che deve, decorsi 20 giorni fissare il giorno dell'udienza con
decreto. Le parti possono presentare documenti fino a 40 giorni liberi prima
dell'udienza e memorie fino a 30 giorni liberi prima e presentare repliche fino
a 20 giorni liberi prima.
All'udienza di discussione il giudice incaricato espone i fatti e motivi
risultanti dal ricorso, gli eventuali rappresentanti delle parti possono esporre
un proprio assunto in maniera succinta.
Casi di trattazione in camera di consiglio
La legge T.A.R. prevede, all'art. 27, una procedura spedita nei casi in cui si
debba dare atto della rinuncia al ricorso o dichiararne l'estinzione, nei
ricorsi in cui tutte le parti siano concordi sulla cessazione della materia del
contendere, nei ricorsi in materia di spese per il mantenimento di alienati o
inabili al lavoro, nel giudizio di ottemperanza e in tutti i casi debba essere
deliberata con ordinanza motivata una misura cautelare.
In tali ipotesi è previsto un procedimento in Camera di consiglio,
caratterizzato dalla decisione collegiale in assenza di pubblica discussione,
regola generale per la fase decisoria ordinaria.
Decisione del ricorso
La decisione del ricorso amministrativo è emessa tramite il provvedimento
giurisdizionale della sentenza (parziale o definitiva), contemplata anche, in
casi tassativamente previsti dal Codice del processo amministrativo, in forma
semplificata (riti speciali). È fatto onere alle parti di richiedere con istanza
al Presidente del Tar competente, la fissazione dell'udienza di discussione. Una
volta fissata tale udienza, il Presidente ne dà comunicazione alle parti con
almeno 60 giorni di preavviso, al fine di permettere lo scambio di documenti (40
giorni prima dell'udienza), memorie conclusionali (30 giorni) e memorie di
replica (20 giorni).
L'udienza di discussione si svolge in pubblica seduta, con la possibilità per i
rappresentanti delle parti di svolgere succinte conclusioni riassuntive.
Conclusa l'udienza, se il giudice non deve emettere provvedimenti interlocutori
(ad esempio l’integrazione contraddittorio), deposita la sentenza contenente, a
pena di nullità, la sottoscrizione, presso la cancelleria del Tar, cui seguirà
la pubblicazione della sentenza stessa.
La riforma del processo amministrativo
In attuazione della delega conferita al Governo dalla Legge 18 giugno 2009, n.
69, articolo 44, in materia di "Disposizioni per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile", è stato
emanato il Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, in materia di "Attuazione
dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo
per il riordino del processo amministrativo", contenente quattro allegati. il
primo è il "codice del processo amministrativo", il secondo contiene le norme di
attuazione del codice, il terzo le norme transitorie, il quarto le norme di
coordinamento e abrogazioni.
Atto introduttivo del processo amministrativo
Il ricorso giurisdizionale amministrativo è l'atto introduttivo del giudizio
dinanzi al giudice amministrativo. Esso va redatto in forma scritta e deve
contenere:
indicazione del giudice adito (a pena di inammissibilità);
la cosiddetta epigrafe (a pena di inammissibilità) che deve contenere
l'indicazione delle parti e l'elezione del domicilio;
l'indicazione del provvedimento impugnato, di cui si chiede l'annullamento con
l'indicazione della data della notifica, che è importante ai fini del termine
per la proposizione del ricorso;
lo svolgimento del ricorso con l'esposizione sommaria dei fatti, i motivi sui
quali il ricorso si fonda, unitamente alle ragioni di fatto e di diritto a
sostegno della domanda, le indicazioni dei vizi dell'atto, le norme di legge che
si assumono violate e le conclusioni.
la sottoscrizione del ricorrente e del difensore (salvo che la parte possa stare
in giudizio personalmente, come accade nel ricorso in tema di diritto di
accesso).
Devono poi essere allegati, ma non a pena di inammissibilità, i documenti a
sostegno della richiesta e copia del provvedimento impugnato. La mancanza o
l'incertezza degli elementi del ricorso comportano la nullità (e la conseguente
pronuncia d'inammissibilità) dello stesso. La nullità è generalmente ritenuta
rilevabile d'ufficio e non opponibile dalla parte che vi ha dato causa.
Tuttavia, la nullità può essere sanata laddove l'atto sia idoneo al
raggiungimento dello scopo suo proprio.
Il ricorso deve essere notificato, pena l'inammissibilità, entro il termine
perentorio di 60 giorni dalla comunicazione, pubblicazione, notificazione del
provvedimento impugnato all'Amministrazione emittente e almeno uno dei
controinteressati, secondo le regole delle notificazioni del c.p.c. Nei 30
giorni successivi l'adempimento degli oneri di notifica, il ricorso deve essere
depositato presso la cancelleria del Tar competente. Con il deposito si
determina la costituzione del ricorrente e la pendenza del giudizio
amministrativo di primo grado. Da sottolineare infine, come con il deposito del
ricorso, il ricorrente non abbia l'onere, spettante invece a carico
dell'Amministrazione emittente il provvedimento, di depositare presso la
cancelleria l'atto impugnato assieme all'intera pratica, così da permettere al
ricorrente e a chiunque sia destinatario del provvedimento e possibile
interventore, di conoscere eventuali ulteriori documenti o vizi dell'atto
impugnato, da poter far valere tempestivamente (60 giorni) attraverso l'istituto
dei motivi aggiunti.
La costituzione dei controinteressati, ed ora anche della parte resistente
(Amministrazione), avviene mediante notifica, entro 60 giorni dal ricevimento
della notifica del ricorso, al ricorrente e mediante il deposito nei successivi
30 giorni presso la cancelleria del Tar delle memorie con relative difese ed
eventuale produzione di documenti. È prevista altresì l'ipotesi che, in
alternativa alla mera costituzione in giudizio, i controinteressati propongano
"ricorso incidentale", sempre entro i termini perentori sopra descritti.
Attraverso il ricorso incidentale, la controparte non si limita ad opporsi al
ricorso principale, ma, laddove dall'accoglimento di quest'ultimo possa
derivarne per essa una lesione potenziale, impugna, a condizione dell'assenza di
una lesione attuale, azionabile solo in via principale, un provvedimento
amministrativo, anche diverso da quello oggetto del ricorso principale, seppur
connesso a quest'ultimo, dal quale dipende la sua legittimazione a ricorrere.
In ultimo, è utile accennare all'istituto dei motivi aggiunti, mediante il quale
il legislatore ha voluto perequare la disparità gerarchica nella quale si trova
il privato cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione. Con tale
istituto è previsto che, qualora sia già stato presentato il ricorso principale,
e si venga a conoscenza di nuovi documenti o di nuovi vizi dell'atto impugnato,
possano essere fatti vale nel medesimo giudizio, con funzione integrativa della
domanda principale, notificandoli all'Amministrazione e ad almeno uno dei
controinteressati nel termine perentorio di 60 giorni dalla conoscenza di questi
ultimi.
Il controinteressato
Figura processuale necessaria nel processo amministrativo è il
cosiddetto controinteressato, ossia il titolare dell'interesse a sostenere la
legittimità e la validità del provvedimento impugnato (dal quale evidentemente
trae dei vantaggi). Egli ha quindi un interesse giuridicamente rilevante di
segno opposto rispetto a quello del ricorrente, che mira alla conservazione
dell'atto.
Secondo l'orientamento dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato (cfr. sentenza Ad. Plen. n. 9 del 1996), occorrono due elementi ai fini
del riconoscimento della qualità di controinteressato nel processo
amministrativo:
Elemento formale, consistente nella esplicita menzione del controinteressato nel
provvedimento impugnato: in mancanza, è ritenuta sufficiente un’agevole
individuabilità;
Elemento sostanziale, consistente in un interesse analogo e contrario a quello
che legittima il ricorrente ad agire in giudizio. Deve trattarsi di un interesse
qualificato alla conservazione dell'atto e deve nascere dal medesimo
provvedimento impugnato e non già da atti successivi (dai quali deriverebbe
soltanto un interesse di fatto non tutelabile in sede processuale).
L'interesse alla conservazione dell'atto gravato è il fattore che determina non
solo la legittimazione a resistere (del controinteressato), ma persino la sua
legittimazione a ricorrere in via incidentale. Inoltre, i controinteressati
possono sempre intervenire nel processo (litisconsorzio facoltativo dal lato
passivo) o proporre appello.
Il controinteressato, in quanto portatore di un interesse alla conservazione
dell'assetto recato dal provvedimento impugnato, è abilitato ad esperire tutti i
rimedi difensivi atti a paralizzare, indebolire o vanificare l'iniziativa della
parte ricorrente: la legge gli riconosce la possibilità di difendere la
posizione di vantaggio acquisita, che potrebbe essere compromessa da una
pronuncia demolitoria.
Tribunale Amministrativo Regionale.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il Tribunale Amministrativo Regionale (in sigla TAR) è
un organo di giurisdizione amministrativa in Italia.
Il TAR è competente a giudicare sui ricorsi, proposti contro atti
amministrativi, da soggetti che si ritengano lesi (in maniera non conforme
all'ordinamento giuridico) in un proprio interesse legittimo. Si tratta
di giudici amministrativi di primo grado, le cui sentenze sono appellabili
dinanzi al Consiglio di Stato. Per il medesimo motivo, è l'unico tipo di
magistratura speciale a prevedere solo due gradi di giudizio.
Storia
L'istituzione di organi di giustizia amministrativa di primo grado a
circoscrizione regionale è prevista dalla costituzione (art. 125), ma è stata
realizzata soltanto con la legge 6 dicembre 1971 n. 1034, dopo il venir meno
della giurisdizione delle giunte provinciali amministrative (organi previsti
dalla legge 20 marzo 1865, n. 2248 che avevano competenza, in alcune materie,
nei confronti di atti di comuni, province e altri enti a dimensione locale),
dichiarata incostituzionale per difetto di una composizione idonea ad assicurare
quell'indipendenza che la Costituzione considera esigenza imprescindibile per
ogni tipo di giudice.
La legge del 1971, peraltro, non si è limitata a colmare il vuoto creatosi
nell'ordinamento per effetto di tale dichiarazione di incostituzionalità,
costituendo organi giurisdizionali a competenza limitata in relazione agli enti
e alle materie, ma ha introdotto il doppio grado
nella giurisdizione amministrativa. Su ogni atto di qualunque pubblica
amministrazione (ivi compresa quella statale), giudica ora in prima istanza il
TAR (Tribunale Amministrativo Regionale), mentre il Consiglio di Stato (che fino
alla istituzione dei tribunali regionali giudicava normalmente in unica istanza)
è chiamato a pronunciarsi solo in appello.
Organizzazione
I TAR sono venti, con circoscrizione corrispondente al territorio della
relativa regione, e hanno sede nel capoluogo regionale. In alcune regioni
quali Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Abruzzo, Campania,
Puglia, Calabria, Sicilia esistono sezioni distaccate. Nel Lazio sono anche
istituite tre sezioni in Roma, con competenze di particolare rilievo.
In Trentino-Alto Adige è istituito il Tribunale regionale di giustizia
amministrativa (TRGA), con una "sezione autonoma" – del tutto indipendente –
a Bolzano.
A ciascun TAR sono assegnati un presidente e non meno di cinque magistrati
amministrativi, denominati, a seconda dell'anzianità di servizio, "referendari",
"primi referendari", "consiglieri". Le decisioni sono assunte con l'intervento
di tre giudici.
Attualmente le seguenti città italiane sono sede di TAR
Abruzzo - L'Aquila, Pescara
Basilicata – Potenza
Calabria - Catanzaro, Reggio Calabria
Campania – Napoli, Salerno
Emilia-Romagna - Bologna, Parma
Friuli-Venezia-Giulia - Trieste
Lazio – Roma, Latina
Liguria - Genova
Lombardia – Milano, Brescia
Marche – Ancona
Molise- Campobasso
Piemonte – Torino
Puglia – Bari, Lecce
Sardegna – Cagliari
Sicilia – Palermo, Catania
Toscana – Firenze
Trentino-Alto Adige – Trento, Bolzano
Umbria – Perugia
Valle d'Aosta – Aosta
Veneto – Venezia
Competenza
La sfera di competenza di ciascun TAR comprende i ricorsi volti contro atti di
enti o di organi la cui sfera di azione si svolga esclusivamente nell'ambito
regionale (per esempio di comuni, province, e regione; o di prefetti o altri
organi periferici dello stato), nonché i ricorsi che attengano ad atti di organi
centrali dello Stato e di enti pubblici ultraregionali, purché gli effetti
dell'atto siano territorialmente limitati alla circoscrizione del TAR. Per gli
atti i cui effetti non siano circoscritti in questo modo, è competente, ove si
tratti di atti emanati da enti ultraregionali, il TAR della regione in cui ha
sede l'ente stesso.
Il TAR del Lazio è inoltre competente per le controversie relative ad atti
provenienti da una amministrazione statale avente competenza ultraregionale
(eccezion fatta per gli atti delle Autorità amministrative indipendenti aventi
sedi in regioni diverse, per i quali la competenza spetta invece al TAR della
regione ove le stesse hanno sede).
Giurisdizione
In generale, la giurisdizione dei TAR concerne la legittimità (cioè, la
conformità o meno a regole giuridiche) di atti lesivi di interessi legittimi, ma
in casi eccezionali attiene anche al merito (vale a dire a valutazioni di
opportunità dell'azione amministrativa). In alcune materie (la più importante è
costituita dal pubblico impiego, esclusivamente per il personale in regime di
diritto pubblico di cui ai commi 1, 1bis e 1 ter dell'art. 3 del D. Lgs. 30
marzo 2001, n. 165) tale giurisdizione, oltre che agli interessi legittimi
(posizioni dei singoli, tutelate dall'ordinamento in quanto coincidenti con
un interesse pubblico generale), si estende ai diritti soggettivi (posizioni
garantite in modo diretto nei confronti di altri soggetti, sui quali incombe un
obbligo volto ad assicurare in via immediata il godimento del diritto stesso),
la cui cognizione è normalmente sottratta al giudice amministrativo e riservata
al giudice ordinario (tribunale, ecc.).
Con l'art. 68 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, come modificato
dall'art. 18 del D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, la materia del pubblico impiego
è stata sottratta alla cognizione del giudice amministrativo e devoluta a quella
del giudice ordinario, fatta eccezione per le controversie in materia
di procedure concorsuali, nonché, in sede di giurisdizione esclusiva, per quelle
concernenti talune categorie, cosiddette non contrattualizzate, tra le quali
rientrano i magistrati, i militari, le forze di polizia, i prefetti,
i diplomatici e i docenti universitari.
Procedimento di ricorso
La proposizione del ricorso non sospende gli effetti del provvedimento (così che
l'amministrazione potrà portare a esecuzione, anche coattivamente, le pretese
che ne derivino: per esempio, procedere all'occupazione di un bene immobile o a
eseguire direttamente, a spese dell'interessato, prestazioni ordinate a
quest'ultimo); tuttavia, qualora l'esecuzione sia idonea a causare danni gravi e
irrecuperabili (ossia non risarcibili), il TAR, su istanza del ricorrente, può
disporre sollecitamente la sospensione.
La legge n. 1034 del 6 dicembre 1971, istitutiva degli organi della magistratura
amministrativa, ha infatti introdotto importanti strumenti di giustizia quali
le misure cautelari, che nel corso degli anni hanno assunto anche per
l'ordinamento giuridico italiano importanza crescente rispetto alla mera
impugnazione e giudizio di merito. Fra queste misure efficaci, per i suoi tempi
insolitamente celeri, rientra la istanza per ottenere un'ordinanza da parte
del giudice naturale (quello amministrativo) per la disapplicazione di un atto
verso una singola o una pluralità di persone.
La magistratura non ha il potere di annullare un atto del Parlamento o del
Governo. In attesa di concludere il procedimento amministrativo, può sospendere
l'esecuzione di una norma non verso tutti, ma solo verso i ricorrenti.
Semplificando, si parla di richiesta di sospensiva presentata insieme a una
contestuale "domanda" per la declaratoria di nullità avverso un atto
amministrativo di qualsiasi genere. A essi appartengono a tutti gli effetti
anche i decreti di un ministero, laddove per la Costituzione italiana i singoli
dicasteri rappresentano "il vertice" della rispettiva pubblica amministrazione.
Termini
Il termine previsto per il ricorso è alquanto breve: il soggetto leso in un
proprio interesse legittimo deve notificare il ricorso all'autorità che ha
emanato il provvedimento entro sessanta giorni (ma esistono termini più brevi
per i riti speciali) dalla data in cui il provvedimento stesso gli è stato
comunicato o, comunque, ne ha avuto conoscenza. Il ricorso deve essere
notificato, nello stesso termine, ad almeno un controinteressato (cioè, a un
soggetto che potrebbe subire un pregiudizio dall'accoglimento del ricorso: ad
esempio il vincitore di un concorso pubblico di cui si chiede l'annullamento).
Differenze
Esiste, al di fuori del contenzioso giurisdizionale, il diverso diritto a
presentare il ricorso amministrativo per ottenere una declaratoria di nullità
dell'atto illegittimo: in questo caso ci si rivolge alla stessa verticale
gerarchica dell'organo amministrativo che ha emanato l'atto, spesso con lo
strumento del ricorso collettivo, beneficiando in questo modo di tempi e costi
ridotti drasticamente.
Decisione
Con la propria decisione il TAR, ove ritenga fondato il ricorso, annulla
il provvedimento impugnato, e l'autorità amministrativa dovrà uniformarsi ai
criteri in essa fissati; le sentenze del TAR sono immediatamente esecutive e
acquistano valore di cosa giudicata: il caso concreto deciso non può essere
dedotto in altro giudizio, ove, entro sessanta giorni dalla notificazione della
decisione, non sia stato proposto appello. Le decisioni e le ordinanze dei TAR
possono essere appellate davanti al Consiglio di Stato.
Quelle del TAR Sicilia, invece, davanti al Consiglio di giustizia
amministrativa per la Regione Siciliana (un organo, previsto dalla Statuto
siciliano, che agisce come una sezione staccata del Consiglio di Stato).
LEGGE 14 gennaio 1994, n. 20. Disposizioni in materia di giurisdizione e
controllo della Corte dei conti.
Corte dei conti.
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La Corte dei conti (o, in alcuni paesi, tribunale dei conti) è
un organo dello Stato, presente in vari ordinamenti giuridici, con
funzioni giurisdizionali e amministrative di controllo o vigilanza in
materia fiscale sulle entrate e spese pubbliche all'interno del bilancio dello
stato (finanza pubblica). Lo troviamo in vari paesi di civil law, per lo più di
tradizione latina, molti paesi francofoni in alcuni latinoamericani, tra cui
il Brasile ed anche in Turchia; esiste anche una Corte dei conti dell'Unione
Europea.
Precedenti storici
La Corte dei conti nasce nella Francia napoleonica, istituita con legge del 16
settembre 1807, quale evoluzione delle chambres des comptes risalenti all'Ancien
Régime, la più importante delle quali era quella di Parigi, istituita nel 1319.
Istituzioni simili alle chambres des comptes c'erano anche in altri stati
europei dell'epoca: ad esempio, nel Ducato di Savoia fu istituita la Camera dei
conti di Chambéry nel 1351 e nel 1575 le fu affiancata quella di Torino;
nel Regno Lombardo-Veneto fu istituita la Camera dei conti nel 1771; nel Regno
di Napoli fu istituita la Regia Camera della Sommaria nel 1444; nello Stato
Pontificio la revisione dei conti era svolta della Camera Apostolica,
istituzione operante già nel XIII secolo, nel cui seno fu istituita
nel 1828 la Congregazione di revisione dei conti e degli affari di pubblica
amministrazione, poi sostituita dalla Consulta di Stato (1847-1848).
La Corte dei conti italiana fu istituita con la legge 14 agosto 1862, n. 800.
Descrizione. Struttura.
La corte dei conti è solitamente prevista dalla costituzione ed appartiene
al potere giudiziario, anche se, come si è detto, è investita tanto di funzioni
giurisdizionali (giurisdizione contabile), in relazione alle quali
è giudice speciale, quanto di funzioni amministrative di controllo.
È un organo collegiale o un organo complesso costituito da una pluralità di
organi collegiali (sezioni, camere ecc.), composto da magistrati contabili con
uno status differenziato rispetto ai magistrati che compongono gli organi della
giurisdizione ordinaria. In certi ordinamenti ha un pubblico ministero, che può
essere interno alla corte stessa (come in Francia e Italia) o appartenere
all'organizzazione generale del pubblico ministero (come in Spagna). Non sempre
i componenti della Corte dei conti hanno lo stesso grado d'indipendenza
dal parlamento e dal governo garantito ai magistrati ordinari; del resto, in
alcuni ordinamenti, come il Belgio e la Spagna, sono eletti dal parlamento.
Contro le pronunce della Corte dei conti può essere dato ricorso alla Corte di
cassazione, come in Spagna, al consiglio di Stato, come in Francia, o ad
apposite sezioni della stessa corte dei conti, come in Italia.
Funzioni
Le funzioni attribuite alla Corte dei conti variano da un ordinamento all'altro.
Il nucleo centrale e più antico è rappresentato dal controllo, in sede
giurisdizionale, dei conti periodicamente resi da coloro che gestiscono denaro o
beni pubblici, per verificare che i movimenti in entrata ed uscita siano
conformi alla legge ed alle regole contabili, accertando il credito dell'erario
per gli eventuali ammanchi. La Corte dei conti può inoltre avere, come in
Italia, il potere di accertare, sempre in sede giurisdizionale, i danni
cagionati allo stato o altro ente pubblico dai suoi agenti e condannare i
responsabili al risarcimento. In alcuni ordinamenti la Corte dei conti può
irrogare sanzioni pecuniarie agli agenti dello stato o di altri enti pubblici in
caso di violazione di norme di legge in materia di entrate e spese pubbliche.
Funzione tipica delle corti dei conti è anche la verifica del bilancio
consuntivo dello stato o di altri enti pubblici, allo scopo di accertare il
rispetto delle regole contabili e l'attendibilità del bilancio stesso,
trasmettendo in esito a tale controllo una relazione al parlamento.
La Corte dei conti può, inoltre, avere funzioni amministrative di controllo, di
tipo preventivo (come in Italia e Belgio) o successivo. Il controllo preventivo
si esercita sui singoli atti che danno luogo a spese o entrate, impedendone
l'efficacia in caso di illegittimità. Il controllo successivo tende, invece, ad
essere incentrato, più che sui singoli atti, sulla complessiva attività
dell'organo controllato e si traduce in relazioni al parlamento, al governo o
allo stesso organo controllato. Questo tipo di controllo tende ora ad essere
esteso dalla sola legalità all'efficienza o, addirittura, all'efficacia
dell'attività amministrativa.
Quanto ai soggetti controllati, oltre alle amministrazioni pubbliche la
competenza della Corte dei conti può estendersi alle imprese pubbliche e ad
altri enti, anche di diritto privato, che utilizzano fondi pubblici o possono
recare danno a pubbliche proprietà.
Organi analoghi
In alcuni paesi le funzioni della Corte dei conti sono svolte da una sezione
specializzata della corte suprema o la corte dei conti è parte del consiglio di
stato (così in Tunisia). In altri paesi i controlli di cui si è detto sono
demandati ad organi che non appartengono al potere giudiziario e sono privi di
funzioni giurisdizionali: è il caso della Germania, della Svizzera,
della Svezia, della Norvegia, dei paesi di common law e di molti paesi
latinoamericani.
In certi paesi le funzioni di controllo sono svolte da autorità amministrative
indipendenti: in Germania il Bundesrechnungshof, i cui membri, secondo la Legge
fondamentale, godono della stessa indipendenza dei giudici; in Svizzera
il Controllo federale delle finanze (CDF) un ufficio indipendente aggregato
al Dipartimento federale delle finanze solo sotto il profilo amministrativo, il
cui direttore è nominato dal Consiglio federale con l'approvazione
dell'Assemblea federale; in Svezia il Riksrevisionen e in Norvegia
il Riksrevisjonen, diretti da un collegio di revisori (cinque in Norvegia, tre
in Svezia) eletti dal parlamento.
Nei paesi di common law la funzione di controllo - peraltro con una minore
enfasi sulla legalità dell'azione amministrativa, rispetto alle corti dei conti
- è svolta da un organo monocratico denominato auditor general (scritto
anche auditor-general), comptroller general (scritto anche comptroller-general),
come negli Stati Uniti a livello federale, o comptroller and auditor general,
come in Gran Bretagna, Irlanda e India. Si tratta di un organo indipendente,
nominato dal capo dello stato (e quindi dal governo) e preposto ad un
ufficio nel quale operano professionisti della revisione contabile, che
trasmette rapporti periodici ad un'apposita commissione parlamentare la quale,
sulla base di tali rapporti e di audizioni di esponenti del governo e della
pubblica amministrazione, riferisce a sua volta all'assemblea.
Un organo ispirato al comptroller general statunitense si riscontra in molti
paesi latinoamericani (ad
esempio, Colombia, Cile, Bolivia, Perù, Venezuela ecc.) dove prende il nome
di contralor general de la república (preposto alla contraloría general de la
república).
Le corti dei conti e gli organi analoghi ora ricordati, genericamente
definiti istituzioni superiori di controllo, sono riuniti a livello
internazionale nell'International Organisation of Supreme Audit
Institutions (INTOSAI). Questa organizzazione ha elaborato una serie di standard
internazionali per le istituzioni aderenti: gli International Standards of
Supreme Audit Institutions (ISSAI).
Nel mondo
Italia.
La Corte dei conti in Italia è un organo di rilievo costituzionale, con funzioni
di controllo e giurisdizionali, previsto dagli articoli 100 e 103
della Costituzione italiana che la ricomprende tra gli organi
ausiliari del governo italiano.
Francia.
Lo stesso argomento in dettaglio: Corte dei conti (Francia). In Francia è una
giurisdizione finanziaria dell'ordinamento amministrativo in Francia, incaricata
principalmente di verificare la regolarità dei conti pubblici; stato,
istituzioni pubbliche nazionali, imprese pubbliche, sicurezza sociale e
organizzazioni private che ricevono assistenza dallo stato o che gestiscono e
raccolgono contributi dei privati. Ha la funzione di informare il Parlamento, ed
il governo francese sulla regolarità della contabilità statale.
Grecia.
Lo stesso argomento in dettaglio: Corte dei conti (Grecia). In Grecia, è una
delle tre supreme magistrature del paese, insieme al Consiglio di Stato e
alla Corte di Cassazione.
LEGGE 14 gennaio 1994, n. 20. Disposizioni in materia di giurisdizione e
controllo della Corte dei conti.
Cos’è la corte dei conti e di cosa si occupa.
By openpolis.it
È un organo di rilievo costituzionale che svolge funzioni di controllo e
giurisdizionali nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate
dalla legge.
Definizione
La Corte dei conti è un organo di rilievo costituzionale che svolge sia funzioni
di controllo sia giurisdizionali nell’ambito della contabilità pubblica e nelle
altre materie specificate dalla legge. Oltre a ciò, fornisce pareri a Governo,
Parlamento e agli Enti locali che ne facciano richiesta.
Per quanto riguarda l’attività giurisdizionale la corte è competente a giudicare
agenti contabili, amministratori e funzionari pubblici per tutte le vicende
comunque concernenti la gestione di risorse pubbliche (in senso ampio). Inoltre,
ha giurisdizione nella materia delle pensioni civili, militari e di guerra.
Relativamente alle funzioni di controllo invece, l’articolo 100 della
costituzione prevede che la corte produca una valutazione preventiva sulla
legittimità degli atti del governo e una successiva sulla gestione del bilancio
dello stato. Attività simili sono previste anche per enti cui lo stato
contribuisce in via ordinaria. Il controllo di legittimità serve ad assicurare
che un atto o un’attività siano conformi alla legge. Quello sulla gestione serve
invece a verificare l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione
amministrativa rispetto agli obiettivi posti dalla legge.
Si tratta di un controllo esterno e neutrale svolto in posizione di assoluta
imparzialità rispetto agli interessi di volta in volta perseguiti dal governo o
dall’amministrazione.
– Corte dei conti. La legge 20/1994 ha attuato un’ampia riforma delle funzioni
di controllo della corte. Da un lato infatti sono stati ridotti gli atti
sottoposti al controllo preventivo di legittimità, limitati a quelli
fondamentali del governo. Dall’altro è stato esteso a tutte le amministrazioni
pubbliche il controllo successivo sulla gestione e sul patrimonio, incluse le
gestioni fuori bilancio e quelle dei fondi di provenienza europea. Inoltre, è
stato affidato alla corte anche il compito di verificare il funzionamento dei
controlli interni a ciascuna amministrazione.
Data la varietà di funzioni che svolge, la Corte dei conti presenta
un’articolazione molto vasta. Al suo interno, infatti, si trovano sia sezioni
dedicate all’attività di controllo sia sezioni con funzioni giurisdizionali. Per
quanto riguarda questo specifico aspetto la legge 19/1994 ha disposto
l’istituzione di sezioni di primo grado in ogni capoluogo di regione (è presente
una sezione in entrambe le province autonome di Trento e Bolzano). Sono poi
presenti 3 sezioni di appello, tutte a Roma (la Sicilia ne ha una propria a
Palermo). Presso ogni sezione giurisdizionale è prevista una procura, con
funzioni di pubblico ministero.
In base all’articolo 10 della legge 117/1988 (e successive modifiche), la
direzione della Corte dei conti è affidata ad un consiglio di presidenza che è
così composto:
presidente della Corte dei conti;
procuratore generale della corte;
presidente aggiunto o, in sua vece, presidente di sezione più anziano;
quattro membri scelti dal parlamento (2 per aula) ed eletti a maggioranza
assoluta dei componenti;
quattro membri eletti da e tra i magistrati della corte.
Il presidente in particolare è nominato con decreto del presidente della
repubblica su proposta del presidente del Consiglio dei ministri sentito il
parere del consiglio di presidenza. I componenti elettivi dell’organo rimangono
in carica per quattro anni e non sono nuovamente eleggibili per i successivi
otto dalla scadenza dell’incarico.
Temi dell'attività parlamentare
LA CORTE DEI CONTI. FUNZIONI E STRUTTURA.
Informazioni by Camera.it
Funzioni
La Corte dei conti svolge funzioni di controllo (art. 100 Costituzione) e
funzioni giurisdizionali nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre
specificate dalla legge (art. 103 Costituzione).
Accanto a queste, svolge anche funzioni consultive (pareri al Governo ed ai
Ministri in ordine ad atti normativi e provvedimenti; pareri in materia di
contabilità pubblica a richiesta di regioni, comuni ed enti locali).
In base alla Costituzione (art. 100), la Corte dei conti svolge:
• un controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo;
• un controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato;
• un controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce
in via ordinaria.
Il controllo di legittimità serve ad assicurare che un atto o un'attività siano
conformi alla legge. Il controllo sulla gestione serve invece a verificare
l'efficacia, l'efficienza e l'economicità dell'azione amministrativa rispetto
agli obiettivi posti dalla legge. A differenza del controllo preventivo di
legittimità, il cui esito incide sul perfezionamento dell'efficacia di un atto,
l'esito del controllo sulla gestione del bilancio consiste nella predisposizione
di relazioni e osservazioni destinate alle amministrazioni controllate.
Un tipo particolare di controllo è costituito dalla verifica di parificazione
sul rendiconto generale dello Stato, volto ad accertare la conformità dei
risultati del rendiconto dello Stato alla legge di bilancio (Art. 39 del Regio
decreto 12 luglio 1934 n. 1214).
La legge 14 gennaio 1994 n. 20 ha attuato una riforma completa delle funzioni di
controllo della Corte dei conti, riducendo il numero degli atti sottoposti al
controllo preventivo di legittimità, limitato agli atti fondamentali del
Governo, ed estendendo a tutte le amministrazioni il controllo successivo sulla
gestione e sul patrimonio, comprendendo anche il controllo sulle gestioni fuori
bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria. Inoltre, viene attribuito alla
Corte dei conti il compito di verificare il funzionamento dei controlli
interni a ciascuna amministrazione.
Ulteriori disposizioni attribuiscono alla Corte:
- un controllo di tipo generale sulla copertura finanziaria delle
leggi che comportano nuove o maggiori spese, oppure minori entrate (art. 17,
legge 31 dicembre 2009, n. 196; come già previsto dalla legge 468/1978);
- la certificazione della compatibilità dei costi derivanti dai contratti
collettivi con gli strumenti della programmazione e del bilancio (art. 47,
D.Lgs. 165/2001);
- il controllo sul rispetto da parte degli enti locali e degli enti del
Servizio sanitario nazionale degli obiettivi posti dal patto di stabilità
interno (L. 266/2005, art. 1, co. 166 e segg.);
- la verifica di parificazione dei rendiconti delle regioni (D.L.
174/2012, art. 1, co. 5).
L'art. 103 della Costituzione assegna alla Corte la giurisdizione nelle "materie
di contabilità pubblica" ossia in materia di responsabilità amministrativa e
contabile.
In primo luogo, la Corte giudica sulla responsabilità amministrativa, che è la
responsabilità a contenuto patrimoniale di amministratori o dipendenti pubblici
per i danni causati all'ente nell'ambito o in occasione del rapporto d'ufficio.
L'accertamento della responsabilità comporta la condanna al risarcimento del
danno a favore dell'amministrazione danneggiata.
In secondo luogo, giudica sulla responsabilità contabile, ossia sulla
responsabilità di quei soggetti (agenti contabili) che avendo avuto in consegna
(a vario titolo) denaro, beni o altri valori pubblici, o comunque avendone avuto
la disponibilità materiale, non adempiano all'obbligo di restituzione che a loro
incombe.
Inoltre, la Corte ha giurisdizione nella materia delle pensioni a totale carico
dello Stato e su quelle a carico degli enti previdenziali confluiti nell'INPDAP.
Le controversie possono avere ad oggetto sia l'esistenza del diritto alla
pensione, sia il suo ammontare. La Corte giudica sia in materia di pensioni
ordinarie (civili e militari) che di pensioni di guerra.
Composizione
Il Presidente
Il Presidente della Corte dei conti è nominato tra i magistrati della stessa
Corte che abbiano effettivamente esercitato, per almeno tre anni, funzioni di
Presidente di sezione ovvero funzioni equivalenti presso organi costituzionali
nazionali o istituzioni dell'Unione europea (L. 21 luglio 2000, n. 202).
La procedura di nomina prevede l'emanazione di un decreto del Presidente della
Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il
parere del Consiglio di Presidenza.
Il Consiglio di Presidenza
Il Consiglio di Presidenza è l'organo di autogoverno della magistratura
contabile (L. 117/1988, art. 10 e L. 9/2009, art. 11).
Il Consiglio di Presidenza è composto:
dal Presidente della Corte dei conti, che lo presiede;
dal Procuratore Generale della Corte dei conti;
dal Presidente aggiunto della Corte dei conti o, in sua vece, dal Presidente di
sezione più anziano;
da quattro membri eletti, due dalla Camera dei deputati e due dal Senato della
Repubblica a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, tra i professori
ordinari in materie giuridiche o gli avvocati con venti anni di esercizio
professionale;
da quattro membri eletti da e tra i magistrati della Corte dei conti, ripartiti
tra le diverse qualifiche in proporzione alla rispettiva effettiva consistenza
numerica quale risulta dal ruolo alla data del 1° gennaio dell'anno di
costituzione dell'organo.
I componenti elettivi durano in carica quattro anni e non sono nuovamente
eleggibili per i successivi otto anni dalla scadenza dell'incarico.
Il Consiglio è competente in tutte le materie attinenti all'espletamento delle
funzioni dei magistrati della Corte dei conti, sui procedimenti per l'accesso in
carriera, per l'assegnazione di sede e i trasferimenti, le promozioni, nonché
sui procedimenti disciplinari.
In particolare:
verifica i titoli di ammissione dei componenti eletti dai magistrati e decide
sui reclami attinenti alle elezioni;
disciplina con regolamento interno il suo funzionamento, formula proposte per
l'adeguamento e l'ammodernamento delle strutture e dei servizi;
delibera sulle assunzioni, assegnazioni di sedi e di funzioni, trasferimenti,
promozioni, conferimenti di uffici direttivi e su ogni altro provvedimento
riguardante lo stato giuridico dei magistrati;
delibera sui provvedimenti disciplinari riguardanti i magistrati;
delibera sul conferimento ai magistrati stessi di incarichi estranei alle
funzioni istituzionali, in modo da assicurare un'equa ripartizione degli
incarichi e dei relativi compensi;
delibera sulle piante organiche del personale di magistratura;
delibera sul collocamento fuori ruolo e su ogni altra materia ad esso attribuita
dalla legge.
Il personale
Il personale della Corte dei conti è costituito da magistrati e da impiegati
amministrativi.
I magistrati sono: il Presidente, il Presidente aggiunto, il Procuratore
Generale, il Procuratore Generale aggiunto, i Presidenti di Sezione, i
Consiglieri, i primi Referendari ed i Referendari.
Gli uffici della Corte sono presenti sull'intero territorio nazionale e sono
organizzati su un polo centrale con sede a Roma e su sedi regionali ubicate
presso ciascun capoluogo di regione e presso le province autonome di Trento e
Bolzano.
Al 31 dicembre 2013 l'organico dei magistrati, che prevede una dotazione di 611
unità, ha una copertura effettiva di 435.
Per quanto riguarda la ripartizione del personale in questione sul
territorio, va evidenziato che i magistrati assegnati alle diverse funzioni
esercitano, in assegnazione principale, la propria attività per il 75% (337
unità) presso le sedi regionali e per il 25,8% (98 unità) presso gli uffici
centrali con sede in Roma.
I magistrati addetti al controllo sono, a fine 2013, 186 (pari al 42,7%), quelli
con funzioni giudicanti 139 (pari al 32%), mentre quelli con funzioni
requirenti si attestano su 110 unità (pari al 25,2%), con conseguente scopertura
rispetto alla vigente pianta organica di 70, 61 e 41 posti, rispettivamente con
riguardo alle funzioni di controllo, giurisdizionali e requirenti.
La dotazione organica del personale amministrativo in questione è di 2.594
unità (era di 3.120 unità negli anni '90).
A fine 2013, tenendo conto anche delle unità in posizione di comando e di
distacco, risultano 2.472 unità di personale amministrativo in servizio così
distribuite: 1.232 unità presso la sede centrale di Roma e 1.181 unità presso le
sedi regionali.
I dirigenti sono 59 (4 di prima fascia e 55 di seconda fascia).
Organizzazione
Gli uffici centrali della Corte dei conti sono articolati come segue.
Controllo
Sezioni riunite in sede deliberante
Sezioni riunite in sede di controllo
Sezioni riunite in sede consultiva
Sezioni riunite per la Regione siciliana
Sezioni riunite per la regione Sardegna
Sezioni riunite per la regione Trentino-Alto Adige
Sezione centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e delle
Amministrazioni dello Stato
Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato
Sezione del controllo sugli enti (già Sezione del controllo sulla gestione
finanziaria degli enti a cui lo stato contribuisce in via ordinaria)
10. Sezione delle autonomie
11. Sezione di controllo per gli Affari Comunitari ed Internazionali
Giurisdizione
Sezioni riunite in sede giurisdizionale
Sezione I giurisdizionale centrale di Appello
Sezione II giurisdizionale centrale di Appello
Sezione III giurisdizionale centrale di Appello
Sezione giurisdizionale appello Regione siciliana
Procura generale
Procura Generale di Appello per la Regione siciliana
Gli uffici territoriali della Corte dei conti sono presenti in tutte le regioni
e province autonome e sono articolati nelle Sezioni regionali di
controllo, nelle Sezioni regionali giurisdizionali e nelle Procure regionali
Le risorse finanziarie
Le risorse finanziarie della Corte dei conti provengono dagli stanziamenti
iscritti in apposito capitolo dello stato di previsione del bilancio dello
Stato.
La spesa della Corte dei conti è contraddistinta da un rilevante livello di
rigidità. Il 76% circa della spesa ha, infatti, natura obbligatoria ed è in
quota del tutto prevalente destinata al pagamento degli stipendi del personale.
Legge 17 febbraio 1968 n. 108 elezione; la Legge 16 maggio 1970 n. 281
finanziamento
In Italia le Regioni sono a statuto ordinario o a statuto speciale. By anquap.it
La differenza è data dalla natura e dal contenuto dell'atto: lo statuto speciale
è una legge costituzionale e definisce le forme e condizioni di autonomia
speciale, mentre per le altre regioni le forme e condizioni di autonomia sono
stabilite dalla Costituzione e lo statuto ordinario delle stesse viene approvato
con legge regionale statutaria.
Cinque regioni italiane sono a statuto speciale, approvato dal Parlamento con
legge costituzionale: Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia e
Trentino-Alto Adige (in realtà costituita dalle province autonome di Trento e
Bolzano, ai sensi dell'art. 116 della Costituzione).
L'esigenza di concedere particolari forme di autonomia ad alcuni territori si
venne a creare immediatamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Con il
decreto-legge n. 21 del 27 gennaio 1944 e con il D.L. n. 91 del 18 marzo 1944
furono create le figure rispettivamente dell'Alto commissario per la Sardegna e
dell'Alto commissario per la Sicilia; queste figure furono coadiuvate da una
Giunta consultiva (istituita con D.L. n. 90 del 16 marzo 1944 per la Sardegna, e
con il sopracitato D.L. 91/1944 per la Sicilia) e quindi da una Consulta
regionale rappresentativa dei partiti e dei sindacati regionali (istituita per
la Sicilia con decreto legislativo luogotenenziale n. 416 del 28 dicembre 1944 e
per la Sardegna con D. Lgs. Lgt. n. 417 dello stesso giorno).
La Sicilia ebbe il suo statuto speciale con D.lgs. 455, 15 maggio 1946, dunque
prima del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 oltre che della
Costituzione della Repubblica.
Il 5 settembre 1946, nell'ambito della Conferenza di pace di Parigi, venne
firmato l'Accordo De Gasperi-Gruber, che prevedeva la concessione alle province
di Trento e Bolzano di un «potere legislativo ed esecutivo regionale autonomo».
Entrò inoltre in vigore anche il D.Lgs.Lgt. n. 545, 7 settembre 1945 che
costituiva la Circoscrizione autonoma della Valle d'Aosta.
Le autonomie speciali così concesse furono coperte dall'art. 116 della nuova
Costituzione italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948. La XVII
disposizione transitoria e finale della Costituzione previde che l'Assemblea
Costituente avrebbe dovuto decidere in materia di statuti regionali speciali
(oltre che di legge elettorale del Senato della Repubblica e legge sulla stampa)
entro il 31 gennaio 1948: in virtù di questa previsione, il 26 febbraio 1948
vennero approvate le leggi costituzionali contenenti gli statuti in questione,
in deroga al procedimento ordinario di approvazione di una legge costituzionale
previsto dall'art. 138 della Costituzione stessa:
L. cost. 2/1948: Conversione in legge costituzionale dello Statuto della
Regione Siciliana;
L. cost. 3/1948: Statuto speciale per la Sardegna;
L. cost. 4/1948: Statuto speciale per la Valle d'Aosta;
L. cost. 5/1948: Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige;
L'ultima regione ad autonomia speciale ad essere costituita fu il Friuli-Venezia
Giulia, la cui determinazione dei confini fu resa delicata dalla loro rilevante
importanza geopolitica nell'ambito della guerra fredda, in quanto, fino alla
rottura di Tito con l'Unione Sovietica, vi correva la divisione tra il blocco
occidentale e quello socialista. Lo statuto della regione Friuli-Venezia Giulia
fu approvato con l. cost. n. 1/1963 il 31 gennaio 1963.
Lo Statuto ordinario, invece, è la fonte primaria delle altre 15 Regioni
(Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche,
Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria), gerarchicamente
subordinata alla Costituzione. L'articolo 123 della Costituzione prevede per lo
Statuto un contenuto "necessario" che va a disciplinare e regolamentare una
serie di norme che vanno a definire la Forma di Governo, il diritto di
iniziativa e del Referendum su leggi regionali e provvedimenti amministrativi,
nonché la pubblicazioni delle leggi regionali e dei regolamenti regionali, la
modalità di elezione degli organi principali dello statuto, e le modalità di
elezione del Presidente della Giunta regionale (vedi artt. 121-126 Cost), gli
organi, i rapporti tra di loro e le rispettive competenze (vedi art. 121 Cost).
Non si possono determinare negli Statuti: gli organi della Regione e le
competenze, (fissati già dall'art. 121 Cost.) e il sistema elettorale e la
durata degli organi elettivi (già fissati dagli artt. 122-126).
Tutto ebbe inizio con il Governo Moro del dicembre 1963, quando il tema
regionale fu al centro del programma politico anche in vista di una estensione
del metodo della programmazione per superare i divari ancora esistenti nel
Paese, in particolare quello tra Nord e Sud. Aldo Moro già nel 1960 aveva
presieduto la "Commissione di studi per l'attuazione delle Regioni di diritto
comune", istituita con lo scopo di studiare le modifiche alla normativa del 1953
e di elaborare un progetto sul finanziamento delle Regioni.
Il 21 giugno 1967 il Ministro dell'Interno, Paolo Emilio Taviani, presentò alla
Camera un disegno di legge poi approvato come legge elettorale regionale (Legge
17 febbraio 1968 n. 108). Era il momento conclusivo di un lungo dibattito
politico tra i sostenitori delle elezioni a suffragio universale e diretto e
coloro che sostenevano elezioni indirette di secondo grado affidate ai
consiglieri provinciali. Il disegno di legge governativo definitivo optò per le
elezioni dirette anche per il clima politico diverso venutosi a creare, con il
consolidamento della collaborazione DC-PSI.
La Legge n. 108 ("Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a
statuto normale") concluse il suo iter parlamentare con il voto favorevole dei
partiti di governo (DC, PSI, PRI e PSDI), oltre che delle opposizioni di
sinistra (PCI e PSIUP), e il voto contrario di PLI, MSI e monarchici.
Nel testo legislativo si stabiliva, inoltre, che le prime elezioni regionali
dovessero avvenire "contemporaneamente alle elezioni comunali e provinciali" e
che, in ogni caso, si sarebbero dovute tenere entro il 1969, termine poi
spostato alla primavera del 1970 dalla Legge 7 novembre 1968.
Il 22 maggio 1970 fu pubblicata la Legge 16 maggio 1970 n. 281 ("Provvedimento
finanziario per l'attuazione delle Regioni a statuto ordinario"), c.d. legge
finanziaria per le regioni a statuto ordinario.
La normativa era espressione di una scelta "restrittiva" dell'autonomia
finanziaria regionale. Di fronte al dettato dell'art. 119 della Costituzione,
infatti, si adottava una interpretazione riduttiva, non consentendo alle regioni
di istituire tributi propri pur nei limiti dei principi statali. A nulla valse
l'opposizione delle sinistre, in special modo del PCI, che presentarono una
propria proposta di legge.
Con l'elezione dei Consigli Regionali del 1970 le Regioni entrarono nella storia
istituzionale italiana, provvedendo subito alla propria fase costituente con
l'approvazione degli Statuti.
Gli Statuti vennero promulgati il 22 maggio 1971, ad eccezione di quelli
dell'Abruzzo e della Calabria dove i ritardi erano stati provocati dalla scelta
del capoluogo di regione, promulgati nel luglio.
A completare la prima fase del regionalismo italiano intervenne la delega per la
definizione delle funzioni, degli uffici e del personale da trasferire ai nuovi
Enti come stabilito dall'art. 17 della legge n. 281 del 1970. Tale disposizione
della legge finanziaria delegava il Governo ad emanare, entro due anni dalla sua
entrata in vigore, dei decreti aventi valore di legge ordinaria per regolare il
passaggio alle Regioni delle funzioni previste dall'art. 117 della Costituzione
oltre che del relativo personale statale.
Successivamente, con il d.P.R. n. 616 del 1977, il settore delle politiche
sociali era connotato da una forte impronta regionalista ed ancora di più
comunale.
Già dal 1977, era comunque evidente come si fosse posto in capo ai Comuni
l’esercizio di tutte le funzioni amministrative in materia di assistenza,
prevedendo contestualmente il trasferimento agli stessi delle funzioni, del
personale e dei beni dei diversi enti operanti in materia.
Il processo di semplificazione e federalismo amministrativo avviato con la legge
n. 59 del 1997 ha avuto, nel campo delle politiche sociali, una connotazione
particolare, dovuta all'assetto delle funzioni e dei compiti definito
precedentemente. Già a partire dal d.P.R. n. 616 del 1977, infatti, il settore
delle politiche sociali era connotato da una forte impronta regionalista ed
ancora di più comunale; in questo settore il processo di riforma avviato
dalla legge n. 59 del 1997 è stato caratterizzato più che da nuovi conferimenti
di funzioni, da sostanziali riforme, ispirate dai principi che hanno sostenuto
l’avvio del federalismo amministrativo a Costituzione invariata.
Con la legge regionale 21 aprile 1999, n. 3 la Regione Emilia-Romagna ha
definito la “Riforma del sistema regionale e locale”, in attuazione a quanto
stabilito dalle leggi 15 marzo 1997, n. 59, 15 maggio 1997, n. 127 ed ai decreti
emanati per la loro attuazione. In materia di servizi sociali si è provveduto a
fissare i principi della successiva riforma organica della legislazione
regionale, definendo le funzioni della Regione, delle Province e dei Comuni in
coerenza con i principi ispiratori della riforma.
Successivamente fu emanato il Decreto Legislativo 112/1998 del 31 marzo 1998,
“Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed
agli enti locali”.
È da considerare un importante atto normativo con il quale si diede corpo ad una
redistribuzione delle funzioni pubbliche nell'ambito del decentramento
amministrativo in Italia e del dibattito politico sul federalismo.
Le competenze trasferite alle regioni, alle province, ai comuni, alle comunità
montane o ad altri enti locali e, nei casi espressamente previsti,
alle autonomie funzionali (Scuole, Università e Camere di Commercio), riguardano
funzioni e compiti amministrativi e non politici. Il decreto medesimo precisa,
all'art. 1, che il trasferimento comprende anche le funzioni di organizzazione e
le attività connesse e strumentali all'esercizio delle funzioni e dei compiti
conferiti, quali fra gli altri, quelli di programmazione, di vigilanza, di
accesso al credito, di polizia amministrativa, nonché l'adozione di
provvedimenti contingibili e urgenti previsti dalla legge. In alcuni casi si
tratta di competenze non statali, riassegnate ad enti diversi (ad esempio
funzioni precedentemente delle province, ora delle camere di commercio).
Si tratta del più importante trasferimento di poteri a Regioni ed Enti Locali,
prima della Riforma costituzionale del Titolo V.
Da ricordare, inoltre, che Il 16 aprile 2000, nelle quindici regioni a statuto
ordinario si tennero le elezioni per il rinnovo dei Consigli regionali e per
l'elezione del Presidente della Giunta regionale. In seguito alle modifiche
apportate alla Costituzione nel dicembre del 1999 queste elezioni apportarono
alcune importanti novità. Anzitutto il Presidente della Giunta regionale,
anziché essere eletto dal Consiglio regionale come avveniva in passato, sarebbe
stato eletto direttamente dai cittadini. Inoltre, il nuovo Consiglio regionale
avrebbe avuto l'incarico di modificare lo Statuto, di decidere come eleggere in
futuro il Presidente della Giunta regionale e quale legge elettorale adottare
per l'elezione del Consiglio regionale a partire già dal 2005.
Con la legge costituzionale n. 1/1999 viene modificata la forma di governo delle
regioni, in particolare gli articoli 121, 122, 123 della Costituzione.
Dopo anni di discussione nelle sedi parlamentari si giunge poi all'approvazione
della legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, grazie al risultato del
referendum costituzionale appena concluso, che modifica sostanzialmente il
riparto delle funzioni legislative, regolamentari e amministrative tra Stato e
regioni.
In particolare, sono stati modificati gli articoli:
114, il quale afferma che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province,
dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province,
le Città metropolitane e le Regioni, oltre che le Comunità montane sono enti
autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla
Costituzione, ponendo quindi sullo stesso piano (equiordinazione) regione e
Stato (entrambi sono dotati del potere di legiferare);
117, in cui, tra l'altro, si evidenzia la potestà legislativa equiparata tra
Stato e regioni (potestà esclusiva, concorrente e residuale) nel rispetto della
Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali;
118, che attribuisce le funzioni amministrative ai comuni, province, città
metropolitane, regioni e Stato sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza;
119, che definisce per gli enti locali l'autonomia finanziaria di entrata e di
spesa (la prima in particolare implica la possibilità di imporre una tassazione
aggiuntiva a quella nazionale con scopo di autofinanziamento da parte degli enti
locali).
Le regioni sono, assieme ai comuni, alle città metropolitane, alle province e
allo Stato, uno dei cinque elementi costitutivi della Repubblica Italiana. By
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Ogni regione è un ente territoriale con propri statuti, poteri e funzioni
secondo i principi fissati dalla Costituzione, come stabilito dall'art. 114,
secondo comma del testo. Le regioni non sono considerate enti
locali (comuni, province, ecc.), i quali sono invece disciplinati dal decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL).
Le regioni, secondo quanto indicato dall'art. 131, sono venti. Cinque di queste
sono dotate di uno statuto speciale di autonomia e una di queste
(il Trentino-Alto Adige), è costituita dalle uniche due province autonome,
dotate cioè di poteri legislativi analoghi a quelli delle regioni a statuto
speciale, dell'ordinamento italiano (Trento e Bolzano). Nel rispetto delle
minoranze linguistiche, il Trentino-Alto Adige e la Valle d'Aosta sono riportati
con le denominazioni bilingui di Trentino-Alto Adige/Südtirol e Valle
d'Aosta/Vallée d'Aoste all'art. 116, come modificato nel 2001.
Storia
Dopo la proclamazione del Regno d'Italia, l'organizzazione amministrativa venne
improntata alla centralizzazione amministrativa e politica; infatti, la legge 20
marzo 1865, n. 2248 disciplinò, tra l'altro, le funzioni di province e comuni.
Le province, in particolare, erano la "sede di decentramento
dell’amministrazione centrale", con a capo il prefetto, avente il compito di
verificare la rispondenza degli atti provinciali e comunali alle leggi statali.
I territori vennero divisi in province, mandamenti e circondari, il
successivo Regio decreto 10 febbraio 1889, n. 5921 nonché le leggi 21 maggio
1908 n. 269 e 4 febbraio 1915, n. 148 garantirono un più ampio margine
di decentramento amministrativo.
Nel Regno d'Italia vi erano i comuni e le province (nonché due enti intermedi
soppressi, i mandamenti e i circondari), ma non esistevano ancora le regioni
quali enti territoriali: esse, infatti, nacquero con la Costituzione della
Repubblica Italiana del secondo dopoguerra. Già nella seconda metà
dell'Ottocento, però, lo statistico Pietro Maestri raggruppò, a fini statistici,
gruppi di province in "compartimenti", i quali erano i precursori delle odierne
regioni italiane. I compartimenti, però, non erano altro che suddivisioni
geografiche a fini statistici, prive di governo o amministrazione. Il termine
"regione" come sostituto del termine "compartimento" si avrà per la prima volta
nell'Annuario statistico italiano del 1912, riprendendo la dicitura augustea. La
partizione dei "compartimenti statistici" di Pietro Maestri si mantenne
pressoché immutata nella delimitazione delle "regioni" del secondo dopoguerra,
tanto che risulta difficile notare differenze tra i compartimenti del 1870 e le
odierne regioni (fatta eccezione per i territori non ancora annessi).
Essendo previste nella Costituzione della Repubblica Italiana, il 31
gennaio 1947 la seconda sottocommissione della Commissione per la
Costituzione aveva stabilito che le nuove Regioni avrebbero dovuto essere
ventidue: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia
Giulia, Liguria, Emilia, Romagna, Toscana,
Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise,
Campania, Puglia, Salento, Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta.
Tuttavia, il testo coordinato dal comitato di redazione prima della votazione
finale in Assemblea e distribuito ai deputati il 20 dicembre 1947 all'articolo
31 recitava:
«Sono costituite le seguenti Regioni: Piemonte; Valle
d'Aosta; Lombardia; Trentino-Alto Adige; Veneto; Friuli-Venezia
Giulia; Liguria; Emilia-Romagna; Toscana; Umbria; Marche; Lazio;
Abruzzi e Molise; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia; Sardegna»
Rispetto alla bozza il numero delle regioni era sceso a diciannove: era stato
mutato in Basilicata il nome della Lucania, il Salento era stato inglobato nel
resto della Puglia, si accorpavano l'Emilia con la Romagna e l'Abruzzo con
il Molise.
La costituzione delle stesse ebbe però luogo solo successivamente con la legge
16 maggio 1970, n. 281 e dal relativo regolamento di attuazione, il D.P.R. 15
gennaio 1972, n. 8, i quali decretarono l'istituzione vera e propria delle
regioni italiane come enti territoriali. In particolare, il D.P.R. n. 8/1972
regolò le modalità operative del trasferimento delle funzioni amministrative
statali alle regioni a statuto ordinario. Le regioni quali enti
pubblici parzialmente autonomi con la Costituzione della Repubblica Italiana,
entrata in vigore il 1º gennaio 1948, che, agli articoli 114 e 115,
prevedeva infatti:
«La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni.»
(Costituzione italiana, art. 114)
«Le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni
secondo i principî fissati nella Costituzione.»
(Costituzione italiana, art. 115)
Il Friuli e la Venezia Giulia furono accorpati nella regione Friuli-Venezia
Giulia, mentre gli Abruzzi e il Molise furono accorpati nella regione Abruzzi e
Molise. Nel 1963, con l'approvazione di un'apposita legge di modifica
costituzionale, in deroga all'art. 132, grazie a una disposizione transitoria
che aggirava il limite del milione di abitanti e il referendum tra i cittadini
interessati, sarebbe stata concessa l'autonomia al Molise. La regione Abruzzi e
Molise venne di nuovo scorporata nelle due regioni Abruzzo e Molise, portando
così a venti il numero attuale delle regioni.
Descrizione. Caratteristiche
Nell'ordinamento giuridico italiano la regione è:
un ente di rilievo costituzionale, cioè, previsto come necessario dalla
costituzione;
un ente autonomo, visto che è dotato di autonomia in diversi ambiti;
un ente autarchico, dato che opera in regime di diritto amministrativo e dispone
di potestà pubbliche;
un ente ad appartenenza necessaria, dato che tutti i cittadini residenti ne
fanno parte.
Tutte le regioni posseggono stemma e gonfalone ufficiale.
Organizzazione amministrativa
Gli organi della regione sono indicati dall'art. 121 della Costituzione e sono:
il consiglio regionale;
la giunta regionale;
il presidente della giunta regionale.
La regione è rappresentata dal presidente della giunta regionale (in alcuni
statuti regionali è detto presidente della regione) che dal 2000 viene eletto
direttamente e democraticamente tramite elezioni
regionali a suffragio universale tra tutti i cittadini dei comuni della regione
aventi diritto al voto (età maggiore di 18 anni), a meno che lo statuto
regionale non preveda l'elezione da parte del Consiglio regionale. Se il
presidente della regione viene sfiduciato o si dimette volontariamente con
effetti immediati o muore o è impedito permanentemente il Consiglio regionale
viene sciolto e vengono indette al più presto nuove elezioni. Fino a che siano
instaurati i nuovi organi della regione sono prorogati i poteri dei precedenti
organi per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione.
Le funzioni amministrative sono attribuite alla giunta regionale, formata
dagli assessori nominati dal presidente della regione in rappresentanza delle
forze politiche che lo hanno appoggiato, oltre che allo stesso presidente della
regione (equivalente del capo del governo e del Consiglio dei ministri a livello
statale).
La regione è dotata di un consiglio regionale, eletto dai cittadini maggiorenni
residenti nella regione, organo collegiale equivalente del Parlamento a livello
statale, composto da consiglieri regionali in rappresentanza di tutte le forze
politiche del territorio con funzioni di approvazione del bilancio regionale,
delle delibere e provvedimenti emessi dal presidente/giunta. In Sicilia, regione
autonoma, prende il nome di parlamento regionale e i suoi membri sono detti
deputati e non consiglieri. Il consiglio esercita il potere legislativo per le
materie che la Costituzione e gli statuti speciali per le regioni autonome
demandano alla potestà legislativa esclusiva o concorrente.
Questi sono organi necessari delle regioni, per cui gli statuti e le leggi
regionali non possono disporre diversamente dal dettato costituzionale.
Confini
Sin dalla loro definizione geografico-statistica della seconda metà
dell'Ottocento nella forma dei compartimenti, le regioni italiane non ebbero una
definizione rigorosa dei loro confini basata sulla cartografia, non essendo
altro che dei "nomi geografici" privi di propria amministrazione o potere
politico. Proprio perché i compartimenti erano dei raggruppamenti di province,
la loro delimitazione non poteva che, in ultima analisi, ricondursi a quella
delle province ricomprese.
Con il secondo dopoguerra e l'istituzione delle Regioni come enti
territoriali emerse la necessità di definirne i territori con maggior
accuratezza. Pur non essendoci state leggi emanate dallo Stato italiano che
definissero i confini delle regioni in senso compiuto, gli statuti regionali di
ogni singola regione definiscono il territorio della regione stessa.
Quest'ultimo è definito, però, sempre facendo riferimento alle province
ricomprese da ciascuna regione e, in ultima analisi, ai comuni delle province
stesse. A titolo di esempio, l'articolo 7 dello Statuto della Regione
Puglia definisce il territorio di competenza come:
«. I comuni i cui territori sono compresi nelle province di Bari,
Barletta-Andria-Trani, Brindisi, Foggia, Lecce e Taranto costituiscono la
Regione Puglia»
(Statuto della Regione Puglia, art. 7)
I confini delle Regioni sono pertanto da ricondursi a quelli delle loro
Province, ma resta ferma per lo Stato italiano la possibilità di fondere Regioni
o crearne di nuove attraverso leggi costituzionali. Allo Stato è anche
consentito, con leggi costituzionali, il passaggio di province o comuni da una
regione a un'altra preceduta però da approvazione popolare
attraverso referendum nelle province o comuni interessati (modifiche dei confini
regionali dall'Unità d'Italia). Le facoltà di cui sopra sono sancite dall'art.
132 della Costituzione. L'art. 133 comma 1, invece, sancisce che con leggi, lo
Stato italiano possa modificare l'appartenenza dei comuni da una Provincia a
un'altra (modificandone in tal modo i confini), oppure istituire nuove Province.
L'art. 133 comma 2 della Costituzione, inoltre, sancisce che le Regioni possono
modificare i confini dei comuni esistenti e le loro denominazioni. Secondo lo
stesso comma 2 dell'art. 133, la Regione può anche creare nuovi comuni e
ridefinirne i confini. Ulteriori disposizioni in tal senso sono forniti
dall'articolo 15 del Testo unico sull'ordinamento degli enti locali.
Tipologie
In base allo statuto, che è per le regioni quello che è per lo stato la sua
Costituzione, è possibile distinguere due grandi categorie:
regioni a statuto ordinario;
regioni a statuto speciale.
Le 15 regioni a statuto ordinario. Quindici delle venti regioni italiane sono a
statuto ordinario. Lo statuto è approvato e modificato dal Consiglio
regionale con legge approvata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, con
due deliberazioni successive adottate con intervallo non minore di due mesi. Lo
statuto è sottoposto a referendum qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione
ne faccia richiesta un cinquantesimo degli elettori della regione o un quinto
dei componenti il Consiglio regionale. Lo statuto sottoposto a referendum non è
promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi.
L'autonomia legislativa di queste regioni è stata notevolmente ampliata
dalla riforma costituzionale del 2001, approvata sotto il governo Amato II e
confermata dal voto popolare durante il governo Berlusconi II.
Tuttavia, l'autonomia finanziaria, il cosiddetto federalismo fiscale, pure
prevista dall'art. 119 della costituzione riformata, non è ancora operativa, per
cui le regioni dipendono ancora dai trasferimenti dello stato centrale. Le
regioni dispongono comunque dell'IRAP (imposta regionale sulle attività
produttive), di un'addizionale regionale all'IRPEF, di una compartecipazione
all'IVA e di altri tributi minori.
Le regioni a statuto ordinario erano previste già nella Costituzione della
Repubblica Italiana (1948), ma entrarono in funzione soltanto nel 1970.
Le 5 regioni a statuto speciale. Cinque regioni sono a statuto speciale,
approvati con legge costituzionale nel 1948 (il Friuli-Venezia Giulia nel 1963),
come previsto dall'art. 116 della Costituzione.
Lo statuto speciale garantisce una particolare forma di autonomia, ciò è
tangibile nell'autonomia impositiva. Il Friuli-Venezia Giulia trattiene per sé
il 60% della maggior parte dei tributi riscossi nel territorio regionale, la
Sardegna il 70%, la Valle d'Aosta e le province autonome di Trento e Bolzano il
90% e la Sicilia il 100% (il cui diritto sancito dallo Statuto
speciale del 1946 non è stato ancora pienamente attuato). Tali regioni
dispongono di notevoli poteri legislativi e amministrativi, come nei settori
scuola, sanità, infrastrutture e di conseguenza debbono provvedere al relativo
finanziamento principalmente con le proprie risorse, mentre nelle regioni a
statuto ordinario le spese sono principalmente a carico dello Stato.
Di conseguenza, le province autonome di Trento e Bolzano (mezzo milione di
abitanti ciascuna) dispongono di un bilancio corrispondente a quello del Veneto,
sebbene quest'ultimo abbia 4,8 milioni di abitanti. Anche per questo diversi
comuni di confine chiedono il passaggio alle più ricche regioni a statuto
speciale, come permesso dalla Costituzione (vedi anche progetti di aggregazione
di comuni ad altra regione e progetti di aggregazione di comuni al Trentino-Alto
Adige).
La prima regione a essere istituita fu la Sicilia nel 1946, con il regio decreto
del 15 maggio, prima del referendum istituzionale, e confermato con la legge
costituzionale n. 2/1948.
Tre regioni a statuto speciale furono istituite dalla stessa Assemblea
costituente nel 1948: la Sardegna, date le forti spinte autonomistiche, se
non indipendentistiche come in Sicilia, la Valle d'Aosta per tutelare
la minoranza francofona, e il Trentino-Alto Adige per la tutela dei germanofoni
ai sensi dell'accordo di Parigi. Nel 1963 fu costituita la regione a statuto
speciale Friuli-Venezia Giulia.
Nel 1972 entrò in vigore il nuovo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige,
che trasferì la maggior parte dei poteri regionali alle due province autonome di
Trento e Bolzano.
Province autonome
La regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle province autonome
di Trento e di Bolzano (art 116, secondo comma). Tali province sono dotate di
poteri, anche legislativi, corrispondenti a quelli di una regione.
La regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è stata ampiamente esautorata. La
presidenza viene assunta a turno dai presidenti delle province di Trento e di
Bolzano. Anche il ruolo di Trento come capoluogo è stato ridimensionato, dal
momento che la Giunta e il Consiglio si riuniscono anche a Bolzano.
Statutaria
L'autonomia statutaria viene riconosciuta alle sole regioni a statuto ordinario.
Ciascuna regione ordinaria adotta con legge regionale uno statuto che, in
armonia con la Costituzione, ne determina la forma di governo e i principi
fondamentali di organizzazione e funzionamento. Lo statuto regola l'esercizio
del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti
amministrativi della regione e la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti
regionali.
Le regioni a statuto speciale sono prive di tale autonomia (cioè, del
potere-dovere di darsi uno statuto), visto che gli statuti speciali sono leggi
costituzionali dello Stato. Tuttavia, la legge costituzionale 31 gennaio 2001,
n. 2, ha modificato gli statuti delle cinque regioni speciali, attribuendo a una
legge statutaria la determinazione della forma di governo della regione e delle
province autonome di Trento e di Bolzano. Solo per la regione Trentino-Alto
Adige/Südtirol la forma di governo continua a essere disciplinata dallo statuto
regionale.
Legislativa
In seguito alla revisione costituzionale del 2001, la potestà legislativa
appartiene allo Stato e alle regioni, posti sullo stesso piano; la competenza è
attribuita per materie.
La competenza a legiferare può essere:
esclusiva dello Stato;
concorrente (o ripartita) tra lo Stato e le regioni;
residuale delle regioni (interpretata come esclusiva).
Per l'art. 127 della Costituzione "Il Governo, quando ritenga che una legge
regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di
legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta
giorni dalla sua pubblicazione". Così come la Regione " quando ritenga che una
legge o un atto avente valore di legge leda la sua sfera di competenza, può
promuovere la questione di legittimità costituzionale entro 60 giorni dalla
pubblicazione di una legge o dell'atto avente valore di legge" (art.127 co. 2).
Regolamentare
L'autonomia regolamentare della regione è definita dall'art. 117 della
Costituzione, 6º comma.
La regione ha potestà regolamentare nelle materie su cui ha competenza esclusiva
e su quelle in cui la competenza tra Stato e regione è di tipo concorrente. Ha
potestà regolamentare nelle materie di competenza esclusiva dello Stato in
quanto sia a essa delegata.
La titolarità della potestà regolamentare della regione non è definita a livello
costituzionale. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 313/2003, ha infatti
sostenuto la teoria della libertà di scelta degli Statuti delle Regioni,
affermando che spetta alla singola Regione, nell'ambito della sua autonomia,
decidere quale deve esser l'organo che in concreto svolge la funzione
regolamentare.
Il Consiglio Regionale esercita la potestà regolamentare nelle materie di
competenza esclusiva statale delegate alle Regioni in base all'art. 117 comma 6
della Costituzione.
Amministrativa
L'autonomia amministrativa della regione è stabilita con l'art. 118 della
Costituzione.
L'autonomia amministrativa della regione, come di tutte le pubbliche
amministrazioni, deve aderire ai principi
di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.
La regione, con legge regionale, può delegare le funzioni amministrative di cui
è titolare ai Comuni, alle Province o alle Città metropolitane.
Prima della modifica costituzionale per opera della legge n. 3/2001 vigeva il
principio del parallelismo tra funzione legislativa e funzione amministrativa.
Quindi alle regioni spettavano le funzioni amministrative in riferimento alle
materie di cui all'art. 117 (anch'esso previgente alla riforma del titolo V).
Inoltre
lo Stato poteva delegare funzione amministrative alle regioni in materie di
propria competenza legislativa;
lo Stato poteva attribuire direttamente funzioni agli enti locali, qualora si
trattasse di funzioni di interesse strettamente locale;
lo Stato poteva trattenere funzioni presso di sé, qualora si ravvisasse un
interesse nazionale;
le regioni avrebbero dovuto utilizzare le proprie funzioni amministrative
tramite comuni e province utilizzando lo strumento della delega e
dell'avvalimento.
Finanziaria e fiscale
L'autonomia finanziaria della regione è stabilita con l'art. 119 della
Costituzione, contenente i principi del federalismo fiscale (finora attuati
soltanto in parte).
La regione ha autonomia finanziaria di entrata e di spesa. Stabilisce e applica
tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi
di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispone di
compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al proprio
territorio.
La regione ha un proprio patrimonio.
Può ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento.
Per disposizione dell'art. 120 della Costituzione la regione non può stabilire
dazi sul commercio con le altre regioni.
Autonomia differenziata
Anni 2000
Successivamente alla revisione costituzionale del 2001, nell'ambito
dell'organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali
sull'istruzione e della tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni
culturali, nonché di tutte le materie attinenti alla competenza concorrente,
le regioni a statuto ordinario possono conseguire – su propria iniziativa, con
legge statale approvata a maggioranza assoluta previa intesa con lo Stato –
ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia.
Nel 2006 si tenne un nuovo referendum costituzionale che prevedeva di trasferire
alle regioni ulteriori compiti, ma fu respinto nel voto.
Progetto di ampliamento dell'autonomia delle regioni (dal 2015)
A partire dal 2015 in Lombardia e in Veneto è partita un'iniziativa del
legislatore per ampliare ulteriormente l'autonomia dal governo centrale, al fine
di chiedere il trasferimento delle ulteriori 23 competenze spettanti alle
Regioni, lo statuto speciale e i 9/10 delle tasse riscosse, in base all'Art.
Cost. 116, c. 3 stesso. Ne sono scaturiti due referendum consultivi nelle
rispettive regioni, dall'esito plebiscitario. Dopo alcune trattative, fu
raggiunto un accordo preliminare con il governo nel febbraio 2018.
Con l'inizio della XIX legislatura nel tardo 2022 sono ripresi i lavori per
portare avanti l'autonomia fiscale e la ulteriore devolution, giungendo a un
primo provvedimento emanato dal governo centrale.
Controlli
Statali
La legge costituzionale n. 3/2001 ha abolito il comitato regionale di
controllo e i controlli sugli atti (amministrativi e anche di legge) della
regione, esercitati sino ad allora da cosiddetti commissari del governo. Nei
capoluoghi delle regioni speciali e nelle province autonome essi continuano
tuttavia a esercitare (almeno in parte) i loro uffici. Nelle altre regioni una
parte dei poteri dei commissari viene esercitata dai prefetti dei capoluoghi
regionali, in qualità di rappresentanti dello Stato nei rapporti con il sistema
delle autonomie.
Quanto al controllo sugli organi regionali, l'art. 120 II prevede: «Il Governo
può sostituirsi a organi delle regioni … nel caso di mancato rispetto di norme e
trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave
per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela
dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.»
L'art. 126 stabilisce: «Con decreto motivato del presidente della Repubblica
sono disposti lo scioglimento del Consiglio regionale e la rimozione del
presidente della giunta che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o
gravi violazioni di legge.». Lo scioglimento è deliberato dal Consiglio dei
ministri, previo parere della Commissione Parlamentare sugli affari regionali.
Passando poi alla legislazione regionale, l'art. 127 della Costituzione
stabilisce: «Il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la
competenza della regione, può promuovere la questione di legittimità
costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla sua
pubblicazione.»
Quanto allo statuto delle regioni ordinarie, l'art. 123 della Costituzione
recita: "Il Governo della Repubblica può promuovere la questione di legittimità
costituzionale sugli statuti regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro
trenta giorni dalla loro pubblicazione".
Regionali
La regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello
Stato o di un'altra regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la
questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro
sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto avente valore di
legge (art. 127 Cost.).
La regione, oltre a ricorrere alla giustizia amministrativa, può sollevare un
conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte costituzionale se vengono lese le
sue competenze amministrative.
Validità e limiti di statuti, leggi e regolamenti regionali
In seguito alla riforma costituzionale del 2001, si è avuta, almeno sulla carta,
un'inversione dei ruoli di Stato e Regioni, le quali hanno avuto un
rafforzamento della loro potestà legislativa. L'articolo 117 della Costituzione
definisce i campi in cui solo lo Stato può legiferare (la cosiddetta "potestà
legislativa esclusiva", ad esempio nel campo penale). Al secondo comma, invece.
sono definiti i campi di "potestà legislativa concorrente", il che significa che
le Regioni legiferano nei campi in questione, fatta salva la possibilità per lo
Stato di definire con leggi i principi generali da seguire. Per i campi non
menzionati nell'art. 117, la competenza legislativa è (o dovrebbe essere) solo
delle Regioni (la cosiddetta "potestà legislativa residuale").
Ciò detto, ci sono buoni motivi per ritenere che la ripartizione di cui sopra
sia rimasta sostanzialmente disapplicata e che poco o nulla sia cambiato dal
2001. Le ragioni sono almeno due; la prima è che spesso non è possibile
attribuire a ciascuna disposizione di legge una categoria univocamente
determinata, essendoci spesso delle sovrapposizioni tra le categorie o
semplicemente dei dubbi interpretativi. In secondo luogo, resta ferma per lo
Stato la possibilità di sostituirsi alle Regioni anche nei campi di legislazione
concorrente e residuale, e questa prerogativa è assicurata dall'articolo 120,
comma 2. Questa disposizione, che nella Costituzione sarebbe dovuta essere
limitata ai casi eccezionali di lassismo o inconcludenza delle Regioni, ha
finito con l'essere applicata regolarmente. Un'ulteriore ragione che
giustificherebbe la sostituzione dello Stato alle Regioni deriverebbe dal
cosiddetto principio di sussidiarietà contenuto nell'articolo 118 della
Costituzione; la sentenza n. 303/2003 della Corte costituzionale ha infatti
chiarito che il principio di sussidiarietà autorizza, in caso di necessità, non
solo l'attribuzione allo Stato di funzioni amministrative nel campo di
competenza delle Regioni, ma anche di quelle più propriamente legislative.
La Corte costituzionale, con le sentenze n. 282/2002 e n. 303/2003 ha in un
certo qual senso legittimato l'assunzione di funzioni e l'espansione dei poteri
statali, a patto che siano soddisfatti alcuni requisiti quali la non
irragionevolezza e il ricorso all'intesa (preventivo esame della Conferenza
Stato-Regioni).
Fermo restando quanto detto sopra, per le materie sottoposte a potestà
legislativa concorrente (articolo 117 della Costituzione), lo Stato può in
teoria, determinare solo i principi fondamentali. Non è però, ben definito che
cosa debba intendersi per "principio fondamentale", non essendoci di norma
soluzione di continuità tra norme generali e norme particolari. Questo sarebbe
un'ulteriore causa di attribuzione allo Stato di prerogative in materie di
competenza regionale. Nonostante la riforma costituzionale del 2001, sono ancora
oggi utilizzati due criteri dottrinali fondamentali per stabilire se una legge
sia di competenza statale o regionale. Questi due criteri sono:
il criterio gerarchico;
il criterio di competenza.
Statuti regionali
Come sancito dall'articolo 123 della Costituzione, uno dei principali compiti
attribuiti agli statuti regionali ordinari è definire la "forma di governo
regionale", cioè le funzioni e i limiti degli organi politici regionali,
oltreché i "principi fondamentali di organizzazione e funzionamento" nel
rispetto del criterio del "numero chiuso delle fonti primarie", cioè
l'impossibilità per lo statuto di definire fonti legislative aggiuntive rispetto
a quelle definite nella Costituzione per le Regioni.
Lo statuto regionale ordinario, essendo previsto e definito dalla Costituzione,
non può non essere "in armonia con la Costituzione" stessa (art. 123 comma 1
della Costituzione). Prima della riforma della Costituzione del 1999, lo statuto
doveva essere in armonia non solo con la Costituzione ma anche "in armonia con
le leggi della Repubblica", e questo ne limitava fortemente l'ambito di azione.
La dottrina ha inoltre chiarito che gli statuti ordinari devono rispettare non
solo le norme della Costituzione, ma anche i suoi dettami impliciti desumibili
da una lettura attenta di essa, come ad esempio, il principio democratico e
quello di unità e indivisibilità della Repubblica, nonché il principio del
numero chiuso delle fonti primarie di cui sopra.
Alcune sentenze della Corte costituzionale, come la n. 201/2008 e la n.
188/2007, hanno chiarito che sono incostituzionali, in quanto violano l'art. 123
della Costituzione, le leggi regionali in contrasto con lo statuto regionale.
La dottrina ha anche esaminato la possibilità che uno statuto possa trattare in
aggiunta materie di competenza riservata alle leggi regionali (o, eventualmente,
anche ai regolamenti regionali); quindi non solo temi, come ad esempio, la "foma
di governo regionale" e i relativi organi. In particolare, c'è chi si è espresso
per l'ammissibilità di contenuti statutari siffatti, dal momento che lo statuto
è, a norma dell'articolo 123 della Costituzione, esso stesso una legge
regionale. Altri invece, (con i dovuti distinguo, a seconda che la materia sia
di competenza concorrente o residuale) hanno fatto notare che lo statuto viene
approvato o modificato con il cosiddetto "procedimento aggravato" (cioè più
complesso e con maggiori garanzie) e, per poter modificare le disposizioni
statutarie in questione, servirebbe un altro procedimento aggravato; ne
deriverebbe pertanto una maggiore difficoltà per le leggi regionali di
intervenire su temi di loro stessa competenza (a norma dell'articolo 123 della
Costituzione).
Regolamenti regionali
L'articolo 117 della Costituzione, ai commi 6 e 7, sancisce che:
«La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione
esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle
Regioni in ogni altra materia.»
(Articolo 117, commi 6 e 7 della Costituzione)
Il comma 6 garantisce allo Stato la facoltà di emanare regolamenti nelle materie
di legislazione esclusiva di cui all'articolo 117. Lo Stato, però, attraverso
leggi, potrebbe delegare le Regioni a emanare regolamenti anche in un ambito
particolare la cui competenza è esclusivamente statale, a patto che non siano
materie sotto "riserva di legge". Materie sotto "riserva di legge" sono materie
la cui competenza non può essere delegata dallo Stato sulla base di specifica
disposizione costituzionale (si pensi ad esempio alla materia penale, attribuita
allo Stato sotto riserva di legge a norma dell'articolo 25, comma 2 della
Costituzione).
Nelle materie di competenza legislativa concorrente e residuale, le Regioni
mantengono in teoria la potestà regolamentare, ma resta ferma la possibilità per
lo Stato di emanare regolamenti "trasversali", relativi ad ambiti di competenza
regionale come accaduto già per l'istruzione (potestà legislativa concorrente) e
la cui legittimità è stata avallata dalla Corte costituzionale (sentenza n.
279/2005).
La legge costituzionale n. 1/1999 ha abrogato l'attribuzione della competenza
regolamentare al Consiglio regionale e ne ha reso possibile l'attribuzione con
statuto alla Giunta.
Dispositivo dell'art. 114 Costituzione: La Repubblica è costituita dai Comuni,
dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi
con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione.
Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo
ordinamento.
Cos'è il TUEL riassunto? Da Wikipedia. Il decreto legislativo 18 agosto 2000, n.
267 (anche Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali;
abbreviato TUEL o anche TUOEL) è una norma giuridica della Repubblica Italiana
che stabilisce i principi e le disposizioni in materia di ordinamento degli enti
locali italiani. Tale decreto raccoglie l'ordinamento istituzionale e contabile
degli enti locali: i comuni, le province, le città metropolitane, le comunità
montane, le comunità isolane, l'unione di comuni. Tra le novità introdotte dal
TUEL, vi sono: il potenziamento delle competenze dirigenziali estese, tranne in
alcuni casi, a tutti gli atti di gestione e a quelli di natura amministrativa;
l'attribuzione agli enti locali di una più ampia autonomia per la disciplina
della selezione del personale; l'estensione degli spazi di partecipazione
popolare ai cittadini dell'Unione europea ed agli stranieri soggiornanti
regolarmente.
Struttura
PARTE I – ORDINAMENTO ISTITUZIONALE
TITOLO I – DISPOSIZIONI GENERALI
TITOLO II – SOGGETTI
TITOLO III – ORGANI
TITOLO IV – ORGANIZZAZIONE E PERSONALE
TITOLO V – SERVIZI E INTERVENTI PUBBLICI LOCALI
TITOLO VI – CONTROLLI
PARTE II – ORDINAMENTO FINANZIARIO E CONTABILETITOLO
I – DISPOSIZIONI GENERALI
TITOLO II – PROGRAMMAZIONE E BILANCI
TITOLOIII – GESTIONE DEL BILANCIO
TITOLO IV – INVESTIMENTI
TITOLO V – TESORERIA
TITOLO VI – RILEVAZIONE E DIMOSTRAZIONE DEI RISULTATI DI GESTIONE
TITOLO VII – REVISIONE ECONOMICO-FINANZIARIA
TITOLO VIII – ENTI LOCALI DEFICITARI O DISSESTATI
PARTE III – ASSOCIAZIONI DEGLI ENTI LOCALI
PARTE IV – DISPOSIZIONI TRANSITORIE ED ABROGAZIONI
L’Ente locale si compone di territorio, popolazione, patrimonio.
L'Ente locale rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne
promuove lo sviluppo. Ha autonomia statutaria, normativa e organizzativa.
Che cosa si intende per centro abitato?
Centro abitato: insieme di edifici (almeno 25), delimitato lungo le vie di
accesso dagli appositi segnali di inizio e fine.
Il centro abitato è uno spazio di territorio, in cui risiede una
popolazione-comunità.
La comunità ha competenza amministrativa nello spazio in cui la popolazione
risiede (centro abitato) e nel territorio di pertinenza in cui opera.
Ai sensi del "Nuovo Codice della strada" (D.lgs. 285/1992 e s.m.i.), il campo di
applicazione obbligatorio della segnaletica stradale comprende le strade di uso
pubblico e tutte le strade di proprietà privata aperte all'uso pubblico
Legalità, Buon andamento, Imparzialità
Organizzati secondo legge e che assicurano buon andamento ed imparzialità
Decentramento, riconoscimento Enti locali, responsabilità, tutela del privato.
Sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza
Art.1 L.
241/90
economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e di trasparenza
Art.
22-28 L. 241/90 diritto di accesso per perseguire
l'interesse pubblico, favorire la partecipazione, assicurare l'imparzialità e la
trasparenza.
Che cosa significa "Enti locali"?
Detti anche enti territoriali locali, sono enti pubblici che operano in un
determinato e ristretto ambito territoriale, perseguendo interessi di natura
circoscritta al territorio su cui insistono
Le funzioni fondamentali dei comuni sono individuate principalmente
dall’articolo 14, comma 27, del D.L. 78/2010 come segue:
organizzazione generale dell'amministrazione, gestione finanziaria e contabile e
controllo;
organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale (compreso il trasporto
pubblico comunale);
catasto, ad eccezione delle funzioni statali;
pianificazione urbanistica ed edilizia e partecipazione alla pianificazione
territoriale di livello sovracomunale;
pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi;
raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei
relativi tributi;
progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione
delle relative prestazioni ai cittadini;
edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province,
organizzazione e gestione dei servizi scolastici;
polizia municipale e polizia amministrativa locale;
tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di
servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali, nell'esercizio delle
funzioni di competenza statale (questa funzione è esclusa tra quelle da
esercitare obbligatoriamente in forma associata);
servizi in materia statistica.
E', inoltre, funzione fondamentale dei comuni lo svolgimento, in ambito
comunale, delle attività di pianificazione di protezione civile e di direzione
dei soccorsi con riferimento alle strutture di appartenenza (D.Lgs. 1/2018,
Codice della protezione civile, art. 12, co. 1).
Gli organi di governo esercitano le funzioni programmatiche e di indirizzo
politico- amministrativo e ad essi spettano in particolare: Le decisioni in
materia di atti normativi e l'adozione dei relativi atti di indirizzo
interpretativo ed applicativo.
Il Consiglio comunale è organo di governo del Comune insieme alla Giunta e al
Sindaco.
SCIOGLIMENTO: sindaco (dimissioni, decadenza, rimozione, impedimento, decesso,
sfiducia a scrutinio palese per appello nominale), no funzionamento (no
bilancio, no numeri), contra legge
Incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità
da Consiglio Regionale Abruzzo.
A garanzia della correttezza della competizione elettorale, l'ordinamento
ammette condizioni di esclusione o di limitazione del diritto elettorale
passivo, ossia del diritto sancito dall'art. 51 Cost. di tutti i cittadini ad
accedere alle cariche elettive. Si tratta delle cause di incandidabilità, di
ineleggibilità e di incompatibilità, le quali, tuttavia, derogando al suddetto
principio, sono di stretta interpretazione e devono rigorosamente contenersi
entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la
soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate.
sono volte a garantire l'uguaglianza effettiva tra i candidati e la libera
manifestazione della volontà degli elettori attraverso l'esclusione di soggetti
che, per ragioni d'ufficio, si trovano in una particolare condizione che possa
incidere, anche solo psicologicamente, sulla libera scelta degli elettori,
evitando, pertanto, che si creino situazioni di indebita pressione sul corpo
elettorale.
L'istituto dell'ineleggibilità alle cariche elettive si configura pertanto come
una causa di invalidità dell'elezione in quanto costituisce un impedimento
giuridico, preesistente all'elezione, a diventare soggetto passivo del rapporto
elettorale.
invece, pongono limitazioni al diritto elettorale passivo discendenti
dall'articolo 97 Cost., cioè dal principio di imparzialità e buon andamento
dell'amministrazione, al fine di garantire l'imparzialità ed il disinteresse
nell'esercizio delle pubbliche funzioni vietando il cumulo fra più cariche in
capo allo stesso soggetto ed il conseguente crearsi di situazioni di conflitto
di interessi. L'incompatibilità si può, quindi, definire come una particolare
situazione soggettiva per cui una stessa persona non può ricoprire, nello stesso
tempo, più uffici o cariche. Pertanto, l'eletto dovrà optare tra il mandato
elettivo e l'altra carica al fine di evitare di non svolgere correttamente i
compiti connessi al suo ufficio, trovandosi in una situazione di conflitto di
interessi.
Da ultimo, le cause di incandidabilità trovano applicazione nei riguardi di
coloro che siano stati condannati, anche in via non definitiva, per alcuni gravi
delitti connessi al fenomeno mafioso o al traffico d'armi e droga, ovvero per
alcuni delitti dei pubblici ufficiali, o reati commessi con abuso di potere o in
violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione.
La legge 7 aprile 2014, n. 56 (cd. ‘legge Delrio')
Qual è un organo della provincia?
Organi
provinciali
Organi della provincia sono:
il presidente della provincia,
il consiglio provinciale e l'assemblea dei sindaci.
Di conseguenza, non è più prevista la giunta provinciale e si
introduce l'assemblea dei sindaci con compiti propositivi, consultivi e
di controllo.
Quali sono i tre organi fondamentali della provincia?
Gli organi della provincia sono:
il Presidente, che è eletto dai sindaci e dai
consiglieri dei comuni del territorio;
il Consiglio provinciale, che è composto dal Presidente della Provincia e dai
consiglieri;
l'Assemblea dei sindaci, che è composta
dai sindaci dei comuni della provincia.
Chi gestisce la provincia?
Secondo la legge n°56 del 2014 il Presidente della provincia rappresenta l'ente,
convoca e presiede il Consiglio provinciale e l'Assemblea dei sindaci,
sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli
atti, ed esercita le altre funzioni attribuitegli dallo statuto.
Come vengono eletti gli organi della Provincia?
Secondo la legge Delrio, il consiglio provinciale viene eletto a suffragio
ristretto solo dai sindaci e dai consiglieri comunali della provincia. Anche il
suffragio passivo è stato parimenti ristretto, con l'aggiunta in via transitoria
dei consiglieri provinciali uscenti.
Le Provincie.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La provincia, in Italia, è un ente locale territoriale di area vasta il cui
territorio è per estensione inferiore a quello della regione della quale fa
parte, ma è superiore a quello dei comuni che sono compresi nella sua
circoscrizione.
La disciplina delle province è contenuta nel titolo V della parte II
della Costituzione e in fonti primarie e secondarie che attuano il disposto
costituzionale. Tutte le province, tranne quelle autonome di Trento e
di Bolzano, che godono di autonomia speciale, e la Valle d'Aosta, dove le
funzioni provinciali sono svolte dalla Regione, fanno parte dell'UPI, l'Unione
delle province d'Italia.
Molte province collocano sopra il proprio stemma una corona costituita da un
cerchio d'oro gemmato con le cordonature lisce ai margini e racchiudente due
rami al naturale, uno di alloro e uno di quercia, uscenti decussati dalla corona
e ricadenti all'infuori. Tale usanza non è tuttavia obbligatoria, essendo in
diversi casi sostituita da coronature principesche o da drappi sovrastati
da corone turrite o del tutto assente.
Evoluzione istituzionale
Molti Stati preunitari conoscevano già l'istituto provinciale, ma le province
odierne trovano fondamento legislativo nella normativa in essere nel Regno di
Sardegna. Nello Stato sabaudo l'ordinamento provinciale era stato
precedentemente definito dal decreto Rattazzi, che sul modello francese aveva
stabilito l'organizzazione del territorio in province, circondari, mandamenti e
comuni.
La provincia nasceva così come ente locale dotato di propria rappresentanza
elettiva e di un'amministrazione autonoma: un collegio deliberante di durata
quinquennale, il consiglio provinciale, e un organo esecutivo-amministrativo di
durata annuale, la deputazione provinciale, eletta dal Consiglio ma presieduta e
convocata dal governatore, poi prefetto, di nomina regia. I consiglieri si
rinnovavano per un quinto ogni anno per sorteggio. Le prime elezioni provinciali
furono celebrate il 15 gennaio 1860.
Dopo, al fine di procedere a un riassetto del neonato Stato, la legge
Lanza cancellò la legislazione amministrativa asburgica, che era stata fino ad
allora mantenuta viva in Toscana per le sue avanzate caratteristiche. La legge
Lanza fu poi estesa al Veneto nel 1867 e al Lazio nel 1870. Con tale legge, la
deputazione passò a rinnovarsi per metà ogni anno, dando più stabilità alla
carica di deputato provinciale.
Nel 1889, con il primo testo unico degli enti locali, venne introdotto il
principio elettivo nella nomina annuale del presidente della deputazione
provinciale, separandone la figura da quella del prefetto. Veniva inoltre
allargato il suffragio amministrativo per censo, includendovi il ceto medio. Nel
1894, nell'intento di dare maggiore stabilità, la durata del consiglio veniva
portata a sei anni, con rinnovo triennale di metà dei consiglieri scelti per
sorteggio. La deputazione si rinnovava invece per intero ogni tre anni e a tale
termine venne coordinata la carica del presidente. Un'ulteriore espansione delle
cariche esecutive fu deliberata nel 1904, facendo diventare quadriennale il
mandato della deputazione, mentre per il consiglio si scelse il rinnovo biennale
per terzi.
Giovanni Giolitti, il quale portò la democrazia nelle elezioni provinciali
Un nuovo ammodernamento dell'istituto della provincia fu operato del governo
Giolitti, che, con la sua legge sul suffragio universale, deliberò che anche il
consiglio venisse da allora eletto integralmente ogni quattro anni e,
soprattutto, che il suffragio universale, già previsto alle elezioni politiche,
venisse esteso alle elezioni amministrative. L'elettorato attivo venne concesso
a tutti i cittadini maschi ultratrentenni, mentre per i ventunenni permanevano
condizioni di censo, istruzione e servizio militare. Per recepire questi storici
cambiamenti, vennero indette elezioni amministrative generali per il 1914,
mentre poi il testo unico del 1915 raccolse in un unico documento un'evoluzione
trentennale che aveva visto il sistema amministrativo italiano distaccarsi dallo
schema francese napoleonico nell'intento di fornire maggiore democrazia. La
configurazione dell'istituzione provinciale veniva così regolata nei suoi organi
costitutivi, nei suoi compiti, nei proventi e nelle spese ad essa attribuite.
Il regime fascista, con la sua tendenza accentratrice e antidemocratica, abolì
il criterio elettivo nella formazione degli organi provinciali. In un primo
tempo, quando ancora Mussolini governava in coalizione con le
forze liberali e popolari, le milizie squadriste minacciarono i componenti delle
amministrazioni socialiste, provocandone le dimissioni. Nelle province in cui il
governo non si aspettava la vittoria di una coalizione di centro-destra e, dopo
il trionfo fascista nelle elezioni politiche del 1924, in tutta Italia grazie
all'emanazione delle leggi fascistissime, i prefetti addussero vari pretesti per
insediare stabilmente alla guida delle province le commissioni reali
straordinarie, che il precedente ordinamento giuridico considerava come del
tutto transitorie. Nel 1929, poi, la svolta autoritaria nella gestione delle
province fu esplicitata anche per legge e il consiglio venne sostituito da
un rettorato di nomina prefettizia composto da quattro, sei o otto membri,
mentre un preside di nomina regia accentrò le competenze della Deputazione e del
suo presidente. Veniva tuttavia così messa in essere una diarchia, quella fra
preside e prefetto, della cui pericolosità si accorse ben presto lo
stesso Mussolini. Il dittatore non poté, però, provvedervi se non
nella Repubblica Sociale Italiana, nelle cui province il prefetto divenne
il Capo della Provincia, assumendo totale supremazia su tutte le altre cariche
locali.
Le province vennero lentamente ricostituite in senso democratico a guerra ancora
in corso: nell'aprile del 1944 il governo decretò, ovviamente solo per i
territori liberati, il ripristino delle deputazioni e del relativo presidente,
affidandone la nomina al prefetto. Le deputazioni erano tutte di 6 membri, sia
per effetto dell'ultimo disposto precedente la svolta autoritaria, sia perché
tanti erano i partiti membri del CLN che dovevano essere tutti
rappresentati. Tale regime provvisorio, in cui le deputazioni godevano anche
delle attribuzioni consiliari, venne poi prolungato per ben sette anni in attesa
di concludere il dibattito sull'attivazione dell'istituzione regionale.
La ricomparsa dei consigli provinciali, per la prima volta supportati
dal suffragio femminile, fu il portato della legge 8 marzo 1951, n. 122, che
fissò a 45 il numero massimo dei consiglieri provinciali e a 8 quello dei membri
della giunta provinciale, consesso che sostituì la deputazione come organo
esecutivo. Con un'innovazione rispetto al passato prefascista, il presidente
della Provincia, eletto dal consiglio tra i suoi componenti, fu messo a capo sia
dello stesso consiglio sia della giunta. In questa prima fase, il sistema
elettorale fu un meccanismo misto a prevalenza maggioritaria, ma nel 1960 anche
per le province venne introdotto un puro suffragio proporzionale come per tutti
gli altri livelli istituzionali. Il mandato delle amministrazioni provinciali fu
inizialmente stabilito in quattro anni, ma vari decreti resero tale termine
molto irregolare finché non si passò a un termine quinquennale, anche qui per
armonizzarsi al resto del panorama politico.
La creazione delle regioni autonome, tuttavia, introdusse per la prima volta una
disarmonia fra gli organi provinciali presenti sul territorio.
In Sicilia lo statuto speciale del 1946 con l'art. 15 soppresse le province.
Il parlamento regionale decretò di lasciare le province sotto l'autorità della
giunta dell'isola, che nominava d'imperio i presidenti e i membri delle giunte
provinciali, mentre fu solo nel 1964 con la nascita delle "province regionali",
come consorzi di comuni, che si acconsentì alla rinascita dei consigli
provinciali, con elezioni di secondo grado.
In Trentino-Alto Adige la ricostituzione dei consigli su
base proporzionale avvenne già nel tardo 1948, dato che l'accordo con
l'Austria prevedeva che essi fungessero anche da consiglio regionale,
raggruppandosi in seduta comune. In Valle d'Aosta, infine, l'amministrazione
regionale svolgeva anche i compiti provinciali, in particolare tramite il
consiglio eletto nel tardo 1949.
Dopo decenni di immobilismo, il primo importante intervento legislativo di
riforma degli enti locali fu operato della legge n. 142/1990, con la quali i
comuni e le province furono autorizzati ad adottare un proprio statuto e
istituire regolamenti concernenti le norme fondamentali di organizzazione
dell'ente, l'ordinamento degli uffici e delle società partecipate, le forme di
partecipazione popolare, di decentramento, di accesso dei cittadini alle
informazioni e ai provvedimenti amministrativi. La legge incominciò a
preoccuparsi del tema della governabilità, introducendo la sfiducia
costruttiva per proteggere le giunte in carica. Infine, la normativa prefigurò
un nuovo istituto per le aree urbane più dense, la città metropolitana, che
tuttavia rimase una pura teoria poiché non vennero emanate le necessarie leggi
regionali di attuazione.
Il vero cambiamento storico fu però il risultato della legge del 25 marzo 1993,
n. 81, che stabilì l'elezione diretta a suffragio universale dei presidenti
delle province, cui veniva demandato il potere di nominare la giunta
provinciale ora composta da assessori esterni al consiglio, per il quale veniva
ricreata la separata figura di un suo presidente. Era possibile la nomina ad
assessore di un consigliere, ma costui perdeva immediatamente il seggio
all'accettazione della carica superiore. La durata delle amministrazioni fu
ridotta a quattro anni, sul modello statunitense, non più di due mandati
presidenziali consecutivi, mentre la legge elettorale venne modificata con un
premio di maggioranza per garantire la coalizione vincitrice. La Sicilia, che
nell'agosto 1992 aveva approvato l'elezione diretta dei sindaci, applicò alle
sue province il suo particolare modello fatto di presidenzialismo puro, con una
semplice soglia di sbarramento per il consiglio. Solo nel 1997 si adeguò al
modello nazionale.
L'ulteriore evoluzione delle norme amministrative fu riassunta nel nuovo Testo
unico sull'ordinamento degli enti locali (TUEL), emanato con decreto legislativo
n. 267 del 2000, che riportò a cinque anni la durata dei mandati elettivi.
Il secondo decennio del XXI secolo portò un ampio dibattito sul ruolo e sulla
gestione delle province. Il governo Monti recepì le pressioni comunitarie in
tema di risparmi di bilancio e fu emanato il decreto-legge 6 dicembre 2011, n.
201, che prevedeva nelle regioni a statuto ordinario la spoliazione dei poteri
delle province e la nomina dei loro organi da parte degli amministratori
comunali, abolendo le giunte. Il provvedimento comportò il rinvio degli
appuntamenti elettorali del 2012 e del 2013, offrendo ai presidenti uscenti la
permanenza in carica come commissari. Le iniziative nazionali trovarono
accoglimento in Sicilia dopo la vittoria di Rosario Crocetta, che, con un
provvedimento più radicale, licenziò tutte le autorità provinciali a far data
dal 30 giugno 2013, sostituendole con commissari da lui stesso nominati, ma
vennero fermate proprio a Roma dalla Corte costituzionale, che il 3 luglio cassò
la riforma Monti, giudicandola incostituzionale a causa dell'uso di un decreto
per riformare un ente costituzionalmente garantito quale la provincia. La
reazione dei nuovi governi di centro-sinistra si concretizzò, quindi, il 3
aprile 2014 con l'approvazione della legge proposta dal ministro Graziano
Delrio, che confermò la trasformazione delle province in enti amministrativi di
secondo livello e la mutazione di dieci di esse in città metropolitane. La nuova
normativa cancellò anche le elezioni previste nel 2014, sostituendole con
consultazioni a suffragio ristretto celebrate in autunno, e abolì le giunte,
redistribuendo le deleghe ai consiglieri provinciali ridotti in numero.
L'attuazione della riforma fu posticipata all'inizio del 2015 per le realtà
metropolitane, a capo delle quali fu posto per principio e di diritto
il sindaco del capoluogo, e fu recepita in forma modificata dal Friuli-Venezia
Giulia, mentre al parlamento siciliano il dibattito subì una brusca frenata,
obbligando a continue proroghe o nomine di nuovi commissari, mantenendo nel
frattempo comunque in vita gli enti e garantendo il relativo personale
impiegatizio. Per quanto riguarda la Sardegna, in seguito all'esito
dei referendum del 2012 si tentò di avviare un processo di riorganizzazione
amministrativa, ma la delibera del Consiglio regionale del 24 maggio 2012 rimase
disattesa, mentre la successiva del 27 febbraio 2013 portò solo al
commissariamento delle quattro nuove province a far data dal 30 giugno
2013. L'amministrazione regionale ha poi annullato le elezioni provinciali
previste nel 2015, prevedendo una gestione commissariale fino alla fine
dell'anno. In Sicilia solo con la legge regionale n.15 del 4 agosto 2015 si
approva l'eliminazione delle province e la loro sostituzione con sei liberi
consorzi comunali e le tre città metropolitane di Palermo, Catania e Messina,
che mantengono territorio e funzioni delle vecchie province regionali, mentre i
commissari nel novembre 2015 sono ulteriormente prorogati fino al giugno 2016.
Evoluzione territoriale
Regno d'Italia
Le province del Regno d'Italia, in numero di 69 nel cinquantennio compreso tra
la presa di Roma e la vittoria italiana nella Prima guerra mondiale.
Alla proclamazione del Regno d'Italia nel 1861, le province dello Stato erano
solamente 59, e il territorio nazionale non comprendeva né l'odierno Veneto con
la parte orientale del Mantovano, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto
Adige che erano ancora parte dell'Impero Asburgico, né il Lazio che era rimasto
allo Stato Pontificio. Molte province vennero istituite o riformate dalle
amministrazioni transitorie filosabaude, altre passarono direttamente dai
governi preunitari al nuovo Stato, esistendo dunque praeter legem: tutti i
capoluoghi, con l'unica particolare eccezione di Porto Maurizio, erano stati
comunque elevati a tale rango decenni se non secoli prima dell'unificazione
nazionale. In Lombardia il decreto Rattazzi rettificò una compartimentazione
provinciale che affondava le sue radici nel Medioevo, in Emilia il
dittatore Carlo Farini emanò i decreti n. 79 e n. 81 che ridussero il
frazionamento del territorio e standardizzarono i poteri delle province.
In Toscana l'ordinamento granducale passò tale e quale sotto il nuovo regime, e
nel sud Italia il generale Garibaldi si limitò a sostituire le autorità
borboniche, lasciando intatte le 22 province del precedente regno. Solo nel
Mezzogiorno continentale fu creata ex novo la provincia di Benevento.
Il primo decennio del Regno vide stabilizzarsi la configurazione delle province.
Nel 1865 il capoluogo della provincia di Noto fu riportato a Siracusa,
trasformandola nella moderna provincia di Siracusa, mentre venne rettificato il
confine fra le province di Modena e di Massa-Carrara nella zona
della Garfagnana. Nel 1866, a seguito della Terza guerra d'indipendenza, vennero
annessi i territori del Veneto dell'epoca, precedentemente appartenenti
all'Impero austriaco, con l'inglobamento delle previgenti e immutate nove
province asburgiche di Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona,
Vicenza, Udine e Mantova, quest'ultima restaurata nei suoi confini storici nel
1868. Infine, nel 1870, a seguito dell'annessione della futura capitale, venne
istituita la provincia di Roma, portando il numero complessivo di province nel
Regno a 69. La suddivisione territoriale così stabilizzatasi perdurò per mezzo
secolo.
La vittoria nella Prima guerra mondiale e l'avvento del fascismo comportarono
nuove evoluzioni della geografia amministrativa italiana. Immediatamente dopo
la marcia su Roma, il duce impose la riorganizzazione dei territori annessi e
che i liberali avevano mantenuto sotto la vecchia legislazione asburgica: nel
gennaio del 1923 vennero così istituite le nuove province di Pola, di
Trieste, di Zara e di Trento. Al contempo, si incominciò a ridisegnare anche il
vecchio territorio nazionale: dapprima fu espansa la provincia di Forlì, terra
natale di Mussolini, a discapito di quella di Firenze, poi la ricerca di maggior
prestigio per la capitale fece spostare l'area di Rieti dalla provincia di
Perugia a quella di Roma, quindi esigenze di modernità legate alla costruzione
di nuove strade consigliarono di sopprimere il circondario di Bobbio modificando
il confine fra la provincia di Pavia e quelle di Piacenza e di Genova a favore
di queste ultime, mentre fu conforme ai progetti di espansione marittima
del duce l'istituzione per scorporo delle nuove province di Taranto e della
Spezia. Si spostò la Garfagnana nella provincia di Lucca staccandola da
quella di Massa, mentre vennero apportati anche mutamenti lessicali:
la provincia di Porto Maurizio venne ridenominata provincia di Imperia. L'anno
successivo poi, nel 1924, dopo la firma del Trattato di Roma con la Jugoslavia,
fu istituita la Provincia di Fiume, portando il numero delle province a 76. Il
1925 segnò invece, sempre in ossequio alla vocazione marinara del regime, la
trasformazione della provincia di Livorno, fino ad allora limitata al solo
capoluogo e all'Elba, che venne rivoluzionata annettendole il comune insulare di
Capraia e soprattutto un ampio territorio costiero distaccato dalla provincia di
Pisa, a sua volta parzialmente indennizzata con alcuni comuni presi da Firenze.
Una volta divenuto regime, il fascismo procedette a un più radicale riordino
delle circoscrizioni provinciali, partendo dalla decisione di abolire
i circondari. Se molti sub capoluoghi furono ridotti a semplici comuni, quelli
più popolosi vennero al contrario elevati al rango di capoluoghi a tutto tondo.
Nel 1927 fu dunque emanato un decreto per l'istituzione di ben 17 nuove
province: Aosta, Bolzano, Brindisi,
Castrogiovanni, Frosinone, Gorizia, Matera, Nuoro, Pescara, Pistoia,
Ragusa, Rieti, Savona, Terni, Varese, Vercelli e Viterbo. Significativo del
mutato quadro politico fu il caso di Gorizia: se quattro anni prima, in regime
di democrazia, la città giuliana era stata degradata dal giovane governo
Mussolini per impedire la formazione di un'amministrazione locale a guida slava,
ora il nuovo quadro autoritario permetteva, e anzi richiedeva, di restaurare il
capoluogo isontino per facilitare un più particolareggiato controllo del
territorio in un'area con una forte componente etnica non latina, come
d'altronde accadde anche a Bolzano. Lo stesso decreto si caratterizzò per essere
l'unico nella storia d'Italia nel quale il legislatore procedette
volontariamente alla soppressione di una provincia: si trattò della provincia di
Terra di Lavoro, la più estesa del regno: essa fu spartita fra quelle confinanti
a particolare vantaggio della provincia di Napoli, sempre in ossequio al favore
che il duce aveva espresso per i capoluoghi portuali.
Il decreto del 1927 fu esplicitamente dichiarato perfettibile in attesa dei
risultati del successivo censimento. In realtà, a parte i quasi immediati
mutamenti puramente lessicali di Girgenti ribattezzata Agrigento e di
Castrogiovanni ridenominata Enna, e alcuni ritocchi confinari secondari, la
prima vera integrazione si ebbe solo nel 1934 con la propagandistica fondazione
della provincia di Littoria sulle terre pontine appena bonificate, mentre le
annunciate esigenze statistiche furono applicate unicamente nel 1935 con il
distacco della provincia di Asti da quella di Alessandria. Seguirono poi solo
altre reintitolazioni nel 1938, quando Massa e Carrara venne
denominata Apuania e, pochi mesi dopo, Aquila degli Abruzzi divenne L'Aquila.
La Seconda guerra mondiale portò il territorio amministrativo italiano alla sua
massima estensione. L'attacco alla Jugoslavia nel 1941, con il conseguente
smembramento del Paese, comportò l'istituzione nell'odierna parte centrale
della Slovenia della provincia di Lubiana, portando le province del regime a un
totale di 95. Il fascismo aveva inoltre già abbozzato nuovi enti nei territori
coloniali e in quelli appena conquistati, ma il progetto non arrivò mai al suo
definitivo completamento per la mancata estensione del diritto
amministrativo metropolitano in quelle zone, ossia la Libia che nel 1939 era
stata suddivisa in quattro commissariati provinciali, e la Dalmazia che nel 1941
era stata inclusa in un governatorato comprendente tre province, tra cui quella
preesistente di Zara.
L'armistizio di Cassibile invertì la tendenza all'aumento del numero delle
province, dato che il confine orientale subì sempre più la pressione delle
armate partigiane di Tito. Le intenzioni del comandante jugoslavo erano
esplicitamente rivoluzionarie e volte alla cancellazione immediata di ogni
istituzione italiana, compresi gli enti locali, senza attendere gli atti
di diritto internazionale. La prima a cadere, il 31 ottobre 1944, fu Zara, che
venne convertita in soli due giorni in
un'amministrazione croata e sovietica. Molto più ampia fu però l'invasione
immediatamente seguente alla fine della guerra nel maggio del 1945, quando
la Venezia Giulia presa dai titini venne spogliata di ogni autorità italiana e
sottoposta a neoeletti consigli popolari i cui ambiti geografici ricalcavano
piuttosto l'antica suddivisione austro-ungarica. La conclusione del
conflitto nel 1945 comportò per opportunità la modifica del nome di due
province, quella di Littoria che diventò di Latina, e poco dopo quella di
Apuania che ridivenne di Massa-Carrara fissandone il capoluogo in Massa, mentre
venne istituita la nuova provincia di Caserta, che ereditò solo in parte il
territorio della provincia di Terra di Lavoro sacrificata dal regime.
Con il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 venne ratificata la
perdita delle province di Pola, Fiume e Zara, nonché di gran parte del
territorio di quelle di Gorizia e Trieste, mentre il nucleo centrale di
quest'ultima venne staccato dall'Italia e trasformato nel Territorio Libero di
Trieste sottoposto al Governo Militare Alleato. A quel punto la zona
di Monfalcone, rimasta orfana del capoluogo provinciale, fu aggregata su ordine
prefettizio alla provincia di Gorizia. Dal lato francese la provincia di
Cuneo perse un comune. La nuova Italia repubblicana scese così a un totale di 91
province. Nel 1948, con la creazione della regione Trentino-Alto Adige, fu
ridefinito il confine fra la provincia di Bolzano e quella di Trento a favore
della prima.
I primi vent'anni della Repubblica Italiana videro la geografia provinciale
rimanere immutata fatta salva, a seguito del Memorandum di Londra del 1954, la
reintegrazione nel territorio nazionale di ciò che era rimasto della provincia
di Trieste. La prima novità giunse solo nel 1968, quando venne istituita
la provincia di Pordenone, cui seguirono nel 1970 la provincia di Isernia e nel
1974 la provincia di Oristano.
Trasformazioni dal 1992
L'incremento divenne più sostanziale nel 1992 quando, nell'ambito dei tentativi
di reagire alle accuse di immobilismo politico di quel periodo, il Parlamento
votò la creazione di ben otto nuove
province: Biella, Crotone, Lecco, Lodi, Prato, Rimini, Verbano-Cusio-Ossola e Vibo
Valentia.
Contestualmente Forlì venne rinominata Forlì-Cesena. Le nuove amministrazioni
però si attivarono concretamente solo nel 1995, in seguito al regolare
appuntamento elettorale.
Nel 2001 la regione a statuto speciale della Sardegna istituì quattro province
poi divenute operative nel 2005, Olbia-Tempio, Ogliastra, Medio
Campidano e Carbonia-Iglesias, contestualmente ridefinendo i confini delle
province esistenti: per la prima volta nella storia d'Italia venivano create
province tramite legge regionale, dando luogo a un non facile coordinamento con
la legislazione nazionale che non le riconosceva. Nel frattempo, nel 2004, il
Parlamento istituì le 3 province di Monza e Brianza, di Fermo e
di Barletta-Andria-Trani, che divennero poi operative nel 2009 portando il
numero complessivo delle province geografiche a 110.
Nel 2016 la Sardegna è riuscita a recepire l'esito del referendum regionale del
2012 che aveva stabilito l'abolizione delle quattro province istituite
nell'isola nel 2001. Avendo tuttavia contestualmente istituito la Città
metropolitana di Cagliari aggregando, unico caso in Italia nello spirito
originario dell'idea di città metropolitana generata nel 1990, solo i comuni
conurbati con il capoluogo e non tutta la ex provincia, i restanti comuni
dell'anello esterno della provincia cagliaritana sono stati fusi con le altre
province confinanti per dare vita alla provincia del Sud Sardegna. Il risultato
complessivo è stato la diminuzione di tre unità delle province italiane, per la
prima volta nella storia repubblicana per effettiva soppressione degli enti e
non per trasformazione istituzionale o cessione a Stati esteri.
Nel 2017 la regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia, nell'ambito della
propria riorganizzazione amministrativa, ha provveduto a sopprimere le tre
province di Trieste, Gorizia e Pordenone, mentre nel corso del 2018 è stata
soppressa anche l'ultima provincia di Udine. Poteri e competenze intercomunali
sono stati ripartiti tra la regione e 18 Unioni Territoriali
Intercomunali (UTI), poi anch'esse abrogate nel 2019 e sostituite nel 2020 da
quattro enti di decentramento regionale (EDR), che ricalcano i confini delle
quattro province storiche.
Descrizione. Organizzazione amministrativa
L'organizzazione amministrativa di una provincia è fissata dalla legge 7 aprile
2014, n. 56.
Il presidente, eletto dagli amministratori comunali del territorio tra i Sindaci
dei vari Comuni della provincia, è la massima carica nella stessa, e ha potere
esecutivo. Il mandato dura 5 anni, fatte salve le dimissioni o il decesso.
Il consiglio provinciale, organo collegiale di indirizzo e controllo, con
funzioni di approvazione del bilancio, delle delibere e dei provvedimenti
amministrativi, è composto da consiglieri in rappresentanza dei sindaci e dei
consiglieri dei comuni del territorio. Altra figura chiave è quella
del segretario provinciale.
La legge 56/14 ha introdotto tra gli organi di governo della provincia anche
l'assemblea dei sindaci, composta da tutti i sindaci dei comuni del territorio,
con funzioni propositive, di indirizzo e di controllo.
Funzioni
Anni 1990
Negli anni 1990 il legislatore si era impegnato in un rilancio dell'istituto
provinciale, le cui funzioni erano state compresse dopo l'entrata in funzione
delle 15 regioni a statuto ordinario (1970). Il decreto legislativo n. 112/1998
aveva pertanto trasferito alle province competenze prima spettanti allo Stato o
alle regioni, in adesione al principio di sussidiarietà, fra le quali spiccavano
quelle in materia di:
definizione e rispetto del bilancio provinciale annuale
protezione civile (attuazione dei piani regionali, predisposizione dei piani
provinciali prima spettanti alla Prefettura);
scuola e istruzione (istituzione e soppressione di scuole, organizzazione della
rete scolastica; edifici scolastici);
risparmio e rendimento energetico;
trasporti (molte competenze furono ereditate dalla Motorizzazione civile);
autoscuole (autorizzazioni, vigilanza, consorzi, esami di idoneità per gli
insegnanti);
imprese di revisione e riparazione di autoveicoli;
rilascio di licenze per autotrasporto e albi provinciali degli
autotrasportatori;
industria;
lavoro e centri per l'impiego (ex uffici di collocamento di competenza
del Ministero del lavoro).
Anni 2000
In base all'art. 19 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, il "Testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali" (TUEL), spettavano alla
provincia le funzioni amministrative che riguardavano vaste zone intercomunali o
l'intero territorio provinciale nei seguenti settori:
difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione
delle calamità;
tutela e valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche;
valorizzazione dei beni culturali;
viabilità e trasporti;
protezione della flora e della fauna, parchi e riserve naturali;
caccia e pesca nelle acque interne;
organizzazione dello smaltimento dei rifiuti a livello provinciale, rilevamento,
disciplina e controllo degli scarichi delle acque e delle emissioni atmosferiche
e sonore;
servizi sanitari, di igiene e profilassi pubblica, attribuiti dalla legislazione
statale e regionale;
compiti connessi alla istruzione secondaria di secondo grado e artistica, nonché
alla formazione professionale - compresa l'edilizia scolastica - attribuiti
dalla legislazione statale e regionale;
raccolta ed elaborazione dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti
locali.
Ulteriore specifico compito delle Province era quello della programmazione,
previsto dall'art. 20 del TUEL, che si svolgeva secondo le norme dettate dalla
legge regionale, mentre era la stessa Provincia a predisporre e ad adottare il
piano di coordinamento che determinava gli indirizzi generali di assetto del
territorio, la localizzazione delle maggiori infrastrutture e delle principali
vie di comunicazione, gli obiettivi e i modi di intervento per la sistemazione
idrica, idrogeologica e idraulico-forestale. Era la provincia, quindi, che aveva
la funzione di accertare la compatibilità degli strumenti di pianificazione
territoriale predisposti dai Comuni, con le previsioni contenute nel piano
territoriale di coordinamento.
Anni 2010
Gli anni 2010 segnarono una radicale inversione di tendenza nel senso di uno
svuotamento dei poteri delle province e il trasferimento di competenze e
organici alle regioni.
In base alla legge n. 56 del 7 aprile 2014 rimangono funzioni delle province:
la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché la tutela e
valorizzazione dell'ambiente provinciale;
la pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione
e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione
regionale, nonché la costruzione e gestione delle strade provinciali e la
regolazione della circolazione stradale inerente;
la programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della
programmazione regionale;
la gestione dell'edilizia scolastica;
la raccolta ed elaborazione di dati, assistenza tecnico-amministrativa agli enti
locali;
il controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e la promozione
delle pari opportunità;
la polizia provinciale, opera ai sensi del D.L. n. 78/2015 modificato e
convertito in legge nº 125 del 6 agosto 2015, all'art. 5 "misure in materia di
polizia provinciale". I corpi o servizi di polizia provinciale esercitano
compiti di polizia amministrativa, giudiziaria, stradale, ambientale, edilizia,
ittica-venatoria, demaniale, protezione civile. La Polizia provinciale può
esercitare funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza, sotto le direttive
operative dell'autorità provinciale di pubblica sicurezza. I poliziotti
provinciali, secondo i dati forniti dal Ministero degli Interni, al 31 dicembre
2011 erano 2.769 unità. Si tratta di un organismo specializzato, inquadrato nel
contesto normativo della polizia locale. Negli ultimi anni ha notevolmente
aumentato l'attività in diversi settori e ambiti operativi, con numerosissime
operazioni e indagini di polizia, contribuendo concretamente al controllo,
difesa e sicurezza del territorio sotto vari aspetti, specie nelle zone più
periferiche;
le relazioni con gli enti locali confinanti per le province poste sul confine di
Stato;
la cura dello sviluppo strategico del territorio e gestione di servizi in forma
associata per le province montane;
la provincia può, d’intesa con i comuni, esercitare le funzioni di
predisposizione dei documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio
dei contratti di servizio e di organizzazione di concorsi e procedure selettive.
Le funzioni rimosse dalla competenza provinciale passano alle regioni, che
devono tuttavia accettarle addossandosi il relativo personale e i connessi oneri
di bilancio.
Di fatto, la legge n. 56 del 2014 prevedeva un sostanziale svuotamento dei
poteri dell'ente provinciale a vantaggio delle regioni; tale processo sarebbe
stato portato a compimento dalla riforma costituzionale Renzi-Boschi, che
prevedeva un'abolizione totale dell'ente. Tuttavia, tale riforma fu respinta
dall'esito del referendum costituzionale del 2016, quindi le province
sopravvissero nella forma appena descritta.
Anni 2020
Nell'attuale XIX legislatura, determinata dalle elezioni politiche del 2022,
sono stati depositati disegni di legge per reintrodurre l'elezione diretta dei
consigli e dei presidenti delle province che era stata abolita nel 2014.
Assetto istituzionale
Periodo 1993-2014
La legge n. 81 del 25 marzo 1993 aveva stabilito l'elezione popolare diretta dei
presidenti delle province italiane, ricorrendo a un eventuale turno
di ballottaggio qualora nessun candidato avesse raggiunto la maggioranza
assoluta dei consensi. La durata in carica del presidente, originariamente
fissata in quattro anni, fu prolungata a cinque, e l'intero sistema normativo
venne consolidato nel Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, il D. Lgs. n. 267 del 2000. In qualunque caso di morte, dimissioni,
sospensione, sfiducia o decadenza del presidente, si procedeva all'indizione di
nuove elezioni provinciali e, nel caso di crisi politica, alla gestione
provvisoria dell'ente da parte di un commissario nominato dal prefetto.
Contestualmente alla scelta del presidente, si tenevano le elezioni del
Consiglio Provinciale, sul principio del governo di legislatura.
I consiglieri, in numero variabile da 24 a 45 secondo l'entità della
popolazione, erano eletti con un particolare sistema elettorale proporzionale
con premio di maggioranza. L'elettore poteva tracciare sulla scheda elettorale,
di colore giallo, un segno su un candidato presidente e su un candidato
consigliere che lo sosteneva. Alla coalizione collegata al presidente eletto
veniva comunque garantito almeno il 60% dei seggi consiliari; tenuta presente
questa clausola, i seggi venivano ripartiti in maniera proporzionale con metodo
D'Hondt sulla base dei voti conseguiti dalle varie coalizioni, e in seconda
istanza dalle singole liste, nella circoscrizione unica provinciale. I candidati
si presentavano però in collegi uninominali e, determinato il numero di seggi
assegnati a ciascuna lista, venivano dichiarati eletti coloro che, all'interno
della stessa, avessero ottenuto le maggiori percentuali di voto nel proprio
collegio.
Dopo la Riforma Delrio
Con la legge nº 56 del 7 aprile 2014, le province delle regioni ordinarie sono
state trasformate in enti amministrativi di secondo livello con elezione dei
propri organi a suffragio ristretto, ed è stata prevista la trasformazione di
dieci province in città metropolitane. La legge in oggetto ha abolito la Giunta
provinciale, redistribuendo le deleghe di governo all'interno del Consiglio
provinciale, molto ridimensionato nel numero dei suoi membri, e introducendo
così un'inedita forma di governo presidenziale pura, del tutto nuova alla vita
politica italiana repubblicana. Un nuovo organo, l'Assemblea dei sindaci, assume
il compito di deliberare il bilancio ed eventuali modifiche statutarie. Sono
previste inoltre forme particolari di autonomia per le province montane,
individuate con legge regionale.
In Sicilia le province sono state commissariate da due anni, in attesa di un
progetto di riforma, così come accaduto con le nuove province sarde, abolite per
referendum popolare. Nel 2015 vengono istituiti sei liberi consorzi comunali e
le città metropolitane di Palermo, Catania e Messina, senza peraltro staccarsi
dalla normativa nazionale e limitandosi a puri mutamenti lessicali. Solo in
Sardegna la creazione della città metropolitana di Cagliari fu un atto di
autentica riforma, applicando il nuovo ente alla sola conurbazione del capoluogo
così come concepito dal legislatore del 1990.
Norme del tutto diverse invece regolano la vita istituzionale nelle comunità
autonome di Aosta, Bolzano e Trento.
In Friuli-Venezia Giulia, a seguito di una modifica dello statuto speciale della
regione, venne votata una riforma che prevedeva l'abolizione delle province man
mano che sarebbero giunti a scadenza i rispettivi consigli provinciali.
Numerosità dei consigli e delle giunte
Fino all'entrata in vigore della legge Delrio, secondo gli articoli 37 e 47 del
decreto legislativo n. 267/2000 (Testo unico degli enti locali) modificato
dall'art. 2, comma 23, della legge n. 244/2007 e sottoposto alla legge n.
191/2009, la consistenza numerica dei consigli provinciali nelle regioni
ordinarie era definita in base al numero di abitanti come sotto riportato.
La Sicilia e la Sardegna applicavano tali leggi solo nella misura prevista dalle
rispettive normative regionali. Leggi costituzionali specifiche regolano invece
le tre entità sui generis della Provincia autonoma di Trento, della Provincia
autonoma di Bolzano e della Valle d'Aosta, che eleggono consigli di 35 membri.
Con l'entrata in vigore della legge Delrio nelle regioni a statuto ordinario,
gli assessori provinciali sono stati aboliti, e il consiglio provinciale si
compone del Presidente della provincia e di un numero variabile di consiglieri,
in funzione del numero degli abitanti:
16 consiglieri nelle province con più di 700 000 abitanti;
12 consiglieri nelle province intermedie;
10 consiglieri nelle province con meno di 300 000 abitanti.
Suddivisione amministrativa
Le "province" italiane a livello amministrativo sono 100 più due:
76 province vere e proprie;
6 liberi consorzi comunali (Sicilia);
4 enti di decentramento regionale (Friuli Venezia-Giulia);
14 città metropolitane membri dell'UPI;
2 province autonome (Trentino-Alto Adige);
mentre sono 5 le suddivisioni di livello provinciale a fini statistici.
Per la Valle d'Aosta le competenze provinciali vengono espletate dalla regione,
per cui non esiste una separata amministrazione provinciale.
Le province autonome di Bolzano e Trento hanno competenze di tipo provinciale e
regionale, e quindi vengono solitamente considerate pari alle regioni. Esse
possiedono ciascuna un Consiglio provinciale eletto dai cittadini, e l'unione
dei due consigli costituisce il Consiglio regionale del Trentino-Alto Adige. Non
sono membri dell'UPI.
La Sardegna si è ristrutturata nel 2016 su quattro province e una città
metropolitana, quest'ultima concepita nel vero spirito dell'ente, ossia
includendovi solo i comuni agglomerati con il capoluogo. Negli ambiti delle
province soppresse - rinominate zone omogenee - è comunque garantito l'esercizio
autonomo delle funzioni provinciali e l'erogazione dei relativi servizi, sia
pure formalmente nell'ambito delle nuove suddivisioni provinciali, fino alla
definitiva soppressione di tutte le province.
In ottemperanza allo Statuto regionale le nove circoscrizioni provinciali
della Sicilia avrebbero già dovuto essere sostituite con legge regionale n.
9/1986 da un pari numero di province regionali formate come liberi consorzi
comunali. Se tale operazione fu all'epoca un esercizio puramente lessicale, tale
riforma è divenuta effettivamente concreta solo nel 2013, quando l'Assemblea
regionale siciliana ha deliberato lo scioglimento dei consigli provinciali e
delle relative giunte, commissariando gli enti da luglio e prevedendo la nomina
dei nuovi presidenti da parte dei comuni dal 2014, termine poi spostato al 2015,
poi al 2016 e finalmente al 2018.
Nella regione autonoma Friuli-Venezia Giulia sono state abolite le 4 province
presenti nel territorio: Gorizia, Pordenone e Trieste il 30 settembre 2017, dopo
la liquidazione avviata il 1º gennaio 2017 e Udine, liquidata nel corso del
2018. Le funzioni provinciali sono state prima trasferite in capo alla regione,
ai comuni o alle UTI, poi agli enti di decentramento regionale entrati in
funzione il 1º luglio 2020.
I capoluoghi provinciali italiani sono 111
a fronte di 107 suddivisioni di livello provinciale (province, città
metropolitane, liberi consorzi comunali ed enti di decentramento regionale),
poiché vi è una provincia con tre capoluoghi (Barletta-Andria-Trani) e due
(Provincia di Pesaro e Urbino e Provincia di Forlì-Cesena) con due capoluoghi.
Anche a seguito della soppressione delle province in Friuli-Venezia Giulia, i
comuni di Trieste, Pordenone, Gorizia e Udine mantengono comunque le prerogative
connesse alla qualificazione di "capoluogo di provincia". Aosta, oltre che
capoluogo regionale, è considerata nelle statistiche anche come capoluogo
provinciale in quanto la regione vi svolge anche tali funzioni. Sette province
sono ufficialmente bilingui: totalmente (ovvero, dal punto di vista legale,
nella totalità dei loro comuni) Bolzano e Aosta, e parzialmente (ovvero solo in
alcuni comuni) Trento, Trieste, Gorizia, Pordenone e Udine. Vi risiedono
minoranze di lingua: tedesca (Bolzano e Udine), slovena (Trieste, Gorizia e
Udine), ladina e friulana (Bolzano, Trento, Udine e Gorizia), francese (Valle
d'Aosta). Tutte queste minoranze linguistiche sono tutelate da apposite leggi
regionali e provinciali. A differenza dalle altre province italiane, qui i
comuni emettono carte d'identità bilingui.
Denominazione delle province
La denominazione delle province in Italia è per la maggior parte quella del
capoluogo, con alcune eccezioni.
Tre province hanno doppia denominazione: Forlì-Cesena, Massa e Carrara e Pesaro
e Urbino. Dopo oltre un secolo e mezzo di ambiguità dovuta alla sua origine
antecedente allo Stato unitario, nel 2022 Pesaro e Urbino ha chiarito nel suo
statuto di avere due co-capoluoghi nei comuni di Pesaro e di Urbino, mentre il
caso analogo di Massa e Carrara era stato risolto a favore di Massa da un
decreto luogotenenziale del 1946, e l'onorifica ridenominazione
di Forlì-Cesena nel 1992 non ha intaccato il capoluogo singolo in Forlì, fino al
30 gennaio del 2024, quando Cesena è diventata co-capoluogo.
Due province hanno una tripla denominazione: Barletta-Andria-Trani, cui
corrisponde l'unico caso di multiplo capoluogo, e Verbano-Cusio-Ossola con il
capoluogo singolo Verbania.
Tre province hanno una denominazione almeno parzialmente geografica: Sud
Sardegna, Verbano-Cusio-Ossola e Monza e Brianza.
Capitanata è usato come sinonimo istituzionalmente riconosciuto della provincia
di Foggia.
Dieci città metropolitane
Gli organi della città metropolitana sono:
il sindaco metropolitano:
è di diritto il sindaco del comune capoluogo.
il consiglio metropolitano:
è composto dal sindaco metropolitano e da un numero di consiglieri variabile in
base alla popolazione residente (minimo 14 e massimo 24 consiglieri).
la conferenza metropolitana:
è composta dal sindaco metropolitano, che la convoca e presiede, e dai sindaci
dei comuni della città metropolitana.
Città metropolitana.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La città metropolitana è uno degli enti locali territoriali presenti
nella Costituzione italiana, all'articolo 114, dopo la riforma del 2001 (legge
costituzionale nº 3/2001).
La legge del 7 aprile 2014, nº 56 recante "Disposizioni sulle città
metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni" ne disciplina
l'istituzione in sostituzione alle province, come ente di area vasta, per quanto
riguarda le regioni a statuto ordinario.
Tali enti sono istituiti anche nelle regioni a statuto
speciale di Sardegna e Sicilia.
Storia legislativa
La città metropolitana è un ente locale previsto per la prima volta dalla legge
8 giugno 1990, nº 142 (artt. 17-21) sulla riforma dell'ordinamento degli enti
locali. All'interno di questa norma, si individuavano nove aree
metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma,
Bari, Napoli), ove avrebbero dovuto essere istituiti due livelli di
amministrazione locale: la città metropolitana e i comuni. Venivano anche
indicati come organi della città metropolitana il consiglio, la giunta e il
sindaco metropolitano. Si stabiliva, infine, che le nuove delimitazioni
amministrative delle città metropolitane sarebbero state individuate entro un
anno dall'approvazione della legge.
Tale scadenza fu posticipata più volte e in quest'ottica intervenne anche la
legge nº 463 del 1993, che introdusse inoltre un carattere facoltativo alla
riforma istituzionale modificando l'espressione originale “procede” con la
dicitura “può procedere”. Con la legge nº 265 del 1999, accolta successivamente
nel Testo Unico degli Enti Locali, si tentò di accelerare il processo di
costituzione delle città metropolitane. Nel 2001, con la riforma del titolo V
della Costituzione (legge costituzionale nº 3/2001), la riforma metropolitana
acquisì dignità costituzionale a seguito della modifica dell'art. 114, che
include le città metropolitane tra gli enti territoriali che costituiscono
la Repubblica Italiana.
Nel 2007 il governo Prodi II approvò un disegno di legge-delega (per la
redazione della Carta delle autonomie locali), che avrebbe dovuto abrogare il
d.lgs. nº 267/2000, recante il Testo unico sull'Ordinamento degli Enti locali,
il quale a sua volta raccoglieva in un unico testo la fondamentale legge nº
142/1990, la prima che aveva previsto, tra le varie disposizioni, l'istituzione
delle città metropolitane. Secondo il predetto D.d.l., avrebbero potuto farne
parte le circoscrizioni del comune capoluogo, trasformate – ed eventualmente
accorpate – in municipi, nonché i comuni contermini strettamente integrati al
capoluogo. L'iniziativa della costituzione della città metropolitana spettava al
comune capoluogo o al 30% dei comuni della provincia o delle province
interessate, che rappresentassero il 60% della relativa popolazione, oppure a
una o più province insieme con il 30% dei comuni della provincia/e proponenti.
Sulla proposta la regione doveva esprimere un parere e successivamente sarebbero
stati chiamati a esprimersi anche i cittadini con un referendum, che non avrebbe
avuto un quorum se il parere della regione fosse stato favorevole, o del 30% in
caso contrario.
Il 5 maggio 2009 la legge-delega sul federalismo fiscale introdusse una
normativa transitoria per la prima istituzione delle città metropolitane,
delegando il governo ad adottare entro 36 mesi, ossia entro il maggio 2012, un
decreto legislativo per l'istituzione delle città metropolitane.
Fase istitutiva
Scaduto infruttuosamente tale termine, il governo Monti emanò
il decreto-legge sulla revisione della spesa pubblica, convertito in legge nº
135 il 7 agosto del 2012.
L'articolo 18 del decreto prevedeva l'istituzione, entro il 1º gennaio 2014, di
dieci città metropolitane nelle regioni ordinarie (vale a dire le nove
individuate già nel 1990, cui si aggiunse Reggio Calabria), con la contestuale
soppressione delle rispettive province. Un maxi-emendamento del governo alla
Legge di stabilità 2013 rimandò però di un anno le scadenze di attuazione
previste; nel febbraio 2013, inoltre, la relativa parte del decreto legge fu
dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale, per «violazione
dell'art. 77 Cost., in relazione agli artt. 117, 2° comma lett. p) e 133, 1°
comma Cost., in quanto il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi
straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per
realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme
censurate nel presente giudizio».
Per intervenire su questa materia, che riguarda enti previsti dalla
Costituzione, era dunque necessaria una legge o un decreto legislativo, e in
questo senso il governo Letta, il 26 luglio 2013, intervenne approvando un nuovo
disegno di legge (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle
unioni e sulle fusioni di comuni), che nel corso dell'iter parlamentare subì
diverse modifiche.
Sotto il governo Renzi la legge nº 56/2014 recante Disposizioni sulle città
metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni (detta anche
"legge Delrio" dal suo estensore Graziano Delrio, deputato PD e ministro per gli
affari regionali e le autonomie nel precedente governo Letta) venne pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale il 7 aprile 2014. La legge ha previsto nelle regioni a
statuto ordinario l'istituzione di 10 città metropolitane, identificando la loro
delimitazione territoriale con quella della relativa provincia contestualmente
soppressa. La medesima legge, inoltre, prevedeva la coincidenza automatica tra
la carica di sindaco metropolitano e quella di sindaco del comune capoluogo
(eletto solo dai cittadini del comune suddetto e non dell'intera città
metropolitana). A seguito del pronunciamento della Corte costituzionale, che nel
2021 aveva evidenziato l'incostituzionalità di tale misura, nel corso della XIX
legislatura (2022-in corso) è stato depositato un d.d.l. che preveda l'elezione
diretta tanto del sindaco metropolitano quanto del consiglio metropolitano.
Assetto istituzionale
Gli organi della città metropolitana sono:
il sindaco metropolitano:
è di diritto il sindaco del comune capoluogo. Ha la rappresentanza dell'ente,
convoca e presiede il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana,
sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli
atti ed esercita le funzioni attribuite dallo statuto; ha potere di proposta per
ciò che attiene al bilancio dell'ente;
il consiglio metropolitano:
è composto dal sindaco metropolitano e da un numero di consiglieri variabile in
base alla popolazione residente (minimo 14 e massimo 24 consiglieri). È un
organo elettivo di secondo grado, scelto con un sistema proporzionale per liste:
hanno diritto di elettorato attivo e passivo i sindaci e i consiglieri dei
comuni della città metropolitana. La cessazione dalla carica comunale comporta
la decadenza da consigliere metropolitano. Il Consiglio dura in carica cinque
anni: tuttavia, in caso di rinnovo del consiglio del comune capoluogo, si
procede comunque a nuove elezioni del consiglio metropolitano entro sessanta
giorni dalla proclamazione del sindaco. È l'organo di indirizzo e controllo,
approva regolamenti, piani, programmi e approva o adotta ogni altro atto ad esso
sottoposto dal sindaco metropolitano ed esercita le altre funzioni attribuite
dallo statuto; ha altresì potere di proposta sullo statuto e sulle sue modifiche
e poteri decisori finali per l'approvazione del bilancio.
la conferenza metropolitana:
è composta dal sindaco metropolitano, che la convoca e presiede, e dai sindaci
dei comuni della città metropolitana. È competente per l'adozione dello statuto
e ha potere consultivo per l'approvazione dei bilanci; lo statuto può
attribuirle altri poteri propositivi e consultivi.
Nelle regioni a statuto speciale
Ai sensi del rispettivo statuto di autonomia e dei loro aggiornamenti contenuti
nelle leggi costituzionali italiane, le cinque regioni a statuto speciale hanno
esclusiva competenza in materia dei propri enti locali. La legge Delrio 2014,
oltre alle disposizioni riguardanti le regioni a statuto ordinario, ha previsto
che anche le regioni a statuto speciale possano istituire città metropolitane
«in armonia coi rispettivi statuti speciali e nel rispetto della loro autonomia
organizzativa […] nei rispettivi capoluoghi di regione nonché nelle province già
all'uopo individuate come aree metropolitane dalle rispettive leggi regionali».
Delle cinque regioni a statuto speciale, Sicilia, Friuli-Venezia
Giulia e Sardegna (elencate in ordine cronologico in base alla prima normativa
in merito) hanno avviato diversi processi normativi volti all'istituzione di
città metropolitane (concretizzatisi però solo per Sicilia e Sardegna).
Unione di comuni.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
L'unione di comuni è un ente italiano disciplinato dal decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 267, che attua la legge 3 agosto 1999, n. 265, in particolare
dall'articolo 32. L'ente è costituito da due o più comuni per l'esercizio
congiunto di funzioni o servizi di competenza comunale. L'unione è dotata di
autonomia statutaria nell'ambito dei principi fissati dalla Costituzione e dalle
norme comunitarie, statali e regionali.
Il D.Lgs. 267/2000 la definisce come un ente locale, ma la sentenza della Corte
costituzionale n. 50 del 2015 precisa che si tratta di una forma istituzionale
di associazione tra comuni.
Alle unioni di comuni si applicano, per quanto compatibili, i princìpi previsti
per l'ordinamento dei comuni, con specifico riguardo alle norme in materia di
composizione e numero degli organi dei comuni, il quale non può eccedere i
limiti previsti per i comuni di dimensioni pari alla popolazione complessiva
dell'ente.
Il TAR del Lazio con la sua ordinanza n. 1027 del 20 gennaio 2017 ha rinviato
alla Corte costituzionale l'obbligo di esercizio associato delle funzioni per i
piccoli Comuni ritenendo non “manifestamente infondata” l'incostituzionalità di
quest'obbligo.
Ordinamento amministrativo. Scopo
I cinque commi dell'articolo 32 definiscono le unioni di comuni in maniera
sintetica e precisa, dando la massima flessibilità all'interno di poche regole
precise.
Nel primo comma si definisce l'unione come costituita da due o più comuni che
devono essere contigui con un obiettivo chiaro: "esercitare congiuntamente una
pluralità di funzioni di loro competenza". Ciò significa che i singoli comuni si
uniscono e trasferiscono alle unioni funzioni e servizi. Ciò implica che il
servizio o la funzione trasferita all'Unione viene sottratta alla titolarità
diretta del Comune, e rientra nella titolarità dell'Unione dei comuni. In ciò si
esprime una prima differenza rispetto alle semplici convenzione di gestione dei
servizi, in cui la titolarità del servizio permane in capo al comune
convenzionato, mentre il comune capofila semplicemente esercita lo stesso su
delega degli altri.
L'unione deve avere un atto costitutivo e uno statuto. Lo statuto deve avere
alcune caratteristiche:
deve essere approvato dai singoli consigli comunali con procedure e maggioranze
previste per le modifiche statutarie;
deve definire gli organi e le modalità per la loro costituzione;
definisce le funzioni svolte dall'unione e le risorse di finanziamento;
il presidente deve essere scelto fra i sindaci eletti;
gli altri organi previsti, quali la giunta esecutiva e il consiglio dell'unione,
devono essere composti da consiglieri o membri delle giunte con la presenza
delle minoranze;
L'unione decide al suo interno i regolamenti per la propria organizzazione ed i
rapporti con i singoli comuni. Il decreto conclude disponendo che le Unioni
seguono le regole ed i principi previsti per i comuni, evidenziando che i
componenti degli organi non possono eccedere le disposizioni relative ai comuni
con la popolazione complessiva delle amministrazioni locali associate. Ultimo,
ma fondante dei poteri delle unioni, è la destinazione di tutti gli introiti che
derivano da tasse, tariffe e contributi dovuti per i servizi trasferiti dai
comuni.
Consorzi
Articolo 31 Testo unico degli enti locali (TUEL) (D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267)
1. Gli enti locali per la gestione associata di uno o più servizi e l'esercizio
associato di funzioni possono costituire un consorzio secondo le norme previste
per le aziende speciali di cui all'articolo 114, in quanto compatibili. Al
consorzio possono partecipare altri enti pubblici, quando siano a ciò
autorizzati, secondo le leggi alle quali sono soggetti.
2. A tal fine i rispettivi consigli approvano a maggioranza assoluta dei
componenti una convenzione ai sensi dell'articolo 30, unitamente allo statuto
del consorzio.
3. In particolare la convenzione deve disciplinare le nomine e le competenze
degli organi consortili coerentemente a quanto disposto dai commi 8, 9 e 10
dell'articolo 50 e dell'articolo 42, comma 2, lettera m), e prevedere la
trasmissione, agli enti aderenti, degli atti fondamentali del consorzio; lo
statuto, in conformità alla convenzione, deve disciplinare l'organizzazione, la
nomina e le funzioni degli organi consortili.
4. Salvo quanto previsto dalla convenzione e dallo statuto per i consorzi, ai
quali partecipano a mezzo dei rispettivi rappresentanti legali anche enti
diversi dagli enti locali, l'assemblea del consorzio è composta dai
rappresentanti degli enti associati nella persona del sindaco, del presidente o
di un loro delegato, ciascuno con responsabilità pari alla quota di
partecipazione fissata dalla convenzione e dallo statuto.
5. L'assemblea elegge il consiglio di amministrazione e ne approva gli atti
fondamentali previsti dallo statuto.
6. Tra gli stessi enti locali non può essere costituito più di un consorzio.
7. In caso di rilevante interesse pubblico, la legge dello Stato può prevedere
la costituzione di consorzi obbligatori per l'esercizio di determinate funzioni
e servizi. La stessa legge ne demanda l'attuazione alle leggi regionali.
8. Ai consorzi che gestiscono attività di cui all'articolo 113 bis, si applicano
le norme previste per le aziende speciali.
Ex Legge nº 142/1990.
Il decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (anche Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali; abbreviato TUEL o anche TUOEL)
Convocazione della prima seduta del consiglio
Dispositivo dell'art. 40 TUEL
1. La prima seduta del consiglio comunale e provinciale deve essere convocata
entro il termine perentorio di dieci giorni dalla proclamazione e deve tenersi
entro il termine di dieci giorni dalla convocazione.
2. Nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, la prima seduta, è
convocata dal sindaco ed è presieduta dal consigliere anziano fino alla elezione
del presidente del consiglio. La seduta prosegue poi sotto la presidenza del
presidente del consiglio per la comunicazione dei componenti della giunta e per
gli ulteriori adempimenti. È consigliere anziano colui che ha ottenuto la
maggior cifra individuale ai sensi dell'articolo 73 con esclusione del sindaco
neoeletto e dei candidati alla carica di sindaco, proclamati consiglieri ai
sensi del comma 11 del medesimo articolo 73.
3. Qualora il consigliere anziano sia assente o rifiuti di presiedere
l'assemblea, la presidenza è assunta dal consigliere che, nella graduatoria di
anzianità determinata secondo i criteri di cui al comma 2, occupa il posto
immediatamente successivo.
4. La prima seduta del consiglio provinciale è presieduta e convocata dal
presidente della provincia sino alla elezione del presidente del consiglio.
5. Nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, la prima seduta del
consiglio è convocata e presieduta dal sindaco sino all'elezione del presidente
del consiglio.
6. le disposizioni di cui ai commi 2, 3, 4, 5 si applicano salvo diversa
previsione regolamentare nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto.
Il Consiglio comunale è organo di governo del Comune insieme alla Giunta e al
Sindaco.
Il Consiglio comunale è il massimo organo rappresentativo della comunità locale
ed espressivo della domanda sociale.
E’ l’organo di indirizzo di controllo politico-amministrativo dell’ente locale,
espressivo della domanda sociale e interprete permanente della volontà popolare.
Il circuito istituzionale delle competenze, l’equilibrio armonico dei poteri di
tali organi di governo, il bilanciamento dei pesi e dei contrappesi, assicurano
una dialettica collaborativa e non competitiva tra i vari organi nell’ottica
della buona amministrazione e del perseguimento dell’interesse della comunità
locale.
In linea generale, mentre al Sindaco e alla Giunta (l’Esecutivo) spettano i
poteri di amministrazione, al Consiglio comunale competono gli atti fondamentali
di indirizzo, programmazione e pianificazione, di controllo e di verifica.
Dunque, il Consiglio comunale è l’organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo dell’ente locale. La funzione di indirizzo consiste
nella partecipazione del Consiglio alla definizione dei fini
politico-amministrativi dell’ente che, costituendo i criteri guida dell’azione
politica e gestionale del Comune, di fatto vincolano il Sindaco, il Presidente,
gli Assessori, i dirigenti e i responsabili dei servizi. La funzione di
controllo si concretizza nel monitoraggio dell’attività degli organi politici e
burocratici al fine di accertarne la congruità all’indirizzo
politico-amministrativo dell’ente.
Il Consiglio gode di una ampia autonomia organizzativa, funzionale, gestionale e
contabile. La competenza del Consiglio comunale non è di carattere generale, ma
risulta limitata ad alcuni atti essenziali per la vita e il funzionamento del
Comune, ma rispetto a tali atti, la competenza consiliare è inderogabile,
esclusiva, tassativa.
Gli atti fondamentali di competenza del Consiglio comunale riguardano:
lo statuto e i regolamenti;
i programmi, le relazioni previsionali e programmatiche, i piani finanziari, i
programmi dei lavori pubblici, i bilanci annuali e pluriennali, il rendiconto, i
piani territoriali urbanistici, le convenzioni con i Comuni, l’organizzazione
degli uffici e dei servizi e la loro concessione, la partecipazione dell’ente
locale alle società di capitale, l’istituzione e l’ordinamento dei tributi.
I Consiglieri comunali rappresentano l’intera comunità ed esercitano la loro
funzione senza vincolo di mandato. Il Consiglio comunale è rappresentato dal
Presidente che è garante dell’applicazione del regolamento, della chiarezza
delle relazioni tra maggioranza e opposizione e delle prerogative e dei diritti
dei singoli consiglieri; al Presidente del Consiglio sono attribuiti, tra gli
altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e dell’attività del
consiglio.
I consiglieri comunali hanno diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta
alla deliberazione del Consiglio e sono titolari dei poteri di sindacato
istruttivo attraverso la possibilità di presentare interrogazioni e
interpellanze, nonché di proposta mediante la formulazione di mozioni e ordini
del giorno. I consiglieri danno vita a gruppi consiliari.
Il Consiglio istituisce Commissioni consiliari permanenti.
Quando sono valide le sedute del consiglio comunale? Quando è presente il numero
di consiglieri sancito in norme statutarie o regolamentari, purché sia garantita
almeno la presenza di un terzo dei consiglieri senza computare il sindaco
Nelle materie in cui il Consiglio ha una competenza propria, possono essere
adottate deliberazioni da altri organi? No, salvo le variazioni urgenti di
bilancio
Le Competenze della Giunta.
A chi compete l'approvazione del "Regolamento sull'ordinamento degli uffici e
dei servizi" e del "Regolamento di Contabilità"?
La prima è di competenza della Giunta e la seconda del Consiglio
La Giunta Comunale è presieduta dal Sindaco ed opera attraverso deliberazioni
collegiali.
È composta da un numero massimo di assessori determinato in misura pari a un
quarto del numero dei consiglieri del comune, con arrotondamento all'unità
superiore; per i Comuni nella fascia tra 100.000 e 250.000, la normativa prevede
il Sindaco più al massimo 9 assessori.
La Giunta resta in carica fino alla conclusione del mandato del Sindaco.
Ha competenza generale e residuale e quindi compie tutti gli atti di
amministrazione che non siano riservati dalla legge al Consiglio e che non
rientrino nelle competenze del Sindaco, del Segretario o dei Dirigenti.
Principali funzioni della Giunta
compie tutti gli atti rientranti nelle funzioni degli organi di Governo, che non
siano riservati dalla legge al Consiglio e che non ricadano nelle competenze,
previste dalle leggi o dallo statuto, del Sindaco o degli organi di
decentramento o dei Dirigenti;
collabora con il Sindaco nell'attuazione degli indirizzi generali del Consiglio;
riferisce annualmente al Consiglio sulla propria attività e svolge attività
propositive e di impulso nei confronti dello stesso;
adotta i regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto
dei criteri generali stabiliti dal Consiglio;
adotta il piano esecutivo di gestione che determina gli obiettivi e assegna ai
dirigenti le relative risorse per conseguire gli obiettivi assegnati;
in caso d’urgenza, adotta le deliberazioni di variazione del bilancio, salva
ratifica da parte del Consiglio Comunale nei successivi sessanta giorni;
approva la programmazione triennale della dotazione organica del personale;
nell’ambito del programma triennale delle opere pubbliche, approva i progetti
definitivi ed esecutivi e le relative varianti delle opere pubbliche
Ai sensi dell'art. 21 del Codice dei Contratti pubblici D.Lgs. 50/2016 il
programma triennale dei lavori pubblici: Contiene i lavori il cui valore stimato
sia pari o superiore a 100.000 euro;
approva i piani di lottizzazione, quando essi siano semplici strumenti di
attuazione del piano regolatore;
stabilisce le aliquote delle tariffe e dei servizi, nell’ambito dei regolamenti
adottati dal Consiglio Comunale.
Approvato a norma della Legge 6 novembre 2012 n° 190 e s.m.i., il Piano
triennale per la prevenzione della corruzione.
Funzioni degli Assessori
I componenti della Giunta Comunale sono nominati dal Sindaco anche al di fuori
dei componenti del Consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di
candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica. Nessuno dei due sessi
può essere rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento
aritmetico.
Nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la carica di Assessore è
incompatibile con la carica di Consigliere comunale.
A ciascun Assessore è solitamente attribuita la "delega" per un determinato
settore dell'attività amministrativa dell'ente. In virtù della delega,
l'Assessore riferisce in Giunta sulle questioni relative al suo settore e redige
le relative deliberazioni.
La revoca dell’assessore avviene con debita motivazione data al Consiglio
Il Vicesindaco
Viene individuato dal Sindaco tra i componenti della Giunta comunale ed ha il
compito di sostituire il Sindaco in caso di sua assenza, impedimento temporaneo
o sospensione dall'esercizio della funzione. Alle funzioni vicarie del Sindaco,
al Vicesindaco si aggiunge quella di Assessore e, come tale, riceve normalmente
dal sindaco la "delega" per alcune materie o atti.
Il Sindaco è l'organo responsabile dell'Amministrazione del Comune ed è il
rappresentante dell'Ente; infatti, la sua elezione, che avviene in maniera
diretta e viene conseguita con la maggioranza dei consensi, esprime la scelta
della comunità e vede a lui attribuita direttamente dai cittadini la
responsabilità dell'Amministrazione e, contestualmente, il riconoscimento di
tutti i poteri conseguenti in forza dei quali egli è titolare della funzione di
governo.
In tal senso esprime la Giunta Comunale e la presiede, così come presiede il
Consiglio Comunale laddove non sia prevista la figura del Presidente del
Consiglio Comunale.
Egli, nella seduta di insediamento, presta giuramento davanti al Consiglio
Comunale di osservare lealmente la Costituzione italiana.
Presenta altresì al Consiglio Comunale le linee programmatiche relative alle
azioni ed ai progetti che intende realizzare nel corso del suo mandato. Il
Consiglio, in tale occasione, non si esprime sulle scelte fatte dal Sindaco per
la composizione della Giunta, ma deve ascoltare le linee programmatiche
illustrate ed in tal senso valutare gli obiettivi che si prefigge di raggiungere
assieme alla Giunta medesima, così come da lui espressa.
Il Sindaco dura in carica cinque anni per un massimo di due mandati consecutivi.
Al termine del secondo mandato consecutivo non è più rieleggibile. È tuttavia
consentito un terzo mandato consecutivo se uno dei due mandati precedenti ha
avuto durata inferiore a due anni, sei mesi e un giorno per causa diversa dalle
dimissioni volontarie.
Compiti del Sindaco sono:
rappresentare l'Ente e convocare Giunta;
sovrintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici;
esercitare le funzioni a lui attribuite dalle leggi, dai regolamenti e dallo
statuto e sovrintendere alle funzioni statali e regionali attribuite o delegate
al Comune;
esercitare le funzioni attribuitegli quale autorità locale nelle materie
previste da specifiche disposizioni di legge;
adottare le ordinanze contingibili ed urgenti in caso di emergenze sanitarie o
di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale;
organizzare e coordinare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici
esercizi, e dei servizi pubblici, nonché d'intesa con i responsabili
territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari degli
uffici pubblici localizzati nel territorio;
provvedere - sulla scorta degli indirizzi forniti dal Consiglio - alla nomina,
alla designazione ed alla revoca dei rappresentanti del Comune presso enti,
aziende ed istituzioni;
nominare i responsabili degli uffici e dei servizi.
Quanti e quali sono servizi che l'art. 14 del Tuel definisce compiti del Comune
per servizi di competenza statale? Cinque: servizio elettorale, anagrafe, stato
civile, statistica e leva militare
Responsabile del Servizio;
Responsabile dell’Ufficio;
Responsabile del procedimento.
ORGANI
Programmazione, Indirizzo e Controllo.
Consiglio assembleare e Giunta Deliberazioni
Le deliberazioni degli enti locali producono i loro effetti (“divengono
esecutive”), in forza dell'art. 134, comma 3 del TUEL, una volta decorsi dieci
giorni dalla pubblicazione in albo pretorio, o immediatamente se previsto e
votato. L'art. 134, comma 3, del decreto legislativo n. 267 del 2000 (TUEL)
sancisce che “Le deliberazioni non soggette a controllo necessario o non
sottoposte a controllo eventuale diventano esecutive dopo il decimo giorno dalla
loro pubblicazione.
Sindaco
Ordinanze:
ordinarie;
contingibili ed urgenti (necessarie);
direttive ed indirizzi
Come funziona un’ordinanza comunale?
Le ordinanze sono provvedimenti tipici per mezzo delle quali il sindaco, nella
sua funzione di capo dell'amministrazione locale e di ufficiale di Governo, fa
sorgere, in capo a uno o più soggetti, un determinato obbligo di fare o di non
fare, pena l'applicazione delle sanzioni in essa stessa previste.
Quanti tipi di ordinanze ci sono?
Non è inusuale imbattersi in una suddivisione di questo tipo, che tuttavia
potrebbe risultare ormai datata: ordinanze ordinarie o normali; ordinanze per
casi eccezionali di particolare gravità; ordinanze di necessità e libere, altre
volte definite contingibili e urgenti.
Quando entra in vigore una ordinanza?
Data tale loro natura, l'efficacia temporale delle ordinanze è limitata alla
sussistenza della causa che ne ha determinato l'emanazione e, per lo stesso
motivo, le ordinanze entrano in vigore non appena, in qualsiasi modo, siano note
al pubblico.
Dirigenti Determine (determinazioni o decreti), Ordini di Servizio
Al fine di effettuare una corretta analisi dei fatti e del bisogno dell'utente,
è indispensabile svolgere diverse valutazioni, come ad esempio il need
assessment, che è orientato a individuare il bisogno prevalente o l'insieme
di bisogni insoddisfatti che l'utente presenta.
TESTO UNICO ENTI LOCALI D.lgs. n. 267/2000 Art. 11 Difensore civico
Lo statuto comunale e quello provinciale possono prevedere l'istituzione del
difensore civico, con compiti di garanzia dell'imparzialità e del buon andamento
della pubblica amministrazione comunale o provinciale, segnalando, anche di
propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze ed i ritardi
dell'amministrazione nei confronti dei cittadini.
L’art. 2, co. 186, lett. a), L. 23 dicembre 2009, n. 191 ha soppresso la figura
del difensore civico comunale.
Legge del 23/12/2009 n. 191 -Disposizioni per la formazione del bilancio annuale
e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010). Pubblicato in Gazzetta
Ufficiale n. 302 del 30 dicembre 2009 - supplemento ordinario Pubblicata nel
supplemento ordinario n. 243.186. Al fine del coordinamento della finanza
pubblica e per il contenimento della spesa pubblica, i comuni devono adottare le
seguenti misure:
a) soppressione della figura del difensore civico comunale di cui all'articolo
11 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. Le funzioni del difensore civico
comunale possono essere attribuite, mediante apposita convenzione, al difensore
civico della provincia nel cui territorio rientra il relativo comune. In tale
caso il difensore civico provinciale assume la denominazione di "difensore
civico territoriale" ed è competente a garantire l'imparzialità e il buon
andamento della pubblica amministrazione, segnalando, anche di propria
iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi
dell'amministrazione nei confronti dei cittadini;
Il difensore civico -Scheda di diritto Dott.ssa Concas Alessandra diritto.it.
Il difensore civico è una figura di garanzia a tutela del cittadino, che ha il
compito di accogliere i reclami non accolti in prima istanza dall’ufficio
reclami del soggetto che eroga un servizio. È detto anche ombudsman, termine che
deriva da un ufficio di garanzia costituzionale istituito in Svezia nel 1809 e
letteralmente significa “uomo che funge da intermediario”. La dottrina giuridica
dell’istituto dell’ombudsman e la sua evoluzione sono ancora fonte di
discussione. Se una parte ritiene che si possa parlare di difensore civico in
senso proprio esclusivamente a partire dal XIX secolo, in relazione al primo
ombudsman, quello nato in Svezia, esiste un’altra parte della dottrina che fa
risalire questa particolare istituzione a tempi remoti. Indice
La figura e le sue origini.
La ricerca sull’esistenza di figure istituzionalmente preposte, nel passato, a
vigilare sul buon andamento dell’attività amministrativa e a tutelare le persone
dagli abusi commessi dai funzionari pubblici, aiuta a comprendere meglio e a
inquadrare in modo corretto la figura del difensore civico per come emerge dalla
normativa europea e statale in vigore. Lo studio della progressiva evoluzione
dell’istituto mette in evidenza che molte prerogative, riconosciute
all’ombudsman, sono affini e a volte uguali a quelle di figure istituite presso
molte città dell’Impero Romano sin dai primi secoli dell’era cristiana. Sin dai
primi tempi della repubblica, lo ius intercessionis attribuito ai tribuni della
plebe copriva molte funzioni che adesso sono pensate per il difensore civico.
Secondo altri, le prime figure pubbliche analoghe devono essere riconosciute nel
III secolo d.C., con particolare attenzione sia agli
έκδικτοι (ecdici) sia ai σύνδικοι (syndici), funzionari collocati in uno spazio
intermedio tra comunità
locale e strutture periferiche dello Stato romano, i quali esercitavano funzioni
particolari in gran parte molto simili a quelle attribuite attualmente
all’ombudsman. Questa istituzione romana era nota con il nome di defensor
civitatis, e continuò ad essere presente nella cultura del tempo sino allo
scomparire di entrambi gli imperi d’occidente e d’oriente. In alcuni casi la
figura del defensor civitatis rimase nell’amministrazione. Ne costituiscono un
esempio gli ostrogoti, ma successivamente si andò oscurando.
La diffusione dell’ombudsman nell’età moderna.
Nel corso del XX secolo la figura dell’ombudsman ebbe un notevole successo e si
diffuse nel mondo nei diversi ordinamenti statali, prendendo nomi diversi e
avendo qualche caratteristica funzionale diversa. Quello svedese è stato il
modello base sul quale altri Stati hanno configurato quelle che l’ONU definisce
Istituzioni di tutela dei diritti umani. In relazione al contesto europeo, anche
il Consiglio d’Europa si è espresso più volte sull’opportunità di istituire un
ombudsman nazionale per gli Stati Europei. Con diverse Risoluzioni, l’Assemblea
delle Nazioni Unite ha raccomandato l’istituzione e il rafforzamento della
funzione e del ruolo autonomo e indipendente dell’Ombudsman, istituito più di
150 Paesi. L’Unione europea ha istituito, con il Trattato Europeo siglato nel
1992 a Maastricht, l’importante Istituto del Mediatore Europeo, per tutelare il
diritto dei cittadini a una buona amministrazione e garantire il rispetto dei
diritti umani e fondamentali delle persone. L’istituto in questione è risultato
avere caratteristiche variabili nei diversi Stati. Anche per questo ha assunto
diverse denominazioni, basti pensare al francese Mediateur o allo spagnolo
Defensor de Pueblo, e si può spiegare osservando che le diversità culturali e
sociali dei diversi Stati condizionano in modo diretto l’ordinamento giuridico e
le sue modifiche. Il difensore civico è diffuso in circa novanta Paesi e,
nonostante presenti caratteristiche marginalmente diverse, si configura sempre
con le stesse finalità di garanzia e si prefigge sempre il compito di creare il
“ponte” tra il cittadino e la pubblica amministrazione. Siamo di fronte alla
tipica impostazione democratico-costituzionale, dove si cercano sempre sistemi
di pesi e contrappesi per assicurare una tutela adeguata. Nel caso specifico,
l’Amministrazione per lungo periodo è stata considerata come portatrice
dell’interesse collettivo e per questo dotata di un potere e di un’autorità
forte e difficilmente contestabile da parte del singolo. Per una persona è molto
più difficile contestare un ente che rappresenta il bene comune senza cadere in
una posizione, anche se assurda, di egoismo inaccettabile e censurabile. Da qui
l’esigenza di modificare il rapporto tra Pubblica Amministrazione e cittadino,
mettendo l’accento sul dialogo e l’interrelazione anziché che sul rapporto di
autorità. Sia per evitare che i pubblici uffici abusino del potere loro
conferito, sia per evitare che aumenti il distacco tra cittadino e istituzioni e
manchi uno dei principi fondamentali dello stato di diritto, vale dire il senso
civico diffuso nel rispetto delle regole e della convivenza pacifica. Lo scopo è
quello di riattivare i meccanismi di partecipazione attiva, sia sociale sia
politica, per contribuire alla diffusione del diritto nella sua forma educativa,
capace di fornire le basi per l’integrazione culturale in un mondo multietnico e
globalizzato.
Il difensore civico nel mondo.
Una figura simile al defensor civitatis romano è riapparsa molti secoli dopo,
nel 1809, in Svezia, a seguito dell’emanazione della Costituzione successiva a
una rivoluzione contro la monarchia. La figura istituzionale, analoga a quella
romano-imperiale, prese il nome di ombudsman. La necessità che si veniva a
configurare in quegli anni in Svezia era bilanciare il potere del parlamento e
del governo al fine di vedere salvaguardate le competenze dell’uno e dell’altro
organo senza interferenze reciproche. Il Parlamento voleva affermare la sua
indipendenza e centralità e si volevano tutelare i diritti e le libertà
personali dei cittadini dagli abusi eventualmente compiuti dal governo nello
svolgimento delle sue mansioni. La figura istituzionale è sino da quando è nata
una figura di garanzia, un osservatore imparziale che ha l’onere di vigilare
sull’operato del governo e le sue diramazioni, in breve sul funzionamento della
pubblica amministrazione. In Italia, la disciplina normativa in tema di bilancio
ha abolito la figura del difensore civico comunale. Restano il difensore civico
regionale e provinciale, il quale svolge, in convenzione, la funzione di
difensore civico comunale, soppresso anni fa, con la denominazione di difensore
civico territoriale. L’ANDCI (Associazione Nazionale dei Difensori Civici),
membro di Civicrazia, è impegnata dagli inizi del millennio, con una maggiore
collaborazione tra i difensori civici e per massimizzare il potere
dell’Ombudsman. Il Coordinamento rappresenta la struttura istituzionale della
Difesa civica italiana, collegata alla rete europea dei Difensori Civici, in
connessione con il Mediatore Europeo.
Il difensore civico in Italia.
A differenza della maggior parte degli altri Paesi Europei, in Italia non si è
mai arrivati all’approvazione di una legge istitutiva del difensore civico
nazionale, che assume una declinazione esclusivamente a livello regionale o
delle province autonome, connotata da una determinata disomogeneità. Il punto
fermo è la sua configurazione come Autorità Amministrativa Indipendente sui
generis, con ampie prerogative di autonomia e indipendenza rispetto ai vertici
politici, con particolarità che lo diversifica dalle Autorità Amministrative
Indipendenti propriamente dette e con funzioni paragiurisdizionali a tutela dei
diritti e degli interessi dei cittadini. Di recente la Conferenza dei Presidenti
delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province Autonome ha approvato
un documento, avvalendosi del lavoro di un gruppo tecnico che è stato istituito
per l’occasione. Le Linee di Indirizzo in merito alla disciplina degli Organi di
Garanzia, approvate il 26 settembre 2019 dall’Assemblea Plenaria della
Conferenza, è relativa anche alla figura del difensore civico. L’obiettivo è
quello di muovere un primo passo di armonizzazione nei confronti di una
legislazione regionale che si è sedimentata nel tempo in modo non uniforme da
Regione a Regione. Nel 2019 risultano 18 i Difensori civici regionali o delle
province autonome, o Garanti che riuniscono in sé anche le attribuzioni del
difensore civico in carica.
Queste le Regioni e Province autonome che hanno previsto l’istituto nei
rispettivi statuti o in apposite leggi regionali: Abruzzo, Basilicata, Campania,
Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche
(Garante dei diritti della persona), Molise (Garante dei diritti della persona),
Piemonte, Umbria, Sardegna, Toscana, Valle d’Aosta e Veneto (Garante dei diritti
della persona), nonché le Province autonome di Bolzano e Trento. In Calabria e
in Puglia il difensore civico non è mai stato nominato nel 2019.
La figura del difensore civico non è prevista in senso normativo dalle Regioni
Sicilia e Trentino-Alto Adige, dove la Regione ha delegato ai due difensori
civici delle Province autonome le competenze nei confronti della Regione nei
rispettivi territori.I difensori civici regionali, insieme alle altre figure di
garanzia che si occupano a livello territoriale di diritti dell’infanzia e
diritti dei detenuti, contribuiscono all’impegno dell’Italia per costruire
istituzioni solide per la pace la giustizia e i diritti umani, come previsto dal
relativo Obiettivo dell’Agenda 2030, garantire un pubblico accesso
all’informazione e proteggere le libertà fondamentali, in conformità con la
legislazione nazionale e con gli accordi internazionali. A marzo 2019, il
Consiglio d’Europa (Principi di Venezia) ha pubblicato un insieme di principi
per la protezione e la promozione dell’istituto del difensore civico,
ribadendone il ruolo a tutela dei diritti dei cittadini:“I difensori civici sono
importanti per la democrazia, perché agiscono in modo indipendente contro casi
di mala amministrazione e contro presunte violazioni dei diritti umani e
svolgono un ruolo cruciale di fronte ai governi e ai Parlamenti, che devono
accettare le contrarietà.Come interfaccia tra l’amministrazione e i cittadini, i
difensori civici sono a volte il primo e ultimo ricorso per porre rimedio alle
violazioni dei diritti umani”.
Chi è il Difensore civico?
Da Trevisolavora.it Il Difensore civico è un organismo di tutela dei diritti e
degli interessi dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione.
Attualmente la sua istituzione è prevista a livello regionale e provinciale, il
difensore civico comunale è stato infatti soppresso dall'art.2, comma 186,
lettera a), Legge n.191/2009 e dal Decreto Legge n.2/2010, convertito in Legge
del 26 marzo 2010, n.42.
Per quanto riguarda il Difensore civico della Regione del Veneto veniva
istituito con la Legge regionale n.28 del 6 giugno 1988. Con Legge Regionale
n.37 del 24 dicembre 2013 è stata istituita la figura del Garante regionale dei
diritti della persona che sostituisce il Difensore Civico e il Pubblico Tutore
dei minori.In base all’art.1 della Legge Regionale n.37/2013 tale organismo a)
garantisce in ambito regionale, secondo procedure non giurisdizionali di
promozione, di protezione e di mediazione, i diritti delle persone fisiche e
giuridiche verso le pubbliche amministrazioni e nei confronti di gestori di
servizi pubblici; b) promuove, protegge e facilita il perseguimento dei diritti
dell'infanzia e dell'adolescenza; c) promuove, protegge e facilita il
perseguimento dei diritti delle persone private della libertà personale. Secondo
la richiamata Legge Regionale, il Garante è eletto dal Consiglio regionale con
la maggioranza dei 2/3 degli aventi diritto e rimanga in carica tre anni dalla
data del giuramento.Il Garante ha sede presso il Consiglio regionale e, per lo
svolgimento della sua attività, ha un proprio ufficio organizzato in base alle
necessità delle funzioni di cui è investito (art.15, Legge Regionale n.37/2013).
L'intervento del Difensore civico regionale è gratuito.
Quale è la competenza del Garante della Persona?
Il Garante è un organismo di tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini
nei confronti della Pubblica amministrazione. Egli tutela e difende i diritti
soggettivi e gli interessi legittimi dei cittadini dalle disfunzioni della
Pubblica Amministrazione a titolo assolutamente gratuito.Egli interviene anche
nei casi in cui le problematiche segnalate siano riferite ad Amministrazioni
locali, come Province o Comuni non convenzionati, cioè dove non è presente la
figura dell’ex Difensore civico locale. Gli ambiti di competenza riguardano
tutte le amministrazioni pubbliche operanti nel territorio regionale (Regione,
Province, Comuni, Uffici periferici dello Stato etc.) in tutte le materie del
diritto amministrativo (Lavori Pubblici, Sanità, Viabilità, Edilizia, Scuola,
Lavoro, Ambiente, Utenze, Fiscalità, Trasparenza amministrativa e Accesso agli
atti).In particolare le sue funzioni riguardano tre ambiti:- la difesa civica
dei cittadini: è garante dei diritti delle persone fisiche e giuridiche verso la
pubblica amministrazione e nei confronti di gestori di servizi pubblici. Si
precisa che il compito di esaminare segnalazioni, reclami e denunce concernenti
il servizio erogato dalla Azienda ULSS di riferimento è affidato alle
Commissioni miste conciliative secondo la disciplina prevista dalla
Deliberazione della Giunta regionale n.2280 del 22 giugno 1998, come modificata
dalla Deliberazione n.2240 del 25 luglio 2003. Secondo questa disciplina, spetta
al Garante regionale dei diritti della persona provvedere alla designazione dei
Presidenti di ciascuna Commissione mista conciliativa.- la tutela dei minori:
promuove, protegge e facilita il perseguimento dei diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza. A tal fine possono rivolgersi al garante, oltre a privati
cittadini, i tutori legali, i responsabili di uffici di pubbliche
amministrazioni o di servizi sociali e sanitari, gli operatori di comunità di
accoglienza o di famiglie affidatarie, insegnanti, dirigenti scolastici e forze
dell’ordine. E' possibile consultare, sul sito del Garante dei diritti della
persona, le linee guida sull'affidamento dei minori al servizio sociale e
reperire il modello del frontespizio per la trasmissione di segnalazioni alla
Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Venezia. Inoltre,
a novembre 2012, al fine di migliorare la comunicazione tra i Servizi sociali e
socio-sanitari preposti alla protezione, tutela e cura dei minori e l’Autorità
Giudiziaria, sono state predisposte le Linee di indirizzo per la comunicazione
tra Servizi Socio-Sanitari e Autorità Giudiziarie.- la tutela dei detenuti:
promuove, protegge e facilita il perseguimento dei diritti delle persone private
della libertà personale. In questo ambito il Garante opera a favore delle
persone detenute negli istituti penitenziari, nelle strutture gestite dai centri
per la giustizia minorile (istituto penale minorile e centri di prima
accoglienza), nei centri di identificazione ed espulsione, nelle strutture
sanitarie, in quanto sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio, nonché
delle persone private a qualsiasi titolo della libertà personale. Il Garante
assume le iniziative necessarie a tutelare il diritto alla salute, può accedere
agli istituti in cui vivono le persone in restrizione della loro libertà,
segnala agli organi competenti eventuali fattori di rischio o di danno. Il
Garante agisce in piena autonomia nel territorio regionale secondo procedure non
giurisdizionali di promozione, protezione e facilitazione nel perseguimento dei
diritti delle persone. Non è soggetto ad alcuna forma di controllo gerarchico o
funzionale: questo gli garantisce piena libertà di giudizio e valutazione.Il
Garante:a) agisce con criteri di legalità, trasparenza, imparzialità,
sussidiarietà, adeguatezza, buona amministrazione, operando con strumenti non
giurisdizionali di mediazione, persuasione, facilitazione;b) promuove la
costituzione di organismi consultivi a sostegno della propria attività
istituzionale, anche aperti alla partecipazione di minori d'età;c) fornisce
motivata risposta alle istanze presentate. Chiunque può rivolgersi al Garante, a
prescindere dalla nazionalità o dalla residenza. Possono rivolgersi non solo i
singoli individui, ma anche associazioni di cittadini, persone giuridiche
(private e pubbliche), istituzioni sociali, imprese.Al Garante dei diritti della
persona può essere rivolta:
1. Istanza di intervento (anche sotto forma di esposto) per illegittimità, di
funzioni, inefficienze, disservizi, abusi, ritardi da parte della Pubblica
Amministrazione;
2. Richiesta di tutti gli opportuni parametri di valutazione del caso e potere
di accesso con acquisizione di tutta la documentazione amministrativa;
3. Istanza di riesame a fronte del diniego o del silenzio-rifiuto in ordine
all'accesso ai documenti amministrativi da parte della Pubblica
Amministrazione;4. Richiesta di esercizio di poteri sostitutivi nei casi
previsti dalla legge.L'intervento del Garante può essere richiesto compilando il
modulo di apertura istanza e inviandolo all’Ufficio preposto.Il Garante ha,
tuttavia, competenze ulteriori: esplica la propria attività anche nei confronti
degli enti locali, qualora non sia istituito o nominato il difensore civico o
non esistano figure di garanzia negli altri settori, previa stipula di apposita
convenzione tra l'Ufficio di presidenza del Consiglio regionale e gli enti
interessati art.9 Legge Regionale n.37/2013.
Esistono anche un difensore civico a livello provinciale o comunale?
In origine era previsto anche il Difensore civico comunale, che però è stato
soppresso dall'art.2, comma 186, lettera a), della Legge n.191/2009, dal Decreto
Legge n.2/2010, convertito in Legge 26 marzo 2010, n.42.
La figura del Difensore civico provinciale è stata riconosciuta con l'art.8
della Legge n.142 del 1990 che configura, a favore delle Province, la facoltà di
prevederlo nel loro Statuto. La previsione della norma è stata poi inglobata nel
vigente testo Unico sull'ordinamento degli Enti locali, il Decreto legislativo
n.267/2000, che, all'art.11 stabilisce: "lo Statuto [comunale e quello]
provinciale possono prevedere l'istituzione del difensore civico con compiti di
garanzia, dell'imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione
[comunale e] provinciale, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le
disfunzioni, le carenze ed i ritardi dell'Amministrazione nei confronti dei
cittadini". Tuttavia, anche a livello provinciale, in molte province il
Difensore civico ha cessato lo svolgimento delle proprie funzioni, poiché alcuni
Consiglio Provinciali hanno cessato l'esercizio delle proprie funzioni - secondo
quanto disposto dalla Legge n.56 del 7 aprile 2014.
Quali azioni può svolgere il Garante della Persona? Il Garante può:- svolgere
attività di impulso e proposta nei confronti della Pubblica Amministrazione;-
svolgere compiti di sollecitazione nei confronti dei responsabili dei
procedimenti amministrativi;- chiedere l'esibizione di atti o documenti, anche
se segreti;- indirizzare il cittadino verso le più idonee strutture e
consigliarlo sulle iniziative o rimedi da adottare;- promuovere la costituzione
di tavoli di confronto e di accordo (conferenze di servizi);- promuovere
procedimenti per commissariamenti ad acta (esercizio di poteri sostitutivi). Al
Difensore civico può essere rivolta richiesta di intervento per inefficienze,
disservizi, abusi, ritardi da parte della Pubblica Amministrazione, richiesta di
chiarimenti, richiesta di accesso agli atti e documenti amministrativi nel caso
in cui questa venga negata dalla P.A., richiesta di esercizio di poteri
sostitutivi nei casi previsti dalla legge.Quali azioni non può svolgere il
Garante della Persona?Il Garante della Persona non può:- annullare atti e
provvedimenti di altri organi della Pubblica Amministrazione né sostituirsi a
quest'ultima;- emettere sentenze al posto del giudice amministrativo, del
giudice civile o del giudice penale;- irrogare sanzioni;- rappresentare o
difendere il cittadino in giudizio;- intervenire in questioni fra privati
cittadini;- intervenire in materia di difesa, sicurezza pubblica, giustizia,
pubblico impiego e appalti pubblici;- intervenire in materie di competenza di
altre autorità di garanzia (Garante del contribuente, Anac per il settore degli
appalti pubblici, etc).
Come si richiede l’intervento del Garante della Persona?
Può chiedere l'intervento del Garante della Persona chiunque lamenti una lesione
del proprio interesse da parte della Pubblica Amministrazione, vale a dire il
singolo cittadino oppure più cittadini collettivamente o ancora imprese, enti
associazioni, comitati, formazioni sociali diverse a tutela di interessi propri
ovvero di interessi diffusi. Se la materia è compresa tra quelle su cui il
Garante della Persona ha competenza, il cittadino può chiederne l'intervento
quando:- ha presentato un'istanza alla P.A. ed è in corso un procedimento
amministrativo;- non ha presentato un'istanza, ma è direttamente interessato
dall'azione della P.A.L'intervento del Garante della Persona può avvenire:- su
richiesta del cittadino che abbia una pratica in corso presso una Pubblica
Amministrazione (art.7, comma 1, Legge Regionale n.37/2013). E' importante,
prima di rivolgersi al Garante, contattare l'Amministrazione o il gestore di
pubblici servizi che non abbia rispettato un proprio diritto. Nel caso in cui
non si ottenga risposta o si ritenga che la risposta non sia corretta, è
possibile chiedere l'intervento del Garante. E’ necessario allegare all'istanza
la copia di un documento di riconoscimento in corso di validità e il reclamo che
è stato presentato all'Amministrazione interessata;- d' ufficio (art.7, Legge
Regionale n.37/2013, vale a dire senza bisogno di sollecitazione da parte di
altri soggetti.La richiesta di intervento al Garante avviene attraverso il
reclamo che può essere fatto da chiunque si ritenga leso nei propri diritti o
interessi dall'azione della Pubblica Amministrazione. Il reclamo può essere
presentato per iscritto o oralmente, senza alcuna formalità (art.9, Legge
Regionale n.37/2013). Se presentato oralmente (tramite colloquio telefonico
ovvero tramite colloquio personale su appuntamento presso la sede del Garante),
l'istanza viene verbalizzata dall'ufficio (art.12, Legge Regionale n.37/2013).
Nel caso in cui il Garante della Persona ritenga la richiesta di intervento
giustificata e di propria competenza, provvede ad istruire la pratica adottando
i rimedi del caso.La richiesta di intervento al Garante non sospende i termini
per proporre i ricorsi giurisdizionali o amministrativi contro gli atti della
Pubblica Amministrazione tranne il caso di cui all'art.25, Legge n.241/1990 in
tema di accesso agli atti.L'aver proposto ricorso giurisdizionale o
amministrativo non esclude né limita la facoltà di proporre istanza al Difensore
civico (art.12, Legge Regionale n.37/2013).
GENERALE
Annualità, unità, unilateralità, integrità, veridicità, attendibilità, coerenza,
chiarezza o comprensibilità, trasparenza, significatività o rilevanza,
flessibilità, congruità, coerenza, continuità, costanza, comparabilità,
verificabilità, imparzialità, neutralità, pubblicità, equilibrio, competenza
finanziaria-economica, prevalenza sostanza sulla forma.
ENTI
LOCALI: Annualità, unità, universalità, integrità, veridicità ed attendibilità
(specificazione), pareggio finanziario, pubblicità
Linee
programmatiche sindaco inizio mandato (progetti ed azione).
è la sezione che sviluppa e concretizza le linee programmatiche, presentate dal
Sindaco al Consiglio all'inizio del mandato e relative alle azioni e ai progetti
che s'intende realizzare nel corso del mandato stesso
Piano
Esecutivo di Gestione (Giunta obiettivi, modalità, tempi)
Entrate: accertamento, riscossione, versamento
Spese: Impegno, liquidazione, ordinazione, pagamento
cassa:
Riscossione-Versamento, Pagamento
competenza: Accertamento, impegno
I conti numerari si differenziano conti numerari certi, assimilati e presunti
Il principio della competenza finanziaria "potenziata"
Il seguente enunciato: "Tutte le obbligazioni giuridicamente perfezionate attive
e passive, che danno luogo ad entrate e spese per l'ente, devono essere
registrate nelle scritture contabili quando l'obbligazione è perfezionata, con
imputazione all'esercizio in cui l'obbligazione viene a scadenza".
Che cos'è la "contabilità analitica"?
Sistema contabile fondato su rilevazioni economico analitiche per centri di
costo e/o per servizi
Che cos'è il piano dei conti?
Si definisce "piano dei conti" l'insieme dei conti aziendali che costituiscono
il sistema contabile. Si tratta di un elenco diviso in gruppi, ordinati e
collegati fra loro, dove ogni conto è individuato da un titolo (nome del conto)
e un numero di riferimento univoco
A norma del comma 4-quinquies, dell'art. 180 del TUEL e s.m.i., gli ordinativi
d'incasso: non riscossi entro il termine dell'esercizio sono restituiti dal
tesoriere all'ente per l'annullamento e la successiva emissione nell'esercizio
successivo in conto residui
Come sono organizzate le entrate e le uscite nel bilancio comunale. Da Openpolis
Sono le somme relative alle spese sostenute dall’amministrazione comunale per il
funzionamento dell’ente e l’erogazione di servizi ai cittadini, e agli incassi
del comune per poter sostenere quelle uscite.
Il bilancio comunale rappresenta uno degli atti politici e amministrativi più
importanti a disposizione delle amministrazioni locali, perché permette
di programmare gli interventi e gli investimenti di risorse pubbliche sul
territorio e rendicontare le entrate nelle casse comunali. I due documenti
principali che compongono il bilancio comunale sono il bilancio di previsione (o
preventivo) e il bilancio consuntivo. In entrambi l’amministrazione inserisce le
somme relative alle spese sostenute dall’ente per l’erogazione dei servizi e le
entrate necessarie a sostenere quelle spese.
Le spese. Le
somme indicate nelle voci di spesa del bilancio comunale indicano
gli stanziamenti approvati dall’amministrazione per l’erogazione di servizi a
favore dei cittadini, per il funzionamento della struttura e per la
realizzazione di investimenti nel corso dell’esercizio. Vi sono diverse
tipologie di spesa (titoli), tra le quali;
la spesa corrente, l’insieme delle uscite che l’ente sostiene per il suo
funzionamento ordinario e la gestione quotidiana (per esempio il pagamento degli
stipendi per il personale o per l’affitto di immobili);
la spesa in conto capitale, vale a dire i costi che il comune affronta per
l’acquisto di immobili o la realizzazione di infrastrutture e/o progetti a lungo
termine;
la spesa per rimborsi di prestiti, che di norma si contabilizza insieme alla
spesa corrente, e che comprende le quote che il comune deve rimborsare per
l’accensione di prestiti, e la spesa relativa ai servizi per conto di terzi,
cioè quella costituita dalla restituzione delle cauzioni e dalle anticipazioni
che il comune effettua per conto di altri enti. Ogni somma inserita nel bilancio
comunale viene riferita a una specifica “missione di spesa”. Quest’ultima è
legata ai vari assessorati e quindi alle specifiche funzioni istituzionali
dell’ente (istruzione, assetto del territorio, mobilità, etc.).
Le entrate. A
fronte delle spese che l’amministrazione sostiene devono corrispondere pari
entrate, provenienti da più fonti, in modo da fornire la giusta copertura
finanziaria al bilancio comunale. Le entrate, quindi, rappresentano la somma di
tutti gli introiti che, a vario titolo, sono di competenza del comune in accordo
alle proprie funzioni. Si dividono in entrate in conto corrente ed entrate in
conto capitale. Queste due tipologie si suddividono a loro volta in
diverse sezioni, chiamati titoli.
Tra questi è molto importante il primo, chiamato
“Entrate correnti di natura tributaria, contributiva e perequativa“, ossia
quelle somme che formano l’autonomia finanziaria di un comune, la sua capacità
di provvedere autonomamente al finanziamento della spesa. Si tratta per lo più
di imposte, tasse, proventi assimilati e compartecipazione di tributi, voci di
entrata necessarie alla sopravvivenza dell’ente.
Ci sono poi i “Trasferimenti correnti” (i contributi e i trasferimenti
provenienti da altri enti, come lo stato o la regione), le “Entrate
extra-tributarie“, come ad esempio le somme provenienti dalla vendita di beni e
servizi da parte del comune o quelle derivanti dall’attività di controllo e
repressione degli illeciti (multe, sanzioni, etc.);
le entrate in conto capitale (come l’alienazione di beni patrimoniali o la
riscossione di crediti), le entrate da riduzione di attività
finanziarie, l’accensione di prestiti, le anticipazioni da istituti (entrate che
la banca o l’istituto tesoriere anticipa al comune per fronteggiare temporanee
esigenze di liquidità) e le entrate per conto terzi e partite di giro, cioè
quelle che il comune riceve per conto di altri soggetti o che transitano dal
bilancio comunale senza alcuna discrezionalità da parte dell’ente.
Secondo il dispositivo dell'articolo 149, comma 5 del D.Lgs. 267/2000 e s.m.i.,
i trasferimenti erariali sono ripartiti in base a criteri obiettivi che tengano
conto della popolazione, del territorio, delle condizioni socio-economiche, e
degli squilibri di fiscalità locale
Dati
Le missioni di spesa sono 23. Dividono gli ambiti e contengono a loro volta i
programmi, ossia sottosezioni specifiche a cui corrispondono le voci di spesa.
Per esempio, la missione “Diritti, politiche sociali e famiglia” è formata dalla
somma di diversi programmi (ognuno dei quali ha una voce di spesa), come
“Interventi per l’infanzia e asili nido”, “Interventi per gli anziani” o
“Servizio necroscopico e cimiteriale”.
Missioni di spesa
Servizi istituzionali, generali e di gestione
Tutela della salute
Giustizia
Sviluppo economico e competitività
Ordine pubblico e sicurezza
Politiche per il lavoro e la formazione professionale
Istruzione e diritto allo studio
Agricoltura, politiche agroalimentari e pesca
Tutela e valorizzazione dei beni e attività culturali
Energia e diversificazione delle fonti energetiche
Politiche giovanili, sport e tempo libero
Relazioni con le altre autonomie territoriali e locali
Turismo
Relazioni internazionali
Assetto del territorio ed edilizia abitativa
Fondi e accantonamenti
Sviluppo sostenibile e tutela del territorio e dell'ambiente
Debito pubblico
Trasporti e diritto alla mobilità
Anticipazioni finanziarie
Soccorso civile
Servizi per conto terzi
Diritti sociali, politiche sociali e famiglia
23 sono le missioni di spesa nel bilancio comunale, all’interno delle quali sono
contenuti 67 programmi, dedicati agli interventi nei rispettivi ambiti.
Lo schema si presenta simile per le entrate. Per esempio, il titolo “Entrate
correnti di natura tributaria, contributiva e perequativa” è formato da quattro
voci di entrata: imposte, tasse e proventi assimilati; compartecipazione di
tributi; fondi perequativi da amministrazioni centrali; fondi perequativi da
regione o provincia autonoma.
Entrate correnti di natura tributaria, contributiva e perequativa
Trasferimenti correnti
Entrate extratributarie
Entrate in conto capitale
Entrate da riduzione di attività finanziarie
Accensione Prestiti
Anticipazioni da istituto tesoriere/cassiere
Entrate per conto terzi e partite di giro
Analisi
Esaminare le somme che il comune incassa e spende ogni anno è fondamentale
per capire innanzitutto come vengono impiegate le risorse provenienti, ad
esempio, dalla contribuzione fiscale dei cittadini. Comprendere a pieno,
insomma, in quali servizi vengono reinvestiti i fondi a disposizione dell’ente e
di conseguenza quali siano le strategie di politica pubblica scelte
dall’amministrazione. Attraverso l’analisi dei bilanci comunali, si può per
esempio capire se un comune spende più o meno di un altro per la gestione dei
rifiuti, o incassa più o meno risorse provenienti dal pagamento delle tasse.
Master budget: Budget patrimoniale
Budget economico
Budget finanziario
Quali sono le principali Norme che disciplinano il rapporto di lavoro nel
pubblico impiego?
D. lgs. 30 marzo 2001 n. 165
Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è
disciplinato nel nostro ordinamento dal D. lgs. 30 marzo 2001 n. 165 contenente
le “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche”.
D.P.R. n. 62/2013
Il D.P.R. n. 81/2023 apporta modifiche al D.P.R. n. 62/2013, recante «Codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165».
Il provvedimento è entrato in vigore dal 14 luglio 2023.
Il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici DPR n.62/2013, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 129 del 4 giugno 2013, è entrato in vigore il 19
giugno.
Il codice di comportamento definisce gli obblighi di diligenza, lealtà,
imparzialità e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti ad
osservare. Tali doveri di condotta sono estesi anche a tutti i collaboratori o
consulenti della Pubblica Amministrazione, inclusi i collaboratori degli uffici
di diretta collaborazione delle autorità politiche.
L'art. 54, comma 5, del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, stabilisce che ciascuna
amministrazione definisca, con procedura aperta alla partecipazione, un proprio
Codice di comportamento, che integri e specifichi il Codice di comportamento
generale approvato con decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013,
n. 62.
Con delibera n. 75 del 24 ottobre 2013, la CIVIT - Autorità Nazionale
Anticorruzione, ha dettato le linee-guida per la predisposizione dei codici di
comportamento da parte delle singole amministrazioni, ivi prevedendo anche in
ordine alla procedura di partecipazione.
Questa voce è stata curata da Andrea Leone D’Agata
Il codice disciplinare è quell’insieme di regole di condotta che il lavoratore è
tenuto ad osservare sul luogo di lavoro. Lo stesso normalmente prevede una
predeterminazione o una tipizzazione delle infrazioni, sanzioni e delle
relative procedure di contestazione.
Sul punto, il primo comma dell’art. 7 Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori)
stabilisce che “le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in
relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di
contestazione delle stesse devono essere portate a conoscenza dei lavoratori
mediante affissione in luogo accessibile a tutti”.
Il codice disciplinare, peraltro, può essere predisposto dalla contrattazione
collettiva nazionale o aziendale oppure anche unilateralmente dal datore di
lavoro.
Occorre tuttavia, rilevare che normalmente è lo stesso CCNL a disciplinare la
materia; a livello aziendale (sia esso pattizio o unilaterale) vi è
semplicemente un recepimento di quella disciplina con una sua eventuale
integrazione.
Sul punto è sufficiente richiamare il principio secondo cui una fonte di rango
inferiore (come può essere il contratto aziendale o il contratto personale) non
può in nessun caso derogare in peggio rispetto a quanto previsto da una fonte
superiore (CCNL o legge) a tutela del lavoratore.
In presenza di contratti collettivi applicabili, il codice disciplinare deve
essere conforme a quanto in essi stabilito (art. 7 Legge 300/1970).
In mancanza, la determinazione delle sanzioni è rimessa alla disposizione
unilaterale del datore di lavoro (Cass. 11/4/78 n. 1717, in Foro it., I, 2811).
Anche in questo caso, tuttavia, dovrà trovare applicazione il principio della
proporzionalità tra condotta e sanzione.
La pubblicità del codice disciplinare sancisce il principio fondamentale per il
quale chi è perseguito per un’infrazione deve essere posto in grado di conoscere
l’infrazione stessa e la sanzione (Cass. 25/9/04 n. 19306). Tale garanzia,
tuttavia, trova integrale applicazione per la validità delle sanzioni
disciplinari conservative (richiamo, ammonizione, multa, sospensione), ma non
anche del licenziamento disciplinare.
La giurisprudenza ritiene, infatti, che la pubblicità del codice disciplinare
non sia necessaria qualora il licenziamento sia intimato per giusta
causa o giustificato motivo soggettivo.
Quanto alle modalità della pubblicità, la giurisprudenza è concorde nel ritenere
che la pubblicità mediante affissione costituisce un elemento essenziale per
l’esercizio del potere disciplinare, non potendosene considerare equipollenti
mezzi diversi di comunicazione (Cass. S.U. 5/2/88 n. 1208, in Foro it. 1988, I,
1556; Cass. 8/3/90 n. 1861, in Dir. Prat. Lav. 1990, 1295).
Il codice deve essere affisso in luogo accessibile a tutti nel senso che deve
trattarsi di luogo di facile accesso, ossia di comune e frequente transito di
tutti i lavoratori e non solo di alcuni (Pret. Firenze 28/3/97 in Rivista ital.
Dir. Lav. 1998, II, 294).
Codice disciplinare e Codice di comportamento dei dipendenti pubblici
Codice disciplinare.
Il Codice disciplinare stabilisce le infrazioni e le relative sanzioni nelle
procedure disciplinari dei dipendenti pubblici.
il Codice disciplinare deve essere pubblicato sul sito istituzionale dell'ente
entro 15 giorni dalla sottoscrizione del C.C.N.L. e si applica dal quindicesimo
giorno successivo a quello della sua pubblicazione.
Come previsto dal D.Lgs. n. 150/2009, la pubblicazione equivale sul sito
istituzione del Codice disciplinare a tutti gli effetti alla sua affissione
all'ingresso della sede di lavoro.
(art 2094 CC): il lavoratore deve svolgere in maniera diligente i suoi compiti,
permettendo al datore di lavoro di utilizzare le sue energie lavorative;
(art. 2104 CC): ogni attività deve avvenire con impegno e dovrà essere
proporzionata alle capacità del lavoratore, alla tipologia di richiesta
dell’azienda e alle altre attività previste;
il lavoratore dovrà eseguire i compiti indicati, secondo il principio di
gerarchia previsto dal contratto di lavoro;
Integrità, Correttezza, Buona Fede, Proporzionalità, Obbiettività, Trasparenza,
Equità, Ragionevolezza, tracciabilità degli atti.
"Il dipendente deve agire in posizione di indipendenza e imparzialità,
astenendosi in caso di conflitto di interessi. Il citato principio: È
espressamente contenuto tra i "principi generali" nel Codice di comportamento
dei dipendenti pubblici
1. Per Pubblico Concorso:
a. diretto da idoneo vincitore;
b. indiretto da idoneo non vincitore per scorrimento delle graduatorie (3 anni,
in alcuni casi 20%);
2 Per Mobilità permanente da altra Pubblica Amministrazione;
3 tramite centri per l’impiego, per qualifiche che, come requisito di accesso,
richiedano l’aver frequentato la scuola dell’obbligo;
4 contratti per persone appartenenti alle Categorie Protette.
5 Per stabilizzazione.
Che differenza c'è tra part time orizzontale e verticale? In
quello orizzontale il dipendente lavora tutta la settimana, ma con una giornata
lavorativa dall'orario ridotto. Mentre in quello verticale lavora per una intera
giornata, ma non tutti i giorni. Il part time misto, invece, prevede entrambe le
modalità a rotazione a seconda del periodo e delle esigenze aziendali.
0. nomina dirigenti generali a tempo determinato per specificità (36 mesi, ossia
3 anni rinnovabili dopo 10 giorni) o per fiducia (spoil System) Segretario
generale ministeri, direttore generale (city manager) enti locali (durata
mandato nominante)
1. contratto di somministrazione a tempo determinato;
2. contratto di lavoro subordinato a tempo determinato (36 mesi, ossia 3 anni
rinnovabili dopo 10 giorni);
a) prestazioni di lavoro accessorio (voucher - Euro 3000)
b) contratti di collaborazione coordinata e continuativa.
c) collaborazioni marginali (prestazioni occasionali -30 g – Euro 5000 no
irpef-inps)
d) prestazioni di lavoro autonomo occasionale
3. contratti di formazione.
a. Apprendistato per laureati;
b. Formazione-Lavoro per laureandi.
Agenzie di reclutamento per la Pubblica Amministrazione.
InPa.
Adecco.
Asmel.
Ales.
RIFORMA PA
Il dirigente pubblico: incarichi, responsabilità e prospettive di riforma,
scritto da Carlo Mochi Sismondi, Presidente FPA.
Una guida per scoprire quali sono le caratteristiche salienti della figura del
dirigente pubblico, le modalità con cui vengono affidate le responsabilità e i
ruoli dirigenziali e il percorso di cambiamento e di riforma che ha interessato
– e interessa tutt’ora – la dirigenza pubblica
Cos’è la Dirigenza pubblica
Caratteristiche principali
La Dirigenza pubblica è responsabile istituzionalmente:
dell’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli
atti che impegnano l’Amministrazione verso l’esterno;
della gestione finanziaria, tecnica e amministrativa che esercita tramite
autonomi poteri di spesa e di organizzazione delle risorse umane, strumentali e
di controllo.
I Dirigenti pubblici sono responsabili in via esclusiva dell’attività
amministrativa, della gestione e dei relativi risultati.
Distinzione tra politica e amministrazione
Alla base dell’ordinamento della Dirigenza pubblica negli ultimi decenni c’è
il principio di distinzione funzionale tra politica e amministrazione, enunciato
nell’art. 4 del D.Lgs. 165/2001, che stabilisce una separazione netta tra
indirizzo politico e gestione.
Secondo tale principio gli organi di Governo esercitano le funzioni di indirizzo
politico-amministrativo, definendo gli obiettivi e i programmi da attuare. Essi
adottano gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni e
verificano che i risultati dell’attività amministrativa e della gestione siano
rispondenti agli indirizzi impartiti.
Ai Dirigenti spetta, invece, l’adozione degli atti e dei provvedimenti
amministrativi che rendono effettivamente possibile il raggiungimento degli
obiettivi politici.
Articolazione
In ogni Amministrazione dello Stato, anche a ordinamento autonomo, è istituito
il ruolo dei Dirigenti, i quali possono essere di prima e di seconda fascia.
Nell’ambito della distinzione tra prima e seconda fascia sono poi definite
apposite sezioni in modo da garantire l’eventuale specificità tecnica. I
Dirigenti della seconda fascia sono reclutati attraverso un concorso e
transitano nella prima fascia qualora abbiano ricoperto incarichi di direzione
in Uffici dirigenziali generali o equivalenti per un periodo di almeno cinque
anni.
I Dirigenti generali (di prima fascia)
I Dirigenti generali dirigono gli altri Dirigenti e hanno, tra gli altri, i
seguenti compiti principali:
formulano proposte ed esprimono pareri al Ministro nelle materie di sua
competenza;
curano l’attuazione dei piani, dei programmi e delle direttive generali definite
dal Ministro;
attribuiscono ai Dirigenti gli incarichi e la responsabilità di specifici
progetti e gestioni;
dirigono, coordinano e controllano l’attività dei Dirigenti e dei responsabili
dei procedimenti amministrativi;
svolgono le attività di organizzazione e gestione del personale e di gestione
dei rapporti sindacali e di lavoro
I Dirigenti di seconda fascia invece
formulano proposte ed esprimono pareri ai Dirigenti degli Uffici dirigenziali
generali;
curano l’attuazione dei progetti e delle gestioni ricevuti in assegnazione dai
Dirigenti degli Uffici dirigenziali generali;
svolgono tutti gli altri compiti per i quali sono stati delegati dai Dirigenti
degli Uffici dirigenziali generali;
dirigono, coordinano e controllano l’attività degli Uffici che da essi
dipendono;
concorrono all’individuazione delle risorse e dei profili professionali
necessari allo svolgimento dei compiti dell’Ufficio cui sono preposti;
provvedono alla gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali
assegnate ai propri Uffici; effettuano la valutazione del personale assegnato ai
propri Uffici.
Accesso al ruolo di Dirigente pubblico
Il sistema di reclutamento dei Dirigenti pubblici è disciplinato principalmente
dall’art. 28 del Testo unico in materia di lavoro nelle Pubbliche
Amministrazioni (D.Lgs. 165/2001). Tale articolo prescrive che l’accesso alla
qualifica di Dirigente di seconda fascia nelle Amministrazioni statali (anche ad
ordinamento autonomo) e negli Enti pubblici non economici avvenga
per concorso indetto dalle singole Amministrazioni oppure per corso-concorso
selettivo di formazione bandito dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione
(SNA).
Il rapporto tra Dirigenti scelti con concorso da parte delle singole
Amministrazioni e Dirigenti scelti sulla base del corso-concorso della SNA è
stato portato al 50%.
L’accesso alla Dirigenza di prima fascia
L’accesso alla qualifica di Dirigente di prima fascia avviene per il 50% dei
posti tramite concorso pubblico.
Tale concorso è per titoli ed esami e viene indetto dalle singole
Amministrazioni, sulla base di criteri generali stabiliti con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri, previo parere della Scuola Nazionale
dell’Amministrazione. Nei casi in cui lo svolgimento dei relativi incarichi
richieda una specifica esperienza e peculiare professionalità, si può provvedere
alla copertura di singoli posti con contratti di diritto privato a tempo
determinato per un periodo non superiore ai 3 anni. In questo caso il
reclutamento avviene attraverso un concorso pubblico aperto ai soggetti in
possesso dei requisiti professionali e delle attitudini manageriali
corrispondenti al posto di funzione da coprire. Ai sensi del comma 1, la quota
di copertura comunque non può essere superiore alla metà dei posti da mettere a
concorso.
Mobilità dei Dirigenti
Una volta ottenuto l’accesso alla qualifica, i Dirigenti hanno la facoltà
prevista dalla Legge di spostarsi e conoscere ed operare in altre realtà. Se
l’Amministrazione di appartenenza non si oppone, i Dirigenti delle Pubbliche
Amministrazioni infatti possono, se vogliono, essere collocati in aspettativa
senza assegni per svolgere attività presso soggetti e organismi, pubblici o
privati, anche operanti in sede internazionale, i quali si fanno carico del
relativo trattamento previdenziale. Il periodo di aspettativa comporta il
mantenimento della qualifica posseduta.
Contratti e retribuzione
La retribuzione del personale con qualifica di Dirigente è determinata dai
Contratti Collettivi per le Aree dirigenziali.
Il trattamento economico accessorio è correlato alle funzioni, alle
responsabilità e ai risultati conseguiti.
Il trattamento accessorio collegato ai risultati deve costituire almeno il 30%
della retribuzione complessiva del Dirigente, considerata al netto della
retribuzione individuale di anzianità e degli incarichi aggiuntivi.
Per gli incarichi di Uffici dirigenziali di livello generale il trattamento
economico fondamentale è stabilito con Contratto individuale, assumendo come
parametri di base i valori economici massimi contemplati dai Contratti
Collettivi per le Aree dirigenziali. E’ poi determinato il trattamento economico
accessorio, collegato al livello di responsabilità attribuito con l’incarico e
ai risultati conseguiti. Nell’ambito delle misure di contenimento della spesa
pubblica è stato introdotto dal 1° maggio 2014 un limite massimo retributivo per
tutto il personale pubblico fissato in 240.000 euro, al lordo dei contributi
previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente.
Gli incarichi dirigenziali
La recente normativa sulla Dirigenza pubblica ha separato la qualifica
dirigenziale dall’incarico dirigenziale.
La qualifica dirigenziale è ora unica (sebbene articolata in due fasce) e viene
conferita in modo stabile con il contratto individuale di lavoro, a seguito di
una procedura concorsuale.
L’incarico dirigenziale, invece, riguarda lo specifico Ufficio al quale il
Dirigente è preposto ed è conferito a tempo determinato, con un provvedimento
amministrativo, quindi non per concorso ma a discrezione della Politica o della
Dirigenza superiore.
In particolare, il conferimento è deciso dall’organo politico o dal Dirigente di
livello superiore con ampia discrezionalità.
Le modalità di attribuzione degli incarichi
L’articolo 19 comma 1 del D.Lgs. n. 165 del 2001 (il Testo unico del pubblico
impiego che costituisce una norma di principio cui anche le Amministrazioni
diverse da quelle statali debbono adeguarsi) stabilisce che per il conferimento
di ciascun incarico dirigenziale “si tiene conto, in relazione alla natura e
alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle
capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione
dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva
annuale.”
Oggetto, durata, rinnovo, revoca dell’incarico
All’atto del conferimento dell’incarico devono essere definiti l’oggetto
dell’incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai
piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice dell’Amministrazione.
La durata dell’incarico deve essere correlata agli obiettivi prefissati e,
comunque non può essere inferiore a tre anni né può eccedere il termine di
cinque anni.
Gli incarichi sono rinnovabili e possono essere revocati sia in caso di mancato
raggiungimento degli obiettivi, come dettato dall’art. 21 del citato Testo unico
165/2001 sia per una riorganizzazione dell’Ente. In entrambi i casi, il
provvedimento di revoca dovrà essere comunicato all’interessato con un
sufficiente anticipo, così da permettere una effettiva interlocuzione con
l’Amministrazione.
Incarichi a soggetti esterni all’amministrazione
La legge prevede la possibilità di conferire incarichi dirigenziali, anche di
dirigenza generale, a soggetti esterni all’Amministrazione secondo alcune
condizioni:
i soggetti devono avere una particolare specializzazione professionale,
culturale o scientifica desumibile dalla formazione universitaria e
postuniversitaria; questa specializzazione, funzionale agli obiettivi
dell’Amministrazione, non deve essere disponibile nel personale
dell’Amministrazione stessa. La formazione universitaria richiesta, inoltre, non
può essere inferiore al possesso della Laurea specialistica o magistrale, ovvero
del diploma di Laurea conseguito secondo l’ordinamento didattico previgente al
regolamento di cui al D.M n. 509/1999.
Incompatibilità degli incarichi
Le recenti norme contro la corruzione prevedono l’obbligo per un Dirigente a cui
viene conferito un incarico di scegliere, a pena di decadenza, entro il termine
di quindici giorni, tra la permanenza nell’incarico e:
l’assunzione e lo svolgimento di incarichi e cariche in Enti di diritto privato
regolati o finanziati dalla Pubblica Amministrazione che conferisce l’incarico;
lo svolgimento di attività professionali;
ovvero l’assunzione della carica di componente di organi di indirizzo politico.
Inconferibilità degli incarichi
La legge prevede che non possano essere conferiti incarichi di Direzione di
strutture deputate alla gestione del personale a soggetti che rivestano o
abbiano rivestito negli ultimi due anni cariche in partiti politici e
organizzazioni sindacali, o che abbiano avuto negli ultimi due anni rapporti
continuativi di collaborazione o di consulenza con le predette organizzazioni.
Inoltre, non possono essere conferiti incarichi dirigenziali a coloro che
abbiano riportato condanne penali per i reati contro la Pubblica
Amministrazione.
Trasparenza degli incarichi dirigenziali
Negli ultimi anni sono state oggetto di riordino e rafforzamento le prescrizioni
in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni per i
titolari di incarichi dirigenziali.
Al tempo stesso sono obbligatoriamente pubblicate ed aggiornate le informazioni
relative ai titolari di incarichi di collaborazione o consulenza.
In particolare, devono essere pubblicati i seguenti documenti ed informazioni:
l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata
dell’incarico o del mandato elettivo; il curriculum; i compensi di qualsiasi
natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e
missioni pagati con fondi pubblici; i dati relativi all’assunzione di altre
cariche, presso Enti pubblici o privati.
Lo “spoil system”
Lo “spoils system” è un istituto giuridico di derivazione statunitense, in
applicazione del quale gli esecutivi che si avvicendano nel Governo o
nell’amministrazione della cosa pubblica hanno il potere di nominare una parte
del personale burocratico come di stretta estrazione fiduciaria. L’ordinamento
giuridico italiano prevede una forma specifica di “spoils system” applicato
agli incarichi dirigenziali apicali delle Amministrazioni statali, le cui
attività sono strettamente connesse con gli indirizzi politico-amministrativi
del Governo in carica. Gli incarichi apicali in argomento, infatti, cessano
automaticamente, decorsi 90 giorni dal voto sulla fiducia ottenuto dal Governo
subentrante.
Possono essere coinvolti nello “spoil system” gli incarichi di:
Segretario generale di Ministeri;
gli incarichi di Direzione di strutture articolate al loro interno in uffici
dirigenziali generali e quelli di livello equivalente (come, ad esempio, i Capi
Dipartimento dei Ministeri).
Decadono poi anche tutti gli Uffici di diretta collaborazione degli organi
politici (Ministri, Sindaci, Presidenti di Regione) e, ove nominati, i Direttori
generali degli Enti Locali.
L’art. 108 del T.U.EE.LL., riprendendo a sua volta quanto riportato nella
L.142/90 a seguito della riforma operata con la l.127/97 (c.detta Bassanini
Bis), così cristallizza la figura del Direttore Generale dell’Ente Locale: “1.
Il sindaco nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti e il
presidente della provincia, previa deliberazione della giunta comunale o
provinciale, possono nominare un direttore generale, al di fuori della dotazione
organica e con contratto a tempo determinato, e secondo criteri stabiliti dal
regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi, che provvede ad
attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo
dell'ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della
provincia, e che sovrintende alla gestione dell'ente, perseguendo livelli
ottimali di efficacia ed efficienza. Compete in particolare al direttore
generale la predisposizione del piano dettagliato di obiettivi previsto
dall'articolo 197, comma 2 lettera a), nonché la proposta di piano esecutivo di
gestione previsto dall'articolo 169. A tali fini, al direttore generale
rispondono, nell'esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti dell'ente,
ad eccezione del segretario del comune e della provincia.
2. Il direttore generale è revocato dal sindaco o dal presidente della
provincia, previa deliberazione della giunta comunale o provinciale. La durata
dell'incarico non può eccedere quella del mandato del sindaco o del presidente
della provincia.
3. Nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti è consentito
procedere alla nomina del direttore generale previa stipula di convenzione tra
comuni le cui popolazioni assommate raggiungano i 15.000 abitanti. In tal caso
il direttore generale dovrà provvedere anche alla gestione coordinata o unitaria
dei servizi tra i comuni interessati.
4. Quando non risultino stipulate le convenzioni previste dal comma 3 e in ogni
altro caso in cui il direttore generale non sia stato nominato, le relative
funzioni possono essere conferite dal sindaco o dal presidente della provincia
al segretario.”
La riforma della Dirigenza pubblica
All’interno del modulo formativo pubblicato sulla
piattaforma concorsipubblici.fpcgil.it è presente anche un focus sulla storia
della legislazione italiana in tema di Dirigenza pubblica, dalla nascita della
figura del Dirigente pubblico nel 1972 passando per le diverse modifiche
introdotte dai Ministri Sacconi, Bassanini, Frattini, Brunetta, Madia e
Bongiorno. Un percorso di fondamentale importanza, in quanto la materia al
momento è tutt’altro che definita.
Ai sensi dell'art. 22 co. 2 del CCNL Funzioni locali la durata dell'orario di
lavoro non può superare la media delle 48 ore settimanali, comprensive del
lavoro straordinario, calcolata con riferimento ad un arco temporale di sei mesi
Ai sensi dell'art. 22 del CCNL del comparto Funzioni locali, in merito
all'orario di lavoro, il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo
consecutivo giornaliero, per il recupero delle energie psicofisiche non
inferiore a 11 ore
Quanto tempo prima bisogna avvisare per malattia?
Secondo la contrattazione collettiva l'assenza per malattia deve essere
comunicata all'ufficio di appartenenza tempestivamente e comunque all'inizio
dell'orario di lavoro del giorno in cui si verifica, anche nel caso di eventuale
prosecuzione dell'assenza, salvo comprovato impedimento.
Cosa succede se prendo solo un giorno di malattia?
Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (n. 17898 del 22 agosto
2007) ha stabilito che le assenze per malattia anche della durata di un solo
giorno devono essere giustificate dal certificato medico, se il datore di lavoro
lo richiede.
A norma del disposto di cui all'art. 55-septies del D.Lgs. n. 165/2001 e s.m.i.,
in quale caso l'assenza per malattia deve essere giustificata mediante
certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un
medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale?
Nell'ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci
giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell'anno solare
Perché i primi tre giorni di malattia non vengono pagati?
Nei primi tre giorni di malattia, al lavoratore non viene erogata alcuna somma
da parte dell'Inps e solitamente l'indennizzo è a carico del datore di lavoro,
in base alle regole applicate dal contratto collettivo di cui fa parte il
lavoratore.
Il periodo di comporto è quel periodo massimo di non lavoro dovuto a malattia o
infortunio, nel quale il datore di lavoro non può procedere al licenziamento.
Trascorso tale periodo, è possibile recedere dal contratto. La disposizione è
contenuta all'interno dell'art. 2110 del Codice civile.
Lavoro, quanti giorni di malattia si possono fare in un anno?
Come si conteggiano e cosa fare per non essere licenziati, by AVV. FABIO RUSSO
su Brocardi.it
Quanti giorni di malattia si possono prendere al lavoro in un anno? Cosa dice la
legge.
Come dice un vecchio proverbio, le malattie vengono a cavallo e se ne vanno a
piedi. Può succedere che un lavoratore si ammali e può anche accadere che lui
non torni al lavoro per molti giorni. Una situazione che, quando si protrae per
molto tempo, può creare disagi e mettere a dura prova la pazienza del datore.
Allora, bisogna rispondere ad una domanda fondamentale: c’è un numero massimo di
giorni di malattia che il lavoratore può fare in un anno? La risposta è sì.
In linea generale, la legge vigente stabilisce un massimo di 180 giorni di
malattia retribuiti nell’arco di un anno.
Però, sempre a favore del lavoratore, il contratto collettivo nazionale di
lavoro (CCNL) o le disposizioni aziendali possono prevedere una diversa durata
massima della malattia.
Cerchiamo ora di capire come il lavoratore può usufruire dei giorni di malattia.
Partiamo dall’ovvio. È necessario il certificato medico. Il dipendente deve
presentare un certificato medico entro i successivi tre giorni lavorativi dal
giorno di assenza.
Il medico curante deve rilasciare il certificato con cui conferma che il
lavoratore deve assentarsi per motivi di salute.
Peraltro, il dipendente deve seguire le procedure interne dell’azienda per
presentare il certificato medico e per comunicare la propria assenza (ad
esempio, trasmettere il certificato tramite e-mail o comunicare telefonicamente
l’assenza).
E cosa succede se il lavoratore non rispetta queste regole? Ci potrebbero essere
sanzioni disciplinari, fino ad arrivare al licenziamento per giusta causa.
Finora abbiamo visto i doveri del dipendente nel caso di malattia, ma ora
cerchiamo di capire se il lavoratore malato ha anche dei diritti.
Fino a quando il lavoratore rientra nel numero massimo di giorni di malattia,
egli ha una serie di diritti.
Innanzitutto, il dipendente malato ha il diritto alla retribuzione durante i
giorni di malattia, secondo quanto previsto dalla legge o dal CCNL.
I primi tre giorni di malattia sono a carico del datore di lavoro (c.d. periodo
di carenza). Poi, dal quarto giorno in poi, entra in gioco l’INPS che paga una
quota dello stipendio, mentre la restante parte viene comunque versata
dal datore fino a raggiungere l’intera retribuzione spettante al lavoratore.
Ecco perché è importante che il certificato medico sia trasmesso non solo al
datore, ma anche all’INPS.
Ancora, durante il periodo di malattia, il dipendente ha diritto a mantenere il
posto di lavoro.
Peraltro, deve essere favorito il rientro del lavoratore in azienda. Il datore
deve cercare di facilitare il ritorno al lavoro, salvaguardando la salute del
dipendente. Ad esempio, su consiglio del medico aziendale, il datore potrebbe
assegnare al lavoratore mansioni più leggere e compatibili con il suo stato di
salute, a parità di retribuzione.
Certo, poi se si tira troppo la corda, questa si spezza. E, infatti, le cose
cambiano quando il lavoratore supera i giorni massimi di malattia. Vediamo
perché.
Una prima conseguenza potrebbe essere una riduzione dello stipendio. Il
lavoratore potrebbe ricevere uno stipendio ridotto o non ricevere alcunché per i
giorni di malattia non retribuiti.
Ancora, il dipendente potrebbe perdere giorni di ferie e di permesso.
Nei casi più gravi, ci potrebbe addirittura essere il licenziamento per il
lavoratore eccessivamente cagionevole.
Queste sono le misure più adatte che datore di lavoro e dipendente ammalato
possono rispettivamente seguire per tutelare le proprie posizioni.
Come funzionano i 6 mesi di malattia?
Nei primi
9 mesi di assenza, questo ha diritto inoltre al 100% della retribuzione. Nei
tre mesi successivi, quindi dal 10° al 12°, gli spetta un'indennità pari al 90%
della retribuzione. Dal 13° al 18° mese, infine, l'indennità si abbassa al 50%
dello stipendio, mentre per dal 18° mese in poi non spetta alcunché.
Periodo di comporto malattia: quando si azzera?
di Andrea Mannino
L’istituto della conservazione del posto di lavoro in caso di malattia
(altrimenti detto, in termini più tecnici, il periodo di comporto malattia)
trova la propria fonte normativa nella costituzione e nel Codice civile.
La costituzione afferma che i “lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed
assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio,
malattia, invalidità e vecchiaia”; il Codice Civile dispone che il lavoratore
che si assenta per malattia ha diritto non solo alla conservazione del proprio
posto di lavoro, ma anche alla corresponsione, quando previsto dalla legge o
dalla contrattazione collettiva, della retribuzione o di un’indennità, purché
l’assenza non superi il periodo stabilito (quasi sempre) dai contratti
collettivi.
Ecco, quindi, che viene individuata dalla normativa vigente la fonte della
risposta alla domanda del presente articolo, ovvero: quando si azzera il periodo
di comporto malattia?
Per verificare il proprio caso specifico occorre consultare il contratto
collettivo applicato al proprio rapporto di lavoro e verificare cosa lo stesso
dispone quanto all’ipotesi di malattia.
Quando si azzera il periodo di comporto?
Ogni contratto collettivo, di norma, prevede non solo il diritto del lavoratore
a un trattamento economico integrativo rispetto a quello che può essere
riconosciuto da INPS (va infatti detto che INPS non interviene con un indennizzo
di malattia per tutti i settori e per tutte le categorie di lavoratori) ma
indica altresì l’arco temporale di riferimento utile ai fini del computo del
comporto di malattia.
Nel nostro ordinamento esistono centinaia di contratti collettivi diversi,
pertanto non esiste una risposta univoca in ordine a quando si azzera il periodo
di comporto malattia.
Ci sono contratti, ad esempio, che indicano che il periodo di comporto è di 6
mesi nell’anno di calendario, con la conseguenza che il periodo di comporto
malattia si azzera ogni 1° gennaio, decorrendo dalla stessa data i nuovi 6 mesi
di periodo di comporto.
Ci sono contratti invece che estendono il periodo di conteggio del comporto ai
tre anni passati.
Esistono anche casi di contratti collettivi che differenziano il periodo di
comporto (e quindi modificando a seconda dei casi il momento da quando si
azzera) a seconda di un evento patologico continuativo (periodo di comporto
secco) o multiplo (periodo di comporto per sommatoria).
In definitiva, quindi, è indispensabile verificare – e noi suggeriamo di farlo
con un avvocato specializzato in diritto del lavoro – cosa è previsto nel
proprio caso specifico dalla normativa applicabile.
Va infine considerato che il tema della determinazione del periodo di comporto e
del trattamento economico che viene ricevuto dal lavoratore durante il periodo
di comporto son questioni diverse.
Può infatti ricorrere il caso – e ancora una volta questo dipende dal singolo
contratto collettivo – in cui il lavoratore abbia diritto alla conservazione del
posto (e addirittura che si trovi nel caso in cui si azzera il periodo di
comporto) ma non abbia diritto ad alcun indennizzo in caso di assenza per
malattia (ad esempio malattia continuativa oltre sei mesi nel medesimo anno,
senza intervento di INPS, e senza intervento integrativo del datore di lavoro
perché non previsto dal contratto collettivo applicato).
È quindi necessario considerare anche quest’ultimo aspetto quando si valuta il
periodo di comporto perché è possibile che, quando lo stesso si azzera… si
azzeri anche l’indennità di malattia.
IL PERIODO DI COMPORTO NEL PUBBLICO IMPIEGO, scritto dall’avvocato Claudio
Paolini.
Dopo esserci occupati delle assenze dal lavoro per malattia del lavoratore
trapiantato o in attesa di trapianto e, più in generale, della tutela del
paziente in ambito lavorativo, vediamo ora come questa tematica viene
disciplinata nell’ambito del pubblico impiego, con particolare riferimento al
periodo di comporto.
Ricordiamo che il comporto è il periodo massimo di giorni di assenza dal lavoro
per malattia, decorso il quale il dipendente non ha più diritto alla
conservazione del posto di lavoro. La durata di tale arco temporale, anche per
il pubblico impiego, è stabilita dai singoli Contratti Collettivi Nazionali di
Lavoro (CCNL) applicabili ai diversi comparti di appartenenza del lavoratore,
che, oltre a questo aspetto, disciplinano anche altri profili di questo
istituto.
Per i dipendenti pubblici, la disciplina delle assenze per motivi sanitari è
stata ridefinita dal Decreto-legge n. 112 del 25/06/2008, art. 71 (convertito,
con modificazioni, dalla Legge 06/08/2008, n. 133), con le integrazioni di cui
alle Circolari nn. 7/2008, 8/2008 e 10/2011 del Dipartimento di Funzione
Pubblica.
In linea generale, per i dipendenti pubblici, il comporto non può avere una
durata superiore a 18 mesi, con possibilità di proroga per ulteriori 18 mesi.
Solo i primi 18 mesi sono retribuiti in base alla effettiva durata delle assenze
dal servizio; l’eventuale periodo di proroga, invece, viene fruito come periodo
di aspettativa non retribuita, da richiedersi prima della scadenza del primo
periodo, nel caso in cui le condizioni di salute del lavoratore non gli
consentano un rientro in servizio. Dopo avere ricevuto la domanda di
aspettativa, l’Amministrazione di appartenenza, attraverso il servizio di
Medicina Legale dell’Ausl di riferimento, può richiedere gli accertamenti
sanitari, volti a verificare che, effettivamente, le attuali condizioni di
salute del dipendente non gli consentano di rientrare al lavoro. Trascorso tale
periodo (18 mesi + 18 mesi), se il lavoratore è stato riconosciuto idoneo al
lavoro, ma non alle mansioni specifiche del proprio profilo professionale, può
rientrare in servizio, essendo adibito – con il suo consenso – anche a mansioni
inferiori a quelle di originaria assegnazione, ove nella pianta organica ve ne
siano di compatibili con le sue condizioni di salute. In tale caso, comunque, il
dipendente conserva il trattamento retributivo più favorevole, corrispondente
alle mansioni di provenienza.
Poiché la conseguenza del superamento di tale periodo può essere la perdita del
posto di lavoro per licenziamento, è particolarmente importante essere a
conoscenza della disciplina contrattuale applicabile al proprio comparto di
appartenenza. Vi rimandiamo all’articolo dedicato al tema, già pubblicato, per
gli approfondimenti.
A tal proposito, anche il dipendente pubblico ha la possibilità di sospendere il
decorso del periodo di comporto, proprio per non dovere trovarsi esposto al
rischio di essere licenziato a causa del suo decorso. Egli, a tal fine, prima
della scadenza del comporto, può chiedere di fruire delle ferie maturate e non
godute, in sostituzione dei giorni di malattia. Sul punto la Corte di Cassazione
si è espressa con la ordinanza 10 luglio – 14 settembre 2020, n. 19062. Dopo
avere premesso che: 1) il lavoratore ha la “facoltà di sostituire alla malattia
la fruizione delle ferie, maturate e non godute”, 2) la scelta del periodo di
fruizione delle ferie, in linea di principio, spetta al datore di lavoro, la
Suprema Corte ha espresso il principio per cui il diniego delle ferie da parte
del datore si deve, comunque, misurare “con il rilevante e fondamentale
interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto
di lavoro per scadenza del periodo di comporto”.
Pertanto, quando la fruizione delle ferie è finalizzata a evitare lo spirare del
comporto, il diritto del datore di scegliere il tempo delle ferie, sancito
dall’art. 2109 del Codice civile, viene notevolmente limitato, ritenendosi
preminente il diritto del lavoratore a non perdere il proprio posto di lavoro
per motivi di salute. In questo frangente, dunque, l’eventuale diniego della
“richiesta ferie” dovrà essere fondato su una motivazione particolarmente
stringente ed esplicativa.
Durante i periodi di assenza per malattia, la retribuzione viene corrisposta
secondo la seguente quantificazione:
primi 9 mesi: 100% della retribuzione (esclusi, nei primi dieci giorni, ogni
indennità o emolumento, aventi carattere fisso o continuativo, nonché ogni altro
trattamento accessorio);
successivi 3 mesi: 90% della retribuzione;
ulteriori 6 mesi: 50% della
retribuzione;
eventuali 18 mesi successivi: 0% retribuzione.
Vediamo che, nei primi dieci giorni di ogni periodo di malattia, la retribuzione
subisce una decurtazione, in quanto viene corrisposto il solo trattamento
economico fondamentale (si rimanda alla Circolare del Dipartimento di Funzione
Pubblica n. 7/2008 per verificare le componenti di tale trattamento), escluse le
voci sopra indicate, come previsto dall’art. 71 del Decreto-legge n. 112/2008.
Questo articolo, sancisce, però, la possibilità che i singoli CCNL (o le
normative di settore) stabiliscano una disciplina più favorevole, in forza della
quale tale decurtazione potrebbe non applicarsi, fra l’altro, per:
assenze dovute a gravi patologie che richiedono l’effettuazione delle terapie
salvavita (che, cioè, sono indispensabili per il mantenimento in vita del
soggetto o per il suo prolungamento, di per sé produttive di una incapacità
temporanea alla prestazione lavorativa, a causa dei loro effetti invalidanti),
quali l’emodialisi, la chemioterapia, ecc… (sono esclusi dalla decurtazione
anche i giorni di assenza dovuti alle conseguenze invalidanti certificate che,
tipicamente, possono derivare in seguito alla effettuazione delle terapie
salvavita); assenze per ricovero ospedaliero o day-hospital. Eccezion fatta per
le citate casistiche, l’ultimo comma dell’art. 71 sancisce espressamente che la
contrattazione collettiva non può derogare alla riduzione della retribuzione nei
primi dieci giorni di malattia. Con la circolare n. 8/2008, il Dipartimento
della Funzione Pubblica precisa, poi, che la decurtazione opera per ogni
episodio di assenza (anche di un solo giorno) e per tutti i dieci giorni, anche
se l’assenza si protrae per più di dieci giorni. Decorsi tale primo periodo, si
applicherà il regime giuridico – economico previsto dai CCNL e dagli accordi di
comparto.
Il periodo di comporto va calcolato, sommando, di volta in volta, i giorni di
assenza dovuti al nuovo episodio di malattia alle assenze per malattia
verificatesi nei tre anni precedenti. Pertanto, è importante prestare attenzione
alla data in cui ha avuto inizio l’ultimo episodio di morbilità, in quanto è
proprio da quella data che decorrono i tre anni a ritroso.
Quanto al calcolo del comporto, si segnala, inoltre, che vi sono CCNL che,
introducendo una disciplina di maggior favore, prevedono lo scorporo, da tale
periodo, dei giorni di assenza per malattia dovuti alle patologie gravi, che
richiedono terapie salvavita. In particolare, vengono scorporati:
i giorni di ricovero ospedaliero o di day hospital, necessari a effettuare le
terapie;
i giorni di assenza dovuti al prodursi degli effetti collaterali diretti delle
terapie stesse, certificati come tali.
In tal senso, si segnala la sentenza della Corte costituzionale n. 28 del 3
marzo 2021. È importante evidenziare che la gestione clinica e il monitoraggio
del trapianto, da un punto di vista normativo, non sono considerate terapia
salvavita, con tutte le conseguenze derivanti da quanto sopra illustrato in
fatto di retribuzione e calcolo del periodo di comporto. Il lavoratore
trapiantato, quindi, potrà optare per:
permesso breve, permesso per documentati motivi personali, assenze per
malattia, ferie, aspettativa finalizzata ad evitare il superamento del comporto,
permessi di cui alla Legge n. 104/92.L’Inps ha incluso il trapianto d’organo
vitale nella lista di riferimento delle situazioni patologiche che integrano il
diritto all’esonero dalle fasce di reperibilità in caso di assenza per malattia
(“Linee Guida in attuazione del Decreto del Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali, di concerto con il Ministro della Salute, 11 gennaio 2016,
previsto dall’art. 25 del D. Lgs. 14 settembre 2015, n. 151”).
La procedura volta al riconoscimento di una grave patologia deve essere attivata
dal lavoratore, che è tenuto a trasmettere alla propria Amministrazione una
certificazione medica attestante sia l’esistenza di una grave patologia – non
incompatibile, in maniera permanente, con la conservazione del rapporto di
lavoro -, sia la necessità, in conseguenza della patologia, di ricorrere,
contestualmente alla patologia in atto, alle terapie salvavita, oltre che del
periodo temporale in cui verrà effettuata.
Visite fiscali 2024 INPS: nuovi orari malattia e reperibilità dipendenti privati
e pubblici, by Antonio Maroscia
La visita fiscale consiste in una visita medica di controllo domiciliare, ovvero
un accertamento presso il domicilio del lavoratore dipendente da parte dei
medici fiscali INPS, in determinate fasce orarie giornaliere, conosciute come
fasce di reperibilità, o anche orari visita fiscale, che variano tra pubblico e
privato. Pertanto, i lavoratori dipendenti sono tenuti a conoscere le regole
relative a tali orari delle visite fiscali per evitare di risultare assenti
senza giustificazioni valide e incorrere in sanzioni pecuniarie e/o disciplinari
da parte del proprio datore di lavoro.
In questa guida andremo a vedere quindi quali sono gli orari malattia,
reperibilità, regole, esonero (o esenzione) e assenza alla visita controllo
malattia per dipendenti privati e pubblici (ex mutua). La guida completa
riguarda la disciplina delle visite mediche di controllo per malattia lavoratori
pubblici e privati, con orari mutua (fasce orarie di reperibilità), sanzioni per
assenza alla visita di controllo, casi di esenzione e normativa di riferimento.
Aggiornamento: a seguito della sentenza del Tribunale amministrativo regionale
(TAR) del Lazio n. 16305/2023, l’INPS con messaggio numero 4640 del
22/12/2023 ha fornito, le necessarie indicazioni operative per l’espletamento
degli accertamenti medico-legali domiciliari e le nuove fasce orarie per le
visite fiscali dei dipendenti pubblici. Dal 22 dicembre 2023 le fasce orarie per
i dipendenti pubblici (o statali) sono 10.00 – 12.00 e 17.00 – 19.00 come per i
dipendenti privati.
Ma andiamo con ordine e vediamo cos’è e come funziona la visita fiscale a cura
del polo unico INPS (che da qualche anno si occupa di tutte le visite di
controllo) per poi passare a vedere orari e fasce di reperibilità, regole e
sanzioni previste in caso di assenza.
Visita fiscale, cos’è e come funziona
Il lavoratore dipendente assente per malattia percepisce una specifica indennità
a suo favore in sostituzione della normale retribuzione, riconosciuta ai
lavoratori quando si verifica un evento morboso che ne determina l’incapacità
temporanea al lavoro. Il periodo di malattia serve per il suo recupero
psico-fisico e di conseguenza è tenuto a “riposare” e curarsi, proprio in virtù
di tale recupero. In questo periodo il lavoratore sarà quindi soggetto a
verifiche da parte dell’Istituto previdenziale, che serviranno a conoscere il
suo reale stato di salute.
Per non perdere il diritto all’indennità di malattia il lavoratore è quindi
tenuto a:
contattare il proprio medico, che dovrà redigere e trasmettere il certificato di
malattia (o attestato) in via telematica all’INPS;
rispettare le fasce di reperibilità (che cambiano fra privato e pubblico
impiego) e rimanere presso il prossimo domicilio (indicato nel certificato) per
favorire le visite mediche di controllo dell’INPS.
Quali sono le fasce orarie di reperibilità alle visite fiscali
Le fasce orarie di reperibilità sono determinati momenti della giornata in cui
il lavoratore in malattia deve rendersi reperibile presso il proprio domicilio
per permettere alle autorità competenti di fare le verifiche sulla malattia
dichiarata nel certificato medico. Questi orari di reperibilità sono differenti
fra i lavoratori dipendenti pubblici e quelli privati come vedremo in seguito.
Come detto, in caso di malattia i lavoratori dipendenti sono soggetti a
controlli da parte del medico dell’Inps. Questi controlli, detti visite fiscali
o controlli mutua, si rendono necessari per verificare l’effettivo stato di
malattia del lavoratore e per permettere pertanto di far rispettare le regole
sulla malattia del lavoratore.
Dal 2017 è in funzione il Polo unico INPS per le visite fiscali e quindi le
competenze relative alle visite mediche di controllo, ovvero ai controlli sulle
assenze per malattia, passano dalle ASL all’INPS omologando il sistema pubblico
a quello privato.
Orari visite fiscali
Passiamo ora a vedere quali sono gli orari visite fiscali 2023 – 2024 INPS per
dipendenti privati e pubblici.
Questi come detto in precedenza sono differenti fra privato e pubblico, e anche
se l’intento della riforma Madia era di unificarli insieme al Polo Unico, per il
momento rimangono invariati.
Inoltre, è bene riepilogare anche le fasce orarie di malattia per i dipendenti
delle Forze Armate e i dipendenti della Scuola pubblica.
Orari Visite fiscali dipendenti privati
Le fasce orarie di orarie di reperibilità per la visita fiscale dei dipendenti
del settore privato 7 giorni su 7 compresi festivi vanno:
mattina: dalle ore 10.00 alle ore 12.00; pomeriggio: dalle ore 17.00 alle ore
19.00.
I lavoratori dovranno trovarsi presso l’indirizzo di domicilio indicato nel
certificato medico di malattia in queste fasce orarie per non risultare assenti
alle visite fiscali.
Orari Visita fiscale dipendenti pubblici (orari aggiornati)
Con la sentenza n. 16305 del 3 novembre 2023 il Tar del Lazio ha ritenuto che la
differenziazione delle fasce orarie di reperibilità costituisca una disparità di
trattamento ingiustificata tra i dipendenti pubblici e privati, violando il
principio costituzionale di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della
Costituzione italiana. Cosa succede ora? Qui tutti i dettagli sulla sentenza.
A seguito della sentenza del Tribunale amministrativo regionale (TAR) del Lazio
n. 16305/2023, che ha annullato il suddetto decreto nella parte sopra riportata,
l’INPS con messaggio numero 4640 del 22/12/2023 ha fornito, le necessarie
indicazioni operative per l’espletamento degli accertamenti medico-legali
domiciliari e le nuove fasce orarie per le visite fiscali dei dipendenti
pubblici.
Come specifica l’INPS, nelle more dell’emanazione di un nuovo decreto
ministeriale (o dell’eventuale riforma della sentenza n. 16305/2023 del TAR
Lazio), in virtù del principio di armonizzazione, richiamato in sentenza, le
visite mediche di controllo domiciliare nei confronti dei lavoratori pubblici,
fino a nuove disposizioni, dovranno essere effettuate nei seguenti orari.
Ecco, quindi, quali sono gli orari transitori di reperibilità in malattia per
gli statali ovvero per i lavoratori dipendenti del settore pubblico. Le fasce di
reperibilità dei dipendenti pubblici 7 giorni su 7 compresi festivi vanno:
mattina: dalle ore 10.00 alle ore 12.00 - dalle 9.00 alle 13.00;
pomeriggio: dalle ore 17.00 alle ore 19.00 - dalle 15.00 alle 18.00.
Secondo le nuove regole queste le visite fiscali potranno essere svolte
sistematicamente e anche in modo ripetitivo; anche nel corso della stessa
malattia o della stessa giornata e anche in prossimità di giorni festivi o di
riposo settimanale.
Visite Fiscali INPS 2024 Forze Armate
Anche gli orari di reperibilità per le visite fiscali dei dipendenti Forze
Armate dovrebbero seguire questa novità e quindi sono 7 giorni su 7 compresi
festivi:
mattina: dalle ore 10.00 alle ore 12.00 - dalle 9.00 alle 13.00;
pomeriggio: dalle ore 17.00 alle ore 19.00 - dalle 15.00 alle 18.00.
Anche se rimangono nell’alveo dei lavoratori statali o pubblici i dipendenti del
settore Forze Armate hanno spesso una normativa differente rispetto agli altri
dipendenti pubblici. Con il messaggio numero 2109 del 3 giugno 2019 l’INPS ha
comunicato le nuove regole per i controlli anche per gli appartenenti alle Forze
armate, ai Corpi armati dello Stato (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza,
Polizia Penitenziaria, Esercito, Marina Militare e Aeronautica Militare) e al
Corpo nazionale dei vigili del fuoco.
Anche queste amministrazioni sono soggette al Polo Unico dell’INPS e seguiranno
le stesse regole dei dipendenti pubblici. Rimangono per ora esclusi dall’obbligo
del certificato di malattia telematico.
Orari Visita Fiscale Scuola
Stesso discorso vale per gli orari della Visita Fiscale per il settore
della Scuola e di tutto il personale che ci lavora come Docenti, Personale ATA,
DSGA e Dirigenti Scolastici.
Gli orari di reperibilità (temporanei fino a nuove indicazioni) sono 7 giorni su
7 compresi festivi:
mattina: dalle ore 10.00 alle ore 12.00 - dalle 9.00 alle 13.00;
pomeriggio: dalle ore 17.00 alle ore 19.00 - dalle 15.00 alle 18.00.
Fasce di reperibilità malattia – Orari mutua dipendenti pubblici e privati
Ecco un piccolo schema riassuntivo degli orari mutua ovvero delle fasce orarie
di reperibilità durante la malattia per i dipendenti pubblici e privati.
Come anticipato sopra i lavoratori in malattia dovranno trovarsi presso
l’indirizzo di domicilio indicato nel certificato medico.
Infatti, in caso di assenza alla visita di controllo dell’INPS si potranno avere
diverse sanzioni, come spiegheremo in seguito.
Orari mutua; Fasce di reperibilità; Controlli malattia |
|
Orari mutua dipendenti privati
Reperibilità 7 giorni su 7 compresi festivi |
|
Mattina |
Pomeriggio |
dalle 10.00 alle 12.00 |
dalle 17.00 alle 19.00 |
Orari mutua; Fasce di reperibilità; Controlli malattia |
|
Orari mutua dipendenti pubblici
(comprese forze armate e scuola)
Reperibilità 7 giorni su 7 compresi festivi Orari provvisori |
|
Mattina |
Pomeriggio |
dalle 10.00 alle 12.00 (no 9.00 – 13.00) |
dalle 17.00 alle 19.00 (no 15.00 – 18.00) |
Assenza alla visita fiscale, cosa succede
In caso di assenza alla visita fiscale INPS (senza giustificazione valida)
all’indirizzo stabilito nel certificato medico e negli orari inclusi nelle fasce
di reperibilità sono previste sanzioni, pari al:
100% dell’indennità di malattia percepibile per i primi 10 giorni di malattia in
caso di 1^ assenza;
50% del restante periodo per la 2^ assenza;
infine, il 100% dell’intera indennità per irreperibilità alla 3^ visita.
Come fare una lettera giustificazione per assenza alla visita fiscale
Come giustificare l’assenza in caso di visita fiscale? In caso di assenza alla
vista fiscale all’indirizzo indicato nel certificato medico, se non si tratta di
una patologia esonerata come vedremo in seguito, il lavoratore può comunque
presentare, entro 15 giorni dalla sanzione notificata, una lettera di
giustificazione per l’assenza alla visita fiscale.
Sia per i lavoratori dipendenti pubblici che privati le assenze possono essere
giustificate in caso:
causa di forza maggiore; situazioni che hanno reso necessaria l’immediata
presenza del lavoratore altrove; visite, prestazioni e accertamenti
specialistici contemporanei alla visita fiscale. In questi casi comunque il
dipendente, può allontanarsi dall’indirizzo indicato nel certificato medico,
durante le fasce di reperibilità, ad esempio per effettuare una visita medica
specialistica o per accertamenti specialistici o per altri motivi, sempre
documentati.
Assenza alla visita fiscale dipendente pubblico
Il dipendente pubblico può assentarsi in alcuni casi durante le fasce di
reperibilità come detto sopra; ma è tenuto però a comunicare preventivamente
l’assenza all’amministrazione pubblica presso la quale è impiegato che, a sua
volta, comunicherà all’INPS.
La comunicazione da parte dell’amministrazione all’INPS può avvenire:
via e-mail a medicolegale.nomesede@inps.it; via fax indicato dalla struttura
territoriale di riferimento; tramite Contact center INPS.
Chi è esonerato dalla reperibilità?
Cos’è e come funziona l’esonero dalla vista fiscale INPS e qual è la differenza
con l’assenza giustificata negli orari di reperibilità. L’esenzione dalla visita
fiscale va indicato dal medico direttamente nel certificato medico di malattia.
Vale solo in specifici casi previsti dalla normativa vigente. Per
maggiori info è possibile consultare le FAQ dell’INPS.
Leggi anche: Esonero dalla visita fiscale: regole e differenza con l’assenza
giustificata
La normativa comunque prevede alcune circostanze che danno diritto all’esonero
dall’obbligo di reperibilità (Circolare INPS numero 95 del 7 giugno 2016).
Leggi anche: INPS: esenzione dalla reperibilità per malattia
Cambio domicilio malattia, cos’è e come si fa
Come abbiamo visto nel certificato di malattia telematico che andrà all’INPS e
al datore di lavoro il medico dovrà inserire anche un indirizzo di reperibilità
per la visita fiscale. Tuttavia, può succedere che il lavoratore debba in
seguito sostituire tale indirizzo in quanto deve trasferirsi presso altro
domicilio o residenza.
Con la circolare INPS 23 settembre 2020, n. 106, l’INPS ha reso disponibile
un nuovo servizio per comunicare il cambio di indirizzo di reperibilità, durante
l’evento di malattia comune, ai fini dell’eventuale visita medica di controllo
domiciliare disposta dal datore di lavoro. Al servizio di cambio indirizzo
malattia il cittadino può accedere tramite SPID o CIE.
Ricordiamo infine che secondo la recente sentenza numero 36729 del 25 novembre
2021 della Corte di Cassazione il dipendente che cambia domicilio o residenza
durante la malattia è tenuto a comunicarlo anche al datore di lavoro, oltre che
all’INPS.
Chi fa le visite fiscali
Ricordiamo, come detto sopra, che il nuovo polo unico delle visite di controllo
della “mutua” avrà effetti solo per alcuni dipendenti pubblici, vale a dire:
tutte le amministrazioni dello Stato; i dipendenti del settore pubblico non
soggetti al regime previsto dal D.Lgs. n. 165/2001; i dipendenti delle Autorità
indipendenti, comprese la CONSOB e la Banca d’Italia, nonché il personale delle
Università non statali legalmente riconosciute. Restano invece esclusi:
i dipendenti degli Organi costituzionali, degli enti pubblici economici, degli
enti morali, delle aziende speciali; la Provincia autonoma di Trento e i
relativi altri enti ad ordinamento provinciale. Il personale delle Forze armate
(Esercito, Marina militare, Aeronautica militare), dei Corpi armati dello Stato
(Guardia di Finanza e Carabinieri, Polizia dello Stato, Polizia Penitenziaria) e
del Corpo nazionale dei vigili del fuoco è da considerare assoggettato alla
normativa sul Polo Unico della medicina fiscale. (messaggio INPS numero 2109 del
3 giugno 2019).
Visite fiscali fuori orario: cosa sapere e come comportarsi
Cosa succede se il medico fiscale viene fuori orario? La visita fiscale fuori
orario che valore ha? Il medico dell’INPS può passare al di fuori degli orari di
reperibilità della malattia?
La risposta è no. Le visite fiscali fuori orario, ovvero effettuate fuori dalle
fasce di reperibilità della malattia non comportano infatti alcuna conseguenza
economica o disciplinare per il lavoratore assente.
Per consentire le visite di controllo della malattia, il dipendente ha infatti
l’obbligo di rendersi reperibile, presso l’indirizzo abituale o il domicilio
occasionale indicato nel certificato medico trasmesso all’INPS, nelle suddette
fasce orarie (compresi anche sabato, domenica e festivi).
Cosa succede se la vista fiscale arriva alle 15 per un dipendente privato o alle
14 per un dipendente pubblico? Il lavoratore assente presso il proprio domicilio
fuori dagli orari di visita fiscale non avrà alcuna conseguenza.
Come comportarsi per la vista fiscale fuori orario
A fronte di un’eventuale visita fiscale fuori dalle fasce orarie di
reperibilità, al lavoratore non sono richiesti particolari adempimenti, se non
quello di verificare l’arrivo di comunicazioni da parte dell’INPS. Ad esempio,
la convocazione alla visita di controllo ambulatoriale (rilasciata nelle ipotesi
di assenza nelle fasce orarie di reperibilità). In questi frangenti
l’interessato dovrà immediatamente attivarsi contattando la sede INPS
competente, evidenziando che la visita si è svolta al di fuori della
reperibilità.
Cosa fare con il datore di lavoro?
Il verificarsi di visite fiscali fuori dall’orario di reperibilità dev’essere
segnalato anche all’azienda, in modo tale da evitare che, a fronte di
un’eventuale comunicazione INPS, il datore di lavoro valuti di attivare la
procedura di contestazione disciplinare nei confronti del lavoratore assente.
Sarà poi l’azienda stessa, se del caso, a verificare con la sede INPS
territorialmente competente, la veridicità di quanto sostenuto dal lavoratore.
Chi manda la visita fiscale
Chi manda il medico a casa? La visita fiscale può partire d’ufficio
dall’INPS (ad esempio in caso di malattia molto lunga o prolungata), oppure può
essere richiesta dal datore di lavoro privato o dall’amministrazione pubblica.
Il costo della visita fiscale INPS a carico del datore di lavoro varia dai 28
euro ai 52 euro circa.
Leggi anche: Come si svolge, chi manda e quanto costa la visita medica di
controllo dell’INPS
Guida INPS su orari e regole Visita fiscale
Per concludere alleghiamo il Messaggio n. 1399 con il quale l’INPS ha rilasciato
anche un utile vademecum alla visita fiscale.
Messaggio INPS numero 1399 del 29-03-2018 (183,8 KiB, 13.845 hits)
Come sapere se c’è stata una visita fiscale dall’INPS
Con Messaggio numero 2442 del 30-06-2023 l’INPS comunica che nell’ambito del
PNRR e del Progetto “Nuovo Sportello virtuale per il cittadino e le imprese su
visite mediche di controllo” è stata rilasciata una nuova funzionalità per
consentire al lavoratore la visualizzazione delle visite mediche a lui riferite
e dei relativi esiti.
Con questa applicazione online il lavoratore potrà quindi vedere una griglia
contenente l’elenco delle visite e degli accessi, ordinati per data decrescente,
e di consultare i relativi esiti. Funzionalità molto utile per sapere se durante
una malattia è arrivata una visita fiscale e il lavoratore non se ne accorge
perchè assente o per altre motivazioni.
Dal mese di giugno del 2023 l’INPS ha rilasciato una nuova funzionalità per
consentire al lavoratore la visualizzazione delle visite mediche a lui riferite
e dei relativi esiti.
Con questa applicazione online il lavoratore potrà quindi vedere una griglia
contenente l’elenco delle visite e degli accessi, ordinati per data decrescente,
e di consultare i relativi esiti. La funzionalità è molto utile per sapere se
durante una malattia è arrivata una visita fiscale e il lavoratore non se ne
accorge perchè assente o per altre motivazioni.
Affrontiamo in questo articolo il periodo di prova, attualmente disciplinato
dall’art. 25 del CCNL 16.11.2022, che sostituisce l’art. 20 del CCNL 21.5.2018.
Scritto da Paola Aldigieri.
La finalità del periodo di prova
Benché il periodo di prova venga quasi sempre associato al vantaggio del datore
di lavoro di verificare la capacità lavorativa del prestatore di lavoro, tale
istituto presenta la finalità di sondare la reciproca convenienza delle parti
alla prosecuzione del rapporto di lavoro. Anche il lavoratore, infatti, può, in
tale periodo, verificare se entità della prestazione lavorativa e condizioni di
svolgimento del rapporto soddisfano le proprie esigenze ed aspettative.
Si tratta, pertanto, di un periodo finalizzato a sperimentare la reciproca
soddisfazione della collaborazione instaurata che, se giudicata positiva da
entrambe le parti, conduce al consolidamento del rapporto di lavoro a tempo
indeterminato o determinato.
La durata del periodo di prova è contenuta nel contratto individuale di
lavoro come previsto dal comma 2 dell’art. 24 del CCNL 16.11.2022.
La disciplina contrattuale
Ripercorriamo di seguito la disciplina del periodo di prova contenuta nel CCNL
del 16.11.2022, sia per i lavoratori assunti a tempo indeterminato (art. 25) che
per i lavoratori assunti a tempo determinato (art. 61, comma 2).
1. La durata
Il dipendente assunto a tempo indeterminato è soggetto ad un periodo di prova
pari a:
Due mesi per i dipendenti inquadrati nell’Area Operatori e nell’Area Operatori
Esperti;
Sei mesi per i dipendenti inquadrati nell’Area Istruttori e nell’Area Funzionari
ed EQ.
La durata della prova è pertanto differenziata sulla base dell’Area di
appartenenza.
Il dipendente assunto a tempo determinato può essere sottoposto ad un periodo di
prova:
Non superiore a due settimane per i rapporti di durata fino a 6 mesi;
Non superiore a quattro settimane per i rapporti di durata oltre i 6 mesi.
La durata della prova è qui, invece, determinata sulla base della durata del
rapporto di lavoro.
Art. 25.
Periodo di prova
1. Il dipendente
assunto in servizio a tempo indeterminato è soggetto ad un periodo di prova, la
cui durata è stabilita come segue:
a. due
mesi per i dipendenti inquadrati nella categoria A e B;
b. sei
mesi per le restanti categorie.
2. Ai fini del
compimento del suddetto periodo di prova si tiene conto del solo servizio
effettivamente prestato.
3. Il periodo di prova
è sospeso in caso di assenza per malattia e negli altri casi espressamente
previsti dalla legge o dal CCNL. In
tal caso il dipendente ha diritto alla conservazione del posto per un periodo
massimo di sei mesi, decorso il quale il rapporto è risolto. In tale periodo, al
dipendente compete lo stesso trattamento economico previsto per il personale non
in prova. In caso di infortunio sul
lavoro, malattia professionale o malattia per causa di servizio si applica
l'art. 44.
4. Le assenze
riconosciute come causa di sospensione ai sensi del comma 3, sono soggette allo
stesso trattamento economico previsto per le corrispondenti assenze del
personale non in prova.
5. Decorsa la metà del
periodo di prova di cui al comma 1, nel restante periodo ciascuna delle parti
può recedere dal rapporto in qualsiasi momento senza obbligo di preavviso né di
indennità sostitutiva del preavviso, fatti salvi i casi di sospensione previsti
dai commi 3 e 4. Il recesso opera dal momento della comunicazione alla
controparte. Il recesso dell'Azienda o Ente deve essere motivato.
6. Il periodo di prova
non può essere rinnovato o prorogato alla scadenza.
7. Decorso il periodo
di prova senza che il rapporto di lavoro sia stato risolto da una delle parti,
il dipendente si intende confermato in servizio e gli viene riconosciuta
l'anzianità dal giorno dell'assunzione a tutti gli effetti.
8. In caso di recesso
la retribuzione viene corrisposta fino all'ultimo giorno di effettivo servizio,
compresi i ratei della tredicesima mensilità ove maturati.
Concorsi enti locali: le aree professionali, by Roberto Oliva
Leggendo i bandi dei concorsi pubblici, è impossibile non chiedersi cosa
indichino le aree professionali utilizzate per classificare i profili per i
quali si vuole concorrere.
In questo approfondimento troverete la risposta a questa domanda, insieme a
tutte le informazioni più utili sulle aree professionali negli enti locali,
le mansioni e i vari livelli retributivi previsti da ciascuna area.
Il contratto CCNL Aran Enti locali, che si applicava a tutto il personale con
rapporto di lavoro a tempo indeterminato e determinato dipendente dalle
amministrazioni locali, finora prevedeva 4 categorie professionali: Categoria A,
Categoria B, Categoria C e Categoria D.
Tuttavia, l’inquadramento del personale è stato modificato con l’entrata in
vigore del nuovo CCNL Funzioni Locali.
Il nuovo CCNL Funzioni Locali: cosa è cambiato
Dal 1° aprile 2023 è invece entrato in vigore il Nuovo CCNL Funzioni Locali, che
ha stabilito una riclassificazione delle figure professionali degli Enti Locali,
ora suddivise in 4 “aree”:
Area degli operatori (ex categoria A)
Area degli operatori esperti (ex categoria B)
Area degli istruttori (ex categoria C)
Area dei funzionari e dell’elevata qualificazione (ex categoria D)
Al momento del passaggio, il personale conserverà il trattamento economico in
godimento: al lavoratore verrà infatti attribuita la retribuzione tabellare
corrispondente all’Area di inquadramento. Se invece lo stipendio percepito al
momento del passaggio è maggiore della nuova retribuzione tabellare,
la differenza verrà mantenuta.
L’area degli operatori (ex categoria A)
Nei concorsi pubblici per gli enti locali, la prima area professionale
utilizzata è quella degli operatori (ex categoria A).
All’area degli operatori appartengono i lavoratori in possesso del titolo
della scuola dell’obbligo dotati di competenze generali di tipo operativo,
acquisite tramite esperienza diretta nel ruolo. Le attività svolte dai
professionisti dell’area operatori sono prevalentemente operative, spesso di
tipo tecnico-manuale.
L’area comprende, tra le altre, le seguenti figure professionali: usciere,
custode, bidello.
Il livello retributivo dell’area degli operatori è di circa 1500–1600 euro lordi
mensili.
L’area degli operatori esperti (ex categoria B)
All’area degli operatori esperti (ex categoria B) appartengono profili a cui
vengono assegnate mansioni più qualificate, solitamente di tipo impiegatizio.
Per accedere ai concorsi previsti per questi profili, i candidati devono essere
in possesso del diploma di scuola secondaria di secondo grado.
Le attività svolte da queste figure professionali sono di tipo operativo, ma con
responsabilità legate a processi produttivi più ampi. Ad esempio, in campo
amministrativo il lavoratore dell’area operatori esperti svolge le seguenti
mansioni:
redazione di documenti, atti e provvedimenti utilizzando il software grafico,
fogli elettronici e sistemi di videoscrittura;
spedizione di fax e telefax, gestione della posta in arrivo e in partenza;
collaborazione alla gestione degli archivi e degli schedari;
esecuzione di operazioni tecniche e manuali.
Appartengono a quest’area professionale profili come:
addetto all’archivio;
operatori CED (centro elaborazione dati);
conduttore di macchine complesse (scuolabus, macchine operatrici che richiedono
specifiche abilitazioni o patenti);
operaio professionale;
operatore socioassistenziale.
Il livello retributivo per l’area operatori esperti va da circa 1500 a
circa 1730 euro lordi mensili.
L’area degli istruttori (ex categoria C)
L’area degli istruttori (ex categoria C) è quella dei profili tecnici: si tratta
dunque di lavoratori diplomati con conoscenze specialistiche approfondite sul
proprio settore, come per esempio geometri e periti.
Per accedere ai concorsi previsti per questi profili, i candidati devono essere
in possesso del diploma di scuola secondaria di secondo grado.
In area amministrativa, tecnica e contabile svolgono attività istruttorie,
curando la raccolta, l’elaborazione e l’analisi di dati.
Appartengono a quest’area figure professionali come:
agente di polizia municipale e locale;
geometra, ragioniere, maestra di scuola materna, istruttore amministrativo,
assistente amministrativo del registro delle imprese.
Il livello retributivo per quest’area professionale va da circa 1.695 a
circa 1.961 euro lordi mensili.
L’area dei funzionari e dell’elevata qualificazione (ex categoria D)
All’area dei funzionari e degli istruttori appartengono soggetti dotati di
elevate conoscenze plurispecialistiche che svolgono attività di tipo tecnico,
gestionale o direttivo; a questi profili vengono affidate responsabilità di
risultati relativi a importanti e variegati processi produttivi/amministrativi.
Il titolo di studio per accedere a queste professioni è la laurea breve o
il diploma di laurea.
Appartengono a quest’area figure professionali tra cui:
farmacista; psicologo; ingegnere; educatore asili nido e figure assimilate;
architetto; funzionario amministrativo; geologo; avvocato; istruttore direttivo;
giornalista pubblicista; specialista in attività amministrative e contabili.
Il livello retributivo per l’area dei funzionari e degli istruttori si aggira
sui 1.844 euro lordi mensili, fino ad arrivare a circa 2.594 euro lordi mensili.
Legge 6 agosto 2008, n. 133 (di
conversione del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 detto anche decreto
Brunetta, il cosiddetto decreto antifannulloni. La legge delega n.
15/2009. Il decreto legislativo n. 150/2009
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Con riforma Brunetta, si indicano alcune norme che interessano il funzionamento
della pubblica amministrazione italiana - emanati tra il 2008 e il 2009 -
ispirati da Renato Brunetta in qualità di Ministro per la Pubblica
Amministrazione e l'Innovazione del governo Berlusconi IV.
La riforma consta dei seguenti provvedimenti legislativi:
legge 6 agosto 2008, n. 133 (di
conversione del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 detto anche decreto
Brunetta) ("Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione,
la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria");
legge delega 4 marzo 2009, n. 15
("Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro
pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché
disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale
dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti");
decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150
("Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della
produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche
amministrazioni").
I contenuti.
Il 25 giugno 2008 viene emanato il decreto-legge n. 112/2008, il
cosiddetto decreto antifannulloni. A questo fanno seguito una serie di circolari
attuative ed esplicative.
L'articolo 71 disciplina la normativa delle assenze dei pubblici dipendenti.
Prevede la decurtazione dalla retribuzione, per ogni evento di malattia, a
prescindere dalla durata, nei primi dieci giorni di assenza, di ogni indennità o
emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e continuativo, nonché
di ogni altro trattamento accessorio. Il terzo evento di malattia nell'anno
solare e le assenze superiori a dieci giorni debbono essere giustificati con la
presentazione all'amministrazione di un certificato medico rilasciato dalle
strutture sanitarie pubbliche o dai medici convenzionati, in quanto parte
del Servizio Sanitario Nazionale. Le amministrazioni dovranno inoltrare
obbligatoriamente la richiesta di visita fiscale anche nel caso di assenza per
un solo giorno.
Il "Decreto Brunetta" riceve le critiche dell'Avis, che la considera una norma
«devastante» e che penalizza la donazione di sangue. Il decreto-legge n.
112/2008 infatti toglie il diritto alla retribuzione aggiuntiva, legata alla
contrattazione integrativa, ai lavoratori del settore pubblico che donano il
sangue: «Il ministro Brunetta ha ormai lanciato l'esempio, ha fatto "cultura"
equiparando la donazione di sangue con l'assenteismo». Il decreto è stato
successivamente modificato in modo da permettere la donazione di sangue senza
decurtazioni dello stipendio.
La legge delega 4 marzo 2009, n. 15 (la cosiddetta Legge Brunetta) prevedeva,
tramite il ricorso a decreti delegati:
una riforma degli ambiti della disciplina del rapporto di lavoro pubblico
riservati alla contrattazione collettiva e di quelli riservati alla legge, con
la semplificazione del procedimento di contrattazione;
la riforma dell'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni (ARAN), che conterrà anche un organismo centrale di valutazione
della Pubblica Amministrazione in base a obiettivi annuali predisposti dalla
stessa PA;
l'introduzione nella PA di strumenti di valorizzazione del merito e metodi di
incentivazione della produttività, secondo le modalità stabilite dalla
contrattazione collettiva, con percentuali minime di risorse da destinare al
merito e alla produttività;
la riforma della dirigenza pubblica, con il taglio degli stipendi accessori per
i dirigenti di strutture inefficienti, concorsi per l'accesso a una percentuale
di posti della prima fascia dirigenziale e riduzione degli incarichi conferiti
ai dirigenti non appartenenti ai ruoli e ai soggetti estranei alla pubblica
amministrazione.
Infine, si prevede di promuovere la mobilità nazionale e internazionale dei
dirigenti;
la razionalizzazione dei tempi di conclusione dei procedimenti disciplinari;
più rigore nelle visite legali;
la definizione della tipologia di infrazioni che comportano il licenziamento;
l'identificabilità dei dipendenti pubblici tramite cartellino di riconoscimento;
la facoltà della Corte dei conti di controllare gestioni pubbliche durante il
loro svolgimento e dare comunicazione di eventuali gravi irregolarità al
Ministro competente, che può disporre la sospensione dei fondi.
Tale delega trovò attuazione con il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150.
Venne emanato in attuazione della legge delega 4 marzo 2009 n. 15, introducendo
novità piuttosto radicali, tra cui l'obbligo per le amministrazioni di dotarsi
di un "Organismo Indipendente di Valutazione" (Oiv) e l'introduzione delle
valutazioni dell'attività delle PP.AA e del personale impiegato presso le stesse
- mediante l'introduzione di un meccanismo denominato ciclo di valutazione della
performance - con rilevanza di tali valutazioni sulla carriera. Tra le varie
disposizioni, la norma ha inoltre stabilito la riduzione dei comparti di
contrattazione a non più di quattro, con altrettante aree riservate alla
dirigenza, la rideterminazione della durata dei CCNL di comparto in non più di
tre anni, sia per la parte normativa sia economica, e alcune disposizioni in
tema di concorsi e concorsi interni.
Sempre in attuazione della legge delega n. 15/2009, il decreto istituisce
la Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l'integrità
delle amministrazioni pubbliche con il compito di valutare la trasparenza e
l'integrità delle amministrazioni pubbliche, definendone nel contempo la
composizione e le competenze. In tema di personale, viene assegnato ai dirigenti
l'obbligo di valutare il personale assegnato ai propri uffici, ai fini delle
progressioni di carriera.
Si prevede infine all'art. 48 che, al fine di consentire una maggiore mobilità
intercompartimentale, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su
proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, previo parere
della conferenza unificata ex d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, venga definita una
tabella di equiparazione fra i livelli di inquadramento previsti dai contratti
collettivi, relativi ai diversi comparti di contrattazione.
Legge 11 agosto 2014, n. 114 Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante misure urgenti per la
semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici
giudiziari.
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L'Autorità nazionale anticorruzione, in acronimo ANAC, è un'autorità
amministrativa indipendente italiana con compiti di tutela dell’integrità
della pubblica amministrazione, contrasto dell'illegalità, lotta
alla corruzione, attuazione della trasparenza e di controllo sui contratti
pubblici.
Storia
L'Autorità nazionale anticorruzione, nella sua attuale configurazione, è stata
istituita dal decreto-legge n. 90/2014 convertito dalla legge n. 114/2014, che
ha unificato la Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e
l'integrità delle amministrazioni pubbliche (istituita nel 2009 dalla legge
Brunetta e riformata nel 2012 dalla legge Severino) con l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (istituita nel
1994 con la legge Merloni).
Per l'esattezza, l'Autorità nasce con la legge 6 novembre 2012, n. 190, la c.d.
legge Severino, che prevede la sua istituzione e l'assorbimento delle competenze
della Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e la integrità
delle amministrazioni pubbliche (CIVIT). Essa viene deputata appunto al
contrasto ai fenomeni corruttivi nel rispetto degli obblighi assunti a livello
internazionale con la Convenzione di Mérida.
Il decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 attribuisce alla Autorità una nuova
denominazione, che diviene quella di Autorità nazionale anticorruzione e per la
valutazione e la trasparenza delle Amministrazioni pubbliche. Il decreto-legge
24 giugno 2014, n. 90 rimodula — accorciandolo — il nome dell’Autorità, che
diviene quello attuale di Autorità nazionale anticorruzione e le attribuisce la
competenza in materia di contratti pubblici, togliendole invece i compiti in
materia di misurazione e valutazione della performance, trasferite
al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei
ministri.
Come primo presidente dell'ANAC, il governo Renzi nominò il magistrato Raffaele
Cantone. Il 23 ottobre 2019 Cantone si dimise, dopo averlo annunciato il 23
luglio 2019, a causa di disaccordi con il governo Conte I; la funzione di
Presidente ad interim è assunta, sulla base del Regolamento, dal consigliere più
anziano di età, Francesco Merloni.
Dal 21 settembre 2020 il presidente è Giuseppe Busia.
Compiti e funzione
ANAC vigila sul rispetto della normativa in materia di trasparenza che impone
agli enti pubblici e alle imprese controllate dallo Stato di pubblicare sui
propri siti internet determinate tipologie di informazioni.
L’Autorità può sanzionare gli enti pubblici in caso di mancata pubblicazione
delle informazioni obbligatorie.
Tra i compiti dell’Autorità, la vigilanza sugli appalti pubblici ha un ruolo
preminente, dato che si tratta di uno dei settori più esposti al rischio di
corruzione. Questo al fine di garantire legalità, concorrenza e prevenzione di
corruzione e spreco di risorse pubbliche.
Attraverso la sua attività consultiva, l'Autorità esprime pareri su specifiche
questioni e aiuta le stazioni appaltanti nella progettazione di bandi di gara
complessi (vigilanza collaborativa).
Digitalizzazione dei contratti pubblici e Banca Dati Anac
Attraverso la Banca Dati Anac, l’Autorità partecipa alla trasformazione digitale
degli appalti in Italia (sistema di E-procurement), che diverrà totalmente
obbligatoria dal 1º gennaio 2024. Tutto il ciclo di vita del contratto pubblico,
dalla programmazione dell’opera alla sua esecuzione finale, sarà digitalizzato.
Le pubbliche amministrazioni potranno acquisire dal mercato e alle migliori
condizioni le risorse (forniture, servizi, lavori, conoscenza) utili al
funzionamento, mantenimento e sviluppo delle proprie attività istituzionali
attraverso l’interconnessione con banche dati e sistemi telematici,
semplificando e velocizzando l’intero processo, rendendolo facilmente
controllabile, meno costoso e qualitativamente più efficace.
Avviato su larga scala nel 2001 da Consip, l’E-procurement applicato a tutti gli
appalti, in ciascuna fase, completerà la digitalizzazione delle procedure
analogiche che hanno nel tempo rallentato e a volte bloccato l’aggiudicazione e
l’esecuzione di opere e l’acquisto di beni e servizi, digitalizzando tutte le
fasi del processo di acquisto: programmazione, progettazione, esecuzione e
accesso alle informazioni e agli atti di gara. Cardine del sistema nazionale
sarà l’interoperabilità fra piattaforme “certificate”.
Attività internazionale
Tra le principali funzioni che la legge attribuisce all’ANAC vi è la
cooperazione internazionale nel campo della prevenzione della corruzione e in
materia di integrità pubblica.
L'Autorità è parte delle più rilevanti reti e iniziative internazionali in
materia di integrità pubblica e prevenzione della corruzione, partecipando
attivamente alle iniziative internazionali in materia di prevenzione della
corruzione, di integrità e appalti, promuovendo le proprie buone pratiche e
cercando di imparare da quelle degli altri Paesi, favorendo la convergenza
normativa e la promozione dei principi della Rule of Law internazionale,
fornendo assistenza tecnica e partecipando ai programmi di cooperazione per
rendere tangibile lo spirito di collaborazione dell’Italia nella comunità
internazionale.
Ruolo di ausilio a Parlamento e Governo
Tra le funzioni di Anac assegnate dalla legge, quella di segnalare a Governo e a
Parlamento gravi fenomeni di inadempimento sull'aggiudicazione e sull'esecuzione
dei contratti pubblici, nonché sull'efficacia degli strumenti di prevenzione
della corruzione. Consiglia il Governo su possibili modifiche alla legislazione
esistente. Presenta relazioni annuali al Parlamento sulla sua attività nel campo
della prevenzione della corruzione e sull'efficacia della legislazione
pertinente.
Per esercitare correttamente tali funzioni, l'Autorità è incaricata di ricevere
informazioni sulla corruzione e sulla cattiva condotta nel settore pubblico da
parte dei pubblici ministeri, dei giudici amministrativi, degli enti locali,
delle autorità e dei consiglieri di Stato.
Corruzione percepita
Il Rapporto Transparency International sulla corruzione percepita nel mondo, che
viene pubblicato ogni anno alla fine di gennaio, indica per l’Italia un netto
miglioramento negli ultimi anni. Dalla nascita dell’Autorità Anticorruzione nel
2014 a oggi, l’Italia è migliorata di 28 posizioni, rispetto a questa classifica
sulla percezione della corruzione.
Nel 2014 l’Italia era in posizione 69 nella graduatoria dei Paesi secondo il
livello di corruzione percepita. Tale posizione è migliorata negli anni, e
l’ultima rilevazione (quella relativa al 2022, resa pubblica a fine gennaio
2023), vede l’Italia migliorare sempre più fino a passare alla 41ª posizione.
Tra i Paesi a minore presenza di corruzione percepita, alle prime posizioni,
figurano Danimarca, Nuova Zelanda e Finlandia.
Nomina e durata
Le modalità di nomina del presidente e dei componenti dell'autorità sono
specificate all'interno dell'art. 13, comma 3 del decreto legislativo n.
150/2009. In particolare, il presidente e i componenti sono nominati con decreto
del Presidente della Repubblica "previa deliberazione del Consiglio dei
ministri, previo parere favorevole delle Commissioni parlamentari competenti
espresso a maggioranza dei due terzi dei componenti. Il presidente è nominato su
proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, di
concerto con il Ministro della giustizia e il Ministro dell'interno; i
componenti sono nominati su proposta del Ministro per la pubblica
amministrazione e la semplificazione". Inoltre, "i componenti sono nominati per
un periodo di sei anni e non possono essere confermati nella carica".
Struttura
L'Autorità è composta da 5 membri, di cui uno è presidente. Si avvale di un
organo ausiliario, la Camera arbitrale (prevista dall'art. 242 del codice dei
contratti pubblici).
Le aree e gli uffici dell'Autorità sono stati definiti con un atto di
organizzazione del 29 ottobre 2014, in attuazione della delibera dell'Autorità
n. 143 del 30 settembre 2014. L'atto di organizzazione individua i centri di
responsabilità in base alla missione istituzionale dell'ANAC, ridefinita con
l'entrata in vigore del decreto-legge n. 90/2014 convertito dalla legge n.
114/2014, nelle more della presentazione e approvazione del piano di riordino.
La struttura generale dell'ANAC in funzione della sua missione istituzionale è
stata suddivisa in quattro ambiti strategici:
indirizzo e programmazione (Presidenza)
supporto alla missione istituzionale pianificazione e controllo (Segretariato
generale)
vigilanza
regolazione
L'ANAC ha costituito un'unità speciale EXPO 2015 con compiti di controllo e di
vigilanza sulla correttezza e trasparenza delle procedure connesse alla
realizzazione delle opere del grande evento EXPO Milano 2015.
Civili,
Penali, Disciplinari, amministrativi e contabili
In riferimento alle norme in materia di procedimento amministrativo, nello
specifico all'art. 2, comma 9 della L. n. 241/1990 e s.m.i., la mancata o
tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della
performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente
Sanzioni:
Le
sanzioni disciplinari:
previsione normativa
Cosa indica il principio di tassatività?
Questo principio trova riconoscimento nell'articolo 1 del Codice penale e
nell'articolo 14 delle preleggi del Codice Civile che stabilisce: “le leggi
penali non possono essere applicate oltre i casi e i tempi in esse stabiliti”.
Tale corollario viene anche definito divieto di analogia in malam partem.
L’elenco delle sanzioni applicabili a carico dei dipendenti è tassativo, con la
conseguenza che non è consentito infliggere al ritenuto responsabile delle
violazioni contestate una pena diversa da quelle previste dalla legge.
Con la sentenza n.16381/2014 la Cassazione, in tema di sanzioni disciplinari, ha
stabilito che il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso
nel senso rigoroso imposto nella materia degli illeciti penali. Occorre quindi
distinguere tra i comportamenti che rappresentano una violazione di prescrizioni
strettamente attinenti all’organizzazione aziendale e comportamenti palesemente
contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori; per questi ultimi non è
necessaria la specifica inclusione nel codice disciplinare. Il caso concreto
riguardava il licenziamento di un medico ospedaliero che aveva inveito contro un
collega, aveva fornito a terzi informazioni scorrette e denigratorie circa la
corretta esecuzione di un intervento chirurgico da parte di un collega e si era
rifiutato di partecipare a visite mediche collegiali dell’equipe di lavoro.
secondo gravità
Principi:
Le sanzioni comunemente previste sono, in ordine di gravità, il rimprovero
verbale, il biasimo scritto, la multa (trattenuta dalla retribuzione e versata
ad un apposito fondo presso l’INPS), la sospensione (dalla retribuzione e dal
lavoro), il licenziamento disciplinare (per giustificato motivo
soggettivo-oggettivo, con preavviso, e per giusta causa, senza preavviso).
Iter :
Quali sono le fasi del procedimento disciplinare?
Il
procedimento disciplinare e le sue fasi: a)
contestazione dell'addebito, b) istruttoria, c) adozione della sanzione.
L’applicazione della sanzione deve avvenire secondo i principi di legittimità e
proporzionalità, rispettando una graduatoria di sanzioni previste per legge.
La legge (art. 7 legge 300/70 cd Statuto dei lavoratori), scrive Giordano Milan,
prevede che il Datore di Lavoro, nel caso in cui ritenga un dipendente
responsabile di un comportamento disciplinarmente rilevante, sia obbligato
ad osservare una specifica procedura (disciplinare, appunto) che consiste
nell’invio di una comunicazione di addebito al dipendente.
E’ inopportuno quindi parlare di “lettera di richiamo” in quanto nella fase di
avvio della procedura è più appropriato parlare di “lettera di contestazione
disciplinare”.
Molto spesso però, può accadere che per velocizzare la procedura si chieda al
lavoratore di ricevere copia cartacea della lettera facendosi firmare per
ricevuta il documento. Accade infatti che il lavoratore per paura di
compromettersi, oppure per evitare il peggio, o addirittura credendo che non
firmare l’addebito scritto, il fatto non gli possa essere addossato, decida di
non firmare la “lettera di contestazione”.
Niente di più sbagliato per il lavoratore!
In tal modo, infatti, il lavoratore si espone ad una ulteriore contestazione
disciplinare, giacché rifiutarsi di voler ricevere una contestazione del Datore
di Lavoro integra una ulteriore condotta disciplinarmente rilevante.
Inoltre, senza saperlo, se non si firma la lettera di richiamo come ci si può
giustificare in maniera precisa e puntuale? È chiaro che, per potersi difendere,
è necessario conoscere le ragioni della contestazione.
Infine, anche se ci si rifiuta di firmarla, la comunicazione viene comunque
inviata o si intende consegnata magari in presenza di testimoni, con la
conseguenza che il dipendente non riesce ad evitare di accettare il
contraddittorio sulle questioni contestate.
Per concludere:
Abbiamo parlato di “lettera di contestazione disciplinare” che rappresenta la
prima fase del provvedimento, ma abbiamo anche parlato di “lettera di richiamo”
che più correttamente vuol dire la lettera che conclude il procedimento
disciplinare, con una sanzione (che può essere il richiamo scritto, la multa o
la sospensione).
Quando i lavoratori sono sanzionabili?
By Gennaro Ottaviano.
CCNL, sicurezza sul lavoro e applicazione delle sanzioni
Un lavoratore può essere sottoposto a sanzioni quando si verifica una violazione
di legge (civile e panale) o delle regole aziendali.
Il lavoratore può essere sanzionato dal datore di lavoro se vengono violate le
norme di legge o quelle aziendali. L’applicazione della sanzione deve avvenire
secondo i principi di legittimità e proporzionalità, rispettando una graduatoria
di sanzioni previste per legge.
L’applicazione della sanzione prevede un iter preciso, con una prima fase, la
contestazione e successivamente, la messa in atto della misura disciplinare.
Ogni lavoratore ha una serie di diritti, ma anche altrettanti doveri, indicati
dal Codice civile, all’interno dei CCNL e dei contratti aziendali. La violazione
di uno di essi determina come conseguenza una sanzione applicata dal datore di
lavoro.
Ogni comportamento irregolare prevede una misura disciplinare proporzionata,
legittima e soprattutto stabilita per legge. Inoltre, per applicarla, è
necessario un iter ben preciso.
Conoscere a quando i lavoratori possono essere sanzionati e quali sono le misure
adottate è essenziale sia se sei il datore di lavoro, al fine di avere le
informazioni utili per comprendere come erogare l’azione disciplinare, sia se
sei un dipendente.
Lavoratore e sanzioni: cosa sapere
Come datore di lavoro hai la possibilità di sanzionare il dipendente, applicando
eventuali multe, in maniera diretta solo per la violazione delle norme
contrattuali e non per un reato penale. Infatti, quando si utilizzata il termine
sanzione, oppure multa, questa avrà un valore inteso solo dal punto di vista
civilistico.
Quindi se un lavoratore compie un’attività illecita durante lo svolgimento dei
suoi incarichi, rientrando tra i reati penali, in quanto amministratore di
un’azienda l’unica attività concessa è quella di sporgere querela alle autorità
competenti e, solo dopo la condanna del lavoratore, optare per il licenziamento
per giusta causa.
Inoltre, è importante considerare che le sanzioni dovranno essere sempre:
proporzionate: alla tipologia di violazione contrattuale;
legittime: devono essere previste all’interno dell’azienda;
motivate: deve essere indicato in modo chiaro il comportamento irregolare
secondo la legge.
Quando un dipendente può essere sanzionato
Le tipologie di sanzioni applicate a un lavoratore sono diverse, dati gli
innumerevoli compiti svolti e la possibilità di stabilire specifiche regole
all’interno dei contratti. Per conoscere quali sono quelle applicabili può
essere utile partire dal Codice civile e stabilire i quattro obblighi
contrattuali previsti generalmente per un dipendente:
Obblighi
collaborazione
(art 2094): il lavoratore deve svolgere in maniera diligente i suoi compiti,
permettendo al datore di lavoro di utilizzare le sue energie lavorative;
diligenza
(art 2104): ogni attività deve avvenire con impegno e dovrà essere proporzionata
alle capacità del lavoratore, alla tipologia di richiesta dell’azienda e alle
altre attività previste;
obbedienza:
il lavoratore dovrà eseguire i compiti indicati, secondo il principio di
gerarchia previsto dal contratto di lavoro;
fedeltà
(art 2105):
il dipendente deve sempre mantenere un comportamento di fedeltà rispetto
all’azienda o al soggetto per cui lavora, rispettando le norme sulla concorrenza
e senza arrecare pregiudizio con altra attività simile.
Nel momento in cui non si rispettano tali doveri, come previsto dall’art 2106
del Codice il datore di lavoro può attuare sanzioni disciplinari in base alla
gravità dell’infrazione e in conformità delle norme corporative.
Infine, le sanzioni potranno essere applicate ogni volta che viene violato il
regolamento societario, sottoscritto al momento dell’assunzione del dipendente.
Quali sono i casi in cui si applicano le sanzioni
Per essere sanzionabili i lavoratori devono essere responsabili di un
determinato comportamento attraverso cui si sono violate:
una o più norme del Codice civile o penale;
una delle mansioni aziendali.
La violazione di una norma penale avvenuta durante l’esercizio dell’attività
lavorativa è tra i principali fattori che può portare un’azienda ad applicare
un licenziamento per giusta causa.
Questa conseguenza si applica anche se non è stata indicata all’interno del
contratto. Inoltre, la Cassazione ha stabilito che i lavoratori sono
sanzionabili con il licenziamento nell’eventualità in cui si verificano reati
penali al di fuori dell’attività lavorativa o prima della sottoscrizione del
contratto se questi:
ledono l’immagine dell’azienda;
danneggiano la credibilità della stessa.
Un esempio può essere quello di un soggetto condannato per reati di frode, se
ricopre un ruolo di venditore o di marketing all’interno di una società.
Invece, per quanto riguarda le violazioni di diritto civile, come eventuali
condanne per il mancato pagamento di un debito, oppure l’essere soggetto a una
multa per un versamento dei contributi o delle tasse, non si prevede
l’applicazione di una sanzione.
Sanzioni al lavoratore legate alle mansioni. Per ciò che riguarda le sanzioni
legate alle mansioni devi distinguere tra:
violazioni dei doveri previsti dal Codice civile;
violazione del regolamento interno;
violazione delle norme previste dai contratti collettivi.
Nel primo caso si fa riferimento ai doveri di collaborazione, diligenza
obbedienza e fedeltà. Quindi i lavoratori sono sanzionabili se non eseguono il
loro compito con la dovuta responsabilità e al pieno delle capacità fisiche e
mentali, oppure non rispettano le direttive impostate dall’azienda.
Inoltre, si applicano misure disciplinari di diversa entità se il
dipendente svolge un’attività di concorrenza, oppure un altro lavoro senza prima
averlo comunicato al datore.
Le violazioni del regolamento interno sono quei comportamenti che ledono le
regole indicate nel codice disciplinare aziendale, in cui sono inserite le norme
comportamentali e lavorative da tenere, con le relative misure disciplinari.
Questo documento dovrà essere ben visibile a tutti per prevedere l’applicazione
di una sanzione e quindi facilmente accessibile nella sede dell’impresa.
In questo caso il dipendente può essere soggetto a diverse tipologie di misure
disciplinari, come vedremo più avanti, fino anche al licenziamento. Inoltre,
come stabilito dalla corte di Cassazione, l’eventuale irregolarità compiuta dal
dipendente su direttiva di un superiore può essere sanzionata fino al
licenziamento.
Ad esempio, se un superiore ordina di non emettere una fattura o di non
registrarla, violando così le norme fiscali, il lavoratore sarà considerato
equamente responsabile. Le misure disciplinari si applicano ogni volta che viene
violata una specifica clausola contrattuale prevista all’interno del CCNL,
oppure quelle aggiuntive inserite in un contratto privato.
Sanzioni al lavoratore sulla sicurezza
Il tema della sicurezza sul lavoro è molto attuale: infortuni e problematiche
correlate sono all’ordine del giorno. Le aziende in Italia sono tenute a seguire
diverse regole che riguardano la tutela della salute e della sicurezza dei
lavoratori, a cui può essere disposto di indossare particolari strumenti come
caschi protettivi, scarpe antinfortunistiche e similari.
Se un lavoratore non li indossa, può essere sanzionato? Secondo l’art 59 e l’art
285 del D.Lgs. 81/08, il lavoratore può essere sanzionato sia a livello penale
che con una somma di denaro, se un incidente è causato da una negligenza nel
rispettare le norme di sicurezza, che il datore di lavoro non poteva impedire.
In pratica, se il datore di lavoro ha messo in atto azioni per far rispettare
tali regole, tramite ad esempio corsi formativi ai dipendenti, istruzioni
dettagliate e regolamenti comunicati in modo esplicito, ma il lavoratore ha una
condotta che viola tali disposizioni, quest’ultimo può essere sanzionato.
Quali sono le sanzioni previste per i lavoratori
La legge stabilisce una serie di sanzioni a cui il datore di lavoro o l’azienda
può attingere ai fini di applicare un intervento disciplinare. Come consuetudine
si dividono in due categorie:
sanzioni conservative: sono
tese ad evitare che il comportamento irregolare del lavoratore si ripeta;
sanzioni estintive: sono
quelle che prevedono una sospensione temporanea o definitiva del rapporto di
collaborazione.
È la sanzione più lieve che prevede un richiamo da parte del datore di lavoro
per il mancato rispetto di una norma aziendale
L’ammonimento per un comportamento irregolare comunicato per iscritto
Viene trattenuto in busta paga un importo economico
Si prevede la sospensione delle mansioni per una tempistica specifica.
Il lavoratore può essere spostato in un’altra sede
per inefficienza o incompetenza professionale
Prevede l’allontanamento definitivo dall’azienda.
Spetta al datore di lavoro valutare quale debba essere la sanzione adatta in
base alla tipologia di comportamento del dipendente, rispettando i principi di
proporzionalità e legittimità.
Il rimprovero verbale è la forma più lieve di sanzione che non prevede traccia.
Invece, se si applica un’ammonizione, quest’ultima deve avvenire per iscritto e
avrà un valore maggiore, dato che risulterà nel curriculum aziendale del
soggetto.
Nel caso in cui si debba applicare una sanzione pecuniaria, definita multa,
questa viene direttamente sottratta al valore della busta paga, con un ammontare
che non può superare le 4 ore di retribuzione di base. Invece, se si adotta
la sanzione della sospensione, non potrà essere superiore ai 10 giorni. Infine,
la conseguenza più grave è quella del licenziamento.
Per applicare una sanzione, tranne nel caso in cui vi sia un ammonimento
verbale, è previsto dalla legge un iter specifico che il datore di lavoro o chi
ne fa le veci deve adottare. Il procedimento si basa su due passaggi:
contestazione; applicazione della sanzione.
è la prima fase che porterà eventualmente a determinare la sanzione. Il datore
di lavoro deve comunicare al lavoratore l’eventuale irregolarità compiuta,
attraverso un documento per iscritto.
La contestazione deve essere:
deve avvenire in un tempo contestuale alla violazione compiuta. Infatti, se
trascorre troppo tempo si considerare irrilevante il comportamento e perdonato;
si deve indicare qual è il comportamento
che si vuole contestare con il luogo in cui è avvenuto e quando è stato
compiuto.
Recidiva.
All’interno della lettera si deve precisare anche se il comportamento è
recidivo. Quindi, se è già avvenuto altre volte in passato ed è stato
contestato. A questo punto come datore di lavoro dovrai attendere eventuale
risposta del lavoratore.
Invece, come dipendente hai cinque giorni di tempo per presentare una difesa
alla contestazione con il diritto di farti ascoltare dal datore di lavoro, il
quale non può negare il colloquio. In quella sede può essere presente anche un
rappresentante del sindacato.
Una volta trascorsi i 5 giorni dopo che il dipendente è stato ascoltato, in un
tempo congruo come datore di lavoro dovrai comunicare, sempre per iscritto, la
decisione disciplinare.
L’ultima fase del procedimento disciplinare può prevedere:
ritiro della sanzione; applicazione della sanzione.
Nel primo caso, come datore di lavoro puoi valutare di non applicare una misura
disciplinare. Nel secondo, invece, se valuti la presenza dei presupposti di
una violazione legittima, devi stabilire la tipologia di sanzione in
rapporto alla gravità del comportamento tenuto dal dipendente.
Ricordiamo che questa deve essere sempre proporzionale. Se tale principio non
viene rispettato il lavoratore potrà rivolgersi direttamente al Tribunale Civile
competente.
Procedimento disciplinare nella Pubblica Amministrazione
A cura di Giorgio Albani
Il potere disciplinare nel pubblico impiego rientra nell’area della gestione
del rapporto di lavoro contrattualizzato, e dunque nell’area a matrice
privatistica.
E’ un potere esercitato mediante atti negoziali e non provvedimenti
amministrativi nei limiti disegnati dalla legge e dai contratti collettivi.
La disciplina legale è quella dell’art. 2106 del Codice civile, in parte
dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, e degli artt. da 54 a 55 septies del
D.Lgs. 165 del 2001.
La disciplina è integrata dai contratti collettivi di comparto che già nella
prima tornata successiva al D.Lgs. 80/93 avevano ampiamente disciplinato la
materia e sostanziali modifiche sono state apportate dalle tornate successive.
L’autonomia collettiva è stata notevolmente limitata dai recenti interventi
legislativi che lasciano alla contrattazione la mera possibilità di interventi
correttivi idonei ad inasprire il regime sanzionatorio.
Fonti normative
artt. 2104, 2105 e 2106 Codice civile
Legge 20 maggio 1970 n. 300, art. 7 (Statuto dei Lavoratori)
D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, artt. da 54 a 55 septies (come riscritto dal D.Lgs.
27 ottobre 2009, n. 150)
Contrattazione collettiva di comparto
Cosa fare – Tempi
In caso di ricevimento da parte del datore di lavoro di contestazione
disciplinare è necessario agire con la massima tempestività. Al fine di poter
predisporre idonee giustificazioni (che possono essere rese accompagnati da un
rappresentante sindacale o da un legale) sarà opportuno potere visionare la
documentazione relativa al procedimento disciplinare o comunque utile per la
predisposizione delle difese, e formulare allo scopo istanza di accesso agli
atti.
A chi rivolgersi
Ufficio vertenze sindacale Studio legale specializzato in diritto del lavoro
Documenti necessari
Lettera di assunzione, Lettera di contestazione disciplinare, Eventuale
documentazione relativa a precedenti contestazioni
Principi generali
L’art. 55, 2° comma del D.Lgs. 165/2001 (Responsabilità, infrazioni e sanzioni,
procedure conciliative) afferma in primo luogo l’applicazione dell’art. 2106
c.c.
Il richiamo all’art. 2106 c.c. è fondamentale per la collocazione del potere
disciplinare nella prospettiva della reazione del datore di lavoro
all’inadempimento contrattuale del lavoratore (artt. 2104 e 2105 c.c.) e per
l’affermazione del principio di proporzionalità fra infrazione e sanzione, da
specificare a cura della contrattazione collettiva (c.d. codice disciplinare).
La novella del 2009 (D.Lgs. 150/2009) afferma che la pubblicazione sul sito
istituzionale dell’amministrazione del codice disciplinare recante l’indicazione
delle sanzioni e delle infrazioni (determinate dai contratti collettivi)
equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all’ingresso della sede di
lavoro.
Con la novella del 2009 la competenza della contrattazione collettiva riguarda
ora solo la tipologia di infrazioni e sanzioni (codice disciplinare propriamente
detto), in quanto i termini della procedura sono disciplinati dall’art. 55 bis
del D.Lgs. 165/2001.
La competenza per i procedimenti disciplinari
La competenza per le infrazioni di minore gravità, per le quali è prevista
l’irrogazione di sanzioni superiori al rimprovero verbale ed inferiori alla
sospensione per più di dieci giorni spetta al responsabile della struttura, se
ha la qualifica dirigenziale.
Se la sanzione in astratto applicabile è più grave di quelle sopra indicate,
ovvero il responsabile della struttura non possiede la qualifica dirigenziale,
questi è tenuto a trasmettere gli atti entro 5 giorni dalla notizia del fatto
all’ufficio competente per i procedimenti disciplinari.
Infatti, ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua un
ufficio (analogamente a quanto previsto dall’art. 12 bis del D.Lgs. 80 del 1998
per la gestione delle controversie di lavoro) competente per i procedimenti
disciplinari (art. 55 bis, 4° comma D.Lgs. 165/2001).
Mentre per l’art. 12 bis sopra citato l’istituzione di appositi uffici per
l’efficace gestione del contenzioso stragiudiziale e giudiziale di lavoro è solo
eventuale, la previsione di cui all’art. 55 bis, 4° comma non ha solo carattere
organizzativo, in quanto tale ufficio è l’organo che contesta l’addebito al
dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce il
procedimento disciplinare ed applica l’eventuale sanzione.
La sanzione adottata in assenza dell’ufficio ovvero in violazione delle
competenze sopra definite è da ritenersi nulla o illegittima (cfr. Corte Cass.
5.2.2004 n. 2168).
Richiamo -20 giorni
Convocazione -10 giorni
Conclusione -60 giorni
I termini sono raddoppiati se trattasi di sanzione di sospensione + 10 giorni
Ogni provvedimento disciplinare, ad eccezione del rimprovero verbale, deve
essere adottato previa tempestiva contestazione scritta dell’addebito al
dipendente.
L’art. 55 bis, 5° comma indica le forme con le quali devono avvenire tutte le
comunicazioni al dipendente nell’ambito del procedimento disciplinare
prevedendosi tra le forme di comunicazione anche la posta elettronica
certificata.
L’espressa previsione dell’obbligo di tempestività riprende e conferma una
regola del settore privatistico di fonte, per lo più, giurisprudenziale.
Secondo questa costruzione giurisprudenziale il datore di lavoro deve contestare
l’addebito al proprio dipendente in tempi brevi in relazione alla conoscenza che
ha avuto dei fatti e alla complessità degli accertamenti da compiere.
A questo proposito il D.Lgs. 150/2009 stabilisce che nel caso di procedimento
disciplinare di competenza del responsabile con qualifica dirigenziale
l’addebito deve essere contestato senza indugio e comunque non oltre venti
giorni e che con la medesima comunicazione il dipendente viene convocato per
contraddittorio a sua difesa con un preavviso di almeno dieci giorni.
Qualora la competenza spetti all’ufficio competente per i procedimenti
disciplinari il termine di venti giorni decorre dalla data di ricezione degli
atti da parte del responsabile della struttura.
In ogni caso il procedimento deve concludersi entro 60 giorni dalla
contestazione dell’addebito.
Se la sanzione astrattamente applicabile è più grave della sospensione inferiore
a dieci giorni, i termini ora menzionati vengono raddoppiati.
La legge prevede espressamente che la violazione dei termini comporta, per
l’amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare ovvero, per il
dipendente, dall’esercizio del diritto di difesa (art. 55 bis, 2° e 4° comma).
Ancorché né la legge né i contratti collettivi lo specifichino andrà comunque
rispettato il principio di specificità della contestazione.
A differenza del settore privato, l’Amministrazione ha l’obbligo di convocare il
dipendente, il quale non è ovviamente tenuto a rispondere alla convocazione. Il
lavoratore può inoltre inviare una memoria scritta. Inoltre, sempre a differenza
del settore privato (ove le giustificazioni possono essere rese solo con
l’assistenza del sindacato), il dipendente può delegare un procuratore, anche un
avvocato, la cui presenza pertanto non può essere negata dal datore di lavoro
pubblico a pena di inefficacia del procedimento disciplinare e della sanzione
irrogata.
La motivata istanza (per grave ed oggettivo impedimento) di rinvio del termine
per l’esercizio della difesa comporta, se il differimento è superiore a dieci
giorni, la proroga in misura corrispondente, del termine per la conclusione del
procedimento.
Il dipendente ha diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento (art.
55 bis, 5° comma). L’amministrazione può acquisire da altre amministrazioni
pubbliche informazioni o documenti rilevanti per la definizione del procedimento
senza che ciò determini, però, un differimento dei termini complessivi o una
sospensione dell’istruttoria (art. 55 bis, 6° comma).
Il rifiuto a collaborare, senza giustificato motivo, all’istruttoria da parte di
un dipendente o di un dirigente della stessa o di altre Amministrazioni o la
resa di dichiarazioni false o reticenti, è sanzionabile da parte
dell’Amministrazione di appartenenza con la sospensione dal servizio e dalla
retribuzione fino ad un massimo di 15 giorni (art. 55 bis, 7° comma).
Il trasferimento ad altra Amministrazione non comporta in alcun modo
l’estinzione della procedura disciplinare. L’eventuale sanzione irrogata sarà
applicata dal nuovo datore di lavoro (art. 55 bis, 8° comma).
Le dimissioni del lavoratore – qualora sia prevista la sanzione
del licenziamento o sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio –
non incidono sulla procedura che deve comunque giungere al termine (art. 55 bis,
9° comma).
Le sanzioni applicabili: il licenziamento disciplinare
Le sanzioni previste dai codici sono:
rimprovero verbale,
rimprovero scritto,
multa fino a 4 ore,
sospensione dal servizio con privazione
della retribuzione fino a 10 gg.,
sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 gg. fino ad un
massimo di sei mesi,
licenziamento con preavviso (condanna per reati comuni fuori amministrazione),
licenziamento senza preavviso (motivi gravi e previsti)
La sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da
11 giorni fino ad un massimo di sei mesi è stata introdotta con la tornata
contrattuale 2002-2005. L’adozione di tale sanzione comporta la privazione della
retribuzione fino al decimo giorno e la corresponsione di un’indennità pari al
50% della retribuzione (oltre agli assegni familiari) dall’undicesimo giorno in
poi. La misura incide, inoltre, sull’anzianità di servizio, dalla quale andrà
scomputato il periodo trascorso in sospensione.
Una caratteristica del tutto peculiare dei codici per il lavoro pubblico è la
previsione di alcuni criteri generali per l’applicazione dei principi di
gradualità e proporzionalità delle sanzioni rispetto alle infrazioni.
In particolare, si dovrà guardare:
alla intenzionalità del comportamento, alla rilevanza della violazione di norme
o disposizioni;
al grado di disservizio o di pericolo provocato dalla negligenza, imprudenza o
imperizia dimostrate, tenuto conto anche della prevedibilità dell’evento;
all’eventuale sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti;
alle responsabilità derivanti dalla posizione di lavoro occupata dal dipendente;
al concorso nella mancanza di più lavoratori in accordo tra di loro;
al comportamento complessivo del lavoratore, con particolare riguardo ai
precedenti disciplinari, nell’ambito del biennio previsto dalla legge; al
comportamento verso gli utenti.
Egualmente peculiare è la previsione di una regola per il concorso di più
infrazioni con applicazione della sola sanzione prevista per la mancanza più
grave.
Con i codici disciplinari ha fatto ufficiale ed effettivo ingresso nella
regolamentazione del lavoro pubblico il licenziamento disciplinare, con
preavviso e senza preavviso.
Per quanto riguarda il licenziamento l’art. 55 quater del D.Lgs. 165/2001
stabilisce che ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o
per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto
collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento in
ipotesi pre(determinate):
la falsa attestazione della presenza in servizio
l’assenza ingiustificata per periodi superiori a tre giorni
l’ingiustificato rifiuto ad un trasferimento interno disposto per motivate
esigenze di servizio
le dichiarazioni false o le false attestazioni per ottenere assunzioni o
progressioni di carriera
le reiterate condotte aggressive, moleste ed offensive
la condanna penale definitiva per reati per i quali è prevista l’interdizione
dai pubblici uffici
il prolungato (riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio)
insufficiente rendimento.
Secondo quanto previsto dall’art. 51, 2° comma del D.Lgs. 165/2001, lo Statuto
dei Lavoratori, e dunque anche l’art. 18 (ordine di reintegrazione in caso
di licenziamento nullo o illegittimo) si applica a tutte le pubbliche
amministrazioni indipendentemente dal numero dei lavoratori occupati.
Sul piano applicativo è stata lasciata al dipendente la scelta, quando
intende impugnare una sanzione, di adire direttamente il giudice oppure
ricorrere ad una procedura conciliativa non obbligatoria – fuori dai casi per i
quali è previsto il licenziamento – da disciplinarsi mediante la contrattazione
collettiva, la quale non può, però, istituire procedure di impugnazione dei
provvedimenti disciplinari (art. 55).
In questo caso la procedura deve esaurirsi entro un termine non superiore a 30
giorni dalla contestazione dell’addebito e comunque prima dell’irrogazione della
sanzione.
La sanzione concordemente determinata all’esito di tali procedure non può essere
di specie diversa da quella prevista per l’infrazione per cui si procede e non è
soggetta ad impugnazione.
Codice di comportamento dei dipendenti pubblici
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici è una norma della Repubblica
Italiana emanata con Decreto del presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n.
62 che disciplina il comportamento dei dipendenti pubblici
italiani della pubblica amministrazione italiana.
Emanato sulla base della delega della legge Severino, il codice è entrato in
vigore il 19 giugno 2013.
La previsione venne sancita nell'ordinamento giuridico italiano dall'art. 26 del
d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, che modificò il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29,
aggiungendo allo stesso l'art. 58 bis, che delegava il governo italiano
all'emanazione di una tale norma, delega poi attuata col decreto del Ministero
della Funzione Pubblica 31 marzo 1994, poi modificato successivamente dal
decreto del predetto ministro del 28 novembre 2000.
La disciplina confluì poi nel d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, rimanendo vigente
sino alla promulgazione della legge Severino, che delegò nuovamente il governo
italiano all'emanazione di un nuovo codice, delega poi attuata col D.P.R. 16
aprile 2013, n. 62.
Struttura e contenuto
Il D.P.R. si compone di 17 articoli e le disposizioni possono essere riassunte:
determinazione di obblighi minimi richiesti a ciascun dipendente;
divieto di ricevere regali come corrispettivo per le prestazioni amministrative;
Obbligo di astensione in caso di conflitto di interesse;
Principi e direttive del comportamento durante il servizio, ed anche in privato
in alcuni casi;
Definizione della responsabilità e di sanzioni connesse alla violazione del
codice.
Rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale
Con l’art. 55 ter del D.Lgs. 165/2001 (introdotto dall’art. 69 del D.Lgs.
150/2009) vengono affrontate le questioni relative ai rapporti fra procedimento
disciplinare che prosegue – salvo diversa determinazione dell’ufficio competente
per i procedimenti disciplinari – anche in pendenza di procedimento penale.
La norma contiene una esposizione minuziosa di come si deve comportare
l’amministrazione di fronte alle diverse ipotesi.
Se il procedimento disciplinare non sospeso si era concluso con una sanzione ed
il successivo procedimento penale con l’assoluzione per non sussistenza del
fatto o perché non costituisce illecito penale o perché il lavoratore non lo ha
commesso, su istanza della parte interessata da proporsi entro 6 mesi dal
passaggio in giudicato della sentenza, il procedimento disciplinare deve essere
riaperto e lo stesso può concludersi con la conferma o modifica della sanzione.
Se il procedimento disciplinare si era concluso con l’archiviazione ed il
procedimento penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’amministrazione
è tenuta a riaprire la procedura disciplinare. L’obbligo è dovuto per effetto
della comunicazione da parte della Cancelleria del Tribunale all’amministrazione
ex art. 70 D. Lgs. 150/2009.
La riapertura del procedimento disciplinare si avrà altresì nel caso in cui il
procedimento penale si è concluso con una condanna ed il fatto addebitato
comporta l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento mentre al
termine del procedimento disciplinare era stata adottata una sanzione diversa.
In tutti i casi il procedimento disciplinare è ripreso o riaperto entro 60
giorni dalla comunicazione della sentenza all’Amministrazione ovvero dalla
presentazione dell’istanza di riapertura da parte del lavoratore di cui si è
detto. Il procedimento – che deve concludersi entro 180 giorni – segue le regole
di cui all’art. 55 bis.
False attestazioni o certificazioni
Fra le altre norme introdotte nel D.Lgs. 165/2001 dalla novella del 2009 –
comunque attinenti alla materia disciplinare nel pubblico impiego – va
menzionato, anche per le serie conseguenze previste, quanto stabilito dall’art.
55 quinquies.
La norma prevede che la falsa attestazione della presenza in servizio mediante
l’alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze o con altre modalità
fraudolente, o la produzione di certificazione medica falsa o attestante uno
stato di malattia falso, comporta:
responsabilità disciplinare
responsabilità penale: reclusione da 1 a 5 anni e multa da € 400 ad € 1600
il ristoro del danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto nel periodo per
il quale sia stata accertata la mancata prestazione, e del danno all’immagine
subiti dall’amministrazione. Alla medesima pena è soggetto il medico e chiunque
altro concorre nella commissione del delitto. La sentenza definitiva di condanna
o di applicazione della pena per il predetto delitto comporta per il medico la
sanzione della radiazione dall’albo nonché, se dipendente, il licenziamento per
giusta causa e, se convenzionato con il servizio sanitario nazionale, la sua
decadenza dalla convenzione.
Tali conseguenze si avranno altresì nel caso in cui, in relazione all’assenza
dal servizio del pubblico dipendente, il medico abbia rilasciato attestazioni di
“dati clinici non direttamente constatati né oggettivamente documentati”.
Responsabilità disciplinare per condotte pregiudizievoli per l’amministrazione
L’art. 55 sexies del D.Lgs. 165/2001 (anch’esso inserito dal D.Lgs. 150/2009)
introduce una ulteriore specifica ipotesi di infrazione disciplinare, stabilendo
che i fatti pregiudizievoli posti in essere dal dipendente (la norma parla di
violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa stabiliti da
norme legislative o regolamentari, ovvero contenute nel contratto collettivo o
individuale, ovvero in atti e provvedimenti dell’amministrazione, ovvero nei
codici di comportamento) che abbiano comportato la condanna dell’amministrazione
al risarcimento del danno, determinano l’applicazione – ove già non ricorrano i
presupposti per l’applicazione di altra diversa sanzione disciplinare – della
sospensione da 3 giorni a 3 mesi in proporzione all’entità del risarcimento.
La norma (art. 55 sexies, 2° comma) prevede poi la diversa ipotesi del danno
grave cagionato al regolare funzionamento dell’ufficio in conseguenza di
accertate inefficienza o incompetenza professionale sulla base dei criteri
valutativi previsti da disposizioni legislative e contrattuali.
All’esito del procedimento disciplinare il dipendente “è” collocato in
disponibilità (con le procedure di gestione di cui agli artt. 33 e 34 D.Lgs.
165/2001) ed il provvedimento disciplinare (il collocamento in disponibilità)
che definisce il giudizio stabilisce mansioni e qualifica per le quali può
avvenire l’eventuale ricollocamento.
Parrebbe, ma la norma di legge non lo chiarisce, anche in violazione dell’art.
2103 c.c.
Il 3° comma dell’art. 55 sexies riguarda il dirigente che abbia omesso o
ritardato senza giustificato motivo atti del procedimento disciplinare o ancora
abbia valutato irragionevolmente o in maniera manifestamente infondata
l’insussistenza dell’illecito disciplinare, stabilendo la sanzione della
sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un massimo di tre mesi nonché
la mancata attribuzione della retribuzione di risultato per un importo pari a
quello spettante per il doppio della durata della sospensione.
Nel caso in cui il medesimo comportamento sia stato posto in essere da titolari
di ufficio non aventi qualifica dirigenziale la sanzione è limitata alla
retribuzione per il periodo di sospensione.
Opposizione:
ricorso al giudice del lavoro (in
questo caso si applica la prescrizione ordinaria, 10 anni), o promuovere entro
20 giorni la costituzione di un collegio
di conciliazione ed arbitrato presso l’Ispettorato Nazionale del
Lavoro (prima DTL), oltre che applicare apposite procedure eventualmente
previste dal Contratto Collettivo.
By Chiara Vannini
Doveri, responsabilità e sanzioni disciplinari. Tutto quello che il dipendente
pubblico deve conoscere sul codice di comportamento da seguire durante lo
svolgimento delle sue funzioni e sulle sanzioni nelle quali può incorrere.
Gli obblighi del dipendente pubblico
Il CCNL identifica gli obblighi comportamentali e disciplinari del dipendente.
Il dipendente deve lavorare con impegno e responsabilità, rispettando i principi
del buon andamento, del rispetto della legge e dell’interesse pubblico.
Il dipendente deve adeguare il proprio comportamento ai principi del rapporto di
lavoro secondo il codice di condotta e secondo il codice di comportamento
dell’azienda di appartenenza.
Ha un dovere costituzionale di servire la Repubblica con impegno e
responsabilità e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità
dell'attività, dando priorità al rispetto della legge e dell'interesse pubblico.
Al fine di garantire la qualità dei servizi prestati, il dipendente deve:
collaborare con diligenza, osservando le norme del contratto e il regolamento
aziendale sulla disciplina
rispettare il segreto d'ufficio non utilizzare a fini privati le informazioni di
cui viene a conoscenza nei rapporti con il cittadino,
fornire tutte le informazioni nel rispetto delle disposizioni in materia di
trasparenza
rispettare l'orario di lavoro,
rilevare adeguatamente le presenze e non assentarsi dal luogo di lavoro senza
l'autorizzazione del dirigente o del responsabile durante l'orario di lavoro,
mantenere nei rapporti interpersonali e con gli utenti una condotta adeguata ai
principi di correttezza ed astenersi da comportamenti lesivi della dignità della
persona
non praticare attività non inerenti al proprio servizio o attività che
precludano il recupero psico-fisico nel periodo di malattia od infortunio
eseguire le disposizioni inerenti all’espletamento delle proprie funzioni o
mansioni che vengono impartite dai superiori; se si ritiene che l'ordine sia
palesemente illegittimo, il dipendente deve farne rimostranza a chi lo ha
impartito, dichiarandone le ragioni. Se l'ordine è rinnovato per iscritto ha il
dovere di eseguirlo; il dipendente non deve, comunque, eseguire l'ordine se
l'atto è vietato dalla legge o costituisce un illecito amministrativo
vigilare sul corretto espletamento dell'attività del personale sottordinato
(delegato) se il compito rientra nelle proprie responsabilità
avere cura dei locali, mobili, oggetti, macchinari, attrezzi, strumenti ed
automezzi a lui affidati
non valersi di quanto è di proprietà dell'Azienda o Ente per ragioni che non
siano di servizio (peculato) non chiedere né accettare, a qualsiasi titolo,
compensi, regali o altro legato alla propria prestazione lavorativa
osservare scrupolosamente le disposizioni che regolano l'accesso ai locali
dell'Azienda da parte del personale e non introdurre, salvo che non siano
debitamente autorizzate, persone estranee all'Azienda in locali non aperti al
pubblico
comunicare all'Azienda o Ente la propria residenza e/o il domicilio, o ogni
cambiamento in caso di malattia, dare tempestivo avviso all'ufficio preposto
(es. DIT) salvo comprovato impedimento
astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano
coinvolgere direttamente o indirettamente interessi finanziari o non finanziari
propri, del coniuge, di conviventi, di parenti, di affini entro il secondo grado
comunicare all’Azienda la presenza di provvedimenti di rinvio a giudizio in
procedimenti penali
rispettare gli obblighi riguardanti le indicazioni sul lavoro a distanza
Il procedimento disciplinare
Il procedimento disciplinare è commisurato alla gravità dell'infrazione commessa
Nel momento in cui il dipendente non rispetti gli obblighi normativi del CCNL,
la sua condotta può essere soggetta a procedimento disciplinare.
Sulla base della gravità dell’infrazione commessa, il dipendente può andare
incontro a:
Rimprovero verbale
Rimprovero scritto/censura
Multa di importo variabile fino ad un massimo di 4 ore di retribuzione
Sospensione del servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni
Sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni fino ad
un massimo di sei mesi
Licenziamento con preavviso
Licenziamento senza preavviso
Sanzioni disciplinari, quando e perché vengono impartite
Poiché le sanzioni devono rispettare i principi di gradualità e proporzionalità,
a seconda della gravità, le sanzioni seguono criteri predefiniti che tengono
conto:
dell’intenzionalità del comportamento
i gradi di negligenza
imprudenza o imperizia
la rilevanza degli obblighi violati
le responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente
il grado di danno o pericolo causato all’azienda o all’utente
presenza di circostanze aggravanti o attenuanti
concorso nella violazione di più dipendenti in accordo fra di loro
Al dipendente responsabile di più mancanze compiute con unica azione od
omissione o con più azioni od omissioni collegate tra loro - e notificate con un
unico procedimento - viene applicata la sanzione prevista per la mancanza più
grave se le varie infrazioni sono punite con sanzioni di diversa gravità.
La sanzione disciplinare, dal minimo del rimprovero verbale o scritto al massimo
della multa pari a 4 ore di retribuzione, si applica in maniera graduale per:
inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di assenze
per malattia, nonché dell'orario di lavoro, comprese le inosservanze legate al
lavoro a distanza
condotta non conforme, nell’ambiente di lavoro, a principi di correttezza verso
superiori o altri dipendenti o nei confronti degli utenti o terzi
negligenza nell'esecuzione dei compiti assegnati, nella cura dei locali e dei
beni mobili o strumenti a lui affidati o sui quali, in relazione alle sue
responsabilità, debba espletare attività di custodia o vigilanza
inosservanza degli obblighi in materia di prevenzione degli infortuni e di
sicurezza sul lavoro ove non ne sia derivato danno o pregiudizio al servizio o
agli interessi dell’Azienda o Ente o di terzi
rifiuto di assoggettarsi a visite personali disposte a tutela del patrimonio
dell'Azienda
negligenza o insufficiente rendimento nell'assolvimento dei compiti assegnati
violazione di doveri ed obblighi di comportamento non ricompresi
specificatamente nelle lettere precedenti, da cui sia derivato disservizio
ovvero danno o pericolo all'Azienda o Ente, agli utenti o ai terzi.
L'importo delle ritenute per multa viene inserito nel bilancio dell'Azienda e
destinato ad attività sociali a favore dei dipendenti.
La sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della
retribuzione fino a 10 giorni si applica:
recidive delle mancanze già elencate nel comma precedente
assenza ingiustificata dal servizio o arbitrario abbandono dello stesso; in
questi casi, l'entità della sanzione è determinata in relazione alla durata
dell'assenza o dell'abbandono del servizio, al disservizio che si è determinato,
alla gravità della violazione dei doveri del dipendente, agli eventuali danni
causati all'Azienda, agli utenti o ai terzi
ritardo ingiustificato, non superiore a 5 giorni, a trasferirsi nella sede
assegnata dai superiori
svolgimento di attività che ritardano il recupero psico-fisico durante la
malattia o l’infortunio
manifestazioni ingiuriose nei confronti dell'Azienda o Ente, salvo che siano
espressione della libertà di pensiero
atti, comportamenti o molestie, lesivi della dignità della persona
atti o comportamenti aggressivi ostili e denigratori, nell’ambiente di lavoro,
che assumono forme di violenza morale nei confronti di un altro dipendente,
comportamenti minacciosi, ingiuriosi, calunniosi o diffamatori nei confronti di
altri dipendenti o degli utenti o di terzi
violazione di doveri ed obblighi di comportamento non ricompresi
specificatamente precedentemente da cui è comunque derivato un grave danno
all’azienda o Ente e agli utenti o ai terzi.
recidiva di gravi comportamenti
particolare gravità delle mancanze
assenza ingiustificata dal servizio o arbitrario abbandono dello stesso, anche
in caso di lavoro prestato in modalità a distanza; in questi casi, l'entità
della sanzione è determinata in relazione alla durata dell'assenza o
dell'abbandono del servizio, al disservizio che si è determinato, alla gravità
della violazione dei doveri del dipendente, agli eventuali danni causati
all'Azienda, agli utenti o ai terzi
ritardo ingiustificato, non superiore a 5 giorni, a trasferirsi nella sede
assegnata dai superiori
svolgimento di attività che ritardano il recupero psico-fisico durante la
malattia o l’infortunio
manifestazioni ingiuriose nei confronti dell'Azienda o Ente, salvo che siano
espressione della libertà di pensiero
atti, comportamenti o molestie, lesivi della dignità della persona, non
reiterati
atti o comportamenti aggressivi ostili e denigratori, nell’ambiente di lavoro,
che assumono forme di violenza morale nei confronti di un altro dipendente,
comportamenti minacciosi, ingiuriosi, calunniosi o diffamatori nei confronti di
altri dipendenti o degli utenti o di terzi, non reiterati
violazione di doveri ed obblighi di comportamento non ricompresi
specificatamente precedentemente da cui è comunque derivato un grave danno, un
disservizio o un pericolo all’azienda o Ente e agli utenti o ai terzi
Sospensione da servizio e retribuzione da 11 giorni fino al massimo di 6 mesi
recidiva di gravi comportamenti già elencati nel comma precedente
occultamento, da parte del responsabile della custodia, del controllo o della
vigilanza, di fatti e circostanze relativi ad uso illecito, manomissione,
distrazione o sottrazione di somme o beni di pertinenza dell’Azienda a lui
affidati
atti, comportamenti o molestie a carattere sessuale dove non sussiste la gravità
e la reiterazione
alterchi con vie di fatto (azioni di forza) negli ambienti di lavoro, anche con
gli utenti
violazione di doveri ed obblighi di comportamento non ricompresi
precedentemente, ma da cui sia derivato un grave danno all’Azienda, agli utenti
o a terzi
fino a due assenze ingiustificate dal servizio in continuità con le giornate
festive e di riposo settimanale
ingiustificate assenze collettive nei periodi in cui è necessario assicurare
continuità nell’erogazione di servizi all’utenza.
Licenziamento, quando si applica
La sanzione disciplinare del licenziamento si applica con preavviso o senza
preavviso.
Recidiva nel biennio di atti, comportamenti o molestie a carattere sessuale o
quando l’atto, il comportamento o la molestia rivestono carattere di particolare
gravità
Condanna passata in giudicato, per un delitto che, anche se commesso fuori dal
servizio e non attinente al rapporto di lavoro, non consenta la prosecuzione del
rapporto di lavoro per la sua specifica gravità
Violazione dei doveri e degli obblighi di comportamento non ricompresi
specificatamente negli articoli precedenti, ma di gravità tale da non consentire
la prosecuzione del rapporto di lavoro
Mancata ripresa del servizio, salvo casi di comprovato impedimento, dopo periodi
di interruzione dell’attività previsti dalle disposizioni legislative e
contrattuali vigenti
Gravi fatti illeciti di rilevanza penale, compresi quelli che possono dare luogo
alla sospensione cautelare
Condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori
servizio che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne
consente neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità
Commissione in genere - anche nei confronti di terzi - di fatti o atti dolosi,
che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da
non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro
Violazioni dolose degli obblighi non ricomprese specificatamente negli articoli
precedenti, anche nei confronti di terzi, di gravità tale, da non consentire la
prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro
Ante D.Lgs. n. 50/2016
Post D.Lgs. n. 36/2023
Confronto vecchio e nuovo codice appalti: la tabella di raffronto articolo per
articolo
Confronto vecchio e nuovo codice appalti: la tabella di raffronto spiegata
articolo per articolo per avere il quadro normativo chiaro e completo
di Redazione Tecnica di BIBLUS
Vecchio e nuovo codice appalti 2023: si cambia musica! Un confronto tra vecchio
e nuovo codice appalti è utilissimo, dato che è stata modificata l’intera
normativa. Il dlgs 36/2023 ha acquisito efficacia dal 1° luglio 2023, anche se
molte sue disposizioni coesistono con le vecchie fino almeno al 31 dicembre
2023. Ci sono alcuni casi, come ad esempio le procedure avviate prima del 1°
luglio, in cui si continua ad applicare il dlgs 50/2016 (che in questo articolo
per convenzione definiremo “vecchio” per distinguerlo dal dlgs 36/2023 nuovo
codice).
Confronto vecchio e nuovo codice appalti 2023
Il nuovo codice degli appalti manda in pensione il dlgs 50/2016? Non
definitivamente in quanto alcune disposizioni coesisteranno per un tempo più o
meno lungo: ci sarà, quindi, un periodo transitorio da rispettare. Alla luce di
tutti questi cambiamenti è fondamentale riuscire a fare un confronto tra le
vecchie e le nuove disposizioni, anche in vista di futuri appalti e possibili
gare a cui partecipare. Per riuscire ad avere una visione di insieme, possiamo
avvalerci della tabella confronto nuovo codice appalti (posta alla fine
dell’articolo) nella quale vediamo graficamente la differenza della struttura
delle due disposizioni.
Confronto 50/2016 e 36/2023
Partendo dalla tabella di corrispondenza, da un primo sguardo, possiamo subito
riscontrare che nel nuovo codice appalti viene dato maggiore risalto ad alcuni
temi (che prima non comparivano) ai quali vengono dedicati interi articoli.
Questo perché il legislatore ha voluto dare maggiore risalto ad istituti
particolari (come, ad esempio, l’appalto integrato art. 44), che prima venivano
inclusi in disposizioni più generali o non venivano proprio menzionati. La
volontà del legislatore è quella di porre l’accento su alcune questioni
particolari, semplificarne altre, al fine di rendere l’intero processo
facilmente gestibile dagli attori dell’appalto pubblico (stazione appaltante,
operatori economici, ecc.).
Il nuovo codice ha una struttura analoga al vecchio ma, con l’aggiunta dei suoi
allegati, cerca di raccogliere e semplificare il numero di norme e linee guida
in un unico documento. Da una prima impressione il numero degli allegati
sembrerebbe molto ampio, ma se pensiamo al numero delle direttive di attuazione,
alle linee guida ANAC e ai Regolamenti riferiti al dlgs 50/2016, appare evidente
la necessità di molti allegati esemplificativi.
Corrispondenza articoli vecchio e nuovo codice appalti: i principi
Dalla corrispondenza degli articoli possiamo notare subito delle differenze. Già
nella parte iniziale ci rendiamo conto che il nuovo codice appalti si fonda su
alcuni principi cardine, nello specifico sui primi 3:
principio del risultato (art.1);
principio della fiducia (art.2);
principio dell’accesso al mercato (art.3).
La triade rappresenta una novità assoluta (formale) del nuovo codice: sono i
principi più importanti che governano l’azione amministrativa in base ai quali
si interpretano e si applicano tutte le norme del codice. Nel vecchio codice i
principi che aprono la nuova norma erano impliciti nell’art. 30, ora invece
assumono la loro autonomia e di conseguenza acquistano maggiore rilevanza, dando
maggiore discrezionalità alle stazioni appaltanti. I successivi articoli
contengono ognuno un principio:
criterio interpretativo e applicativo (art.4);
principi di buona fede e di tutela dell’affidamento (art. 5);
principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale, rapporti con gli enti
del Terzo Settore (art.6);
principio di auto-organizzazione amministrativa (art. 7) che trovava riscontro
nell’art. 192 dlgs 50/2016, ma ricadeva nel regime speciale degli affidamenti in
house;
principio di autonomia contrattuale. Divieto di prestazioni d’opera
intellettuale a titolo gratuito (art.8);
principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale (art.9);
principi di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione
(art. 10) trova analogia diretta con l’art. 83 del vecchio codice rubricato in
maniera molto differente: “Criteri di selezione e soccorso istruttorio”;
principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore.
Inadempienze contributive e ritardo nei pagamenti (art. 11) trova rispondenza
nell’art. 30 dlgs 50/2016 “Principi per l’aggiudicazione e l’esecuzione di
appalti e concessioni”;
norma di rinvio esterno (art.12).
Confronto codice appalti 50 e 36: il RUP
Il titolo II contiene disposizioni circa l’ambito di applicazione, il
responsabile unico e le fasi dell’affidamento (artt. da 13 a 18). Questa parte è
stata completamente ristrutturata. L’art. 13 comprende ora una serie di vecchie
disposizioni (artt. 1-4-6-7-8-9-10-11-12-13-14-15-16-17) che poi rinvia agli
allegati e ai regolamenti di esecuzione. Le soglie restano. Il vecchio codice
all’art. 35 le definiva “Soglie di rilevanza comunitaria e metodi di calcolo del
valore stimato degli appalti“, il nuovo codice all’art. 14 le definisce “Soglie
di rilevanza europea e metodi di calcolo dell’importo stimato degli appalti.
Disciplina dei contratti misti“.
La novità da sottolineare è relativa al cambio nominativo del RUP: da
responsabile unico del procedimento diventa responsabile unico del progetto.
L’articolo sul conflitto di interesse rimane, ma al plurale “conflitto
di interessi” (art. 16) contro il vecchio art. 42 “conflitto di interesse“.
Rimane identica la dizione delle fasi delle procedure di affidamento (art. 17
dlgs 36/2023). L’art. 18 “Il contratto e la sua stipulazione” abbraccia 2 vecchi
articoli: il 32 e il 33.
Differenze nuovo codice appalti: la digitalizzazione
Una delle parti più innovative della nuova disposizione è contenuta nella
seconda parte: la digitalizzazione del ciclo di vita dei contratti (artt.
19-36). Si tratta di una sezione interamente dedicata all’informatizzazione che
nel vecchio codice aveva solo alcuni sporadici riferimenti.
Le novità rispetto al vecchio codice sono diverse e riguardano:
i principi e i diritti digitali;
i principi in materia di trasparenza;
il ciclo di vita digitale dei contratti pubblici;
l’ecosistema nazionale di approvvigionamento digitale e-procurement;
la banca dati nazionale dei contratti pubblici che prima era implicitamente
introdotta nella normativa sull’Anac, ora ha la sua autonomia;
il fascicolo virtuale dell’operatore economico;
le piattaforme di approvvigionamento digitale (che sostituiscono le piattaforme
telematiche di negoziazione);
l’uso di procedure automatizzate nel ciclo di vita dei contratti pubblici (art.
30) con l’introduzione dell’intelligenza artificiale;
l’anagrafe degli operatori economici partecipanti agli appalti (art.31).
Codice appalti confronto vecchio e nuovo: la trasparenza e la pubblicità
Restano invariate:
le regole tecniche (art. 26 dlgs 36/2023);
la pubblicità legale degli atti, all’art. 27 nel quale sono confluiti 2 articoli
del vecchio codice: il 29 (principi in materia di trasparenza) e il 73
(pubblicazione a livello nazionale);
le norme sulla trasparenza (art. 28) sono riscontrabili all’articolo 29 del
vecchio codice;
sistemi dinamici di acquisizione (art. 32);
aste elettroniche (art. 33);
cataloghi elettronici (art. 34);
accesso agli atti e riservatezza (art. 35).
Delle disposizioni che permangono cambia solo il riferimento numerico degli
articoli.
Codice appalti confronto vecchio e nuovo: la programmazione
La terza parte del dlgs 36/2023 è dedicata alla programmazione (artt. 37-40). Al
di là di piccoli cambiamenti, tutto è rimasto invariato: sono cambiate le
soglie, gli anni della programmazione dei servizi e delle forniture, ma dal
punto di vista contenutistico è rimasto tutto analogo.
Nuovo e vecchio codice appalti a confronto: la progettazione
La quarta parte del nuovo codice appalti è dedicata alla progettazione (artt.
41-47 e Allegato I.7) sulla quale viene fatta una revisione significativa.
Tra i principali aspetti innovativi introdotti dal nuovo codice, in
relazione ai contenuti e alle modalità di elaborazione del progetto vanno
richiamati in particolare:
la semplificazione dei livelli di progettazione, con la riduzione degli stessi a
due: il progetto di fattibilità tecnico-economica (PFTE) e il progetto
esecutivo;
la crescente valorizzazione dell’uso di tecnologie digitali per l’attività di
progettazione;
la volontà di dedicare un articolo specifico all’appalto integrato (art. 44) che
prima era contenuto all’interno di un articolo più ampio (art. 59 dlgs 50/2016)
rubricato “scelta delle procedure e oggetto del contratto“;
cambia la sostanza degli incentivi alle funzioni tecniche (art. 45).
Obbligo BIM per la progettazione
L’Articolo 43 rubricato “Metodi e strumenti di gestione informativa digitale
delle costruzioni” contiene l’obbligo a decorrere dal 1° gennaio 2025 (obbligo
già presente a partire dal 1° gennaio 2023 per appalti di importo ≥ a 5,35
milioni di euro) per le stazioni appaltanti e gli enti concedenti di adottare
metodi e strumenti di gestione informativa digitale delle costruzioni per la
progettazione e la realizzazione di opere di nuova costruzione e per gli
interventi su costruzioni esistenti per importo a base di gara superiore a 1
milione di euro. Al di sotto dell’importo appena menzionato le stazioni
appaltanti e gli enti concedenti possono adottare metodi e strumenti di gestione
informativa digitale delle costruzioni, eventualmente prevedendo nella
documentazione di gara un punteggio premiale relativo alle modalità d’uso di
tali metodi e strumenti. Per allinearti con le nuove disposizioni, puoi accedere
a corsi di formazione e certificazione BIM.
Metodi e strumenti di gestione informativa digitale: Allegato I.9
Tale allegato definisce le modalità e i termini di adozione dei metodi e
strumenti di gestione informativa digitale delle costruzioni da utilizzare, in
relazione a ogni singolo procedimento tecnico-amministrativo all’interno della
stazione appaltante, per l’affidamento e l’esecuzione dei contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture e volti alla manutenzione e alla gestione
dell’intero ciclo di vita del cespite immobiliare o infrastrutturale, fino alla
sua dismissione.
Nell’allegato I.9 sono definiti:
le misure relative alla formazione del personale;
i criteri per garantire uniformità di utilizzazione dei metodi e strumenti
digitali per la gestione dell’informazione;
le misure necessarie per l’attuazione dei processi di gestione
dell’informazione;
le modalità di scambio e interoperabilità dei dati e delle informazioni;
le specifiche tecniche nazionali ed internazionali applicabili;
il contenuto minimo del capitolato informativo.
La parte dedicata al libro II del nuovo codice appalti contiene i contratti di
importo inferiore alle soglie (artt. 48-55). Il nuovo codice sistema la
disciplina comune applicabile ai contratti di lavori, servizi e forniture di
importo inferiore alle soglie di rilevanza europea in un solo articolo (art. 48)
che prima invece si trovava diviso in più articoli e/o disposizioni (art.30,
art. 32 e decreti-legge di semplificazione). Si dà maggiore rilievo al principio
di rotazione degli affidamenti (art. 49), prima contenuto nell’art. 36 rubricato
“contratti sotto soglia“. La commissione giudicatrice ha adesso un articolo
dedicato che è il 51, prima inserito nell’art. 77 di più ampio respiro.
Viene data autonomia propria a diverse disposizioni:
il controllo sul possesso dei requisiti (art. 52);
le garanzie a corredo dell’offerta;
le garanzie definitive (art. 53);
l’esclusione automatica delle offerte anomale (art. 54);
i termini dilatori (art. 55).
Confronto codice appalti vecchio e nuovo: istituti e clausole comuni
La parte II del libro II del nuovo codice appalti contiene specifiche
disposizioni circa gli istituti e le clausole comuni (artt. 56-61). L’art. 56
norma gli appalti esclusi nei settori ordinari, disposizione che non compariva
nel vecchio codice. Restano invariate seppur con una numerazione di articoli
differente dal dlgs 50/2016 e qualche modifica:
le clausole sociali (art. 57) restano le stesse, ma con quale modifica: si
applicano a tutti gli affidamenti dei contratti di appalto di lavori e servizi
diversi da quelli aventi natura intellettuale e per i contratti di concessione e
devono contenere misure orientate tra l’altro a garantire le pari opportunità
generazionali, di genere e di inclusione lavorativa per le persone con
disabilità o svantaggiate, la stabilità occupazionale del personale impiegato;
la suddivisione in lotti (art. 58);
gli accordi quadro (art. 59);
la revisione dei prezzi (art. 60) resa obbligatoria a differenza del passato;
i contratti riservati (art. 61 operatori economici cooperative scopo per
disabilità).
Confronto nuovo e vecchio codice appalti: i soggetti
La terza parte del libro II del nuovo codice appalti (artt. 62- 69) si riferisce
ai soggetti che intervengono nell’appalto stesso: le stazioni appaltanti, le
aggregazioni delle committenze, la qualificazione delle stazioni appaltanti, gli
operatori economici, i consorzi non necessari, i raggruppamenti ordinari e i
consorzi ordinari di operatori economici. Non si registrano novità in merito a
questa parte.
La quarta parte del libro II è dedicata alle procedure di scelta del
contraente (artt. 70-76). Le procedure sono invariate e sono quelle classiche:
aperta, ristretta, competitiva con negoziazione, dialogo competitivo,
partenariato per l’innovazione, procedura negoziata senza pubblicazione di un
bando. Una novità, invece, si può riscontrare nell’art. 82 completamente
dedicato ai documenti di gara (nel vecchio codice erano contenuti in un
allegato). L’art. 87 è dedicato al disciplinare di gara e al capitolato
speciale, non presenti nel dlgs 50/2016.
Vecchio e nuovo codice: i motivi di esclusione
Nella sezione dedicata ai requisiti di partecipazione e alla selezione dei
partecipanti, notiamo l’intenzione del legislatore di semplificare quello che
era il vecchio art. 80 che regolamentava i motivi di esclusione. In questo caso
la semplificazione ha portato ad una necessaria divisione dell’art. 80 in
diversi articoli, ognuno dei quali dedicato ad una determinata causa di
esclusione:
cause di esclusione automatica (art. 94);
cause di esclusione non automatica (art. 95);
disciplina dell’esecuzione (art. 96);
cause di esclusione di partecipanti a raggruppamenti (art. 97);
illecito professionale grave (art. 98).
La formulazione dei suddetti 5 articoli è stata fatta per semplificare e
chiarire, per consentire agli operatori economici ed alle stazioni appaltanti ed
enti concedenti di orientarsi meglio in una materia ostica come quella dei
motivi di esclusione. Dobbiamo ricordare, infatti, che la disposizione di cui
all’art. 80 del dlgs 50/2016 è stata nel tempo molto dibattuta, oggetto di
contenzioso in materia di contratti pubblici. L’esigenza di un riordino, quindi,
ha portato all’introduzione di una disciplina chiarificatrice: è stato
necessario suddividere l’originaria disposizione in 5 distinti articoli
integralmente nuovi, le cui rispettive rubriche sono innovative, a partire dalla
terminologia utilizzata.
L’art. 102 è dedicato agli impegni dell’operatore economico, disposizione non
presente nel vecchio codice, ma solo citata. Nella fase esecutiva c’è molta
analogia tra vecchio e nuovo codice.
Nell’appalto nei settori speciali si evidenzia una maggiore chiarezza nelle
disposizioni. L’art. 159 è dedicato alla disponibilità digitale dei documenti di
gara, si è scelto in questo modo di dare risalto all’obbligo.
La parte finale è dedicata ai soggetti: la governance, la cabina di regia,
l’Anac. Per quanto riguarda l’Anac viene riconfermato come organo di vigilanza,
ma non più come organo regolamentatore se non in alcuni casi, infatti spariscono
le linee guida.
Appalto
ordinario, elettronic-procurement, concessione
A
misura, a corpo
Lavori,
Costruzioni, Approvvigionamento (beni, forniture, servizi)
Gare d'appalto: Quante e quali tipologie esistono?
Il codice appalti individua tre macrocategorie di appalti, a cui fanno seguito
numerose sottocategorie distinguibili a seconda del settore di riferimento e
della procedura seguita dalla pubblica amministrazione per l'affidamento.
Quali sono i tre settori principali d'appalto?
Quali sono le tre tipologie principali di appalti?
Tipologie di appalti
Le tre macrocategorie di appalti pubblici sono le seguenti:
Appalti per realizzazione di opere o esecuzioni di lavori;
Appalti nel settore delle forniture;
Appalti nel settore servizi
Quali sono le procedure principali d'appalto?
sono i tipi di appalto:
1 La procedura aperta (o pubblico incanto)
aperte a chiunque voglia aderire (offerta 35 giorni);
2 La procedura ristretta (o licitazione privata)
ristrette ad un certo numero di imprese con specifici requisiti (offerta 30
giorni);
3 La procedura negoziata (o trattativa privata),
ossia offrono la possibilità all'operatore economico di contrattare con
l'amministrazione e vige il principio di Rotazione (offerta 30 giorni);
4 Appalto-concorso.
5 Offerta Economicamente Vantaggiosa.
6 dialogo competitivo e di partenariato per l'innovazione che permettono
all'operatore di individuare con l'amministrazione i mezzi e gli obiettivi per
la realizzazione dell'appalto pubblico;
7 L'appalto integrato.
8 acquisti e-procurement attraverso il MePA o la Consip da operatori
qualificati-certificati-abilitati.
Nel mercato elettronico della Pubblica Amministrazione (MePA), tramite RDO
(richiesta di offerta) le stazioni appaltanti possono acquistare beni o servizi
utilizzando lo strumento dell'affidamento diretto, della procedura aperta, della
procedura negoziata o della procedura negoziata con un solo operatore
Consip spa, secondo quanto disposto dall'art. 4 del d.l. 95/2012, convertito con
legge 135/2012, è l’organo chiamato a svolgere le attività di realizzazione del
Programma di razionalizzazione degli acquisti, di centrale di committenza e di
e-procurement
Il Codice degli appalti stabilisce che l'asta elettronica è un processo per fasi
successive basato su un dispositivo elettronico di presentazione di nuovi prezzi
modificati al ribasso o di nuovi valori riguardanti taluni elementi delle
offerte, che interviene dopo una prima valutazione completa delle offerte
permettendo che la loro classificazione possa essere effettuata sulla base di un
trattamento automatico
Quando è obbligatoria la procedura aperta?
Lgs. 50/2016, il DL n. 32 innalza la soglia per la procedura negoziata, previa
consultazione di almeno 3 operatori economici, da € 150.000 a € 200.000. Al di
sopra di questa soglia, i lavori potranno essere affidati soltanto tramite
procedura aperta.
Digitalizzazione affidamenti diretti
CIG:
Codice Identificativo di Gara
PVL:
Piattaforma pubblicità valore legale
DGUE:
È il Documento di gara unico europeo (DGUE) che consiste in un'autodichiarazione
aggiornata come prova documentale preliminare in sostituzione dei certificati
rilasciati da autorità pubbliche. Il Documento di gara unico europeo (DGUE) che
consiste in un'autodichiarazione aggiornata come prova documentale preliminare
in sostituzione dei certificati rilasciati da autorità pubbliche o terzi in cui
il concorrente conferma le situazioni giuridiche ed i criteri di selezione
fissati dal D.Lgs. 50/2016 e s.m.i. al fine di partecipare ad una gara d'appalto
DURC:
Documento unico di regolarità contributiva. Il documento unico di regolarità
contributiva è l'attestazione della regolarità dei pagamenti agli enti INPS,
INAIL e Cassa edile. Tale documento è finalizzato alla repressione del lavoro
nero e delle irregolarità assicurative e contributive.
GEIE
gruppo europeo di interesse economico (GEIE)
Soglie appalti: gli importi fissati dal Codice e i riferimenti normativi
Soglie di rilevanza europea e metodi di calcolo dell’importo stimato degli
appalti (art. 14, D.Lgs. 36/2023)
|
Settori ordinari |
Settori speciali |
Lavori |
5.382.000 € |
5.382.000 € |
Servizi e Forniture |
140.000 € |
431.000 € |
Concessioni |
5.382.000 € |
|
Servizi sociali e assimilati |
750.000 € |
1.000.000 € |
Il calcolo
dell’importo stimato dell’appalto si basa sull’importo totale al netto
dell’IVA valutato dalla S.A. (comma 4).
Le
soglie di rilevanza europea sono state aggiornate il 1° gennaio 2022. Dal 1°
gennaio 2024, ai sensi del Regolamento delegato (UE) 2023/2495 che modifica
la Direttiva 2024/24/UE, le soglie verranno incrementate, passando a 5.538.000 €
per i lavori, 143.000 € per servizi e forniture, e 5.538.000 € per le
concessioni.
Procedure per l’affidamento (art. 50, D.Lgs. 36/2023)
Lavori |
Servizi e Forniture |
Fino a 150.000 €
Fino a 200.000
€
Per somma urgenza
Fino a 5.000
€
micro Affidamento diretto |
Fino a 140.000 €
Fino a 5.000
€
micro Affidamento diretto
|
150.000 – 1.000.000 € |
140.000 – 215.000 € |
1.000.000 – 5.382.000 € |
|
Collaborazione, buona fede, tutela dell’affidamento, equilibrio tra le parti
Risultato, fiducia, accesso al mercato
Solidarietà, sussidiarietà, auto-organizzazione, autonomia, applicazione
contratti collettivi, massima partecipazione
Economicità, efficacia, tempestività, correttezza
CONTRATTI PUBBLICI. I principi generali del nuovo Codice dei contratti pubblici.
Il Principio del risultato
Il Principio della fiducia
Il Principio dell’accesso al mercato
Criterio interpretativo e applicativo
Il Principio di buona fede e di tutela dell’affidamento
Il Principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale
Il Principio di auto-organizzazione amministrativa
Il Principio di autonomia contrattuale.
Divieto di prestazioni d’opera intellettuale a titolo gratuito
Il Principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale
I Principi di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione
Il Principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore.
Inadempienze contributive e ritardo nei pagamenti
Quali sono i principi degli appalti pubblici? By Armando Pellegrino.
I tre “super” principi del Nuovo Codice contratti pubblici.
1. Il principio del risultato
2. Il principio della fiducia
3. Il principio dell’accesso al mercato
Il d.lgs. del 31 marzo 2023, n. 36, c.d. Nuovo codice dei contratti pubblici,
introduce un’innovazione importante orientata alla centralità del risultato.
Difatti, diviene fondamentale il raggiungimento del risultato
dell’amministrazione, consistente nell’affidamento del contratto pubblico, che
pone l’accento su aspetti quali il potere discrezionale e
l’auto-responsabilizzazione della stazione appaltante. Il Nuovo codice, inoltre,
elenca dall’articolo 1 all’articolo 12 i principi applicabili alle procedure di
appalto, considerando i primi tre principi, ovvero risultato, fiducia ed accesso
al mercato, quali criteri interpretativi e applicativi delle disposizioni
codicistiche. Inoltre, è rilevante anche la riconfigurazione dei rapporti tra
principi generali consolidati nell’ordinamento della contrattualistica pubblica,
in particolare il rapporto tra risultato e concorrenza. Difatti, la concorrenza
risulta secondo l’articolo 1, comma 2, del nuovo Codice “funzionale” a
conseguire il miglior risultato possibile e, da tale disposizione, si evince che
la concorrenza è intesa non come mero fine ma, più correttamente, come mezzo in
vista del raggiungimento del risultato. Difatti, l’idea che la stazione
appaltante debba perseguire solo la concorrenza rischia di contrastare con il
più generale principio di buon andamento, di cui il “principio del risultato”
rappresenta una “derivazione evoluta”.
1. Il principio del risultato
2. Il principio della fiducia
3. Il principio dell’accesso al mercato
Il principio del risultato richiama la massima tempestività e il migliore
rapporto possibile tra qualità e prezzo, nel rispetto dei principi di legalità,
trasparenza e concorrenza. Inoltre, il risultato costituisce attuazione del
principio di rilevanza costituzionale del buon andamento e dei correlati
criteri, ormai cristallizzati, di efficacia, efficienza ed economicità. Da tale
previsione si evince come il risultato rappresenta la “derivazione evoluta” del
buon andamento. Infine, il principio del risultato rappresenta il criterio
prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione
della regola del caso concreto, oltreché per valutare le responsabilità e per
attribuire gli incentivi. Il risultato si inquadra nel contesto della legalità e
della concorrenza: ma con il nuovo impianto codicistico si vuole ribadire che
legalità e concorrenza da sole non bastano, perché l’obiettivo rimane la
realizzazione delle opere pubbliche e la soddisfazione dell’interesse della
collettività.
Il principio della fiducia, strettamente
collegato al risultato, richiama la “reciproca fiducia nell’azione legittima,
trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli
operatori economici”. Inoltre, favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia
decisionale dei funzionari pubblici. La logica del principio della fiducia entra
nella prospettiva di consentire la realizzazione della funzione di leva
strategica per la ripresa economica e sociale del Paese. Si vuole, inoltre,
scardinare la c.d. “paura della firma” e la “burocrazia difensiva”,
rappresentano fonte di inefficienza e, conseguentemente, un ostacolo al rilancio
economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed
efficiente. La fiducia viene promossa tramite l’obbligo, in capo alle stazioni
appaltanti, di attivare una copertura assicurativa dei rischi per il personale,
nonché la riqualificazione delle stazioni appaltanti orientata a
professionalizzare i propri dipendenti, anche attraverso appositi piani di
formazione.
Le stazioni appaltanti e gli enti
concedenti devono favorire, inoltre, l’accesso al mercato degli operatori
economici. Tale principio di accesso al mercato si ricollega ai principi di
concorrenza, imparzialità, non discriminazione, pubblicità, trasparenza e di
proporzionalità. In conclusione, il legislatore ha voluto porre al centro una
codificazione basata sui principi, in particolare sui c.d. super principi e, In
questa prospettiva, il nuovo codice vuole dare, sin dalle sue disposizioni di
principio, il segnale di un cambiamento profondo, che mira ad accrescere lo
spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici,
introducendo una protezione correlata al rischio che accompagna la
contrattualistica pubblica.
RISCHIO
OPERTATIVO: Costruzione, disponibilità, domanda
CONTROLLO: Lavori: Responsabile Unico Procedimento + Direttore dei Lavori
programmazione triennale
Secondo quanto previsto dall'art. 31 comma 5 del D.lgs. 50/2016 e ss.mm.ii. il
RUP può coincidere con il direttore dei lavori? Si, ma solo entro i limiti di
importo massimo e di tipologia dei lavori stabiliti da apposite disposizioni
regolamentari
Beni, Servizi e Forniture: Direttore Esecuzione Contratto programmazione
biennale
EVIDENZA PUBBLICA: FASE PUBBLICISTICA DI AFFIDAMENTO programmazione,
progettazione, deliberazione a contrarre, pubblicazione bando, presentazione
offerte, valutazione offerte, affidamento-scelta del contraente, aggiudicazione,
approvazione, esecuzione, controlli
FASE PRIVATISTICA DI CONTRATTAZIONE individuazione elementi essenziale
del contratto (l’accordo, la causa, l’oggetto e la forma stabilita per legge) e
eventuali elementi incidentali (termini, oneri, condizioni), stipula del
contratto
PROGETTI:
Il codice dei contratti pubblici prevede che la progettazione in materia di
lavori pubblici si articoli in tre livelli:
progetto di fattibilità tecnica ed economica (progetto preliminare),
progetto definitivo
progetto esecutivo. La
norma consente, tuttavia, l’omissione di uno o entrambi i primi due livelli di
progettazione purché il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti
per il livello omesso, salvaguardando la qualità della progettazione.
Chi redige il documento di fattibilità?
Il documento di indirizzo della progettazione (DIP) è redatto dal responsabile
unico del procedimento della Stazione Appaltante prima dell'affidamento della
redazione del progetto di fattibilità tecnica ed economica, sia in caso di
progettazione interna che di progettazione esterna all'amministrazione
Che cos'è il progetto di fattibilità tecnica ed economica?
Il primo dei tre livelli di progettazione dei lavori pubblici è il progetto di
fattibilità tecnica ed economica che ha lo scopo di individuare, tra più
soluzioni, quella che presenta il miglior rapporto tra i costi e i benefici per
la collettività.
Da Appalti Pubblici in Pillole. Pertanto, sono 4 i documenti che dovranno essere
prodotti per giungere alla redazione del Progetto di Fattibilità Tecnica ed
Economica (PFTE):
Quadro esigenziale
Documento Preliminare Alla Progettazione (DOCFAP)
Documento di indirizzo alla progettazione (DIP)
Progetto di Fattibilità Tecnica ed Economica (PFTE)
(obiettivi
generali da perseguire,
i fabbisogni
della collettività, o della specifica utenza, esigenze qualitative e
quantitative dell’amministrazione, indicazione,
qualora ne sussistano le condizioni in relazione alla tipologia dell’opera o
dell’intervento da realizzare)
(Le
alternative progettuali da prendere in considerazione ed analizzare possono
indicativamente riguardare, a titolo di esempio:
la localizzazione dell’intervento per le opere di nuova costruzione;
le scelte modali e le alternative di tracciato per le infrastrutture di
trasporto;
l’alternativa tra la realizzazione di una nuova costruzione o il recupero di un
edificio esistente, ovvero il riutilizzo di aree dismesse o urbanizzate o
degradate, limitando ulteriore consumo di suolo;
le alternative di approvvigionamento idrico e/o gli interventi per migliorare
l’efficienza delle reti di distribuzione.
(Il
documento di indirizzo della progettazione (DIP) è redatto dal responsabile
unico del procedimento della Stazione Appaltante prima dell’affidamento della
redazione del progetto di fattibilità tecnica ed economica, sia in caso di
progettazione interna che di progettazione esterna all’amministrazione ai sensi
dell’articolo 24 del Codice. In quest’ultimo caso, il DIP dovrà essere parte
della documentazione di gara per l’affidamento del contratto pubblico di
servizi, in quanto costituisce parte integrante del “capitolato del servizio di
progettazione”.
In linea generale il DIP, sentita l’Amministrazione competente alla gestione
dell’opera (c.d. “Amministrazione usuaria”), riporta almeno le seguenti
informazioni:
lo stato dei luoghi con le relative indicazioni di tipo catastale;
gli obiettivi da perseguire attraverso la realizzazione dell’intervento,
le funzioni che dovranno essere svolte, i fabbisogni e le esigenze da
soddisfare, ove pertinenti i livelli di servizio da conseguire;
i requisiti tecnici di progetto che l’intervento deve soddisfare in
relazione alla legislazione tecnica vigente e agli obiettivi di cui al
precedente punto 2;
i livelli della progettazione da sviluppare ed i relativi tempi di
svolgimento, in rapporto alla specifica tipologia e alla dimensione
dell’intervento. In linea generale si rammenta che, ai sensi dell’art. 23 comma
4 del Codice “è consentita … l’omissione di uno o di entrambi i primi due
livelli di progettazione, purché il livello successivo contenga tutti gli
elementi previsti per il livello omesso, salvaguardando la qualità della
progettazione”;
gli elaborati grafici e descrittivi da redigere;
eventuali raccomandazioni per la progettazione, anche in relazione alla
pianificazione urbanistica, territoriale e paesaggistica vigente ed alle
relative prescrizioni o alle direttive delle connesse valutazioni ambientali
strategiche (VAS) ove pertinenti, nonché eventuali codici di pratica
progettuale, procedure tecniche integrative o specifici standard tecnici che
l’amministrazione intenda porre a base della progettazione dell’intervento,
ferme restando le regole e le norme tecniche vigenti da rispettare;
i limiti finanziari da rispettare;
il sistema di realizzazione dell’intervento, ai sensi della Parte I,
Titolo IV, della Parte II, Titolo VI, Capo I e Capo VI, della Parte III e della
Parte IV del Codice;
la procedura di scelta del contraente, ai sensi della Parte II, Titolo
III, Capo II, Titolo IV e Titolo VI Capo I e Capo VI, della Parte III e della
Parte IV del Codice;
il criterio di aggiudicazione;
la tipologia di contratto individuata per la realizzazione
dell’intervento e in particolare se il contratto sarà stipulato a corpo o a
misura, o parte a corpo e parte a misura;
le specifiche tecniche contenute nei criteri ambientali minimi (CAM) di
cui all’art. 34 del decreto legislativo n. 50 del 2016, adottati con decreto del
Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ora Ministero
per la transizione ecologica, per quanto materialmente applicabili;
la individuazione, laddove possibile, di lotti funzionali e/o di lotti
prestazionali;
gli indirizzi generali per la progettazione del monitoraggio ambientale,
geotecnico e strutturale delle opere con adeguati dispositivi e sensoristica,
anche alla luce della accreditata innovazione tecnologica di settore;
le specifiche tecniche per l’utilizzo di materiali, elementi e componenti
ai fini:
a. del perseguimento dei requisiti di durabilità, duttilità, robustezza e
resilienza delle opere;
b. della efficienza energetica e della sicurezza e funzionalità degli
impianti;
Arriviamo dunque alla fase conclusiva e quindi alla redazione del Progetto di
Fattibilità Tecnica ed Economica.
1. relazione generale;
2. relazione tecnica, corredata da rilievi, accertamenti, indagini e
studi specialistici;
3. relazione di verifica preventiva dell’interesse archeologico (art. 28
comma 4 del D.Lgs. 42/2004, per la procedura D. Lgs. 50/2016 art. 25, c. 1) ed
eventuali indagini dirette sul terreno secondo quanto indicato nell’art. 25, c.
8 del D.Lgs. 50/2016;
studio di impatto ambientale,
per le opere soggette a VIA;
relazione di sostenibilità dell’opera;
6. rilievi plano-altimetrici e stato di consistenza delle opere
esistenti e di quelle interferenti nell’immediato intorno dell’opera da
progettare;
7. elaborati grafici delle opere, nelle scale adeguate;
8. computo estimativo dell’opera, in attuazione dell’articolo 32, comma
14 bis, del Codice;
9. quadro economico di progetto;
10. piano economico e finanziario di massima, per le opere da realizzarsi
mediante Partenariato Pubblico-Privato;
11. schema di contratto;
12. capitolato speciale d’appalto;
13. cronoprogramma;
14. piano di sicurezza e di coordinamento, finalizzato alla tutela della
salute e sicurezza dei lavoratori nei cantieri, ai sensi del decreto legislativo
9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in
applicazione dei vigenti accordi sindacali in materia. Stima dei costi della
sicurezza;
15. capitolato informativo (facoltativo);
16. piano preliminare di manutenzione dell’opera e delle sue parti;
17. piano preliminare di monitoraggio geotecnico e strutturale;
18. piano preliminare di monitoraggio ambientale per le opere soggette a
VIA, e comunque ove richiesto;
19. piano particellare delle aree espropriande o da acquisire, ove
pertinente.
La Stazione Appaltante è tenuta ad inviare al Consiglio Superiore dei Lavori
Pubblici, tramite PEC, il progetto di fattibilità tecnica ed economica
accompagnato da:
una lettera
di trasmissione firmata digitalmente, ai sensi del decreto
legislativo 7 marzo 2005 n. 82, dal rappresentante della stazione appaltante,
contenente:
• la denominazione del progetto;
• i riferimenti normativi ai sensi dei quali viene richiesto il parere;
• l’indicazione e le coordinate utili dei referenti della Stazione Appaltante,
del responsabile unico del procedimento e del coordinatore della progettazione
(email/tel);
• la dichiarazione che i documenti presentati sono conformi a quanto indicato
nelle presenti linee guida, anche a seguito delle risultanze della verifica
preventiva di primo livello sul PFTE;
una relazione
di istruttoria a
firma del responsabile unico del procedimento, che contiene almeno i seguenti
elementi:
• codice unico di progetto (CUP);
• aspetti pianificatori e programmatici dell’intervento;
• descrizione del processo progettuale: quadro esigenziale – DOCFAP – DIP;
• descrizione sintetica dell’intervento;
• fonti e forme di finanziamento dell’intervento;
• iter autorizzativo per la realizzazione dell’intervento ed eventuali
autorizzazioni già acquisite o richieste;
• quadro normativo di riferimento;
• cronoprogramma previsto per la realizzazione dell’intervento;
• quadro economico;
• indicazione delle procedure per la scelta del contraente;
• esito della verifica preventiva di primo livello sul PFTE. Ai sensi dall’art.
48, comma 7 del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, ciò costituisce procedura
semplificata “per la verifica della completezza della documentazione prodotta e,
in caso positivo, per la conseguente definizione accelerata del procedimento”.
Allo scopo, si raccomanda l’uso di liste di controllo, riassuntive delle
attività di verifica condotte;
• ogni altra informazione ritenuta utile per una compiuta descrizione
dell’intervento;
evidenza dell’avvenuto
pagamento della quota di cui al D.L. 30/11/2005, n. 245,
convertito con la Legge 27/01/2006, n. 21 (art. 1 comma 5, 0,5
per mille)
certezza dei tempi e costi previsti
Soccorso Istruttorio
Consente di sanare le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda.
Quali sono le irregolarità "non sanabili" a mezzo del Soccorso istruttorio?
Le carenze della documentazione che non consentono l'individuazione del
contenuto o del soggetto responsabile della stessa e le carenze di elementi
dell'offerta tecnica ed economica.
Regolamento sull'accesso ai documenti amministrativi D.P.R., 12/04/2006 n° 184
Aggiornato il 04/01/2022 Emanato il regolamento in materia di accesso ai
documenti amministrativi così come previsto dalla Legge 7 agosto 1990, n. 241 e
successive modificazioni. In particolare, il D.P.R. n. 184/2006 prevede che tale
diritto sia esercitabile nei confronti di tutti i soggetti pubblici e di tutti
quei soggetti privati coinvolti in attività di pubblico interesse, limitatamente
a tale attività.
5 carenze non sanabili con il soccorso istruttorio.
By Aurora Donato
La portata di applicazione del soccorso istruttorio negli appalti pubblici –
istituto volto a favorire la massima partecipazione – è ormai molto ampia. Non
sempre, però, è possibile applicare il soccorso istruttorio. Non addentrandoci,
per ora, nei casi ancora particolarmente controversi in giurisprudenza, vediamo
quali sono alcune carenze non sanabili con il soccorso istruttorio.
Ovviamente non è sanabile il mancato possesso, al momento di presentazione
dell’offerta, dei requisiti di partecipazione (generali e speciali). Il soccorso
istruttorio è volto a privilegiare la sostanza sulla forma, ma se a mancare sono
gli aspetti sostanziali non c’è soccorso che tenga.
Coerentemente, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione
previdenziale dei concorrenti, visto che l’impresa deve essere in regola con
l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla
presentazione dell’offerta e per tutta la durata della procedura e del rapporto
con la stazione appaltante. Non salvano dall’esclusione, dunque, eventuali
adempimenti tardivi delle obbligazioni contributive.
Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della
documentazione che non consentono l’individuazione del soggetto responsabile
della stessa. La sottoscrizione dell’offerta ha la funzione fondamentale di
ricondurre al suo autore l’impegno di effettuare la prestazione oggetto del
contratto verso il corrispettivo richiesto. Non sono considerate sanabili le
ipotesi in cui non vi siano elementi idonei a ricondurre l’offerta all’impresa,
attestando la consapevole assunzione di paternità e responsabilità dell’offerta
stessa. Vi sono invece orientamenti più o meno rigidi con riferimento alle
ipotesi in cui risulterebbe comunque esclusa l’incertezza circa la provenienza
dell’offerta e in particolare nei casi di gare telematiche, in cui la paternità
della stessa può risultare anche da altri elementi.
Non sono sanabili le carenze afferenti all’offerta economica e all’offerta
tecnica, in quanto non è consentito modificare l’offerta dopo che sia decorso il
termine per la presentazione di essa, a tutela del principio di imparzialità e
della segretezza delle offerte. Casi ancora controversi relativi all’offerta
economica sono quelli relativi all’omessa indicazione degli oneri di sicurezza
aziendali e dei costi della manodopera, in particolare nel caso in cui non siano
richiesti espressamente dal bando a pena di esclusione. Sul punto si attendono
le decisioni della Corte di Giustizia UE e dell’Adunanza Plenaria.
È considerata sanabile la mancata allegazione della cauzione provvisoria, ma non
la sua mancata costituzione (ma ci sono pronunce che ritengono non debbano
essere esclusi gli offerenti che abbiano stipulato la cauzione dopo la
presentazione dell’offerta, purché il termine retroagisca).
RISCHIO OPERTATIVO: Costruzione, disponibilità, domanda
Le Garanzie nel Nuovo Codice dei Contratti.
By Luigi Fadda
La legislazione richiede la presentazione di garanzie finanziarie per ottenere
l’autorizzazione a svolgere un’attività economica o partecipare a una procedura
di evidenza pubblica. I beneficiari di queste garanzie sono le pubbliche
amministrazioni, ossia gli enti responsabili dell’autorizzazione o delle gare
d’appalto, che utilizzano queste garanzie per coprirsi dal rischio di
inadempienza da parte degli operatori economici che richiedono l’autorizzazione
o partecipano alla gara.
Il nuovo codice dei contratti prevede, agli art. 53, 106 e 117, con riferimento
alle garanzie provvisorie e definitive, due distinte discipline per le procedure
sotto e sopra la soglia di rilevanza comunitaria.
Ai sensi dell'art. 93, co. 5, del D.Lgs. n. 50/2016 e s.m.i., la garanzia
provvisoria deve avere efficacia per almeno 180 giorni dalla data di
presentazione dell'offerta
Garanzia nelle Procedure sottosoglia
Garanzia provvisoria
la stazione appaltante non richiede la garanzia provvisoria nelle procedure
sottosoglia;
tuttavia, è facoltà richiederla con riferimento alle procedure negoziate senza
bando (art. 50, comma 1, lett c, d, e), per le quali, in considerazione della
tipologia o specificità della singola procedura, ricorrano particolari esigenze
che ne giustifichino la richiesta;
in ogni caso, quando richiesta, la garanzia provvisoria deve essere al
massimo pari all’1% dell’importo previsto nell’avviso o nell’invito per il
contratto oggetto di affidamento;
in ogni caso, quando richiesta, la garanzia provvisoria viene costituita sotto
forma di cauzione oppure di fideiussione
Garanzia definitiva
la garanzia definitiva, di regola richiesta, è pari al 5 per cento dell’importo
contrattuale;
tuttavia, in casi debitamente motivati è facoltà della stazione appaltante non
richiederla
Garanzie nelle Procedure sopra soglia
Garanzia provvisoria
è pari al 2% del valore complessivo della procedura
tuttavia, è fatta salva la facoltà ridurre l’importo sino all’1% oppure
incrementarlo sino al 4% del valore della procedura (tale facoltà va
adeguatamente motivata con riferimento allo scopo di rendere l’importo della
garanzia proporzionato e adeguato alla natura delle prestazioni oggetto
dell’affidamento e al grado di rischio a esso connesso);
per le gare realizzate in forma aggregata da centrali di committenza non si può
invece superare il 2% dell’importo contrattuale
Garanzia definitiva
l’importo della garanzia, da indicare negli atti e nei documenti di gara, è pari
al 10% dell’importo contrattuale; nel caso di aggiudicazione con ribassi
superiori al 10%, la garanzia è aumentata di tanti punti percentuali quanti sono
quelli eccedenti il 10%;
nel caso di aggiudicazione con ribassi superiori al 20%, l‘aumento è di due
punti percentuali ogni punto di ribasso superiore al 20%;
nel caso di procedure realizzate in forma aggregata da centrali di committenza,
l’importo della garanzia è indicato nella misura massima (quindi fino al) del 10
per cento dell’importo contrattuale;
nelle procedure aventi ad oggetto accordi quadro ai sensi dell’art. 59,
l’importo della garanzia per tutti gli operatori economici aggiudicatari può
essere al massimo il 2% dell’importo dell’accordo quadro;
con riferimento ai soli appalti di lavori, l’appaltatore può richiedere prima
della stipulazione del contratto di sostituire la garanzia definitiva con
l’applicazione di una ritenuta a valere sugli stati di avanzamento pari al 10
per cento degli stessi. Tuttavia, la S.A. può opporsi alla richiesta di
sostituzione per motivate ragioni di rischio connesse all’appalto o in ragione
di specifiche situazioni soggettive che riguardino l’esecutore dei lavori
Garanzie appalti pubblici: chi può rilasciarle
L’attività di rilascio di garanzie è soggetta a specifiche disposizioni
legislative, a seconda che si tratti di intermediari bancari e finanziari o
compagnie assicurative. Queste disposizioni regolano i requisiti e l’ambito di
operatività.
Di seguito, si fornisce una panoramica dei requisiti e delle fonti normative
pertinenti:
a) Intermediari bancari e finanziari
Fonti normative:
Decreto Legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo Unico Bancario) Decreto
Ministeriale 2 aprile 2015, n. 53 (Regolamento di attuazione) Circolare n. 288
del 3 aprile 2015 (Disposizioni di vigilanza per gli intermediari finanziari)
Secondo il Testo Unico Bancario (TUB), l’attività di rilascio di garanzie al
pubblico è riservata esclusivamente a:
Banche. Intermediari finanziari e Confidi maggiori iscritti nell’albo ex art.
106 del TUB, noto come “albo unico,” che soddisfano determinati requisiti di
capitale e organizzativi stabiliti dalle disposizioni di vigilanza. Pertanto,
per verificare se una garanzia fornita sotto forma di fideiussione è valida, è
necessario assicurarsi che sia stata emessa da:
Una banca (italiana, comunitaria o extracomunitaria) inclusa negli Albi ed
Elenchi di Vigilanza pubblicati dalla Banca d’Italia. Un intermediario
finanziario (italiano o estero) o un Confidi maggiore, inclusi nell’elenco
consultabile sul sito della Banca d’Italia. Inoltre, è importante verificare che
il soggetto intenzionato a rilasciare la garanzia non sia incluso in alcune
liste di anomalia segnalate alla Banca d’Italia, come soggetti segnalati
per garanzie rilasciate senza autorizzazione o soggetti non legittimati a
operare nel settore bancario e finanziario in Italia.
b) Compagnie di assicurazione:
Fonti normative:
Decreto Legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni
private). Le compagnie di assicurazione possono rilasciare garanzie sotto forma
di polizza fideiussoria. Questa attività è riconducibile al ramo assicurativo
danni n. 15 – Cauzione di cui all’art. 2 del decreto legislativo n. 209/2005
(Codice delle assicurazioni private).
Per verificare la validità di una garanzia fornita sotto forma di polizza
fideiussoria, è necessario assicurarsi che la polizza sia stata emessa da:
Una compagnia assicurativa italiana autorizzata dall’IVASS (Istituto per la
Vigilanza sulle Assicurazioni) all’esercizio del ramo 15 – Cauzione, iscritta
nell’Albo delle imprese di assicurazione tenuto dall’IVASS. Queste compagnie
sono soggette a vigilanza sulla solidità finanziaria da parte dell’IVASS.
Un’impresa di assicurazione con sede in un altro Stato membro dell’UE che sia
stata abilitata ad operare in Italia nel ramo 15 – Cauzione, in regime di
libertà di stabilimento (ossia con una rappresentanza stabile in Italia) o in
regime di libera prestazione di servizi (LPS – senza una sede stabile).
L’abilitazione può essere verificata negli appositi elenchi tenuti dall’IVASS e
consultabili sul sito. La vigilanza sulla solidità finanziaria di queste imprese
spetta all’Autorità di supervisione dello Stato di origine.
La verifica delle garanzie nei contratti pubblici
L’esperienza ha tante volte evidenziato alcune criticità riguardo alle garanzie
fideiussorie, con conseguenti danni a carico delle pubbliche amministrazioni
beneficiarie. Le garanzie fideiussorie impongono alle imprese che le emettono
impegni finanziari spesso significativi e di lunga durata, oltre a comportare
rischi complessi. Le banche, le società finanziarie e le compagnie assicurative
italiane sono quindi molto prudenti e selettive nella concessione di tali
garanzie. Inoltre, in alcuni casi, le garanzie sono state emesse da soggetti non
autorizzati, in altri casi si sono rivelate false, mentre in altri ancora è
stato difficile, se non impossibile, richiederne l’esecuzione a causa
dell’insolvenza del garante o della sua pretestuosa opposizione basata su
clausole poco chiare.
Per tali ragioni, è importante assicurarsi che la garanzia non sia stata
rilasciata da un soggetto incluso nell’elenco delle imprese non
autorizzate/abilitate consultabile sul sito dell’IVASS.
Da notare che la consultazione degli elenchi tenuti dalla Banca d’Italia e
dall’IVASS potrebbe non essere sufficiente, e si consiglia pertanto di seguire
attentamente i suggerimenti che seguono.
Solvibilità
È di fondamentale importanza verificare la situazione di solvibilità dei
soggetti che rilasciano garanzie, anche se sono legittimati e soggetti a un
regime di vigilanza prudenziale. Per ottenere tali informazioni, si consiglia di
effettuare le seguenti verifiche:
Per le banche e gli intermediari finanziari:
Consultare gli indicatori di adeguatezza patrimoniale pubblicati sul sito
internet degli intermediari stessi. Di solito, questi indicatori sono reperibili
in una sezione denominata “informativa di terzo pilastro.” Per le compagnie di
assicurazione:
Verificare la Relazione sulla solvibilità e condizione finanziaria (Solvency and
Financial Condition Report o SFCR) che le compagnie di assicurazione, sia
italiane che con sede in altri Stati UE, sono tenute a pubblicare annualmente
sul loro sito internet. In particolare, si suggerisce di prestare attenzione
all’indice di solvibilità della compagnia e alla raccolta premi.
Verifica Ivass
Negli ultimi anni, diverse compagnie di assicurazione estere che operavano in
Italia nel settore delle cauzioni sono entrate in fallimento o sono state poste
in liquidazione. Altre sono state soggette a misure di restrizione dall’Autorità
di vigilanza dello Stato membro di origine. Tutte queste misure sono comunicate
dall’IVASS tramite comunicati stampa pubblicati sul suo sito istituzionale.
Verifica Banca d’Italia
Analogamente, sul sito istituzionale della Banca d’Italia, è possibile trovare
informazioni sugli intermediari che sono stati segnalati per il rilascio di
garanzie in assenza di abilitazioni e sugli intermediari che sono stati
cancellati d’ufficio. Queste informazioni possono essere utili per valutare la
legittimità e la solidità finanziaria del garante prima di accettare una
garanzia da parte sua.
Tali verifiche sono cruciali per proteggere le pubbliche amministrazioni e i
privati da eventuali problemi di inadempienza da parte del garante e per
garantire che le garanzie siano valide e affidabili.
Verifica delle condizioni contrattuali
È di fondamentale importanza prestare particolare attenzione alle condizioni
contrattuali delle polizze di garanzia, poiché in alcuni casi la cosiddetta
“garanzia a prima richiesta,” che implica l’obbligo del garante di effettuare il
pagamento su richiesta del beneficiario senza la possibilità di opporre
eccezioni fondate sul rapporto tra garante e garantito, potrebbe essere
vanificata dalla presenza simultanea di clausole che limitano l’intervento del
garante. Questa circostanza renderebbe difficile l’esecuzione della garanzia,
attenuando la sua natura “a prima richiesta.”
È importante notare che, nonostante il garante sia soggetto a vigilanza
prudenziale, ciò non esclude la possibilità che il garante possa legittimamente
opporsi all’esecuzione della garanzia per motivi contrattuali. In caso di
controversia tra il garante e il beneficiario, l’unica soluzione prevista
dall’ordinamento è il ricorso al giudice ordinario, previa esplorazione di
eventuali procedure di mediazione.
L’escussione della garanzia provvisoria
Il Codice ha previsto che la fase procedimentale e la fase esecutiva siano
corredate da un sistema di “garanzie provvisorie” e “garanzie definitive”.
La disciplina contenuta nel Codice dei contratti pubblici è basata sulla
distinzione tra:
la fase procedimentale, finalizzata alla selezione del migliore offerente
mediante l’adozione, all’esito del procedimento, del provvedimento di
aggiudicazione;
la fase provvedimentale, che va
dall’aggiudicazione alla stipulazione del contratto;
la fase costitutiva di stipulazione del contratto tra pubblica amministrazione e
aggiudicatario;
la fase esecutiva di adempimento delle obbligazioni contrattuali.
La “proposta di aggiudicazione” si inserisce nella fase procedimentale.
Ripercorrendo quanto statuito in via di principio dall’Adunanza Plenaria con
sentenza 7/2022:
la “garanzia provvisoria” a corredo dell’offerta copre la mancata sottoscrizione
del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile
all’affidatario
la garanzia provvisoria si riferisce al solo periodo compreso tra
l’aggiudicazione ed il contratto e non anche al periodo compreso tra la
“proposta di aggiudicazione” e l’aggiudicazione
nel caso di “mancata aggiudicazione” a seguito di una “proposta di
aggiudicazione”, i motivi di tale determinazione possono dipendere, oltre che da
ragioni relative all’offerta, dalla verifica negativa preventiva del possesso
dei requisiti di partecipazione del concorrente individuato
In queste ipotesi, l’amministrazione non è costretta a procedere
all’aggiudicazione e poi ad esercitare il potere di annullamento in
autotutela, potendosi limitare a non adottare l’atto di aggiudicazione e ad
individuare il secondo classificato nei cui confronti indirizzare la nuova
“proposta di aggiudicazione” in tale contesto i pregiudizi economici, se
esistenti, hanno portata differente rispetto a quelli che si possono verificare
nella fase provvedimentale, con possibilità per l’amministrazione, ricorrendone
i presupposti, di fare valere l’eventuale responsabilità precontrattuale del
concorrente ai sensi degli artt. 1337-1338 cod. civ.
Nell'ambito della normativa sul trattamento dei dati personali, cosa si intende
per diffusione dei dati? Il dare conoscenza dei dati personali a soggetti
indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o
consultazione
Ai sensi del Regolamento UE 2016/679 (GDPR), per "trattamento" si intende:
qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l'ausilio di
processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali
l GDPR - Regolamento generale sulla protezione dei dati (UE 2016/679) definisce
"profilazione" qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali
consistente nell'utilizzo di tali dati per valutare determinati aspetti
personali relativi a una persona fisica
By Winple Italia
Dal 1996 a oggi le normative sul trattamento dei dati personali hanno avuto
un’evoluzione continua fino ad arrivare ai giorni nostri, con la pubblicazione
del GDPR –
General Data Protection Regulation – ossia il
Regolamento dell’Unione Europea sulla protezione dei Dati che ha
sostituito l’attuale Direttiva
Privacy 95/46/CE.
Dal 25 Maggio 2018 tutte le aziende pubbliche e private che possiedono
informazioni personali rilasciate dai cittadini europei sono tenute ad adeguarsi
ai principi espressi nel
GDPR, relativi al trattamento dei dati personali (Art. 5.1).
Il sistema di trattamento dei dati deve essere concepito sia a livello
strutturale sia a livello concettuale alla base (by default) del progetto che si
vuole mettere online.
Dovrà quindi essere strutturato per prevenire e non per correggere eventuali
falle nella
riservatezza e protezione dei dati, potendo adottare liberamente le misure
tecnologiche per farlo.
La responsabilità del dato ricade su chi lo richiede che
pertanto dovrà progettare il sistema di trattamento in modo da garantire
la conservazione dei dati, evitandone perdite, furti e altro.
Il trattamento è lecito solo
alle condizioni previste espressamente dall’Art. 6 del Regolamento ovvero quando
l’interessato ha espresso il proprio consenso (un consenso
informato) al trattamento dei propri dati per una o più specifiche finalità, o
quando il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui
l’interessato è parte, o ancora quando il trattamento è necessario per adempiere
un obbligo legale a cui è soggetto il titolare del trattamento.
Infine, il trattamento è lecito quando lo stesso è necessario per la
salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona
fisica ovvero quando è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse
pubblico o per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del
trattamento.
In merito all’ultima situazione, è doveroso fare un bilanciamento tra gli
interessi dei titolari del trattamento e gli interessi, i diritti e le libertà
fondamentali degli interessati e può essere considerato legittimo interesse
trattare dati personali
per finalità di marketing diretto.
Oltre ad essere un principio fondamentale del trattamento, quello della
trasparenza è anche un diritto dell’interessato.
Devono essere trasparenti le modalità con cui sono raccolti e utilizzati i dati
personali e devono essere facilmente accessibili e comprensibili le informazioni
e comunicazioni relative al trattamento (identità del titolare del trattamento,
finalità del trattamento, diritti degli interessati, etc.,).
Devono essere raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime e
successivamente devono essere trattati in una modalità che sia compatibile con
tali finalità. Il trattamento dei dati per finalità diverse da quelle per le
quali sono stati inizialmente raccolti dovrebbe essere consentito solo se
compatibile con tali iniziali finalità.
È poi possibile l’ulteriore trattamento ai fini di archiviazione nel pubblico
interesse o di ricerca scientifica o storica o a fini statistici.
Devono essere sempre adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario per il
perseguimento delle finalità per cui sono raccolti e trattati.
Devono essere sempre esatti e aggiornati. Eventuali
inesattezze devono essere tempestivamente rettificate ovvero i
dati inesatti devono essere cancellati.
I dati devono essere conservati per il tempo necessario al raggiungimento delle
finalità per le quali sono trattati.
I dati devono infatti essere sempre trattati in maniera da garantire una
sicurezza adeguata, il che prevede l’adozione di misure di sicurezza tecniche ed
organizzative adeguate per proteggere i dati stessi da trattamenti non
autorizzati o illeciti, dalla loro perdita o distruzione o dal danno
accidentale.
Tenuto
conto della natura, contesto e finalità del trattamento nonché dei vari rischi
che, a seconda del trattamento in questione, possono gravare su diritti e
libertà delle persone fisiche, il
titolare del trattamento deve garantire ed essere in grado di dimostrare che il
trattamento è effettuato conformemente al Regolamento stesso.
Ai sensi dell'art. 36 del Regolamento UE 679/16 (GDPR), il titolare del
trattamento, prima di procedere al trattamento, chi consulta preventivamente?
L'autorità di controllo, qualora la valutazione d'impatto indichi che il
trattamento presenterebbe un rischio elevato in assenza di misure adottate dal
titolare del trattamento per attenuare il rischio
Interessato, Titolare del trattamento e Responsabile del trattamento
e
Responsabile della protezione dei dati,
l'incaricato del trattamento dei dati
(persona fisica, la persona giuridica, l'ente o l'associazione autorizzata a
compiere operazioni di trattamento
Che differenza c'è tra titolare del trattamento è responsabile del trattamento?
Titolare del trattamento e responsabile del trattamento
La società fornisce il sistema informatico e conserva i dati dei dipendenti.
Il dipendente è l’interessato,
il
birrificio è il titolare del trattamento
e la società addetta all'elaborazione delle buste paga è il responsabile del
trattamento.
Chi è il responsabile della protezione dei dati (DPO)?
L’introduzione del Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) ha
portato all’aumento della domanda di responsabili della protezione dei dati
(DPO). I DPO sono responsabili del monitoraggio della conformità
dell’organizzazione per la quale lavorano, danno consigli e linee guida relativi
agli obblighi di protezione dei dati e svolgono il ruolo di punto di contatto
tra gli interessati e l’autorità di controllo competente.
Sebbene tutte le organizzazioni italiane che trattano dati personali di persone
residenti nell’UE debbano rispettare il GDPR, non tutte le organizzazioni sono
tenute a nominare un DPO. Le singole organizzazioni valutano se hanno bisogno di
nominarne uno e, in tal caso, a chi dovrebbero affidare tale responsabilità.
Devo nominare un DPO?
La nomina del DPO è obbligatoria solo in tre situazioni:
Quando l’organizzazione è un ente o organismo pubblico;
Quando le attività principali dell’organizzazione consistono in operazioni di
trattamento dei dati che richiedono un monitoraggio regolare e sistematico degli
interessati su larga scala; e quando le attività principali dell’organizzazione
consistono in trattamenti su larga scala di categorie speciali di dati e/o dati
relativi a condanne penali e reati.
Anche laddove il GDPR non richieda specificatamente la nomina di un responsabile
della protezione dei dati, la sua nomina è caldamente consigliata dal Gruppo di
Lavoro Articolo 29 (WP29) come una buona prassi per dimostrare la conformità al
Regolamento.
L'art. 35 reg. Ue 2016/679, nell'ambito del trattamento dei dati, dispone che le
Pubbliche Amministrazioni, prima di procedere al trattamento hanno l'obbligo di
valutare l'impatto sulla tutela dei dati personali. La Valutazione d'Impatto
deve contenere le misure previste per affrontare i rischi, includendo le
garanzie, le misure di sicurezza e i meccanismi per garantire la protezione dei
dati personali e dimostrare la conformità al presente regolamento, tenuto conto
dei diritti e degli interessi legittimi degli interessati e delle altre persone
in questione.
Conformemente all'art. 14 del Regolamento UE 2016/679 (GDPR), il titolare del
trattamento deve sempre informare l'interessato sul periodo di conservazione dei
dati anche nel caso che essi non siano stati forniti dall'interessato medesimo?
Sì, ma se ciò non è possibile può fornire i criteri utilizzati per determinare
tale periodo
Conformemente all'art. 21 del Regolamento UE 2016/679 (GDPR), ove l'interessato
si opponga al trattamento dei dati personali che lo riguardano, il titolare del
trattamento medesimo dovrà sempre astenersi dal trattare ulteriormente i dati?
No, ove dimostri l'esistenza di motivi legittimi cogenti per procedere al
trattamento, prevalenti sugli interessi, sui diritti e sulle libertà
dell'interessato
L 17-08-1942 N. 1150-Legge urbanistica.
41-quinquies. Nei Comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma
di fabbricazione, la edificazione a scopo residenziale è soggetta alle seguenti
limitazioni:
a) il volume complessivo costruito di ciascun fabbricato non può superare la
misura di un metro cubo e mezzo per ogni metro quadrato di area edificabile, se
trattasi di edifici ricadenti in centri abitati, i cui perimetri sono definiti
entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge con
deliberazione del Consiglio comunale sentiti il Provveditorato regionale alle
opere pubbliche e la Soprintendenza competente, e di un decimo di metro cubo per
ogni metro quadrato di area edificabile, se la costruzione è ubicata nelle altre
parti del territorio;
b) gli edifici non possono comprendere più di tre piani;
c) l'altezza di ogni edificio non può essere superiore alla larghezza degli
spazi pubblici o privati su cui esso prospetta e la distanza dagli edifici
vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da
costruire.
Per le costruzioni di cui alla legge 30 dicembre 1960, n. 1676, il Ministro per
i lavori pubblici può disporre con proprio decreto, sentito il Comitato di
attuazione del piano di costruzione di abitazione per i lavoratori agricoli
dipendenti, limitazioni diverse da quelle previste dal precedente comma.
Le superfici coperte degli edifici e dei complessi produttivi non possono
superare un terzo dell'area di proprietà.
Le limitazioni previste ai commi precedenti si applicano nei Comuni che hanno
adottato il piano regolatore generale o il programma di fabbricazione fino ad un
anno dalla data di presentazione al Ministero dei lavori pubblici. Qualora il
piano regolatore generale o il programma di fabbricazione sia restituito al
Comune, le limitazioni medesime si applicano fino ad un anno dalla data di nuova
trasmissione al Ministero dei lavori pubblici.
Qualora l'agglomerato urbano rivesta carattere storico, artistico o di
particolare pregio ambientale sono consentite esclusivamente opere di
consolidamento o restauro, senza alterazioni di volumi. Le aree libere sono
inedificabili fino all'approvazione del piano regolatore generale.
Nei Comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione,
nelle zone in cui siano consentite costruzioni per volumi superiori a tre metri
cubi per metro quadrato di area edificabile, ovvero siano consentite altezze
superiori a metri 25, non possono essere realizzati edifici con volumi ed
altezze superiori a detti limiti, se non previa approvazione di apposito piano
particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi alla intera zona e
contenenti la disposizione planivolumetrica degli edifici previsti nella zona
stessa.
Le disposizioni di cui ai commi primo, secondo, terzo, quarto e sesto hanno
applicazione dopo un anno dalla entrata in vigore della presente legge. Le
licenze edilizie rilasciate nel medesimo periodo non sono prorogabili e le
costruzioni devono essere ultimate entro due anni dalla data di inizio dei
lavori.
In tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o
della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati,
nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e
produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi.
I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per zone
territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i lavori pubblici di
concerto con quello per l'interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori
pubblici. In sede di prima applicazione della presente legge, tale decreto viene
emanato entro sei mesi dall'entrata in vigore della medesima.
41-septies. Fuori del perimetro dei centri abitati debbono osservarsi
nell'edificazione distanze minime a protezione del nastro stradale, misurate a
partire dal ciglio della strada.
Dette distanze vengono stabilite con decreto del Ministro per i lavori pubblici
di concerto con i Ministri per i trasporti e per l'interno, entro sei mesi
dall'entrata in vigore della presente legge, il rapporto alla natura delle
strade ed alla classificazione delle strade stesse, escluse le strade vicinali
e di bonifica.
Fino alla emanazione del decreto di cui al precedente comma, si applicano a
tutte le autostrade le disposizioni di cui all'art. 9 della legge 24 luglio
1961, n. 729. Lungo le rimanenti strade, fuori del perimetro dei centri abitati
è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi
specie a distanza inferiore alla metà della larghezza stradale misurata dal
ciglio della strada con un minimo di metri cinque.
D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380,
Testo unico dell'edilizia.
Il testo unico dell'edilizia è un testo unico della Repubblica Italiana, emanato
con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che detta i principi fondamentali e generali e
le disposizioni per la disciplina dell'attività edilizia.
È stato aggiornato nel corso del tempo, come ad esempio dopo l'emanazione del
decreto-legge 11 settembre 2014, n. 133 - convertito in legge 1º novembre 2014,
n. 164.
Si tratta di una legge-cornice che riguarda non l'intera materia
dell'urbanistica ma la sua sub-materia dell'edilizia attinente al controllo
preventivo dell'attività edilizia, la vigilanza e le sanzioni contro gli abusi.
Tra le disposizioni contenute vi è la creazione dello sportello unico per
l'edilizia e l'abolizione di alcuni atti amministrativi, quali l'autorizzazione
edilizia e la concessione edilizia, sostituita col "permesso di costruire".
Altri elementi sono l'ampliamento dell'applicazione della denuncia di inizio
attività in edilizia. Inoltre, vi è il procedimento amministrativo di agibilità
che viene ad assorbire anche quello per ottenere l'abitabilità. Viene anche
espressa una definizione di nuova costruzione, e stabilito che in caso un comune
italiano sia sprovvisto di regolamentazione edilizia e nel rispetto dei limiti
di cui al d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, fuori dal perimetro dei centri
abitati, siano comunque possibili interventi di nuova edificazione nel rispetto
del limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro;
in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta ad ogni
modo non può comunque superare un decimo dell'area di proprietà.
Ai sensi dell'art. 12 del DPR 380/01 e ss.mm.ii., il permesso di costruire è
rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei
regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente
Interventi edilizi: CILA, SCIA e Permesso di Costruire.
By Immobilgreen
Gli interventi edilizi sugli immobili sono sottoposti a specifiche normative e
richiedono l’intervento di uno o più professionisti incaricati dal committente
per ottenere l‘autorizzazione alla realizzazione delle opere, al fine di evitare
abusi e denunce da parte di soggetti pubblici e privati, con conseguente rischio
di sanzioni amministrative o penali, nei casi più gravi.
1.1 La manutenzione ordinaria
1.2 L’autocertificazione (la vecchia DIA)
1.3 CILA (Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata)
1.4 SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività)
1.5 Permesso di Costruire
Ricapitolando
Nel quadro generale, la normativa di riferimento resta il D.P.R. 6 giugno 2001
n.380 – Testo Unico dell’edilizia. Esso fornisce all’art. 3 alcune precise
definizioni degli interventi edilizi, così classificati:
Interventi di manutenzione ordinaria.
Interventi di manutenzione straordinaria.
Interventi di restauro e risanamento conservativo.
Interventi di ristrutturazione edilizia.
Interventi di nuova costruzione.
Interventi di ristrutturazione urbanistica.
Alcuni interventi di modesta entità possono essere realizzati senza la
presentazione formale di una pratica; si tratta delle cosiddette “opere in
edilizia libera”, per le quali il T.U. non richiede un titolo abilitativo.
In particolare, si fa riferimento alle opere di manutenzione ordinaria, tra le
quali rientrano gli interventi di riparazione e rinnovamento dei fabbricati come
la sostituzione di finiture (pavimenti e rivestimenti, porte e tinteggiature) o
relative agli impianti elettrico ed idrotermosanitario (ad esempio la
sostituzione di una tubazione o l’installazione di piccoli impianti).
Per tutti gli altri interventi, il Testo Unico definisce inoltre le pratiche
edilizie a cui è possibile ricorrere:
CILA. SCIA. Permesso di Costruire.
In passato quasi tutte le attività erano soggette ad un provvedimento espresso
con una concessione edilizia da parte degli uffici tecnici comunali; negli
ultimi anni, la maggior parte degli interventi (fatta eccezione per le nuove
costruzioni) può essere realizzata mediante semplice autocertificazione.
L’introduzione della DIA (Denuncia di Inizio Attività) ha sancito questo nuovo
percorso legislativo, ampliatosi ulteriormente con le varie CILA e SCIA,
alternative al Permesso di Costruire.
Autocertificazione, tuttavia, non significa completa semplificazione:
trattandosi di edilizia, la materia è assai complessa.
Resta infatti confermata la produzione di una serie di elaborati grafici e di
relazioni tecniche, oltre a dichiarazioni ed asseverazioni da parte del
proprio professionista (architetto, geometra o ingegnere) e di tecnici
incaricati (geologo, termotecnico, acustico…) che dovranno accompagnare le varie
pratiche.
Sono soggetti a CILA gli interventi compresi nell’art. 6-bis del Testo Unico. In
particolare si tratta delle opere di manutenzione straordinaria cosiddetta
“leggera“, che non coinvolgono le strutture del fabbricato, come lo spostamento
di tramezze e porte interne, rifacimenti impiantistici, realizzazione di opere
pertinenziali di un’abitazione, come ad esempio la piscina.
Sono soggetti a SCIA gli interventi compresi nell’art. 22 del Testo Unico. Si
tratta di lavori di entità maggiore rispetto a quelli sottoposti a CILA quali
le manutenzioni straordinarie strutturali, gli interventi di restauro e
risanamento strutturale, le ristrutturazioni non comprese nel Permesso di
Costruire e le varianti non essenziali a progetti approvati.
Permesso di Costruire
Il Permesso di Costruire, che sostituisce la vecchia Concessione Edilizia
(termine oramai in disuso), occorre per tutti gli interventi edilizi di
rilevante entità che devono essere approvati, come disposto dall’art. 10 del
Testo Unico in materia edilizia.
Esso è previsto per le nuove costruzioni, le ristrutturazioni urbanistiche,
le ristrutturazioni edilizie che modificano in tutto o in parte il fabbricato
esistente con incrementi o diminuzione di volume.
Anche gli interventi in centro storico con modifica alla destinazione
d’uso richiedono il Permesso di Costruire.
I piani e i regolamenti edilizi comunali possono sempre imporre l’obbligo di
Permesso di Costruire anche per talune categorie di interventi “minori”, come
ristrutturazioni edilizie e riqualificazioni energetiche, demolizioni e
ricostruzioni con mantenimento di volume e sagoma.
Nel caso del Permesso di Costruire, il Comune rilascia un documento formale che
permette di iniziare i lavori, a seguito di un parere favorevole, ma può
comunque sospendere o bocciare la pratica a fronte di difformità o contrasto con
gli strumenti urbanistici vigenti.
E’ evidente che tutte queste pratiche sottendono un’assunzione di
responsabilità da parte del proprio progettista, che permette di effettuare i
lavori senza l’assenso esplicito dell’ufficio tecnico comunale.
Vanno comunque presentate 30 giorni prima dell’inizio dei lavori, in quanto
l’Amministrazione in questo lasso di tempo esamina la documentazione e può
comunque fermare la pratica.
Decorso tale termine, subentra il silenzio-assenso e il cantiere può essere
aperto.
Ricapitolando
Per ogni categoria di ogni intervento edilizio è prevista una precisa pratica
edilizia, corrispondente ad un modulo specifico, facilmente scaricabile tramite
il sito web del Comune di appartenenza.
CILA e SCIA sono delle semplici comunicazioni al proprio Comune dei lavori che
si intende effettuare, che comprendono sempre una dichiarazione asseverata del
progettista, attestante la conformità edilizia ed urbanistica dei lavori da
farsi agli strumenti vigenti (regolamenti comunali e normative nazionali).
Il Permesso di Costruire è una richiesta di autorizzazione vera e propria, che
riguarda tutti gli interventi di nuova costruzione, per gli ampliamenti di
volume e le ristrutturazioni radicali di edifici esistenti, con modifica
sostanziale del fabbricato per consistenza ed architettura.
– L’evoluzione normativa By camera.it
La normativa antisismica prima del 2003
Al fine di cogliere il carattere innovativo della nuova normativa sismica
introdotta dall’ordinanza n. 3274 del 2003 e dal successivo DM 14 settembre 2005
è opportuno effettuare una breve panoramica sull’evoluzione temporale della
normativa sismica.
L’individuazione delle zone sismiche, in Italia, è avvenuta agli inizi del ‘900
attraverso lo strumento del regio decreto, emanato a seguito dei terremoti
distruttivi di Reggio Calabria e Messina del 28 dicembre 1908. Dal 1927 le
località colpite sono state distinte in due categorie, in relazione al loro
grado di sismicità ed alla loro costituzione geologica. Pertanto, la mappa
sismica in Italia non era altro che la mappa dei territori colpiti dai forti
terremoti avvenuti dopo il 1908, mentre tutti i territori colpiti prima di tale
data - la maggior parte delle zone sismiche d’Italia - non erano classificati
come sismici e, conseguentemente, non vi era alcun obbligo di costruire nel
rispetto della normativa antisismica. La lista originariamente consisteva,
quindi, nei comuni della Sicilia e della Calabria gravemente danneggiati dal
terremoto del 1908, che veniva modificata dopo ogni evento sismico aggiungendovi
semplicemente i nuovi comuni danneggiati.
La legislazione antisismica vigente è essenzialmente basata sull’apparato
normativo costituito dalla legge 2 febbraio 1974, n. 64, recante Provvedimenti
per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche, che ha
integralmente sostituito la legge 25 novembre 1962, n. 1684, nonché della legge
5 novembre del 1971, n. 1086, recante Norme per la disciplina delle opere di
conglomerato cementizio armato, normale e precompresso e a struttura metallica.
Infatti, solamente nel 1974, attraverso la legge n. 64, è stata approvata
una nuova normativa sismica nazionale che ha stabilito il quadro di riferimento
per le modalità di classificazione sismica del territorio nazionale, oltre che
di redazione delle norme tecniche. Tale legge ha delegato il Ministro dei lavori
pubblici:
§ all’emanazione di norme tecniche per le costruzioni sia pubbliche che
private, da effettuarsi con decreto ministeriale, di concerto con il Ministro
per l'interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici, e con la
collaborazione del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR);
§ all’aggiornamento della classificazione sismica attraverso appositi
decreti ministeriali.
Si ricorda che il carattere distintivo di tale legge è stata la possibilità di
aggiornare le norme sismiche ogniqualvolta fosse giustificato dall’evolversi
delle conoscenze dei fenomeni sismici, mentre, per la classificazione sismica si
è operato, come per il passato, attraverso l’inserimento di nuovi comuni colpiti
dai nuovi terremoti.
Successivamente, gli studi di carattere sismologico effettuati all’indomani del
terremoto del Friuli Venezia Giulia del 1976 e di quello in Irpinia del 1980,
svolti all’interno del Progetto finalizzato “Geodinamica” del CNR, hanno portato
ad un notevole aumento delle conoscenze sulla sismicità del territorio nazionale
ed hanno consentito la formulazione di una proposta di classificazione sismica
presentata dal CNR al Governo, che è stata tradotta in una serie di decreti del
Ministero dei lavori pubblici approvati tra il 1980 ed il 1984, che hanno
costituito, pertanto, la classificazione sismica italiana fino all’emanazione
dell’ ordinanza n. 3274 del 20 marzo 2003.
Si ricorda che la proposta del CNR, per la prima volta in Italia, è stata basata
su indagini di tipo probabilistico della sismicità italiana e che la
classificazione sismica ha preso in considerazione tre categorie sismiche, di
cui la terza (la meno pericolosa, introdotta con il DM 3 giugno 1981, n. 515),
ha compreso solo alcuni comuni della Campania, Puglia e Basilicata, interessati
dal terremoto di Irpinia e Basilicata del 1980, ma che non è stata estesa alle
altre zone d’Italia con pari livello di pericolosità.
Relativamente, invece, alle norme tecniche, già con il DM del 3 marzo 1975, sono
state emanate le prime disposizioni successivamente integrate da una serie di
successivi decreti, tra cui si ricordano il DM 12 febbraio 1982, a sua volta
sostituito dal DM 16 gennaio 1996, come modificato dal DM 4 marzo 1996, che ha
provveduto ad integrare il DM del 3 marzo 1975 con alcune indicazioni contenute
in alcune circolari ministeriali.
Su tale impianto normativo si è inserito il nuovo processo di distribuzione
delle competenze fra Stato, regioni ed enti locali, attuato con le cd “leggi
Bassanini” del 15 marzo 1997, n. 59. Conseguentemente, la competenza per
l’individuazione delle zone sismiche, la formazione e l'aggiornamento degli
elenchi delle medesime zone che, fino al 1998 era attribuita al Ministro dei
lavori pubblici, è stata trasferita, con il decreto legislativo n. 112 del
1998 - art. 94, comma 2, lett. a) - alle Regioni, mentre spetta
allo Stato quella di definire i relativi criteri generali per l’individuazione
delle zone sismiche e le norme tecniche per le costruzioni nelle medesime zone -
art. 93, comma 1, lett. g). Occorre sottolineare, inoltre, che il comma 4 del
medesimo art. 93 prevede che tali funzioni siano esercitate sentita la
Conferenza unificata Stato-regioni-città e autonomie locali.
Si ricorda, ancora, che tale residua competenza statale è rimasta incardinata
nel Ministero dei lavori pubblici fino all’approvazione del decreto legislativo
n. 300 del 1999, che l’ha assegnata alla neo istituita Agenzia di protezione
civile e, nuovamente, riattribuita al Dipartimento della protezione civile con
il decreto legge n. 343 del 2001, convertito con modificazioni dalla legge n.
401 del 2001 (per un approfondimento si veda la scheda La Protezione civile –
Recenti riforme) che ha soppresso l’Agenzia, peraltro mai entrata nella piena
operatività.
Inoltre, in conseguenza del riordino normativo della materia edilizia, le
disposizioni antisismiche previste dalla legge n. 64 del 1974 sono confluite,
con alcune modifiche, nel DPR 6 giugno 2001, n. 380, Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, il cui Capo
IV reca “Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le
zone sismiche”, con disposizioni specifiche relative alle norme per le
costruzioni in zone sismiche, alla relativa vigilanza, nonché alle modalità
di repressione delle violazioni.
Il DPR n. 380, come modificato ed integrato dal decreto legislativo 27 dicembre
2002, n. 301, ha stabilito che tutte le costruzioni di rilievo per la pubblica
incolumità, se realizzate in zone sismiche, devono essere conformi, oltre che
alle disposizioni tecniche applicabili ad ogni tipo di costruzione edificata su
tutto il territorio nazionale, anche a specifiche norme tecniche, la cui
emanazione è affidata al Ministro dei lavori pubblici, di concerto con il
Ministro dell’interno e sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il
CNR, nonché la Conferenza unificata (art. 83). Negli articoli successivi sono
state poi dettati i criteri generali cui dovranno uniformarsi le norme tecniche
per le costruzioni in zone sismiche.
La nuova normativa sismica
Immediatamente dopo il terremoto del 31 ottobre 2002 che ha colpito i territori
al confine fra il Molise e la Puglia, la Protezione civile ha adottato
l’ordinanza 20 marzo 2003, n. 3274, al fine di fornire una risposta immediata
alla necessità di aggiornamento della classificazione sismica e delle norme
antisismiche.
Nelle premesse all’ordinanza, si specifica che essa rappresenta una prima e
transitoria disciplina della materia, in attesa dell’emanazione delle specifiche
norme tecniche previste, dapprima, dall’art. 83 del DPR n. 380 del 2001, e,
successivamente, anche dall’art. 5 del decreto-legge 28 maggio 2004, n. 136.
Alla luce dell’ordinanza n. 3274 e, a differenza di quanto previsto dalla
normativa precedente, tutto il territorio nazionale è stato classificato come
sismico e suddiviso in 4 zone, caratterizzate da pericolosità sismica
decrescente; tali zone sono individuate da 4 classi di accelerazione massima del
suolo con probabilità di accadimento del 10% in 50 anni. Le prime tre zone della
nuova classificazione corrispondono, dal punto di vista degli adempimenti
previsti dalla legge n. 64 del 1974, alle zone di sismicità alta, media e bassa,
mentre per la zona 4, di nuova introduzione, viene data facoltà alle regioni di
imporre l’obbligo della progettazione antisismica. In ogni zona è, infatti,
prevista l’applicazione della progettazione sismica con livelli differenziati di
severità, salvo, come anzidetto, nella zona 4. Il collegamento tra la
classificazione e le norme tecniche risulta, pertanto, molto stretto.
Oltre ai criteri per l'individuazione delle zone sismiche e per la formazione e
l’aggiornamento degli elenchi delle medesime zone, con l’ordinanza sono state,
infatti, approvate le seguenti norme tecniche (contenute negli allegati 2, 3 e 4
dell’ordinanza, di cui fanno parte integrante) che riguardano, per la prima
volta, la quasi totalità di tipologie di costruzioni: edifici, ponti ed opere di
fondazione e di sostegno dei terreni.
L’art. 2, comma 2, dell’ordinanza n. 3274 prevede l’applicazione delle norme
tecniche previgenti per le seguenti opere:
§ opere i cui lavori siano già iniziati;
§ opere pubbliche già appaltate o i cui progetti siano stati già
approvati alla data della presente ordinanza;
§ opere di completamento degli interventi di ricostruzione in corso.
Viene altresì previsto, in tutti i restanti casi, la possibilità di continuare
ad applicare le norme tecniche previgenti per non oltre 18 mesi, termine più
volte prorogato da una serie di successive ordinanze, di cui l’ultima – la n.
3467 del 2005 – ne ha differito l’applicabilità al 23 ottobre 2005, data di
entrata in vigore della nuova disciplina antisismica introdotta dal DM 14
settembre 2005.
Il successivo comma 3 ha previsto l’obbligo di verifica entro 5 anni – da
effettuarsi a cura dei rispettivi proprietari, ai sensi delle norme tecniche
contenute negli allegati all’ordinanza – sia degli edifici di interesse
strategico e delle opere infrastrutturali la cui funzionalità durante gli eventi
sismici assume rilievo fondamentale per le finalità di protezione civile, sia
degli edifici e delle opere infrastrutturali che possono assumere rilevanza in
relazione alle conseguenze di un eventuale collasso. Viene altresì previsto che
tali verifiche riguardino in via prioritaria edifici ed opere ubicate nelle zone
di sismicità alta e media.
Va sottolineata, inoltre, la forte sintonia della normativa contenuta
nell’ordinanza con il sistema di normative già definito a livello europeo,
Eurocodice 8 (EC8), in corso di adozione da parte dell’Unione europea. Si
ricorda che la differenzia sostanziale tra le norme di nuova generazione, quali
l’EC8, e quelle tradizionali (oramai non più in vigore in nessun Paese, in
particolare europeo) consiste nell’abbandono del carattere convenzionale e
puramente prescrittivo a favore di una impostazione prestazionale, nella quale
gli obiettivi della progettazione che la norma si prefigge vengono dichiarati,
ed i metodi utilizzati allo scopo (procedure di analisi strutturale e di
dimensionamento degli elementi) vengono singolarmente giustificati.
Un’elencazione completa di tutte le norme tecniche che si sono susseguite nel
corso degli ultimi venti anni è disponibile all’indirizzo
internet ingegneriasoft.com/normativa-tecnica-ingegneria-civile.htm
Con l’ordinanza n. 3274 lo Stato ha provveduto a fissare i criteri generali per
l’individuazione delle zone sismiche, dando mandato alle regioni, in armonia con
il dettato dell’art. 112 del decreto legislativo n. 112 del 1998, per
l’individuazione delle zone sismiche.
Alle regioni, compete, quindi, la predisposizione dell’elenco dei comuni
classificati rispettivamente in zona 1, 2, 3 e 4. Per procedere a tale
identificazione le regioni potranno elaborare in proprio una mappa di
pericolosità sismica regionale, oppure utilizzare quella fornita dallo Stato per
tutto il territorio nazionale e allegata ai criteri per l’individuazione delle
zone sismiche nella veste dell’elenco di tutti i comuni italiani con la loro
classificazione sismica
Si ricorda, poi, che in una recente nota del 29 marzo 2004 del Dipartimento
della protezione civile, recante elementi informativi sull’ordinanza n. 3274 si
legge che “L’ordinanza è nata dalla necessità di dare una risposta rapida ed
integrata alle esigenze poste dal rischio sismico, una risposta che non poteva
ulteriormente attendere visto il ripetersi di eventi sismici calamitosi che
hanno interessato anche zone non classificate sismiche”, ma soprattutto che
“l’ineludibile esigenza sopra descritta ha, quindi, condotto alla scelta di
dettare una disciplina a carattere transitorio in materia di classificazione
sismica e normativa tecnica per le costruzioni in zona sismica con un’ordinanza
di protezione civile ex articolo 5, comma 2 della legge n. 225/1992, nelle more
dell’emanazione di un provvedimento che regoli a regime la materia; a tal fine
il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, con decreto n. 113/AG/30/15
del 28 gennaio 2004, ha costituito un’apposita Commissione a cui è stato
demandato il compito di redigere una bozza di Testo Unico della Normativa
Tecnica, da emanarsi ai sensi della legge n. 64 del 1974 e del DPR n. 380 del
2001”.
Con decreto del Capo del Dipartimento della protezione civile n. 123 del 22
gennaio 2004 è stato nominato anche un gruppo di lavoro per l’approfondimento di
tutte le problematiche relative all'ordinanza n. 3274.
Successivamente il Parlamento, al fine di risolvere le questioni attinenti al
riparto di competenze tra il Dipartimento della protezione civile e il Ministero
delle infrastrutture e dei trasporti in materia di normativa antisismica, sorte
a seguito dell’emanazione dell’ordinanza n. 3274, ha previsto, nell’art. 5 del
decreto legge 28 maggio 2004, n. 136, l’emanazione – da parte del Consiglio
superiore dei lavori pubblici, di concerto con il Dipartimento della protezione
civile, di norme tecniche, anche per la verifica sismica ed idraulica relative
alle costruzioni, nonché la redazione di norme tecniche per la progettazione, la
costruzione e l'adeguamento, anche sismico ed idraulico, delle dighe di
ritenuta, dei ponti e delle opere di fondazioni. Nel medesimo comma è stato
precisato che la redazione di tali norme avvenga secondo un programma
di priorità per gli edifici scolastici e sanitari.
Si ricorda, in merito a tali questioni, che l’ordinanza n. 3274 rappresenta una
normativa a carattere transitorio adottata in base agli artt. 2, comma 1, e 5,
comma 2, della legge n. 225 del 1992, che conferisce al Dipartimento della
protezione civile poteri straordinari per fronteggiare determinate situazioni di
emergenza. Sull’esercizio dei poteri straordinari da parte del Dipartimento
della protezione civile, si è pronunciata, dapprima, la Corte Costituzionale con
la sentenza 9 novembre 1992, n. 127 nella quale si è affermato che “non spetta
allo Stato, e per esso al Presidente del Consiglio dei Ministri, introdurre
prescrizioni per fronteggiare lo stato di emergenza che conferiscano a organi
amministrativi poteri di ordinanza non adeguatamente circoscritti nell’oggetto,
tali da derogare a settori di normazione primaria richiamati in termini
assolutamente generici, e a leggi fondamentali per la salvaguardia
dell’autonomia regionale, senza prevedere, inoltre, l’intesa per la
programmazione generale degli interventi”. Successivamente anche il Tar della
Lombardia con sentenza del 27gennaio 1998, n. 96, ha confermato che “l’esercizio
del potere di deroga alla legislazione vigente, riconosciuto al commissario
delegato dal Presidente del Consiglio dei Ministri per l’attuazione degli
interventi di emergenza previsto dall’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n.
225, presuppone la circostanziata individuazione ex ante delle principali norme
che, applicabili in via ordinaria, pregiudicherebbero l’attuazione degli
interventi medesimi; pertanto, l’onere di motivazione, di cui il commissario
deve farsi carico, è diretto ad evidenziare, con valutazione preventiva, il
nesso di strumentalità necessaria tra l’esercizio del potere di deroga e
l’attuazione di detti interventi”.
In sintesi, se la pienezza di poteri attribuiti al Dipartimento della protezione
civile è giustificabile allorché si tratti di deliberare lo stato di emergenza,
sono sorte perplessità in relazione all’emanazione di un’ordinanza, come la n.
3274, finalizzata a disciplinare, sia pure provvisoriamente, un settore
caratterizzato da norme per le quali è previsto un procedimento di adozione ben
individuato (DPR n. 380 del 2001, art. 83)
Sotto il profilo procedurale, il successivo comma 2 dell’art. 5 del
decreto-legge n. 136 del 2004 ha previsto che le norme tecniche vengano emanate
con le procedure di cui dell'art. 52 del T.U. delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di edilizia di cui al DPR n. 380 del 2001, di concerto
con il Dipartimento della protezione civile.
Si ricorda che l'art. 52 del richiamato T.U. stabilisce che le norme tecniche
riguardanti i vari elementi costruttivi delle strutture sia pubbliche che
private siano fissate con decreti del Ministero per le infrastrutture e i
trasporti, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici che si avvale
anche della collaborazione del Consiglio nazionale delle ricerche. Qualora le
norme tecniche riguardino costruzioni in zone sismiche esse devono essere
adottate di concerto con il Ministro per l'interno.
Tali norme definiscono i criteri generali tecnico-costruttivi per la
progettazione, esecuzione e collaudo degli edifici in muratura e per il loro
consolidamento, i carichi e sovraccarichi e loro combinazioni nonché i criteri
generali per la verifica di sicurezza delle costruzioni, le indagini sulla
natura dei terreni e delle rocce, la stabilità dei pendii naturali e delle
scarpate, i criteri generali e le precisazioni tecniche per la progettazione,
esecuzione e collaudo delle opere di sostegno delle terre e delle opere di
fondazione, i criteri generali e le precisazioni tecniche per la progettazione,
esecuzione e collaudo di opere speciali, quali ponti, dighe, serbatoi,
tubazioni, torri, costruzioni prefabbricate in genere, acquedotti, fognature e,
infine, la protezione delle costruzioni dagli incendi.
Il medesimo art. 52 del T.U., al comma 3, dispone che le medesime norme tecniche
e i relativi aggiornamenti entrino in vigore trenta giorni dopo la pubblicazione
dei rispettivi decreti nella Gazzetta Ufficiale.
Pertanto, in attuazione dell’art. 5 del decreto-legge n. 136 del 2004, è stato
emanato il DM 14 settembre 2005 con il quale sono state approvate le Norme
tecniche per le costruzioni, allo scopo di riunire in un unico testo la
disciplina tecnica relativa alla progettazione ed all’esecuzione delle
costruzioni e di realizzarne nel contempo l’omogeneizzazione e la
razionalizzazione.
Il testo, composto da un’introduzione e dodici capitoli, rappresenta una messa a
punto completa della complessa normativa in materia di costruzioni, relativa
alla progettazione strutturale degli edifici ed alle principali opere di
ingegneria civile, accanto alle caratteristiche dei materiali e dei prodotti
utilizzati, e consiste, inoltre, in un ampio aggiornamento del quadro
legislativo nazionale in campo strutturale, basato sulle leggi fondamentali n.
1086 del 1971 e n. 64 del 1974.
Il decreto è entrato in vigore il 23 ottobre 2005, vale a dire 30 giorni dopo la
pubblicazione sulla G.U., ai sensi dell’art. 52 del T.U. n. 380 del 2001 e come
disposto dal comma 2 dell’art. 5 del decreto-legge n. 136 del 2004.
Successivamente, con l’art. 14-undevicies del decreto legge 30 giugno 2005, n.
115 (che ha aggiunto il comma 2-bis all’art. 5 del decreto legge n. 136 del
2004), è stato previsto un periodo transitorio di diciotto mesi - fino al 23
aprile 2007 - dall’entrata in vigore, al dichiarato scopo di consentire l’avvio
di una fase sperimentale nell’applicazione delle nuove norme tecniche per le
costruzioni, durante il quale sarà possibile applicare, in alternativa alle
stesse, la normativa precedente di cui alla legge n. 1086 del 1971 ed alla legge
n. 64 del 1974 e fatto salvo, comunque, quanto previsto dall'applicazione del
DPR 21 aprile 1993, n. 246, recante “Regolamento di attuazione della direttiva
89/106/CEE relativa ai prodotti da costruzione”.
Si osserva che l’art. 14-undevicies del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115,
nel prevedere il regime transitorio di diciotto mesi, ha richiamato
espressamente solo le leggi n. 1086 del 1971 e n. 64 del 1974, nonché il DPR n.
246 del 1993, ma non l’ordinanza n. 3274 del 2003.
Pertanto, in merito all’applicabilità dell’ordinanza n. 3274 durante tale regime
transitorio, si ricorda che essa è tuttavia vigente, in quanto le proroghe hanno
riguardato unicamente la sua obbligatorietà, ma non la vigenza, e fino alla sua
entrata in vigore il progettista avrebbe quindi potuto scegliere di adeguarvisi
o meno. Durante tale periodo transitorio, pertanto, l’applicazione della
disciplina in essa contenuta costituisce una mera facoltà che si affianca a
quella di applicazione della normativa del DM 14 settembre 2005 ed alla
normativa di cui alle leggi n. 1086 del 1971 e n. 64 del1974.
Tale possibilità è confermata dallo stesso DM 14 settembre 2005, nelle cui
premesse viene espressamente previsto che le disposizioni contenute negli
allegati 2 e 3[13] dell’ordinanza n. 3274 del 2003, possono continuare a trovare
vigenza “quali documenti applicativi di dettaglio delle norme tecniche” con lo
stesso approvate. Inoltre, al capitolo 5.7.1.1, comma 2, si prevede
espressamente che “committente ed il progettista di concerto, nel rispetto dei
livelli di sicurezza stabiliti nella presente norma, possono fare riferimento a
specifiche indicazioni contenute in codici internazionali, nella letteratura
tecnica consolidata, negli allegati 2 e 3 alla ordinanza del Presidente del
Consiglio dei Ministri del 20 marzo 2003, n. 3274”. Infine, nel capitolo 12, la
citata ordinanza rientra tra le referenze tecniche essenziali, al pari dei
codici internazionali e della letteratura tecnica consolidata.
Da ultimo occorre accennare che l’entrata in vigore, il 23 ottobre 2005, del DM
14 settembre 2005, ha determinato la piena operatività della nuova
classificazione sismica, comportando la necessità dell’applicazione dell’art.
104 del T.U. in materia edilizia, n. 380 del 2001, relativo alle “Costruzioni in
corso in zone sismiche di nuova classificazione”. In base a tale articolo,
coloro che in una zona sismica di nuova classificazione abbiano iniziato una
costruzione prima dell’entrata in vigore del provvedimento di classificazione,
sono tenuti a farne denuncia, entro quindici giorni dall’entrata in vigore del
provvedimento stesso, al competente ufficio tecnico della regione.
In Italia ci sono state 3 leggi speciali che hanno consentito in diverse
finestre temporali e a determinati requisiti la sanatoria straordinaria di abusi
edilizi sostanziali, by Gianluca Oreto
L’inevitabile conseguenza per un immobile realizzato in assenza di permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, è la sua
demolizione. Lo prevede espressamente l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 (Testo
Unico Edilizia) secondo cui dall’accertamento dell’abuso edilizio da pare della
pubblica amministrazione si attiva un complesso, lungo e qualche volta inutile
procedimento che dovrebbe condurre verso il ripristino dello stato legittimo e,
quindi, la demolizione della difformità.
La sanatoria ordinaria e il primo condono edilizio
L’unica possibilità offerta dall’attuale normativa edilizia si chiama
“accertamento di conformità” (art. 36 del Testo Unico Edilizia, TUE) che
consente l’ottenimento del permesso di costruire in sanatoria, ma solo se
l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente
sia al momento della realizzazione dell’intervento abusivo, sia al momento della
presentazione dell’istanza (la “doppia conformità”).
Non tutti sanno (o ricordano) che i contenuti dell’art. 36 del d.P.R. n.
380/2001 discendono direttamente dall’art. 13 (oggi abrogato proprio dal TUE)
della nota e famigerata Legge 28 febbraio 1985, n. 47, meglio conosciuta come
Legge sul primo condono edilizio.
Con la Legge n. 47/1985 il legislatore ha, quindi, previsto:
una sanatoria di tipo ordinario
ancorata al rispetto della doppia conformità;
una sanatoria straordinaria
per gli abusi privi della doppia conformità o, comunque, realizzati: in assenza
di licenza o concessione edilizia o autorizzazione a costruire prescritte da
norme di legge o di regolamento, ovvero in difformità dalle stesse;
in base a licenza o concessione edilizia o autorizzazione annullata, decaduta o
comunque divenuta inefficace, ovvero nei cui confronti sia in corso procedimento
di annullamento o di declaratoria di decadenza in sede giudiziaria o
amministrativa.
Entrando nel dettaglio, per la sanatoria straordinaria di cui al primo condono
edilizio il legislatore ha suddiviso due casistiche:
la sanatoria delle opere abusive di cui all’art. 31 della Legge n. 49/1985 che
ha consentito di ottenere la concessione o la autorizzazione in sanatoria delle
opere ultimate entro la data del 1° ottobre 1983 (dove per ultimate si intendono
gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura,
ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non
destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente)
le opere costruite su aree sottoposte a vincolo di cui al successivo art. 32 che
disciplina la sanatoria straordinaria nel caso appunto di immobili sottoposti a
vincolo.
Già da questa classificazione è possibile notare che sin dal primo condono
edilizio, il legislatore ha voluto suddividere gli edifici con o senza vincoli.
Nel caso di immobili vincolati, la sanatoria straordinaria era subordinata al
parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso.
All’interno di questo art. 32 è possibile trovare qualcosa dell’art. 34-bis del
TUE sulle tolleranze costruttive.
La legge sul primo condono edilizio prevedeva che l’amministrazione preposta
alla tutela del vincolo dovesse esprimersi entro 180 giorni dalla richiesta di
parere, valendo in questo caso il silenzio-rifiuto che poteva essere impugnato
dal richiedente. Da notare che la richiesta del parere non era necessaria
“quando si tratti di violazioni riguardanti l'altezza, i distacchi, la cubatura
o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte”
(vi ricorda niente questa dicitura? esattamente l’art. 34-bis citato).
Il secondo e terzo condono edilizio
Chiusa la prima finestra temporale del primo condono edilizio, il legislatore ha
deciso di aprirne altre 2 con vincoli più stringenti:
l’art. 39 della Legge 23 dicembre 1994, n. 724 (secondo condono edilizio) ha
riaperto i termini del primo condono limitando le possibilità di ottenere la
sanatoria straordinaria alle opere abusive ultimate entro il 31 dicembre 1993,
che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30% della
volumetria della costruzione originaria ovvero, indipendentemente dalla
volumetria iniziale, un ampliamento superiore a 750 metri cubi (vincolo da
verificare sulla singola istanza in caso di nuove costruzioni;
l’art. 32, comma 25 della Legge 24 novembre 2003, n. 326 di conversione del
Decreto-Legge n. 269/2003, ha riaperto i termini del condono alle opere abusive
che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato
ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria della costruzione
originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi. Nel
caso di nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 metri cubi per
singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria, veniva prevista
l’ulteriore condizione che la nuova costruzione non superi complessivamente i
3.000 metri cubi.
Differenze tra condono e accertamento di conformità
Dall’analisi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 e le 3 norme sul condono
edilizio risultano evidenti le differenze sostanziali tra le possibilità
previste per l’ottenimento del permesso di costruire in sanatoria:
nel primo caso, la sanatoria ordinaria è vincolata al requisito della doppia
conformità;
nel secondo, al requisito temporale,
nel terzo, al parere delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo (se
presente) e ai limiti volumetrici.
Mentre l’accertamento di conformità consente sempre la sanatoria delle
difformità edilizie di tipo documentale (abusi formali) ancorandole alla doppia
conformità, il condono ha consentito la regolarizzazione di abusi “sostanziali”.
Occorre, comunque, tenere sempre a mente almeno due fattori chiave:
in caso di presenza di vincoli, era l’amministrazione preposta alla loro tutela
che deve valutare le possibilità di un parere positivo necessario al
completamento delle pratiche di condono;
in assenza di parere delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo,
esistono ancora oggi tante istanze all’interno di una pericolosissima area
grigia e dubbia, una sorta di vaso di pandora che tutti conoscono, ma in pochi
vogliono scoperchiare;
prevedere una sanatoria straordinaria a tempo significa intasare la pubblica
amministrazione di istanze che non riuscirà mai ad evadere con tempistiche
normali (o decenti);
la doppia conformità è un istituto che risale a 40 anni fa, nato in un contesto
edilizio con criticità e necessità completamente differenti da quelle
attuali…non è che sia il caso di rivederlo?
Abusi edilizi: il comune può optare per:
demolizione d'ufficio,
ingiunzione di demolizione
sanzione pecuniaria
acquisizione gratuita al patrimonio comunale
Il Testo Unico Edilizia prevede, in relazione alla gravità dell'abuso, tre tipi
diversi di sanzione: demolizione d'ufficio, ordine di demolizione, sanzione
pecuniaria e acquisizione gratuita al patrimonio comunale, tendenzialmente
applicabili in via alternativa ovvero consequenziale, by Matteo Peppucci
Quando il comune “scopre” un abuso edilizio, secondo le regole del Testo Unico
Edilizia, può decidere di procedere con una demolizione
d'ufficio oppure ordinare la demolizione (cd. ingiunzione) a cura dell'autore
dell'abuso stesso, da perfezionarsi entro 90 giorni trascorsi i quali, se non si
è adempiuto, può acquisire il bene al patrimonio pubblico, o ancora irrogare una
semplice sanzione pecuniaria.
Le regole in materia di repressione degli abusi edilizi, soprattutto per quel
che concerne l'operatività della messa in pristino, sono riassunte piuttosto
bene nella sentenza 874/2023 dello scorso 7 febbraio del Tar Campania (Napoli),
relativa al caso di abusi edilizi consistenti in una piscina interrata di circa
32 mq, nella pavimentazione dell’area circostante per circa 120 mq e in un
manufatto in muratura di 2 mq.
Abuso edilizio in zona vincolata: senza titolo edilizio (qualsiasi) si demolisce
sempre
Prima di addentrarsi nel discorso della demolizione, il Tar affronta il primo
motivo di ricorso, che verte sul fatto che quanto realizzato sarebbe privo di
rilievo urbanistico o al massimo necessitante di semplice SCIA, non comportando
aumenti volumetrici; cosicché, in assenza di titolo, la sanzione applicabile
sarebbe quella pecuniaria ex art. 37 dpr 380/01 - Testo Unico Edilizia.
Il TAR stoppa subito la questione ricordando che “per le opere abusive eseguite
in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica in aree
vincolate, vige un principio di indifferenza del titolo necessario
all'esecuzione di interventi in dette zone, essendo legittimo l'esercizio del
potere repressivo in ogni caso, a prescindere, appunto, dal titolo edilizio
ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l'intervento edilizio nella zona
vincolata (DIA o permesso di costruire); ciò che rileva, ai fini
dell'irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è
stato posto in essere in zona vincolata e in assoluta carenza di titolo
abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico che urbanistico”.
Il potere repressivo del comune e le diverse "opzioni" per sanzionare l'abuso
Si passa, quindi, all'analisi dell'art.31 del Testo Unico Edilizia, in raffronto
con l'art.27.
In tal senso, il Tar - anche richiamando altre pronunce sul tema - ribadisce
che:
il dpr 380/2001, sul piano amministrativo, sanzione la realizzazione di abusi
edilizi in una pluralità di disposizioni, "ciascuna delle quali corrispondente
ad un'autonoma fattispecie di illecito, e prevede, in relazione alla gravità
dell'abuso, tre tipi diversi di sanzione - la demolizione d'ufficio, l'ordine di
demolizione, la sanzione pecuniaria e l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale - tendenzialmente applicabili in via alternativa ovvero
consequenziale"; la differenza tra l'art.27 e l'art.31 del TUE è rappresentata
dal fatto che "nel primo caso, a seguito di accertamento degli abusi il
funzionario provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi,
nel senso che il funzionario senz’altro può materialmente demolire il manufatto
abusivo", mentre nel secondo caso sarà l'autore dell'abuso a dover procedere con
la demolizione entro un determinato periodo temporale; "il potere-dovere del
Comune di demolire immediatamente le opere risultate abusive ai sensi dell’art.
27 riguarda senz’altro le aree sottoposte a vincolo, disponendo la norma in
parola che per ogni abuso realizzato in tali aree il Comune, nell’esercizio dei
suoi poteri repressivi, deve senz’altro disporre il “ripristino dello stato dei
luoghi”; "l'art. 31, comma 2 e comma 3, esso si riferisce ai casi in cui il
Comune, non avendo statuito ed eseguito la materiale demolizione delle opere ai
sensi dell’art. 27, abbia preferito emanare l’ingiunzione di demolizione, con la
fissazione del termine di novanta giorni per la sua ottemperanza, decorso il
quale il Comune acquisisce il bene al proprio patrimonio".
Insomma: la differenza tra gli artt.27 e 31 è costituita dalla scelta del
comune: immediata demolizione (a cura dell'amministrazione) o ingiunzione a
demolire (a cura dell'autore dell'abuso, entro 90 giorni).
Nel caso di specie, il dirigente dell’ufficio edilizia privata, nell’esercizio
dei poteri di vigilanza a lui spettanti, ha impartito l’ordine di demolizione ai
proprietari dei manufatti abusivi.
Lo può fare, è tutto legittimo (così come lo sarebbe stato, peraltro, scegliere
di demolire immediatamente l'abuso).
Ordine di demolizione e acquisizione al patrimonio comunale: chiarimenti dalla
Cassazione
Gli ermellini ribadiscono la sussistenza di un eventuale interesse a ricorrere
dopo l'acquisizione al patrimonio comunale di opere abusive, di Redazione
tecnica lavoripubblici.it
L’ordine di demolizione non è impugnabile una volta che sia avvenuta
l’acquisizione dell’edificio abusivo al patrimonio comunale, in quanto l’ormai
ex-proprietario non ha ormai più interesse a intervenire se non per eseguire
spontaneamente la demolizione stessa.
Acquisizione al patrimonio comunale e sanatoria edilizia: la sentenza della
Cassazione
Si tratta di uno dei principi base in materia di reati edilizi, confermato
ancora una volta con la sentenza n. 6600/2023 della Corte di Cassazione, a
seguito del ricorso proposto contro l’ordinanza del Tribunale che aveva
rigettato l'istanza di revoca o di sospensione dell'ordine di demolizione di un
fabbricato.
Secondo il ricorrente sarebbe stato possibile sanare le opere sulla base delle
norme vigenti dopo la loro realizzazione; inoltre il giudice avrebbe errato nel
ritenere intervenuta l’acquisizione definitiva dell'immobile al patrimonio
comunale, in quanto il termine di 90 giorni di cui all'art. 31, comma 3, d.P.R.
n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) sarebbe fissato unicamente per la demolizione
volontaria del manufatto abusivo, per cui dopo il decorso di detto termine,
l'amministrazione può procedere agli ulteriori adempimenti e fin quando esiste
l'opera il soggetto interessato ne conserverebbe comunque la titolarità, fino
all'irrogazione di sanzioni che non si identificherebbero con il mero atto
istruttorio dell'accertamento di inottemperanza all'ordine di demolizione.
Presupposti per l’accertamento di conformità: l'art. 36 del Testo Unico Edilizia
Come abbiamo recentemente ribadito, la Cassazione ha confermato che in tema di
reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il
reato di cui all'art. 44 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, a precludere
l'irrogazione dell'ordine di demolizione dell'opera abusiva previsto dall'art.
31, comma 9, del medesimo d.P.R. e a determinarne l’eventuale revoca, se emanata
successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, può essere solo quella
rispondente alle condizioni espressamente indicate dall'art. 36 del decreto
stesso citato, ovvero il riscontro della doppia conformità delle opere alla
disciplina urbanistica vigente:
sia al momento della realizzazione del manufatto; sia al momento della
presentazione della domanda di permesso in sanatoria.
Si esclude quindi la possibilità di riconoscere la legittimità di opere
originariamente abusive divenute conformi alle norme edilizie o agli strumenti
di pianificazione urbanistica soltanto dopo la loro realizzazione.
L'esercizio del potere sanzionatorio: l'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001
Inoltre, come ha specificato il CGARS in una recente sentenza, l’esercizio del
potere sanzionatorio deve, innanzitutto, seguire la scansione procedimentale
dettata dall’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001:
il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata
l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal
medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo
32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la
demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto,
ai sensi del comma 3. (comma 2);
se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino
dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e
l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L’area acquisita
non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile
abusivamente costruita (comma 3);
l’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di
cui al comma 3, previa notifica all’interessato, costituisce titolo per
l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che
deve essere eseguita gratuitamente (comma 4).
L’art. 31 quindi prevede quest’ordine:
l’emissione del provvedimento di ingiunzione a demolire, con il quale viene
assegnato il termine di 90 giorni per adempiere spontaneamente alla demolizione
ed evitare le ulteriori conseguenze pregiudizievoli;
dall’accertamento della inottemperanza all’ordine di demolizione tramite verbale
che accerti la mancata riduzione in pristino;
l’atto di acquisizione al patrimonio comunale, che costituisce il titolo per
l’immissione in possesso e per la trascrizione gratuita dell’acquisto della
proprietà in capo al Comune.
Le conseguenze dell'acquisizione al patrimonio comunale
Avendo chiaro il quadro normativo, è semplice comprendere perché la Cassazione
abbia considerato in questo caso il ricorso inammissibile: alla luce della
consolidata giurisprudenza in materia della Corte stessa, l’intervenuta
inottemperanza entro 90 giorni all'ordine comunale di demolizione notificato
all'interessato ha come conseguenza l’acquisizione al patrimonio comunale, senza
che ci siano ulteriori interessi in ordine alla disposta demolizione.
Inoltre, in tema di reati edilizi, dopo l'acquisizione dell'opera abusiva al
patrimonio disponibile del Comune, qualora il Consiglio comunale non abbia
deliberato il mantenimento del manufatto, ravvisando l'esistenza di prevalenti
interessi pubblici, il condannato può chiedere la revoca dell'ordine di
demolizione soltanto per provvedere spontaneamente all'esecuzione di tale
provvedimento, essendo privo di interesse ad avanzare richieste diverse, in
quanto il procedimento amministrativo sanzionatorio ha ormai come unico esito
obbligato la demolizione della costruzione a spese del responsabile dell'abuso.
L'espressione 'fiscalizzazione degli abusi edilizi' è emersa principalmente
dalla giurisprudenza amministrativa e penale e si riferisce a una procedura in
cui si applica il pagamento di una sanzione pecuniaria in sostituzione della
demolizione di determinati tipi di abusi edilizi.
Impossibilità tecnica demolizione abuso edilizio da dimostrare in maniera
oggettiva
By Carlo Pagliai
Abusi edilizi. La sospensione o revoca dell’ordine di demolizione in conseguenza
del possibile pregiudizio alle parti legittime del fabbricato possono essere
disposte solo in caso di impossibilità assoluta di adempiervi non imputabile al
soggetto.
La possibilità di mantenere abusi edilizi di natura insanabile è assai risicata,
e potrebbe avvenire con la procedura della cosiddetta “fiscalizzazione“, cioè
pagamento una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione e rimessa in
pristino.
Intanto è utile rammentare che la fiscalizzazione dell’abuso edilizio, si
formalizza dopo l’ordinanza di demolizione quale presupposto; per dirla meglio,
la fiscalizzazione è un atto consequenziale all’ordinanza di demolizione e alla
presa d’atto dell’impossibilità della sua demolizione senza pregiudizio delle
parti legittime.
Premesso che esistono diverse tipologie di “fiscalizzazione“, prendiamo in esame
soprattutto quelle definite dal D.P.R. 380/01, riguardanti rispettivamente
avvenute in assenza o difformità dal permesso di costruire per:
ristrutturazione edilizia pesante (art. 33) parziali difformità (art. 34)
La loro fiscalizzazione può avvenire a certe condizioni, e in particolare quando
siano congiuntamente:
insanabili (cioè, non rispettano il requisito di doppia conformità);
il pristino dello stato dei luoghi sia oggettivamente impossibilitato perchè
pregiudica la parte legittima dell’immobile (per parziali difformità art. 34) o
quando sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il
ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile (per ristrutturazioni
pesanti abusive art. 33);
Ci sono alcune differenti modalità applicative tra le due suddette casistiche di
indemolibilità e fiscalizzazioni, ma in comune hanno un l’oggettiva
impossibilità alla rimessa in pristino.
Sul tema possiamo prendere a riferimenti i principi e la fattispecie analizzata
dalla sentenza n. 43829/2023 di Cassazione Penale relativa ad un fabbricato nel
quale nell’unità al piano rialzato è avvenuto un mutamento di destinazione d’uso
da deposito ad abitazione; su di essa è stata emanata un’ordinanza di
demolizione “vera e propria”, impossibile da eseguire perchè avrebbe
pregiudicato la soprastante parte legittima del fabbricato, e anche ritenuta
sproporzionata. Infatti, un cambio di destinazione d’uso avvenuto in contrasto
alla disciplina vigente, e pertanto insanabile, non è tollerabile e soprattutto
è ripristinabile tramite demolizione degli impianti e opere realizzati.
Il ricorso si conclude a favore del cittadino per l’impossibilità tecnica di
dare esecuzione all’ordine di demolizione delle opere abusive, senza arrecare
pregiudizio alle parti lecite del fabbricato nel quale esse si trovano.
L’impossibilità tecnica di dare esecuzione all’ordine di demolizione, oltre a
dover essere dimostrata, non assume rilievo quando dipende da una causa
imputabile allo stesso condannato. Spesso l’impossibilità tecnica, in senso
oggettivo, deriva dal pregiudizio statico e antisismico delle costruzioni.
Il provvedimento di cosiddetta fiscalizzazione dell’abuso edilizio, adottato
dall’autorità amministrativa a norma dell’art. 34, comma 2 DPR 380/01, trova
però applicazione solo per le difformità parziali le quali vengono tollerate,
nello stato in cui si trovano, solo in funzione della conservazione di quelle
realizzate legittimamente (Cass. Pen. n. 28747/2018, n. 19538/2010, n.
24661/2009, n. 13978/2004). CARLO PAGLIAI
Quando un piccolo abuso edilizio va in prescrizione?
L'abuso edilizio è un illecito amministrativo e un reato penale che si prescrive
in 4 o 5 anni
Ai sensi dell'art. 13 del DPR 327/01, cosa determina la scadenza del termine
entro il quale può essere emanato il decreto di esproprio?
L'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità
Espropriazione per pubblica utilità.
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L'espropriazione per pubblica utilità è un istituto giuridico italiano che
consente allo Stato di acquisire per sé o per un altro soggetto una proprietà
privata per esigenze di interesse pubblico.
Tale acquisizione è di norma compensata da un'indennità nei confronti del
soggetto espropriato del bene. L'espropriazione è espressione del potere
ablatorio che, in varia misura, tutti gli ordinamenti riconoscono alla pubblica
amministrazione e che consente alla stessa di sacrificare l'interesse privato in
vista di un superiore interesse pubblico (che, nel caso dell'espropriazione per
pubblica utilità è solitamente - ma non esclusivamente - quello di realizzare
un'opera pubblica).
Storia
L'istituto venne introdotto dalla legge 25 giugno 1865, n. 2359 e ribadito
dall'articolo 834 del Codice civile italiano del 1942, dopo la nascita della
Repubblica Italiana il principio ebbe rilievo costituzionale secondo i dettami
dell'articolo 42, terzo comma della Costituzione della Repubblica
Italiana statuente che la proprietà privata può essere espropriata per pubblica
utilità. Lo stesso art. 42 trova fondamento in combinato disposto con l'articolo
2 della Costituzione italiana, che sottopone tutti i cittadini a "doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale".
Il concetto di esproprio nella normativa italiana viene varie volte affrontato e
modificato a partire dal secondo dopoguerra; taluni aspetti furono disciplinati
anche dal d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, si parla di occupazione d'urgenza di
immobili per la realizzazione di opere urgenti.
La normativa venne infine sostituita dal D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 che abrogò
la norma del 1865.
Analisi dell'istituto
In virtù di questi doveri, e della tutela e garanzia data alla proprietà
privata si prevede che il privato che subisce il provvedimento espropriativo
debba ottenere un indennizzo e non un risarcimento: il bene espropriato passa in
capo alla pubblica amministrazione per ragioni di pubblica utilità, cioè nel
perseguimento di un interesse pubblico, ovvero della collettività organizzata di
cui anche l'espropriato fa parte.
L'espropriazione è retta da due principi fondamentali:
principio di legalità: i pubblici poteri possono espropriare i beni dei privati
solo nei casi previsti dalla legge e solo nel rispetto delle procedure
determinate dalle leggi (articolo 23 della costituzione);
indennità di espropriazione: (art. 42/III) lo Stato deve corrispondere al
proprietario espropriato una somma di danaro, determinata secondo criteri di
legge, che compensi la perdita; questa somma non deve essere, per la Corte
costituzionale, simbolica, anche se non si richiede che equivalga al prezzo di
mercato del bene espropriato.
Anche la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali tutela la proprietà sotto il profilo del libero godimento
dei beni, ai sensi dell'articolo 1 del primo Protocollo: la Corte di
Strasburgo ha più volte sanzionato l'Italia per violazione di questa norma
pattizia.
Va anche considerata la disposizione della Costituzione che consente di
"riservare originariamente allo Stato o ad altri enti pubblici determinate
categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti
di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente
interesse generale" (articolo 43).
Questa figura giuridica va sotto la denominazione di nazionalizzazione (la più
famosa applicazione risale al 1962, con la nazionalizzazione delle aziende
elettriche e la fondazione dell'Enel) e trova una copertura legale anche a
livello internazionale, ad opera della Carta dei diritti e dei doveri economici
degli stati, secondo l'art 2 della risoluzione 12 dicembre 1974, n. 3281-XXIX
dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è previsto che ciascuno Stato ha
il diritto di scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico,
sociale, economico e culturale «conformemente alla volontà del suo popolo, senza
ingerenza, pressione o minaccia esterna di qualsiasi sorta» e ha il diritto di
disciplinare gli investimenti stranieri, di procedere a nazionalizzazioni e
espropriazioni di beni esteri secondo il proprio diritto interno, escludendo
pertanto ogni ricorso al diritto internazionale e ogni competenza a risolvere le
controversie eventualmente insorgenti di giudici diversi da quello dello Stato
che a dette nazionalizzazioni ed espropriazioni proceda.
L'indennizzo, in questo caso è l'acquisto a carico dello Stato delle azioni, che
rappresentano la proprietà dell'impresa.
Il procedimento
Il D.P.R. 327/2001 è suddiviso in 5 titoli e 59 articoli ed è stato modificato
ulteriormente. Sulla base della nuova normativa sono espropriabili tutti i beni
immobili e i diritti relativi a tali beni, al fine di eseguire opere pubbliche o
di pubblica utilità. I beni appartenenti al Demanio Pubblico sono espropriabili
solo previa sdemanializzazione. I beni dedicati al culto sono espropriabili
previo accordo con le autorità competenti.
L'art. 8 del D.P.R. n. 327/2001 prevede che il decreto di esproprio possa essere
emanato qualora:
a) l'opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in
un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato
apposto il vincolo preordinato all'esproprio;
b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità;
c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l'indennità di esproprio.
Fase istruttoria
La dichiarazione di pubblica utilità era il presupposto dell'espropriazione
nella legge fondamentale del 1865. Essa conteneva la scelta dell'area da
utilizzare per l'opera pubblica: era perciò un atto a contenuto discrezionale ed
in quanto incidente sulla proprietà privata era assistito da particolari
garanzie. In primo luogo, doveva contenere, a pena di invalidità dell'intera
procedura, i termini di inizio e di fine lavori, nonché i termini di inizio e
fine delle operazioni espropriative.
La legge del 1865 si basava sulla regola in base alla quale
l'Amministrazione prima diventava proprietaria dell'area (mediante l'esercizio
del potere ablatorio) e poi realizzava l'opera pubblica. Tale regola, più volte
derogata nella legislazione successiva, è stata ripresa e ribadita dall'art. 2
del Testo Unico del 2001, che afferma l'assoluta rilevanza del principio di
legalità, perché è un'antica, ma attuale, esigenza che l'Amministrazione
dapprima espropri e poi costruisca l'opera pubblica, ciò al fine di semplificare
il sistema, accelerare gli interventi e ridurre il contenzioso.
Nella legge del 1865 non era prevista la cosiddetta occupazione d'urgenza,
preordinata all'esproprio e creata per la prima volta dalla legge
sul risanamento di Napoli del 1885: solo dopo la conclusione del procedimento
ablatorio il privato perdeva il possesso del fondo, unitamente alla proprietà, e
sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità formalizzata in un atto
espresso, frutto di particolari valutazioni concernenti l'idoneità dell'area da
espropriare.
Fase espropriativa
Nel regime anteriore al decreto del 2001, il soggetto espropriante depositava il
cosiddetto piano particolareggiato di esecuzione, chiamato anche piano
particellare di esproprio, con cui si individuavano i beni da espropriare. Tale
piano veniva pubblicato nell'albo pretorio comunale e nel F.A.L. per 15 giorni,
termine entro cui i proprietari potevano proporre ulteriori osservazioni al
Prefetto.
Seguiva l'ordinanza prefettizia che disponeva l'esecuzione del piano
particellare e indicava la somma offerta quale indennità di esproprio. A questo
punto, gli espropriandi avevano tre possibilità:
notificare al Prefetto l'accettazione della somma indennitaria; in tal caso il
Prefetto emanava il decreto di esproprio;
chiedere di concordare la cessione volontaria del bene, portando alla stipula di
un accordo convenzionale di cessione con l'autorità espropriante ed evitando
l'emanazione del decreto di esproprio;
opporsi alla stima, sicché il Prefetto emanava il decreto di esproprio mentre
il giudice ordinario decideva sulla congruità della somma offerta come indennità
di esproprio
Il procedimento di esproprio dopo il T.U. 327/2001
Il procedimento per giungere all’esproprio di un bene immobile prevede un iter
ben preciso, prima di arrivare al relativo decreto, che passa attraverso varie
fasi. In particolare, devono essere rispettate le seguenti condizioni, cui
corrispondono altrettante fasi operative:
inserimento dell’opera da realizzare nello strumento urbanistico generale, o in
un atto di natura ed efficacia equivalente;
apposizione sul bene da espropriare del vincolo preordinato all’esproprio;
emanazione della dichiarazione di pubblica utilità;
determinazione, anche se in via provvisoria, dell’indennità di esproprio.
Una volta esaurite queste fasi, si giunge all’emanazione del decreto di
esproprio.
Il vincolo preordinato all'esproprio
L’art. 9 del T.U. prevede che l’esproprio possa realizzarsi nelle aree che siano
state sottoposte a vincolo preordinato alla espropriazione da parte del piano
regolatore generale, con validità dal momento in cui ne diventi efficace l’atto
di approvazione, o di una sua variante che preveda la realizzazione dell’opera
pubblica.
Il vincolo preordinato all’esproprio ha una durata di cinque anni dal momento in
cui viene approvato il piano regolatore o la variante che lo ha introdotto.
Entro tale termine, deve essere emanata la dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera, pena la decadenza.
La dichiarazione di pubblica utilità
Nel termine di cinque anni dall’apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio deve essere emanato il provvedimento relativo alla dichiarazione
di pubblica utilità con l'approvazione di uno dei seguenti provvedimenti:
progetto definitivo dell’opera
piano particolareggiato
piano di lottizzazione
piano di recupero
piano di ricostruzione
piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi
piano di zona
Espropriazione totale
Si verifica quando un proprietario viene privato integralmente di un suo fondo.
Indennità è pari al giusto prezzo che avrebbe avuto l'immobile in una libera
compravendita. Il giusto prezzo è il valore di mercato del bene secondo i prezzi
correnti al momento dell'espropriazione senza trascurarne i miglioramenti. In
caso le due parti non si riescano a mettere d'accordo sul prezzo, interviene un
collegio di periti che valuta il giusto prezzo.
Espropriazione parziale
L'indennità consiste nella differenza tra il giusto prezzo dell'immobile prima
dell'occupazione e il giusto prezzo dopo l'occupazione. Si determina il valore
complementare della parte espropriata. È possibile che da tale espropriazione
nasca un vantaggio per il fondo, tale vantaggio non deve essere maggiore di un
quarto dell'indennizzo.
L'occupazione temporanea
Per l'esecuzione di un'opera di pubblica utilità possono essere occupati
temporaneamente terreni per l'estrazione, per il deposito di materiali e
attrezzature, per l'installazione di magazzini e cantieri di lavoro, per
praticare passaggi provvisori, per aprire canali di diversione delle acque e per
ogni altro uso necessario alla realizzazione dell'opera. L'occupazione
temporanea non può avvenire per i terreni fabbricati, né per quelli recintati
da muri.
Per il calcolo dell'indennizzo si tiene conto di:
Frutti pendenti.
Valore soprassuolo.
Reddito annuo perduto durante il periodo di occupazione.
Spese di ripristino.
Danno per diminuzione transitoria o permanente di reddito dalla fine del periodo
di occupazione. Durata dell'occupazione.
Diversa ipotesi è quella, usata spesso, della occupazione d'urgenza, che in base
ad un "decreto di occupazione d'urgenza" anticipa gli effetti dell'esproprio
immettendo prima dell'esproprio l'ente pubblico od il beneficiario privato
(società autostradale, cooperativa edilizia, attività produttiva compresa in
nuova zona produttiva, ecc.) nel possesso dei beni per eseguirvi le opere per
cui la procedura espropriativa ha avuto inizio. All'atto della consegna dei beni
al beneficiario del futuro esproprio si redige un "verbale di consistenza" in
cui un tecnico descrive lo stato dei luoghi e le coltivazioni o gli immobili
presenti per poterne tener conto in futuro nel momento in cui verrà quantificata
l'indennità di esproprio. Normalmente per tale occupazione l'indennizzo consiste
nell'interesse legale calcolato sull'indennità di esproprio per il periodo in
cui l'esproprio è stato anticipato.
Retrocessione e vendita degli immobili espropriati
Se l'opera non è stata eseguita nei tempi stabiliti o il fondo non ha avuto la
destinazione prevista, l'espropriato può ottenere la retrocessione.
Gli immobili espropriati possono in tal caso anche essere posti in vendita
dall'espropriante e i vecchi proprietari hanno diritto di prelazione.
Espropriazione anomala o di fatto
L'imposizione del vincolo su un'area, pur non determinando il trasferimento
coattivo della proprietà dal privato cittadino alla pubblica amministrazione,
restando la disponibilità dell'area - più teorica che pratica - al proprietario,
determinava, di fatto, un esproprio senza indennizzo. Questa modalità di
esproprio è conosciuta in giurisprudenza ed in dottrina con il
termine espropriazione anomala o espropriazione di fatto.
Talvolta l'espropriazione è avvenuta senza alcun titolo, talaltra ci si trova di
fronte ad opere pubbliche eseguite in base ad un decreto di occupazione
d'urgenza, poi non seguito da un regolare decreto d'esproprio: in ambedue i casi
il decreto del Presidente della Repubblica del 2001 appare aver lasciato ampio
spazio alla discrezionalità amministrativa, assoggettandosi alle obiezioni già
esposte nel contenzioso CEDU sul regime previgente.
Dispone l'art. 110 del DPR 380/2001 e s.m.i. che per l'installazione, la
trasformazione e l'ampliamento degli impianti di protezione antincendio: è
obbligatoria la redazione del progetto da parte di professionisti iscritti negli
albi professionali
Quale è la principale normativa italiana che regola gli aspetti ambientali?
Per “Testo Unico Ambientale” o “Codice dell'ambiente” si intende il Decreto
Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, entrato in vigore nel suo testo storico il 29
aprile 2006 e che contiene le principali norme che regolano la disciplina
ambientale.
Quali sono i principi ambientali?
La politica dell'Unione in materia di ambiente si basa sui principi della
precauzione, dell'azione preventiva e della correzione alla fonte dei danni
causati dall'inquinamento, nonché sul principio «chi inquina paga».
Quali sono le sette componenti del Codice dell'ambiente?
Cos’è il diritto ambientale e quali sono le ultime evoluzioni normative
La politica ambientale europea è orientata alla salvaguardia, alla tutela e al
miglioramento della qualità dell’ambiente, alla protezione della salute umana,
all’uso razionale delle risorse naturali; nonché alla promozione di misure volte
a risolvere i problemi dell’ambiente. Per parlare di diritto ambientale è
opportuno fare riferimento ai principi generali in materia di politica
ambientale dell’Unione europea, tra cui si legge:
“La politica dell’Unione in materia di ambiente si fonda sui principi della
precauzione, dell’azione preventiva e della correzione dell’inquinamento alla
fonte, nonché sul principio «chi inquina paga»”
A livello nazionale, il diritto ambientale è costituito da una molteplicità di
atti normativi, fra i quali spicca il Decreto Legislativo n. 152 del 2006 (cd.
Testo Unico Ambientale).
Principio dell’azione ambientale
Principio dello sviluppo sostenibile
Principi di sussidiarietà e di leale collaborazione
Diritto di accesso alle informazioni ambientali e di partecipazione a scopo
collaborativo
Il Legislatore comunitario prima, e quello italiano poi, hanno definito una
serie di “principi generali a tutela dell’ambiente”, riportati all’interno del
Testo Unico Ambientale. Analizziamoli nel dettaglio.
In merito alla tutela dell’ambiente, degli ecosistemi naturali e del patrimonio
culturale, il diritto ambientale italiano prescrive che deve essere garantita da
tutti gli Enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche,
pubbliche o private; ciò deve avvenire mediante una adeguata azione che sia
uniformata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva,
della correzione, in via prioritaria alla fonte dei danni causati all’ambiente;
nonché al principio “chi inquina paga” (tali principi, sono enunciati
nell’articolo 174, c. 2, del Trattato delle Unioni europee, regolano la politica
della comunità in materia ambientale e sono stati recepiti nell’ordinamento
interno).
Gli attuali indirizzi di politica economica, a livello comunitario ed italiano,
sono uniformati alla definizione di “sviluppo sostenibile”, predisposta a
seguito dei lavori di una commissione, appositamente costituita
dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Lo sviluppo sostenibile veniva
quindi definito come “quel tipo di sviluppo economico in grado di soddisfare le
esigenze delle generazioni presenti senza compromettere quelle delle generazioni
future”.
Sempre il Legislatore interno richiede che tali principi debbano costituire le
condizioni minime ed essenziali per assicurare la tutela dell’ambiente su tutto
il territorio nazionale.
In particolare, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano possono
adottare forme di tutela giuridica dell’ambiente più restrittive; qualora lo
richiedano situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti
un’arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi
procedimentali.
Laddove non possano essere sufficientemente realizzati dai livelli territoriali
inferiori di governo o non siano stati comunque effettivamente realizzati, lo
Stato interviene in questioni involgenti interessi ambientali ove gli obiettivi
dell’azione prevista lo richiedano, in considerazione delle dimensioni di essa e
dell’entità dei relativi effetti.
Infine, il principio di sussidiarietà opera anche nei rapporti tra Regioni ed
Enti locali minori, e qualora sussistano i presupposti per l’esercizio del
potere sostitutivo del Governo nei confronti di un Ente locale, nelle materie di
propria competenza la Regione può esercitare il suo potere sostitutivo.
Con l’ultimo di questi principi, si afferma che chiunque, senza essere tenuto a
dimostrare la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante, può accedere
alle informazioni relative allo stato dell’ambiente e del paesaggio nel
territorio nazionale.
Codice dell'ambiente
Testo
del D.Lgs. n. 152/2006 con le modifiche introdotte, da ultimo, dalla L. 30
dicembre 2023, n. 214
Art. 3 bis
Principi sulla produzione del diritto ambientale
1. I principi posti dalla presente Parte prima costituiscono i principi generali
in tema di tutela dell'ambiente, adottati in attuazione degli articoli 2, 3, 9,
32, 41, 42 e 44, 117 commi 1 e 3 della Costituzione e nel rispetto degli
obblighi internazionali e del diritto comunitario.
2. I principi previsti dalla presente Parte Prima costituiscono regole generali
della materia ambientale nell'adozione degli atti normativi, di indirizzo e di
coordinamento e nell'emanazione dei provvedimenti di natura contingibile ed
urgente.
3. Le norme di cui al presente decreto possono essere derogate, modificate o
abrogate solo per dichiarazione espressa da successive leggi della Repubblica,
purché sia comunque sempre garantito il rispetto del diritto europeo, degli
obblighi internazionali e delle competenze delle Regioni e degli Enti
locali.3-ter.
Principio dell'azione ambientale
Art. 3 ter
1. La tutela dell'ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio
culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle
persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione
che sia informata ai principi della precauzione, dell'azione preventiva, della
correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente,
nonché al principio «chi inquina paga» che, ai sensi dell'articolo 174, comma 2,
del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in
materia ambientale.
3-quater.
Principio dello sviluppo sostenibile
1. Ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice
deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire
che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa
compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future.
2. Anche l'attività della pubblica amministrazione deve essere finalizzata a
consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo
sostenibile, per cui nell'ambito della scelta comparativa di interessi pubblici
e privati connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell'ambiente e
del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione.
3. Data la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e
attività umane, il principio dello sviluppo sostenibile deve consentire di
individuare un equilibrato rapporto, nell'ambito delle risorse ereditate, tra
quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell'ambito delle
dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì il principio di
solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell'ambiente anche
futuro.
4. La risoluzione delle questioni che involgono aspetti ambientali deve essere
cercata e trovata nella prospettiva di garanzia dello sviluppo sostenibile, in
modo da salvaguardare il corretto funzionamento e l'evoluzione degli ecosistemi
naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte dalle attività
umane.
3-quinquies.
Principi di sussidiarietà e di leale collaborazione
1. I principi contenuti nel presente decreto legislativo costituiscono le
condizioni minime ed essenziali per assicurare la tutela dell'ambiente su tutto
il territorio nazionale.
2. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono adottare
forme di tutela giuridica dell'ambiente più restrittive, qualora lo richiedano
situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti
un'arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi
procedimentali.
3. Lo Stato interviene in questioni involgenti interessi ambientali ove gli
obiettivi dell'azione prevista, in considerazione delle dimensioni di essa e
dell'entità' dei relativi effetti, non possano essere sufficientemente
realizzati dai livelli territoriali inferiori di governo o non siano stati
comunque effettivamente realizzati.
4. Il principio di sussidiarietà di cui al comma 3 opera anche nei rapporti tra
regioni ed enti locali minori. Qualora sussistano i presupposti per l'esercizio
del potere sostitutivo del Governo nei confronti di un ente locale, nelle
materie di propria competenza la Regione può esercitare il suo potere
sostitutivo.
3-sexies.
Diritto di accesso alle informazioni ambientali e di partecipazione a scopo
collaborativo
1. In attuazione della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni,
e delle previsioni della Convenzione di Aarhus, ratificata dall'Italia con la
legge 16 marzo 2001, n. 108, e ai sensi del decreto legislativo 19 agosto 2005,
n. 195, chiunque, senza essere tenuto a dimostrare la sussistenza di un
interesse giuridicamente rilevante, può accedere alle informazioni relative allo
stato dell'ambiente e del paesaggio nel territorio nazionale.
1-bis. Nel caso di piani o programmi da elaborare a norma delle disposizioni di
cui all’allegato 1 alla direttiva 2003/35/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 26 maggio 2003, qualora agli stessi non si applichi l’articolo 6,
comma 2, del presente decreto, l’autorità competente all’elaborazione e
all’approvazione dei predetti piani o programmi assicura la partecipazione del
pubblico nel procedimento di elaborazione, di modifica e di riesame delle
proposte degli stessi piani o programmi prima che vengano adottate decisioni sui
medesimi piani o programmi.
1-ter. Delle proposte dei piani e programmi di cui al comma 1-bis l’autorità
procedente dà avviso mediante pubblicazione nel proprio sito web. La
pubblicazione deve contenere l’indicazione del titolo del piano o del programma,
dell’autorità competente, delle sedi ove può essere presa visione del piano o
programma e delle modalità dettagliate per la loro consultazione.
1-quater. L’autorità competente mette altresì a disposizione del pubblico il
piano o programma mediante il deposito presso i propri uffici e la pubblicazione
nel proprio sito web.
1-quinquies. Entro il termine di sessanta giorni dalla data di pubblicazione
dell’avviso di cui al comma 1-ter, chiunque può prendere visione del piano o
programma ed estrarne copia, anche in formato digitale, e presentare
all’autorità competente proprie osservazioni o pareri in forma scritta.
1-sexies. L’autorità procedente tiene adeguatamente conto delle osservazioni del
pubblico presentate nei termini di cui al comma 1-quinquies nell’adozione del
piano o programma.
1-septies. Il piano o programma, dopo che è stato adottato, è pubblicato nel
sito web dell’autorità competente unitamente ad una dichiarazione di sintesi
nella quale l’autorità stessa dà conto delle considerazioni che sono state alla
base della decisione. La dichiarazione contiene altresì informazioni sulla
partecipazione del pubblico.
3-septies.
(articolo introdotto dall'art. 27, comma 1, legge n. 108 del 2021)
1. Le regioni, le province, le città metropolitane, i comuni, le associazioni di
categoria rappresentate nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, le
associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in
almeno cinque regioni, possono inviare al Ministero della transizione ecologica,
con le modalità di cui al comma 3, istanze di ordine generale sull'applicazione
della normativa statale in materia ambientale. La risposta alle istanze deve
essere data entro novanta giorni dalla data della loro presentazione. Le
indicazioni fornite nelle risposte alle istanze di cui al presente comma
costituiscono criteri interpretativi per l'esercizio delle attività di
competenza delle pubbliche amministrazioni in materia ambientale, salva
rettifica della soluzione interpretativa da parte dell’amministrazione con
valenza limitata ai comportamenti futuri dell’istante. Resta salvo l’obbligo di
ottenere gli atti di consenso, comunque denominati, prescritti dalla vigente
normativa. Nel caso in cui l’istanza sia formulata da più soggetti e riguardi la
stessa questione o questioni analoghe tra loro, il Ministero della transizione
ecologica può fornire un’unica risposta.
2. Il Ministero della transizione ecologica, in conformità all'articolo 3-sexies
del presente decreto e al decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 195, pubblica
senza indugio le risposte fornite alle istanze di cui al presente articolo
nell'ambito della sezione “Informazioni ambientali” del proprio sito
istituzionale di cui all'articolo 40 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n.
33, previo oscuramento dei dati comunque coperti da riservatezza, nel rispetto
del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.
3. La presentazione delle istanze di cui al comma 1 non ha effetto sulle
scadenze previste dalle norme ambientali, né sulla decorrenza dei termini di
decadenza e non comporta interruzione o sospensione dei termini di prescrizione.
Il Testo Unico Ambientale
Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 152/06, pubblicato in attuazione della legge
15 dicembre 2004, n. 308, il Legislatore italiano ha indicato nella promozione
dei livelli di qualità della vita umana la finalità della disciplina normativa.
Tale obiettivo è da realizzare attraverso la salvaguardia ed il miglioramento
delle condizioni dell’ambiente e l’utilizzazione accorta e razionale delle
risorse naturali.
Il Testo Unico Ambientale (TUA D.Lgs. 152/06), costituito da 318 articoli e 45
allegati, è suddiviso in diverse sezioni tematiche, che indichiamo di seguito:
Parte I: Disposizioni comuni e principi generali
Parte II: VAS, VIA, AIA
Parte III: Difesa del suolo, tutela delle acque, gestione delle risorse idriche
Parte IV: Gestione dei rifiuti, bonifica dei siti inquinati
Parte V: Tutela dell’aria, riduzione delle emissioni in atmosfera
Parte V-bis: Disposizioni per particolari installazioni
Parte VI: Danni all’ambiente
Parte VI-bis: Ecoreati
A partire dalla data della sua pubblicazione, in G.U. Serie Generale n. 88 del
14-04-2006 – e successivamente alla sua entrata in vigore il 29/4/2006 – sul TUA
sono intervenute numerose modifiche; gli interventi hanno riguardato in
particolare le parti II, IV e V, e sono state inserite due ulteriori parti, la
V-bis e la VI-bis.
Quest’ultima parte aggiunta in seguito alla emanazione della Legge n. 68/2015 in
materia di ecoreati.
VIA, VAS, IPPC: valutazioni ambientali integrate
VIA, VAS, IPPC. Quando si parla di ambiente, soprattutto nei casi in cui gli
amministratori pubblici sono chiamati ad effettuare scelte che incidono sulla
gestione del territorio, è inevitabile imbattersi in questi acronimi, i cui
significati sono ormai noti:
Si tratta del processo che comprende, secondo le disposizioni di cui al titolo
II della seconda parte del decreto, lo svolgimento di una verifica di
assoggettabilità, l'elaborazione del rapporto ambientale, lo svolgimento di
consultazioni, la valutazione del piano o del programma, del rapporto e degli
esiti delle consultazioni, l'espressione di un parere motivato, l'informazione
sulla decisione ed il monitoraggio
Che cosa si intende per VIA In base al Codice ambiente?
La valutazione di impatto ambientale (VIA) è un procedimento diretto ad
accertare la compatibilità ambientale di specifici progetti ed è quindi
successiva, logicamente, alla VAS quando il progetto in esame sia inserito in un
ambito pianificatorio o programmatorio.
è un provvedimento che mira a verificare la compatibilità ambientale di una
determinata attività ed è quindi successiva, logicamente, rispetto alla VIA
quando l'attività in questione sia svolta attraverso un'opera soggetta ad essa.
Si tratta di attività amministrative complesse, caratterizzate da un elevato
grado di interdisciplinarietà e da contenuti tecnici di carattere
specialistico.
per il trasporto dei rifiuti
Ai sensi dell'art. 247 del Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 "Norme in
materia ambientale" e ss.mm.ii., nel caso in cui il sito inquinato sia soggetto
a sequestro, l'autorità giudiziaria che lo ha disposto può autorizzare l'accesso
al sito tranne che per l'esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, su
cui non ha potere di autorizzare l'accesso al sito per l'esecuzione degli
interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale delle aree,
anche al fine di impedire l'ulteriore propagazione degli inquinanti ed il
conseguente peggioramento della situazione ambientale
la pace,
i valori e il benessere dei suoi popoli
La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea è composta da 54 articoli
che: Assicurano i
diritti e le libertà dei cittadini europei, suddivisi in sei voci: dignità,
libertà, uguaglianza, solidarietà, diritti dei cittadini, giustizia
Come è composto il Parlamento europeo?
Eletto direttamente, è composto da 705 deputati, che rappresentano tutti i paesi
dell'UE. Il Parlamento approva le leggi dell'UE, compreso il bilancio a lungo
termine, insieme al Consiglio dell'Unione europea (i governi degli Stati
membri).
Che cosa fa la Commissione europea e da chi è composta?
La Commissione europea rappresenta e tutela, in piena indipendenza, gli
interessi generali dell'Unione. Viene nominata ogni cinque anni entro sei mesi
dalle elezioni del Parlamento europeo ed è attualmente composta da 27 commissari
sotto la direzione di un presidente che assegna le diverse competenze politiche.
Chi nomina i membri della Commissione europea?
Si tratta di un'istituzione dell'UE che opera come organo collegiale composto da
27 membri, uno per ciascun paese dell'UE. I membri sono scelti dal rispettivo
governo nazionale e nominati (per un mandato rinnovabile di 5 anni)
dal Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo.
Il Presidente della Commissione europea è eletto dal Parlamento Europeo su
proposta del Consiglio Europeo
Che differenza c'è tra Commissione e Parlamento europeo?
Di regola, è compito della Commissione proporre le nuove norme, mentre spetta al
Parlamento e al Consiglio adottarle. Compito della Commissione è anche quello di
controllare la corretta applicazione delle norme da parte degli Stati membri.
Quali sono le tre sedi del Parlamento europeo?
il Parlamento europeo (Bruxelles / Strasburgo / Lussemburgo)
il Consiglio europeo (Bruxelles)
il Consiglio dell'Unione europea (Bruxelles / Lussemburgo)
la Commissione europea (Bruxelles/Lussemburgo/Rappresentanze in tutta l'UE).
Che differenza c'è tra il Consiglio europeo e il Consiglio dell'Unione europea?
Qual è la differenza tra consiglio europeo e consiglio dell'Unione europea. Sono
entrambi organi intergovernativi ma svolgono funzioni differenti: il consiglio
europeo definisce priorità e strategie, mentre il consiglio dell'Ue esercita una
funzione legislativa e di bilancio.
Come è composto il Consiglio europeo?
Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo di tutti i paesi
dell'UE, dal presidente del Consiglio europeo e dal presidente della Commissione
europea. È convocato e presieduto dal suo presidente, eletto dal Consiglio
europeo stesso per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una volta.
Chi rappresenta il Consiglio dell'Unione europea?
Il Consiglio dell'Unione è l'istituzione che rappresenta i governi degli Stati
membri ed è composto da un ministro competente per Stato membro, a seconda della
materia trattata. Ad esempio, i ministri dell'Agricoltura compongono il
Consiglio che delibera in materia di politica agricola comune.
Chi presiede il Coreper?
Il COREPER è composto da un rappresentante per ciascuno stato membro dell'Unione
europea ed è presieduto dal rappresentante dello Stato membro che detiene la
presidenza semestrale del Consiglio dell'Unione europea.
Cosa fa il Coreper? Il Coreper svolge un ruolo cardine nel processo decisionale
dell'Unione. Esso coordina e prepara i lavori di tutte le riunioni del Consiglio
e tenta di trovare, al proprio livello, un accordo che sarà successivamente
presentato per l'adozione da parte del Consiglio.
Che differenza c'è tra la Corte di giustizia dell'Unione Europea è la Corte
europea dei diritti dell'uomo?
Contrariamente alla CGUE, la Corte europea dei diritti umani (CEDU) non fa parte
dell'Unione Europea, bensì è un organo giurisdizionale istituito dal Consiglio
d'Europa, a cui aderiscono tutti i suoi 47 membri.
Chi compone la Corte di giustizia Europea?
La Corte di giustizia si riunisce in seduta plenaria con 27 giudici, in grande
sezione con 15 giudici o in sezioni di tre o cinque giudici. L'istituzione è
finanziata dal bilancio dell'UE, in cui dispone di una propria sezione (Sezione
IV).
La Corte di giustizia dell’Unione Europea è un’istituzione dell’Unione europea;
ha sede a Lussemburgo e si compone di un giudice per ogni Stato membro dell’UE e
otto avvocati generali. I membri della corte sono in carica per sei anni
rinnovabili.
La Corte di giustizia (per brevità, CGCE), istituita nel 1952 dal trattato CECA
(Comunità europea del carbone e dell’acciaio), non va confusa né con la Corte
Internazionale di Giustizia dell’Aia (che dipende dall’ONU), né con la Corte
europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (parte del Consiglio d’Europa).
La sua funzione è di garantire che la legislazione dell’UE sia interpretata e
applicata in modo uniforme in tutti i paesi dell’Unione; in altre parole, la
Corte ha il compito di garantire l’osservanza del diritto nell’interpretazione e
nell’applicazione dei trattati istitutivi dell’Unione europea e
nell’interpretazione e nell’applicazione della Costituzione europea. Essa
vigila, dunque, affinché gli Stati membri e le istituzioni agiscano
conformemente alla legge e ha il potere di giudicare le controversie tra Stati
membri, istituzioni comunitarie, imprese e privati cittadini.
Il Comitato europeo delle regioni (CdR) è un organo consultivo dell'UE composto
da rappresentanti eletti a livello locale e regionale provenienti da tutti i 27
Stati membri. Attraverso il CdR essi possono scambiarsi pareri sulle norme
dell'UE che incidono direttamente sulle regioni e sulle città.
Che cosa rappresentano i 329 membri del Comitato delle Regioni?
Il Comitato delle regioni è composto da 329 membri che rappresentano gli enti
regionali e locali dei 27 Stati membri dell'Unione europea.
Qual è la funzione del Comitato delle Regioni dell'Unione europea?
Il Comitato europeo delle regioni (CdR) è la voce delle
regioni e delle città nell'Unione europea (UE). Esso rappresenta gli enti locali
e regionali di tutta l'Unione europea e fornisce consulenze in merito a nuove
leggi che hanno un impatto sulle regioni e sulle città (il 70 % di tutta la
legislazione dell'UE).
Il comitato aziendale europeo, in breve CAE, è un organismo rappresentante dei
lavoratori, previsto dalla direttiva europea 94/45/CE, al fine dell'informazione
e la consultazione transnazionale dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di
dimensioni comunitarie.
Quanti sono i membri del CESE? Il Comitato economico e sociale europeo (CESE) è
un organo consultivo dell'Unione europea, ha sede a Bruxelles ed è composto
da 329 membri. La sua consultazione da parte della Commissione, del Consiglio o
del Parlamento è obbligatoria nei casi previsti dai trattati e facoltativa negli
altri casi.
SINTESI DI eur-lex.europa.eu:
Diritto primario dell’Unione europea
COS’È IL DIRITTO PRIMARIO?
È il diritto supremo dell’Unione europea (Unione). Deriva principalmente dai
trattati istitutivi, in particolare il trattato di Roma, che si è evoluto
nel trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e il trattato di Maastricht,
anche denominato trattato sull’Unione europea.
Il diritto primario definisce la ripartizione delle competenze, tra l’Unione e
gli Stati membri dell’Unione. Indica il contesto del diritto entro il quale
le istituzioni dell’Unione formulano e attuano le politiche.
Il diritto primario, detto anche fonte primaria, è derivato dai trattati dell’UE
e in particolare:
1)trattati istitutivi;
2)trattati modificativi;
3)trattati di adesione;
4)protocolli allegati a tali trattati;
5)trattati complementari, che apportano modifiche settoriali ai trattati
istitutivi;
6)la Carta dei diritti fondamentali (dal trattato di Lisbona).
I trattati istitutivi sono:
il trattato di Parigi che istituisce la Comunità europea del carbone e
dell’acciaio (1951);
il trattato di Roma che istituisce la Comunità economica europea ed Euratom
(1957);
il trattato Euratom (1957);
il trattato di Maastricht (1992).
I trattati modificativi sono:
l’Atto unico europeo (1986);
il trattato di Amsterdam (1997);
il trattato di Nizza (2001);
il trattato di Lisbona (2007).
I trattati di adesione riguardano i seguenti Stati membri:
Danimarca, Irlanda e Regno Unito (1972);
Grecia (1979);
Spagna, Portogallo (1985);
Austria, Finlandia, Svezia (1994);
Repubblica ceca, Cipro, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia,
Slovacchia, Slovenia (2003);
Romania, Bulgaria (2005);
Croazia (2012).
I trattati complementari sono:
il trattato di Bruxelles (trattato di fusione) (1965);
il trattato che modifica talune disposizioni finanziarie dei trattati
comunitari (1970);
il trattato che modifica talune disposizioni finanziarie dei trattati che
istituiscono le Comunità europee e del trattato che istituisce un Consiglio
unico ed una Commissione unica delle Comunità europee (1975);
l’atto relativo all’elezione dei rappresentanti del Parlamento europeo a
suffragio universale diretto (1976).
Ambito di applicazione del diritto primario
Geografico: gli Stati membri; le regioni ultraperiferiche dell’Unione.
Temporale: dall’entrata in vigore del trattato.
Oltre al diritto primario, il diritto dell’Unione si basa sul diritto derivato e
sulle fonti di diritto complementare.
Le fonti derivate comprendono cinque tipi di atti giuridici:
regolamenti, direttive, decisioni, pareri e raccomandazioni.
Le fonti complementari comprendono la giurisprudenza della Corte di giustizia
dell’Unione (CGUE) e i principi giuridici generali.
Anche gli accordi internazionali con paesi terzi o con organizzazioni
internazionali sono parte integrante del diritto dell’Unione. Tali accordi sono
separati dal diritto primario e dal diritto derivato e formano una categoria sui
generis, ossia una categoria unica nel suo genere. Secondo la sentenza della
CGUE nel caso Demirel v Stadt Schwäbisch Gmünd gli accordi internazionali
possono avere effetto diretto e la loro forza legale è superiore alla
legislazione secondaria, dunque, vanno rispettati. Un accordo internazionale è
direttamente applicabile se contiene un obbligo chiaro e preciso che non è
soggetto all’adozione di una misura successiva.
DOCUMENTO PRINCIPALE
Versione consolidata del trattato sull’Unione europea e del trattato sul
funzionamento dell’Unione europea
— Versione consolidata del trattato sull’Unione europea
— Versione consolidata del trattato sul funzionamento dell’Unione europea
— Protocolli
— Allegati del trattato sul funzionamento dell’Unione europea
— Dichiarazioni allegate all’atto finale della conferenza intergovernativa che
ha adottato il trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007
— Tavole di corrispondenza (GU C 202 del 7.6.2016, pag. 1).
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il trattato sul funzionamento dell'Unione europea (in acronimo TFUE), da ultimo
modificato dall'articolo 2 del trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e
ratificato dall'Italia con legge 2 agosto 2008, n. 130, su G.U. n. 185 dell'8
agosto 2008 - Suppl. ordinario n. 188, è, accanto al trattato sull'Unione
europea (TUE), uno dei trattati fondamentali dell'Unione europea (UE). Assieme
costituiscono le basi fondamentali del diritto primario nel sistema
politico dell'UE; secondo l'articolo 1 del TFUE, i due trattati hanno pari
valore giuridico e vengono definiti nel loro insieme come "i trattati".
Saltuariamente vengono pertanto anche indicati come "diritto
costituzionale europeo", tuttavia formalmente sono trattati internazionali tra
gli Stati membri dell'UE.
Descrizione
Il TFUE risale al trattato sulla fondazione della Comunità economica europea,
stipulato a Roma nel 1957; questo trattato e il trattato Euratom sono conosciuti
come i Trattati di Roma. Il trattato della CEE è stato da allora più volte
modificato, in particolar modo con il trattato di Fusione del 1965, con l'Atto
Unico Europeo del 1986, col trattato di Maastricht del 1992, col trattato di
Amsterdam del 1997, col trattato di Nizza del 2001 e col trattato di
Lisbona del 2007. Col trattato di Maastricht il trattato della CEE fu chiamato
"Trattato per la Fondazione dell'Unione europea"; ha ottenuto il suo nome
attuale con l'entrata in vigore del trattato di Lisbona il 1º dicembre 2009. Il
cambiamento del nome è giustificato dal fatto che col trattato di Lisbona è
stata sancita la fine della Comunità europea e tutte le sue funzioni sono state
assunte dall'UE.
Mentre quindi in passato il trattato dell'Unione Europea e il trattato della
Comunità Europea si riferivano a due istituzioni diverse, sebbene collegate sul
piano istituzionale, l'odierno TFUE svolge una funzione di completamento e, come
è scritto nel trattato stesso (art. 1, comma 1) una concretizzazione dei
principi espressi nel TUE. Il TUE contiene infatti soprattutto i principi
istituzionali. Il TFUE, invece, è composto da ben 358 articoli; in particolare
spiega in modo più dettagliato il funzionamento degli organi dell'UE e
stabilisce in modo molto puntuale in quali ambiti l'UE è attiva e con quali
competenze. Il tentativo di fusione del TUE con il TFUE, che in un primo momento
era stato pianificato in modo da dare all'UE una costituzione, fallì nel 2005
con gli esiti negativi dei referendum in Francia e nei Paesi Bassi.
Il TFUE è redatto nelle 23 lingue ufficiali dell'Unione Europea ed è in ogni sua
versione linguistica giuridicamente vincolante.
Struttura
Il TFUE è costituito da un preambolo e da 358 articoli, raccolti in sette parti;
questi possono essere composti a loro volta da diversi titoli, capitoli e
paragrafi. Le parti sono denominate nel seguente modo:
parte I: principi;
parte II: non discriminazione e cittadinanza dell'Unione;
parte III: politiche e azioni interne dell'Unione;
parte IV: associazione dei Paesi e territori d'oltremare;
parte V: azione esterna dell'Unione;
parte VI: disposizioni istituzionali e finanziarie;
parte VII: disposizioni generali e finali.
Contenuti
Il preambolo del TFUE risale essenzialmente al trattato della CEE; pertanto,
contiene soprattutto deliberazioni politiche in materia economica, come il
"progresso economico e sociale" o il "miglioramento delle condizioni di vita e
di occupazione". È nota la formulazione dell'obiettivo citato nella prima parte
del trattato, "le fondamenta di un'unione sempre più stretta tra i popoli
europei", che è stata ripresa in forma simile anche nel TUE. Non risponde alla
domanda sulla finalità dell'UE, ma chiarisce il fine di un ulteriore processo
d'integrazione europea.
L'art. 1 del TFUE spiega la funzione del trattato, ossia quella di regolare il
funzionamento dell'Unione europea e di determinare " i settori, la delimitazione
e le modalità d'esercizio delle sue competenze". In seguito, vengono spiegate le
diverse forme di competenze che l'UE può avere in base al settore politico (art.
2): queste sono suddivise in competenze esclusive e competenze condivise. Mentre
nei settori politici con competenza esclusiva solo l'UE può intervenire, nei
settori politici con competenza condivisa possono emanare leggi anche i singoli
Stati, purché tali leggi non siano in contraddizione con nessun regolamento
europeo. Inoltre, vengono elencate altre forme nelle quali l'UE può intervenire:
nella politica economica e di occupazione assume funzioni di coordinamento,
nella politica estera elabora e realizza politiche comuni degli Stati membri.
Anche in altri determinati settori prende misure di sostegno, di coordinamento o
di completamento; tuttavia, in tali settori non può limitare la possibilità
degli Stati membri di emanare leggi proprie.
Gli articoli 3, 4 e 6 elencano rispettivamente i settori politici nei quali l'UE
possiede competenza esclusiva, condivisa o di coordinamento, l'art. 5 si occupa
del coordinamento della politica economica. Questo "catalogo delle competenze" è
stato introdotto solo con il trattato di Lisbona per andare incontro alla
domanda di più trasparenza sulle competenze dell'UE. Ciononostante, talvolta il
catalogo non è specifico; in più casi accade che gli esatti limiti di competenza
relativi a un settore politico vengano regolati in articoli successivi del
trattato.
Nel resto della prima parte si fa menzione di diversi compiti trasversali che
l'UE deve tenere in considerazione in tutte le sue attività. Tra questi ci sono
il principio di coerenza (art. 7 TFUE), la parità tra uomini e donne (art. 8
TFUE), l'alto livello di occupazione, la lotta contro l'esclusione sociale, il
livello alto d'istruzione e di tutela della salute umana (art. 9 TFUE), la lotta
contro le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la
religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento
sessuale (art. 10 TFUE), la tutela dell'ambiente (art. 11 TFUE), il rispetto
degli animali in quanto esseri senzienti (art. 13 TFUE).
L’obiettivo dell’articolo 101 del trattato è garantire che le imprese non
utilizzino gli accordi, siano essi orizzontali o verticali, per impedire,
restringere o falsare il gioco della concorrenza sul mercato a scapito dei
consumatori. L’articolo 101 del trattato persegue anche l’obiettivo più ampio
della realizzazione di un mercato interno integrato, che promuova la concorrenza
nell’Unione. Le imprese non possono utilizzare gli accordi verticali per
ricostituire barriere di natura privata fra gli Stati membri, là dove le
barriere statali sono state abolite.
Il TFUE stabilisce, all'articolo 126, il divieto per gli stati membri
di disavanzi pubblici eccessivi. Come specificato dal regolamento 1467/97
dell'UE, il rapporto tra debito pubblico e PIL dev'essere inferiore al 60%,
mentre quello fra deficit pubblico e PIL al 3%. Tali parametri quantitativi
devono essere quindi rispettati da ciascuno stato membro nel quadro del diritto
dell'UE.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Fondazione
CEE: trattato di Roma, 25 marzo 1957
UE: trattato di Maastricht, 7 febbraio 1992
Scopo
esercizio di parte della sovranità nazionale degli Stati membri in numerosi
campi
Sedi istituzionali Bruxelles: Commissione europea, Consiglio europeo, Consiglio
dell'Unione europea, Parlamento europeo
(sede secondaria) Lussemburgo: Corte di giustizia dell'Unione europea, Tribunale
dell'Unione europea, Segretariato generale del Parlamento europeo, Corte dei
conti europea
Strasburgo: Parlamento europeo (sede principale)
Francoforte sul Meno: Banca centrale europea
Area di azione: Europa
Presidente della Commissione Ursula von der Leyen
Presidente del Parlamento Roberta Metsola
Presidente del Consiglio europeo Charles Michel
Alto rappresentante per gli Affari Esteri Josep Borrell
Presidenza del Consiglio dell'UE Alexander De Croo
Lingua ufficiale 24 lingue
Membri27 (2020)
Motto: Unita nella diversità
Inno: Inno alla gioia di Beethoven
Festa dell'Unione: 9 maggio
Membri27: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia,
Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi
Bassi, Polonia,
Portogallo, Repubblica
Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria
Candidati Ufficiali: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Macedonia del
Nord, Moldavia,
Montenegro, Serbia, Turchia, Ucraina
Candidati Potenziali: Kosovo
Ex membri: Regno Unito (1973-2020)
Statistiche complessive
Superficie 4 233 262 km²
Popolazione 446 834 578 ab.
Densità 105,5 ab./km²
Fusi orari UTC/+1/+2 (regioni periferiche: -4 e +4)
Valute Euro (€) (EUR) in 20 Paesi
Altre valute: Corona ceca (CZK), Corona danese (DKK), Corona
svedese (SEK), Fiorino ungherese (HUF), Lev bulgaro (BGN), Leu
romeno (RON), Złoty (PLN)
PIL 15 810 mld € (2022)
PIL procapite 35 220 €ISU 0,896
L'Unione europea, abbreviata in UE (pronuncia /ˈue/;), è un'unione politica ed
economica a carattere sovranazionale, che comprende 27 Stati membri.
Nata come Comunità economica europea con il trattato di Roma del 25 marzo 1957,
nel corso di un lungo processo di integrazione, con l'adesione di nuovi Stati
membri e la firma di numerosi trattati modificativi, tra cui il trattato di
Maastricht del 1992, ha assunto la struttura attuale con il trattato di
Lisbona del 2007.
Dotata di un proprio ordinamento giuridico, distinto dal comune diritto
internazionale e integrato nel diritto interno degli Stati membri, la sua
architettura istituzionale e le sue competenze la rendono per certi aspetti
simile a uno Stato federale, per altri a una confederazione di Stati, ragion per
cui è spesso indicata in dottrina come organizzazione sui generis, di natura
diversa sia dal diritto costituzionale statale, sia dal classico diritto
internazionale interstatale. Costituisce, infatti, un'unione sovranazionale,
nella quale, cioè, il diritto comunitario è direttamente applicabile nel
territorio dei singoli Stati membri (alla stregua del diritto interno),
distinguendosi in questo modo da qualsiasi organizzazione internazionale. Il
bilancio dell'Unione, inoltre, non è finanziato da contributi degli Stati
membri, come nel caso delle organizzazioni internazionali, ma da risorse fiscali
proprie.
Fra i suoi scopi formalmente dichiarati (art. 3 TUE) vi sono l'incremento del
benessere dei suoi cittadini, la creazione di un'economia di
mercato «fortemente competitiva» con stabilità dei prezzi e piena occupazione,
la realizzazione dei valori di libertà, sicurezza e giustizia «senza frontiere
interne», la lotta contro l'esclusione sociale e la discriminazione, il
rafforzamento della coesione economica, sociale e territoriale e della
solidarietà tra gli Stati membri, la promozione della pace, del progresso
scientifico e tecnologico, la difesa dell'ambiente, il rispetto per la diversità
culturale e linguistica dell'Europa.
I valori fondamentali dell'Unione Europea (art. 2 TUE) sono vincolanti per tutti
i paesi che ne fanno parte e sono passibili di sanzioni in base all'art. 7 dello
stesso trattato.
L'Unione esercita competenze normative in materie quali, a titolo
esemplificativo: concorrenza, commercio, trasporti, energia, agricoltura, pesca,
ambiente, protezione dei consumatori, occupazione e affari sociali, giustizia e
diritti fondamentali, migrazioni e affari interni; esercita funzioni di
coordinamento delle politiche economiche e occupazionali degli Stati membri
(nell'ambito del cosiddetto semestre europeo), promuove la cooperazione in
materia di politica estera e di sicurezza, e attraverso la “clausola di
flessibilità” (art. 352 TFUE) può intraprendere azioni al di fuori delle sue
normali aree di responsabilità; garantisce la libera circolazione
di merci, servizi e capitali all'interno del suo territorio attraverso
il mercato europeo comune (senza dazi doganali all'interno), costruito a partire
dal 1957 con i Trattati di Roma, e dispone di una propria cittadinanza.
Le decisioni di unione economica e monetaria dell'Unione europea hanno portato
nel 2002 all'introduzione di una moneta unica, l'euro, adottata da 20 su 27
Stati dell'Unione, che formano la cosiddetta eurozona, con una politica
monetaria comune governata dalla Banca centrale europea (BCE).
Il 12 ottobre 2012 è stata insignita del premio Nobel per la pace, con la
seguente motivazione: «Per oltre sei decenni ha contribuito all'avanzamento
della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti
umani in Europa».
La costituzione di entità statali o parastatali che comprendessero l'intero
territorio europeo può essere fatta risalire a periodi storici ben antecedenti
rispetto alla fondazione dell'UE. Il primo organismo di tale genere fu l'Impero
Romano, che tuttavia non condivideva la medesima estensione geografica
dell'Unione essendo incentrato sul mar Mediterraneo; inoltre, le conquiste
territoriali romane dipendevano dalla potenza militare dell'Impero, e le
province annesse dovevano sottostare a un'amministrazione statale fortemente
centralizzata.
Durante i secoli successivi alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente nel 476,
diversi Stati europei si considerarono il translatio imperii ("trasferimento del
potere") del defunto Impero Romano: il Regno franco di Carlo Magno] (481-843) e
il Sacro Romano Impero (962-1806, una struttura meno omogenea, che era
caratterizzata da un'amministrazione decentrata) furono molto tentati di far
risorgere Roma in Occidente. Questa filosofia politica di una regola
sovranazionale sul continente, simile all'esempio dell'antico Impero Romano,
portò nel primo Medioevo al concetto di rinnovazione dell'impero (Renovatio
Imperii) o nelle forme del Reichsidee ("idea imperiale") o dell'Imperium
Christianum ("Impero cristiano") di ispirazione
religiosa. La cristianità medievale e il potere politico del Papato sono spesso
citati come favorevoli all'integrazione e all'unità europea.
Nelle parti orientali del continente, il Regno russo, e in definitiva l'Impero
russo (1547-1917), dichiararono Mosca come Terza Roma ed erede della tradizione
orientale dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453. Il divario tra Oriente
greco e Occidente latino era già stato ampliato dalla scissione politica
dell'Impero Romano nel IV secolo e il Grande Scisma del 1054; e alla fine
sarebbe stato nuovamente ampliato dalla cortina di ferro (1945-1991).
Il pensiero politico paneuropeo emerse veramente durante il diciannovesimo
secolo, ispirato alle idee liberali delle rivoluzioni francese e americana dopo
la fine dell'Impero di Napoleone (1804-1815). Il Congresso di Vienna si riunì
dal 1814 al 1815. L'obiettivo del Congresso era di risolvere le molte questioni
derivanti dalle guerre rivoluzionarie francesi, dalle guerre napoleoniche e
dallo scioglimento del Sacro Romano Impero.
Nei decenni successivi agli esiti del Congresso di Vienna, gli ideali dell'unità
europea fiorirono in tutto il continente, in particolare negli scritti
di Wojciech Jastrzębowski, Giuseppe Mazzini o Théodore de Korwin Szymanowski Il
termine "Stati Uniti d'Europa" fu usato a quel tempo da Victor Hugo durante un
discorso al Congresso internazionale per la pace tenutosi a Parigi nel 1849:
«Verrà un giorno in cui tutte le nazioni del nostro continente formeranno una
fratellanza europea... Verrà un giorno in cui dovremo vedere... Gli Stati Uniti
d'America e gli Stati Uniti d'Europa faccia a faccia, allungarsi tra di loro
attraverso il mare»
A ogni modo, l'idea cominciò a prendere fortemente piede solamente dopo le
due guerre mondiali, guidata dalla determinazione a completare rapidamente la
ricostruzione dell'Europa ed eliminare l'eventualità di nuovi, futuri conflitti
fra le sue nazioni. Esemplare in tal senso fu il Manifesto di Ventotene, redatto
al confino da Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Altiero Spinelli nel 1941 e
pubblicato nel 1944. Durante il periodo interbellico, la consapevolezza che i
mercati nazionali in Europa erano interdipendenti sebbene conflittuali, insieme
all'osservazione di un mercato americano più ampio e in crescita dall'altra
parte dell'oceano, alimentò la spinta per l'integrazione economica del
continente. Una delle prime proposte di riunificazione pacifica del continente
sotto l'egida di un'unica istituzione sovranazionale fu avanzata dal
pacifista Victor Hugo. Nel 1920, sostenendo la creazione di un'unione economica
europea, l'economista britannico John Maynard Keynes scrisse che doveva essere
istituita un'Unione di libero scambio... per non imporre tariffe
protezionistiche contro i prodotti di altri membri dell'Unione. Nello stesso
decennio, Richard von Coudenhove-Kalergi, uno dei primi a immaginare una moderna
unione politica europea, fondò l'Unione Paneuropea. Le sue idee influenzarono i
suoi contemporanei, tra cui l'allora primo ministro francese Aristide Briand.
Nel 1929, quest'ultimo tenne un discorso a favore di un'Unione europea prima
dell'assemblea della Società delle Nazioni, precursore delle Nazioni Unite. In
un discorso radiofonico nel marzo del 1943, con la guerra ancora in corso, il
leader britannico Winston Churchill parlò calorosamente di "ripristinare la vera
grandezza dell'Europa" una volta raggiunta la vittoria, e rifletté sulla
creazione postbellica di un "Consiglio d'Europa" che avrebbe riunito le nazioni
europee per costruire la pace.
Dopo la Seconda guerra mondiale, l'integrazione europea apparve come un antidoto
ai nazionalismi estremi che avevano precedentemente devastato il continente. In
un discorso tenuto il 19 settembre 1946 presso l'Università di Zurigo, in
Svizzera, Churchill andò oltre e sostenne la nascita degli Stati Uniti
d'Europa. Il Congresso dell'Aia del 1948 fu un momento cruciale della storia
federale europea, poiché portò alla creazione del Movimento Europeo
Internazionale e del Collegio d'Europa, dove i futuri leader europei avrebbero
vissuto e studiato insieme.
Ha anche portato direttamente alla fondazione del Consiglio d'Europa nel 1949,
il primo grande sforzo per riunire le nazioni d'Europa, inizialmente dieci. Il
Consiglio si concentrò principalmente sui valori umani e democratici, piuttosto
che su questioni economiche o commerciali, ed è stato sempre considerato un
forum in cui i governi sovrani potevano scegliere di lavorare insieme, senza
autorità sovranazionale. Suscitò grandi speranze di un'ulteriore integrazione
europea e nei due anni successivi si susseguirono dibattiti su come raggiungere
questo obiettivo.
Ma nel 1951, deluse dalla mancanza di progressi in seno al Consiglio d'Europa,
sei nazioni (Italia, Francia, Belgio, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi) a
Parigi decisero di andare oltre e crearono la Comunità europea del carbone e
dell'acciaio, in seguito ritenuta "un primo passo nella federazione
dell'Europa". Il trattato instaurò un mercato comune del carbone e dell'acciaio,
abolendo le barriere doganali e le restrizioni quantitative che frenavano la
libera circolazione di queste merci; soppresse nello stesso modo tutte le misure
discriminatorie, aiuti o sovvenzioni che erano accordati dai vari Stati alla
propria produzione nazionale. Il principio di libera concorrenza permetteva il
mantenimento dei prezzi più bassi possibili, pur garantendo agli Stati il
controllo sugli approvvigionamenti. Questa comunità aiutò a integrare e
coordinare il gran numero di fondi del Piano Marshall dagli Stati Uniti. I
leader europei Alcide De Gasperi dall'Italia, Jean Monnet e Robert Schuman dalla
Francia e Paul-Henri Spaak dal Belgio capirono che il carbone e l'acciaio erano
le due industrie essenziali per la guerra, e credevano che legando insieme le
loro industrie nazionali, la futura guerra tra le loro nazioni sarebbe diventata
molto meno probabile. Questi uomini sono tra quelli ufficialmente accreditati
come padri fondatori dell'Unione europea.
La prima unione doganale fra Paesi europei, la cosiddetta Comunità economica
europea, CEE, fu istituita mediante il Trattato di Roma del 1957 firmato da
Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania occidentale. I sei
Paesi firmarono anche un altro patto che istituiva la Comunità europea
dell'energia atomica (Euratom) per la cooperazione nello sviluppo dell'energia
nucleare. Entrambi i trattati sono entrati in vigore nel 1958. Le comunità
europee, CEE, EURATOM e CECA, andranno poi a costituire in futuro uno dei tre
pilastri dell'Unione europea. Negli anni la cooperazione si è evoluta e
rafforzata con vari trattati comunitari e intese esterne alla comunità che
confluiranno nell'Unione europea. Nel 1965 le attività delle tre comunità si
unirono sotto un'unica guida con l'istituzione del consiglio unico e della
commissione unica delle comunità europee tramite il trattato di fusione.
La CEE e l'Euratom furono create separatamente dalla CECA e condividevano gli
stessi tribunali e l'Assemblea comune. La CEE era guidata da Walter
Hallstein (Commissione Hallstein I) e Euratom era diretta da Louis
Armand (Commissione Armand) e quindi da Étienne Hirsch. L'Euratom doveva
integrare i settori dell'energia nucleare mentre la CEE doveva sviluppare
un'unione doganale tra i membri.
Durante gli anni 1960, iniziarono a manifestarsi tensioni, con la Francia che
cercava di limitare il potere sovranazionale. Tuttavia, nel 1965 fu raggiunto un
accordo e il 1º luglio 1967 il Trattato di fusione creò un unico insieme di
istituzioni per le tre comunità, che vennero collettivamente denominate Comunità
europee. Jean Rey ha presieduto la prima Commissione riunita (Commissione Rey).
Nel 1973, le Comunità furono ampliate per includere la Danimarca (compresa
la Groenlandia che, nel 1985, lasciò le Comunità per effetto del referendum del
1982, dopo una disputa sui diritti di pesca), l'Irlanda e il Regno Unito. La
Norvegia aveva negoziato di aderire allo stesso tempo, ma gli elettori norvegesi
respinsero l'adesione tramite un referendum. Nel 1975, esternamente alla
comunità, venne creato il cosiddetto gruppo Trevi: un forum di alti funzionari
dei ministeri degli interni e della giustizia degli Stati membri. Sebbene non
rientrasse nell'apparato comunitario, il gruppo Trevi costituì il precedente del
terzo pilastro dell'Unione europea, "Giustizia e affari interni", creato con
il Trattato di Maastricht. Nel 1979 furono proclamate le prime elezioni
dirette democratiche del parlamento europeo a suffragio universale.
Nel 1981 si unì alla Comunità europea anche la Grecia e, nel
1986, Spagna e Portogallo. Nel 1985, l'accordo di Schengen spianò la strada alla
creazione di frontiere aperte senza controlli sui passaporti tra la maggior
parte degli Stati membri e alcuni Stati non membri. Nel 1986 la bandiera
europea cominciò a essere utilizzata dalla CEE e fu firmato l'Atto unico
europeo.
Nel 1990, dopo la caduta del blocco orientale, l'ex Germania Est divenne parte
delle Comunità come parte di una Germania riunificata.
L'Unione europea fu formalmente istituita quando il Trattato di Maastricht - i
cui principali artefici erano Helmut Kohl e François Mitterrand - entrò in
vigore il 1º novembre 1993, gettando le basi per una più solida integrazione,
dando vita alla Comunità europea. Il trattato conferì appunto il nome
di Comunità europea alla CEE, anche se era indicata come tale già da prima del
trattato. Con l'ulteriore ampliamento previsto per includere gli ex Stati
comunisti dell'Europa centrale e orientale, nonché Cipro e Malta, nel giugno
1993 sono stati concordati i criteri di Copenaghen per i membri candidati
all'adesione all'UE. L'espansione dell'UE ha introdotto un nuovo livello di
complessità. Si svilupparono nuove aree di politica europea, che si affiancarono
al primo "pilastro" delle Comunità europee, inaugurando la politica estera e di
sicurezza comune (secondo pilastro) e la cooperazione giudiziaria e di polizia
in materia penale (terzo pilastro). Furono inoltre gettate le basi dell'unione
economica e monetaria e della cittadinanza europea.
Nel 1995, Austria, Finlandia e Svezia hanno aderito all'UE. Ancora una volta
l'adesione della Norvegia viene respinta da un referendum.
Nel 2002, le banconote e le monete in euro hanno sostituito le valute nazionali
in 12 Stati membri. Attualmente, la zona euro comprende 20 Paesi. L'euro è
diventata la seconda valuta di riserva più grande al mondo. Nel 2004 l'UE ha
visto il suo più grande allargamento con l'ingresso
di Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica
Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria.
Il trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1º dicembre 2009, unificò i tre
pilastri che si erano solidificati negli ultimi 50 anni: la Comunità europea
(CE), la Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale (CGPP) e la
Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Si creò per la prima volta una
figura legale che rappresentasse l'Unione europea, il presidente del Consiglio
europeo e si rafforzò la posizione dell'alto rappresentante dell'Unione per gli
affari esteri e la politica di sicurezza. Col trattato di Lisbona vennero
aggiunte per la prima volta procedure di recesso dall'Unione europea, conosciute
come articolo 50, invocato solamente dal Regno Unito a seguito di un referendum
popolare (Brexit). Il 2007 è anche l'anno dell'adesione di Romania e Bulgaria, e
dell'adozione dell'euro da parte della Slovenia. In seguito, hanno scelto di
adottare l'euro Cipro e Malta nel 2008, la Slovacchia nel 2009, l'Estonia nel
2011, la Lettonia nel 2014, la Lituania nel 2015 e la Croazia nel 2023.
Nel 2012 l'Unione europea ricevette il premio Nobel per la pace per aver
contribuito per oltre 50 anni alla pace, la riconciliazione, la democrazia e ai
diritti umani in Europa. Nel 2013 continuò l'allargamento con l'adesione della
Croazia, raggiungendo il numero complessivo di 28 Stati
Dall'inizio degli anni 2010, la coesione dell'Unione europea è stata messa a
dura prova da diverse questioni, tra cui una crisi del debito in alcuni paesi
dell'Eurozona, la crisi dei migranti e l'uscita del Regno Unito dall'UE. Nel
2016 infatti si è tenuto un referendum nel Regno Unito sulla permanenza
nell'Unione europea, e il 51,9% dei cittadini ha votato per l'uscita. Dopo
alcuni mesi, il 29 marzo 2017, il Regno Unito notificò formalmente al Consiglio
europeo la sua decisione di lasciare l'UE, avviando la procedura formale di
ritiro. Il Regno Unito ha lasciato ufficialmente l'Unione europea il 31 gennaio
2020.
Evoluzione strutturale
La seguente sequenza temporale illustra l'integrazione che ha portato alla
formazione del presente sindacato, in termini di sviluppo strutturale guidato da
trattati internazionali:
Firma: In vigore:
Trattati:
1947 1947 Trattato di Dunkerque
1948 1948 Trattato di Bruxelles
1951 1952 Trattato di Parigi
1954 1955 Trattato di Bruxelles modificato
1957 1958 Trattati di Roma
1965 1967 Trattato di fusione
1975 Conclusione Consiglio europeo
1985 1985 Accordo di Schengen
1986 1987 Atto unico europeo
1992 1993 Trattato di Maastricht
1997 1999 Trattato di Amsterdam
2001 2003 Trattato di Nizza
2007 2009 Trattato di Lisbona
Attraverso successivi allargamenti, l'Unione europea è passata dai sei Stati
fondatori (Belgio, Francia, Germania occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi
Bassi) agli attuali 27. I Paesi aderiscono all'Unione diventando parte
dei trattati istitutivi, sottoponendosi quindi ai privilegi e agli obblighi
dell'adesione all'UE. Ciò comporta una delega parziale della sovranità alle
istituzioni in cambio della rappresentanza all'interno di tali istituzioni, una
pratica spesso definita come "messa in comune della sovranità".
Per diventare membro, un Paese deve soddisfare i criteri di Copenaghen, definiti
nella riunione del Consiglio europeo di Copenaghen del 1993. Ciò richiede una
democrazia stabile che rispetti i diritti umani e lo Stato di diritto;
un'economia di mercato funzionante; e l'accettazione degli obblighi di adesione,
incluso il diritto dell'UE. La valutazione del rispetto da parte di un Paese dei
criteri è di competenza del Consiglio europeo. L'articolo 50 del trattato di
Lisbona fornisce la base affinché un membro lasci l'Unione. Due territori hanno
lasciato l'Unione: la Groenlandia (una provincia autonoma della Danimarca) si è
ritirata nel 1985; il Regno Unito ha formalmente invocato l'articolo 50 del
trattato consolidato sull'Unione europea nel 2016 ed è diventato il primo Stato
sovrano a lasciare l'unione quando si è ritirato dall'UE nel 2020.
Ci sono otto Paesi che sono riconosciuti come candidati per
l'adesione: Albania, Macedonia del
Nord, Montenegro, Serbia, Turchia, Ucraina, Moldavia e Bosnia ed Erzegovina.
L'Islanda ritirò formalmente la domanda di adesione nel 2015, dopo aver sospeso
i negoziati nel 2013. Il Kosovo e la Georgia sono ufficialmente riconosciuti
come potenziali candidati
I quattro Paesi che formano l'Associazione europea di libero scambio (AELS) non
sono membri dell'UE, ma si sono parzialmente impegnati nell'economia e nei
regolamenti dell'UE: Islanda, Liechtenstein e Norvegia, che fanno parte
del mercato unico attraverso lo Spazio economico europeo e la Svizzera, che ha
legami simili attraverso i trattati bilaterali. Le relazioni tra i microstati
europei, Andorra, Monaco, San Marino e Città del Vaticano includono l'uso
dell'euro e altre aree di cooperazione.
Da marzo 2020 l'Unione europea conta 27 Stati membri:
Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi
assi, Polonia, Portogallo, Repubblica
Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria. L'Unione è
cresciuta da un nucleo di sei Paesi fondatori dell'allora Comunità economica
europea (segnati in grassetto nella tabella sottostante) e si è espansa
includendo progressivamente la maggioranza degli Stati sovrani europei fino ad
arrivare alla precedente configurazione, durata quasi 7 anni (dal 1º luglio 2013
al 31 gennaio 2020). A seguito della Brexit, il 31 gennaio 2020 a mezzanotte
(CET) il Regno Unito è uscito dall'Unione europea ed è equiparato a un Paese
terzo. Il periodo transitorio, il cui scopo era quello di offrire più tempo a
cittadini e imprese per adeguarsi alla nuova situazione, si è concluso il 31
dicembre 2020.
L'Unione europea contempla 24 lingue ufficiali: bulgaro, ceco, croato, danese,
estone, finlandese, francese, greco moderno, inglese, irlandese, italiano,
lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco,
sloveno, spagnolo, svedese, tedesco e ungherese. Documenti importanti, come la
legislazione, sono tradotti in ogni lingua ufficiale e il Parlamento europeo
fornisce la traduzione per i documenti e le sessioni plenarie.
A causa dell'elevato numero di idiomi ufficiali, la maggior parte delle
istituzioni utilizza solo una manciata di lingue di lavoro. La Commissione
europea svolge le sue attività interne in tre lingue procedurali: inglese,
francese e tedesco. Allo stesso modo, la Corte di giustizia europea usa il
francese come lingua di lavoro, mentre la Banca centrale europea svolge la sua
attività principalmente in inglese.
Anche se la politica linguistica è responsabilità degli Stati membri, le
istituzioni dell'UE promuovono il multilinguismo tra i suoi cittadini. L'inglese
è la lingua più parlata nell'UE, essendo compresa dal 40% della popolazione
dell'UE nel conteggio di nativi e non madrelingua. Il tedesco è la lingua madre
più parlata (il 18% della popolazione dell'UE). Più della metà (56%) dei
cittadini dell'UE è in grado di svolgere una conversazione in una lingua diversa
dalla propria lingua materna.
La maggior parte delle lingue ufficiali dell'UE appartiene alla famiglia
linguistica indoeuropea, rappresentata dai
rami balto-slave, italico, germanico, ellenico, e celtico. Alcune lingue
dell'UE, tuttavia, sono l'ungherese, il finlandese, l'estone (tutte e
tre uraliche), il basco (isolata) e il maltese (semitica), non appartengono alle
lingue indoeuropee. I tre alfabeti ufficiali dell'Unione europea sono:
cirillico, latino e greco moderno.
Oltre alle 24 lingue ufficiali, ci sono circa 150 lingue regionali e
minoritarie, parlate da oltre 50 milioni di persone. Il catalano, il galiziano e
il basco non sono lingue ufficiali riconosciute dell'Unione europea ma hanno uno
status semi-ufficiale: vengono effettuate le traduzioni ufficiali dei trattati e
i cittadini hanno il diritto di corrispondere con le istituzioni in queste
lingue. La Carta europea delle lingue regionali o minoritarie ratificata dalla
maggior parte degli Stati dell'UE fornisce linee guida generali che gli Stati
possono seguire per proteggere il loro patrimonio linguistico. La Giornata
europea delle lingue si tiene annualmente il 26 settembre e ha lo scopo di
incoraggiare
L'istruzione di base è un settore in cui il ruolo dell'UE è limitato al sostegno
dei governi nazionali. Nell'istruzione superiore, la politica è stata sviluppata
negli anni 1980 con programmi a sostegno degli scambi e della mobilità. Il più
visibile di questi è stato il Programma Erasmus, un programma di scambio
universitario iniziato nel 1987. Nei suoi primi venti anni, ha supportato
opportunità di scambio internazionale per oltre 1,5 milioni di studenti
universitari e divenne un simbolo della vita studentesca europea.
Il progetto Erasmus permette agli studenti universitari europei di svolgere un
periodo di studio legalmente riconosciuto dalla propria università all'interno
di un qualsiasi altro ateneo situato all'interno dell'Unione.
Il progetto fu creato per educare le future generazioni di cittadini all'idea di
appartenenza europea; dalla sua creazione si è giunti a mobilitare all'interno
dell'Unione europea oltre un milione di studenti. Attualmente 2 199 istituzioni
universitarie dei 31 Paesi che aderiscono al programma Socrates partecipano al
progetto Erasmus.
Per molti studenti universitari europei il programma Erasmus offre l'occasione
per vivere all'estero in maniera indipendente per la prima volta. Per questa
ragione è diventato una sorta di fenomeno culturale ed è molto popolare fra gli
studenti universitari europei. Il programma non incoraggia solamente
l'apprendimento e la comprensione della cultura ospitante, ma anche un senso di
comunità tra gli studenti appartenenti a Paesi diversi. L'esperienza
dell'Erasmus è considerata non solo un momento universitario ma anche
un'occasione per imparare a convivere con culture diverse.
Esistono programmi simili per gli alunni e gli insegnanti delle scuole, per i
tirocinanti nell'istruzione e formazione professionale e per gli studenti adulti
nel Programma di apprendimento permanente 2007-2013. Questi programmi sono
progettati per incoraggiare una più ampia conoscenza di altri Paesi e per
diffondere le buone pratiche nei settori dell'istruzione e della formazione in
tutta l'UE. Attraverso il suo sostegno al processo di Bologna, l'UE sostiene
standard comparabili e titoli compatibili in tutta Europa.
Lo sviluppo scientifico è facilitato dai programmi quadro dell'UE, il primo dei
quali è iniziato nel 1984. Gli obiettivi della politica dell'UE in questo
settore sono di coordinare e stimolare la ricerca. Il Consiglio europeo per la
ricerca indipendente stanzia fondi dell'UE per progetti di ricerca europei o
nazionali. I programmi quadro di ricerca e tecnologia dell'UE si occupano di una
serie di settori, ad esempio l'energia in cui l'obiettivo è sviluppare un mix
diversificato di energie rinnovabili per aiutare l'ambiente e ridurre la
dipendenza dai carburanti importati.
La libertà dei media è un diritto fondamentale che si applica a tutti gli Stati
membri dell'Unione europea e ai suoi cittadini, come definito nella Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea e nella Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Nell'ambito del
processo di allargamento dell'Unione europea, la garanzia della libertà dei
media è definita "un indicatore chiave della disponibilità di un Paese a
diventare parte dell'UE".
La maggior parte dei media nell'Unione europea è di orientamento nazionale.
Alcuni media su scala europea incentrati sugli affari europei sono emersi dai
primi anni 1990, come Euronews, EUobserver, EURACTIV o Politico Europe. ARTE è
una rete televisiva pubblica franco-tedesca che promuove la programmazione nei
settori della cultura e delle arti. L'80% della sua programmazione è fornita in
egual misura dalle due società associate, mentre il resto è fornito dal gruppo
europeo di interesse economico ARTE GEIE e dai partner europei del canale.
Il programma MEDIA dell'Unione europea sostiene l'industria cinematografica e
audiovisiva popolare europea dal 1991. Fornisce supporto per lo sviluppo, la
promozione e la distribuzione di opere europee in Europa e oltre.
La libertà dei media, compresa la libertà di stampa, è il principale diritto per
garantire la libertà di espressione e la libertà di informazione.
L'annuale Giornata mondiale della libertà di stampa si celebra il 3 maggio.
L'Unione europea è un'unione economica e politica e, per i 20 Paesi che
partecipano all'Eurozona e hanno adottato l'euro come valuta ufficiale, è anche
un'unione monetaria. Il suo nucleo originario è l'unione doganale e
l'organizzazione del mercato comune europeo che, a partire dal trattato di Roma
del 1957, si è gradualmente sviluppata in un mercato unico privo di ostacoli
regolativi alla libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e
dei capitali. La libertà di circolazione delle persone è stata ulteriormente
rafforzata attraverso l'istituzione della cittadinanza europea con il Trattato
di Maastricht e attraverso la creazione dell'area di Schengen, alla quale oggi
(2024) partecipano 27 Stati, di cui 23 Stati membri dell'UE.
Nonostante l'Unione europea abbia gradualmente acquisito numerose prerogative
tipiche di una federazione, con il progressivo trasferimento di poteri dagli
Stati membri ai suoi organi, essa si fonda ancora su trattati internazionali
ratificati dagli Stati. Si tratta di trattati che pongono obiettivi politici
generali e creano istituzioni dotate dei poteri necessari per il raggiungimento
di tali obiettivi. Tra i poteri attribuiti all'UE assume particolare rilievo la
capacità di adottare atti normativi vincolanti non solo per gli Stati membri, ma
anche per i loro cittadini, e direttamente applicabili sia dai giudici
nazionali, sia dalla pubblica amministrazione statale. Inoltre, l'UE
ha personalità giuridica internazionale e può concludere trattati internazionali
con Stati terzi (cioè, non membri dell'UE) nelle materie su cui l'UE ha
competenza.
In base al principio della supremazia (o prevalenza, o primato) del diritto
dell'UE, i giudici nazionali sono tenuti a dare applicazione al diritto dell'UE
anche qualora esso sia incompatibile con la legislazione statale, ancorché
successiva, e persino in caso di conflitto con la costituzione nazionale. I
giudici degli Stati membri dell'UE hanno in linea generale accettato la dottrina
della prevalenza del diritto dell'UE anche se, per quanto riguarda i conflitti
con il diritto costituzionale interno, l'hanno spesso circondata da limiti ed
eccezioni (cosiddetti "controlimiti" alla prevalenza del diritto dell'UE). Le
dottrine dell'effetto diretto e della supremazia non furono esplicitamente
stabilite nei trattati europei, ma furono sviluppate dalla stessa Corte di
giustizia negli anni 1960, apparentemente sotto l'influenza del suo allora più
autorevole giudice, il francese Robert Lecourt.
L'UE si basa su due trattati: il trattato sull'Unione europea (TUE) e
il trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE). Questi trattati sono
il prodotto delle successive modificazioni (Atto unico europeo del
1986, Trattato di Amsterdam del 1997, Trattato di Nizza del 2001, Trattato di
Lisbona del 2007) subite sino a oggi dai trattati fondativi, cioè dal Trattato
di Parigi istitutivo della CECA del 1951, dal Trattato di Roma istitutivo della
CEE e della Euratom del 1957, e dal Trattato di Maastricht istitutivo
dell'Unione europea del 1992. A questo corpus di trattati si deve aggiungere
(oltre ai protocolli annessi ai trattati e ai trattati di accessione di vari
Stati membri) la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, redatta
dalla prima Convenzione europea (1999-2000), proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 e diventata giuridicamente vincolante a seguito dell'entrata in vigore del
Trattato di Lisbona nel 2009.
Il problema della definizione dell'attuale status giuridico dell'Unione sfociò,
il 29 ottobre 2004, nella firma, a Roma, del Trattato che adotta una
Costituzione per l'Europa, comunemente noto come Costituzione europea. Un nuovo
trattato era stato richiesto dal Consiglio europeo attraverso la Dichiarazione
di Laeken poiché i meccanismi di funzionamento delle istituzioni comuni erano
ritenuti inadeguati alla coesistenza di ben 28 Stati membri, ciascuno dei quali
con diritto di veto in aree fondamentali della politica comune. La
proposta Costituzione europea, oltre ad apportare varie riforme istituzionali in
gran parte in seguito mantenute dal Trattato di Lisbona (tra cui l'estensione
dei casi in cui il Consiglio delibera a maggioranza qualificata anziché
all'unanimità), enfatizzava la natura non già meramente internazionale bensì
"costituzionale" dell'Unione europea, codificando tra le altre cose la bandiera,
l'inno e il motto dell'Unione europea, già introdotti nella prassi. Il processo
di ratifica della Costituzione venne, tuttavia, interrotto il 29 maggio 2005 con
un referendum popolare in cui il 54,7% dell'elettorato francese scelse di non
sottoscrivere il trattato; pochi giorni dopo, il 1º giugno, anche il risultato
del referendum tenuto nei Paesi Bassi fu contrario alla ratifica del trattato
(con il 61,6% dei voti). Sebbene 18 Stati membri avessero recepito il documento,
prevalentemente per via parlamentare, la cosiddetta Costituzione europea non
entrò in vigore.
Dopo il "periodo di riflessione" durato due anni, la cancelliera tedesca Angela
Merkel decise di rilanciare il processo di riforma con la Dichiarazione di
Berlino del 25 marzo 2007, in occasione dei 50 anni dell'Europa unita, in cui
venne espressa la volontà di sciogliere il nodo entro pochi mesi al fine di
consentire l'entrata in vigore di un nuovo trattato nel 2009, anno delle
elezioni del nuovo Parlamento europeo.
Si svolse, così, sotto la presidenza tedesca dell'Unione il vertice di Bruxelles
tra il 21 e il 23 giugno 2007 nel quale si arrivò a un accordo sul
nuovo trattato di riforma. L'accordo recepiva gran parte delle innovazioni
contenute nella cosiddetta Costituzione, anche se con alcune modifiche al fine
di rendere meno evidente il carattere per così dire "costituzionale" del vecchio
testo, pur ribadendo pressoché tutti i meccanismi introdotti con il predetto
testo, e in più aggiungendo la facoltà per alcuni Paesi di "chiamarsi fuori" da
politiche comuni.
Dopo la conclusione della conferenza intergovernativa che finalizzò il nuovo
testo, il trattato di Lisbona venne approvato al Consiglio europeo del 18 e 19
ottobre 2007 proprio in tale città e firmato il 13 dicembre dai capi di Stato e
di governo. Il trattato è stato ratificato da quasi tutti gli Stati firmatari,
prevalentemente per via parlamentare, nel corso del 2008. La mancata ratifica da
parte dell'Irlanda in seguito ad apposito referendum confermativo, così come
richiesto dalla Costituzione irlandese, non ha permesso di farlo entrare in
vigore entro le elezioni europee del 2009. È stato, pertanto, convocato un
secondo referendum in Irlanda il 2 ottobre 2009, in cui il trattato è stato
approvato con oltre il 67% dei voti. Dal 3 novembre 2009, data del sì definitivo
della Repubblica Ceca, tutti gli Stati membri hanno ratificato il trattato,
entrato in vigore il 1º dicembre 2009.
Corte di giustizia
Il ramo giudiziario dell'UE — formalmente chiamato Corte di giustizia
dell'Unione europea — consiste di due tribunali: la Corte di giustizia e
il Tribunale. La Corte di giustizia si occupa principalmente dei casi sollevati
dagli Stati membri, dalle istituzioni, e i casi a esso riferiti dai tribunali
degli Stati membri. A causa delle dottrine dell'effetto diretto e della
supremazia, molte sentenze della Corte di giustizia sono automaticamente
applicabili all'interno degli ordinamenti interni degli Stati membri.
Il Tribunale si occupa principalmente delle cause intentate da persone e società
direttamente dinanzi ai tribunali dell'UE e il Tribunale della funzione pubblica
dell'Unione europea giudica le controversie tra l'Unione europea e la sua
funzione pubblica. Le decisioni del Tribunale possono essere impugnate dinanzi
alla Corte di giustizia, ma solo per motivi di diritto.
L'Unione europea ha da sempre assunto il principio dello Stato di diritto e la
promozione dei diritti umani come propri valori fondanti (basti pensare che
requisito fondamentale per farne parte è l'abolizione della pena di morte); essa
difende attivamente tali diritti sia all'interno dei suoi confini sia nelle
proprie relazioni estere, ponendo talvolta precisi requisiti per la concessione
di accordi commerciali o di altro genere. La protezione garantita dall'Unione
europea ai suoi cittadini è avanzatissima: in molti casi essa sopravanza le
garanzie prescritte dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e
dalla Corte suprema degli Stati Uniti d'America.
I trattati dichiarano che l'UE stessa è "fondata sui valori del rispetto
della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza,
dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti
delle persone appartenenti a minoranze... in una società in cui prevalgono il
pluralismo, la non discriminazione, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà
e l'uguaglianza tra donne e uomini."
Nel 2009, il trattato di Lisbona ha dato efficacia giuridica alla Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea. La carta è un catalogo codificato
di diritti fondamentali in base al quale è possibile giudicare gli atti
giuridici dell'UE. Consolida molti diritti precedentemente riconosciuti dalla
Corte di giustizia e derivati dalle "tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri". La Corte di giustizia ha da tempo riconosciuto i diritti fondamentali
e, a volte, ha invalidato la legislazione dell'UE sulla base del suo mancato
rispetto di tali diritti fondamentali.
La firma della Convenzione europea sui diritti umani (CEDU) è una condizione per
l'adesione all'UE ed è effettivamente trattata come uno dei criteri di
Copenaghen. Questo è un requisito politico e non legale per l'adesione. In
precedenza, la stessa UE non ha potuto aderire alla Convenzione in quanto non è
né uno Stato né aveva la competenza di aderire. Il trattato di Lisbona e il
protocollo 14 della CEDU hanno modificato questo aspetto: il primo obbliga l'UE
ad aderire alla convenzione, mentre la seconda lo consente formalmente.
L'UE è indipendente dal Consiglio d'Europa e condividono scopi e idee, in
particolare sullo Stato di diritto, i diritti umani e la democrazia. Inoltre,
la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali e la Carta sociale europea, fonte di diritto della Carta dei
diritti fondamentali, è stata istituita dal Consiglio d'Europa. L'UE ha inoltre
promosso questioni relative ai diritti umani in tutto il mondo. L'UE si oppone
alla pena di morte e ha proposto la sua abolizione mondiale. L'abolizione della
pena di morte è una condizione per l'adesione all'UE.
Per quanto riguarda la situazione interna, l'Unione europea ha promosso
l'armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di asilo politico per i
rifugiati, e si propone di combattere il razzismo, l'omofobia e
la xenofobia attraverso il sostegno a una rete di organizzazioni non
governative e una specifica Agenzia. Nonostante la complessità e la criticità
della governance per l'estrema frammentazione negli Stati membri, questi sforzi
hanno conferito all'Unione europea, in materia di diritti umani, la legislazione
con la maggiore uniformità.
Dal punto di vista delle relazioni internazionali, dal 1992 l'Unione ha
introdotto nei propri accordi commerciali o di cooperazione con Paesi terzi una
clausola che indica il rispetto dei diritti umani come elemento essenziale del
rapporto bilaterale (p. es. nella convenzione di Cotonou, che lega l'UE a
78 Paesi in via di sviluppo ai quali si richiedono precisi impegni nel campo del
rispetto dei diritti umani). I principali obiettivi della politica estera
europea sono dichiaratamente il progresso e la pacificazione internazionale,
ritenuti possibili solo nell'ambito di una struttura democratica.
Per quanto riguarda la libertà di stampa, tutti i Paesi che compongono l'Unione
europea sono classificati, dall'ONG Freedom House, come "liberi".
I principali atti giuridici dell'UE si presentano in tre
forme: regolamenti, direttive e decisioni.
I regolamenti diventano legge in tutti gli Stati membri nel momento in cui
entrano in vigore, senza l'obbligo di misure di attuazione, e sostituiscono
automaticamente le disposizioni nazionali in conflitto.
Le direttive impongono agli Stati membri di ottenere un determinato risultato,
lasciando loro discrezione su come raggiungere il risultato. I dettagli su come
devono essere implementati sono lasciati agli Stati membri. Allo scadere del
termine per l'attuazione delle direttive, esse possono, a determinate
condizioni, avere effetti diretti nella legislazione nazionale contro gli Stati
membri.
Le decisioni offrono un'alternativa alle due modalità legislative di cui sopra.
Sono atti giuridici che si applicano solo a determinate persone, società o un
determinato Stato membro. Sono spesso utilizzati nel diritto della concorrenza o
nelle decisioni in materia di aiuti di Stato, ma sono anche frequentemente
utilizzati per questioni procedurali o amministrative all'interno delle
istituzioni. I regolamenti, le direttive e le decisioni hanno lo stesso valore
legale e si applicano senza alcuna gerarchia formale.
Il Mediatore europeo è stato istituito dal trattato di Maastricht. Il difensore
civico è eletto dal Parlamento europeo per la durata del mandato del parlamento
e la posizione è rinnovabile. Qualsiasi cittadino o entità dell'UE può
presentare ricorso al difensore civico affinché indaghi su un'istituzione
dell'UE per motivi di cattiva amministrazione (irregolarità amministrative,
iniquità, discriminazione, abuso di potere, mancata risposta, rifiuto di
informazioni o ritardo inutile). L'irlandese Emily O'Reilly è l'attuale
difensore civico dal 2013.
L'UE opera attraverso un sistema ibrido di processo
decisionale sovranazionale e intergovernativo, e secondo i principi
di attribuzione (che afferma che dovrebbe agire solo entro i limiti delle
competenze che le sono conferite dai trattati) e di sussidiarietà (che afferma
che dovrebbe agire solo laddove un obiettivo non può essere sufficientemente
raggiunto dagli Stati membri che agiscono da soli). Le leggi emanate dalle
istituzioni dell'UE sono approvate in varie forme. In generale, possono essere
classificate in due gruppi: quelle che entrano in vigore senza la necessità di
misure nazionali di attuazione (regolamenti) e quelle che richiedono
specificamente misure nazionali di attuazione (direttive).
Costituzionalmente, l'UE assomiglia in qualche modo sia a una confederazione sia
a una federazione, ma non si è formalmente definita come una delle due (non ha
una costituzione formale: il suo status è definito dal trattato sull'Unione
europea e dal trattato sul funzionamento dell'Unione europea). È più integrato
di una tradizionale confederazione di Stati perché il livello generale del
governo impiega ampiamente il voto a maggioranza qualificata in alcuni processi
decisionali tra gli Stati membri, piuttosto che affidarsi esclusivamente
all'unanimità. È meno integrato di uno Stato federale perché non è uno Stato a
sé stante: la sovranità continua a fluire "dal basso verso l'alto", dai vari
popoli dei singoli Stati membri, piuttosto che da un unico insieme
indifferenziato. Ciò si riflette nel fatto che gli Stati membri rimangono i
"padroni dei trattati", mantenendo il controllo sull'assegnazione delle
competenze all'Unione attraverso il cambiamento costituzionale (mantenendo così
il cosiddetto Kompetenz-kompetenz); in quanto mantengono il controllo dell'uso
della forza armata; il controllo fiscale; e un diritto di ritiro unilaterale
dall'Unione ai sensi dell'articolo 50 del trattato sull'Unione europea. Inoltre,
il principio di sussidiarietà richiede che solo quelle questioni che devono
essere determinate collettivamente siano così determinate.
Le attività dell'Unione europea sono regolate da un certo numero di istituzioni
e organismi, supportati da numerose agenzie decentrate. Tali organi espletano i
compiti assegnati loro dai vari trattati. La leadership politica dell'Unione è
esercitata dal Consiglio europeo, che si occupa anche di compiere un'opera di
mediazione nei casi in cui vi siano dispute su alcune politiche da adottare.
L'Unione europea ha sette principali organi decisionali, le
sue istituzioni inizialmente previste nell'ambito delle Comunità europee e dei
suoi organi specifici:
il Parlamento europeo,
il Consiglio europeo,
il Consiglio dell'Unione europea,
la Commissione europea,
la Corte di giustizia dell'Unione europea,
la Banca centrale europea
la Corte dei conti europea.
La competenza nel controllo e nella modifica della legislazione è condivisa tra
il Consiglio dell'Unione europea e il Parlamento europeo, mentre i compiti
esecutivi sono svolti dalla Commissione europea e in una capacità limitata dal
Consiglio europeo (da non confondere con il summenzionato Consiglio dell'Unione
europea).
La politica monetaria della zona euro è determinata dalla Banca centrale
europea.
L'interpretazione e l'applicazione del diritto dell'UE e dei trattati sono
assicurati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea.
Il bilancio dell'UE è esaminato dalla Corte dei conti europea.
Esistono inoltre numerosi organi ausiliari che forniscono consulenza all'UE o
operano in un'area specifica.
che stabilisce gli orientamenti politici generali e le priorità dell'Unione
riunendo un rappresentante per ogni Stato: il Capo di Stato (se si tratta di
repubbliche semipresidenziali o presidenziali) o quello di Governo (se si tratta
di monarchie o repubbliche parlamentari). I capi di Stato e di governo sono
assistiti dai ministri degli esteri e da un membro della Commissione, con sede
a Bruxelles. Il Presidente, nominato dal Consiglio europeo stesso, dura in
carica due anni e mezzo. Ha la funzione di dare un indirizzo generale alle
politiche europee;
Il Consiglio europeo dà una direzione politica all'Unione europea. Si riunisce
almeno quattro volte l'anno e comprende il presidente del Consiglio europeo (nel
2021 Charles Michel), il presidente della Commissione europea e un
rappresentante per Stato membro (capo dello Stato o capo del governo). Anche
l'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di
sicurezza (nel 2021 Josep Borrell) partecipa alle sue riunioni. Alcuni sono
stati descritti come "la suprema autorità politica" dell'Unione. È attivamente
coinvolto nella negoziazione delle modifiche dei trattati e definisce l'agenda e
le strategie politiche dell'UE.
Il Consiglio europeo ricopre il ruolo di guida per risolvere le controversie tra
gli Stati membri e le istituzioni e per risolvere crisi e disaccordi politici su
questioni e politiche controverse. Agisce esternamente come "capo di Stato
collettivo" e ratifica documenti importanti (ad esempio accordi e trattati
internazionali).
Compiti del presidente del Consiglio europeo sono garantire la rappresentanza
esterna dell'UE, favorire il consenso e risolvere le divergenze tra gli Stati
membri, sia durante le riunioni del Consiglio europeo sia durante i periodi tra
loro.
Il Consiglio europeo non deve essere confuso con il Consiglio d'Europa,
un'organizzazione internazionale indipendente dall'UE con sede a Strasburgo.
rappresenta gli interessi generali dell'UE, è formata da un Commissario per
Stato membro, con sede a Bruxelles. Dura in carica cinque anni, compreso il
Presidente: i componenti sono nominati dal Consiglio europeo, ma devono avere
l'approvazione del Parlamento europeo. Detiene il potere esecutivo e quello di
iniziativa legislativa;
La Commissione europea agisce sia come braccio esecutivo dell'UE, responsabile
della gestione quotidiana dell'UE, sia come promotore legislativo, con il solo
potere di proporre leggi per il dibattito. La Commissione è "custode dei
trattati" ed è responsabile del loro efficiente funzionamento e
controllo. Funziona de facto come gabinetto di governo, con 27 commissari per
diversi settori politici, uno per ciascuno Stato membro, sebbene i commissari
siano tenuti a rappresentare gli interessi dell'UE nel suo complesso piuttosto
che il loro stato d'origine.
Uno dei 27 è il presidente della Commissione europea (Ursula von der Leyen dal
2019-presente), nominato dal Consiglio europeo, previa approvazione del
Parlamento. Dopo il presidente, il commissario più importante è l'alto
rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che
è di diritto il vicepresidente della Commissione ed è anche scelto dal Consiglio
europeo. Gli altri 25 commissari sono successivamente nominati dal Consiglio
dell'Unione europea in accordo con il presidente nominato. I 27 commissari come
un unico organo sono soggetti all'approvazione (o altrimenti) con il voto
del Parlamento europeo.
formato da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale che
si occupa della stessa materia a livello statale (ad esempio al Consiglio dei
ministri convocato per urgenza economica parteciperanno tutti i ministri
dell'economia, ambientale quelli dell'ambiente, ecc.), con sede a Bruxelles. La
presidenza è assegnata a uno Stato membro e ruota ogni sei mesi. Detiene il
potere legislativo insieme al Parlamento europeo, con funzioni simili a quelle
di una "camera alta";
Il Consiglio dell'Unione europea (chiamato anche "Consiglio", già "Consiglio dei
ministri") detiene - insieme al Parlamento europeo - il potere
legislativo nell'UE. È composto da un ministro del governo di ogni Stato membro
e si riunisce in diverse composizioni a seconda del settore politico in
questione. Nonostante le sue diverse configurazioni, è considerato come un unico
corpo. Oltre alle sue funzioni legislative, il Consiglio esercita anche funzioni
esecutive in relazione alla politica estera e di sicurezza comune.
In alcune politiche, ci sono diversi Stati membri che si alleano con partner
strategici all'interno dell'Unione. Esempi di tali alleanze includono il Gruppo
di Visegrád, il Benelux, l'Assemblea baltica, la Nuova lega anseatica e
il Gruppo di Craiova.
composto dai rappresentanti dei cittadini degli Stati membri eletti a suffragio
universale diretto (prima dell'entrata in vigore del trattato di Lisbona si
faceva riferimento ai popoli dell'Unione) da tutti i cittadini dell'Unione ogni
cinque anni, compreso il presidente che per prassi rimane in carica due anni e
mezzo. Ai sensi del Trattato ha sede a Strasburgo, città della Francia, ma
svolge i suoi lavori anche a Bruxelles (dove si trova un altro emiciclo) e
a Lussemburgo (sede del segretariato). Ogni singolo Stato stabilisce in
autonomia le modalità di svolgimento delle elezioni e il metodo di ripartizione
dei seggi. Condivide il potere legislativo insieme al Consiglio dell'Unione
europea, con funzioni simili a quelle di una "camera bassa";
Il Parlamento europeo è una delle tre istituzioni legislative dell'UE che,
insieme al Consiglio dell'Unione europea, ha il compito di modificare e
approvare le proposte della Commissione. I 705 membri del Parlamento europeo
(deputati al Parlamento europeo) sono eletti direttamente dai cittadini
dell'UE ogni cinque anni sulla base della rappresentanza proporzionale. I
deputati sono eletti su base nazionale e siedono in base ai gruppi politici e
non alla loro nazionalità. Ogni Paese ha un determinato numero di seggi ed è
diviso in circoscrizioni elettorali subnazionali dove ciò non influisce sulla
natura proporzionale del sistema di voto.
Nella procedura legislativa ordinaria, la Commissione europea propone una
legislazione che richiede l'approvazione congiunta del Parlamento europeo e del
Consiglio dell'Unione europea. Questo processo si applica a quasi tutti i
settori, compreso il bilancio dell'UE. Il Parlamento è l'organo finale per
approvare o respingere la proposta di adesione alla Commissione e può tentare
mozioni di censura nei confronti della Commissione facendo appello alla Corte di
giustizia. Il Presidente del Parlamento europeo (dal 2022 Roberta Metsola)
svolge il ruolo di oratore in Parlamento e lo rappresenta esternamente. Il
presidente e i vicepresidenti sono eletti dai deputati ogni due anni e mezzo.
garantisce l'applicazione uniforme del diritto dell'Unione europea e risolve le
controversie tra le istituzioni dell'UE e gli Stati membri e contro le
istituzioni dell'UE per conto di persone fisiche, con sede a Lussemburgo.
è responsabile della stabilità monetaria all'interno degli Stati membri, con
sede a Francoforte sul Meno.
indaga sulla corretta gestione delle finanze all'interno delle entità dell'UE e
sui finanziamenti dell'UE forniti ai suoi Stati membri. Oltre a fornire
supervisione e consulenza, può sottoporre alla Corte di giustizia europea
questioni irrisolte per arbitrare su presunte irregolarità, con sede
a Lussemburgo.
La politica dell'UE è in generale promulgata dalle direttive dell'UE, che sono
poi attuate nella legislazione nazionale dei suoi Stati membri e dai regolamenti
dell'UE, che sono immediatamente applicabili in tutti gli Stati membri.
Il lobbismo a livello dell'UE da parte di gruppi di interesse speciali è
regolato per cercare di bilanciare le aspirazioni di iniziative private con il
processo decisionale di interesse pubblico.
Il Comitato economico e sociale europeo, che rappresenta la società civile e le
due componenti dell'industria.
Il Comitato delle regioni, che rappresenta le autorità regionali e locali.
Il Servizio europeo per l'azione esterna (SEAE), creato dal Trattato di Lisbona
per governare la politica estera e le sedi estere dell'Unione.
L'Eurostat, l'ufficio che cura le statistiche ufficiali dell'Unione europea.
L'Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione europea, che pubblica, stampa e
distribuisce informazioni sull'Unione e sulle sue attività.
L'Ufficio europeo per la selezione del personale (EPSO, European Personnel
Selection Office), che assume il personale per le istituzioni dell'UE e gli
altri organismi.
La Scuola europea di amministrazione (EAS, European Administrative School), il
centro di istruzione per il personale di tutte le istituzioni europee.
La Procura europea (EPPO), una cooperazione rafforzata pienamente operativa dal
1º giugno 2021, che indaga e persegue frodi contro il bilancio e altri reati
contro gli interessi finanziari dell'UE, con sede in Lussemburgo. È prevista,
con decisione del Consiglio europeo, una estensione dei suoi poteri al fine di
includere la criminalità transnazionale grave.
Il Mediatore europeo, che difende i cittadini e le organizzazioni dell'UE dalla
cattiva amministrazione, con sede a Strasburgo - Francia;
Il Garante europeo della protezione dei dati (GEPD), che assicura che le
istituzioni e gli organi dell'UE, nel trattamento dei dati personali, rispettino
il diritto alla privacy dei cittadini dell'Unione, con sede
a Bruxelles - Belgio.
L'Istituto europeo per l'innovazione e la tecnologia (EIT), che cerca di
valorizzate le migliori risorse scientifiche, aziendali ed educative europee per
aumentare la capacità di innovazione dell'Unione, con sede
a Budapest (Ungheria).
Si tratta di istituzioni internazionali regolate da specifici trattati perciò
non sono direttamente organi dell'UE ma ne sono collegati perché richiamati dai
trattati europei o da specifici regolamenti per svolgere azioni per conto
dell'UE.
La Banca europea degli investimenti (BEI), che finanzia i progetti di
investimento dell'UE e che gestisce il Fondo europeo per gli investimenti (FEI),
che fornisce garanzie e capitale di rischio per aiutare le piccole e medie
imprese, entrambi con sede in Lussemburgo.
Il Meccanismo europeo di stabilità (MES), che assicura la stabilità finanziaria
della zona euro in caso di shock asimmetrici e gestisce il precedente Fondo
europeo di stabilità finanziaria (FESF), entrambi con sede in Lussemburgo.
La Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), che finanzia o
co-finanzia gli investimenti che favoriscono la transizione verso un'economia di
mercato nei paesi dell'Europa centrale, orientale ed ex URSS, con sede a Londra.
Nel tempo sono state create diverse agenzie che svolgono compiti tecnici,
scientifici o di gestione. Tra queste si possono citare:
Alcune agenzie tra cui l'Agenzia europea dell'ambiente, l'Agenzia europea delle
sostanze chimiche, l'Agenzia europea per i medicinali, l'Agenzia europea per la
sicurezza aerea, l'Agenzia europea per la sicurezza delle reti e
dell'informazione, l'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro,
l'Agenzia europea per la sicurezza marittima, l'Agenzia ferroviaria europea,
l'Autorità europea per la sicurezza alimentare che lavorano nell'ambito
dell'Unione;
Alcune autorità di vigilanza in campo economico, tra cui l'Autorità bancaria
europea, l'Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e
professionali, l'Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati;
L'Agenzia europea per la difesa, l'Istituto dell'Unione europea per gli studi
sulla sicurezza e il Centro satellitare dell'Unione europea, che svolgono
compiti specifici connessi alla politica estera e di sicurezza comune (ex
"secondo pilastro" dell'Unione europea);
Europol, Eurojust e CEPOL, che aiutano a coordinare le politiche e la
cooperazione giudiziaria in materia penale (ex "terzo pilastro" dell'Unione
europea);
Una serie di agenzie e organismi che derivano dal trattato Euratom;
Esistono inoltre alcune agenzie esecutive, istituite per svolgere determinati
compiti relativi alla gestione di uno o più programmi unitari.
Cooperazione rafforzata
La cooperazione rafforzata è una procedura decisionale istituzionalizzata con
il trattato di Amsterdam e poi modificata dal trattato di Nizza. Essa consiste
nel realizzare una più forte cooperazione tra alcuni Stati membri dell'Unione
europea in determinati temi senza coinvolgere la totalità degli stati membri che
possono avere reticenze nell'incrementare l'integrazione in alcune aree; può
entrare in vigore, però, solo se partecipa almeno un terzo degli Stati membri.
Le cooperazioni in vigore sono sei e vertono sui seguenti temi:
Legge sul divorzio; Brevetti; Tassa sulle transazioni finanziarie; Euro plus;
Convenzione di Prüm; Patto di bilancio europeo.
Gli Stati membri dell'UE mantengono tutti i poteri non esplicitamente conferiti
all'Unione europea. In alcune aree l'UE gode di competenza esclusiva. Queste
sono aree in cui gli Stati membri hanno rinunciato a qualsiasi capacità di
emanare una legislazione. In altri settori l'UE e i suoi Stati membri
condividono la competenza per legiferare. Mentre entrambi possono legiferare,
gli Stati membri possono legiferare solo nella misura in cui l'UE non lo ha
fatto. In altri settori politici l'UE può solo coordinare, sostenere e integrare
le azioni degli Stati membri, ma non può emanare una legislazione allo scopo di
armonizzare le legislazioni nazionali.
Il fatto che un determinato settore politico rientri in una determinata
categoria di competenza non è necessariamente indicativo di quale procedura
legislativa viene utilizzata per emanare la legislazione all'interno di tale
settore. Diverse procedure legislative sono utilizzate all'interno della stessa
categoria di competenza e anche con lo stesso settore politico.
Il trattato di Lisbona definisce in maniera precisa le competenze dell'Unione
distinguendo tra:
competenza esclusiva (art. 3 TFUE);
competenze concorrenti (art. 4 TFUE);
competenze di sostegno (art. 6 TFUE);
Ci sono alcune aree giuridiche di competenza esclusiva dell'Unione europea, nel
senso che i singoli Stati non possono imporre le proprie regole o agire
indipendentemente. Le principali aree sono l'unione doganale, la
regolamentazione del mercato europeo comune, la politica monetaria per gli Stati
la cui moneta è l'euro, la conservazione degli ecosistemi marini e la
conclusione di alcuni trattati internazionali. In questi settori, l'Unione
europea negozia con un'unica voce e agisce come un unico blocco, prendendo
decisioni a cui devono sottostare tutti gli Stati membri senza eccezione.
L'Unione ha la competenza esclusiva di emanare direttive e concludere accordi
internazionali quando previsto da un atto legislativo dell'Unione in materia
di...
unione doganale
l'istituzione di normative sulla concorrenza necessarie per il funzionamento del
mercato interno
politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è euro
la conservazione delle risorse biologiche marine nell'ambito della Politica
comune della pesca
politica commerciale comune
conclusione di alcuni accordi internazionali
A differenza dei settori precedenti, l'Unione ha competenza concorrente con
quella degli Stati membri, nel senso che gli Stati membri possono agire dove
l'Unione europea non lo ha già fatto, in materie principalmente riguardanti
la coesione sociale ed economica, le politiche ambientali, la protezione dei
consumatori e la regolamentazione di servizi di infrastruttura come energia,
trasporti, ricerca e sviluppo.
Nei settori della cooperazione allo sviluppo e degli aiuti umanitari, l'Unione
ha competenza per condurre azioni e una politica comune, senza che l'esercizio
di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di
esercitare la loro. Invece nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico
e aerospaziale, della cooperazione allo sviluppo e degli aiuti umanitari
l'Unione e gli Stati agiscono entrambi con gli strumenti specifici che sono loro
propri. L'Unione tutt'al più adotta delle politiche di coordinamento, senza però
limitare in alcun modo l'azione statale.
Gli Stati membri non possono esercitare competenza nei settori in cui l'Unione
ha fatto ciò, vale a dire...
il mercato interno
politica sociale, per gli aspetti definiti nel presente trattato
coesione economica, sociale e territoriale
agricoltura e pesca, esclusa la conservazione delle risorse biologiche marine
ambiente
protezione del consumatore
trasporti
reti di trasporto trans-europee
energia
lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
preoccupazioni comuni in materia di sicurezza in materia di sanità pubblica, per
gli aspetti definiti nel presente trattato
L'esercizio delle competenze dell'Unione non deve impedire agli Stati membri di
esercitare la propria in campo di...ricerca, sviluppo tecnologico e spazio
cooperazione allo sviluppo, aiuti umanitari
L'Unione coordina le politiche degli Stati membri o attua integrative alle loro
politiche comuni non contemplate altrove nel...
coordinamento delle politiche economiche, occupazionali e sociali
estero, sicurezza comune e politiche di difesa
L'Unione europea può coordinare e sostenere le azioni degli Stati membri in
settori terzi dove non può legiferare o imporre un modus operandi. Questi
settori comprendono il turismo, la tutela della salute,
industria, cultura, istruzione, formazione giovanile, sport e altri simili.
Per le politiche economiche, occupazionali e sociali l'Unione ha un ruolo di
coordinamento e detta le linee guida (tramite il solo Consiglio) entro le quali
ogni Stato ha la libertà di determinare le proprie peculiari politiche.
L'Unione può svolgere azioni per sostenere, coordinare o integrare le azioni
degli Stati membri in campo di...
protezione e il miglioramento della salute umana
industria
cultura
turismo
istruzione, gioventù, sport e formazione professionale
protezione civile (prevenzione delle catastrofi)
cooperazione amministrativa
Dalla sua creazione nel 1993, l'UE ha sviluppato le sue competenze nel settore
della giustizia e degli affari interni; inizialmente a livello intergovernativo
e successivamente dal sovranazionalismo. Di conseguenza, l'Unione ha legiferato
in settori quali l'estradizione, diritto di famiglia, diritto di asilo, e
giustizia penale. I divieti contro le discriminazioni sessuali e di nazionalità
hanno una lunga tradizione nei trattati. Negli ultimi anni, questi sono stati
integrati da poteri per legiferare contro la discriminazione basata su razza,
religione, disabilità, età e orientamento sessuale. In virtù di questi poteri,
l'UE ha adottato una legislazione sulla discriminazione sessuale sul posto di
lavoro, la discriminazione fondata sull'età e la discriminazione razziale.
L'Unione ha inoltre istituito agenzie per coordinare i controlli di polizia, di
accusa e di immigrazione negli Stati membri:
Europol per la cooperazione delle forze di polizia,
Eurojust per la cooperazione tra pubblici ministeri,
Frontex per la cooperazione tra autorità di controllo di frontiera.
L'UE gestisce inoltre il sistema di informazione Schengen che fornisce una
banca dati comune per le autorità di polizia e di immigrazione. Questa
cooperazione ha dovuto essere sviluppata in particolare con l'avvento delle
frontiere aperte attraverso l'accordo di Schengen e il crimine transfrontaliero
associato.
L'UE partecipa a tutti i vertici del G7 e del G20. La cooperazione in materia di
politica estera tra gli Stati membri risale all'istituzione della Comunità nel
1957, quando gli Stati membri negoziarono come blocco nei negoziati commerciali
internazionali nell'ambito della politica commerciale comune dell'UE. Nel 1970
sono iniziati i passi per un più ampio coordinamento nelle relazioni estere con
l'istituzione della Cooperazione politica europea che ha creato un processo di
consultazione informale tra gli Stati membri con l'obiettivo di formare
politiche estere comuni. Nel 1987 la cooperazione politica europea è stata
istituita su base formale dall'Atto unico europeo. La CPE è stata ribattezzata
come Politica estera e di sicurezza comune (PESC) dal Trattato di Maastricht.
La politica estera e di sicurezza comune è la politica estera e di difesa
dell'Unione europea. Viene gestita e promossa dall'Alto rappresentante per gli
affari esteri e la politica di sicurezza e dal Servizio europeo per l'azione
esterna.
Gli obiettivi della PESC sono di promuovere sia gli interessi dell'UE sia quelli
della comunità internazionale nel suo insieme, compreso il rafforzamento della
cooperazione internazionale, il rispetto dei diritti umani, la democrazia e lo
Stato di diritto. La PESC richiede l'unanimità tra gli Stati membri sulla
politica appropriata da seguire su qualsiasi questione particolare. L'unanimità
e le difficili questioni trattate nell'ambito della PESC a volte portano a
disaccordi, come quelli verificatisi durante la guerra in Iraq.
Il coordinatore e rappresentante della PESC all'interno dell'UE è l'alto
rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza che
parla a nome dell'UE in materia di politica estera e di difesa e ha il compito
di articolare le posizioni espresse dagli Stati membri su questi campi della
politica in un allineamento comune. L'alto rappresentante dirige il servizio
europeo per l'azione esterna (SEAE), un unico dipartimento dell'UE che è stato
ufficialmente attuato ed è operativo dal 1º dicembre 2010 in occasione del primo
anniversario dell'entrata in vigore del trattato di Lisbona. Il SEAE fungerà da
ministero degli esteri e da corpo diplomatico per l'Unione europea.
Oltre all'emergente politica internazionale dell'Unione europea, l'influenza
internazionale dell'UE è avvertita anche attraverso l'allargamento. I benefici
percepiti di diventare un membro dell'UE agiscono come un incentivo per le
riforme sia politiche sia economiche negli Stati che desiderano soddisfare i
criteri di adesione all'UE e sono considerati un fattore importante che
contribuisce alla riforma dei Paesi ex comunisti europei. Questa influenza sugli
affari interni di altri paesi viene generalmente definita "potenza dolce", in
contrapposizione alla "potenza forte" militare.
L'Unione europea è il maggiore esportatore al mondo e dal 2008 il maggiore
importatore di beni e servizi. Il commercio interno tra gli Stati membri è
aiutato dall'eliminazione degli ostacoli agli scambi come i dazi e i controlli
alle frontiere. Nella zona euro, il commercio è aiutato dal fatto di non avere
differenze di valuta da affrontare nella maggior parte dei membri.
L'accordo di associazione dell'Unione europea compie qualcosa di simile per una
gamma molto più ampia di Paesi, in parte come un cosiddetto approccio soft per
influenzare la politica in quei Paesi. L'Unione europea rappresenta tutti i suoi
membri presso l'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e agisce per conto
degli Stati membri in qualsiasi controversia. Quando l'UE negozia un accordo
commerciale al di fuori del quadro dell'OMC, l'accordo successivo deve essere
approvato da ogni singolo governo degli Stati membri dell'UE.
L'Unione europea ha concluso accordi di libero scambio (ALS) e altri accordi con
una componente commerciale con molti Paesi in tutto il mondo e sta negoziando
con molti altri
Dei 27 Stati membri dell'UE, 21 sono anche membri della NATO. Altri tre membri
della NATO sono candidati dell'UE: Albania, Montenegro e Turchia. I predecessori
dell'Unione europea non sono stati concepiti come un'alleanza militare perché
la NATO era in gran parte vista come appropriata e sufficiente per scopi di
difesa. 22 membri dell'UE sono membri della NATO mentre i restanti Stati membri
seguono politiche di neutralità. L'Unione europea occidentale, un'alleanza
militare con una clausola di difesa reciproca, è stata sciolta nel 2011 poiché
il suo ruolo era stato trasferito nell'UE.
Secondo l'Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI),
la Francia ha speso 48 miliardi di € in difesa nel 2014, ed è l'unico membro
permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La maggior parte
degli Stati membri dell'UE si è opposto al Trattato per la proibizione delle
armi nucleari.
A seguito della guerra del Kosovo nel 1999, il Consiglio europeo ha convenuto
che "l'Unione deve avere la capacità di un'azione autonoma, sostenuta da forze
militari credibili, i mezzi per decidere di usarli e la prontezza a farlo, al
fine di rispondere a crisi internazionali fatte salve le azioni della NATO". A
tal fine, sono stati compiuti numerosi sforzi per aumentare le capacità militari
dell'UE, in particolare il processo degli obiettivi principali di Helsinki. Dopo
molte discussioni, il risultato più concreto è stato l'iniziativa dei gruppi
tattici dell'UE, ciascuno dei quali è previsto per essere in grado di schierare
rapidamente circa 1500 uomini.
Le forze dell'UE sono state dispiegate in missioni di mantenimento della pace
dall'Africa centrale e settentrionale nei Balcani occidentali e nell'Asia
occidentale. Le operazioni militari dell'UE sono supportate da numerosi
organismi, tra cui l'Agenzia europea per la difesa, il Centro satellitare
dell'Unione europea e lo Stato maggiore dell'Unione europea. Frontex è
un'agenzia dell'UE istituita per gestire la cooperazione tra le guardie di
frontiera nazionali che assicurano le proprie frontiere esterne. Mira a rilevare
e fermare l'immigrazione clandestina, la tratta di esseri umani e le
infiltrazioni terroristiche. Nel 2015 la Commissione europea ha presentato la
sua proposta per una nuova agenzia europea della guardia di frontiera e costiera
con un ruolo e un mandato più forti insieme alle autorità nazionali per la
gestione delle frontiere. In un'UE composta da 27 membri, una sostanziale
cooperazione in materia di sicurezza e difesa si basa sempre più sulla
collaborazione tra tutti gli Stati membri.
Il Parlamento europeo il 17 febbraio 2017 approva la risoluzione proposta da Guy
Verhofstadt per la creazione di un esercito unico europeo di difesa comune.
Se considerati collettivamente, gli Stati membri dell'UE sono i maggiori
contributori di aiuti esteri nel mondo. La Direzione generale per la protezione
civile e le operazioni di aiuto umanitario europee, o "DG ECHO", fornisce aiuti
umanitari dall'UE ai Paesi in via di sviluppo. Nel 2012, il suo bilancio
ammontava a 874 milioni di euro, il 51% del bilancio era destinato all'Africa e
il 20% ad Asia, America Latina, Caraibi e Pacifico e il 20% al Medio Oriente e
al Mediterraneo.
L'aiuto umanitario è finanziato direttamente dal bilancio (70%) come parte degli
strumenti finanziari per l'azione esterna e anche dal Fondo europeo di sviluppo
(30%). Il finanziamento dell'azione esterna dell'UE è suddiviso in strumenti
"geografici" e strumenti "tematici". Gli strumenti "geografici" forniscono aiuti
attraverso lo strumento di cooperazione allo sviluppo (DCI, 16,9 miliardi di
euro, 2007-2013), che deve spendere il 95% del proprio bilancio in aiuti
pubblici allo sviluppo (APS) e dallo strumento europeo di vicinato e
partenariato (ENPI), che contiene alcuni programmi pertinenti. Il Fondo europeo
di sviluppo (FES, 22,7 miliardi di euro per il periodo 2008-2013 e 30,5 miliardi
di euro per il periodo 2014-2020) è costituito da contributi volontari degli
Stati membri, ma vi è la pressione di unire il FES al bilancio finanziato dal
bilancio strumenti per incoraggiare maggiori contributi per raggiungere
l'obiettivo dello 0,7% e consentire una maggiore supervisione del Parlamento
europeo.
Nel 2016 la media tra i Paesi dell'UE era dello 0,4% e cinque avevano raggiunto
o superato l'obiettivo dello
0,7%: Danimarca, Germania, Lussemburgo, Svezia e Regno Unito.
L'UE utilizza strumenti di relazioni estere come la politica europea di
vicinato che cerca di legare questi Paesi a est e sud del territorio europeo
dell'UE all'Unione. Questi Paesi, principalmente quelli in via di sviluppo,
includono alcuni che un giorno cercano di diventare uno Stato membro dell'Unione
europea o più strettamente integrati con l'Unione europea. L'UE offre assistenza
finanziaria ai Paesi del vicinato europeo, purché soddisfino le rigorose
condizioni di riforma del governo, riforma economica e altre questioni relative
alla trasformazione positiva. Questo processo è normalmente sostenuto da un
piano d'azione, come concordato da Bruxelles e dal Paese di destinazione.
Il riconoscimento internazionale dello sviluppo sostenibile come elemento chiave
è in costante crescita. Il suo ruolo è stato riconosciuto in tre importanti
vertici delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile: la Conferenza delle
Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo (UNCED) del 1992 a Rio de
Janeiro, Brasile; il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile (WSSD) del 2002
a Johannesburg, in Sudafrica; e la Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo
sostenibile del 2012 (UNCSD) a Rio de Janeiro. Altri accordi globali chiave sono
l'accordo di Parigi e l'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (ONU, 2015). Gli
OSS riconoscono che tutti i Paesi devono stimolare l'azione nelle seguenti aree
chiave - persone, pianeta, prosperità, pace e partenariato - al fine di
affrontare le sfide globali che sono cruciali per la sopravvivenza dell'umanità.
La collaborazione euromediterranea, o Processo di Barcellona, è stata varata con
la conferenza di Barcellona del 27-28 novembre 1995. Vi parteciparono i ministri
degli Esteri degli allora 15 Stati membri e dodici Paesi dell'Africa
mediterranea e del Vicino Oriente: Algeria, Cipro, Egitto,
Giordania, Israele, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia e l'Autorità
Nazionale Palestinese. La Libia era presente come Paese osservatore. Dopo gli
allargamenti dell'Unione europea del 2004, 2007 e 2013, la collaborazione
coinvolge i Ventotto e dieci Paesi della sponda sud del Mediterraneo. Gli
obiettivi dell'accordo sono tre: rafforzare le relazioni in materia politica e
di sicurezza, creare una collaborazione economica e finanziaria, e potenziare la
cooperazione nei settori sociale, culturale e umano.
L'azione di sviluppo dell'UE si basa sul consenso europeo sullo sviluppo,
approvato il 20 dicembre 2005 dagli Stati membri dell'UE, dal Consiglio, dal
Parlamento europeo e dalla Commissione. È applicato dai principi dell'approccio
della capacità e dell'approccio allo sviluppo basato sui diritti.
La politica europea di vicinato è una delle politiche esterne dell'Unione
europea, indirizzata ai Paesi collocati in prossimità dell'Unione verso sud e
verso est. L'obiettivo è quello di costruire rapporti più stretti con tali Stati
a livello economico, politico, culturale e strategico.
Il PIL pro-capite (a parità di potere d'acquisto) nell'Unione, secondo i
dati Eurostat per il 2012. I valori sono espressi in percentuale della media
dell'UE a 28L'Unione europea possiede l'economia più grande al mondo, con
un prodotto interno lordo nominale complessivo nel 2013 stimato in oltre 13 500
miliardi di euro.
L'Unione europea ha istituito un mercato unico sul territorio di tutti i suoi
membri che rappresentano 447 milioni di cittadini. Nel 2020 l'UE ha un PIL
combinato di 20 trilioni di dollari internazionali, una quota del 14%
del prodotto interno lordo globale per parità di potere d'acquisto
(PPP).[281] In quanto entità politica, l'Unione europea è rappresentata
dall'Organizzazione mondiale del commercio (OMC). Gli Stati membri dell'UE
possiedono il secondo più grande patrimonio netto stimato al mondo dopo
gli Stati Uniti (105 trilioni di dollari statunitensi), pari a circa il 20% (~ €
60 trilioni) dei 360 trilioni di dollari (~ € 300 trilioni) della ricchezza
globale.
Tra le diverse nazioni, in particolare risultano essere trainanti quattro
regioni dell'Europa, che per tal motivo vengono definite i quattro
motori economici: Baden-Württemberg, Catalogna, Rodano-Alpi e Lombardia.
L'Unione europea detiene mediamente nel tempo il 30% della ricchezza netta
mondiale.
Gli Stati sono ordinati a seconda del
prodotto interno lordo (PIL) pro capite, che può essere usato come indice del
grado di benessere in una data nazione.
20 Stati membri hanno aderito a un'unione monetaria nota come zona euro, che
utilizza l'euro come moneta unica. L'unione monetaria rappresenta 346 milioni di
cittadini dell'UE. L'euro è la seconda valuta di riserva più grande nonché la
seconda valuta più scambiata al mondo dopo il dollaro statunitense.
Delle prime 500 più grandi società al mondo misurate in base alle entrate nel
2010, 161 hanno sede nell'UE. Nel 2016 la disoccupazione nell'UE si attestava
all'8,9% mentre l'inflazione era al 2,2% e il saldo delle partite correnti a
-0,9% del PIL. Il guadagno netto annuo medio nell'Unione europea è stato di
circa 24 000 € nel 2015, che era circa il 70% di quello negli Stati Uniti.
Vi è una variazione significativa del PIL nominale pro capite all'interno dei
singoli Stati dell'UE. La differenza tra le regioni più ricche e più povere (281
regioni NUTS-2 della nomenclatura delle unità territoriali statistiche) variava,
nel 2017, dal 31% (Severozapaden, Bulgaria) della media UE28 (30 000 €) al 253%
(Lussemburgo) o 4 600 € a 92 600 €.
L'Unione europea dispone di un bilancio proprio finanziato da:
Una parte dell'Imposta sul valore aggiunto dell'UE;
I contributi nazionali secondo il Reddito nazionale lordo di ogni Stato;
I dazi doganali.
Tali risorse costituiscono oltre il 98% delle entrate dell'Unione per un budget
di circa 142 miliardi di euro, approssimativamente l'1% del prodotto interno
lordo dell'intera Unione.
Le principali voci di spesa sono:
La politica agricola comune tramite gli aiuti agricoli diretti (30%) e il fondo
per lo sviluppo rurale (11%);
Le politiche di coesione, di competitività e occupazionali (46%).
Le altre voci di spesa sono legate alla politica estera dell'Unione e
all'amministrazione.
La Corte dei conti è legalmente tenuta a fornire al Parlamento e al Consiglio
(in particolare il Consiglio Economia e Finanza) "una dichiarazione di
affidabilità in merito all'affidabilità dei conti e alla legalità e regolarità
delle operazioni sottostanti". La Corte formula, inoltre, pareri e proposte
sulla legislazione finanziaria e sulle azioni antifrode. Il Parlamento lo
utilizza per decidere se approvare la gestione del bilancio da parte della
Commissione.
La Corte dei conti europea ha firmato i conti dell'Unione europea ogni anno dal
2007 e, pur chiarendo che la Commissione europea ha più lavoro da fare, ha
sottolineato che la maggior parte degli errori si verificano a livello
nazionale. Nella loro relazione sul 2009, i revisori hanno riscontrato che
cinque settori della spesa dell'Unione, l'agricoltura e il fondo di coesione,
erano materialmente inficiati da errori. Nel 2009 la Commissione europea ha
stimato che l'incidenza finanziaria delle irregolarità era di 1863 milioni di
euro.
La politica agricola comune (PAC) rappresenta una delle più “anziane” e
importanti politiche dell'UE. Le motivazioni profonde della centralità di questa
politica sono strettamente collegate con la poca competitività del settore
agricolo europeo. Essa è un sistema di finanziamenti destinati alle attività di
coltivazione all'interno dell'Unione; il suo scopo principale è quello di
mantenere livelli adeguati di produzione agricola concedendo sussidi alle
aziende e ai lavoratori direttamente impiegati nel settore.
Furono introdotti sussidi e incentivi alla produzione agricola, per aumentarne
la quantità e per rendere più stabili i prezzi, a beneficio degli agricoltori.
In seguito, si sono aggiunti gli obiettivi di garantire la sicurezza dei
prodotti alimentari e il rispetto dell'ambiente rurale.
Una delle misure della politica agricola perseguita in quegli anni consistette
nella fissazione di livelli minimi di prezzo per i prodotti agricoli, che
generano enormi eccedenze. La procedura usuale dell'Unione europea era pagare
gli esportatori perché potessero vendere tali prodotti all'estero.
L'opinione pubblica ha dimostrato chiaramente di rifiutare di finanziare senza
limite i surplus, ma tale politica venne presa di mira non tanto dai Paesi del
terzo mondo esportatori di derrate agricole quanto dai paesi ricchi, in primo
luogo gli Stati Uniti, che pretendevano di esportare nel ricco mercato europeo.
Negli ultimi anni gli organi dell'Unione hanno radicalmente cambiato la politica
tradizionale. I nuovi regolamenti hanno drasticamente ridotto gli stimoli a
produrre. Il risultato di tale inversione di rotta, proprio nel momento in cui
gli Stati Uniti stanno dirottando verso usi non alimentari, ma energetici, le
loro eccedenze agricole è stato criticato da chi paventa un acuirsi del problema
dell'approvvigionamento di cibo. Questo mentre l'Asia sta mutando radicalmente
dieta, e non avendo spazi sufficienti per produrre cereali per l'allevamento li
dovrà acquistare. Avere abbandonato la politica della sicurezza potrebbe
provocare conseguenze negative per Paesi come l'Italia, con una produzione che
copre ormai solo una frazione dei cereali consumati e dei panelli proteici per
l'allevamento.
La PAC, anche nella versione attuale, è stata peraltro accusata di distribuire
fondi in maniera poco equilibrata, favorendo le aziende agricole più grandi e
sostenendo la diffusione di metodi di coltivazione invasivi.
La politica agricola è una dei primi accordi comuni europei. Si concentra
soprattutto sul settore dei cereali, su quello ortofrutticolo, su quello
vinicolo, sul settore delle carni bovine e su quello lattiero-caseario. Oggi,
assorbe poco meno della metà delle intere risorse dell'Unione (ossia circa 56
miliardi di euro); questo dato è in diminuzione, se si pensa che nel 1980 la PAC
ne assorbiva circa il 70%.
I fondi strutturali dell'Unione, per il settennio 2007-2013, vengono ripartiti
secondo tre obiettivi:
Convergenza,
finanziato dal Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), dal Fondo Sociale
Europeo (FSE) e dal Fondo di coesione (FC).
Competitività regionale e occupazione,
finanziato dal FESR e dal FSE.
Cooperazione territoriale europea,
evoluzione del progetto Interreg, finanziata anch'essa dal FESR.
L'UE ha cercato a lungo di mitigare gli effetti dei mercati liberi proteggendo i
diritti dei lavoratori e prevenendo il dumping sociale e ambientale. A tal fine
ha adottato leggi che stabiliscono norme minime in materia di occupazione e
ambiente. Tra questi, la direttiva sull'orario di lavoro e la direttiva sulla
valutazione dell'impatto ambientale. L'UE ha anche cercato di coordinare i
sistemi di sicurezza sociale e sanitaria degli Stati membri per facilitare le
persone che esercitano i diritti alla libera circolazione e garantire che
mantengano la loro capacità di accedere ai servizi di sicurezza sociale e
sanitari in altri Stati membri.
La Carta sociale europea è l'organismo principale che riconosce i diritti
sociali dei cittadini europei. Come dimostrato dalla sentenza Viking della CGUE,
la salvaguardia di tali diritti tende tuttavia a essere subordinata al rispetto
dei principi dei trattati europei.
Un'assicurazione europea sulla disoccupazione è stata proposta tra l'altro dal
commissario per l'occupazione Nicolas Schmit.
Dal 2019 esiste un commissario europeo per l'uguaglianza; un istituto europeo
per l'uguaglianza di genere esiste dal 2007.
Alloggio, gioventù, infanzia, diversità funzionale o assistenza agli anziani
sono competenze di supporto dell'Unione europea e possono essere finanziate dal
Fondo sociale europeo.
I fondi strutturali e i fondi di coesione stanno sostenendo lo sviluppo delle
regioni sottosviluppate dell'UE. Tali regioni si trovano principalmente negli
Stati dell'Europa centrale e meridionale. Numerosi fondi forniscono aiuti di
emergenza, sostegno ai membri candidati per trasformare il loro Paese in
conformità con lo standard dell'UE (Phare, ISPA e SAPARD) e sostegno
alla Comunità degli Stati Indipendenti (TACIS). TACIS è ora diventato parte del
programma mondiale EuropeAid.
In questa politica viene affrontata la transizione demografica verso una società
che invecchia la popolazione, bassi tassi di fertilità e spopolamento delle
regioni non metropolitane.
Nel 1957, quando fu fondata la CEE essa non aveva una politica ambientale. Negli
ultimi 50 anni è stata creata una rete sempre più densa di legislazione, che si
estende a tutte le aree di protezione ambientale, inclusi l'inquinamento
atmosferico, la qualità dell'acqua, la gestione dei rifiuti, la conservazione
della natura e il controllo di prodotti chimici, rischi industriali e
biotecnologie. Secondo l'Istituto per la politica ambientale europea, la
legislazione ambientale comprende oltre 500 direttive, regolamenti e decisioni,
rendendo la politica ambientale un'area centrale della politica europea.
I responsabili politici europei hanno originariamente aumentato la capacità
dell'UE di agire sulle questioni ambientali definendolo un problema
commerciale. Gli ostacoli agli scambi e le distorsioni della concorrenza nel
mercato comune potrebbero emergere a causa delle diverse norme ambientali in
ciascuno Stato membro. Negli anni successivi, l'ambiente divenne un settore
politico formale, con i suoi attori politici, princìpi e procedure. La base
giuridica della politica ambientale dell'UE è stata stabilita con l'introduzione
dell'Atto unico europeo nel 1987.
Inizialmente, la politica ambientale dell'UE si è concentrata sull'Europa. Più
recentemente, l'UE ha dimostrato leadership nella governance ambientale globale,
ad esempio il ruolo dell'UE nel garantire la ratifica e l'entrata in vigore
del protocollo di Kyoto nonostante l'opposizione degli Stati Uniti. Questa
dimensione internazionale si riflette nel Sesto programma di azione ambientale
dell'UE che riconosce che i suoi obiettivi possono essere raggiunti solo se gli
accordi internazionali chiave sono attivamente sostenuti e attuati correttamente
sia a livello dell'UE sia a livello mondiale. Il trattato di Lisbona ha
ulteriormente rafforzato le ambizioni di leadership. Il diritto dell'UE ha
svolto un ruolo significativo nel miglioramento della protezione dell'habitat e
delle specie in Europa, nonché nel contribuire a migliorare la qualità dell'aria
e dell'acqua e la gestione dei rifiuti.
La mitigazione dei cambiamenti climatici è una delle massime priorità della
politica ambientale dell'UE. Nel 2007, gli Stati membri hanno convenuto che, in
futuro, il 20% dell'energia utilizzata in tutta l'UE deve essere rinnovabile e
che le emissioni di anidride carbonica devono essere inferiori nel 2020 di
almeno il 20% rispetto ai livelli del 1990. L'UE ha adottato un sistema di
scambio delle emissioni per integrare le emissioni di
carbonio nell'economia. La Capitale verde europea è un premio annuale assegnato
alle città incentrato sull'ambiente, sull'efficienza energetica e sulla qualità
della vita nelle aree urbane per creare una città intelligente.
Nelle elezioni del Parlamento europeo del 2019, i partiti verdi hanno aumentato
il loro potere, probabilmente a causa dell'aumento dei valori post-materialisti.
Nel 2018-2019 sono state proposte per raggiungere un'economia a zero emissioni
di carbonio nell'Unione europea entro il 2050. Quasi tutti gli Stati membri
hanno sostenuto tale obiettivo in occasione di un vertice dell'UE nel giugno
2019. L'Estonia, la Polonia, la Repubblica Ceca e l'Ungheria non erano
d'accordo.
L'UE non ha importanti competenze nel campo dell'assistenza sanitaria e
l'articolo 35 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea afferma
che "Nella definizione e nell'attuazione di tutte le politiche e attività
dell'Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana". La
direzione generale della Salute e dei consumatori della Commissione
europea cerca di allineare le leggi nazionali sulla protezione della salute
delle persone, sui diritti dei consumatori, sulla sicurezza degli alimenti e di
altri prodotti.
Tutta l'UE e molti altri Paesi europei offrono ai loro cittadini una tessera
europea di assicurazione malattia gratuita che, su base reciproca, fornisce
un'assicurazione per le cure mediche di emergenza quando si visitano altri Paesi
europei partecipanti. Una direttiva sull'assistenza sanitaria transfrontaliera
mira a promuovere la cooperazione in materia di assistenza sanitaria tra gli
Stati membri e a facilitare l'accesso a un'assistenza sanitaria transfrontaliera
sicura e di alta qualità per i pazienti europei.
La cooperazione culturale tra Stati membri è stata un interesse dell'UE sin
dalla sua inclusione come competenza comunitaria nel Trattato di Maastricht. Le
azioni intraprese nell'area culturale dall'UE comprendono il programma
settennale Cultura 2000, l'evento del mese culturale europeo, e orchestre come
la European Union Youth Orchestra. Il programma Capitale europea della
cultura seleziona una o più città ogni anno per aiutare lo sviluppo culturale di
quella città.
La capitale europea della cultura è una città designata dall'Unione europea, che
per il periodo di un anno ha la possibilità di mettere in mostra la sua vita e
il suo sviluppo culturale. Diverse città europee hanno sfruttato questo periodo
per trasformare completamente la loro base culturale, e facendo ciò, la loro
visibilità internazionale.
Concepito come un mezzo per avvicinare i vari cittadini europei, la "città
europea della cultura" venne lanciata il 13 giugno 1985 dal Consiglio dei
ministri su iniziativa di Melina Merkouri. Da allora l'iniziativa ha avuto
sempre più successo e un crescente impatto culturale e socioeconomico per i
numerosi visitatori che ha attratto nelle città scelte.
Le città europee della cultura sono state designate su basi intergovernative
fino al 2004; gli Stati membri selezionavano unanimemente le città più adatte a
ospitare l'evento e la Commissione europea garantiva un sussidio per le città
selezionate ogni anno. Dal 2005, le istituzioni europee hanno preso parte alla
procedura di selezione delle città che ospiteranno l'evento.
Nel 1990, i ministri della cultura lanciarono il "mese culturale europeo".
Questo evento è simile alla città della cultura europea ma dura per un periodo
inferiore di tempo ed è indirizzato in particolare alle nazioni dell'Europa
centrale e orientale. Anche per questo evento sono previste sovvenzioni da parte
della Commissione.
La storia della bandiera europea ebbe inizio nel 1955. All'epoca, l'Unione
europea esisteva solo sotto forma di Comunità europea del carbone e
dell'acciaio, con solo sei Stati membri. Diversi anni prima era stato tuttavia
istituito un organismo separato con un numero maggiore di partecipanti -
il Consiglio d'Europa - impegnato nella difesa dei diritti umani e nella
promozione della cultura europea. Il Consiglio d'Europa stava valutando
all'epoca quale simbolo adottare. Dopo varie discussioni, venne adottato
l'attuale disegno: un cerchio di dodici stelle dorate in campo blu. In varie
tradizioni, il dodici è un numero simbolico che rappresenta la completezza. Si
tratta inoltre ovviamente del numero dei mesi dell'anno e delle ore indicate sul
quadrante dell'orologio.
Il cerchio è tra l'altro un simbolo di unità. Si è soliti attribuire il disegno
vincente al disegnatore francese Arsène Heitz il quale successivamente ne fornì
una spiegazione in chiave biblica, facendo riferimento a un'immagine della
devozione alla Madonna propria del dodicesimo capitolo dell'Apocalisse: "Nel
cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole con la luna
sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle". Il Consiglio
d'Europa incoraggiò in seguito le altre istituzioni europee ad adottare la
medesima bandiera e nel 1983 il Parlamento europeo accolse l'invito. Nel 1985 la
bandiera venne infine adottata da tutti i capi di Stato e di governo dell'UE
come emblema ufficiale dell'Unione europea, denominata all'epoca Comunità
europea. Tutte le istituzioni europee utilizzano la bandiera dall'inizio
del 1986, quando, con l'ingresso di Spagna e Portogallo, i membri della Comunità
raggiunsero il numero di dodici. La bandiera europea è l'unico emblema della
Commissione europea, l'organo esecutivo dell'UE. Le altre istituzioni e organi
dell'UE hanno un proprio emblema oltre alla bandiera europea.
L'Agenzia dell'Unione europea per il programma spaziale (EUSPA) in
collaborazione con l'Agenzia spaziale europea (ESA) si occupa dello sviluppo dei
programmi spaziali europei. L'ESA è un'agenzia internazionale fondata nel 1975
incaricata di coordinare i progetti spaziali di 22 Paesi europei.
Il 17 maggio 1968 venne lanciato ESRO-2B, il primo satellite dell'Unione
europea.
Programmi spaziali più importanti:
Sistema di posizionamento Galileo, un sistema di posizionamento e navigazione
satellitare civile, in attività dal 2016 con 26 satelliti orbitanti.
Copernicus, finalizzato a fornire la capacità all'Unione europea di agire
autonomamente nel settore della sicurezza e dell'ambiente tramite rilevazioni
satellitari.
Il Centre spatial guyanais è la sede del principale centro di lancio europeo di
missili spaziali, usato per i razzi Ariane e Vega dell'ESA.
Il calcio è di gran lunga lo sport più popolare nell'Unione europea. Gli altri
sport con il maggior numero di partecipanti nei club sono tennis, pallacanestro,
nuoto, atletica, golf, ginnastica, sport equestri, pallamano, pallavolo e vela.
Lo sport è principalmente di competenza degli Stati membri o di altre
organizzazioni internazionali, piuttosto che dell'UE. Esistono alcune politiche
dell'UE che hanno interessato lo sport, come la libera circolazione dei
lavoratori, che era al centro della sentenza Bosman che proibiva ai campionati
di calcio nazionali di imporre quote ai giocatori stranieri con cittadinanza
europea.
Il trattato di Lisbona impone qualsiasi applicazione delle norme economiche per
tener conto della natura specifica dello sport e delle sue strutture basate
sull'attività volontaria. Ciò è seguito dalle pressioni esercitate da
organizzazioni governative come il Comitato Olimpico Internazionale e la FIFA, a
causa delle obiezioni sull'applicazione dei principi del libero mercato allo
sport, che ha portato a un divario crescente tra i club ricchi e quelli
poveri. L'UE finanzia un programma per gli allenatori di calcio israeliano,
giordano e irlandese (fino al 31 gennaio 2020 anche britannico) nell'ambito del
progetto Football 4 Peace.
Il giorno europeo o festa dell'Europa si celebra il 9 maggio di ogni anno.
Questa data ricorda il giorno del 1950 in cui vi fu la presentazione da parte
di Robert Schuman del piano di cooperazione economica, ideato da Jean
Monnet (cosiddetta Dichiarazione Schuman), che segna l'inizio del processo
d'integrazione europea con l'obiettivo di una futura unione federale.
L'Unione europea ha avuto un impatto economico positivo significativo sugli
Stati membri. Secondo uno studio del 2019 sugli Stati membri che hanno aderito
dal 1973 al 2004, "senza integrazione europea, i redditi pro capite sarebbero
stati in media circa il 10% inferiori nei primi dieci anni dopo l'adesione
all'UE".
L'Unione europea ha contribuito alla pace in Europa, in particolare pacificando
le controversie alle frontiere.
L'Unione europea ha contribuito alla diffusione della democrazia, in particolare
incoraggiando le riforme democratiche negli aspiranti Stati membri. Thomas Risse
scrisse nel 2009: "Esiste un consenso nella letteratura sull'Europa orientale
secondo cui la prospettiva dell'adesione all'UE ha avuto enormi effetti di
ancoraggio per le nuove democrazie".
L'Unione europea è stata criticata, a livello politico e funzionale, per la
complessità della sua sovrastruttura ovvero la complessità burocratica della sua
organizzazione giuridica e dell'apparato normativo con tutti i suoi organi
istituzionali.
(1) Dal 10 febbraio 2020 il Regno Unito si è ritirato dall’Unione europea ed è
diventato un paese terzo (paese extra UE).
La
Regione ha materia esclusiva sui Servizi Sociali
La
Legge Quadro 328/2000 "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato
di interventi e servizi sociali"
individua all'art.22 il
Servizio Sociale Professionale e il Segretariato Sociale come livelli essenziali
di prestazioni sociali in tutto il territorio nazionale
Ai sensi dell'art. 15 della L. 328/00 e ss.mm.ii., ferme restando le competenze
del Servizio sanitario nazionale in materia di prevenzione, cura e
riabilitazione, per le patologie acute e croniche, particolarmente per i
soggetti non autosufficienti, nell'ambito del Fondo nazionale per le politiche
sociali il Ministro per la solidarietà sociale, con proprio decreto determina
annualmente la quota da riservare ai servizi a favore delle persone anziane non
autosufficienti, per favorirne l'autonomia e sostenere il nucleo familiare
nell'assistenza domiciliare alle persone anziane che ne fanno richiesta
Che cosa si intende per "livello essenziale delle prestazioni sociali" (LEP)
Tutti gli interventi, garantiti sotto forma di beni e servizi, previsti dalla
Legge 8 novembre 2000, n. 328, art. 22, comma 2
Ai sensi dell'art. 16, co. 3, L. n. 328/2000, nell'ambito del sistema integrato
di interventi e servizi sociali hanno priorità le prestazioni di aiuto e
sostegno domiciliare, anche con benefìci di carattere economico, in particolare
per le famiglie che assumono compiti di accoglienza, di cura di disabili fisici,
psichici e sensoriali e di altre persone in difficoltà, di minori in
affidamento, di anziani
Secondo l'art. 19 della L. 328/00 e ss.mm.ii., il Piano di Zona è uno strumento
adottato dai comuni per definire gli interventi sociali e sociosanitari.
Uno strumento per l'attivazione di una "rete di servizi integrati" in ambito
sociale e sociosanitario
Ai sensi dell'art. 2 co. 3 della L. 328/00 e ss.mm.ii., accedono
prioritariamente ai servizi e alle prestazioni erogati dal sistema integrato di
interventi e servizi sociali i soggetti in condizioni di povertà o con limitato
reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze
per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella
vita sociale attiva e nel mercato del lavoro
Quale programma, nato alla fine del 2010, persegue, fra l'altro, la finalità di
contrastare l'esclusione sociale dei minorenni e delle loro famiglie, favorendo
azioni di promozione del loro benessere mediante accompagnamento
multidimensionale, al fine di limitare le condizioni di disuguaglianza provocate
dalla vulnerabilità e dalla negligenza familiare, che rischiano di segnare
negativamente lo sviluppo dei bambini a livello sociale e scolastico?
P.I.P.P.I. (Programma di Intervento Per la Prevenzione
dell'Istituzionalizzazione)
Ai sensi dell'art. 346 del codice civile, è preposto alla nomina dei tutori e
dei protutori Il giudice tutelare
Si intende per situazione a "rischio giuridico" di un minorenne, quando il
minorenne è in uno stato giuridico non ancora definito, perché è ancora in fase
di valutazione lo stato di adottabilità dichiarata ed i genitori, e i parenti
entro il quarto grado, possono ancora impugnare il provvedimento
L'art. 403 del Codice Civile si attua quando, a fronte di una grave difficoltà
per il minore, non sia già intervenuta l'autorità giudiziaria in applicazione
degli articoli 330 (decadenza dalla responsabilità genitoriale) o 333 (condotta
del genitore pregiudizievole ai figli) del Codice Civile
L'art. 403 è una disposizione del Codice civile che prevede l'intervento in
autonomia della pubblica autorità al fine di garantire la protezione e la
sicurezza alle persone minori di età rispetto a pericoli gravi e immediati
nell'attesa di provvedimenti da parte del Tribunale per i Minorenni.
La Legge 104/1992 "Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i
diritti delle persone handicappate",
all'articolo 12, garantisce alle persone con handicap all'inserimento agli asili
nido e il diritto all'educazione e all'istruzione nelle classi comuni delle
istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie
La rete dei servizi per i disabili comprende "Servizi per la Domiciliarità" e
"Servizi Residenziali". In particolare, il sistema dei Servizi Residenziali è
invece articolato nelle seguenti unità di offerta:
Residenze Sanitarie Assistite (RSA); Comunità Residenziali; Comunità Alloggio
Il Decreto-legge n. 4/2019 "Istituzione del RdC" all'articolo 4, comma 14,
stabilisce che Patto per il lavoro, Patto per l'Inclusione sociale, i sostegni
previsti nonché la valutazione multidimensionale che li precede, costituiscono i
livelli essenziali delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili a
legislazione vigente
Imposta sul reddito delle persone fisiche - Società
Aliquote irpef
Che cosa è l'aliquota di un tributo? La percentuale che applicata all'imponibile
determina l'ammontare del tributo
Un'imposta si dice progressiva quando l'aliquota media aumenta all'aumentare
della base imponibile.
Un’imposta si dice proporzionale quando l’aliquota media è costante
all’aumentare della base imponibile
Ricordiamo che, per la determinazione dell'IRPEF, l'imposta lorda è calcolata
applicando le seguenti aliquote per scaglioni di reddito:
1.
23% per i redditi fino a 28.000 euro;
2.
35% per i redditi superiori a 28.000 euro e fino a 50.000 euro;
3.
43% per i redditi che superano 50.000 euro.
Secondo quali criteri è applicata l'imposta di soggiorno? Secondo criteri di
gradualità in proporzione al costo del pernottamento
In cosa consiste lo "split payment"? Nell'onere per la Pubblica
Amministrazione acquirente di versare direttamente l'IVA all'erario,
corrispondendo al fornitore il corrispettivo al netto dell'IVA
Imposta sul reddito delle persone fisiche e giuridiche
DPR 22 dicembre 1986 n. 917 Testo Unico delle imposte sui redditi (TUIR)
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L'imposta sul reddito delle persone fisiche, abbreviata con l'acronimo IRPEF, è
l'imposta sul reddito delle persone nella Repubblica Italiana. L'IRPEF è
un'imposta diretta, personale, progressiva a scaglioni e generale. È in vigore
dal 1974 ed è oggi regolata dal testo unico delle imposte sui redditi (TUIR),
emanato con DPR 22 dicembre 1986 n. 917.
Storia
Istituzione nel 1973 e TUIR del 1986
È stata istituita con la riforma del sistema tributario per il 1974, ai sensi
del DPR 29 settembre 1973 n. 597, 598, 599 e conteneva 32 aliquote (dal 10% al
72%) per gli scaglioni di reddito da 2 a 500 milioni di lire, simile a quanto in
vigore all'epoca negli Stati Uniti con l'income tax, da cui prende spunto. Essa
va a sostituire l'Imposta di ricchezza mobile.
Dal 1983 gli scaglioni furono ridotti da 32 a 9 e col DPR n. 917/1986 (il
cosiddetto Testo unico delle imposte sui redditi) si è raccolta la disciplina
dell'IRPEF stessa e dell'IRES (fino al 2003 IRPEG) in un unico testo che ha
sostituito i decreti presidenziali del 1973. Dal 1989 e per quasi tutti gli anni
'90 gli scaglioni furono diminuiti a 7, mentre dall'inizio degli anni 2000 e
fino al 2021 gli scaglioni sono stati soltanto 5, con l'aliquota più bassa al
23% e la più alta al 43%.
A partire dal 2022 gli scaglioni sono stati ridotti a 4, pur mantenendo
invariate le aliquote massima e minima.
Nel 2023 sono allo studio diverse ipotesi di modifica ulteriore del sistema di
aliquote, tutte caratterizzate soprattutto da una diminuzione da 4 a 3 aliquote
stesse, con dei vantaggi che andrebbero principalmente ai ceti più abbienti
secondo le simulazioni sulle varie proposte. Questo sarebbe il primo passaggio
per arrivare entro qualche anno alla flat-tax.
Progetto inattuato dell'IRE del 2004
L'IRE, introdotta dalla legge 30 dicembre 2004 avrebbe dovuto sostituire
l'IRPEF. L'IRE si basava sugli stessi principi ed elementi generali sui quali
operava l'IRPEF. Tale imposta prevedeva: l'inclusione tra i soggetti passivi
degli enti non commerciali; la sostituzione delle detrazioni d'imposta con
deduzioni del reddito complessivo e la riduzione delle aliquote a due (23% per i
redditi fino a 100.000 euro e 33% per i redditi superiori a tale importo). Tale
trasformazione non fu mai resa operativa, non essendo mai stati emanati i
decreti attuativi. È stata abrogata dalla legge 27 dicembre 2006, che ha
contestualmente reintrodotto l'IRPEF.
Statistiche
Si stima che essa fornisca circa il 40% del gettito fiscale dello Stato.
Infatti, nel 2020, a fronte di entrate tributarie pari a 446.796 milioni di
euro, 187.436 milioni di euro sono derivati dall'IRPEF.
Le eccezioni alle aliquote ordinarie
Vi sono state e vi sono tuttora alcune eccezioni alle aliquote generali
nazionali (evidenziate in grassetto le eccezioni in vigore):
l'Eurotassa (solo per il 1997) al fine di abbassare il deficit di bilancio al 3%
per essere ammessi all'Unione Monetaria;
l'istituzione dal 2002 della no tax area (vedere anche sotto) per redditi
particolarmente bassi (solitamente sotto gli 8.000€ di reddito da lavoro
dipendente o i 4.000€ di reddito da lavoro autonomo);
Bonus fiscali: Bonus incapienti (solo per il 2007), Bonus IRPEF (o "bonus degli
80 euro", dal 2014) poi sostituito dal luglio 2020 con il TIR (Trattamento
Integrativo del Reddito da lavoro dipendente per redditi fino a una certa
soglia, pari a 1200€ dal 2021;
Imposte sostitutive per Partite IVA e lavoratori autonomi: istituzione
del regime dei minimi dal 2008, poi sostituito dal regime forfettario dal 2016;
Imposte sostitutive per redditi e patrimoni dall'estero: istituzione dal 2017 di
una flat-tax di 100.000€ massimi forfettari annuali per redditi provenienti
dall'estero di persone che non risiedano in Italia da almeno 9 anni negli ultimi
10 (regola concepita per attrarre persone particolarmente ricche dall'estero).
Presupposto e caratteristiche dell'imposta
Presupposto dell'imposta è il possesso di redditi rientranti in una delle
seguenti categorie: redditi fondiari, redditi di capitale, redditi di lavoro
dipendente, redditi di lavoro autonomo, redditi di impresa, redditi diversi.
Tale imposta funge anche da imposta sui redditi da capitale per le persone
fisiche, i quali vengono tassati al 26%.
È un'imposta progressiva, in quanto colpisce il reddito con aliquote che
dipendono dagli scaglioni di reddito, ed è di carattere personale, essendo
dovuta, per i soggetti residenti sul territorio dello Stato, per tutti i redditi
posseduti, anche se prodotti all'estero.
L'imposta lorda è determinata applicando al reddito complessivo, al netto degli
oneri deducibili indicati nell'articolo 11 TUIR, le seguenti aliquote per
scaglioni di reddito:
Soggetti destinatari
I soggetti passivi dell'IRPEF (art. 2, DPR 917/1986) sono:
le persone residenti sul territorio italiano, per i cespiti posseduti e i
redditi prodotti in patria o all'estero;
le persone non residenti sul territorio italiano, per i redditi prodotti nel
territorio italiano;
i soggetti passivi impropri, ossia le società di persone e, con innovazione
recente, le società di capitali i cui soci - ricorrendone le condizioni - hanno
adottato la cosiddetta "tassazione per trasparenza", simile a quella delle
società di persone. In questo caso è la società che deve consegnare la
dichiarazione dei redditi, ma sono tenuti a pagare l'imposta i soci (non la
società), secondo la loro quota di partecipazione agli utili prodotti dalla
società stessa.
Dal 1º gennaio 1999, si considerano residenti, salvo prova contraria, i
cittadini italiani cancellati dall'anagrafe dei residenti emigrati nei paradisi
fiscali, Stati a regime fiscale privilegiato (art. 10).
In particolare, va provato che il soggetto emigrato:
risieda fiscalmente nel paese nella cui anagrafica risulta iscritto e non in
Italia (es. contratto di erogazione di acqua, luce, gas, ecc. pagati nel Paese
straniero);
vi svolga la propria attività (es. contratto di lavoro);
abbia trasferito nel Paese a regime fiscale privilegiato i propri interessi
familiari, sociali ed economici (es. iscrizione nelle liste elettorali).
È considerato residente il soggetto iscritto all'anagrafe italiana per la
maggior parte dell'anno. Per "maggior parte dell'anno" si intende almeno 183
giorni in un anno, anche non continuativi (184 per anni bisestili). È altresì
considerato residente chi ha per la maggior parte dell'anno in Italia
il domicilio o la residenza, anche se non iscritto all'anagrafe.
Va precisato (c.m. 201/1996) che nel computo dei 183 giorni, per i lavoratori
dipendenti, vanno considerate le frazioni di giorno, giorni di festivi e non
lavorativi in cui è stata svolta l'attività lavorativa, giorno di arrivo e
partenza e i giorni di malattia. Il reddito prodotto in Italia da soggetti non
residenti non comporta l'esclusione dall'assoggettamento a imposta. Il
trasferimento all'estero di un soggetto che però mantiene l'abitazione in
Italia, e quindi l'assenza più o meno lunga.
Base imponibile
L'imposta si applica sul reddito complessivo dei soggetti passivi, formato, -
per i residenti, dai redditi posseduti al netto degli oneri deducibili (art. 10,
DPR 917/1986), nonché delle deduzioni spettanti (artt. 11 e 12, DPR 917/1986) -
per i non residenti, dai redditi prodotti nel territorio dello Stato (art. 3, c.
1, DPR 917/1986). Sono esclusi i redditi soggetti a tassazione separata,
elencati dall'art. 17 (ex art. 16) del DPR 917/1986, a meno che il contribuente
non abbia optato per la tassazione ordinaria (art. 3, c. 2, DPR 917/1986).
Sono esclusi dalla base imponibile:
i redditi esenti dall'imposta e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo
di imposta o a imposta sostitutiva (art. 3, c. 3, lettera a), DPR 917/1986);
gli assegni periodici destinati al mantenimento dei figli (art. 3, c. 3, lettera
b), DPR 917/1986);
gli assegni familiari, l'assegno per il nucleo familiare e gli emolumenti per
carichi di famiglia erogati nei casi consentiti dalla legge (Art. 3, c. 3,
lettera d), DPR 917/1986);
la maggiorazione sociale dei trattamenti pensionistici prevista dall'articolo 1
della L. 29 dicembre 1988, n. 544 (art. 3, c. 3, lettera d-bis), DPR 917/1986);
le somme corrisposte a titolo di borsa di studio dal Governo italiano a
cittadini stranieri in forza di accordi e intese internazionali (art. 3, c. 3,
lettera d-ter), DPR 917/1986).
Il reddito complessivo (art. 8, DPR 917/1986) è la somma dei redditi di una
delle seguenti categorie (Art. 6, DPR 917/1986):
redditi di lavoro dipendente (artt. 49 - 52, DPR 917/1986);
redditi di lavoro autonomo (artt. 53 - 54, DPR 917/1986);
redditi fondiari (artt. 25 - 43, DPR 917/1986);
redditi di capitale (artt. 44 - 48, DPR 917/1986);
redditi di impresa (artt. 55 - 66, DPR 917/1986);
redditi diversi (Artt. 67 - 71, DPR 917/1986).
La no tax area
Istituita con la Legge 289/2002, la no tax area (deduzione da lavoro e da
pensione) è il nome non tecnico di un valore di reddito al di sotto del quale la
persona è esente da imposizione fiscale. Non si tratta di un’esenzione fissata
direttamente dalla legge, ma del risultato dell’applicazione delle diverse
detrazioni per lavoro dipendente o pensione o da lavoro autonomo, che sono
decrescenti al crescere del reddito. La parte di reddito non soggetta
a tassazione è inversamente proporzionale al reddito percepito fino ad
annullarsi dopo un certo valore.
By Ministero dell'Economia e delle Finanze - Dipartimento delle Finanze
L’imposta municipale propria (IMU) è l’imposta dovuta per il possesso di
fabbricati, escluse le abitazioni principali classificate nelle categorie
catastali diverse da A/1, A/8 e A/9, di aree fabbricabili e di terreni agricoli
ed è dovuta dal proprietario o dal titolare di altro diritto reale (usufrutto,
uso, abitazione, enfiteusi, superficie), dal concessionario nel caso di
concessione di aree demaniali e dal locatario in caso di leasing.
L’IMU è stata introdotta, a partire dall’anno 2012, sulla base dell’art. 13 del
D. L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214,
in sostituzione dell’imposta comunale sugli immobili (ICI).
A decorrere dal 2014 e fino al 2019, poi, l’IMU è stata individuata dalla legge
27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità per il 2014) quale imposta facente
parte, insieme al tributo per i servizi indivisibili (TASI) e alla tassa sui
rifiuti (TARI), dell’imposta unica comunale (IUC).
La legge 27 dicembre 2019, n. 160 (legge di bilancio per il 2020) ha
successivamente abolito, a decorrere dall’anno 2020, la IUC e – tra i tributi
che ne facevano parte – la TASI. Sono, invece, rimasti in vigore gli altri due
tributi che componevano la IUC, vale a dire la TARI e l’IMU, quest’ultima come
ridisciplinata dalla stessa legge n. 160 del 2019.
L'IMU si applica in tutti i comuni del territorio nazionale. È fatta salva
l'autonomia impositiva prevista dai rispettivi statuti della regione
Friuli-Venezia Giulia e delle province autonome di Trento e di Bolzano; per
queste ultime province continuano ad applicarsi, rispettivamente, l’Imposta
immobiliare semplice (IMIS) e l’imposta municipale immobiliare (IMI) [art. 1,
comma 739, della legge n. 160 del 2019].
Imposta municipale propria
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L'imposta municipale unica (IMU) o imposta municipale propria è un tributo
(imposta) del sistema tributario italiano, in vigore dal 2012. È un tributo
diretto di tipo patrimoniale, essendo applicato sul componente
immobiliare del patrimonio. Istituita per sostituire l'imposta comunale sugli
immobili (ICI), ha inglobato anche parte dell'imposta sul reddito delle persone
fisiche (IRPEF) e delle relative addizionali per quanto riguarda i redditi
fondiari su beni non locati.
Storia
L'IMU è stata introdotta in sostituzione dell'ICI nell'ambito della legislazione
attuativa del federalismo fiscale dal governo Berlusconi IV con il d.lgs. n. 23
del 14 marzo 2011 (artt. 7, 8 e 9), pubblicato sulla G.U. n. 67 del 23 marzo
2011 che ne stabiliva la vigenza dal 2014 per gli immobili diversi
dall'abitazione principale (art. 8, comma 2°, d.lgs. n. 23/2011).
Il governo Monti, con decreto legge n. 201 del 6 dicembre 2011 (G.U. n. 284 del
6 dicembre 2011, supplemento ordinario n. 251), recante disposizioni urgenti per
la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici (noto come "manovra
Salva Italia") poi convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 22
dicembre 2011 (G.U. n. 300 del 27 dicembre 2011, S.O. n. 276), ha modificato la
natura dell'imposta rendendola di fatto un'ICI sulle abitazioni principali e ne
ha anticipato l'introduzione, in via sperimentale, al 2012, prevedendone
l'applicazione a regime dal 2015, incrementando sensibilmente la base
imponibile, mediante specifici moltiplicatori delle rendite catastali.
Descrizione. Presupposto dell'imposta
Presupposto dell'imposta è il possesso di beni immobili: fabbricati, inclusa
abitazione principale e pertinenze, e terreni agricoli. La prima formulazione
della disciplina prevedeva che il tributo si sarebbe dovuto applicare solo sui
beni immobili diversi dall'abitazione principale e relative pertinenze.
Definizione di abitazione principale e pertinenze
Il decreto salva Italia definiva abitazione principale «l'immobile, iscritto o
iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale
il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente». In seguito alle
modifiche apportate dall'art. 4, d.l. 16/2012 l'abitazione principale è definita
come «l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica
unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano
abitualmente e risiedono anagraficamente». Le "pertinenze" sono «esclusivamente
quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura
massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali
indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità a uso abitativo».
Soggetti dell'imposta.
Soggetti attivi
Il soggetto attivo dell'imposta è il Comune. In seguito alla legge n. 228 del 24
dicembre 2012 (legge di stabilità 2013), pubblicata in G.U. il 29 dicembre 2012,
permane la soggettività attiva dello Stato per la quota di imposta municipale
propria gravante sugli immobili a uso produttivo classificati nel gruppo
catastale D, calcolata con l'applicazione dell'aliquota base dello 0,76%.
L'accertamento e la riscossione del tributo competono al Comune, cui spettano
anche le somme recuperate, le sanzioni e gli interessi.
Soggetti passivi
I soggetti passivi del tributo sono individuati dall'art. 9 del d.lgs. n.
23/2011 nel proprietario, ovvero nel titolare di diritto reale di usufrutto,
uso, abitazione, enfiteusi e superficie secondo le quote di possesso. Sono
soggetti passivi anche il locatario del bene immobile nel caso di locazione
finanziaria e il concessionario nelle ipotesi di concessioni demaniali.
Determinazione dell'importo
L'importo è pari al prodotto tra la base imponibile e l'aliquota, con
una detrazione nel caso dell'abitazione principale.
Base imponibile
La base imponibile si ottiene moltiplicando la rendita catastale (reddito dei
fabbricati in caso di fabbricati, reddito dominicale per i terreni) con
rivalutazione rispettivamente del 5% e del 25%. Quest'importo deve essere
moltiplicato per dei coefficienti in funzione della categoria catastale. Essi
sono:
160 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale A, con esclusione della
categoria A/10, e nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7;
140 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale B e nelle categorie
catastali C/3, C/4 e C/5;
80 per i fabbricati classificati nelle categorie catastali A/10 e D/5;
65 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale D, con esclusione della
categoria D/5 (60 prima del 1º gennaio 2013);
55 per i fabbricati classificati nella categoria catastale C/1;
135 per i terreni agricoli (per i coltivatori diretti iscritti alla previdenza
agricola il moltiplicatore è ridotto a 75 a partire dal 1º gennaio 2014).
Per i terreni fabbricabili la base imponibile è il valore venale del bene,
mentre per gli immobili sprovvisti di rendita si impiegano altri metodi di
calcolo.
Aliquote
Il decreto-legge che introduce l'imposta definisce delle aliquote base,
modificabili dalle amministrazioni comunali con delibera del consiglio comunale.
Le aliquote sono:
0,40% per l'abitazione principale, modificabile dello 0,2% in aumento o
diminuzione;
0,20% per i fabbricati rurali a uso strumentale del coltivatore diretto, i
comuni possono ridurla a 0,1%;
0,76% per gli immobili che non producono reddito fondiario e per quelli
posseduti da soggetti passivi ires ovvero per gli immobili locati, modificabile
fino a 0,4%;
0,76% per i restanti casi, modificabile con un minimo pari a 0,46% e un massimo
pari a 1,06%.
Inoltre, i comuni hanno la possibilità di ridurre l'aliquota base fino allo
0,38% per i fabbricati destinati dall'impresa costruttrice alla vendita,
fintanto che permanga tale destinazione e non siano locati, e per un periodo non
superiore a tre anni dall'ultimazione dei lavori. Tanto recita il comma 9bis
dell'art. 13 del d.l. nº 201/2011, come introdotto dall'art. 56 del d.l. n.
1/2012.
Infine, l'art. 4 comma 8 bis d.l. 16/2012, come modificato dalla legge 44/2012
di conversione in legge del predetto decreto, ha stabilito che «i terreni
agricoli posseduti da coltivatori diretti o da imprenditori agricoli
professionali di cui all'art. 1 del d.lgs. n. 99 del 29 marzo 2004 e successive
modificazioni, iscritti nella previdenza agricola, purché dai medesimi condotti,
sono soggetti all'imposta limitatamente alla parte di valore eccedente euro
6.000 e con le seguenti riduzioni:
a) del 70 per cento dell'imposta gravante sulla parte di valore eccedente i
predetti euro 6.000 e fino a euro 15.500;
b) del 50 per cento dell'imposta gravante sulla parte di valore eccedente euro
15.500 e fino a euro 25.500;
c) del 25 per cento dell'imposta gravante sulla parte di valore eccedente euro
25.500 e fino a euro 32.000.»
Detrazioni
Per le abitazioni principali è prevista una detrazione pari a 200 €; qualora i
requisiti di abitazione principale siano soddisfatti per parte dell'anno, detta
detrazione è moltiplicata per un fattore pari alla frazione di tempo in cui i
requisiti sono soddisfatti. Per gli anni 2012 e 2013 c'è un'ulteriore detrazione
di 50 € per ogni figlio di età non superiore a 26 anni e residente
anagraficamente e abitualmente dimorante nell'immobile per cui si chiede la
detrazione, con un massimo di 400 €. Il doppio requisito è piuttosto stringente
e potrebbe far sorgere il problema costituzionale della violazione del principio
di eguaglianza.
Infatti, non v'è differenza tra la famiglia A, composta da padre, madre e figlio
residente e abitualmente dimorante presso l'abitazione principale e la famiglia
B composta da padre, madre e figlio residente presso l'abitazione principale ma
abitualmente dimorante in altra città, ad es. per motivi di studio. Nel caso A
il soggetto passivo gode dell'ulteriore detrazione di 50 €, nel caso B no.
Poiché inoltre, come detto, la detrazione per i figli non può essere superiore a
400 €, la detrazione massima è di 600 €. I comuni, salvo il rispetto del vincolo
di bilancio, possono elevare la detrazione fino ad annullare l'importo.
Dal 2022 la deducibilità è assoluta.
Dichiarazione
La dichiarazione IMU è disciplinata dall'art. 13, c. 12-ter, del decreto-legge
"Salva Italia" (n. 201/2011). La disposizione impone ai soggetti passivi di
«presentare la dichiarazione entro novanta giorni dalla data in cui il possesso
degli immobili ha avuto inizio o sono intervenute variazioni rilevanti ai fini
della determinazione dell'imposta, utilizzando il modello approvato con il
decreto di cui all'art. 9, comma 6, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n.
23». Il modello di dichiarazione è stato approvato con il Decreto del Ministero
dell'Economia e delle Finanze 30 ottobre 2012, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 258 del 5 novembre 2012. Sul termine per la presentazione della
dichiarazione non v'è certezza, ma è probabile che sia il 4 febbraio 2013.
Infatti, in base alla pubblicazione del modello di dichiarazione e alla
conversione del Decreto "Enti Locali" che modifica l'art. 13, c. 12-ter, d.l.
201/2011, fissando il termine in 90 giorni dalla pubblicazione in G.U. del
modello di dichiarazione, il termine dovrebbe essere quello suddetto.
Quota di imposta riservata allo Stato
Viene riservato allo Stato il gettito dell'imposta municipale propria derivante
dagli immobili classificati nel gruppo catastale D, calcolato con aliquota
standard dello 0,76 per cento (che pertanto non può essere fissata sotto tale
limite). Tale versamento è effettuato separatamente da quello dell'Imu spettante
al Comune, compilando una separata riga di F24 con un codice del tributo
diverso.
In passato, ai sensi dell'art. 13, c. 11, d.l. 201/2011 era riservata allo Stato
una quota di imposta municipale propria pari al 50% del gettito derivante
dall'applicazione del tributo agli immobili diversi dall'abitazione principale e
relative pertinenze nonché dai fabbricati rurali a uso strumentale individuati
dal comma 8 della medesima disposizione. Il calcolo veniva effettuato
sull'aliquota di base di cui al comma 6, pari allo 0,76%. In altri termini, per
tutti gli immobili diversi da quelli appena indicati, allo Stato era riservata
una quota di gettito calcolata applicando a tale base imponibile l'aliquota
dello 0,38%. Come noto, per poter effettuare il pagamento è stato necessario
istituire nuovi codici tributo e adattare i mod. F24 e i contribuenti hanno
dovuto effettuare due versamenti: uno in favore del Comune e uno in favore dello
Stato. Con la legge n. 228 del 24 dicembre 2012 (cosiddetta "legge di
stabilità", ex legge finanziaria), pubblicata in G.U. il 29 dicembre 2012, è
stata soppressa la quota di imposta riservata allo Stato (art. 1, c. 380). La
norma, poi, introduce un meccanismo di riparto delle finanze pubbliche tra Stato
ed Enti locali, mediante l'istituzione di un fondo di solidarietà comunale
alimentato da una quota dell'imposta municipale di spettanza dei comuni.
NUOVA IMU 2020, LEGGE 27 DICEMBRE 2019, N. 160
Legge 27 dicembre 2019, n. 160 Nuova IMU 2020 - Bilancio di previsione dello
Stato per l'anno finanziario 2020 by amministrazionicomunali.it
Con la Legge di Bilancio 2020 dal 1° gennaio 2020 è stata abrogata la TASI ed è
stata istituita la nuova IMU che accorpa in parte la precedente TASI
semplificando la gestione dei tributi locali e definendo con più precisione
dettagli legati al calcolo dell'imposta.
Nella nuova IMU sono invariati i moltiplicatori.
Sono state riviste le aliquote base che diventano uguali alla somma delle
aliquote base IMU e TASI.
L'aliquota base IMU per le abitazioni principali di lusso è pari al 5 permille
(comma 748) e il Comune la può aumentare fino al 6 permille o ridurre fino
all'azzeramento
L'aliquota base per le altre tipologie di immobili è pari all'8,6 permille (7,6
IMU + 1 TASI), aliquota massima 10,6 permille, oppure ridotta fino
all'azzeramento (tranne il gruppo D dove c'è la quota statale). I Comuni che
hanno in precedenza utilizzato la maggiorazione TASI dello 0,8 possono
continuare ad applicarla per avere quindi un'aliquota IMU massima pari all'11,4
per mille (comma 755).
Resta confermata l'esenzione per le abitazioni principali non di lusso
(categorie catastali dalla A2 alla A7).
Per quanto riguarda le altre tipologie di immobili, quelli che prima erano
esenti IMU (rurali strumentali e beni merce) sono soggetti IMU con le stesse
aliquote base TASI ovvero:
Fabbricati rurali strumentali (comma 750): aliquota base 1 permille, aliquota
massima 1 permille, oppure ridotta fino all'azzeramento
Beni merce (comma 751) e solo fino al 2021: aliquota base 1 permille, aliquota
massima 2,5 permille, oppure ridotta fino all'azzeramento. Esenti dal 2022
Terreni agricoli (comma 752): aliquota base 7,6 permille, aliquota massima 10,6
permille, oppure ridotta fino all'azzeramento. I terreni incolti sono
espressamente citati ed equiparati ai terreni agricoli (comma 746).
Immobili ad uso produttivo - gruppo catastale D (comma 753): aliquota base 8,6
permille (7,6 permille è riservata allo stato) aliquota massima 10,6 permille,
aliquota minima 7,6 permille.
Sono state in gran parte riconfermate le tipologie di abitazioni assimilabili ad
abitazione principale con una eccezione importante che riguarda i pensionati
AIRE che adesso non beneficiano più dell'esenzione per l'abitazione posseduta in
Italia.
Dal 2021 i pensionati residenti all'estero titolari di pensione maturata in
regime di convenzione internazionale hanno diritto alla riduzione dell'IMU per
una sola unità immobiliare non locata o data in comodatio. La riduzione è pari
al 50% dell'imposta. Per il 2022 la riduzione è portata al 62,5% e quindi su
questa unità pagano un'imposta ridotta al 37,5%.
Per quanto riguarda la determinazione dell'imposta il calcolo è mensile (comma
761).
Per nuovi immobili il primo mese si conta se il possesso si è protratto per più
della metà dei giorni di cui il mese stesso è composto; in caso di parità di
giorni è comunque in capo all'acquirente:
mese di 28 giorni: il mese è in capo all'acquirente se il possesso inizia entro
il giorno 15 del mese;
mese di 29 giorni: il mese è in capo all'acquirente se il possesso inizia entro
il giorno 15 del mese;
mese di 30 giorni: il mese è in capo all'acquirente se il possesso inizia entro
il giorno 16 del mese;
mese di 31 giorni: il mese è in capo all'acquirente se il possesso inizia entro
il giorno 16 del mese;
Fino al 2019 il versamento era da effettuarsi in 2 rate uguali pari al 50%
dell'importo (salvo conguaglio a saldo). Dal 2020 il calcolo è da effettuarsi in
base al possesso mensile ovvero per semestre (comma 762) sempre considerando il
conguaglio a saldo in caso di possibili variazioni di aliquote da parte del
Comune.
Le scadenze sono il 16 Giugno e il 16 Dicembre. Per il 2020 sono martedì 16
Giugno e mercoledì 16 Dicembre.
Solo per il 2020 l'acconto dovrà essere uguale al 50% di quanto versato nel 2019
per IMU e TASI
Legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità per il 2014)
Tassa sui rifiuti.
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Storia
È stata introdotta con la legge di stabilità per il 2014 in sostituzione delle
precedenti Tariffa di igiene ambientale (TIA) e Tassa per lo smaltimento dei
rifiuti solidi urbani (TARSU) e Tributo comunale sui rifiuti e sui
servizi (TARES). Tale tributo faceva parte dell'imposta unica comunale (IUC)
insieme con l'imposta municipale propria (IMU) e il tributo per i servizi
indivisibili (TASI).
Presupposto
Il presupposto della TARI è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di
locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre
rifiuti urbani. Sono escluse dalla TARI le aree scoperte pertinenziali o
accessorie a locali tassabili, non operative, e le aree comuni condominiali che
non siano detenute o occupate in via esclusiva. Se la detenzione o il possesso è
inferiore a 6 mesi, il soggetto passivo è il proprietario.
Caratteristiche
La TARI è dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree
scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. In
caso di pluralità di possessori o di detentori, essi sono tenuti in solido
all'adempimento dell'unica obbligazione tributaria.
Il comune può prevedere una riduzione o esenzione per utenze non domestiche
«proporzionale alla quantità, debitamente certificata, dei beni e dei prodotti
ritirati dalla vendita e oggetto di donazione» a indigenti e persone in
difficoltà (legge 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1, comma 652), e riduzioni o
agevolazioni, fra gli altri, per le «abitazioni con unico occupante» (art. 1,
comma 659, lettera a)).
La Legge 27 dicembre 2019 n. 160 (Legge di Bilancio 2020)
Canone unico patrimoniale per occupazione di suolo pubblico e pubblicità: regole
ed eccezioni
Rosy D’Elia
Dal 1° gennaio 2021 è entrato in vigore il canone unico patrimoniale: consiste
nella somma dovuta a comuni, province e città metropolitane per l’occupazione di
suolo pubblico e per gli spazi pubblicitari.
La novità ha sostituito una serie di tasse e canoni da versare agli enti locali,
tra cui anche TOSAP e COSAP.
Canone unico patrimoniale 2022 per occupazione di suolo pubblico e pubblicità,
come funziona
A introdurre il canone unico patrimoniale dal 1° gennaio 2021 è stata la Legge
di Bilancio 2020: all’articolo 1, con i commi da 816 a 836, è stata riordinata
la disciplina in materia di occupazione di aree pubbliche e diffusione di
messaggi pubblicitari.
Sono stati, in questo modo, sostituiti una serie di canoni, tasse e imposte
esistenti:
tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP);
canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (COSAP);
imposta comunale sulla pubblicità e il diritto sulle pubbliche affissioni
(ICPDPA);
canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari (CIMP);
canone di cui all’articolo 27, commi 7 e 8, del decreto legislativo 30 aprile
1992, n. 285 (Codice della strada), limitatamente alle strade di pertinenza dei
comuni e delle province.
Sono due i presupposti del CUP, canone unico patrimoniale:
l’occupazione, anche abusiva, delle aree che appartengono al demanio o al
patrimonio indisponibile degli enti e degli spazi soprastanti o sottostanti il
suolo pubblico;
la diffusione di messaggi pubblicitari, anche abusiva, tramite impianti
installati su aree che appartengono al demanio o al patrimonio indisponibile
degli enti, su beni privati nel caso in cui siano visibili da luogo pubblico o
aperto al pubblico del territorio comunale, o anche all’esterno di veicoli
adibiti a uso pubblico o a uso privato.
È tenuto a versare le somme dovute agli enti locali, che sono tenuti a stabilire
un apposito regolamento, il titolare dell’autorizzazione o della concessione, o
anche colui che effettua l’occupazione o la diffusione dei messaggi
pubblicitari in maniera abusiva.
Canone unico patrimoniale per occupazione di suolo pubblico e pubblicità:
tariffe e modalità di versamento
Il versamento del canone unico patrimoniale deve essere effettuato direttamente
a comuni, province, città metropolitane nel momento in cui viene rilasciata
la concessione o dell’autorizzazione all’occupazione del suolo pubblico o
alla diffusione di messaggi pubblicitari.
La norma stabilisce le regole generali da seguire per il calcolo, ma sono gli
enti locali a prevedere un regolamento ad hoc.
Sono diversi i fattori che incidono sulla cifra da versare:
per le occupazioni di suolo pubblico, si deve considerare la durata, la
superficie, espressa in metri quadrati, la tipologia e le finalità, la zona;
per la pubblicità è rilevante la superficie complessiva del mezzo pubblicitario,
calcolata in metri quadrati, indipendentemente dal tipo e dal numero dei
messaggi diffusi. Non sono soggette al canone le superfici inferiori a trecento
centimetri quadrati ed è obbligato in solido al pagamento il soggetto che
utilizza il mezzo per diffondere il messaggio.
Non mancano, poi, le regole particolari: ad esempio, sono previsti criteri
particolari per la determinazione della superficie delle occupazioni realizzate
con passi carrabili e si applicano delle maggiorazioni in caso di oneri
aggiuntivi di manutenzione che derivano dall’occupazione del suolo.
La Legge di bilancio 2020 ha fissato anche le tariffe annue e giornaliere da
considerare, che possono essere comunque modificate dagli enti a patto che non
si riduca il gettito garantito da tasse, imposte e canoni precedenti al CUP.
Di seguito le tariffe annuali da utilizzare come base di calcolo.
Classificazione dei Comuni
Tariffa standard intero anno solare
Comuni con oltre 500.000 abitanti euro 70,00
Comuni con oltre 100.000 fino a 500.000 abitanti euro 60,00
Comuni con oltre 30.000 fino a 100.000 abitanti euro 50,00
Comuni con oltre 10.000 fino a 30.000 abitanti euro 40,00
Comuni fino a 10.000 abitanti euro 30,00
Di seguito le tariffe giornaliere da utilizzare come base di calcolo.
Classificazione dei Comuni
Tariffa standard giornaliera
Comuni con oltre 500.000 abitanti euro 2,00
Comuni con oltre 100.000 fino a 500.000 abitanti euro 1,30
Comuni con oltre 30.000 fino a 100.000 abitanti euro 1,20
Comuni con oltre 10.000 fino a 30.000 abitanti euro 0,70
Comuni fino a 10.000 abitanti euro 0,60
La Legge di Bilancio 2020, inoltre, specifica:
“I comuni capoluogo di provincia e di città metropolitane non possono collocarsi
al di sotto della classe (...) riferita ai comuni con popolazione con oltre
30.000 fino a 100.000 abitanti. Per le province e per le città metropolitane le
tariffe standard annua e giornaliera sono pari a quelle della classe dei comuni
fino a 10.000 abitanti”.
Nei termini stabiliti dai regolamenti territoriali il versamento del canone
unico patrimoniale può essere effettuato anche in più rate, solitamente
trimestrali ed entro la scadenza della concessione o dell’autorizzazione.
A definire la cornice all’interno della quale gli enti locali possono garantire
riduzioni ed esenzioni è poi l’articolo 1 della legge n. 160 del 2019, dal comma
828 al comma 834.
''NUOVO CODICE DELLA STRADA''
(decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285 e successive modificazioni)
Il Codice della Strada è stato approvato con Decreto Legislativo 30 aprile 1992,
n. 285 ed è accompagnato da un Regolamento di attuazione. Il Codice della Strada
è entrato in vigore il 1° gennaio 1993. By patente.it
Questo testo è costantemente aggiornato per adeguarsi alla normativa europea e
stare al passo con la società e i problemi che si presentano in fatto di strade
e circolazione stradale.
Il codice della strada è composto da vari Titoli (Titolo I, Titolo II, ecc.) che
trattano di diversi argomenti, dalle costruzioni delle strade alle norme di
comportamento per i conducenti; le disposizioni in esso contenute devono essere
applicate tenendo anche presente il corrispondente Regolamento di attuazione.
Spesso non è sufficiente nemmeno il regolamento di attuazione a spiegare certe
procedure e determinati meccanismi, ragione per cui le circolari interne, quelle
del Ministero dei Trasporti nella maggior parte dei casi, sono ben accette nel
momento in cui vengono chiariti i punti critici.
Codice della strada (Italia) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il codice della strada in Italia è il codice stradale vigente nella Repubblica
Italiana, che disciplina la circolazione stradale ed indica una generale
disciplina dei trasporti.
Dopo la nascita dello Stato italiano, una delle prime norme in tema fu la legge
20 marzo 1865, n. 2248, che all'allegato D che stabiliva alcune regole sulla
velocità e il corretto comportamento per i conducenti dei veicoli a trazione
animale. Successivamente il regio decreto 15 novembre 1923, n. 2506 dettò delle
regole per la classificazione delle strade presenti sul territorio nazionale; le
strade vennero così divise in cinque classi: la prima classe comprendeva le
strade che costituivano l'insieme della rete viaria di grande traffico e le vie
di comunicazione con gli Stati confinanti; le strade di seconda classe erano
invece tutte quelle il cui tracciato costituiva una via diretta di comunicazione
tra i capoluoghi di provincia, o tra essi e i porti marittimi o i valichi
alpini. Le altre tre classi comprendevano invece tutte quelle strade di
collegamento più prettamente interno e localizzato: la terza classe era quella
delle strade che congiungevano, all’interno di una provincia, il suo capoluogo
con i capoluoghi di mandamento o di circondario; la quarta classe comprendeva,
invece, le strade che congiungevano il centro principale di un comune con le sue
frazioni, con il cimitero o con la stazione ferroviaria più vicina; includeva
inoltre le strade interne dei centri abitati che non costituissero traverse di
strade delle prime tre classi.
Infine, la quinta classe comprendeva tutte le strade militari che fossero aperte
al libero transito dei civili in tempo di pace. La responsabilità della
manutenzione delle strade che ricadevano in questa complessa classificazione
variava, naturalmente, a seconda della classe di appartenenza. Il successivo
regio decreto 2 dicembre 1928 n. 3179 introdusse un sistema di targhe
automobilistiche, con sigle delle province, in luogo dei numeri rossi utilizzati
precedentemente per i veicoli. Tuttavia, non erano ancora previste dalla
legislazione vigente norme relative alla segnalazione stradale, con l'unica
eccezione di alcuni regolamenti risalenti all'epoca napoleonica e concernenti
l'obbligo di posa di pietre miliari lungo le strade. Nel 1933 viene emanato il
primo il codice della strada - col R.D. 8 dicembre 1933, n. 1740 - e nel 1939 la
Corte di Cassazione sentenziò la nullità del decreto del 1923 e il ritorno alla
situazione preesistente quella data.
Al termine della Seconda guerra mondiale, la situazione infrastrutturale
dell’Italia giunse però al collasso. Mentre l’opera di manutenzione era stata
interrotta, le devastazioni causate dai bombardamenti aerei e dall'utilizzo
dell'artiglieria avevano reso del tutto impraticabile il sistema dei trasporti
su strada e su ferrovia. Nel secondo dopoguerra, a partire dal 1950, fu pertanto
necessario pensare ad un piano di lungo periodo che contemplasse un forte
ampliamento della rete autostradale, attraverso l'intervento diretto dello Stato
a sostegno dell'operazione. Tale fu lo scopo del decreto interministeriale del
15 ottobre 1955, che provvedette a indicare, sulla base di uno stanziamento di
100 miliardi in dieci anni, le direttive di un potenziamento della rete per
oltre 1170 chilometri. Con la legge 12 febbraio 1958, n. 126 venne introdotta
una nuova classificazione di carattere amministrativo (in relazione all’Ente
proprietario) ovvero strade statali (a loro volta suddivise in ordinarie e di
grande comunicazione), provinciali, comunali, vicinali e militari, e col D.PR.
15 giugno 1959, n. 393 venne emanato un nuovo codice.
Gli anni successivi furono caratterizzati da uno scarso interesse per le
problematiche stradali, ovviamente anche dal punto di vista normativo: la crisi
petrolifera seguita alla guerra arabo-israeliana del 1973, unita a fattori di
natura interna (alcune concessionarie si erano assunte l’onere della costruzione
e della gestione delle nuove arterie sull’orlo del tracollo, sostenute soltanto
da interventi del Tesoro) portò addirittura lo Stato a decretare con la legge 16
ottobre 1975, n. 492 il blocco della costruzione di nuove autostrade, dei tratti
autostradali e dei trafori di cui non fosse ancora stata effettuata
l’assegnazione dell’appalto.
L’aumento del parco autoveicoli della fine degli anni 1970 portò lo Stato a
riconsiderare la politica di blocco e favorire investimenti nel settore, al fine
di garantire l'efficienza del sistema dei trasporti su gomma: la legge 12 agosto
1982 n. 531, contenente fra l’altro (nella seconda parte), i principi di
classificazione delle arterie che costituivano il sistema delle “strade di
grande comunicazione”. Con questa dicitura si intendevano essenzialmente le
autostrade, i trafori alpini e i raccordi autostradali, ma anche le strade di
grande traffico e di comunicazione con gli Stati confinanti; strutture, quindi,
capaci a pieno titolo di servire elevatissimi volumi di traffico con un livello
sufficiente di sicurezza e comfort per l’utente. I parametri distintivi che
servivano a classificare le strade come “di grande comunicazione” si basavano
dunque su un doppio fattore: il traffico da sostenere e la funzione di
collegamento svolta da parte dell’arteria da classificare.
Su questa base venne poi emanato il decreto ministeriale 20 luglio 1983, n.
2474, nel quale si divideva il sistema viario nazionale in due classi distinte:
le strade ordinarie e le strade di grande comunicazione. Quest’ultima
comprendeva 188 arterie, per complessivi 22.832 chilometri, dei quali 7446
composti da autostrade, raccordi e trafori. Un nuovo codice venne poi emanato
col d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, successivamente modificato dal decreto-legge
27 giugno 2003, n. 151, convertito in legge 1º agosto 2003, n. 214 che
introdusse la patente a punti. Ulteriori aggiornamenti sono avvenuti con il D.M.
27 dicembre 2018, che reca i nuovi importi delle multe in vigore dal 1º gennaio
2019 e il 30 dicembre 2018 con la legge n. 145 (Legge di bilancio 2019).
Il Nuovo codice della strada (decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285 e
successive modificazioni) si compone di 245 articoli. È accompagnato da un
Regolamento di attuazione che comprende 408 articoli e 19 appendici. Il Nuovo
codice della strada è entrato in vigore il 1º gennaio 1993.
TITOLO I - DISPOSIZIONI GENERALI (da art. 1 a art. 12)
TITOLO II - DELLA COSTRUZIONE E TUTELA DELLE STRADE (da art. 13 a art. 45)
TITOLO III - DEI VEICOLI (da art. 46 a art. 114)
TITOLO IV - GUIDA DEI VEICOLI E CONDUZIONE DEGLI ANIMALI (da art. 115 a art.
139)
TITOLO V - NORME DI COMPORTAMENTO (da art. 140 a art. 193)
TITOLO VI - DEGLI ILLECITI PREVISTI DAL PRESENTE CODICE E DELLE RELATIVE
SANZIONI (da art. 194 a art. 224-bis)
TITOLO VII - DISPOSIZIONI FINALI E TRANSITORIE (da art. 225 a art. 240)
Contenuto
Il codice della strada e le direttive dell'Unione europea, basata sulla
classificazione internazionale UNECE, classificano i veicoli in quattro grandi
categorie:
L (motoveicoli, tricicli, quadricicli, ecc., sempre a motore)
M (veicoli a motore destinati al trasporto di persone, aventi almeno quattro
ruote)
N (veicoli a motore destinati al trasporto di merce, con almeno quattro ruote)
O (rimorchi e semirimorchi).
Ciascuna di queste categorie è stata suddivisa in altri sottogruppi, in cui i
veicoli vengono ordinati in base alle proprie caratteristiche tecniche (massa
complessiva, numero dei posti a sedere, cilindrata, ecc.). Altri tipi di
veicoli, diversi da quelli appena considerati, sono:
veicoli a braccia (veicoli spinti ovvero trainati dallo stesso conducente)
veicoli a trazione animale (destinati al trasporto di persone, cose o
all'impiego esclusivo da parte di aziende agricole)
slitte (veicoli a trazione animale muniti di pattini, la loro circolazione è
ammessa quanto sulla sede stradale è presente uno strato di neve ovvero di
ghiaccio sufficiente ad evitare il danneggiamento del manto stradale)
velocipedi (normalmente funzionanti a propulsione muscolare, possono anche avere
un motore elettrico per la cosiddetta pedalata assistita).
Il termine velocipede è utilizzato nel codice della strada per classificare una
famiglia di veicoli, a cui appartiene anche la bicicletta. Soprattutto
nell'ambito di norme e atti sulla circolazione stradale, però, esso viene
utilizzato proprio per indicare la bicicletta, di cui pertanto può essere a
tutti gli effetti un sinonimo. Più comunemente, con velocipede s'intende un
modello di bicicletta del XIX secolo, costituito da una ruota anteriore molto
grande. Sono esclusi dai veicoli invece tutti quei mezzi di locomozione definiti
"acceleratori di andatura" o "acceleratori di velocità". Rientrano in questa
categoria i pattini, i monopattini, gli skateboard, la cui circolazione, in una
interpretazione restrittiva del codice (art. 190), non è ammessa, né
sulla carreggiata, né negli "spazi riservati ai pedoni" e neanche nelle corsie
riservate ai velocipedi.
Principali motoveicoli
Nell'articolo 53 del codice della strada sono elencati i principali tipi
di motociclette riconosciuti in Italia
Principali autoveicoli
Nell'articolo 54 del codice della strada sono elencati i principali tipi
di autoveicoli riconosciuti dall'Italia e cioè:
Autovetture. La carrozzeria di questi autoveicoli può essere coupé, familiare (o
giardinetta), berlina, a due volumi o monovolume. Le autovetture sono state
progettate e costruite per trasportare delle persone, fino a un massimo di 8
passeggeri (escludendo il conducente), e hanno una massa complessiva non
superiore a 3.500 kg. In base alle direttive comunitarie in vigore, le
autovetture possono essere classificate anche come fuoristrada, purché abbiano
le previste caratteristiche tecniche.
Autobus. Anche gli autobus sono destinati al trasporto di persone, ma possono
ospitare più di 8 passeggeri e possono avere una massa complessiva di 19.000
kg (valore massimo per autobus o filobus con 2 assi, sia urbani che suburbani).
Autoveicoli per trasporto promiscuo. Sono quei veicoli che, come dice il nome,
permettono di trasportare insieme cose e persone. Hanno massa non superiore
a 3,5 t (4,5 t se a trazione elettrica o a batteria) e numero di posti non
superiore a 9, compreso il conducente. Attualmente il Codice non prevede più
l'immatricolazione di tali veicoli.
Autocarri. A differenza delle autovetture, questi autoveicoli sono stati
progettati e costruiti principalmente per trasportare delle cose. Di solito,
essi sono caratterizzati da un ampio vano di carico e da un'elevata portata (o
capacità). La carrozzeria può essere costituita da un cassone (fisso,
ribaltabile o intercambiabile), da un furgone (fisso o intercambiabile) e può
comprendere particolari apparecchiature da lavoro come gru o sponde
montacarichi. I posti a sedere (normalmente 1 o 2, di fianco al conducente) sono
destinati al trasporto delle persone addette all'uso o al trasporto delle cose
stesse. Negli ultimi anni, per l'esistenza di agevolazioni fiscali nell'acquisto
e gestione dei mezzi commerciali, si è affermata la tendenza da parte delle case
costruttrici a omologare come autocarro dei mezzi leggeri derivati dalle
autovetture di serie (vengono asportati i sedili posteriori, inserita una
paratia di separazione tra la zona di guida e il vano di carico e oscurati i
finestrini posteriori) e dai fuoristrada, purché abbiano le previste
caratteristiche tecniche.
Trattori stradali. Destinati esclusivamente al traino di rimorchi o
semirimorchi, essi possono essere dotati di un gancio di traino (per i rimorchi)
o di una ralla (per i semirimorchi), oppure di entrambi i dispositivi.
Autoveicoli per trasporto specifico. In genere hanno delle carrozzerie molto
particolari, create per un determinato tipo di trasporto e solo per quello.
Rientrano in questo gruppo, fra gli altri: gli autoveicoli per i rifiuti urbani,
le autocisterne, gli autoveicoli attrezzati per il trasporto di persone
disabili, le autobetoniere.
Autoveicoli per uso speciale. Tutti questi autoveicoli sono provvisti di
speciali attrezzature, concepite e installate permanentemente per un tipo di
impiego ben determinato. L'autoambulanza, per esempio, è un autoveicolo per uso
speciale e così pure l'autocaravan, l'autogrù, l'autofunebre, l'autoveicolo per
soccorso stradale o quello attrezzato come ambulatorio mobile.
Autotreni. Sono composti da una motrice (autoveicolo con gancio di traino) e da
un rimorchio.
Autoarticolati. Ciascuno di essi è formato da un trattore (autoveicolo con
ralla) e da un semirimorchio.
Autosnodati. Sono particolari tipi di autobus, costituiti da due tronconi rigidi
e da una sezione snodata di collegamento. Essi possono avere una massa
complessiva di 30.000 kg (autosnodati con 3 assi), di 40.000 kg (con 4 assi)
oppure di 44.000 kg (con più di 4 assi).
Autocaravan. Più noto come camper, l'autocaravan è un autoveicolo per uso
speciale attrezzato per il trasporto e l'alloggio di non oltre sette persone
(conducente incluso). L'arredamento interno che lo caratterizza, di solito, è
costituito da un certo numero di letti (compatibili con i posti totali
attribuiti al veicolo), una zona per cucinare e pranzare, un vano per i servizi
igienici. Il termine autocaravan può essere utilizzato sia al femminile che al
maschile, anche se sul piano tecnico e normativo è più frequente il primo
genere.
Mezzi d'opera. Sono veicoli (o complessi di veicoli) dotati di particolari
attrezzature per il carico e il trasporto di materiali collegati all'attività
edilizia, mineraria, stradale. Possono raggiungere masse complessive molto
elevate rispetto a quelle previste per gli impieghi ordinari.
Al titolo II (della costruzione e tutela delle strade), capo II (organizzazione
della circolazione e segnaletica stradale), artt. 37-45, viene definita
la segnaletica stradale mentre l'esecuzione e l'attuazione è rimandata
all'apposito regolamento e in particolare agli artt. 74-195.
Il complesso della segnaletica stradale, disegnata da Michele Arcangelo
Locca, viene suddiviso in cinque tipologie generali, come descritto di seguito:
- sono le segnalazioni date dagli organi di polizia stradale (polizia
locale, Polizia di Stato, Carabinieri, ecc.), anche tramite l'uso di appositi
strumenti come palette segnaletiche, fischietti e segnalatori luminosi.
- caratterizzati dalla possibilità di fornire maggiore impatto visivo e/o
informazioni dinamiche, vengono suddivisi in:
segnali di pericolo e di prescrizione;
segnali di indicazione;
tabelloni luminosi rilevatori della velocità in tempo reale dei veicoli in
transito;
lanterne semaforiche veicolari normali;
lanterne semaforiche veicolari di corsia;
lanterne semaforiche veicolari per corsie reversibili;
lanterne semaforiche per i veicoli di trasporto pubblico;
lanterne semaforiche pedonali;
lanterne semaforiche per velocipedi;
lanterna semaforica gialla lampeggiante;
lanterne semaforiche speciali;
segnali luminosi particolari.
- a loro volta sono suddivisi in:
A.
- preavvisano l'esistenza di pericoli;
B.
- notificano obblighi, divieti e limitazioni e vengono indicati come:
segnali di precedenza;
segnali di divieto;
segnali di obbligo;
C.
- forniscono informazioni utili o necessarie per la guida, suddivisi a loro
volta in:
segnali di preavviso;
segnali di direzione;
segnali di conferma;
segnali di identificazione strade e progressiva distanziometrica;
segnali di itinerario;
segnali di località e centro abitato;
segnali di nome strada;
segnali turistici e di territorio;
altri segnali che danno informazioni necessarie per la guida dei veicoli;
altri segnali che indicano installazioni o servizi.
- sono quelli tracciati sulla strada, e si suddividono in:
Linea trasversale d'arresto;
strisce longitudinali;
strisce trasversali;
attraversamenti pedonali o ciclabili;
frecce direzionali;
iscrizioni e simboli;
strisce di delimitazione degli stalli di sosta o per la sosta riservata;
isole di traffico o di presegnalamento di ostacoli entro la carreggiata;
strisce di delimitazione della fermata di veicoli in servizio di trasporto
pubblico di linea;
Segnali e attrezzature complementari - destinati a evidenziare particolari
situazioni, vengono utilizzati sul tracciato stradale, nelle immediate vicinanze
di particolari curve o punti critici, per segnalare ostacoli sposti sulla
carreggiata e per impedire la sosta o rallentare la velocità (es. dossi
artificiali).
Le norme sulla segnaletica stradale italiana sono regolate anche
dal Disciplinare tecnico relativo agli schemi segnaletici, differenziati per
categoria di strada, da adottare per il segnalamento temporaneo (decreto del
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del 10 luglio 2002, GU n. 226 del
26/09/2002) previsto dall'art. 21 del Codice della strada, dalla direttiva n.
3929 del 3 luglio 1998 del Ministero dei Lavori pubblici (che norma i pannelli a
messaggio variabile), dalla direttiva n. 1156 del 28 febbraio 1997 (GU n. 71 del
26/03/1997) del Ministero dei Lavori pubblici (Caratteristiche della segnaletica
da utilizzare per la numerazione dei cavalcavia sulle autostrade e sulle strade
statali di rilevanza internazionale), dal decreto ministeriale n. 1584 del 31
marzo 1995 (GU n. 106 del 9/05/1995) (Approvazione del disciplinare tecnico
sulle modalità di determinazione dei livelli di qualità delle pellicole
retroriflettenti impiegate per la costruzione dei segnali stradali).
Le sanzioni previste in caso di violazione alle norme del Codice della Strada
sono di vario tipo:
sanzione amministrativa pecuniaria,
sanzione penale per i delitti e le contravvenzioni previste, arresto in
flagranza di reato per alcune casistiche riferite ai delitti di cui agli artt. 9
bis, 9 ter e 189,
decurtazione di punti della patente,
ritiro/sospensione/revoca/revisione della patente di guida,
confisca/fermo amministrativo/sequestro amministrativo del veicolo.
La concreta applicazione delle sanzioni presenta delle difficoltà quando queste
vengono commesse da cittadini non residenti nel territorio dello Stato membro.
Da italiani fuori dall'Italia, o da cittadini dell'Unione europea in territorio
italiano, essendo a carattere nazionale e non europeo le banche dati relative
agli automobilisti e ai veicoli immatricolati.
La direttiva 2015/413/UE, in vigore da maggio 2016, interviene in merito,
imponendo la creazione di punti di contatto nazionali di riferimento e di
procedure informatiche automatiche, interoperabili e protette, per la
interrogazione delle banche dati nazionali relative a veicoli e loro
proprietari.
Atti principali
Le norme principali in materia sono:
1865: Legge 20 marzo 1865, n. 2248, in materia di "Unificazione amministrativa
del Regno d'Italia"
1933: Regio decreto 8 dicembre 1933, n. 1740, in materia di "Testo unico di
norme per la tutela delle strade e per la circolazione"
1959: Decreto del presidente della Repubblica 15 giugno 1959, n. 393, in materia
di "Testo unico delle norme sulla circolazione stradale" (Suppl. ord. № 1470
alla G.U. № 147, 23 giugno 1959) - derivato da leggi 126/1958 e 572/1958
Decreto del presidente della Repubblica 30 giugno 1959, n. 420, in materia di
"Approvazione del Regolamento per l'esecuzione del Testo Unico delle norme sulla
disciplina della circolazione stradale" (Suppl. ord. № 1520 alla G.U. № 152, 30
giugno 1959)
1992: Decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, in materia di "Nuovo codice
della strada" (G.U. n. 114 del 18 maggio 1992, Suppl. ord. n. 74) - derivato da
Legge 190/1991 (13/6/1991) - G.U. 28 giugno 1991, n. 150
Decreto del presidente della Repubblica 16 dicembre 1992, n. 495, in materia di
"Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada"
2002: Legge 1º agosto 2002, n. 168, "Conversione in legge, con modificazioni,
del decreto-legge 20 giugno 2002, n. 121, recante disposizioni urgenti per
garantire la sicurezza nella circolazione stradale"
2007: Decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117, in materia di "Disposizioni urgenti
modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza
nella circolazione"
Legge 2 ottobre 2007, n. 160, in materia di "Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117, recante disposizioni
urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di
sicurezza nella circolazione" (G.U. № 230, 3 ottobre 2007)
2020: Decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, in materia di "Misure urgenti in
materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche
sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19" (G.U. Serie Generale
n.128 del 19-05-2020 - Suppl. Ordinario n. 21)
Legge 17 luglio 2022, n. 77, in materia di "Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, recante misure urgenti
in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche
sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19" (G.U. Serie Generale
n.180 del 18-07-2020 - Suppl. Ordinario n. 25)
Codice della strada
Il Codice della Strada - approvato con Decreto Legislativo 30 aprile 1992, n.285
- si compone di 245 articoli. È accompagnato da un Regolamento di attuazione che
comprende 408 articoli e 19 appendici. Il Codice della Strada è entrato in
vigore il 1° gennaio 1993.
''NUOVO CODICE DELLA STRADA'' (decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285 e
successive modificazioni).
Sono contrassegnati con " * " gli articoli la cui violazione implica una
detrazione di "punti", secondo la tabella annessa all'art. 126-bis.
(da Art. 1 a Art. 12)
TITOLO I - DISPOSIZIONI GENERALI
Art. 1. Principi generali.
Art. 2. Definizione e classificazione delle strade.
Art. 3. Definizioni stradali e di traffico.
Art. 4. Delimitazione del centro abitato.
Art. 5. Regolamentazione della circolazione in generale.
Art. 6. Regolamentazione della circolazione fuori dei centri abitati.
Art. 7. Regolamentazione della circolazione nei centri abitati.
Art. 8. Circolazione nelle piccole isole.
Art. 9. Competizioni sportive su strada.
Art. 9-bis. Organizzazione di competizioni non autorizzate in velocità con
veicoli a motore e partecipazione alle gare.
Art. 9-ter. Divieto di gareggiare in velocità con veicoli a motore.
Art. 10. Veicoli eccezionali e trasporti in condizioni di eccezionalità.
Art. 11. Servizi di polizia stradale.
Art. 12. Espletamento dei servizi di polizia stradale.
(da Art. 13 a Art. 45)
TITOLO II - DELLA COSTRUZIONE E TUTELA DELLE STRADE
Art. 13. Norme per la costruzione e la gestione delle strade.
Art. 14. Poteri e compiti degli enti proprietari delle strade.
Art. 15. Atti vietati.
Art. 16. Fasce di rispetto in rettilineo ed aree di visibilità nelle
intersezioni fuori dei centri abitati.
Art. 17. Fasce di rispetto nelle curve fuori dei centri abitati.
Art. 18. Fasce di rispetto ed aree di visibilità nei centri abitati.
Art. 19. Distanze di sicurezza dalle strade.
Art. 20. Occupazione della sede stradale.
Art. 21. Opere, depositi e cantieri stradali.
Art. 22. Accessi e diramazioni.
Art. 23. Pubblicità sulle strade e sui veicoli.
Art. 24. Pertinenze delle strade.
Art. 25. Attraversamenti ed uso della sede stradale.
Art. 26. Competenza per le autorizzazioni e le concessioni.
Art. 27. Formalità per il rilascio delle autorizzazioni e concessioni.
Art. 28. Obblighi dei concessionari di determinati servizi.
Art. 29. Piantagioni e siepi.
Art. 30. Fabbricati, muri e opere di sostegno.
Art. 31. Manutenzione delle ripe.
Art. 32. Condotta delle acque.
Art. 33. Canali artificiali e manufatti sui medesimi.
Art. 34. Oneri supplementari a carico dei mezzi d'opera per l'adeguamento delle
infrastrutture stradali.
Art. 34-bis. Decoro delle strade
Art. 35. Competenze.
Art. 36. Piani urbani del traffico e piani del traffico per la viabilità
extraurbana.
Art. 37. Apposizione e manutenzione della segnaletica stradale.
Art. 38. Segnaletica stradale.
Art. 39. Segnali verticali.
Art. 40. Segnali orizzontali.
Art. 41. Segnali luminosi.
Art. 42. Segnali complementari.
Art. 43. Segnalazioni degli agenti del traffico.
Art. 44. Passaggi a livello.
Art. 45. Uniformità della segnaletica, dei mezzi di regolazione e controllo ed
omologazioni.
(da Art. 46 a Art. 114)
TITOLO III - DEI VEICOLI
Art. 46. Nozione di veicolo.
Art. 47. Classificazione dei veicoli.
Art. 48. Veicoli a braccia.
Art. 49. Veicoli a trazione animale.
Art. 50. Velocipedi.
Art. 51. Slitte.
Art. 52. Ciclomotori.
Art. 53. Motoveicoli.
Art. 54. Autoveicoli.
Art. 55. Filoveicoli.
Art. 56. Rimorchi.
Art. 57. Macchine agricole.
Art. 58 - Macchine operatrici.
Art. 59. Veicoli con caratteristiche atipiche.
Art. 60. Motoveicoli e autoveicoli d'epoca e di interesse storico e
collezionistico.
Art. 61. Sagoma limite.
Art. 62. Massa limite.
Art. 63. Traino veicoli.
Art. 64. Dispositivi di frenatura dei veicoli a trazione animale e delle slitte.
Art. 65. Dispositivi di segnalazione visiva dei veicoli a trazione animale e
delle slitte.
Art. 66. Cerchioni alle ruote.
Art. 67. Targhe dei veicoli a trazione animale e delle slitte.
Art. 68. Caratteristiche costruttive e funzionali e dispositivi di
equipaggiamento dei velocipedi.
Art. 69. Caratteristiche dei dispositivi di segnalazione e di frenatura dei
veicoli a trazione animale, delle slitte e dei velocipedi.
Art. 70. Servizio di piazza con veicoli a trazione animale o con slitte.
Art. 71. Caratteristiche costruttive e funzionali dei veicoli a motore e loro
rimorchi.
Art. 72. Dispositivi di equipaggiamento dei veicoli a motore e loro rimorchi.
Art. 73. Veicoli su rotaia in sede promiscua.
Art. 74. Dati di identificazione.
Art. 75. Accertamento dei requisiti di idoneità alla circolazione e
omologazione.
Art. 76. Certificato di approvazione, certificato di origine e dichiarazione di
conformità.
Art. 77. Controlli di conformità al tipo omologato.
Art. 78. Modifiche delle caratteristiche costruttive dei veicoli in circolazione
e aggiornamento della carta di circolazione.
Art. 79. Efficienza dei veicoli a motore e loro rimorchi in circolazione.
Art. 80. Revisioni.
Art. 81. Competenze dei funzionari del Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti - Dipartimento per i trasporti terrestri.
Art. 82. Destinazione ed uso dei veicoli.
Art. 83. Uso proprio.
Art. 84. Locazione senza conducente.
Art. 85. Servizio di noleggio con conducente per trasporto di persone.
Art. 86. Servizio di piazza con autovetture con conducente o taxi.
Art. 87. Servizio di linea per trasporto di persone.
Art. 88. Servizio di trasporto di cose per conto terzi.
Art. 89. Servizio di linea per trasporto di cose.
Art. 90. Trasporto di cose per conto terzi in servizio di piazza.
Art. 91. Locazione senza conducente con facoltà di acquisto-leasing e vendita di
veicoli con patto di riservato dominio.
Art. 92. Estratto dei documenti di circolazione o di guida.
Art. 93. Formalità necessarie per la circolazione degli autoveicoli, motoveicoli
e rimorchi.
Art. 93-bis. Formalità necessarie per la circolazione degli autoveicoli,
motoveicoli e rimorchi immatricolati in uno Stato estero e condotti da residenti
in Italia
Art. 94. Formalità per il trasferimento di proprietà degli autoveicoli,
motoveicoli e rimorchi e per il trasferimento di residenza dell'intestatario.
Art. 94. bis Divieto di intestazione fittizia dei veicoli
Art. 95. Carta provvisoria di circolazione, duplicato ed estratto della carta di
circolazione.
Art. 96. Adempimenti conseguenti al mancato pagamento della tassa
automobilistica.
Art. 97. Formalità necessarie per la circolazione dei ciclomotori.
Art. 98. Circolazione di prova.
Art. 99. Foglio di via.
Art. 100. Targhe di immatricolazione degli autoveicoli, dei motoveicoli e dei
rimorchi.
Art. 101. Produzione, distribuzione, restituzione e ritiro delle targhe.
Art. 102.Smarrimento, sottrazione, deterioramento e distruzione di targa.
Art. 103. Obblighi conseguenti alla cessazione della circolazione dei veicoli a
motore e dei rimorchi.
Art. 104. Sagome e masse limite delle macchine agricole.
Art. 105. Traino di macchine agricole.
Art. 106. Norme costruttive e dispositivi di equipaggiamento delle macchine
agricole.
Art. 107. Accertamento dei requisiti di idoneità delle macchine agricole.
Art. 108. Rilascio del certificato di idoneità tecnica alla circolazione e della
carta di circolazione delle macchine.
Art. 109. Controlli di conformità al tipo omologato delle macchine agricole.
Art. 110. Immatricolazione, carta di circolazione e certificato di idoneità
tecnica alla circolazione delle macchine agricole.
Art. 111. Revisione delle macchine agricole in circolazione.
Art. 112. Modifiche dei requisiti di idoneità delle macchine agricole in
circolazione e aggiornamento del documento di circolazione.
Art. 113. Targhe delle macchine agricole.
Art. 114. Circolazione su strada delle macchine operatrici.
(da Art. 115 a Art. 139)
TITOLO IV - GUIDA DEI VEICOLI E CONDUZIONE DEGLI ANIMALI
Art. 115. Requisiti per la guida dei veicoli e la conduzione di animali.
Art. 116. Patente, e abilitazioni professionali per la guida dei veicoli a
motore.
Art. 117. Limitazioni nella guida.
Art. 118. Patente e certificato di idoneità per la guida di filoveicoli.
Art. 118 bis. Requisito della residenza normale per il rilascio della patente di
guida e delle abilitazioni professionali.
Art. 119. Requisiti fisici e psichici per il conseguimento della patente di
guida.
Art. 120. Requisiti morali per ottenere il rilascio della patente di guida.
Art. 121. Esame di idoneità.
Art. 122. Esercitazioni di guida.
Art. 123. Autoscuole.
Art. 124. Guida delle macchine agricole e delle macchine operatrici.
Art. 125. Validità della patente di guida.
Art. 126. Durata e conferma della validità della patente di guida.
Art. 126-bis. Patente a punti.
Art. 127. Permesso provvisorio di guida.
Art. 128. Revisione della patente di guida.
Art. 129. Sospensione della patente di guida.
Art. 130. Revoca della patente di guida.
Art. 130-bis. Revoca della patente di guida in caso di violazioni che provochino
la morte di altre persone.
Art. 131. Agenti diplomatici esteri.
Art. 132. Circolazione dei veicoli immatricolati negli Stati esteri.
Art. 133. Sigla distintiva dello Stato di immatricolazione.
Art. 134. Circolazione di autoveicoli e motoveicoli appartenenti a cittadini
italiani residenti all'estero o a stranieri.
Art. 135. Circolazione con patenti di guida rilasciate da Stati esteri.
Art. 136. Conversioni di patenti di guida rilasciate da Stati esteri e da Stati
della Comunità europea.
Art. 136-bis. Disposizioni in materia di patenti di guida e di abilitazioni
professionali rilasciate da Stati dell'Unione europea o dello Spazio economico
europeo.
Art. 136-ter. Provvedimenti inerenti il diritto a guidare adottati nei confronti
di titolari di patente di guida rilasciata da Stati dell'Unione europea o dello
Spazio economico europeo.
Art. 137. Certificati internazionali per autoveicoli, motoveicoli, rimorchi e
permessi internazionali di guida.
Art. 138. Veicoli e conducenti delle Forze armate.
Art. 139. Patente di servizio per il personale abilitato allo svolgimento di
compiti di polizia stradale.
(da Art. 140 a Art. 193)
TITOLO V - NORME DI COMPORTAMENTO
Art. 140. Principio informatore della circolazione.
Art. 141. * Velocità.
Art. 142. * Limiti di velocità.
Art. 143. * Posizione dei veicoli sulla carreggiata.
Art. 144. Circolazione dei veicoli per file parallele.
Art. 145. * Precedenza.
Art. 146. * Violazione della segnaletica stradale.
Art. 147. * Comportamento ai passaggi a livello.
Art. 148. * Sorpasso.
Art. 149. * Distanza di sicurezza tra veicoli.
Art. 150. * Incrocio tra veicoli nei passaggi ingombrati o su strade di
montagna.
Art. 151. Definizioni relative alle segnalazioni visive e all'illuminazione dei
veicoli a motore e dei rimorchi.
Art. 152. * Segnalazione visiva e illuminazione dei veicoli.
Art. 153. * Uso dei dispositivi di segnalazione visiva e di illuminazione dei
veicoli a motore e dei rimorchi.
Art. 154. * Cambiamento di direzione o di corsia o altre manovre.
Art. 155. Limitazione dei rumori.
Art. 156. Uso dei dispositivi di segnalazione acustica.
Art. 157. Arresto, fermata e sosta dei veicoli.
Art. 158. * Divieto di fermata e di sosta dei veicoli.
Art. 159. Rimozione e blocco dei veicoli.
Art. 160. Sosta degli animali.
Art. 161. * Ingombro della carreggiata.
Art. 162. * Segnalazione di veicolo fermo.
Art. 163. Convogli militari, cortei e simili.
Art. 164. * Sistemazione del carico sui veicoli.
Art. 165. * Traino di veicoli in avaria.
Art. 166. Trasporto di cose su veicoli a trazione animale.
Art. 167. * Trasporti di cose su veicoli a motore e sui rimorchi.
Art. 168. * Disciplina del trasporto su strada dei materiali pericolosi.
Art. 169. * Trasporto di persone, animali e oggetti sui veicoli a motore.
Art. 170. * Trasporto di persone e di oggetti sui veicoli a motore a due ruote.
Art. 171. * Uso del casco protettivo per gli utenti di veicoli a due ruote.
Art. 172. * Uso delle cinture di sicurezza e sistemi di ritenuta.
Art. 173. * Uso di lenti o di determinati apparecchi durante la guida.
Art. 174. * Durata della guida degli autoveicoli adibiti al trasporto di persone
o cose.
Art. 175. * Condizioni e limitazioni della circolazione sulle autostrade e sulle
strade extraurbane principali.
Art. 176. * Comportamenti durante la circolazione sulle autostrade e sulle
strade extraurbane principali.
Art. 177. * Circolazione degli autoveicoli e dei motoveicoli adibiti a servizi
di polizia o antincendio e delle autoambulanze.
Art. 178. * Documenti di viaggio per trasporti professionali con veicoli non
muniti di cronotachigrafo.
Art. 179. * Cronotachigrafo.
Art. 180. Possesso dei documenti di circolazione e di guida.
Art. 181. Esposizione dei contrassegni per la circolazione.
Art. 182. Circolazione dei velocipedi.
Art. 183. Circolazione dei veicoli a trazione animale.
Art. 184. Circolazione degli animali, degli armenti e delle greggi.
Art. 185. Circolazione e sosta degli autocaravan.
Art. 186. * Guida sotto l'influenza dell'alcool.
Art. 186 bis. * Guida sotto l'influenza dell'alcool per conducenti di età
inferiore a ventuno anni, per i neo-patentati e per chi esercita
professionalmente l'attività di trasporto di persone o cose.
Art. 187. * Guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze
stupefacenti.
Art. 188. Circolazione e sosta dei veicoli al servizio di persone invalide.
Art. 188 bis. * Sosta dei veicoli al servizio delle donne in stato di
gravidanza o di genitori con un bambino di età non superiore a due anni
Art. 189. * Comportamento in caso di incidente.
Art. 190. Comportamento dei pedoni.
Art. 191. * Comportamento dei conducenti nei confronti dei pedoni.
Art. 192. * Obblighi verso funzionari, ufficiali e agenti.
Art. 193. Obbligo dell'assicurazione di responsabilità civile.
(da Art. 194 a Art. 224-bis)
TITOLO VI - DEGLI ILLECITI PREVISTI DAL PRESENTE CODICE E DELLE RELATIVE
SANZIONI
Art. 194. Disposizioni di carattere generale.
Art. 195. Applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie.
Art. 196. Principio di solidarietà.
Art. 197. Concorso di persone nella violazione.
Art. 198. Più violazioni di norme che prevedono sanzioni amministrative
pecuniarie.
Art. 199. Non trasmissibilità dell'obbligazione.
Art. 200. Contestazione e verbalizzazione delle violazioni.
Art. 201. Notificazione delle violazioni.
Art. 202. Pagamento in misura ridotta.
Art. 202-bis. Rateazione delle sanzioni pecuniarie.
Art. 203. Ricorso al prefetto.
Art. 204. Provvedimenti del prefetto.
Art. 204-bis. Ricorso al giudice di pace.
Art. 205. Opposizione innanzi all'autorità giudiziaria.
Art. 206. Riscossione dei proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie.
Art. 207. Veicoli immatricolati all'estero o muniti di targa EE.
Art. 208. Proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie.
Art. 209. Prescrizione.
Art. 210. Sanzioni amministrative accessorie a sanzioni amministrative
pecuniarie in generale.
Art. 211. Sanzione accessoria dell'obbligo di ripristino dello stato dei luoghi
o di rimozione di opere abusive.
Art. 212. Sanzione accessoria dell'obbligo di sospendere una determinata
attività.
Art. 213. Misura cautelare del sequestro e sanzione accessoria della confisca
amministrativa.
Art. 214. Fermo amministrativo del veicolo.
Art. 214-bis. Alienazione dei veicoli nei casi di sequestro amministrativo,
fermo e confisca.
Art. 214-ter. Destinazione dei veicoli confiscati.
Art. 215. Sanzione accessoria della rimozione o blocco del veicolo.
Art. 215-bis. Censimento dei veicoli sequestrati, fermati, rimossi,
dissequestrati e confiscati
Art. 216. Sanzione accessoria del ritiro dei documenti di circolazione, della
targa, della patente di guida o della carta di qualificazione del conducente.
Art. 217. Sanzione accessoria della sospensione della carta di circolazione.
Art. 218. Sanzione accessoria della sospensione della patente.
Art. 218-bis. Applicazione della sospensione della patente per i neopatentati.
Art. 219. Revoca della patente di guida.
Art. 219-bis. Ritiro, sospensione o revoca del certificato di idoneità alla
guida
Art. 220. Accertamento e cognizione dei reati previsti dal presente codice.
Art. 221. Connessione obiettiva con un reato.
Art. 222. Sanzioni amministrative accessorie all'accertamento di reati.
Art. 223. Ritiro della patente in conseguenza a ipotesi di reato.
Art. 224. Procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative accessorie
della sospensione e della revoca della patente.
Art. 224-bis. Obblighi del condannato.
Art. 224-ter. Procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative
accessorie della confisca amministrativa e del fermo amministrativo in
conseguenza di ipotesi di reato.
(da Art. 225 a Art. 240)
TITOLO VII - DISPOSIZIONI FINALI E TRANSITORIE
Art. 225. Istituzione di archivi ed anagrafe nazionali.
Art. 226. Organizzazione degli archivi e dell'anagrafe nazionale.
Art. 227. Servizio e dispositivi di monitoraggio.
Art. 228. Regolamentazione dei diritti dovuti dagli interessati per l'attuazione
delle prescrizioni contenute nelle norme del presente codice.
Art. 229. Attuazione di direttive comunitarie.
Art. 230. Educazione stradale.
Art. 231. Abrogazione di norme precedentemente in vigore.
Art. 232. Norme regolamentari e decreti ministeriali di esecuzione e di
attuazione.
Art. 233. Norme transitorie relative al titolo I.
Art. 234. Norme transitorie relative al titolo II.
Art. 235. Norme transitorie relative al titolo III.
Art. 236. Norme transitorie relative al titolo IV.
Art. 237. Norme transitorie relative al titolo V.
Art. 238. Norme transitorie relative al titolo VI.
Art. 239. Norme transitorie relative al titolo VII.
Art. 240. Entrata in vigore delle norme del presente codice.
L’Ente locale si compone di territorio, popolazione, patrimonio.
L'Ente locale rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne
promuove lo sviluppo. Ha autonomia statutaria e normativa, organizzativa.
Che cosa si intende per centro abitato?
Centro abitato: insieme di edifici (almeno 25), delimitato lungo le vie di
accesso dagli appositi segnali di inizio e fine.
Il centro abitato è uno spazio di territorio, in cui risiede una
popolazione-comunità.
La comunità ha competenza amministrativa nello spazio in cui la popolazione
risiede (centro abitato) e nel territorio di pertinenza in cui opera.
Ai sensi del "Nuovo Codice della strada" (D.lgs. 285/1992 e s.m.i.), il campo di
applicazione obbligatorio della segnaletica stradale comprende le strade di uso
pubblico e tutte le strade di proprietà privata aperte all'uso pubblico
Ai sensi dell'art. 36 del "Nuovo Codice della strada" (D.lgs. 285/1992 e
s.m.i.), i Comuni con popolazione residente superiore a trentamila abitanti:
sono obbligati ad adottare il piano urbano del traffico ed aggiornarlo ogni 3
anni.
Si definisce strada l'area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei
pedoni, dei veicoli e degli animali.
Come capire di chi è la competenza di una strada?
Se attraversano centri abitati con popolazione superiore ai 10.000 abitanti sono
strade di competenza comunale e quindi urbane (tipo D e E). Se attraversano
centri o nuclei abitati con popolazione pari o inferiore ai 10.000
abitanti sono urbane (tipo D, E o F), ma la competenza è della Provincia
Regione, Stato.
Art. 3, comma 8, del nuovo codice della strada
L 17-08-1942 N. 1150-Legge urbanistica.
DM 01-04-1968 -Distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi
nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19
della legge 6 agosto 1967, n.765.
DPR 16-12-1992 N. 495-Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice
della strada.
DEFINIZIONE: “Centro Abitato”,
Insieme di lotti edificati che, con le aree libere adiacenti, costituisce
l'aggregato urbano racchiuso all'interno di una linea di perimetrazione.
La definizione di "centro abitato" è contenuta nell'art. 3, comma 8, del nuovo
codice della strada (letteralmente "insieme di edifici, delimitato lungo le vie
di accesso dagli appositi segnali di inizio e fine. Per insieme di edifici si
intende un raggruppamento continuo, ancorché intervallato da strade, piazze,
giardini o simili, costituito da non meno di venticinque fabbricati e da aree di
uso pubblico con accessi veicolari o pedonali sulla strada"), ma la rilevanza
urbanistica discende dalla L. 765/1967 (cosiddetta legge ponte) per disciplinare
l'edificazione nei comuni privi di piano regolatore o di programma di
fabbricazione e, quindi, dal D.M. 1° aprile 1968 n. 1404 in ordine alle distanze
dell'edificazione dal nastro stradale.
Successivamente l'art. 4 della L. 10/1977, innovando i criteri dettati dall'art.
17 della L. 765 citata (che introduce l'art. 41-quinquies nella L. 1150/1942),
ha imposto nuovi limiti di edificabilità, a valere dal 1° gennaio 1979, nei
comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali.
Le nuove disposizioni, che contengono criteri di edificabilità estremamente
rigorosi (ad. es.: 0,03 mc/mq per l'edificazione residenziale all'esterno del
perimetro del centro abitato; interventi di sola conservazione per quelli
all'interno del perimetro) hanno lo scopo di spronare a dotarsi di strumenti
urbanistici quei comuni che ancora ne sono privi.
LEGISLAZIONE RICHIAMATA
41-quinquies. Nei Comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma
di fabbricazione, la edificazione a scopo residenziale è soggetta alle seguenti
limitazioni:
a) il volume complessivo costruito di ciascun fabbricato non può superare la
misura di un metro cubo e mezzo per ogni metro quadrato di area edificabile, se
trattasi di edifici ricadenti in centri abitati, i cui perimetri sono definiti
entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge con
deliberazione del Consiglio comunale sentiti il Provveditorato regionale alle
opere pubbliche e la Soprintendenza competente, e di un decimo di metro cubo per
ogni metro quadrato di area edificabile, se la costruzione è ubicata nelle altre
parti del territorio;
b) gli edifici non possono comprendere più di tre piani;
c) l'altezza di ogni edificio non può essere superiore alla larghezza degli
spazi pubblici o privati su cui esso prospetta e la distanza dagli edifici
vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da
costruire.
Per le costruzioni di cui alla legge 30 dicembre 1960, n. 1676, il Ministro per
i lavori pubblici può disporre con proprio decreto, sentito il Comitato di
attuazione del piano di costruzione di abitazione per i lavoratori agricoli
dipendenti, limitazioni diverse da quelle previste dal precedente comma.
Le superfici coperte degli edifici e dei complessi produttivi non possono
superare un terzo dell'area di proprietà.
Le limitazioni previste ai commi precedenti si applicano nei Comuni che hanno
adottato il piano regolatore generale o il programma di fabbricazione fino ad un
anno dalla data di presentazione al Ministero dei lavori pubblici. Qualora il
piano regolatore generale o il programma di fabbricazione sia restituito al
Comune, le limitazioni medesime si applicano fino ad un anno dalla data di nuova
trasmissione al Ministero dei lavori pubblici.
Qualora l'agglomerato urbano rivesta carattere storico, artistico o di
particolare pregio ambientale sono consentite esclusivamente opere di
consolidamento o restauro, senza alterazioni di volumi. Le aree libere sono
inedificabili fino all'approvazione del piano regolatore generale.
Nei Comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione,
nelle zone in cui siano consentite costruzioni per volumi superiori a tre metri
cubi per metro quadrato di area edificabile, ovvero siano consentite altezze
superiori a metri 25, non possono essere realizzati edifici con volumi ed
altezze superiori a detti limiti, se non previa approvazione di apposito piano
particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi alla intera zona e
contenenti la disposizione planivolumetrica degli edifici previsti nella zona
stessa.
Le disposizioni di cui ai commi primo, secondo, terzo, quarto e sesto hanno
applicazione dopo un anno dalla entrata in vigore della presente legge. Le
licenze edilizie rilasciate nel medesimo periodo non sono prorogabili e le
costruzioni devono essere ultimate entro due anni dalla data di inizio dei
lavori.
In tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o
della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati,
nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e
produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi.
I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per zone
territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i lavori pubblici di
concerto con quello per l'interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori
pubblici. In sede di prima applicazione della presente legge, tale decreto viene
emanato entro sei mesi dall'entrata in vigore della medesima.
41-septies. Fuori del perimetro dei centri abitati debbono osservarsi
nell'edificazione distanze minime a protezione del nastro stradale, misurate a
partire dal ciglio della strada.
Dette distanze vengono stabilite con decreto del Ministro per i lavori pubblici
di concerto con i Ministri per i trasporti e per l'interno, entro sei mesi
dall'entrata in vigore della presente legge, il rapporto alla natura delle
strade ed alla classificazione delle strade stesse, escluse le strade vicinali
e di bonifica.
Fino alla emanazione del decreto di cui al precedente comma, si applicano a
tutte le autostrade le disposizioni di cui all'art. 9 della legge 24 luglio
1961, n. 729. Lungo le rimanenti strade, fuori del perimetro dei centri abitati
è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi
specie a distanza inferiore alla metà della larghezza stradale misurata dal
ciglio della strada con un minimo di metri cinque.
da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui
all'art. 19 della legge 6 agosto 1967, n.765.
1. Campo di applicazione delle presenti disposizioni. - Le disposizioni che
seguono, relative alle distanze minime a protezione del nastro stradale, vanno
osservate nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati e degli
insediamenti previsti dai piani regolatori generali e dai programmi di
fabbricazione.
2. Definizione del ciglio della strada. - Si definisce ciglio della strada la
linea di limite della sede o piattaforma stradale comprendente tutte le sedi
viabili, sia veicolari che pedonali, ivi incluse le banchine od altre strutture
laterali alle predette sedi quando queste siano transitabili, nonché le
strutture di delimitazione non transitabili (parapetti, arginelle e simili).
3. Distinzione delle strade. - Le strade, in rapporto alla loro natura ed alle
loro caratteristiche, vengono così distinte agli effetti della applicazione
delle disposizioni di cui ai successivi articoli:
A) Autostrade: autostrade di qualunque tipo (legge 7 febbraio 1961, n. 59, art.
4); raccordi autostradali riconosciuti quali autostrade ed aste di accesso fra
le autostrade e la rete viaria della zona (legge 19 ottobre 1965, n. 1197 e
legge 24 luglio 1961, n. 729, art. 9);
B) Strade di grande comunicazione o di traffico elevato: strade statali
comprendenti itinerari internazionali (legge 16 marzo 1956, n. 371, allegato 1);
strade statali di grande comunicazione (legge 24 luglio 1961, n. 729, art. 14);
raccordi autostradali non riconosciuti; strade a scorrimento veloce (in
applicazione della legge 26 giugno 1965, n. 717, art. 7);
C) Strade di media importanza: strade statali non comprese tra quelle della
categoria precedente; strade provinciali aventi larghezza della sede superiore o
eguale a m. 10,50; strade comunali aventi larghezza della sede superiore o
eguale a m. 10,50;
D) Strade di interesse locale: strade provinciali e comunali non comprese tra
quelle della categoria precedente.
4. Norme per le distanze. - Le distanze da osservarsi nella edificazione a
partire dal ciglio della strada e da misurarsi in proiezione orizzontale, sono
così da stabilire:
strade di tipo A) - m. 60,00;
strade di tipo B) - m. 40,00;
strade di tipo C) - m. 30,00;
strade di tipo D) - m. 20,00.
A tali distanze minime va aggiunta la larghezza dovuta alla proiezione di
eventuali scarpate o fossi e di fasce di espropriazione risultanti da progetti
approvati.
5. Distanze in corrispondenza di incroci. - In corrispondenza di incroci e
biforcazioni le fasce di rispetto determinate dalle distanze minime
sopraindicate sono incrementate dall'area determinata dal triangolo avente due
lati sugli allineamenti di distacco, la cui lunghezza, a partire dal punto di
intersezione degli allineamenti stessi sia eguale al doppio delle distanze
stabilite nel primo comma del precedente art. 4), afferenti alle rispettive
strade, e il terzo lato costituito dalla retta congiungente i due punti estremi.
Resta fermo quanto prescritto per gli incroci relativi alle strade costituenti
itinerari internazionali (legge 16 marzo 1956, n. 371, allegato 2).
TITOLO II Costruzione e tutela delle strade
Capo I Fasce di rispetto (Artt. 16-18 Codice della Strada)
26. (Art. 16 Cod. Str.) Fasce di rispetto fuori dai centri abitati.
1. La distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare
nell'aprire canali, fossi o nell'eseguire qualsiasi escavazione, lateralmente
alle strade non può essere inferiore alla profondità dei canali, fossi od
escavazioni, ed in ogni caso non può essere inferiore a 3 m.
2. Fuori dei centri abitati, come delimitati ai sensi dell'art. 4 del codice, le
distanze dal confine stradale, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle
ricostruzioni conseguenti a demolizioni integrali o negli ampliamenti
fronteggianti le strade, non possono essere inferiori a:
a) 60 m per le strade di tipo A;
b) 40 m per le strade di tipo B;
c) 30 m per le strade di tipo C;
d) 20 m per le strade di tipo F, ad eccezione delle «strade vicinali» come
definite dall'art. 3, comma 1, n. 52 del codice;
e) 10 m per le «strade vicinali» di tipo F.
2-bis. Fuori dei centri abitati, come delimitati ai sensi dell'art. 4 del
codice, ma all'interno delle zone previste come edificabili o trasformabili
dallo strumento urbanistico generale, nel caso che detto strumento sia
suscettibile di attuazione diretta, ovvero se per tali zone siano già esecutivi
gli strumenti urbanistici attuativi, le distanze dal confine stradale, da
rispettare nelle nuove costruzioni, nelle ricostruzioni conseguenti a
demolizioni integrali o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono
essere inferiori a:
a) 30 m per le strade di tipo A;
b) 20 m per le strade di tipo B;
c) 10 m per le strade di tipo C.
2-ter. Per le strade di tipo F, nel caso di cui al comma 2-bis, non sono
stabilite distanze minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della
circolazione. Non sono parimenti stabilite distanze minime dalle strade di
quartiere dei nuovi insediamenti edilizi previsti o in corso di realizzazione.
2-quater. Le distanze dal confine stradale, fuori dei centri abitati, da
rispettare nella costruzione o ricostruzione di muri di cinta, di qualsiasi
natura e consistenza, lateralmente alle strade, non possono essere inferiori a:
a) 5 m per le strade di tipo A, B;
b) 3 m per le strade di tipo C, F.
2-quinquies. Per le strade di tipo F, nel caso di cui al comma 2-quater, non
sono stabilite distanze minime dal confine stradale ai fini della sicurezza
della circolazione. Non sono parimenti stabilite distanze minime dalle strade di
quartiere dei nuovi insediamenti edilizi previsti o in corso di realizzazione.
3. La distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per
impiantare alberi lateralmente alla strada, non può essere inferiore alla
massima altezza raggiungibile per ciascun tipo di essenza a completamento del
ciclo vegetativo e comunque non inferiore a 6 m.
4. La distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per
impiantare lateralmente alle strade siepi vive, anche a carattere stagionale,
tenute ad altezza non superiore ad 1 m sul terreno, non può essere inferiore a 1
m. Tale distanza si applica anche per le recinzioni non superiori ad 1 m
costituite da siepi morte in legno, reti metalliche, fili spinati e materiali
similari, sostenute da paletti infissi direttamente nel terreno o in cordoli
emergenti non oltre 30 cm dal suolo.
5. La distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per
impiantare lateralmente alle strade, siepi vive o piantagioni di altezza
superiore ad 1 m sul terreno, non può essere inferiore a 3 m. Tale distanza si
applica anche per le recinzioni di altezza superiore ad 1 m sul terreno
costituite come previsto al comma 4, e per quelle di altezza inferiore ad 1 m
sul terreno se impiantate su cordoli emergenti oltre 30 cm dal suolo.
27. (Art. 17 Cod. Str.) Fasce di rispetto nelle curve fuori dai centri
abitati. –
1. La fascia di rispetto nelle curve fuori dai centri abitati, da determinarsi
in relazione all'ampiezza della curvatura, è soggetta alle seguenti norme:
a) nei tratti di strada con curvatura di raggio superiore a 250 m si osservano
le fasce di rispetto con i criteri indicati all'articolo 26;
b) nei tratti di strada con curvatura di raggio inferiore o uguale a 250 m, la
fascia di rispetto è delimitata verso le proprietà latistanti, dalla corda
congiungente i punti di tangenza, ovvero dalla linea, tracciata alla distanza
dal confine stradale indicata dall'articolo 26 in base al tipo di strada, ove
tale linea dovesse risultare esterna alla predetta corda.
28. (Art. 18 Cod. Str.) Fasce di rispetto per l'edificazione nei centri
abitati. –
1. Le distanze dal confine stradale all'interno dei centri abitati, da
rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni integrali e conseguenti
ricostruzioni o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono essere
inferiori a:
a) 30 m per le strade di tipo A;
b) 20 m per le strade di tipo D
2. Per le strade di tipo E ed F, nei casi di cui al comma 1, non sono stabilite
distanze minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della circolazione.
3. In assenza di strumento urbanistico vigente, le distanze dal confine stradale
da rispettare nei centri abitati non possono essere inferiori a:
a) 30 m per le strade di tipo A;
b) 20 m per le strade di tipo D ed E;
c) 10 m per le strade di tipo F.
4. Le distanze dal confine stradale, all'interno dei centri abitati, da
rispettare nella costruzione o ricostruzione dei muri di cinta, di qualsiasi
natura o consistenza, lateralmente alle strade, non possono essere inferiori a:
a) m 3 per le strade di tipo A;
b) m 2 per le strade di tipo D.
5. Per le altre strade, nei casi di cui al comma 4, non sono stabilite distanze
minime dal confine stradale ai fini della sicurezza della circolazione.
Definizione e classificazione delle strade
1. Ai fini dell'applicazione delle norme del presente codice si definisce
"strada" l'area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei
veicoli e degli animali.
2. Le strade sono classificate, riguardo alle loro caratteristiche costruttive,
tecniche e funzionali, nei seguenti tipi:
A - Autostrade;
B - Strade extraurbane principali;
C - Strade extraurbane secondarie;
D - Strade urbane di scorrimento;
E - Strade urbane di quartiere;
E-bis - Strade urbane ciclabili;
F - Strade locali.
F-bis. Itinerari ciclopedonali.
3. Le strade di cui al comma 2 devono avere le seguenti caratteristiche minime:
strada extraurbana o urbana a carreggiate indipendenti o separate da
spartitraffico invalicabile, ciascuna con almeno due corsie di marcia, eventuale
banchina pavimentata a sinistra e corsia di emergenza o banchina pavimentata a
destra, priva di intersezioni a raso e di accessi privati, dotata di recinzione
e di sistemi di assistenza all'utente lungo l'intero tracciato, riservata alla
circolazione di talune categorie di veicoli a motore e contraddistinta da
appositi segnali di inizio e fine; deve essere attrezzata con apposite aree di
servizio ed aree di parcheggio entrambe con accessi dotati di corsie di
decelerazione e di accelerazione.
strada a carreggiate indipendenti o
separate da spartitraffico invalicabile, ciascuna con almeno due corsie di
marcia e banchina pavimentata a destra, priva di intersezioni a raso, con
accessi alle proprietà laterali coordinati, contraddistinta dagli appositi
segnali di inizio e fine, riservata alla circolazione di talune categorie di
veicoli a motore; per eventuali altre categorie di utenti devono essere previsti
opportuni spazi. Deve essere attrezzata con apposite aree di servizio, che
comprendano spazi per la sosta, con accessi dotati di corsie di decelerazione e
di accelerazione.
strada ad unica carreggiata con almeno una corsia per senso di marcia e
banchine.
strada a carreggiate indipendenti o
separate da spartitraffico, ciascuna con almeno due corsie di marcia, ed una
eventuale corsia riservata ai mezzi pubblici, banchina pavimentata a destra e
marciapiedi, con le eventuali intersezioni a raso semaforizzate; per la sosta
sono previste apposite aree o fasce laterali estranee alla carreggiata, entrambe
con immissioni ed uscite concentrate.
strada ad unica carreggiata con almeno due corsie, banchine pavimentate e
marciapiedi; per la sosta sono previste aree attrezzate con apposita corsia di
manovra, esterna alla carreggiata.
strada urbana ad unica carreggiata, con banchine pavimentate e marciapiedi, con
limite di velocità non superiore a 30 km/h, definita da apposita segnaletica
verticale ed orizzontale, con priorità per i velocipedi.
strada urbana od extraurbana opportunamente sistemata ai fini di cui al comma 1
non facente parte degli altri tipi di strade.
strada locale, urbana, extraurbana o
vicinale, destinata prevalentemente alla percorrenza pedonale e ciclabile e
caratterizzata da una sicurezza intrinseca a tutela dell'utenza ((vulnerabile))
della strada.
4. E' denominata "strada di servizio" la strada affiancata ad una strada
principale (autostrada, strada extraurbana principale, strada urbana di
scorrimento) avente la funzione di consentire la sosta ed il raggruppamento
degli accessi dalle proprietà laterali alla strada principale e viceversa,
nonché il movimento e le manovre dei veicoli non ammessi sulla strada principale
stessa.
5. Per le esigenze di carattere amministrativo e con riferimento all'uso e alle
tipologie dei collegamenti svolti, le strade, come classificate ai sensi del
comma 2, si distinguono in strade "statali", "regionali", "provinciali",
"comunali", secondo le indicazioni che seguono. Enti proprietari delle dette
strade sono rispettivamente lo Stato, la regione, la provincia, il comune.
6. Le strade extraurbane di cui al comma 2, lettere B, C ed F, si distinguono
in:
quando:
a) costituiscono le grandi direttrici del traffico nazionale;
b) congiungono la rete viabile principale dello Stato con quelle degli Stati
limitrofi;
c) congiungono tra loro i capoluoghi di regione ovvero i capoluoghi di provincia
situati in regioni diverse, ovvero costituiscono diretti ed importanti
collegamenti tra strade statali;
d) allacciano alla rete delle strade statali i porti marittimi, gli aeroporti, i
centri di particolare importanza industriale, turistica e climatica;
e) servono traffici interregionali o presentano particolare interesse per
l'economia di vaste zone del territorio nazionale.
quando allacciano i capoluoghi di
provincia della stessa regione tra loro o con il capoluogo di regione ovvero
allacciano i capoluoghi di provincia o i comuni con la rete statale se ciò sia
particolarmente rilevante per ragioni di carattere industriale, commerciale,
agricolo, turistico e climatico.
quando allacciano al capoluogo di provincia capoluoghi dei singoli comuni della
rispettiva provincia o più capoluoghi di comuni tra loro ovvero quando
allacciano alla rete statale o regionale i capoluoghi di comune, se ciò sia
particolarmente rilevante per ragioni di carattere industriale, commerciale,
agricolo, turistico e climatico.
quando congiungono il capoluogo del
comune con le sue frazioni o le frazioni fra loro, ovvero congiungono il
capoluogo con la stazione ferroviaria, tranviaria o automobilistica, con un
aeroporto o porto marittimo, lacuale o fluviale, con interporti o nodi di
scambio intermodale o con le località che sono sede di essenziali servizi
interessanti la collettività comunale. Ai fini del presente codice, le strade
"vicinali" sono assimilate alle strade comunali.
7. Le strade urbane di cui al comma 2, lettere D , E e F, sono sempre comunali
quando siano situate nell'interno dei centri abitati, eccettuati i tratti
interni di strade statali, regionali o provinciali che attraversano centri
abitati con popolazione non superiore a diecimila abitanti.
8. Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, nel termine indicato
dall'art. 13, comma 5, procede alla classificazione delle strade statali ai
sensi del comma 5, seguendo i criteri di cui ai commi 5, 6 e 7, sentiti il
Consiglio superiore dei lavori pubblici, il consiglio di amministrazione
dell'Azienda nazionale autonoma per le strade statali, le regioni interessate,
nei casi e con le modalità indicate dal regolamento. Le regioni, nel termine e
con gli stessi criteri indicati, procedono, sentiti gli enti locali, alle
classificazioni delle strade ai sensi del comma 5. Le strade così classificate
sono iscritte nell'Archivio nazionale delle strade previsto dall'art. 226.
9. Quando le strade non corrispondono più all' uso e alle tipologie di
collegamento previste sono declassificate dal Ministero delle infrastrutture e
dei trasporti e dalle regioni, secondo le rispettive competenze, acquisiti i
pareri indicati nel comma 8. I casi e la procedura per tale declassificazione
sono indicati dal regolamento.
10. Le disposizioni di cui alla presente disciplina non modificano gli effetti
del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 10 agosto 1988, n. 377,
emanato in attuazione della legge 8 luglio 1986, n. 349, in ordine
all'individuazione delle opere sottoposte alla procedura di valutazione
d'impatto ambientale.
10-bis. Resta ferma, per le strade e veicoli militari, la disciplina
specificamente prevista dal codice dell'ordinamento militare.
Art. 8. Circolazione nelle piccole isole.
Circolazione nelle piccole isole
1. Nelle piccole isole, dove si trovino comuni dichiarati di soggiorno o di
cura, qualora la rete stradale extraurbana non superi 50 chilometri e le
difficoltà ed i pericoli del traffico automobilistico siano particolarmente
intensi, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentite le regioni e
i comuni interessati, può, con proprio decreto, vietare che, nei mesi di più
intenso movimento turistico, i veicoli appartenenti a persone non facenti parte
della popolazione stabile siano fatti affluire e circolare nell'isola. Con
medesimo provvedimento possono essere stabilite deroghe al divieto a favore di
determinate categorie di veicoli e di utenti.
2. Chiunque viola gli obblighi, i divieti e le limitazioni previsti dal presente
articolo è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma ((da
€ 430 a € 1.731)). (19) (29) (43) (52) (64) (80) (89) (101) (114) (124) (133)
(145) ((163))
Art. 47. Classificazione dei veicoli.
Classificazione dei veicoli
1. I veicoli si classificano, ai fini del presente codice, come segue:
a) veicoli a braccia;
b) veicoli a trazione animale;
c) velocipedi;
d) slitte;
e) ciclomotori;
f) motoveicoli;
g) autoveicoli;
h) filoveicoli;
i) rimorchi;
l) macchine agricole;
m) macchine operatrici;
n) veicoli con caratteristiche atipiche.
2. I veicoli a motore e i loro rimorchi, di cui al comma 1, lettere e), f), g),
h), i) e n) sono altresì classificati come segue in base alle categorie
internazionali:
a)
- categoria L1e: veicoli a due ruote la cilindrata del cui motore non supera i
50 cc per i motori a combustione interna ad accensione comandata, la cui potenza
del motore elettrico non supera i 4 kW e la cui velocità massima di costruzione
non supera i 45 km/h;
- categoria L2e: veicoli a tre ruote la cilindrata del cui motore non supera i
50 cc per i motori a combustione interna ad accensione comandata o non supera i
500 cc per i motori a combustione interna ad accensione spontanea, la cui
potenza del motore elettrico non supera i 4 kW, la cui massa in ordine di marcia
non supera i 270 kg e la cui velocità massima di costruzione non supera i 45
km/h;
- categoria L3e: veicoli a due ruote che non possono essere classificati come
appartenenti alla categoria ((L1e));
- categoria L4e: veicoli a tre ruote asimmetriche rispetto all'asse
longitudinale mediano, costituiti da veicoli di categoria L3e dotati di sidecar,
con un numero massimo di quattro posti a sedere incluso il conducente e con un
numero massimo di due posti per passeggeri nel sidecar;
- categoria L5e: veicoli a tre ruote simmetriche rispetto all'asse longitudinale
mediano, la cilindrata del cui motore (se si tratta di motore termico) supera i
50 cc o la cui velocità massima di costruzione (qualunque sia il sistema di
propulsione) supera i 45 km/h;
- categoria L6e: quadricicli leggeri, la cui massa a vuoto è inferiore o pari a
350 kg, esclusa la massa delle batterie per i veicoli elettrici, la cui velocità
massima per costruzione è inferiore o uguale a 45 km/h e la cui cilindrata del
motore è inferiore o pari a 50 cm³ per i motori ad accensione comandata; o la
cui potenza massima netta è inferiore o uguale a 4 kW per gli altri motori, a
combustione interna; o la cui potenza nominale continua massima è inferiore o
uguale a 4 kW per i motori elettrici. Tali veicoli sono conformi alle
prescrizioni tecniche applicabili ai ciclomotori a tre ruote della categoria
L2e, salvo altrimenti disposto da specifiche disposizioni comunitarie;
- categoria L7e: i quadricicli, diversi da quelli di cui alla categoria L6e, la
cui massa a vuoto è inferiore o pari a 400 kg (550 kg per i veicoli destinati al
trasporto di merci), esclusa la massa delle batterie per i veicoli elettrici, e
la cui potenza massima netta del motore è inferiore o uguale a 15 kW. Tali
veicoli sono considerati come tricicli e sono conformi alle prescrizioni
tecniche applicabili ai tricicli della categoria L5e salvo altrimenti disposto
da specifiche disposizioni comunitarie;
b)
- categoria M: veicoli a motore destinati al trasporto di persone ed aventi
almeno quattro ruote;
- categoria M1: veicoli destinati al trasporto di persone, aventi al massimo
otto posti a sedere oltre al sedile del conducente;
- categoria M2: veicoli destinati al trasporto di persone, aventi più di otto
posti a sedere oltre al sedile del conducente e massa massima non superiore a 5
t;
- categoria M3: veicoli destinati al trasporto di persone, aventi più di otto
posti a sedere oltre al sedile del conducente e massa massima superiore a 5 t;
(35)
c)
- categoria N: veicoli a motore destinati al trasporto di merci, aventi almeno
quattro ruote;
- categoria N1: veicoli destinati al trasporto di merci, aventi massa massima
non superiore a 3,5 t;
- categoria N2: veicoli destinati al trasporto di merci, aventi massa massima
superiore a 3,5 t ma non superiore a 12 t;
- categoria N3: veicoli destinati al trasporto di merci, aventi massa massima
superiore a 12 t;
d)
- categoria O: rimorchi (compresi i semirimorchi);
- categoria O 1: rimorchi con massa massima non superiore a 0,75t;
- categoria O 2: rimorchi con massa massima superiore a 0,75 t ma non superiore
a 3,5 t;
- categoria O 3: rimorchi con massa massima superiore a 3,5 t ma non superiore a
10 t;
- categoria O 4: rimorchi con massa massima superiore a 10 t.
Categorie di patenti e certificati professionali. Art 116 CdS
14 anni
• Ciclomotori a due ruote (categoria L1e) con velocità massima di costruzione
non superiore a 45 km/h, la cui cilindrata è inferiore o uguale a 50 cm³ se a
combustione interna, oppure la cui potenza nominale continua massima è inferiore
o uguale a 4 kW per i motori elettrici.
• Veicoli a tre ruote (categoria L2e) aventi una velocità massima per
costruzione non superiore a 45 km/h e caratterizzati da un motore, la cui
cilindrata è inferiore o uguale a 50 cm³ se ad accensione comandata, oppure la
cui potenza massima netta è inferiore o uguale a 4 kW per gli altri motori a
combustione interna, oppure la cui potenza nominale continua massima è inferiore
o uguale a 4kW per i motori elettrici.
• Quadricicli leggeri la cui massa a vuoto è inferiore o pari a 350 kg, esclusa
la massa delle batterie per i veicoli elettrici (categoria L6e), e velocità non
superiore a 45 km/h; motore termico non superiore a 50 cm3, potenza non
superiore a 4 kW (per quad da strada leggeri L6a) e non superiori a 6 kW (per
quadricicli leggeri L6b per trasporto merci e/o persone)
16 anni
• Motocicli di cilindrata massima di 125 cm³, di potenza massima di 11 kW e con
un rapporto potenza/peso non superiore a 0,1 kW/kg.
• Tricicli di potenza non superiore a 15 kW.
• Macchine agricole che non superano i limiti di sagoma dei motoveicoli.
Mentre questa patente prima si poteva tramutare in "A limitata" al compimento
dei 18 anni, ora per accedere alle categorie A2 e A3 si deve svolgere
obbligatoriamente una ulteriore prova pratica.
18 anni
• Motocicli di potenza non superiore a 35 kW con un rapporto potenza/peso non
superiore a 0,2 kW/kg e che non siano derivati da una versione che sviluppa
oltre il doppio della potenza massima.
20 se si è titolari della patente A2 da 2 anni
21 anni per la guida dei tricicli
24 anni
• Tricicli di potenza superiore a 15 kW.
• Motocicli, ossia veicoli a due ruote, senza carrozzetta (categoria L3e) o con
carrozzetta (categoria L4e), muniti di un motore con cilindrata superiore a 50
cm³ se a combustione interna e/o aventi una velocità massima per costruzione
superiore a 45 km/h.
16 anni
• Quadricicli diversi da quelli riportati sopra, la cui massa a vuoto è
inferiore o pari a 400 kg per trasporto persone (categoria L7e) (550 kg per i
veicoli destinati al trasporto di merci) esclusa la massa delle batterie per i
veicoli elettrici e motore con potenza massima fino a 15 kW.
• Tali veicoli sono considerati come tricicli e sono conformi alle prescrizioni
tecniche applicabili ai tricicli della categoria L5e salvo altrimenti disposto
da specifiche disposizioni comunitarie.
Questa è la patente specifica per guidare i quad di una certa potenza.
18 anni
• Autoveicoli la cui massa massima autorizzata non supera 3500 kg e progettati e
costruiti per il trasporto di non più di otto persone oltre al conducente. Agli
autoveicoli di questa categoria può essere agganciato un rimorchio la cui massa
massima autorizzata non supera 750 kg.
Se tale rimorchio supera 750 kg, ma la massa massima autorizzata di tale
combinazione è comunque inferiore a 4250 kg, allora è richiesto il superamento
di una prova di capacità e comportamento su veicolo specifico. In caso di esito
positivo, è rilasciata una patente di guida che, con l'apposito codice
comunitario 96, indica che il titolare può condurre tali complessi di veicoli
(patente B96).
• Macchine agricole
• (Se titolari della patente B da almeno 2 anni): veicoli isolati senza
rimorchio per trasporto merci fino a 4250 kg, ma solo se alimentati con
combustibili alternativi (idrogeno, gnc, gpl, elettrici...) e solo se l'eccesso
di massa è dovuto al peso delle sole batterie o serbatoi alternativi (e non
all'aumento della capacità di carico)
18 anni
• Complessi di veicoli composti di una motrice della categoria B e di un
rimorchio o semirimorchio: questi ultimi devono avere massa massima autorizzata
non superiore a 3500 kg.
18 anni con l'obbligo di patente B
• Autoveicoli diversi da quelli delle categorie D1 o D la cui massa massima
autorizzata è superiore a 3500 kg, ma non superiore a 7500 kg, progettati e
costruiti per il trasporto di non più di otto passeggeri, oltre al conducente;
agli autoveicoli di questa categoria può essere agganciato un rimorchio la cui
massa massima autorizzata non sia superiore a 750 kg.
18 anni con l'obbligo di patente C1
• Complessi di veicoli composti di una motrice rientrante nella categoria C1 e
di un rimorchio o di un semirimorchio la cui massa massima autorizzata è
superiore a 750 kg, sempre che la massa autorizzata del complesso non superi
12000 kg.
• Complessi di veicoli composti di una motrice rientrante nella categoria B e di
un rimorchio o di un semirimorchio la cui massa autorizzata è superiore a 3500
kg, sempre che la massa autorizzata del complesso non superi 12000 kg.
21 anni con l'obbligo di patente B
(18 se si consegue la CQC merci)
• Autoveicoli diversi da quelli delle categorie D1 o D la cui massa massima
autorizzata è superiore a 3500 kg e progettati e costruiti per il trasporto di
non più di otto passeggeri, oltre al conducente; agli autoveicoli di questa
categoria può essere agganciato un rimorchio la cui massa massima autorizzata
non superi 750 kg.
21 anni con l'obbligo di patente C
(18 se si consegue la CQC merci)
• Complessi di veicoli composti di una motrice rientrante nella categoria C e di
un rimorchio o di un semirimorchio la cui massa massima autorizzata superi 750
kg.
21 anni con l'obbligo di patente B
• Autoveicoli progettati e costruiti per il trasporto di non più di 16 persone,
oltre al conducente, e aventi una lunghezza massima di 8 metri; agli autoveicoli
di questa categoria può essere agganciato un rimorchio la cui massa massima
autorizzata non superi 750 kg.
21 anni con l'obbligo di patente D1
• Complessi di veicoli composti da una motrice rientrante nella categoria D1 e
da un rimorchio la cui massa massima autorizzata è superiore a 750 kg.
24 anni, con obbligo della patente B
(21 anni se si consegue la CQC persone)
• Autoveicoli progettati e costruiti per il trasporto di più di otto persone
oltre al conducente; a tali autoveicoli può essere agganciato un rimorchio la
cui massa massima autorizzata non superi 750 kg.
Per condurre autobus in servizio pubblico di linea o di noleggio con conducente
e per gli scuolabus, occorre in più la CQC Persone.
24 anni, con obbligo della patente D (21 se si consegue la CQC persone)
• Complessi di veicoli composti da una motrice rientrante nella categoria D e da
un rimorchio la cui massa massima autorizzata supera 750 kg.
21 anni, con obbligo della patente A
• Motoveicoli di massa complessiva fino ad 1,3 tonnellate in servizio di
noleggio con conducente.
Certificato di abilitazione professionale (CAP) associato alla patente A.
21 anni, con obbligo della patente B
• Motoveicoli di massa complessiva oltre 1,3 tonnellate e autovetture in
servizio di noleggio con conducente;
• Taxi.
Certificato di abilitazione professionale (CAP) associato alla patente B.
21 anni
• Veicoli della categoria D1, D e/o D+E in servizio pubblico di linea o di
noleggio con conducente.
Sostituisce il vecchio KD. Obbligatoria dal 10/9/2008. Chi ha conseguito la
patente D e D+E prima del 10/9/2009 può ottenere la CQC persone per
documentazione.
18 anni
• Veicoli della categoria C1, C e/o C+E per trasporto professionale.
Obbligatoria dal 10/9/2009. Chi ha conseguito la patente C e C+E prima del
10/9/2009 può ottenere la CQC merci per documentazione.
tipo B, A,
B+esplosivi,
B+radioattivi
18 anni
• Veicoli che trasportano merci pericolose.
Esistono diversi tipi di patentini – CFP ADR consegui9bili con specifico corso
Art. 12. Espletamento dei servizi di polizia stradale.
1. L'espletamento dei servizi di polizia stradale previsti dal presente codice
spetta:
a) in via principale alla specialità Polizia Stradale della Polizia di Stato;
b) alla Polizia di Stato;
c) all'Arma dei carabinieri;
d) al Corpo della guardia di finanza;
d-bis) ai Corpi e ai servizi di polizia provinciale, nell'ambito del territorio
di competenza;
e) ai Corpi e ai servizi di polizia municipale, nell'ambito del territorio di
competenza;
f) ai funzionari del Ministero dell'interno addetti al servizio di polizia
stradale.
f-bis) al Corpo di polizia penitenziaria e al Corpo forestale dello Stato, in
relazione ai compiti di istituto.
2. L'espletamento dei servizi di cui all'art. 11, comma 1, lettere a) e b),
spetta anche ai rimanenti ufficiali e agenti di polizia giudiziaria indicati
nell'art. 57, commi 1 e 2, del codice di procedura penale.
3. La prevenzione e l'accertamento delle violazioni in materia di circolazione
stradale e la tutela e il controllo sull'uso delle strade possono, inoltre,
essere effettuati, previo superamento di un esame di qualificazione secondo
quanto stabilito dal regolamento di esecuzione:
a) dal personale dell'Ispettorato generale per la circolazione e la sicurezza
stradale, dell'Amministrazione centrale e periferica del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti, del Dipartimento per i trasporti terrestri
appartenente al Ministero dei trasporti e dal personale dell'A.N.A.S. ((, nonché
dal personale, con compiti ispettivi o di vigilanza sulle infrastrutture
stradali o autostradali, dell'Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie
e delle infrastrutture stradali e autostradali));
b) dal personale degli uffici competenti in materia di viabilità delle regioni,
delle province e dei comuni, limitatamente alle violazioni commesse sulle strade
di proprietà degli enti da cui dipendono;
c) dai dipendenti dello Stato, delle province e dei comuni aventi la qualifica o
le funzioni di cantoniere, limitatamente alle violazioni commesse sulle strade o
sui tratti di strade affidate alla loro sorveglianza;
d) dal personale dell'ente ferrovie dello Stato e delle ferrovie e tramvie in
concessione, che espletano mansioni ispettive o di vigilanza, nell'esercizio
delle proprie funzioni e limitatamente alle violazioni commesse nell'ambito dei
passaggi a livello dell'amministrazione di appartenenza;
e) dal personale delle circoscrizioni aeroportuali dipendenti dal Ministero dei
trasporti, nell'ambito delle aree di cui all'art. 6, comma 7.
f) dai militari del Corpo delle capitanerie di porto, dipendenti dal Ministero
della marina mercantile, nell'ambito delle aree di cui all'articolo 6, comma 7.
3-bis. I servizi di scorta per la sicurezza della circolazione, nonché i
conseguenti servizi diretti a regolare il traffico, di cui all'articolo 11,
comma 1, lettere c) e d), possono inoltre essere effettuati da personale
abilitato a svolgere scorte tecniche ai veicoli eccezionali e ai trasporti in
condizione di eccezionalità, limitatamente ai percorsi autorizzati con il
rispetto delle prescrizioni imposte dagli enti proprietari delle strade nei
provvedimenti di autorizzazione o di quelle richieste dagli altri organi di
polizia stradale di cui al comma 1.
4. La scorta e l'attuazione dei servizi diretti ad assicurare la marcia delle
colonne militari spetta, inoltre, agli ufficiali, sottufficiali e militari di
truppa delle Forze armate, appositamente qualificati con specifico attestato
rilasciato dall'autorità militare competente.
5. I soggetti indicati nel presente articolo, eccetto quelli di cui al comma
3-bis, quando non siano in uniforme, per espletare i propri compiti di polizia
stradale devono fare uso di apposito segnale distintivo, conforme al modello
stabilito nel regolamento.
Art. 192. * Obblighi verso funzionari, ufficiali e agenti.
1. Coloro che circolano sulle strade sono tenuti a fermarsi all'invito dei
funzionari, ufficiali ed agenti ai quali spetta l'espletamento dei servizi di
polizia stradale, quando siano in uniforme o muniti dell'apposito segnale
distintivo.
2. I conducenti dei veicoli sono tenuti ad esibire, a richiesta dei funzionari,
ufficiali e agenti indicati nel comma 1, il documento di circolazione e la
patente di guida, se prescritti, e ogni altro documento che, ai sensi delle
norme in materia di circolazione stradale, devono avere con sè.
3. I funzionari, ufficiali ed agenti, di cui ai precedenti commi, possono:
- procedere ad ispezioni del veicolo al fine di verificare l'osservanza delle
norme relative alle caratteristiche e all'equipaggiamento del veicolo medesimo;
- ordinare di non proseguire la marcia al conducente di un veicolo, qualora i
dispositivi di segnalazione visiva e di illuminazione o i pneumatici presentino
difetti o irregolarità tali da determinare grave pericolo per la propria e
altrui sicurezza, tenuto anche conto delle condizioni atmosferiche o della
strada;
- ordinare ai conducenti dei veicoli sprovvisti di mezzi antisdrucciolevoli,
quando questi siano prescritti, di fermarsi o di proseguire la marcia con
l'osservanza di specifiche cautele.
4. Gli organi di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza possono, per
controlli necessari ai fini dell'espletamento del loro servizio, formare posti
di blocco e, in tal caso, usare mezzi atti ad assicurare, senza pericolo di
incidenti, il graduale arresto dei veicoli che non si fermino nonostante
l'ordine intimato con idonei segnali. Le caratteristiche di detti mezzi, nonché
le condizioni e le modalità del loro impiego, sono stabilite con decreto del
Ministro dell'interno, di concerto con i Ministri delle infrastrutture e dei
trasporti e della giustizia.
5. I conducenti devono ottemperare alle segnalazioni che il personale militare,
anche non coadiuvato dal personale di polizia stradale di cui all'art. 12, comma
1, impartisce per consentire la progressione del convoglio militare.
6. Chiunque viola gli obblighi di cui ai commi 1, 2, 3 e 5 è soggetto alla
sanzione amministrativa del pagamento di una somma ((da € 87 a € 344)). (19)
(29) (43) (52) (64) (80) (89) (101) (114) (124) (145) ((163))
7. Chiunque viola le disposizioni di cui al comma 4, ove il fatto non
costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una
somma ((da € 1.362 a € 5.456)). (52) (64) (80) (89) (101) (114) (124) (133)
(145) ((163))
Art. 72. Dispositivi di equipaggiamento dei veicoli a motore e loro rimorchi.
1. I ciclomotori, i motoveicoli e gli autoveicoli devono essere equipaggiati
con:
a) dispositivi di segnalazione visiva e di illuminazione;
b) dispositivi silenziatori e di scarico se hanno il motore termico;
c) dispositivi di segnalazione acustica;
d) dispositivi retrovisori;
e) pneumatici o sistemi equivalenti.
2. Gli autoveicoli e i motoveicoli di massa a vuoto superiore a 0,35 t devono
essere muniti del dispositivo per la retromarcia. Gli autoveicoli devono altresì
essere equipaggiati con:
a) dispositivi di ritenuta e dispositivi di protezione, se trattasi di veicoli
predisposti fin dall'origine con gli specifici punti di attacco, aventi le
caratteristiche indicate, per ciascuna categoria di veicoli, con decreto del
Ministro dei trasporti;
b) segnale mobile di pericolo di cui all'art. 162;
c) contachilometri aventi le caratteristiche stabilite dal regolamento.
2-bis. Durante la circolazione, gli autoveicoli, i rimorchi ed i semirimorchi
adibiti al trasporto di cose, nonché classificati per uso speciale o per
trasporti speciali o per trasporti specifici, immatricolati in Italia con massa
complessiva a pieno carico superiore a 3,5 t., devono altresì essere
equipaggiati con strisce posteriori e laterali retroriflettenti. Le
caratteristiche tecniche delle strisce retroriflettenti sono definite con
decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, in ottemperanza a
quanto previsto dal regolamento internazionale ONU/ECE 104. I veicoli di nuova
immatricolazione devono essere equipaggiati con i dispositivi del presente comma
dal 1° aprile 2005 ed i veicoli in circolazione entro il 31 dicembre 2006.
2-ter. Gli autoveicoli, i rimorchi ed i semirimorchi, abilitati al trasporto di
cose, di massa complessiva a pieno carico superiore a 7,5 t, sono equipaggiati
con dispositivi, di tipo omologato, atti a ridurre la nebulizzazione dell'acqua
in caso di precipitazioni. La prescrizione si applica ai veicoli nuovi
immatricolati in Italia a decorrere dal 1° gennaio 2007. Le caratteristiche
tecniche di tali dispositivi sono definite con decreto del Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti.
3. Gli autoveicoli possono essere equipaggiati con apparecchiature per il
pagamento automatico di pedaggi anche urbani, oppure per la ricezione di segnali
ed informazioni sulle condizioni di viabilità. Possono altresì essere
equipaggiati con il segnale mobile plurifunzionale di soccorso, le cui
caratteristiche e disciplina d'uso sono stabilite nel regolamento.
4. I filoveicoli devono essere equipaggiati con i dispositivi indicati nei commi
1 e 2 e 3, in quanto applicabili a tale tipo di veicolo.
5. I rimorchi devono essere equipaggiati con i dispositivi indicati al comma 1,
lettere a) ed e). I veicoli di cui al comma 1 riconosciuti atti al traino di
rimorchi ed i rimorchi devono altresì essere equipaggiati con idonei dispositivi
di agganciamento.
6. Il Ministro dei trasporti, sentito il Ministro dell'interno, con propri
decreti stabilisce i dispositivi supplementari di cui devono o possono essere
equipaggiati i veicoli indicati nei commi 1 e 5 in relazione alla loro
particolare destinazione o uso, ovvero in dipendenza di particolari norme di
comportamento.
7. Il Ministro dei trasporti, con propri decreti, stabilisce norme specifiche
sui dispositivi di equipaggiamento dei veicoli destinati ad essere condotti
dagli invalidi ovvero al loro trasporto.
8. I dispositivi di cui ai commi precedenti sono soggetti ad omologazione da
parte del Ministero dei trasporti - Dipartimento per i trasporti terrestri,
secondo modalità stabilite con decreti del Ministro dei trasporti, salvo quanto
previsto nell'art. 162. Negli stessi decreti è indicata la documentazione che
l'interessato deve esibire a corredo della domanda di omologazione.
9. Nei decreti di cui al comma 8 sono altresì stabilite, per i dispositivi
indicati nei precedenti commi, le prescrizioni tecniche relative al numero, alle
caratteristiche costruttive e funzionali e di montaggio, le caratteristiche del
contrassegno che indica la conformità dei dispositivi alle norme del presente
articolo ed a quelle attuative e le modalità dell'apposizione.
10. Qualora le norme di cui al comma 9 si riferiscono a dispositivi oggetto di
direttive comunitarie, le prescrizioni tecniche sono quelle contenute nelle
predette direttive, salvo il caso dei dispositivi presenti al comma 7; in
alternativa a quanto prescritto dai richiamati decreti, l'omologazione è
effettuata in applicazione delle corrispondenti prescrizioni tecniche contenute
nei regolamenti o nelle raccomandazioni emanati dall'Ufficio europeo per le
Nazioni Unite - Commissione economica per l'Europa, recepiti dal Ministro dei
trasporti.
11. L'omologazione rilasciata da uno Stato estero per uno dei dispositivi di cui
sopra può essere riconosciuta valida in Italia a condizione di reciprocità e
fatti salvi gli accordi internazionali.
12. Con decreto del Ministro dei trasporti può essere reso obbligatorio il
rispetto di tabelle e norme di unificazione aventi carattere definitivo ed
attinenti alle caratteristiche costruttive, funzionali e di montaggio dei
dispositivi di cui al presente articolo.
13. Chiunque circola con uno dei veicoli citati nel presente articolo in cui
alcuno dei dispositivi ivi prescritti manchi o non sia conforme alle
disposizioni stabilite nei previsti provvedimenti è soggetto alla sanzione
amministrativa del pagamento di una somma ((da € 87 a € 344)). (19) (29) (43)
(52) (64) (80) (89) (101) (114) (124) (145) ((163))
NORME SICUREZZA CONDUCENTE)
Articolo 141 – * Velocità
1. É obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che, avuto
riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle
caratteristiche e alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra
circostanza di qualsiasi natura, sia evitato ogni pericolo per la sicurezza
delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione.
2. Il conducente deve sempre conservare il controllo del proprio veicolo ed
essere in grado di compiere tutte le manovre necessarie in condizione di
sicurezza, specialmente l'arresto tempestivo del veicolo entro i limiti del suo
campo di visibilità e dinanzi a qualsiasi ostacolo prevedibile.
3. In particolare, il conducente deve regolare la velocità nei tratti di strada
a visibilità limitata, nelle curve, in prossimità delle intersezioni e delle
scuole o di altri luoghi frequentati da fanciulli indicati dagli appositi
segnali, nelle forti discese, nei passaggi stretti o ingombrati, nelle ore
notturne, nei casi di insufficiente visibilità per condizioni atmosferiche o per
altre cause, nell'attraversamento degli abitati o comunque nei tratti di strada
fiancheggiati da edifici.
4. Il conducente deve, altresì, ridurre la velocità e, occorrendo, anche
fermarsi quando riesce malagevole l'incrocio con altri veicoli, in prossimità
degli attraversamenti pedonali e, in ogni caso, quando i pedoni che si trovino
sul percorso tardino a scansarsi o diano segni di incertezza e quando, al suo
avvicinarsi, gli animali che si trovino sulla strada diano segni di spavento.
5. Il conducente non deve gareggiare in velocità.
6. Il conducente non deve circolare a velocità talmente ridotta da costituire
intralcio o pericolo per il normale flusso della circolazione.
7. All'osservanza delle disposizioni del presente articolo è tenuto anche il
conducente di animali da tiro, da soma e da sella.
8. Chiunque viola le disposizioni del comma 3 è soggetto alla sanzione
amministrativa del pagamento di una somma da euro 87 a euro 344.
9. Salvo quanto previsto dagli articoli 9-bis e 9-ter, chiunque viola la
disposizione del comma 5 è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento
di una somma da euro 173 a euro 694.
10. Se si tratta di violazioni commesse dal conducente di cui al comma 7 la
sanzione amministrativa è del pagamento di una somma da euro 26 a euro 102.
11. Chiunque viola le altre disposizioni del presente articolo è soggetto alla
sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 42 a euro 173.
Art. 149. * Distanza di sicurezza tra veicoli.
Distanza di sicurezza tra veicoli
1. Durante la marcia i veicoli devono tenere, rispetto al veicolo che precede,
una distanza di sicurezza tale che sia garantito in ogni caso l'arresto
tempestivo e siano evitate collisioni con i veicoli che precedono.
2. Fuori dei centri abitati, quando sia stabilito un divieto di sorpasso solo
per alcune categorie di veicoli, tra tali veicoli deve essere mantenuta una
distanza non inferiore a 100 m. Questa disposizione non si osserva nei tratti di
strada con due o più corsie per senso di marcia.
3. Quando siano in azione macchine sgombraneve o spargitrici, i veicoli devono
procedere con la massima cautela. La distanza di sicurezza rispetto a tali
macchine non deve essere comunque inferiore a 20 m. I veicoli che procedono in
senso opposto sono tenuti, se necessario, ad arrestarsi al fine di non
intralciarne il lavoro.
4. Chiunque viola le disposizioni del presente articolo è soggetto alla sanzione
amministrativa del pagamento di una somma da € 42 a € 173. (19) (29) (43) (52)
(64) (80) (89) (101) (114) (124) (145)
5. Quando dall'inosservanza delle disposizioni di cui al presente articolo
deriva una collisione con grave danno ai veicoli e tale da determinare
l'applicazione della revisione di cui all'art. 80, comma 7, la sanzione
amministrativa è del pagamento di una somma ((da € 87 a € 344)). Ove il medesimo
soggetto, in un periodo di due anni, sia incorso per almeno due volte in una
delle violazioni di cui al presente comma, all'ultima violazione consegue la
sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente da uno a tre
mesi, ai sensi del capo I, sezione II, del titolo VI. (19) (29) (43) (52) (64)
(80) (89) (101) (114) (124) (145) ((163))
6. Se dalla collisione derivano lesioni gravi alle persone, il conducente è
soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma ((da € 430 a €
1.731)), salva l'applicazione delle sanzioni penali per i delitti di lesioni
colpose o di omicidio colposo. Si applicano le disposizioni del capo II, sezione
I e II, del titolo VI. (19) (29) (43) (52) (64) (80) (89) (101) (114) (124)
(133) (145) ((163))
COSA E’
L'ordinanza–ingiunzione è un atto della pubblica amministrazione con il quale si
notifica al soggetto il tipo di violazione e l'ammontare di una sanzione
pecuniaria per la stessa prevista. Questa fase è successiva al decorso del
termine per il pagamento in misura ridotta possibile nel termine indicato nel
verbale di accertamento dell'infrazione ("multa"). Il termine per l'opposizione
è di 30 giorni dalla notificazione dell'ordinanza–ingiunzione (60 giorni se
l'interessato risiede all'estero).
Pagamento:
doppio del minimo – metà del massino,
riduzione entro 60 gg il
minimo,
entro 5 gg 30% del minimo
Notifica entro 90 gg autori,
solidali, contestazione non immediata,
100 gg per i concorrenti per
contestazione immediata, 360 estero
Per
veicoli istituzionali sospensione per accertamenti (art.
4 della legge 24 novembre 1981, n. 689. Non risponde delle violazioni
amministrative chi ha commesso il fatto nell'adempimento di un dovere o
nell'esercizio di una facoltà legittima ovvero in stato di necessità o di
legittima difesa.)
Per completezza si precisa che ci sono, poi, alcuni verbali per i quali non è
ammesso il pagamento in misura ridotta per i quali è necessario aspettare che la
Prefettura stabilisca, con propria ordinanza ingiunzione, la sanzione pecuniaria
principale ed applichi, se vi sono, le sanzioni accessorie previste dal Codice;
tale provvedimento deve essere adottato e notificato nel termine prescrizionale
quinquennale.
Prescrizione 5 anni
Questa sezione è da utilizzare solo per il pagamento di:
Ordinanze Ingiunzioni Prefettizie;
Sentenze del Giudice di Pace;
Verbali per i quali non sia stato inviato apposito bollettino PagoPA;
Pagamenti integrativi perché in misura inferiore a quanto dovuto.
Il presente verbale può essere pagato entro 5 giorni dalla notifica in forma
scontata, oppure entro 60 giorni dalla notifica senza usufruire dello sconto
previsto dalla legge.
L'ordinanza-ingiunzione della Prefettura deve essere pagata entro 30 giorni
dalla notifica versando l'importo indicato nella stessa. Il riferimento al
verbale è indicato nell'ordinanza-ingiunzione.
Considerato che dopo tale termine, in assenza di ricorso, i verbali
costituiscono titolo esecutivo per un importo raddoppiato più le spese di
procedimento, eventuali pagamenti oltre il termine NON estinguono
l'obbligazione.
ATTENZIONE: nel caso di verbali che non riportino la targa del veicolo, indicare
"NT" nel campo Targa del veicolo
La
riduzione quindi non si applica in tre casi:
· quando per una data
violazione è prevista la confisca del veicolo (escluso la violazione in tema di
circolazione senza copertura assicurativa)
· quando per una data
violazione è prevista la sospensione della patente
· quando non è
consentito il pagamento in misura ridotta (ad esempio quando uno non si ferma
all’alt dell’agente, rifiutato esibizione patente o mancante, diverso uso del
veicolo o senza abilitazione, targa falsa, parcheggio, reiterazione, ecc.)
Panorama normativo di riferimento
L’art. 202, comma 1, D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Codice della strada)
dispone: “Per le violazioni per le quali il presente codice stabilisce una
sanzione amministrativa pecuniaria ferma restando l'applicazione delle eventuali
sanzioni accessorie, il trasgressore è ammesso a pagare, entro sessanta giorni
dalla contestazione o dalla notificazione, una somma pari al minimo fissato
dalle singole norme”. Si tratta del così detto pagamento in misura ridotta della
sanzione amministrativa pecuniaria.
Il pagamento in misura ridotta non è consentito soltanto per alcuni illeciti
particolari, e ciò in ragione della loro maggiore gravità:
1)
qualora lo stesso trasgressore non abbia ottemperato all'invito a fermarsi
ovvero, trattandosi di conducente di veicolo a motore, si sia rifiutato di
esibire il documento di circolazione, la patente di guida o qualsiasi altro
documento che deve avere con sé (in tal caso, il verbale di contestazione della
violazione deve essere trasmesso al Prefetto entro dieci giorni
dall'identificazione);
2)
per le violazioni previste dagli articoli: 83, comma 6 (il quale punisce
chiunque adibisca ad uso proprio per trasporto di cose un veicolo senza il
titolo prescritto o violi le prescrizioni o i limiti contenuti nella licenza);
3)
88, comma 3 (che punisce chiunque adibisca al trasporto di cose per conto terzi
veicoli non adibiti a tale uso o violi le prescrizioni e i limiti indicati
nell'autorizzazione o nella carta di circolazione);
4)
97, comma 9 (che punisce chiunque circoli con un ciclomotore munito di targa non
propria); 100, comma 12 (che punisce chiunque circoli con un veicolo munito di
targa non propria o contraffatta);
5)
113, comma 5 (che punisce la violazione delle norme sulle targhe delle macchine
agricole); 114, comma 7 (che punisce la violazione delle norme sulle targhe
delle macchine operatrici);
6)
116, comma 13 (che punisce chiunque guidi autoveicoli o motoveicoli senza aver
conseguito la patente di guida e i conducenti che guidino senza patente perché
revocata o non rinnovata per mancanza dei requisiti previsti); 124, comma 4 (che
punisce chiunque guidi macchine agricole o macchine operatrici senza essere
munito della patente); 136, comma 6 (che punisce coloro che, trascorso più di un
anno dal giorno dell'acquisizione della residenza in Italia, guidino con patente
o altro prescritto documento abilitativo, rilasciati da uno Stato estero, non
più in corso di validità);
7)
168, comma 8 (che punisce chiunque trasporti merci pericolose senza regolare
autorizzazione, quando sia prescritta, ovvero non rispetti le condizioni
imposte, a tutela della sicurezza, negli stessi provvedimenti di
autorizzazione);
8)
176, comma 19 (che punisce alcuni comportamenti durante la circolazione sulle
autostrade e sulle strade extraurbane principali e precisamente:
9)
a) la violazione del divieto di effettuare la retromarcia, anche sulle corsie
per la sosta di emergenza, fatta eccezione per le manovre necessarie nelle aree
di servizio o di parcheggio;
b) la violazione del divieto di circolare sulle corsie per la sosta di emergenza
se non per arrestarsi o riprendere la marcia;
c) la violazione del divieto di circolare sulle corsie di variazione di velocità
se non per entrare o uscire dalla carreggiata;
d) la violazione della disposizione secondo cui la sosta d'emergenza non deve
eccedere il tempo strettamente necessario per superare l'emergenza stessa e non
deve, comunque, protrarsi oltre le tre ore; e) la violazione della disposizione
secondo cui durante la sosta e la fermata di notte, in caso di visibilità
limitata, devono sempre essere tenute accese le luci di posizione, nonché gli
altri dispositivi prescritti);
10)
216, comma 6 (che punisce chiunque, durante il periodo in cui il documento di
circolazione è ritirato, circoli abusivamente con lo stesso veicolo cui il
ritiro si riferisce ovvero guidi un veicolo quando la patente gli sia stata
ritirata); 217, comma 6 (che punisce chiunque, durante il periodo di sospensione
della carta di circolazione, circoli abusivamente con lo stesso veicolo); 218,
comma 6 (che punisce chiunque, durante il periodo di sospensione della validità
della patente, circoli abusivamente).
Per tali violazioni, il verbale di contestazione va trasmesso al Prefetto del
luogo della commessa violazione entro dieci giorni.
Ricorso Gerarchico proprio in autotutela 60 gg al Prefetto-rigetto il doppio
della sanzione irrogata + spese
Ricorso Gerarchico improprio in autotutela 60 gg decisione 120 gg comunicazione
150 gg / silenzio assenso
Ricorso Giudiziario Giudice di Pace 30 giorni contro ordinanza-ingiunzione
comune/prefetto
Struttura del procedimento sanzionatorio previsto dalla L. 689/81
Il procedimento sanzionatorio previsto dalla L. 689/81 si snoda in due fasi: la
prima, finalizzata ad accertare la violazione da parte dell’organo accertatore,
che redige il “verbale di accertamento” e la seconda finalizzata ad irrogare la
sanzione nei confronti del soggetto responsabile, mediante “ordinanza
ingiunzione”.
Opposizione al procedimento di ordinanza-ingiunzione,
by Tribunale di Cremona
COSA E’
L'ordinanza–ingiunzione è un atto della pubblica amministrazione con il quale si
notifica al soggetto il tipo di violazione e l'ammontare di una sanzione
pecuniaria per la stessa prevista. Questa fase è successiva al decorso del
termine per il pagamento in misura ridotta possibile nel termine indicato nel
verbale di accertamento dell'infrazione ("multa"). Il termine per l'opposizione
è di 30 giorni dalla notificazione dell'ordinanza–ingiunzione (60 giorni se
l'interessato risiede all'estero).
NORMATIVA DI RIFERIMENTO
Artt. 22 e 23 Legge 24/11/81 n.689; art. 204 C.d.S.
CHI PUO’ RICHIEDERLO
Il ricorso deve essere presentato personalmente dall’intestatario
dell’infrazione (se si tratta di società, dal suo legale rappresentante) oppure
da un avvocato munito di regolare mandato.
COME SI RICHIEDE e DOCUMENTI
Il ricorso va richiesto:
Ai Giudici di Pace del luogo in cui è stata commessa la violazione
se la sanzione in contestazione ha importo sino a € 20.000
si tratta di una violazione al codice della strada (competenza esclusiva, art.
204 bis C.d.S.)
Al Tribunale del luogo in cui è stata commessa la violazione:
se la sanzione in contestazione è di importo superiore a € 20.000
se è stata applicata una sanzione di natura diversa da quella pecuniaria, sola o
congiunta a quest'ultima (ad eccezione di quelle previste dal codice della
strada e dalla normativa sugli assegni da presentare in ogni caso al Giudice di
Pace) in tutti i casi in materia di: tutela del lavoro, di igiene sui luoghi di
lavoro e di prevenzione degli infortuni sul lavoro previdenza e assistenza
obbligatori a urbanistica ed edilizia tutela dell'ambiente dall'inquinamento,
della flora, della fauna e delle aree protette igiene degli alimenti e delle
bevande società e di intermediari finanziari tributaria e valutaria
L'opposizione si propone tramite ricorso in carta semplice e deve contenere:
l'indicazione delle partile motivazioni per le quale si ritiene non
"illegittimo" il provvedimento ciò che si vuole ottenere con pronuncia del
giudice
Al ricorso bisogna allegare
verbale di accertamento; cartella esattoriale; ordinanza prefettizia; busta con
il timbro per la notifica; l'atto notificato, da depositarsi nella cancelleria
del giudice adito, contenente altresì la dichiarazione di residenza o l'elezione
di domicilio nel comune ove ha sede il giudice adito; una fotocopia degli
eventuali documenti che si intendono allegare; contributo unificato. È ammessa,
inoltre, la proposizione di opposizione con unico ricorso avverso più
ordinanze–ingiunzioni emesse dalla stessa autorità.
Opposizione al procedimento di ordinanza-ingiunzione
La procedura di opposizione a ordinanza-ingiunzione è molto simile all’iter da
seguire in caso di ricorso avverso verbali di violazione del codice della
strada; al contrario, in caso di opposizione alla cartella esattoriale i passi
da compiere risultano essere differenti. Di seguito vengono forniti alcuni utili
chiarimenti.
Il ricorso avverso il verbale di violazione del codice della strada può essere
alternativamente proposto, entro 30 gg. dalla notificazione, innanzi al Giudice
di Pace ed entro 60 gg innanzi al Prefetto.
Se si fa ricorso al Prefetto contro le ordinanze–ingiunzioni emesse dallo stesso
è poi possibile proporre opposizione al Giudice di Pace entro 30 gg. dalla loro
notificazione.
L’atto che si intende impugnare deve essere stato notificato o immediatamente
contestato: non è previsto il ricorso avverso il preavviso di accertamento.
Il procedimento si svolge in contraddittorio tra le parti, in udienza innanzi al
Giudice, e termina con l’emanazione di una decisione del Giudice di Pace che può
essere:
ordinanza di inammissibilità del ricorso (perché il ricorso è presentato da
persona non legittimata o è presentato oltre i termini o è già stato effettuato
il pagamento della sanzione o è già stato presentato ricorso al Prefetto ecc.);
ordinanza di convalida (emessa qualora il ricorrente, parte attrice, non si
presenti alla prima udienza di comparizione senza addurre alcun legittimo
impedimento);
sentenza di rigetto (costituisce titolo esecutivo);
sentenza di accoglimento (con la quale annulla l’atto di accertamento).
Il soggetto che presenta ricorso deve avere la legittimazione attiva e deve
essere il destinatario del verbale:
il trasgressore (deve essere identificato come tale nel verbale di contestazione
a lui indirizzato) il genitore, tutore o chi ne fa le veci (per illeciti
commessi da minori o soggetti che non hanno la capacità d’agire);
il responsabile in solido del veicolo oggetto della violazione (proprietario del
veicolo o usufruttuario o l’acquirente con patto riservato dominio o
l’utilizzatore a titolo di locazione finanziaria, ai sensi dell’art. 196 del
C.d. S.; (per i ciclomotori l’intestatario del contrassegno d’identificazione);
il legale rappresentante od amministratore delegato della persona giuridica
(società od impresa) titolare del veicolo organo munito della rappresentanza
esterna per gli enti pubblici proprietari del veicolo sanzionato altri obbligati
in solido (nei rapporti di vigilanza, direzione ed autorità ai sensi della Legge
689/81)
L’opposizione alla cartella esattoriale è
possibile solo quando vi siano stati vizi di procedura nella sua formazione; in
particolare quando sia mancata la notifica del verbale di accertamento di
violazione al Codice della Strada o addirittura manchi la contestazione o
l’accertamento dell’infrazione.
Se al contrario il verbale è stato elevato e notificato regolarmente (e non è
stato opposto) è diventato titolo esecutivo, pertanto i successivi atti della
Pubblica Amministrazione, il ruolo e le cartelle esattoriali, non possono più
essere impugnati per vizi antecedenti secondo la normativa degli artt. 22 e 23
L. 689/81 (che come detto disciplina l’opposizione a sanzione amministrativa).
In quest’ultima ipotesi chi riceve una cartella esattoriale e ritenga che la
pretesa sanzionatoria sia estinta oppure contesti la regolarità formale della
cartella (vizi di forma attinenti il procedimento di esecuzione esattoriale e
gli avvisi di mora) deve proporre l’opposizione all’esecuzione o agli atti
esecutivi ai sensi degli artt. 615 e ss. cod. proc. civ. (N.B. il termine è di 5
giorni dalla notifica della cartella esattoriale).
Multe non pagate: cosa succede, tempi di prescrizione e come verificare,
by alvolante.it
La guida completa su come comportarsi in caso di multe non pagate: quando
bisogna pagare e quando si può presentare ricorso. Attenti ai termini di
prescrizione.
Ricevere una sanzione stradale è un evento che può capitare a tutti. Alcune
persone, però, sono tentate di non dare seguito al pagamento, sperando che la
situazione svanisca. Tuttavia, questa scelta può portare a gravi conseguenze, e
queste, nella maggior parte dei casi, avvengono. In questo articolo, esploreremo
in dettaglio le ripercussioni legate alle multe non pagate in Italia e daremo
consigli su come comportarsi al meglio.
MULTE NON PAGATE: COSA SUCCEDE SE SI IGNORANO LE SANZIONI?
Una multa stradale non è semplicemente una penalizzazione per un comportamento
sbagliato. È una sanzione imposta dalle autorità competenti per garantire la
sicurezza e l'ordine sulle strade. Ignorare la multa può portare a complicazioni
legali e finanziarie.
Quando si decide di non pagare una multa, infatti, si entra in un circolo di
problemi. Le principali conseguenze includono l’applicazione delle seguenti
azioni:
Sanzioni e interessi di mora: se la multa non viene pagata entro la scadenza, la
legge italiana prevede una sanzione che può raggiungere il 30% dell'importo
iniziale. Gli interessi di mora vengono poi applicati dal giorno successivo alla
scadenza.
Procedure di riscossione coattiva: in caso di ritardi protratti, l'autorità può
intraprendere azioni drastiche come il pignoramento dei beni o la trattenuta
sulla busta paga.
Sanzioni penali: al di là delle penalità finanziarie, il mancato pagamento può
portare a sanzioni penali, incluse ammende considerevoli o persino l'arresto
(fino a 6 mesi).
LE TEMPISTICHE DA CONOSCERE
È essenziale essere consapevoli delle diverse scadenze legate alle multe
stradali:
Notifica della multa: dopo una violazione, la notifica deve arrivare al titolare
del veicolo entro 90 giorni.
Comunicazione dei dati del conducente: se la multa comporta la sottrazione di
punti dalla patente, si hanno 60 giorni per comunicare i dettagli dell'effettivo
conducente.
Fasi di riscossione: se trascorsi 60 giorni non si procede al pagamento, il
Comune inizia le procedure di riscossione, che potrebbero culminare in
pignoramenti o fermi amministrativi.
Di norma, si dispone di 60 giorni dalla data di notifica per saldare l'importo
dovuto. Se la contravvenzione viene rilevata direttamente sul posto, il
conteggio parte dalla data di rilascio. In caso contrario, la data di
riferimento sarà quella della notifica ricevuta presso la propria abitazione o
ritirata presso l'ufficio postale. Occorre ricordare che dopo 10 giorni in
giacenza presso l'ufficio postale, la notifica si considera come ricevuta.
COME FUNZIONA LA RISCOSSIONE DELLE MULTE NON PAGATE
La riscossione delle multe non pagate non è sempre immediata. Dopo il
sessantunesimo giorno dalla notifica, il Comune ha la facoltà di avviare la
riscossione esattoriale, ma spesso questo passaggio può richiedere mesi o
addirittura anni. Una volta formato il "ruolo", un documento che certifica il
debito, viene notificata una cartella esattoriale all'automobilista. Se non
avviene il pagamento entro 30 giorni dalla notifica, si può arrivare al
pignoramento dei beni.
PRESCRIZIONE MULTE NON PAGATE: I TEMPI
Le multe non pagate non restano in sospeso indefinitamente. Hanno una
prescrizione di 5 anni. Tuttavia, ogni notifica o sollecito di pagamento
interrompe questo periodo di prescrizione, facendolo ricominciare. Ma
attenzione: tra la certificazione del debito e la notifica della cartella
esattoriale, non devono passare più di 2 anni, altrimenti la richiesta di
pagamento può diventare illegittima. Approfondiremo questo tema a breve, in un
paragrafo a parte.
LE SCADENZE CHIAVE DA CONSIDERARE
Per assicurarsi di affrontare la sanzione nella maniera più economica, è
fondamentale rispettare alcune date chiave:
Entro 5 giorni dalla notifica: pagando la multa entro questo lasso di tempo, si
beneficia di uno sconto del 30% sull'importo dovuto.
Entro 60 giorni: in questo caso, il pagamento è "ridotto", rispetto
all'ammontare totale dovuto.
Oltre 60 giorni: oltre questa scadenza, la sanzione torna al suo valore
originale, che è pressoché doppio rispetto all'importo iniziale. Un ritardo
anche di un solo giorno fa scattare questa misura piena, con un'aggiunta di
interessi del 10% ogni sei mesi.
RIPERCUSSIONI LEGALI E FINANZIARIE
Un mancato pagamento non passa inosservato dalle autorità competenti. Queste
possono applicare una serie di misure punitive come:
Interessi di mora: questi si applicano sull'importo della multa, basandosi sul
tasso di interesse legale.
Cartella di pagamento: documento che riassume l'importo originale, gli interessi
di mora e le sanzioni addizionali.
Ulteriori sanzioni: queste possono comprendere il fermo amministrativo, la
confisca del veicolo e, in casi estremi, la revoca della patente di guida.
Azioni legali: in alcune circostanze, il trasgressore può anche essere
perseguito penalmente per omissione di versamento di imposte oltre 150.000 euro.
COS’È IL FERMO AMMINISTRATIVO DELL’AUTO
Il fermo amministrativo dell’auto è una delle misure più severe che le autorità
possono adottare.
È essenzialmente una sospensione temporanea dell'utilizzo del veicolo,
solitamente disposta in seguito a ripetute violazioni del Codice della Strada o
al mancato pagamento delle sanzioni. La durata del fermo può variare, ma
raramente supera i 90 giorni. Tuttavia, tale periodo può essere prorogato in
caso di ulteriori violazioni.
NOTIFICHE CARTELLE DI PAGAMENTO
Una delle comunicazioni più comuni riguarda la cartella di pagamento. Questo
documento, inviato dall'Agenzia delle Entrate o da un altro Ente Creditore,
serve a informare la persona della necessità di pagare l'importo dovuto per una
violazione al Codice della Strada. All'interno della cartella sono riportati
tutti i dettagli dell'infrazione, incluso l'importo da saldare e eventuali
interessi accumulati.
Importante da notare è che la cartella di pagamento deve essere consegnata entro
cinque anni dalla data di notifica originale. Se non si risolve il pagamento, le
conseguenze possono essere gravi, incluse ulteriori penalità e potenziali
ripercussioni penali.
Le sanzioni stradali possono essere comunicate in diversi modi. Alcune vengono
notificate immediatamente al momento dell'infrazione, mentre altre vengono
inviate successivamente all'indirizzo del destinatario. Per legge, la notifica
deve avvenire entro 90 giorni dall'accertamento dell'illecito. Se non viene
rispettato questo termine, il destinatario ha il diritto di rifiutare il
pagamento.
Se si riceve la notifica a casa, l’entità che emette la multa ha un termine di
90 giorni dalla data della contravvenzione per inviare la notifica. Questo
periodo prende inizio dal giorno della contravvenzione fino all'invio effettivo
della notifica. È fondamentale tener presente questa tempistica, poiché
superando tale termine, il cittadino ha il diritto di contestare la validità
della sanzione. Infatti, qualora la multa dovesse arrivare lo stesso trascorso
il tempo di 90 giorni, spetterà comunque a chi ha ricevuto la multa ormai
illegittima contestarla e presentare ricorso tramite i canali ufficiali.
Reati e Pene: In casi specifici, quali il mancato pagamento di multe per
violazioni del Codice della Strada o di tributi e tasse, ai sensi della legge
sulla depenalizzazione (DECRETO LEGISLATIVO 15 gennaio 2016, n. 8. Disposizioni
in materia di depenalizzazione, a norma dell'articolo 2, comma 2, della legge 28
aprile 2014, n. 67. (16G00011)), il debitore può incorrere in sanzioni penali,
che variano dall'arresto fino a sei mesi a multe pecuniarie fino a 1.032 euro.
PRESENTARE RICORSO CONTRO UNA MULTA
Se si ritiene che una multa non sia giustificata, esistono procedure di ricorso
da seguire:
Ricorso al Giudice di Pace: questa azione deve essere intrapresa entro 30 giorni
dalla notifica.
Ricorso al Prefetto: può essere presentato entro 60 giorni.
Al momento della presentazione, il ricorso dovrebbe includere dati personali,
dettagli della notifica, motivazioni del ricorso e ogni altra informazione
ritenuta pertinente.
PAGAMENTO TEMPESTIVO DELLA MULTA: I VANTAGGI
Pagare la multa entro 5 giorni dalla notifica consente di ottenere uno sconto
del 30% sull'importo totale. Ciò non influisce sui tempi effettivi di pagamento.
Tuttavia, è importante notare che questa riduzione potrebbe non essere sempre
disponibile.
Se una multa non viene saldata entro 60 giorni dalla notifica e non si presenta
alcun ricorso, l'ente inizia il processo di riscossione. Questo comporta il
trasferimento del debito all'Agente di Riscossione, tipicamente l'Agenzia delle
Entrate. L'Agenzia, a sua volta, emette una cartella esattoriale, aggiungendo
gli interessi dovuti.
QUANTO AUMENTA UNA MULTA NON SALDATA
Ogni ritardo nel pagamento di una multa porta ad un incremento dell'importo
originale. Dopo 60 giorni dall’emissione, la somma aumenta a causa degli
interessi e delle sanzioni. La crescita avviene del 10% ogni 6 mesi sul totale
dovuto. In aggiunta agli interessi e alle more, potrebbero scattare anche
sanzioni più severe, come il sequestro dell’auto, previo preavviso di 30
giorni.
Ovviamente, come già anticipato, se si è certi di aver commesso l’infrazione e
non si deve presentare ricorso, conviene pagare la multa entro 5 giorni dalla
data di notifica, in modo tale da saldarla con il 30% di sconto.
PRESCRIZIONE MULTE NON PAGATE
La prescrizione rappresenta un elemento fondamentale del sistema giuridico,
poiché assicura che le controversie non rimangano indefinitamente pendenti. Per
le multe stradali, pur essendo un'opzione raramente applicata, rappresenta
un’ultima ancora di salvezza per il trasgressore.
La prescrizione rappresenta una delle principali tutele giuridiche a
disposizione del cittadino, un meccanismo che può condurre all'estinzione di un
obbligo, in questo caso il pagamento di una multa. Quando un Ente emette una
sanzione, questa deve essere notificata entro 90 giorni. Una volta notificata,
l'obbligato ha vari termini per effettuare il pagamento: 5 giorni per usufruire
del 30% di sconto e 60 giorni come termine ordinario.
Non pagare una multa entro i termini stabiliti può avere diverse conseguenze. Se
non avviene il pagamento entro i tempi indicati, e nessun ricorso viene
presentato al Prefetto o al Giudice di Pace, l’ente erogatore avrà un interesse
primario: far rispettare i termini di prescrizione e riscuotere il dovuto.
Dopo la scadenza del termine di pagamento, il debitore può sperare che l'ente
non invii ulteriori comunicazioni o non proceda con la fase esattoriale.
Soprattutto in grandi città, dove gli enti devono gestire molte multe, può
accadere che alcune rimangano in sospeso. Se ciò avviene, e nessun atto formale
viene successivamente notificato, il debito si estingue dopo un periodo
prescrizionale di 5 anni.
Dall’infrazione alla notifica, l’ente ha 90 giorni per comunicare la sanzione al
trasgressore. La data da considerare valida è quella in cui la raccomandata
viene consegnata all'ufficio postale. Una volta notificata, l'obbligato ha 60
giorni per pagare. Se intende fare ricorso, ha 30 giorni per il Giudice di Pace
e 60 giorni per il Prefetto. Se non si paga e non si fa ricorso, la multa
diventa definitiva.
L’amministrazione, dopo aver reso la sanzione definitiva, deve incaricare un
agente della riscossione per l'invio della cartella esattoriale, che dovrà
essere notificata al trasgressore entro due anni. Oltre questo periodo, si parla
di decadenza, precludendo all’ente ulteriori azioni.
Riepilogando, la prescrizione delle multe avviene quindi dopo 5 anni dall’ultimo
atto formale notificato. Se nessun verbale viene notificato entro 90 giorni, il
debito decade. Tuttavia, se una multa viene inviata oltre questo termine, è
comunque necessario presentare un ricorso per contestarla.
INTERRUZIONI E CALCOLO DEL PERIODO DI PRESCRIZIONE
La prescrizione può subire interruzioni. Ad esempio, atti formali da parte
dell'amministrazione o determinate azioni legali (come il ricorso al Prefetto o
l'opposizione al Giudice di Pace) possono azzerare il periodo prescrizionale,
che dovrà quindi ricominciare da capo.
MULTA NON LIQUIDATA: COSA SUCCEDE ANNO PER ANNO?
Cosa succede se non si liquida una multa, anno per anno? Andiamo a riepilogare:
Multa non saldata dopo 2 anni
Dopo due anni dall'emanazione di una multa, non si è ancora in una fase di
prescrizione completa. Ma è fondamentale sapere che l'ente incaricato del
recupero deve inviare la notifica entro questi 24 mesi, a partire dal momento in
cui la sanzione diventa esigibile.
Dopo 3 anni dall'emanazione
Se una multa è ancora in sospeso dopo 36 mesi, non è ancora prescritta. Durante
questo periodo, potresti ricevere una comunicazione chiamata "avviso bonario".
Se si riceve questa notifica, la prescrizione viene interrotta e il periodo di
cinque anni ricomincia da zero.
Al passare di 5 anni
Dopo cinque anni, finalmente, la sanzione si estingue. Ma attenzione: questo non
avviene in modo automatico. Bisogna far valere questo diritto, rivolgendoti:
Alla stazione di polizia locale. Presentando un reclamo al Prefetto della tua
zona. Oppure appellandosi al Giudice di Pace.
CONTESTARE UNA MULTA: ECCO COME FARE
Si può contestare una multa solo in presenza di certi presupposti, come errori
nel verbale. La regola generale prevede che la notifica avvenga entro 90 giorni.
Se ciò non avviene, la multa diventa nulla. Ma bisogna sapere che, nelle
violazioni immediatamente contestate, come l'uso del cellulare alla guida, non
c'è periodo di prescrizione poiché la sanzione viene notificata sul momento.
Ricorso al Prefetto
Se la sanzione viene notificata direttamente dalle forze dell'ordine, è
possibile rivolgersi al Prefetto del territorio in cui l'infrazione è avvenuta.
Il passo cruciale è la presentazione scritta, nella quale bisogna includere
dettagli della contravvenzione e tutte le prove a supporto della propria
contestazione.
Per contestare una multa secondo il Codice della Strada, se sussistono validi
motivi, bisogna presentare un ricorso al Prefetto entro 60 giorni dall'avviso o
dalla notifica, a meno che non si sia pagato in misura ridotta. Il Prefetto
competente è del luogo dell'infrazione. Chi può presentare ricorso? Il
trasgressore o i soggetti indicati dall'art. 196 del CdS.
Si può contestare per vizi di forma del verbale o per motivi sostanziali come
mancanza di segnale o errore nella targa. Il ricorso può essere inoltrato di
persona, tramite raccomandata o via PEC (come indicato dal decreto
Infrastrutture e Trasporti 2021). Non serve un avvocato, ma il ricorso deve
essere dettagliato.
Dopo la presentazione, il Prefetto esamina il ricorso. Se lo respinge, si deve
pagare una multa raddoppiata. Se lo accoglie, gli atti vengono archiviati. Se
non si riceve risposta entro termini stabiliti, il ricorso si intende accolto.
Si può poi ricorrere al Giudice di Pace contro la decisione del Prefetto.
Tuttavia, ricorrere può essere rischioso se si basa su interpretazioni normative
o in casi di ritiro di documenti come la patente.
Ricorso al Giudice di Pace
In circostanze dove la notifica proviene dalle forze dell'ordine o dall'Agenzia
delle Entrate, si ha la facoltà di impugnare la decisione al Giudice di Pace
locale. Come per il Prefetto, è fondamentale preparare una documentazione
scritta con annessi gli eventuali allegati a sostegno della propria causa.
Il termine per presentare ricorso al Giudice di Pace è di 30 giorni dalla
notifica della multa, diversamente dai 60 giorni previsti per il Prefetto. Se la
multa è già stata pagata con riduzione, non si può ricorrere. Tuttavia, dopo un
ricorso respinto dal Prefetto, è ancora possibile presentare ricorso al Giudice
di Pace entro 30 giorni. È possibile anche contestare una cartella esattoriale
per multa non pagata se ci sono errori.
Per fare ricorso, è necessario presentare il modulo di ricorso presso il Giudice
di Pace competente o inviarlo per posta raccomandata. Il ricorso può essere
fatto dal trasgressore, dal proprietario del veicolo o da altre persone
obbligate in solido. Oltre alla multa, si devono allegare altri documenti come
prova e una copia del documento d'identità. Esistono contributi variabili da
pagare e, in alcuni casi, marche da bollo.
Non è obbligatorio avere un avvocato, ma occorre seguire le regole del Codice di
procedura civile. Il Giudice può accogliere, modificare o respingere il ricorso,
e la sua decisione è appellabile. Non si può fare ricorso solo per la sanzione
accessoria e, se una multa è stata pagata, di solito non è possibile ricorrere,
a meno che non ci siano obbligati in solido.
COSA DEVE CONTENERE IL MODULO DI CONTESTAZIONE
Il modulo di contestazione deve includere i seguenti dati:
Dettagli della multa ricevuta. Dati personali del contestatore. Una
dichiarazione dettagliata delle ragioni della contestazione. Copie di un
documento d’identità e del codice fiscale.
COME RICONOSCERE UNA MULTA ILLEGITTIMA (E NON PAGARLA)
Non tutte le multe sono inattaccabili. Potrebbero esserci degli errori formali o
sostanziali che rendono la multa impugnabile. I punti chiave che devono essere
presenti in una multa legittima includono:
Data, ora, e luogo dell'infrazione. Dati del trasgressore e dettagli della
patente. Specifiche sul veicolo e sulla sua targa. Dettagli sulla violazione
commessa. Importo da saldare e modalità di pagamento. Riferimenti all'ufficio
per il pagamento e le autorità a cui fare ricorso. Firme degli agenti coinvolti.
Se si notano mancanze o incongruenze, è possibile impugnare la multa. Si può
procedere autonomamente o avvalersi dell'aiuto di un avvocato specializzato. In
alcuni casi, se il ricorso ha successo, è previsto anche un rimborso delle spese
legali.
SFATIAMO ALCUNI MITI
Molte persone credono di essere esperte in multe e ricorsi basandosi su
informazioni incomplete o errate, contribuendo alla diffusione di miti.
Ad esempio, non pochi soggetti pensano che evitare di ritirare una raccomandata
o rifiutarsi di firmare un verbale possa evitare l’efficacia della multa. Ma in
realtà, secondo le normative, la multa è considerata comunque notificata e il
pagamento resta obbligatorio. Ignorare la notifica può anche precludere la
possibilità di controllare il verbale alla ricerca di errori. Pertanto, in caso
di contestazioni, l’ideale è farsi consigliare da un esperto legale.
Inoltre, molti cercano moduli precompilati online pensando che basti per
contestare una multa. Ma il ricorso ha bisogno di motivazioni concrete basate su
norme e giurisprudenza. Non è sufficiente presentare un generico "ricorso
vincente", poiché ogni caso è unico.
Proseguendo con i falsi miti, c'è una diffusa convinzione che il Prefetto sia
meno incline ad annullare multe rispetto al Giudice di Pace. In realtà, entrambi
devono basare le loro decisioni sulla legge e sulla giurisprudenza, non su
simpatie o antipatie personali.
Molte persone pensano che assumere un avvocato costi più della multa stessa.
Tuttavia, le tariffe degli avvocati sono negoziabili e spesso può valere la pena
consultare un professionista. Ovviamente, dipende da caso a caso, ovvero
dall’effettiva necessità o meno di un avvocato.
Affermare di non aver commesso l'infrazione raramente ha successo in quanto le
dichiarazioni degli agenti di polizia hanno un peso considerevole e
difficilmente discutibile, a meno che non si abbia effettivamente ragione.
Importante è capire che la multa è inviata al proprietario del veicolo, non
necessariamente al trasgressore.
Solo perché c'è una foto dell'infrazione non significa che la multa sia
automaticamente valida. Ci possono essere molte irregolarità procedurali o
tecniche che possono rendere una multa non valida.
Infine, trovare una sentenza favorevole online non garantisce successo. Le
sentenze non hanno forza di legge e ogni giudice può interpretare le cose
diversamente.
SI PUÒ ANTICIPARE LA NOTIFICA DI UNA MULTA?
Se si sospetta di aver commesso un'infrazione, come superare il limite di
velocità, molti si chiedono se c’è un modo per verificare in anticipo eventuali
sanzioni. Al momento, non esistono sistemi telematici accessibili al pubblico
per questa verifica. Spesso, l’unico modo è attendere la notifica o,
eventualmente, rivolgersi direttamente alle autorità competenti.
COME VERIFICARE MULTE NON PAGATE
In caso di dubbio su multe notificate ma non ancora saldate, esiste una
procedura per verificare eventuali debiti. Tramite il sito dell’Agenzia delle
Entrate, nell'area riservata, è possibile visualizzare eventuali sanzioni
pendenti e relative opzioni di pagamento.
COSA SUCCEDE SE SI RICEVONO MULTE MULTIPLE A BREVE DISTANZA
Se si ricevono più multe in uno spazio ristretto, la domanda sorge spontanea:
"Devo pagarle entrambe?". La risposta è sì. Ogni multa è una sanzione
amministrativa indipendente. A meno che non vi siano basi valide per contestare,
entrambe le sanzioni dovranno essere saldate entro i termini previsti.
HO PRESO UNA MULTA IN SVIZZERA: COSA DEVO FARE
Se si ritiene che una multa sia errata o ingiustificata, è possibile opporre per
iscritto o via e-mail alla centrale responsabile delle multe. Quest'ultima si
occupa dei controlli ed elabora l'opposizione. Se si rifiuta la procedura
semplificata, vengono applicate le norme penali ordinarie e le disposizioni
cantonali sulle contravvenzioni. La scadenza per il pagamento della multa
disciplinare è di 30 giorni. Non è consentito il pagamento rateale, ma su
richiesta motivata, si può prorogare una volta il termine di massimo 90 giorni.
Per la proroga è necessario contattare la centrale.
La notifica di una multa o contestazione impiega generalmente 3-4 settimane, ma
nella procedura ordinaria dipende dall'elaborazione del pubblico ministero. Per
pagare la multa, occorre utilizzare il bollettino allegato o, dall'estero, il
conto bancario specificato. I pagamenti con carta di credito sono possibili solo
dall'estero e su richiesta. Per esaminare gli atti o ottenere immagini, bisogna
richiederlo formalmente. La procedura semplificata non consente tale richiesta,
ma nella procedura ordinaria è possibile rivolgersi al pubblico ministero.
By alvolante.it. A differenza di altre tasse, il bollo auto ha una prescrizione
più breve, di soli tre anni. Vediamo quali sono le differenze con la decadenza e
come funziona la presentazione dell’eventuale ricorso contro la notifica di
pagamento.
Il bollo auto è una tassa annuale che ogni proprietario di veicolo è tenuto a
versare alle autorità regionali. Tuttavia, può succedere che tra i vari impegni
e scadenze, questa tassa sfugga alla mente: ciò porta alla necessità di chiarire
quali sono i termini di prescrizione e quali le conseguenze per chi omette il
pagamento. Ma prima, iniziamo con un riepilogo informativo.
COS’È IL BOLLO AUTO, COME FUNZIONA E QUANDO SI PAGA
Il bollo auto è una tassa articolata, regolata sia a livello nazionale che
regionale, con Regioni e Province Autonome che incassano gli importi. L'Agenzia
delle entrate gestisce la tassa per Friuli-Venezia Giulia e Sardegna. Il bollo
auto, infatti, è un tributo di competenza regionale dal 1993 per le Regioni a
Statuto Ordinario e vede le Regioni stesse legittimate a disciplinare le
modalità di accertamento, riscossione e contestazione. La competenza delle
Regioni in materia di bollo auto si esplica attraverso l’emanazione di leggi e
regolamenti.
Sono tenuti al pagamento coloro che risultano proprietari o utilizzatori del
veicolo al Pubblico Registro Automobilistico, anche se il veicolo non circola.
La tassa è legata al possesso e varia in base alla potenza del veicolo, alla
classe ambientale e alla regione. Ogni regione ha tariffe diverse, rendendo
possibile che due proprietari di auto identiche paghino importi diversi.
Anche veicoli con contratti di leasing, usufrutto, noleggio a lungo termine o
acquisto con patto di riservato dominio sono soggetti al pagamento. Il pagamento
può essere effettuato presso punti autorizzati o tramite l’app IO, e solo la
Regione di competenza può verificare la regolarità del pagamento.
Non è necessario tenere la ricevuta del pagamento in macchina, né autovelox o
Tutor controllano la regolarità del bollo.
PRESCRIZIONE BOLLO AUTO: I TERMINI
Essere al corrente dei tempi di prescrizione del bollo auto è fondamentale per
evitare di versare somme non dovute. In alcuni casi, nonostante la mancata
effettuazione del pagamento o lo smarrimento delle ricevute, il cittadino, una
volta trascorso il termine massimo, è esente da ogni obbligazione, senza
ulteriori adempimenti.
La legge stabilisce che i termini di prescrizione del bollo auto sono di tre
anni, con alcune eccezioni. Questi tre anni vanno calcolati in modo specifico,
iniziando dal primo gennaio dell’anno successivo a quello in cui la tassa doveva
essere versata, e terminano il 31 dicembre del terzo anno. Quindi, se la tassa
relativa al 2019 non è stata pagata e viene notificato un avviso nel gennaio
2023, senza alcun atto interruttivo precedente, la richiesta della Regione
diventa illegittima.
GLI ATTI INTERRUTTIVI DELLA PRESCRIZIONE DEL BOLLO AUTO
Il bollo auto rappresenta un obbligo tributario per tutti i proprietari di
veicoli. Tuttavia, è possibile che, in alcuni casi, si verifichi la prescrizione
di questo tributo. La prescrizione si verifica al termine del terzo anno, ma
esistono degli elementi che possono interrompere questo processo, come
specifiche richieste di pagamento o atti interruttivi. Gli atti
interruttivi sono determinanti, poiché fanno ricominciare il periodo di
prescrizione dal momento della loro ricezione.
Gli atti interruttivi possono assumere diverse forme, tra cui l’avviso di
accertamento da parte della Regione, la cartella esattoriale da un agente di
riscossione, un preavviso di fermo dell'auto o un atto di pignoramento. Entrando
più nel dettaglio, tra questi atti troviamo:
Avviso di accertamento; Sollecito di pagamento; Notifica della cartella
esattoriale; Intimazione di pagamento; Preavviso di fermo dell’auto; Atto di
pignoramento.
Queste comunicazioni hanno l’effetto di azzerare il tempo trascorso e far
ripartire il conteggio per la prescrizione.
DIFFERENZE REGIONALI
Inoltre, è importante sottolineare che esistono alcune variazioni su base
regionale in merito ai termini di prescrizione del bollo auto. Infatti,
generalmente il bollo auto si prescrive in 3 anni (ed è la tassa con i termini
di prescrizione più brevi), ma solo in una Regione, questo lasso di tempo si
allunga di un ulteriore biennio: stiamo parlando del Piemonte. Qui, infatti, la
prescrizione del bollo auto avviene dopo 5 anni, anziché tre.
DIFFERENZE TRA PRESCRIZIONE E DECADENZA
La prescrizione è il termine dopo il quale un creditore non può più richiedere
il pagamento di un debito. Questa, come detto, si interrompe ogni volta che il
creditore agisce, e il termine ricomincia da capo. La durata della prescrizione
varia a seconda della natura dell'importo dovuto e si può trovare nella
motivazione della cartella esattoriale. Debiti diversi nella stessa cartella
possono prescriversi in momenti diversi.
Differente è la decadenza, periodo entro cui l’Agenzia delle Entrate deve
notificare la prima cartella. Questa non è soggetta a sospensione o interruzione
e, se superata, rende nullo l’atto, che deve essere contestato dal contribuente.
Ad esempio, una cartella notificata nel 2019 per un bollo auto del 2015 sarebbe
illegittima. È importante conoscere i termini di decadenza, poiché una volta
decorso il termine, la cartella è nulla e il credito non è più riscuotibile.
COME VERIFICARE SE IL BOLLO AUTO È PRESCRITTO
Per determinare se un bollo auto è prescritto, è necessario verificare l’assenza
di solleciti di pagamento o cartelle esattoriali nei tre anni successivi alla
scadenza del pagamento. In caso contrario, il bollo auto è considerato
prescritto, fatta eccezione per regioni come il Piemonte, dove avviene lo stesso
meccanismo, ma in un tempo diverso: dopo 5 anni.
MANCATO PAGAMENTO DEL BOLLO AUTO E RAVVEDIMENTO OPEROSO
In situazioni di mancato pagamento del bollo auto, il proprietario ha la
possibilità di effettuare un ravvedimento operoso. Questa opzione consente di
sanare la violazione pagando una penalità ridotta.
Chi regolarizza la posizione fino a 2 anni dopo il termine paga una sanzione del
5%, ridotta rispetto al 30% com’era in precedenza. Pagamenti entro pochi giorni
offrono ulteriori vantaggi. La somma finale da pagare per regolarizzare la
propria posizione include imposta annuale, sanzione ridotta e interessi.
Entrando più nel dettaglio, le sanzioni risultano le seguenti:
0,1% al giorno entro 14 giorni; +1,5% entro 30 giorni; +1,67% dal 31° al 90°
giorno; +3,75% fino a un anno; +4,28% da 1 a 2 anni; +5% oltre 2 anni.
CONTROLLI E RICORSI
In caso di contestazione dell'ammontare della tassa automobilistica, il
contribuente ha la possibilità di presentare istanza di annullamento in
autotutela entro 30 giorni dalla notifica. Se riceve una cartella esattoriale,
può ricorrere presso la Commissione Tributaria entro 60 giorni dalla data di
notifica.
È molto importante per i cittadini verificare attentamente le date e gli anni di
riferimento nel caso ricevano un avviso di accertamento. In presenza di
prescrizione, come anticipato, è necessario proporre ricorso presso la
Commissione Tributaria competente entro 60 giorni dalla notifica. Superato
questo termine, il diritto di agire in giudizio va perso. La stessa regola si
applica se la cartella esattoriale arriva dopo più di tre anni dall’avviso di
accertamento. Durante il periodo di istanza di sospensione, la cartella è
sospesa, evitando così misure come il fermo dell’auto o altre forme di tutela
del credito o di pignoramento.
L’ente di riscossione è tenuto a rispondere entro 220 giorni: in assenza di
risposta, il ricorso si considera accettato e la cartella viene annullata. Nel
caso di rifiuto, è possibile ricorrere ulteriormente al giudice o procedere al
pagamento.
Supponiamo un mancato pagamento del bollo auto per l'anno 2018 e che il
proprietario riceva un avviso di accertamento a gennaio 2022. In questa
situazione, la richiesta di pagamento dell'ente regionale risulta illegittima se
non sono stati ricevuti atti interruttivi della prescrizione. Gli atti
interruttivi, come scritto in precedenza, includono solleciti di pagamento,
notifiche di cartelle esattoriali, intimazioni di pagamento, preavvisi di fermo
dell’auto e atti di pignoramento.
Pertanto, spetterà all’automobilista presentare ricorso e richiedere
l’annullamento della richiesta dell’ente regionale, perché illegittima.
PRESCRIZIONE DELLA CARTELLA ESATTORIALE: COME FUNZIONA
La prescrizione della cartella esattoriale segue le stesse regole della tassa
automobilistica. La Corte di Cassazione ha stabilito che, in assenza di
indicazioni chiare sulla prescrizione delle cartelle di pagamento, vanno
applicate le norme previste per le imposte richieste. Nel caso del bollo auto,
quindi, il termine di prescrizione è di tre anni dalla data di ricevimento della
cartella esattoriale.
Nonostante la chiarezza delle regole sulla prescrizione, è sempre raccomandato
per i cittadini effettuare un controllo accurato sulle date e gli anni di
riferimento. In caso di notifica di un tributo non più dovuto, è imperativo
presentare ricorso tempestivamente. Infatti, ricordiamo che, oltrepassato il
termine di 60 giorni dalla notifica, il cittadino perde il diritto di contestare
l'atto.
COME PAGARE I BOLLI ARRETRATI
Per sanare la propria posizione, è essenziale verificare le annualità mancanti
del bollo auto attraverso i portali telematici regionali o le agenzie ACI. Dopo
aver individuato le annualità arretrate, si può procedere al pagamento, tenendo
conto delle sanzioni applicabili in base al periodo di ritardo.
Si tratta di una strategia proattiva da effettuare da parte del contribuente,
che sarà così chiamato a pagare sanzioni ridotte e non penalità più severe. Come
abbiamo visto, le sanzioni variano dall’1,5% dell’importo originario se il saldo
avviene entro il 30° giorno dalla scadenza, fino al 5% oltre i 2 anni e alla
possibile radiazione del mezzo dopo i 3 anni.
PRESCRIZIONE BOLLO AUTO: COSA DICE LA GIURISPRUDENZA
Per meglio comprendere la tematica della prescrizione del bollo auto, è utile
fare riferimento a sentenze della Corte di Cassazione.
Decadenza della tassa automobilistica: cosa dice la Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha chiarito diversi dubbi riguardanti la decadenza della
tassa automobilistica, evidenziando sia l’arco temporale sia i termini di
decorrenza. Una delle pronunce fondamentali in materia è l'ordinanza n. 26062
del 5 settembre 2022, dalla quale emergono principi chiave sulle modalità di
riscossione, la prescrizione triennale e il ruolo dell’amministrazione
finanziaria nel processo di recupero.
Qui si specifica che in tema di riscossione della tassa automobilistica, “il
termine di prescrizione è di tre anni e inizia a decorrere non dalla scadenza
del termine che era previsto per il pagamento, ma dall’inizio dell’anno
successivo a quello in cui il pagamento doveva essere effettuato”.
La controversia del 2013
La controversia del 2013 offre uno spaccato significativo sulla questione. La
parte contribuente si oppose a una cartella di pagamento riguardante il mancato
versamento delle tasse automobilistiche per l’anno 2007.
La notifica di un avviso di liquidazione riavvia il termine triennale. La
Commissione Tributaria Provinciale di Cosenza ha chiarito che non vige il
“doppio termine di notifica” per il bollo auto. Secondo la Corte di Cassazione,
questo principio si applica solo quando i termini sono previsti a pena di
decadenza, non di prescrizione. È dunque cruciale la data di ricezione
dell’atto dal destinatario, che deve essere notificato entro il 31 dicembre del
terzo anno successivo all’anno della violazione.
Le Commissioni tributarie provinciali e regionali hanno quindi avuto ruoli
decisivi nel definire il caso, portando luce su come la prescrizione operi e su
quali avvisi di accertamento siano ritenuti validi.
La sentenza delle Sezioni Unite del 2016
L'ordinanza n. 20425 del 20 agosto 2017 ha avuto un peso fondamentale,
riconfermando i principi stabiliti dalle Sezioni Unite nel 2016. Anche qui,
infatti, in riferimento alla maturazione dei termini di prescrizione della tassa
automobilistica, si pone in luce come il bollo auto si prescriva in tre anni,
che partono dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello del
pagamento. Pertanto, se arriva un atto a dicembre 2019 per il bollo auto che si
doveva pagare a settembre 2017, questo interrompe la prescrizione. Il
contribuente non è tenuto a pagare nulla e può presentare ricorso solo nel caso
in cui l’atto arrivi dal 1° gennaio 2021 in poi.
Altri riferimenti normativi
Altri riferimenti normativi che delineano con precisione il diritto al pagamento
del tributo e il decorso del termine di prescrizione, come abbiamo scritto fin
qui, sono l’articolo 5 comma 51 del DL n. 953 del 30 dicembre 1982 e le
modifiche apportate all’art. 3 del DL n. 2 del 6 gennaio 1986. Queste, insieme a
una serie di pronunciamenti giurisprudenziali, tra cui le sentenze n. 3658/2007
Corte di Cassazione, n. 44/2007 CTP Taranto e 137/2005 CTR Lazio, offrono
un quadro legislativo e giurisprudenziale completo sui tempi di prescrizione del
bollo auto e i pagamenti dovuti.
1.
Patente
2.
DUC Documento Unico di Circolazione (ex Carta di circolazione (ex libretto) e ex
certificato di proprietà); certificato di circolazione ciclomotori (dati
ciclomotore, targa e intestatario)
3.
3. Certificato di assicurazione anche in copia cartacea o digitale (circolare
del Ministero Interni 300/A/5931/16/106/15)
È consentito esibire alle Forze dell'Ordine, in sede di controllo, il
certificato di assicurazione RC Auto in formato digitale, ad esempio attraverso
lo smartphone, oppure una stampa non originale dello stesso.
La Circolare, infatti, prescrive che può essere esibito agli organi di polizia
stradale anche un certificato di assicurazione in formato digitale o una stampa
non originale del formato digitale stesso, senza che il conducente possa essere
sanzionato per il mancato possesso dell'originale del certificato di
assicurazione obbligatoria ai sensi del combinato disposto dell'art. 180, comma
1, lettera d) e art. 180, comma 7, C.d.S o senza che, ai sensi dell'art. 180,
comma 8, C.d.S., possa essere richiesta la successiva esibizione di un
certificato originale in formato cartaceo.
(Circ. n. 300/A/5931/16/106/15, 1 settembre 2016) Ministero dell'Interno
Esibizione del certificato di assicurazione ai sensi dell'art. 180, comma 1,
lettera d), del Codice della Strada. Provvedimento IVASS n. 41 del 22 dicembre
2015
LA CIRCOLARE DEL VIMINALE del Ministero dell’Interno parla chiaro. “In sede di
controllo”, si legge sulla nota del Viminale, “può essere esibito agli organi di
polizia stradale anche un certificato di assicurazione in formato digitale o una
stampa non originale del formato digitale stesso, senza che il conducente possa
essere sanzionato per il mancato possesso dell’originale del certificato di
assicurazione obbligatoria; o senza che possa essere richiesta la successiva
esibizione di un certificato originale in formato cartaceo”. Chi circola senza
certificato di carta, originale o meno, contando di mostrare la copia in formato
digitale dal telefonino, deve fare in modo di non trovarsi mai in una situazione
di batteria del dispositivo scarica. Perché in questo caso gli risulterebbe
impossibile dimostrare di essere in regola e scatterebbe l’inevitabile sanzione.
Gli
agenti possono consultare in tempo reale le violazioni del Codice della Strada
Street Control e Police Controller: nuovi strumenti più sicurezza, by Leet su
localizzazionemezzi.it
Obbligo cronotachigrafo e controllo automezzi: maggiore protezione e tecnologia
per la tua flotta aziendale.
Si chiama Street Control il dispositivo a disposizione della Polizia Stradale,
introdotto per contribuire alla sicurezza e alla legalità in strada.
Lo scopo dello strumento è incentivare controlli che possano limitare il
fenomeno della circolazione di veicoli non assicurati o non revisionati.
Sia lo Street Control, sia il Police Controller - dedicato al controllo sui
mezzi pesanti - hanno lo scopo di prevenire incidenti ed indurre i conducenti a
comportarsi in maniera adeguata, nel rispetto delle regole, degli altri veicoli
e dei conducenti.
Cos'è Street Control?
- installato sulle volanti della Polizia Municipale - è uno strumento che rileva
le violazioni del Codice della strada, tramite fotocamere e videocamere
integrate, le quali consentono di riprendere la targa, i dati del veicolo e il
luogo in cui questo si trova. Inoltre, è in grado di verificare, in tempo reale,
le infrazioni stradali.
Le informazioni rilevate sono inviate ad una centrale operativa, la quale emette
automaticamente le sanzioni, in caso di:
veicoli parcheggiati in doppia fila;
veicoli parcheggiati davanti ai cassonetti, sulle strisce pedonali, sui
marciapiedi;
veicoli in divieto di sosta e di fermata;
veicoli che circolano in ztl e corsie preferenziali.
Inoltre, Street Control, consente l'accesso alle banche date disponibili del MIT
e dell’Ivass, estendendo così i controlli su revisione, assicurazione, furti.
- attività di controllo per mezzi pesanti
Le attività del Ministero dei Trasporti riguardano interventi per la
realizzazione di infrastrutture stradali e di vigilanza e controllo, in ottica
di sicurezza stradale.
Proprio per questo è stato attuato il Piano Nazionale della Sicurezza Stradale.
Mentre lo Street Control intende garantire la sicurezza stradale per tutti i
veicoli circolanti che, non solo non rispettano le norme ma mettono a rischio
automobilisti e pedoni, Police Controller è il software per l'analisi dei dati
dei cronotachigrafi, sia digitali sia analogici.
Un controllo, per le imprese di autotrasporto e autotrasportatori, da parte
delle Forze di Polizia e le Amministrazioni Pubbliche che hanno tale incarico.
Raggiungere gli obiettivi europei? Ecco come contribuisce il Controller
Il controllo ai mezzi pesanti su strada è uno degli obiettivi europei più
sentiti, per questo motivo Police Controller pone la necessità di rendere più
veloci e sicuri i controlli da parte delle Autorità e raggiungere le seguenti
misure:
dimezzamento del numero delle vittime stradali;
miglioramento dell'educazione e della formazione;
rafforzamento del controllo;
incremento della sicurezza stradale e delle infrastrutture.
Police Controller nasce dalla collaborazione con diverse Polizie europee, allo
scopo di rilevare le infrazioni e le manomissioni.
Per ogni infrazione individuata e selezionata, viene generato un elenco di
informazioni:
dettagli della violazione;
anagrafica del conducente;
descrizione della violazione;
importo della sanzione da pagare.
In seguito, viene elaborato un report dettagliato e personalizzato, con
l'analisi delle dinamiche che hanno coinvolto il veicolo dotato di
cronotachigrafo digitale.
obbligo e controllo mezzi aziendali
Il Regolamento UE 502/2018 ha imposto a tutta l'Unione europea l'installazione
del cronotachigrafo digitale di nuova generazione sui veicoli adibiti al
trasporto merci - di peso complessivo superiore alle 3,5 ton - e quelli adibiti
al trasporto persone, con 9 posti oltre il conducente. Entrambe le categorie
devono essere immatricolate dal 15 giugno 2019.
Quali sono le novità introdotte con il tachigrafo intelligente?
Le novità principali introdotte dal tachigrafo intelligente riguardano i
controlli sui tempi di guida e la lotta alle manomissioni. In particolare, le
funzioni sono le seguenti:
rilevazione automatica della posizione del veicolo:
il cronotachigrafo registra le coordinate del camion all'inizio del periodo di
lavoro, ogni 3 ore di guida e alla fine del periodo di lavoro giornaliero. Non è
necessario che le 3 ore siano consecutive, si parla infatti di lavoro
cumulativo;
trasmissione a distanza e in movimento: gli organi di controllo, tramite
radiofrequenza, possono captare anomalie del cronotachigrafo: un filtro che
consente di fermare i camion che mostrano anomalie;
apertura a sistemi informatici e telematici aziendali: il cronotachigrafo può
trasmettere le informazioni al software aziendale che gestisce veicoli e
autisti.
L'introduzione del tachigrafo digitale ha imposto inevitabili cambiamenti anche
alle flotte aziendali, soprattutto in tema di guida e riposo autisti.
Il cronotachigrafo registra i dati relativi all'uso del veicolo e l'attività dei
conducenti all'interno della propria memoria e sulla carta tachigrafica.
Il Regolamento europeo include lo scarico dati dal cronotachigrafo – e la loro
conservazione - la cui mancanza comporta sanzioni salate al conducente o
all'impresa.
Il Codice penale della Strada. Parlare solo di Codice della Strada è riduttivo.
La circolazione stradale è il movimento, la sosta, la fermata, l’arresto di
veicoli, persone ed animali, su strade, arredi e pertinenze.
Elementi costituenti sono la strada, il veicolo, l’ambiente e l’utente.
Agli inizi erano solo segnali e norme di comportamento. Tutto chiaro. Il Codice
della Strada aveva carattere Preventivo. Poi tutto è cambiato: dalla velocità
alla capacità psicofisica del guidatore tra alcool e stupefacenti sull’onda
proibizionista. Il Codice della Strada diventa così fonte repressiva e
fondamentalmente di cassa. Si interviene fondamentalmente contro il cittadino:
sul veicolo e sull’utenza.
Da martedì 1° luglio 2003 entra in vigore la norma sui punti sulla patente.
Governo Berlusconi.
Dal 23 marzo 2016 la legge 41 (art. 589-bis c.p.) introduce l’omicidio stradale.
Governo Renzi.
A seguire le norme di inasprimento sulla guida in Stato di ebbrezza e di
velocità.
Se prevede la recidiva e la criminalizzazione di neopatentati per revoca o per
età.
La patente va e viene, creando economia, e le sanzioni aumentano in qualità e
quantità, creando fonte di finanziamento pubblico.
Il legislatore circola con la scorta e l’auto blu, cosa ne sa della
circolazione.
Interventi sulla mobilità pubblica e sulle strade: nulla. Troppo oneroso anche
se i proventi delle sanzioni sono a loro destinate. In Italia ci sono tre tipi
di criminali: i mafiosi meridionali, i contribuenti e gli utenti della strada.
Oggi non si può più parlare di Codice della Strada ma di Codice penale della
Strada.
Da Diritto.it
Organizzazione di competizioni non autorizzate in velocità con veicoli a motore
e partecipazione alle gare
punisce
con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 25.000 a 100.000 euro chi
“organizza,
promuove, dirige o comunque agevola una competizione sportiva in velocità con
veicoli a motore senza esserne autorizzato”, estendendo
la stessa pena a chiunque vi prenda parte.
Il secondo comma prevede la pena della reclusione da sei a dodici anni se dalla
competizione deriva la morte di una o più persone, da tre a sei anni se ne
derivano lesioni personali. Il terzo comma stabilisce aumenti di pena se “le
manifestazioni sono organizzate a fini di lucro o al fine di esercitare o di
consentire scommesse clandestine, ovvero se alla competizione partecipano minori
degli anni diciotto”.
Il quarto comma, infine, prevede la reclusione da tre mesi ad un anno e la multa
da 5.000 a 25.000 euro per chiunque scommetta sulle predette competizioni non
autorizzate. In tali casi è sempre disposta la confisca dei veicoli utilizzati
per le competizioni e gli autori del reato saranno sottoposti anche a sanzioni
amministrative accessorie.
Divieto di gareggiare in velocità con veicoli a motore
prevede alcune fattispecie di reato che vedono come soggetto attivo “chiunque
gareggia in velocità con veicoli a motore”; la pena, in tal caso, è
della reclusione da sei mesi ad un anno e della multa da 5.000 a 20.000 euro.
Qualora dalla competizione derivi la morte di una o più persone, la pena è della
reclusone da sei a dieci anni; da due a cinque anni se dalla gara derivino
lesioni personali. L’ipotesi delittuosa in parola si distingue dalla precedente
poiché non è richiesto l’elemento organizzativo, essendo sufficiente, ai fini
della consumazione del reato, porre in essere una gara tra veicoli, anche a
livello meramente occasionale o estemporaneo. Anche per tale fattispecie è
prevista – oltre le sanzioni amministrative accessorie – la confisca dei veicoli
coinvolti.
Reati di “falso” e ipotesi di trasgressioni in recidiva
rimanda al Codice penale ai fini dell’individuazione del regime sanzionatorio a
carico di chi “falsifica,
manomette o altera targhe automobilistiche, ovvero usa targhe manomesse,
falsificate o alterate”. Il
generico richiamo al Codice penale va inteso nel senso dell’applicazione delle
pene previste per i delitti di falsità
materiale commesse da un privato, ai sensi del combinato
disposto degli articoli 482 e 476-477-478 del Codice penale.
E’ prevista un’ipotesi di illecito
contravvenzionale nella disposizione di cui all’articolo
116, comma 15, seconda parte, Cds, per il caso di
recidiva nel biennio di guida senza aver conseguito la patente,
o con patente revocata o non rinnovata per mancanza dei requisiti psico-fisici
prescritti (per tutte le citate ipotesi di recidiva è previsto l’arresto fino ad
un anno, mentre le correlative fattispecie non accompagnate da recidiva sono ora
sottoposte, dopo una serie di depenalizzazioni e “ripenalizzazioni”, a
sanzione amministrativa).
Distanza di sicurezza tra veicoli
1. Durante la marcia i veicoli devono tenere, rispetto al veicolo che precede,
una distanza di sicurezza tale che sia garantito in ogni caso l'arresto
tempestivo e siano evitate collisioni con i veicoli che precedono.
2. Fuori dei centri abitati, quando sia stabilito un divieto di sorpasso solo
per alcune categorie di veicoli, tra tali veicoli deve essere mantenuta una
distanza non inferiore a 100 m. Questa disposizione non si osserva nei tratti di
strada con due o più corsie per senso di marcia.
3. Quando siano in azione macchine sgombraneve o spargitrici, i veicoli devono
procedere con la massima cautela. La distanza di sicurezza rispetto a tali
macchine non deve essere comunque inferiore a 20 m. I veicoli che procedono in
senso opposto sono tenuti, se necessario, ad arrestarsi al fine di non
intralciarne il lavoro.
4. Chiunque viola le disposizioni del presente articolo è soggetto alla sanzione
amministrativa del pagamento di una somma da € 42 a € 173. (19) (29) (43) (52)
(64) (80) (89) (101) (114) (124) (145)
5. Quando dall'inosservanza delle disposizioni di cui al presente articolo
deriva una collisione con grave danno ai veicoli e tale da determinare
l'applicazione della revisione di cui all'art. 80, comma 7, la sanzione
amministrativa è del pagamento di una somma ((da € 87 a € 344)). Ove il medesimo
soggetto, in un periodo di due anni, sia incorso per almeno due volte in una
delle violazioni di cui al presente comma, all'ultima violazione consegue la
sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente da uno a tre
mesi, ai sensi del capo I, sezione II, del titolo VI. (19) (29) (43) (52) (64)
(80) (89) (101) (114) (124) (145) ((163))
6. Se dalla collisione derivano lesioni gravi alle persone, il conducente è
soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma ((da € 430 a €
1.731)), salva l'applicazione delle sanzioni penali per i delitti di lesioni
colpose o di omicidio colposo. Si applicano le disposizioni del capo II, sezione
I e II, del titolo VI. (19) (29) (43) (52) (64) (80) (89) (101) (114) (124)
(133) (145) ((163))
Guida in stato d’ebbrezza determinata da alcool e sotto l’influenza di sostanze
stupefacenti
Quella prevista dall’articolo
186, Cds è una fattispecie complessa in cui, dopo la generica
previsione del divieto di guidare in stato di ebbrezza provocato dall’assunzione
di sostanze alcooliche, viene comminata ai trasgressori una serie di sanzioni
penali graduate in base alla fascia di tasso alcolemico riscontrato.
Il discrimen tra
le condotte penalmente lecite (lecite
sotto il profilo penale, ma pur sempre sottoposte a sanzioni amministrative
qualora si superi la soglia dello 0,5 g/l) e
le condotte, invece, illecite è individuato nel
valore di 0,8 grammi per litro:
chi guida in stato di ebbrezza è punito con l’ammenda da 800 a 3.200 euro e
l’arresto fino a sei mesi qualora sia stato accertato un valore corrispondente
ad un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro;
la pena è invece dell’ammenda da 1.500 a 6.000 euro e dell’arresto da sei mesi
ad un anno qualora risulti accertato un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi
per litro, con conseguente “confisca
del veicolo con il quale è stato commesso il reato, salvo che il veicolo stesso
appartenga a persona estranea al reato”.
In entrambi i casi, se il conducente provoca un incidente stradale, le pene
saranno raddoppiate (art.
186, comma 2-bis), mentre le (sole) ammende saranno
aumentate da un terzo alla metà se il reato è commesso nella fascia d’orario
compresa tra le dieci di sera e le sette del mattino (art.
186, comma 2-sexies).
Infine, il rifiuto a sottoporsi ai prescritti accertamenti volti a verificare la
soglia del tasso alcoolico viene punito con la stessa pena prevista per chi
conduce un veicolo con tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro, ovvero
con l’ammenda da 1.500 a 6.000 euro e con l’arresto da sei mesi a un anno (art.
186, comma 7).
L’articolo 186-bis,
introdotto con la Legge
n. 120 del 2010, individua categorie di conducenti in
riferimento ai quali è previsto un regime sanzionatorio più aspro in ipotesi di
guida in stato di alterazione prodotta dall’assunzione di sostanze alcooliche,
in considerazione dell’età, del tipo di trasporto effettuato e del tipo di
veicolo condotto. In tali ipotesi, per un tasso alcolico superiore a 0,5 grammi
per litro, si applicheranno le sanzioni penali previste dall’articolo 186,
aumentate da un terzo alla metà: ciò vale per i conducenti di età inferiore agli
anni ventuno, per i conducenti che esercitano attività di trasporto di persone
e/o cose e, infine, per i conducenti di autoveicoli di massa superiore a una
certa soglia, di autobus e altri mezzi di trasporto. Anche qui è prevista la
sottoposizione alle stesse pene di cui all’articolo 186 qualora il conducente si
rifiuti di sottoporsi agli accertamenti prescritti.
Per ciò che concerne la condotta penalmente illecita consistente nella guida
in stato di alterazione psico-fisica dovuta all’uso di sostanze stupefacenti,
l’art. 187 del Codice della strada commina le stesse sanzioni
previste per i casi di guida in stato di ebbrezza, e di cui sopra. Analogamente,
si applicano le stesse pene per i casi di rifiuto di sottoporsi agli
accertamenti volti a verificare la condizione di alterazione dovuta
all’assunzione di sostanze stupefacenti.
Mancata assistenza
alle persone ferite in caso di incidente
Al comma sesto dell’articolo 189, Cds,
è punita con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni la condotta
omissiva di chi contravvenga all’obbligo – previsto dal primo comma dello stesso
articolo – di “fermarsi
e prestare assistenza a coloro che, eventualmente, abbiano subito danno alla
persona” in caso di incidente comunque ricollegabile al
comportamento del trasgressore.
Se nell’ambito di applicazione della disposizione in parole rientrano le
condotte omissive descritte poste in essere in caso di incidente in cui il
conducente sia coinvolto, il comma successivo sanziona con la reclusione da uno
a tre anni chi, “in
caso di incidente, non ottempera all’obbligo prestare l’assistenza occorrente
alle persone ferite”, a nulla rilevando, in tale ipotesi, il fatto
di essere o no coinvolto nel sinistro.
Vedi
depenalizzazione
Quali sono le sanzioni amministrative accessorie?
a)
sanzioni relative ad obblighi di compiere una determinata attività o di
sospendere o cessare una determinata attività;
b) sanzioni concernenti il veicolo;
c)
sanzioni concernenti i documenti di circolazione
d)
sanzioni concernenti la patente di guida.
Le principali sono:
il fermo del veicolo, il ritiro dei documenti di circolazione, della targa o
della patente di guida (art. 216); la sospensione
della carta di circolazione (art. 217); la sospensione
e la revoca della patente di guida (articoli 218 e 219).
La rimozione forzata di un veicolo è una sanzione amministrativa accessoria a
quella principale, che è sempre la sanzione pecuniaria, la cosiddetta multa. La
rimozione forzata consiste nel prelevamento del veicolo con un mezzo
specificamente attrezzato – il cosiddetto carro attrezzi - e il suo trasporto in
uno specifico luogo di custodia autorizzato dall’ente proprietario della strada
(comune, provincia, regione o stato).
Al
momento della contestazione della violazione, pertanto, la polizia stradale
procede a redigere due atti:
1.
il verbale
di accertamento
2.
il
verbale della sanzione
3.
il verbale
di fermo o di sequestro amministrativo del veicolo.
Il fermo o il sequestro amministrativo avviene
affidando il veicolo al proprietario, al conducente o a un obbligato in solido,
che in fase di accertamento del verbale è obbligato a custodirlo in un luogo non
sottoposto al pubblico passaggio ma verificabile dalla pubblica autorità.
Il Fermo Amministrativo si differenzia dal Sequestro perché non ha natura
di misura cautelare, non è finalizzato ad altro successivo ed eventuale
provvedimento (il
sequestro infatti può comportare la confisca), e soprattutto perché ha una
durata definita trascorsa la quale il veicolo va restituito.
By Comune di Monza.
Vi sono violazioni del Codice della strada ovvero ad altre normative (ad
esempio, la legge n. 298/1974 s.m.i. in tema di trasporto di cose in proprio o
per conto terzi) che comportano non solo l'applicazione di una sanzione
amministrativa pecuniaria, ma anche conseguenze sul veicolo utilizzato.
Al momento della contestazione della violazione, pertanto, la polizia stradale
procede a redigere due
atti:
il verbale di
accertamento
il verbale della sanzione principale
il verbale
della sanzione accessoria di fermo o di sequestro
amministrativo del veicolo.
Il sequestro
amministrativo del veicolo è disciplinato dall'art. 213 C.d.S.
ed è una misura cautelare con la quale si sottrae la disponibilità del bene
all'avente diritto e lo si pone a disposizione dell'Autorità amministrativa per
i provvedimenti di propria competenza (ad esempio, confisca amministrativa). Il
sequestro può essere connesso a violazioni aventi carattere amministrativo
ovvero penale.
Il fermo
amministrativo del veicolo è disciplinato dall'art. 214 C.d.S.:
è una sanzione accessoria con la quale si sottrae la disponibilità del bene
all'avente diritto. La durata del fermo è prevista dalla norma di legge che lo
stabilisce e che si assume violata. Il questo caso il veicolo viene ricoverato
in apposito luogo di custodia.
Al termine del periodo di fermo amministrativo, il veicolo è restituito
direttamente all'avente titolo (non è necessaria alcuna istanza di restituzione)
previo pagamento delle spese di trasporto e custodia se dovute.
Sequestro o fermo amministrativo per violazioni amministrative (artt. 213 e 214
C.d.S.)
Le principali disposizioni sono:
circolazione con veicolo per il quale non sia stata rilasciata la carta di
circolazione (art. 93 C. d.S.);
fabbricazione, produzione, commercializzazione o vendita di ciclomotori che
sviluppino una velocità superiore a quella prevista dall'art. 52 C.d.S. (45
km/h) oppure con un ciclomotore per il quale non è stato rilasciato il
certificato di circolazione, se previsto (art. 97 C.d.S.);
esercitazione alla guida senza avere accanto, in funzione di istruttore, una
persona provvista di patente di guida valida (art. 122 C.d.S.);
circolazione con ciclomotore o motociclo in violazione delle norme
comportamentali previste (art. 170 C.d.S.);
circolazione con veicolo sprovvisto di idonea copertura assicurativa (art. 193
C.d.S.);
circolazione con veicolo sottoposto a fermo amministrativo (art. 214 C.d.S.);
circolazione con patente ritirata o sospesa (artt. 216 e 218 C.d.S.);
circolazione in violazione della normativa in materia di trasporto cose (artt.
26 e 46 della legge n. 298/1974 s.m.i.).
Che differenza c'è tra la confisca il sequestro e il fermo?
Con il sequestro la Pubblica Amministrazione limita la disponibilità dell'auto a
seguito di una violazione. La confisca, invece, è il provvedimento con cui la
Pubblica Amministrazione acquisisce la proprietà di un bene. L'auto diventa sua
e il proprietario ne perde ogni diritto
Il Fermo Amministrativo si differenzia dal Sequestro perché non ha natura
cautelare, non è finalizzato ad altro successivo ed eventuale provvedimento (il
sequestro infatti può comportare la confisca), e soprattutto perché ha una
durata definita trascorsa la quale il veicolo va restituito.
Quando il sequestro amministrativo diventa confisca?
La legge 689/81 prevede che possa essere disposta, come sanzione amministrativa
accessoria, la “confisca” delle cose che servirono a commettere la violazione o
che ne sono il prodotto, sempre che appartengono ad una delle persone cui è
ingiunto il pagamento.
Sequestro o fermo amministrativo in conseguenza di violazioni aventi natura
penale (art. 224 ter C.d.S.)
Le principali disposizioni sono:
divieto di gareggiare in velocità con veicoli a motore (es. art. 9ter C.d.S.);
guida senza patente o con patente revocata (art. 116 C.d.S.);
guida sotto l'effetto di alcool (art. 186 C.d.S.);
guida sotto l'effetto di sostanze stupefacenti (art. 187 C.d.S.).
Cosa succede al veicolo sequestrato o sottoposto a fermo?
Con il sistema S.I.Ve.S. il veicolo sequestrato o sottoposto a fermo viene
generalmente affidato al proprietario o
conducente o obbligato in solido, che ha l'obbligo di
depositare e custodire il
veicolo in luogo non soggetto a pubblico passaggio e di provvedere a proprie
spese al trasporto in condizioni di sicurezza per la circolazione stradale.
Ogni variazione del luogo di custodia deve essere formalmente autorizzata
dall'Ufficio o Comando che ha provveduto al sequestro.
Solo nel caso in cui i soggetti obbligati si rifiutino o non abbiano i requisiti
per assumerne la custodia, il veicolo viene affidato al deposito giudiziario
incaricato della custodia. In caso di notifica a mezzo posta, il termine di
dieci giorni decorre dalla data della notificazione del verbale di sequestro al
proprietario del veicolo.
Per i ciclomotori o
i motocicli si
applica la disciplina di cui all'art. 213. Il termine di 10 giorni per il ritiro
del veicolo decorre una volta scaduti i primi trenta giorni di custodia presso
il c.d. custode-acquirente.
Mancata assunzione della custodia del veicolo nel termine di 10 giorni:
conseguenze
Decorso inutilmente il termine di dieci giorni, l'organo accertatore trasmette
gli atti al Prefetto,
il quale, senza ulteriore avviso al proprietario, dichiara il trasferimento in
proprietà, senza oneri, del veicolo al custode-acquirente.
il ritiro dei documenti di circolazione;
la sospensione
della carta/certificato di circolazione (art.
217);
Sospensione
della patente di guida (art.
216);
la
revisione,
la sospensione,
il ritiro e la revoca della
patente di guida (articoli
218 e 219).
Che differenza c’è tra ritiro e sospensione della patente,
by avvocatopenaletorino.it
Il ritiro della patente è la materiale sottrazione della patente
all’intestatario da parte dell’organo di polizia stradale;
la sospensione della patente è il provvedimento con cui la Motorizzazione
Civile, il Prefetto o il Giudice sospendono provvisoriamente l’abilitazione alla
guida che deriva dal rilascio della patente.
Non sempre il ritiro della patente implica la sospensione della patente, come,
ad esempio, nel caso di ritiro di patente scaduta.
Nella gran parte dei casi, però, il ritiro della patente viene effettuato
proprio perché è stato accertato un illecito che prevede la sospensione della
patente.
In tali casi, al ritiro eseguito dagli organi della polizia stradale dovrà
seguire un provvedimento di sospensione del Prefetto e/o del Giudice.
La sospensione della patente è una temporanea sospensione dell’abilitazione alla
guida adottata con apposito provvedimento dalle autorità competenti a seconda
dei casi (Motorizzazione Civile, Prefetto, Giudice Penale).
Nel caso in cui la sospensione della patente sia prevista dalla legge quale
sanzione per un determinato illecito amministrativo o reato in violazione delle
disposizioni sulla circolazione stradale, al momento dell’accertamento, l’organo
della polizia stradale ritira la patente.
Successivamente, il Prefetto disporrà la sospensione della patente. Nel caso si
tratti di reato, la parola finale sulla durata della sospensione spetterà al
Giudice Penale con la sentenza o il decreto penale.
Per i neopatentati, art. 218 bis, per i primi tre anni, la sospensione è
aumentata di un terzo, per la prima e raddoppiata per le seguenti. Se la
sospensione è + 3 messi e per i primi 5 anni.
La revoca
della patente è infine un provvedimento disposto, a seconda dei
casi, dalla Motorizzazione Civile, dal Prefetto o dall’Autorità Giudiziaria e
determina il divieto di guidare veicoli a motore con carattere permanente.
Come riavere la patente
Non è possibile in poche righe elencare tutte le modalità per tornare in
possesso del documento della patente o dell’abilitazione alla guida, perché
innumerevoli sono i casi di ritiro, sospensione e revoca della patente.
In linea di massima, si può dire che solo il provvedimento di revoca della
patente implica per l’interessato l’onere di conseguirne un’altra ex novo,
trascorsi i periodi di tempo prescritti dalla legge.
Nel caso di sospensione della patente, invece, al termine del periodo per il
quale l’abilitazione alla guida è sospesa, la patente verrà restituita, previo
espletamento di eventuali adempimenti (ad esempio, superamento di visita medica
in caso di guida in stato di ebbrezza).
Per chi invece intenda difendersi dall’illecito amministrativo a lui contestato,
la legge offrirà la possibilità di proporre ricorso al Prefetto o al Giudice di
Pace.
Nel caso di reati, invece, alla difesa nel processo penale l’interessato
potrebbe aggiungere l’opposizione con ricorso al Giudice di Pace avverso il
provvedimento del Prefetto con il quale è stata provvisoriamente sospesa la
patente.
La REVISIONE, by rmastri.it, della patente viene disposta dal Prefetto e
dalla Motorizzazione Civile (spesso avviene quando si è commesso un incidente
grave a causa del nostro errato comportamento di guida) e consiste nel
verificare (mettere alla prova) se permangono ancora i requisiti fisici e
psichici (vista, udito, riflessi, ecc.) e le capacità tecniche (conoscere la
segnaletica e saper guidare correttamente) per continuare a mantenere la patente
posseduta.
La revisione viene ordinata:
Qualora sorgano dubbi sul persistere dei requisiti fisici e psichici prescritti.
Qualora sorgano dubbi sul persistere dell'idoneità tecnica alla guida.
Con la prescrizione di sottoporsi a visita medica e/o ad esame di idoneità
tecnica.
L'esito negativo della visita medica (perdita permanente dei requisiti
psico-fisici) o dell'esame di idoneità (si viene bocciati agli esami) comporta
la "Revoca" definitiva della patente di guida. Nel caso di mancanza provvisoria
(temporanea) dei requisiti psico-fisici si ha, invece, la "Sospensione" della
patente, fino al recupero dei requisiti.
La REVOCA della patente viene disposta dal Prefetto, dalla Motorizzazione
Civile e anche dall'Autorità Giudiziaria (giudice del tribunale) e consiste
nell'annullamento permanente della patente (la patente viene definitivamente
tolta, spesso per sempre).
La revoca viene disposta:
Per perdita permanente dei requisiti fisici o psichici (se si perdono
definitivamente i requisiti necessari per continuare ad avere la patente, come:
vista, udito, riflessi, ecc., avviene la revoca).
Quando il titolare non sia più in possesso dei requisiti morali richiesti (il
giudice, ad un delinquente abituale, professionale o per tendenza, che ha
commesso un reato, può ordinargli la revoca della patente).
Quando il titolare, sottoposto ad esame di revisione, risulti non più idoneo (ad
esempio se si viene bocciati, agli esami di revisione patente, avviene la
revoca).
Quando la patente è sostituita con altra rilasciata da uno stato estero
(trasferendosi all'estero la patente italiana viene revocata, per tutto il tempo
che si rimane all'estero).
Quando il titolare circola nonostante sia stata disposta la sospensione della
patente.
Il RITIRO IMMEDIATO della patente viene disposto dagli agenti del
traffico (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, ecc.) quando accertano delle
irregolarità non gravi e consiste nel ritiro provvisorio della patente. La
patente viene restituita quasi subito, dopo l'adempimento della irregolarità (a
meno che non si dovrà procedere alla sospensione della patente).
Il ritiro immediato avviene:
Quando il conducente guidi con patente la cui validità sia scaduta (la patente
viene immediatamente ritirata e restituita non appena viene rinnovata =
confermata).
Quando il conducente non si sottopone all'esame di revisione patente nei termini
prescritti (guidare senza effettuare gli esami medici o tecnici disposti per la
"Revisione" patente, entro la data stabilita, comporta il ritiro della patente,
fino a quando non ci si sottopone agli esami prescritti).
Se il conducente non sistema correttamente il carico su invito degli organi di
polizia (se si circola con un veicolo il cui carico supera il peso e/o la
sporgenza consentita comporta il ritiro della patente, fino a quando il carico
non viene sistemato correttamente).
Quando il conducente sia alla guida in stato di ebbrezza (guidare in stato di
ubriachezza comporta il ritiro della patente, come anticipo della pena, e
successivamente, anche la "Sospensione" e l'arresto).
A seguito di violazione che comporti le sanzioni accessorie della sospensione
della patente (ad esempio guidare in stato di ubriachezza comporta la
"Sospensione" della patente, pertanto, per poterla sospendere, deve prima
avvenire il ritiro).
La SOSPENSIONE della patente viene disposta dal Prefetto, dalla
Motorizzazione Civile e dall'Autorità Giudiziaria (giudice del tribunale) e
consiste nel privare (vietare) di condurre veicoli per un determinato periodo
(da un minimo di 15 giorni fino ad un massimo di 5 anni; dipende dal tipo di
violazione). La sospensione è prevista per molte infrazioni gravi; a volte, non
alla prima infrazione, ma quando per 2 volte in 2 anni il conducente ripeta la
stessa irregolarità.
La sospensione avviene:
Quando si circola contromano in curva.
Quando non si rispetta l'obbligo di dare la precedenza.
Quando chi proviene da un garage non dà la precedenza a chi circola su strada.
Quando non si dà la precedenza ai veicoli circolanti su rotaia (tram e treni).
Quando si effettua l'inversione di marcia in autostrada.
Quando si supera di oltre 40 km/h il limite massimo di velocità.
Quando il conducente, coinvolto in un incidente, non presta soccorso ai feriti.
Quando il conducente fugge senza prestare soccorso alla persona investita.
In caso di guida in stato di ebbrezza (in questo caso avviene prima il ritiro e
poi la sospensione).
In caso di temporanea perdita dei requisiti fisici o psichici (la sospensione
avviene fino al recupero dei requisiti).
Quando si circola abusivamente con un veicolo sottoposto a sequestro.
Quando il titolare di patente speciale guida veicoli con adattamenti diversi da
quelli prescritti (ai mutilati e minorati fisici che guidano veicoli non
opportunamente modificati viene sospesa la patente).
Se il titolare guida con patente di categoria diversa da quella necessaria per
il veicolo condotto (ad esempio al titolare di patente A, sorpreso alla guida di
un autoveicolo, per il quale invece occorre la patente B, viene sospesa la
patente in possesso).
Ritiro patente: quali sono i motivi e come riaverla
by automobile.it
Tutti i motivi per cui la patente può essere ritirata e sospesa, ad esempio per
alcol o eccesso di velocità, e cosa fare per riaverla
Ogni automobilista ha l’obbligo di rispettare le disposizioni del Codice della
Strada per tutelare la propria e l’altrui incolumità. Questo assunto deve essere
sempre ben impresso nella mente di chiunque si metta alla guida di una vettura,
consapevole che, in caso di infrazioni, si potranno subire sanzioni sempre più
importanti, sino ad arrivare alla sospensione della patente o al ritiro patente.
Quali ragioni possono portare le Forze dell’Ordine a sospendere l’abilitazione
alla guida? Eccole di seguito analizzate nel dettaglio.
Ritiro della patente: quali sono i motivi?
Come detto, il nostro Codice della Strada prevede una serie di sanzioni
crescenti in rapporto alla violazione commessa, e il ritiro patente si pone
quale sanzione accessoria al pagamento della multa imposta in caso di violazione
delle norme del Codice.
Quando parliamo di ritiro della patente intendiamo la materiale sottrazione del
documento da parte degli agenti del traffico a seguito della specifica
infrazione commessa. Il ritiro può poi comportare:
la successiva sospensione o revoca,
la restituzione dello stesso documento.
Di seguito indichiamo quando avviene il ritiro della patente elencando le
specifiche ipotesi previste dal Codice della Strada.
Ritiro della patente per alcol
Una delle ipotesi in cui è previsto il ritiro patente è la guida in stato di
ebbrezza. Il nostro Codice della Strada ha affrontato il tema del ritiro patente
per alcol in maniera giustamente severa stabilendo, agli articoli 186 e 186 bis,
sanzioni economiche e accessorie che puniscono in modo importante chi si mette
alla guida dopo aver alzato eccessivamente il gomito.
Il valore limite legale del tasso alcolemico è pari a 0,5 g/litro, un limite
decisamente basso ma fondamentale per garantire la sicurezza degli utenti della
strada. Chi venga fermato, sottoposto ad alcoltest e trovato con un valore
superiore a questo, può subire diverse sanzioni.
Limite
Sanzione
da 0,5 a 0,8 g/litro.
Sanzione amministrativa da 532 a 2.127 euro, più sanzione accessoria di
sospensione della patente da 3 a 6 mesi
da 0,8 a 1,5 g/litro.
La violazione diventa reato, è prevista una sanzione amministrativa da
800 a 3.200 euro, più la sanzione accessoria della sospensione della patente da
6 mesi a un anno, e si potrà rischiare l’arresto fino a un massimo di 6 mesi
superiore a 1,5 g/litro.
La sanzione amministrativa varia da 1.500 sino a 6.000 euro, è prevista una
sanzione accessoria della sospensione della patente da uno a due anni, oltre a
rischiare l’arresto da 6 mesi a un anno. In caso di recidiva, la patente viene
revocata qualora l’infrazione sia commessa in un arco temporale di due anni.
In caso di rifiuto dell’alcoltest si applicano le pene massime e l’eventuale
confisca del veicolo. Per quel che riguarda la restituzione patente dopo
sospensione per guida stato di ebbrezza, è possibile tornare in possesso del
documento di guida solo se è trascorso il periodo di sospensione della patente e
si è ottenuta l’idoneità dalla Commissione medica locale. In caso contrario, la
patente rimane sospesa fino all’esibizione della certificazione medica.
Ritiro patente per guida con cellulare
Altra cattiva abitudine che può portare al ritiro patente è la guida con il
cellulare.
Molti automobilisti, infatti, continuano a sottovalutare la pericolosità di
questa condotta che distrae in maniera eccessivamente rischiosa dalla guida.
Il nostro Codice della Strada disciplina questo comportamento all’articolo 173,
recentemente inasprito nel 2017 e prevede:
una sanzione amministrativa da 161 a 647 euro (sia che si stia telefonando sia
che si stia inviando un messaggio)
sospensione della patente in caso di recidiva entro i due anni successivi e, in
questo caso, il ritiro oscilla da 1 a 3 mesi.
Ritiro patente: guida con patente scaduta
Altro caso in cui la patente può essere ritirata è quello della guida con
patente scaduta. Il documento che consente la circolazione su strada, infatti,
deve essere rinnovato:
ogni 10 anni sino al compimento dei 50 anni di età,
ogni 5 anni per gli automobilisti di età compresa tra 50 e 70 anni,
ogni 3 anni per gli automobilisti tra 70 e 80 anni di età,
ogni 2 anni per gli ultraottantenni.
Chi viene fermato con la patente scaduta rischia una sanzione amministrativa che
varia da 160 sino a 644 euro, mentre la sanzione accessoria sarà proprio il
ritiro della patente scaduta.
Entro dieci giorni dal ritiro patente l’automobilista avrà la possibilità di
effettuare la visita medica obbligatoria e sbrigare tutte le pratiche
burocratiche per tornare in possesso del documento ritirato, mentre, qualora sia
decorso questo termine, per poter tornare in possesso della patente ci si dovrà
recare presso la prefettura muniti del certificato medico che accerti l’idoneità
alla guida e il rinnovo del documento scaduto.
Ritiro patente per superamento dei limiti di velocità
Uno dei casi più comuni di ritiro della patente è il superamento dei limiti di
velocità. Il nostro Codice della Strada disciplina due ipotesi in cui può
avvenire questa sanzione accessoria.
Primo caso, il superamento del limite di velocità tra i 40 e i 60 km/h prevede:
una multa compresa tra i 527 e 2.108 euro,
la decurtazione di 10 punti
la sospensione della patente per un periodo che va da uno a tre mesi che possono
variare da otto a diciotto in caso di recidiva in un biennio
Secondo caso, il superamento di oltre 60 km/h del limite di velocità prevede:
sanzione amministrativa che varia da un minimo di 821 ad un massimo di 3.287
euro
la decurtazione di 10 punti
la sospensione della patente di guida per un periodo che va da sei mesi a un
anno (in caso di recidiva in un biennio è prevista la revoca della patente)
Sospensione della patente
La sospensione può precedere in alcuni casi il ritiro della patente, ma i due
provvedimenti non sono equivalenti. Dobbiamo infatti precisare una distinzione
importante: la sospensione è una sanzione accessoria comminata dal Prefetto o
comunque dall’Autorità giudiziaria nei casi più gravi, che rende temporaneamente
illecito condurre i veicoli per i quali quella patente è stata conseguita.
Il ritiro invece non è una sanzione, ma un provvedimento di tipo amministrativo.
Può arrivare in seguito ad una sospensione, oppure ad opera delle Forze
dell’Ordine quando queste ritengano – ad esempio per la perdita di requisiti
psicofisici – di dover limitare il rischio che deriva da permettere al
conducente di continuare a guidare.
Per intenderci, succede che venga disposta in alcuni casi una sospensione della
patente senza ritiro immediato. In quel caso, infatti, il provvedimento è
notificato successivamente, nei giorni che seguono l’infrazione.
Per quanto tempo può essere sospesa o ritirata la patente?
Il tempo in cui la patente può essere sospesa o ritirata varia in base alle
cause e alla gravità dell’infrazione del Codice della Strada.
Innanzitutto, la sospensione della patente per eccesso di velocità prevede una
durata diversa a seconda che il limite venga sforato per 40 o 60 km/h. Nel primo
caso, va da 1 a 3 mesi. Nel secondo caso, si va da un minimo di 6 a un massimo
di 12 mesi.
Da 1 a 3 mesi il periodo di sospensione, in caso di recidiva nei 24 mesi, per
passaggio con semaforo rosso. Lo stesso che occorre nel caso di recidiva,
stavolta biennale, per guida con cellulare.
Infine, la lunghezza della sospensione può raggiungere anche i diversi anni nei
casi più gravi. Nell’eventualità in cui l’infrazione sia rappresentata da un
incidente che comporta il reato di omicidio, la sospensione può arrivare fino a
4 anni, con l’aggiunta della revoca in seguito alla condanna.
Ritiro patente: come riaverla
A seguito di una multa per ritiro patente, sarà possibile ottenere nuovamente il
documento seguendo iter diversi a seconda dell’infrazione commessa. L’iter per
la restituzione patente dopo sospensione non è univoco.
In caso di ritiro per scadenza della patente di guida, sarà sufficiente
sostenere gli esami medici previsti per tornare in possesso del documento.
Nelle altre ipotesi di ritiro patente, come ad esempio in caso di tasso
alcolemico elevato, sarà necessario sostenere un colloquio presso la sede del
Dipartimento della prevenzione – medicina legale.
La commissione inviterà il soggetto della sanzione allo svolgimento di un
programma terapeutico composto da un colloquio di accoglienza, una visita
medica, esami clinici e quattro sedute di counselling.
In caso di esito positivo la patente sarà restituita.
Nei casi più gravi, infine, quando la patente è direttamente revocata, occorre
attendere minimo 2 anni prima di poter rifare l’abilitazione di guida. Quando la
ragione della revoca è legata a requisiti psicofisici, un incidente grave con
feriti o l’assenza di revisione valida del documento di guida, è d’obbligo
ottenere un certificato da visita medica o superare di nuovo gli esami di teoria
e pratica.
Cose da sapere
Cosa intendiamo con ritiro della patente?
Quando parliamo di ritiro della patente intendiamo la materiale sottrazione del
documento da parte degli agenti del traffico a seguito della specifica
infrazione commessa. Il ritiro può poi comportare o la successiva sospensione o
revoca, oppure la restituzione dello stesso documento
In quali casi è previsto il ritiro della patente?
Il ritiro della patente può avvenire nei seguenti casi: tasso alcolemico
superiore a 0,5 g/litro, uso del cellulare durante la guida, guida con patente
scaduta e superamento dei limiti di velocità.
Come posso riavere la mia patente?
In caso di ritiro per patente scaduta sarà sufficiente sostenere gli esami
medici previsti; nelle altre ipotesi di ritiro patente, sarà necessario
sostenere un colloquio presso la sede del Dipartimento della prevenzione –
medicina legale.
Ogni titolare di patente ha in dotazione 20 punti. By patente.it
Se si commettono infrazioni al codice stradale di una certa gravità, oltre ad
una sanzione amministrativa e ad un eventuale provvedimento sulla patente o
sulla carta di circolazione è prevista la decurtazione di un certo numero di
punti.
La corrispondenza tra infrazioni e punti decurtati (tolti) è presente nella
tabella allegata all'art. 126 bis del codice stradale.
Chi esaurisce tutti i punti deve rifare gli esami per la patente (revisione).
Chi commette infrazioni, ma nei due anni successivi non ne commette altre
comportanti la decurtazione, ha il reintegro completo dei 20 punti. Chi non
commette nessuna infrazione, ad ogni biennio avrà due punti in più, fino ad un
massimo di 30 punti complessivi.
Chi commette più infrazioni in una volta sola, può perdere al massimo 15 punti,
purché un'infrazione non comporti la sospensione o revoca della patente. È la
comunicazione del CED (Centro Elaborazione Dati) del Ministero dei Trasporti,
che comunica ufficialmente la decurtazione dei punti, e che autorizza alla
frequenza di un corso di recupero:
il corso rivolto ai titolari di patente di macrocategoria A e B dura 12 ore e
permette di riottenere 6 punti;
il corso rivolto ai titolari di patente di macrocategoria C, D, CE, DE, KA e KB
dura 18 ore e permette di riottenere 9 punti;
il corso rivolto ai titolari di CQC dura 20 ore e permette di riottenere 20
punti.
Il reintegro dei punti decorre dalla data di rilascio dell'attestato di
frequenza al corso. La legge 120/2010 ha previsto, a breve, l'obbligo di un
esame al termine del corso. Al momento però non si sa nulla di preciso.
Doppio punteggio per i conducenti professionali
Il sistema della decurtazione dei punti si applica anche alla carta di
qualificazione del conducente e al certificato di abilitazione professionale di
tipo KB, se gli illeciti sono commessi alla guida dell'autoveicolo per cui sono
obbligatorie tali abilitazioni e nell'esercizio dell'attività professionale. Il
punteggio non si cumula nel caso il conducente sia in possesso sia di CQC che di
KB.
I corsi di recupero punti sono svolti dalle autoscuole, hanno durata di 20 ore e
consentono di recuperare fino a un massimo di 9 punti.
In caso di perdita totale del punteggio, la CQC o il KB sono revocati se il
conducente non supera l'esame di revisione. In caso di revoca della patente di
guida, detti documenti sono sempre revocati.
Neopatentati
Per le patenti rilasciate successivamente al 1° ottobre 2003 a soggetti che non
siano già titolari di altra patente di categoria B o superiore, i punti
riportati nella tabella allegata all'art. 126 bis, per ogni singola violazione,
sono raddoppiati qualora le violazioni siano commesse entro i primi tre anni dal
rilascio.
Per gli stessi tre anni, la mancanza di violazioni di una norma di comportamento
da cui derivi la decurtazione del punteggio determina l'attribuzione di un punto
all'anno fino ad un massimo di tre punti.
Come funzionano i punti patente.
By Quixa.it
Come funziona il punteggio della patente di guida? Come si fa a vedere quanti
punti si hanno sulla patente?
I punti della patente sono un sistema con il quale sono penalizzate alcune
violazioni del Codice della Strada, ma al contempo vengono premiati i conducenti
che non commettono infrazioni e guidano nel rispetto delle norme. La patente a
punti è stata introdotta a partire dal 2003, per promuovere la sicurezza e la
prevenzione degli incidenti stradali, inoltre sono previste condizioni speciali
per alcune categorie specifiche, come i neopatentati e i conducenti
professionali. Vediamo come funzionano i punti patente esattamente, come
controllarli e tutto ciò che bisogna sapere sul loro recupero per non rimanere a
piedi.
Che cosa sono i punti della patente
Dal primo luglio 2003 è entrato in vigore il sistema di punteggio della patente
di guida, come previsto dall’articolo 126 bis del Codice della Strada. Tuttavia,
non è importante quando l’abilitazione di guida è stata conseguita, infatti a
partire da questa data, a tutte le persone in possesso di una patente è stato
applicato questo meccanismo obbligatoriamente.
Il numero di punti della patente inizialmente è uguale per tutti:
all’abilitazione si parte da 20 punti. Ogni 2 anni è possibile ricevere un
riconoscimento di ulteriori 2 punti che vengono sommati a quelli presenti sulla
patente in quel momento, se non si commettono infrazioni.
In questo modo è possibile arrivare fino a un massimo di 30 punti patente,
dopodiché il punteggio si blocca perché è stata raggiunta la soglia limite,
quindi, anche in caso di buona condotta non viene più aggiunto alcun punto. Se
invece si sono persi dei punti a causa di un’infrazione avviene la decurtazione,
tuttavia possono essere recuperati senza fare nulla in alcune circostanze.
In particolare, se nei due anni successivi non si commettono violazioni vengono
reintegrati tutti i punti sottratti con l’infrazione, ad eccezione per chi
arriva a 0 punti sulla patente di guida. Ad esempio, chi subisce la decurtazione
di 3 punti nel mese di settembre del 2021 può riottenerli a settembre 2023,
qualora in questo lasso di tempo non avvenga nessuna contravvenzione passibile
di taglio dei punti.
Come avviene la decurtazione dei punti patente
Prima di capire come vedere i punti della patente vediamo come funziona il
meccanismo di decurtazione, ovvero la sottrazione dei punti in seguito a
un’infrazione grave. Il Codice della Strada disciplina le norme da seguire per
la circolazione, indicando anche le sanzioni che le Forze dell’Ordine possono
applicare in caso di violazione.
A seconda dell’infrazione la sanzione può essere appena di tipo amministrativo,
quindi una multa, oppure essere abbinata ad altre penalizzazioni come la
decurtazione di punti dalla patente di guida, la sospensione della patente
oppure il sequestro del veicolo. Le sanzioni sono commisurate alla gravità della
violazione, in base alla pericolosità del comportamento.
Per una sola singola infrazione si possono perdere fino a un massimo di 10 punti
della patente, altrimenti in presenza di violazioni multiple realizzate
simultaneamente è possibile arrivare ad una decurtazione massima di 15 punti. Se
la sanzione viene applicata a distanza senza contestazione, ad esempio per
eccesso dei limiti di velocità, in questo caso il proprietario del veicolo deve
obbligatoriamente indicare il guidatore responsabile, al quale sarà applicata la
decurtazione dei punti.
Principali infrazioni con decurtazione dei punti patente
1 punto – uso improprio dei fari
2 punti – sosta in corsia riservata
3 punti – mancato rispetto della distanza di sicurezza
4 punti – circolazione contromano
5 punti – mancato utilizzo delle cinture di sicurezza
6 punti – passaggio con semaforo rosso
8 punti – inversioni di marcia pericolose
10 punti – guida in stato di ebbrezza, superamento limiti di velocità
Se il superamento è oltre 10 Km/h e fino a 40 Km/h il limite, invece, vengono
sottratti 5 punti alla patente, mentre guidare oltre i limiti di velocità da 40
a 60 Km/h in più rispetto alla velocità consentita comporta la perdita di 10
punti sulla patente.
Come vedere i punti della patente
Come posso sapere quanti punti ho sulla patente? Per verificare il punteggio dei
punti della patente di guida basta utilizzare i servizi online del Portale
dell’Automobilista, il sito web ufficiale del Ministero delle Infrastrutture e
della Mobilità Sostenibili. Qui è possibile registrarsi e visualizzare il saldo
dei punti patente, oppure bisogna chiamare il servizio automatico al numero 848
782 782 attivo 24/7.
In alternativa è possibile scoprire il numero di punti patente scaricando l’app
iPatente, compatibile con smartphone e tablet Android, HarmonyOS (Huawei) e iOS,
l’applicazione ufficiale del Dipartimento dei Traporti del Ministero. L’app
consente di visualizzare sul telefono il saldo e lo storico dei punti della
patente, inoltre si possono monitorare una serie di pratiche automobilistiche ed
effettuare alcuni controlli su altri veicoli.
Punti patente: le regole per i neopatentati
Per i neopatentati valgono delle regole leggermente diverse per quanto riguarda
i punti patente. Innanzitutto, nei primi 3 anni dall’ottenimento
dell’abilitazione si possono acquisire un massimo di 3 punti per buona condotta:
se non si commettono infrazioni, ogni anno viene aggiunto un ulteriore “bonus”
di 1 punto, il quale si aggiunge all’eventuale “bonus” di 2 punti dopo 2 anni
senza infrazioni, quindi i neopatentati hanno la possibilità di ottenere un
totale di 5 punti aggiuntivi dopo i primi tre anni di guida.
Allo stesso modo, ogni violazione del Codice della Strada che comporta la
decurtazione di punti patente viene raddoppiata per i neopatentati, con
l’applicazione di una sanzione maggiorata. Se ad esempio un’infrazione causa la
perdita di 5 punti dalla patente, per una persona che ha preso l’abilitazione da
meno di 3 anni la sottrazione diventa di 10 punti.
Cosa succede con zero punti sulla patente di guida?
Quando si arriva a zero punti sulla patente è necessario sostenere un esame
presso la Motorizzazione, simile a quello affrontato per prendere l’abilitazione
di guida la prima volta, con prova teorica e pratica. Nel frattempo, la patente
viene messa in revisione, ovvero viene sospesa, periodo durante il quale è
possibile comunque guidare per 30 giorni dalla data di notifica.
Se si supera la prova vengono ristabiliti i 20 punti, altrimenti la patente
viene definitivamente revocata. In questo caso l’abilitazione è invalidata e
viene annullata, inoltre sarà necessario attendere 2 anni prima di prendere di
nuovo la patente, salvo indicazioni differenti delle Autorità. Dopo questo
periodo si potranno sostenere gli esami e ricevere una nuova abilitazione, ma si
verrà considerati a tutti gli effetti dei neopatentati per i primi 3 anni.
Le stesse condizioni si applicano a chi commette 3 infrazioni con decurtazione
di 5 punti patente, ciascuna avvenuta nello stesso anno.
Come recuperare i punti patente
Per evitare di rischiare di azzerare i punti patente è possibile seguire un
corso di recupero. Nelle scuole guida sono disponibili appositi corsi per
riacquistare i punti persi dalla patente, con la possibilità di reintegrare fino
ad un massimo di 6 punti per ogni corso.
I nuovi punti saranno sommati a quelli presenti sulla patente fino ad arrivare a
20 punti, soglia oltre la quale non è possibile aggiungere altri punti. Ciò
significa che non vale la pena recuperare i punti con un punteggio superiore a
14, in quanto verranno accreditati appena quelli necessari per arrivare a 20 e
gli altri non saranno conteggiati.
Ritiro dei documenti di circolazione, della targa o della patente di guida.
Nelle ipotesi in cui le norme del C.d.Ss. prevedono la sanzione accessoria in
esame, i documenti vengono ritirati dall’organo accertatore contestualmente
all’accertamento di violazione, ed inviati nei successivi cinque giorni agli
uffici competenti (art. 216 Cds).
Documenti da sottoporre a ritiro |
Ufficio competente |
Carta di circolazione |
Dir. Gen. MCTC |
Certificato di idoneità macchine agricole |
Dir. Gen. MCTC |
Autorizzazione autotrasporto |
Dir. Gen. MCTC |
Licenza autotrasporto |
Dir. Gen. MCTC |
Targa |
Dir. Gen. MCTC |
Patente di guida |
Prefettura |
Del ritiro viene fatta menzione nel Verbale di contestazione, ove è pure apposta
la specifica annotazione prevista dall’art. 399 del Regolamento C.d.S. affinché
l’utente possa raggiungere il luogo da lui stesso indicato. Nei casi di ritiro
della targa, si provvede solo dopo che il veicolo sia stato depositato nel luogo
indicato dall’avente diritto. In quest’ultimo caso, si procede a redigere
apposito Verbale.
Nel caso in cui l’avente diritto non sia in grado di indicare il luogo di
ricovero, l’Organo accertatore provvede alla custodia con le modalità di cui
all’art. 394 del Regolamento, in quanto applicabili.
La restituzione del documento è richiesta dagli interessati quando abbiano
adempiuto alle formalità omesse.
Il ricorso presentato avverso la sanzione principale, si estende alla sanzione
accessoria che viene confermata in caso di rigetto del ricorso stesso.
Art. 189 Codice della Strada.
1. L'utente della strada, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo
comportamento, ha l'obbligo di fermarsi e di prestare l'assistenza occorrente a
coloro che, eventualmente, abbiano subito danno alla persona.
2. Le persone coinvolte in un incidente devono porre in atto ogni misura idonea
a salvaguardare la sicurezza della circolazione e, compatibilmente con tale
esigenza, adoperarsi affinché non venga modificato lo stato dei luoghi e
disperse le tracce utili per l'accertamento delle responsabilità.
3. Ove dall'incidente siano derivati danni alle sole cose, i conducenti e ogni
altro utente della strada coinvolto devono inoltre, ove possibile, evitare
intralcio alla circolazione, secondo le disposizioni dell'art. 161. Gli agenti
in servizio di polizia stradale, in tali casi, dispongono l'immediata rimozione
di ogni intralcio alla circolazione, salva soltanto l'esecuzione, con assoluta
urgenza, degli eventuali rilievi necessari per appurare le modalità
dell'incidente.
4. In ogni caso i conducenti devono, altresì, fornire le proprie generalità,
nonché le altre informazioni utili, anche ai fini risarcitori, alle persone
danneggiate o, se queste non sono presenti, comunicare loro nei modi possibili
gli elementi sopraindicati.
Omesse generalità, soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una
somma ((da € 87 a € 344)). 2 punti
Fuga danno a cose, sanzione amministrativa del pagamento di una somma ((da € 302
a € 1.208)). 4 punti.
In tale caso, se dal fatto deriva un grave danno ai veicoli coinvolti tale da
determinare l'applicazione della revisione di cui all'articolo 80, comma 7, si
applica la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di
guida da quindici giorni a due mesi, 10 punti
Fuga danno a persone, reclusione da sei mesi a tre anni. 10 punti. Si applica la
sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da
uno a tre anni ed è possibile procedere all'arresto, ai sensi dell'articolo 381
del codice di procedura penale, anche al di fuori dei limiti di pena ivi
previsti.
Omessa assistenza, reclusione da un anno a tre anni. Si applica la sanzione
amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un
periodo non inferiore ad un anno e sei mesi e non superiore a cinque anni.
8. Il conducente che si fermi e, occorrendo, presti assistenza a coloro che
hanno subito danni alla persona, mettendosi immediatamente a disposizione degli
organi di polizia giudiziaria, quando dall'incidente derivi il delitto di
lesioni personali colpose, non è soggetto all'arresto stabilito per il caso di
flagranza di reato.
8-bis. Nei confronti del conducente che, entro le ventiquattro ore successive al
fatto di cui al comma 6, si mette a disposizione degli organi di polizia
giudiziaria, non si applicano le disposizioni di cui al terzo periodo del comma
6.
Fuga danno a animali o omessa assistenza, sanzione amministrativa del pagamento
di una somma ((da € 421 a € 1.691)). Le persone coinvolte in un incidente con
danno a uno o più' animali d'affezione, da reddito o protetti devono porre in
atto ogni misura idonea ad assicurare un tempestivo intervento di soccorso.
Chiunque non ottempera all'obbligo di cui al periodo precedente è' soggetto alla
sanzione amministrativa del pagamento di una somma ((da € 85 a € 337)).
Quando si parla di omissione di soccorso è importante distinguere tra fuga e
omissione di soccorso vera e propria. Una recente sentenza della Corte di
Cassazione (Sentenza n. 14648 del 20 aprile 2021), infatti, precisa che per
poter considerare la fuga come reato è sufficiente che si verifichi un incidente
che sia riconducibile al comportamento dell’utente della strada atto a produrre
un evento lesivo, a prescindere che quest'ultimo si verifichi o meno.
Il reato di omissione di soccorso, invece, si verifica laddove l’utente della
strada coinvolto nel sinistro neghi l’assistenza alle persone coinvolte nella
consapevolezza di aver causato loro delle lesioni.
Allontanarsi da un incidente o farlo nella consapevolezza che vi sono feriti è
diverso per Legge, e ciascuna condotta costituisce un reato diverso con
differenti pene.
Fuga e omissione di soccorso nel sinistro stradale. By studio Legale Gulino
Spesso capita di leggere sui giornali di persone che, coinvolte in un incidente
stradale, si danno alla fuga senza fermarsi e prestare soccorso ai feriti.
Questo preoccupante fenomeno, in aumento negli ultimi anni è un reato punito
severamente dall’ordinamento.
Scopriamo in cosa consiste
La norma: art. 189, comma 6 e 7 Codice della Strada
Chi, dopo aver provocato un incidente con feriti non si ferma e/o fugge risponde
del reato di cui all’art. 189 comma 6 del Codice della Strada ovvero fuga dopo
un incidente stradale
Se poi non presta l’assistenza necessaria risponde dell’ulteriore reato di cui
all’art. 189 comma 7 del Codice della Strada ovvero omissione di soccorso dopo
un incidente stradale.
Si tratta di due condotte diverse autonome e indipendenti introdotte nel Codice
della Strada con finalità diverse: difatti, con la fuga viene punito
l’impedimento nell’identificazione dei soggetti rimasti coinvolti nel sinistro,
mentre con l’omissione di soccorso che le persone ferite abbiano un aiuto
immediato
Chi fugge sostanzialmente si sottrae all’identificazione complicando di
conseguenza la ricostruzione della dinamica del sinistro in cui si è coinvolti.
Per essere puniti è sufficiente che sia provato il coinvolgimento in un sinistro
stradale idoneo ad arrecare danno alle persone, senza che sia necessaria la
consapevolezza di aver effettivamente arrecato quel danno.
Mentre, per quanto riguarda l’omissione di soccorso il livello di consapevolezza
deve essere diverso.
Difatti, in questo caso, è punita la condotta di chi dopo essere rimasto
coinvolto in un incidente con feriti non ha prestato loro la necessaria
assistenza.
A nulla rileva se i feriti vengono soccorsi successivamente da terze persone: si
risponde in ogni caso del reato di fuga e di omissione di soccorso così come se
il conducente si ferma, ma la sosta ha una durata breve senza fornire l’adeguata
assistenza.
Conseguenze penali della fuga e dell’omissione di soccorso
A seguito di un incidente con danno alle persone si può essere arrestati in
flagranza di reato o si può essere destinatari di misure coercitive (ovvero
misure che limitano la libertà personale) quali:
il divieto di espatrio (art 281 cpp)
l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art 282 cpp);
il divieto e obbligo di dimora (art 283 cpp)
gli arresti domiciliari (art 284 cpp)
Arresto e misure coercitive che tuttavia non possono essere applicate nel caso
in cui il conducente si metta a disposizione dell’autorità giudiziaria entro
le ventiquattro ore successive al fatto.
Inoltre, per il reato di fuga è prevista una condanna che va 6 mesi a 3 anni di
reclusione mentre per l’omissione di soccorso da 1 a 3 anni di reclusione.
Qualora nell’incidente si siano cagionate lesioni gravi e gravissime, si
risponderà anche del reato di cui all’art. 590 bis cp
Chi invece si dà alla fuga dopo aver provocato un incidente con danno alle cose
e/o ad animali è assoggettato solamente alla sanzione amministrativa del
pagamento di una somma.
Conseguenze amministrative della fuga e dell’omissione di soccorso
Oltre alle conseguenze penali, il soggetto ritenuto colpevole del reato di fuga
e/o omissione di soccorso viene assoggettato anche alla sanzione amministrativa
accessoria che colpisce direttamente il titolo di guida.
Difatti, la patente di guida viene sospesa per un periodo che va:
da 1 anno a 3 anni per il reato di fuga
da 1 anno e 6 mesi a 5 anni per il reato di omissione
È prevista, invece, la revoca della patente per il conducente che ha guidato
in stato di ebbrezza o da alterazione da sostanza stupefacente
Casi concreti di fuga e omissione di soccorso
Ciclista che dopo essere stato sorpassato da un’auto perde l’equilibrio e cade a
terra riportando lesioni. Il conducente dell’auto non si accorge dell’accaduto
procedendo nella propria marcia. Vi è assoluzione perché il fatto non
sussiste sia per la fuga che per l’omissione di soccorso se si dimostra che, in
assenza di contatto tra auto e bici, l’automobilista non si era potuto accorgere
della caduta del ciclista né delle lesioni riportate e della necessità di
assistenza.
Due autovetture si scontrano lato specchietti con conseguente esplosione dei
finestrini di entrambe le vetture e lesioni di una delle due conducenti: Il
conducente non lesionato non si ferma e non presta soccorso assoluzione perché
il fatto non costituisce reato avendo dimostrato l’assenza della consapevolezza
di essere stata coinvolta in un incidente con feriti bisognosi di assistenza
essendosi trattato di mero urto tra gli specchietti delle due auto con limitati
danni materiali alla vettura dell’imputata e non avendo ella stessa riportato
lesioni
Auto tampona un motorino. Nasce una discussione tra i due conducenti sulla
responsabilità del sinistro. L’auto, nel ripartire, colpisce parzialmente il
conducente del motorino che riporta lesioni. L’automobilista non si ferma e non
presta soccorso: condanna per fuga ed omissione di soccorso ad anni 1 di
reclusione e disposta la sospensione della patente di guida per complessivamente
2 anni e 6 mesi Auto colpisce motorino che cade a terra riportando lesioni
lievissime; il conducente dell’auto non si ferma a prestare soccorso: in questo
caso stante la non abitualità della condotta e la natura delle lesioni lievi è
stata applicata la condizione di non punibilità per particolare tenuità del
fatto ex art 131 bis cp.
Omissione di soccorso (comune). Dispositivo dell'art. 593 Codice Penale
Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo XII
- Dei delitti contro la persona → Capo I - Dei delitti contro la vita e
l'incolumità individuale
Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni Dieci,
o un'altra persona incapace di provvedere a sé stessa, per malattia di mente o
di corpo, per vecchiaia o per altra causa, omette di darne immediato avviso
all'Autorità è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a
duemilacinquecento euro.
Alla stessa pena soggiace chi, trovando un corpo umano che sia o sembri
inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di
prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'Autorità.
Se da siffatta condotta del colpevole deriva una lesione personale, la pena è
aumentata [64]; se ne deriva la morte, la pena è raddoppiata.
REATO DI FUGA DOPO UN INVESTIMENTO E REATO DI MANCATA PRESTAZIONE
DELL'ASSISTENZA OCCORRENTE
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - 15 luglio 2022 N. 27642 MASSIMA
Il reato di fuga dopo un investimento e quello di mancata prestazione
dell'assistenza occorrente, rispettivamente previsti dall'art. 189 C.d.S. comma
6 e dall'art. 189 C.d.S. comma 7, configurano due fattispecie autonome e
indipendenti, con diversa oggettività giuridica, essendo la prima finalizzata a
garantire l'identificazione dei soggetti coinvolti nell'investimento e la
ricostruzione delle modalità del sinistro, e la seconda ad assicurare il
necessario soccorso alle persone rimaste ferite, sicché è ravvisabile un
concorso materiale tra le due ipotesi criminose (Sez. 4, n. 25842 del
15/03/2019, Mingrino Pasquale, Rv. 276369; Sez. 4, n. 3783 del 10/10/2014, dep.
2015, Balboni, Rv. 261945).
Sotto altro profilo, premesso che, nei reati di cui all'art. 189 C.d.S., commi 6
e 7, il dolo deve investire non solo l'evento dell'incidente, ma anche il danno
alle persone e, conseguentemente, la necessità del soccorso, che non costituisce
una condizione di punibilità (Sez. 4, n. 17220 del 06/03/2012, Turcan, Rv.
252374; Sez. 4, n. 21445 del 10/04/2006, Marangoni, Rv. 234570; Sez. 4, n. 8103
del 10/01/2003, Fariello, Rv. 223966), deve affermarsi che l'elemento soggettivo
di detti reati ben può essere integrato anche dal semplice dolo eventuale, cioè
dalla consapevolezza del verificarsi di un incidente, riconducibile al proprio
comportamento che sia concretamente idoneo a produrre eventi lesivi, non essendo
necessario che si debba riscontrare l'esistenza di un effettivo danno alle
persone (Sez. 4, n. 33772 del 15/06/2017, Dentice Di Accadia Capozzi, Rv.
271046: in motivazione, la Corte ha osservato che il dolo eventuale, pur
configurandosi normalmente in relazione all'elemento volitivo, può attenere
anche all'elemento intellettivo, quando l'agente consapevolmente rifiuti di
accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo
comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso il rischio).
A cura di Mirko Vicenzotto
«La corretta esecuzione degli accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose
e sulle persone è fondamentale sia per la ricostruzione della
dinamica dell’incidente stradale che per l’individuazione delle responsabilità
[…]»
Da Rilievi di infortunistica stradale (Maggioli Editore)
I rilievi planimetrici della scena del crimine, o di un sinistro in generale, si
eseguono per “congelare” e fissare gli elementi oggettivi che hanno connessione
con il sinistro stradale attraverso la misurazione di tutti gli elementi che
sono stati oggetto di descrizione.
I rilievi vengono eseguiti partendo da una base fissa che dovrà essere
individuabile anche a distanza di tempo e, per permetterne l’individuazione a
posteriori anche da terzi esaminatori, necessita di essere indicata con
precisione.
L’elemento considerato “fisso” del rilievo prende il nome di caposaldo e deve
possedere alcune caratteristiche ben definite, ossia devono essere almeno n. 2
elementi, essere inamovibili, essere indicati e descritti con precisione, non
essere troppo distanti dagli elementi e le tracce da rilevare, essere
individuabili a distanza di tempo. Inoltre, la distanza tra i due caposaldi deve
essere misurata e annotata.
Per prima cosa, quindi, al fine di effettuare il rilievo planimetrico della
scena di un sinistro l’operatore dovrà individuare e definire dei caposaldi dai
quali partirà per effettuare le misurazioni.
Il caposaldo è il primo elemento essenziale da indicare con precisione. E’ un
punto del paesaggio che deve essere “fisso”, stabile, rinvenibile in loco anche
a distanza di anni in quanto i procedimenti penali e civili relativi agli
incidenti possono durare anche parecchi anni. Non si può ad esempio ritenere
“fisso” il bordo asfaltato della strada (basta una riasfaltatura per
modificarlo) e nemmeno la linea di margine della strada. È un punto
sufficientemente stabile lo spigolo di un muretto o, meglio ancora, di un
fabbricato, un cippo ettometrico.
Segnale di progressiva ettometrica
Segnale di progressiva chilometrica
Vecchio cippo chilometrico
Spesso collegare le evidenze rilevate direttamente ai punti fissi può risultare
complicato ed è quindi necessario “creare” dei caposaldi ausiliari riportati a
distanza e posizione opportuna rispetto agli elementi da rilevare, a partire dai
caposaldi individuati inizialmente.
Nel momento in cui si riportano i caposaldi in planimetria e nel report, essi
andranno descritti indicando non solamente il riferimento assegnato (ad. es.
«Caposaldo A» o solamente «A») ma indicando di che elemento si tratta, in modo
tale da facilitare l’individuazione postuma dello stesso. Successivamente, si
procede ad individuare e fissare la posizione topografica di tutti i punti
significativi rispetto ai caposaldi di riferimento, permettendo in questo modo
la realizzazione di un disegno in scala del luogo del sinistro.
Le tecniche utilizzate per effettuare il rilievo degli elementi d’interesse sono
principalmente due:
il sistema della triangolazione (più utilizzata e più precisa)
il sistema delle rette ortogonali (più rapida e speditiva, ma meno precisa).
Sistemi a confronto
Il rilievo planimetrico serve quindi per riportare gli elementi rilevati su
disegno in scala o per ricostruirli nella loro collocazione originaria,
direttamente nell’area teatro, ad esempio, di un incidente stradale. La
riproduzione in scala del campo del sinistro e degli elementi oggettivi su di
esso rilevati, è essenziale per la ricostruzione della meccanica dell’incidente:
gli spazi percorsi dai veicoli durante le fasi d’urto, gli
spostamenti ante e post urto di tutti i corpi che col sinistro hanno attinenza,
vengono misurati attraverso la planimetria che viene realizzata sulla base dei
rilievi planimetrici effettuati sulla scena.
si basa sulla costruzione ed esatta determinazione di tanti triangoli quanti
sono gli elementi da rilevare. A partire da due punti fissi, denominati
caposaldi, che devono essere perfettamente individuabili a distanza di tempo, si
costruisce la base del triangolo. Dagli estremi della base, si eseguono le
misurazioni in modo che l’elemento da fissare costituisca il vertice del
triangolo, i lati del quale sono costituiti dalle misurazioni che congiungono
gli estremi della base all’elemento da misurare. Ciò significa che per ogni
punto da rilevare vanno effettuate le misurazioni da questo elemento ad almeno
due capisaldi, in maniera tale da ottenere un “doppio controllo” per ogni punto
rilevato.
Il sistema della triangolazione è il più laborioso tra i due precedentemente
citati, ma è il più sicuro e preciso. Al momento della realizzazione della
planimetria, a seguito di misurazioni effettuate con il sistema della
triangolazione, qualora ci fossero delle misurazioni errate risulterebbe
evidente sia effettuando il disegno planimetrico a mano sia con un software di
disegno tecnico, in quanto le misure rilevate a partire dai caposaldi non
coinciderebbero.
Durante i rilievi gli operatori riportano le misurazioni su uno schizzo, il c.d.
schizzo di campagna; è importante che vengano precisamente indicate le
misurazioni e gli elementi ai quali esse si riferiscono sullo schizzo di
campagna, per scongiurare il rischio di possibili errori da parte di coloro i
quali avranno successivamente il compito di esaminare il disegno. Se dobbiamo
misurare la larghezza della sola carreggiata, si dovrà indicarlo chiaramente,
altrimenti chi esamina lo schizzo potrà pensare che la misura si riferisca alla
strada e viceversa; si dovrà indicare chiaramente se i veicoli vengono fissati
con riferimento ai mozzi delle ruote o agli spigoli, da quale estremo vengono
rilevati gli elementi misurati, ecc.
È necessario che le interpretazioni, e i conseguenti possibili errori dettati da
tali valutazioni personali, siano evitate nella lettura del disegno e perciò che
le misurazioni dovranno essere, all’occorrenza, supportate da adeguate
annotazioni.
Per utilizzare il metodo delle rette ortogonali, o delle coordinate cartesiane,
occorre partire da un punto fisso, detto caposaldo, dal quale tracciare la base
del sistema. Gli elementi da fissare vengono misurati a partire da specifici
punti della base, mediante la costruzione di tante rette ortogonali che
congiungono i singoli elementi da fissare ai rispettivi punti di origine
collocati sulla base stessa. Naturalmente le distanze fra il caposaldo e i punti
di intersezione fra rette ortogonali e base devono essere misurate.
Utilizzando la tecnica delle rette ortogonali, il rilievo risulta più veloce
rispetto al sistema della triangolazione ma qualora si commettesse un errore
risulterebbe difficile da identificare. Inoltre, potremmo rischiare di
commettere un errore di misurazione in un punto iniziale e “portarci” l’errore
per tutti i punti a seguire, falsando totalmente il rilievo planimetrico e di
conseguenza la ricostruzione della dinamica del sinistro in esame.
In alcuni casi si rende necessario definire alcuni caposaldi ausiliari, che
andranno misurati e posizionati partendo dai caposaldi inizialmente individuati.
I rilievi fotografici costituiscono un aspetto molto importante dell’attività di
indagine, che viene svolta direttamente dagli Operatori di Polizia
nell’immediatezza del fatto. L’importanza è data dal fatto che suddetti rilievi
vengono eseguiti quando lo stato dei luoghi non è modificato, consentendo una
visione generale dell’area del sinistro e degli elementi oggettivi presenti.
Attraverso la riproduzione fotografica è quindi possibile congelare l’intera
scena, informazione che risulterà molto utile a posteriori per i Consulenti
delle parti che per ovvie ragioni non hanno la possibilità di visionare e
fotografare la scena nell’immediatezza del sinistro.
È importante seguire la corretta procedura per la realizzazione del fascicolo
fotografico.
Innanzitutto, la scena dev’essere fotografata nel suo insieme con una panoramica
dell’area di interesse e, quando possibile, anche di angolazioni diverse
(controcampo e ai «lati» della scena). Si procede fotografando dal generale al
particolare, passando dalle fotografie panoramiche della scena alle foto dei
veicoli coinvolti nell’incidente, con ripresa dei particolari, delle
deformazioni, dei danni e ogni ulteriore particolare di interesse.
La rappresentazione fotografica dei veicoli incidentati è importante per
consentire al Consulente sia di verificare quali parti sono entrate in
collisione, sia di accertare la direzione della forza che ha prodotto le
deformazioni con il fine di determinare le traiettorie originarie dei veicoli
negli istanti antecedenti lo scontro. Oltre alla rappresentazione fotografica
degli elementi indicati, ne vengono scattati altri per rappresentare tutti gli
elementi e i particolari che possono avere significativa attinenza con il
sinistro in esame (tracce, detriti ecc.).
Vengono infine realizzati ulteriori scatti per riprendere la conformazione
ambientale e stradale del luogo del sinistro, così da far emergere le
particolarità della zona quali variazioni altimetriche, possibilità di visuale,
ostacoli ecc.
Le fotografie realizzate nell’immediatezza sono quindi importanti perché vedere
l’intera scena dell’incidente consente di avere una prima idea di come possono
essere svolti i fatti, per lo meno in via generale.
Si rivelano spesso fondamentali anche perché permettono di verificare l’esatta
posizione degli elementi fissati con le misurazioni, oltre a poter aiutare in
caso di necessità di ricollocamento degli elementi a seguito di misurazioni
errate.
Oltre agli strumenti classici utilizzati per i rilievi planimetrici – quali
cordella metrica, distanziometro laser, stazione totale, laser scanner,
fotocamere ecc. – oggi vengono utilizzati sempre più gli APR (Aeromobili a
Pilotaggio Remoto, comunemente chiamati droni). L’utilità degli APR sulla scena
di un sinistro è legata alla fotogrammetria, tecnica che permette di acquisire i
dati metrici di un oggetto (forma e posizione) tramite l’acquisizione e
l’analisi di una coppia di fotogrammi stereometrici.
Il fotogramma stereometrico è costituito da una coppia d’immagini fotografiche
ottenute con una camera metrica disposta successivamente in due posizioni tali
da fornire una particolare fotografia stereoscopica, che fa ricorso alla
stereoscopia artificiale e consente, oltre alla visione del modello
tridimensionale, di rilevare forma, posizione e dimensioni dell’oggetto
fotografato.
Con l’ausilio degli APR gli operatori avranno la possibilità di osservare lo
scenario da un punto di vista diverso (dall’alto) rispetto ai rilievi
fotografici classici (da terra) così potendo offrire chiavi di lettura nuove e,
potenzialmente, rinvenire nuovi elementi utili alla ricostruzione dell’evento,
sia che si tratti di un sinistro stradale sia, ad esempio, di uno scenario
d’incendio.
Articolo a cura di Mirko Vicenzotto
Art. 186. * Guida sotto l'influenza dell'alcool.
(Guida sotto l'influenza dell'alcool).
1. E' vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell'uso di bevande
alcoliche.
2. Chiunque guida in stato di ebbrezza è punito, ove il fatto non costituisca
più grave reato:
a) con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma ((da € 543 a €
2.170)), qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso
alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro (g/l).
All'accertamento della violazione consegue la sanzione amministrativa accessoria
della sospensione della patente di guida da tre a sei mesi; (114) (124) (133)
(145) ((163))
b) con l'ammenda da euro 800 a euro 3.200 e l'arresto fino a sei mesi, qualora
sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a
0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro (g/l). All'accertamento del reato
consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione
della patente di guida da sei mesi ad un anno;
c) con l'ammenda da euro 1.500 a euro 6.000, l'arresto da sei mesi ad un anno,
qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico
superiore a 1,5 grammi per litro (g/l). All'accertamento del reato consegue in
ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente
di guida da uno a due anni. Se il veicolo appartiene a persona estranea al
reato, la durata della sospensione della patente di guida è raddoppiata. La
patente di guida è sempre revocata, ai sensi del capo II, sezione II, del titolo
VI, in caso di recidiva nel biennio. Con la sentenza di condanna ovvero di
applicazione della pena su richiesta delle parti, anche se è stata applicata la
sospensione condizionale della pena, è sempre disposta la confisca del veicolo
con il quale è stato commesso il reato, salvo che il veicolo stesso appartenga a
persona estranea al reato. Ai fini del sequestro si applicano le disposizioni di
cui all'articolo 224-ter. (97)
2-bis. Se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, le
sanzioni di cui al comma 2 del presente articolo e al comma 3 dell'articolo
186-bis sono raddoppiate ed è disposto il fermo amministrativo del veicolo per
centottanta giorni, salvo che il veicolo appartenga a persona estranea
all'illecito. Qualora per il conducente che provochi un incidente stradale sia
stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5
grammi per litro (g/1), fatto salvo quanto previsto dal quinto e sesto periodo
della lettera c) del comma 2 del presente articolo, la patente di guida è sempre
revocata ai sensi del capo II, sezione II, del titolo VI. E' fatta salva in ogni
caso l'applicazione dell'articolo 222.
2-ter. Competente a giudicare dei reati di cui al presente articolo è il
tribunale in composizione monocratica.
2-quater. Le disposizioni relative alle sanzioni accessorie di cui ai commi 2 e
2-bis si applicano anche in caso di applicazione della pena su richiesta delle
parti.
2-quinquies. Salvo che non sia disposto il sequestro ai sensi del comma 2, il
veicolo, qualora non possa essere guidato da altra persona idonea, può essere
fatto trasportare fino al luogo indicato dall'interessato o fino alla più vicina
autorimessa e lasciato in consegna al proprietario o al gestore di essa con le
normali garanzie per la custodia. Le spese per il recupero ed il trasporto sono
interamente a carico del trasgressore.
2-sexies. L'ammenda prevista dal comma 2 è aumentata da un terzo alla metà
quando il reato è commesso dopo le ore 22 e prima delle ore 7.
2-septies. Le circostanze attenuanti concorrenti con l'aggravante di cui al
comma 2-sexies non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a
questa. Le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante
dall'aumento conseguente alla predetta aggravante.
2-octies. Una quota pari al venti per cento dell'ammenda irrogata con la
sentenza di condanna che ha ritenuto sussistente l'aggravante di cui al comma
2-sexies è destinata ad alimentare il Fondo contro l'incidentalità notturna di
cui all'articolo 6-bis del decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117, convertito, con
modificazioni, dalla legge 2 ottobre 2007, n. 160, e successive modificazioni.
3. Al fine di acquisire elementi utili per motivare l'obbligo di sottoposizione
agli accertamenti di cui al comma 4, gli organi di Polizia stradale di cui
all'articolo 12, commi 1 e 2, secondo le direttive fornite dal Ministero
dell'interno, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per
l'integrità fisica, possono sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi
non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili.
4. Quando gli accertamenti qualitativi di cui al comma 3 hanno dato esito
positivo, in ogni caso d'incidente ovvero quando si abbia altrimenti motivo di
ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione
psicofisica derivante dall'influenza dell'alcool, gli organi di Polizia stradale
di cui all'articolo 12, commi 1 e 2, anche accompagnandolo presso il più vicino
ufficio o comando, hanno la facoltà di effettuare l'accertamento con strumenti e
procedure determinati dal regolamento.
5. Per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure
mediche, l'accertamento del tasso alcolemico viene effettuato, su richiesta
degli organi di Polizia stradale di cui all'articolo 12, commi 1 e 2, da parte
delle strutture sanitarie di base o di quelle accreditate o comunque a tali fini
equiparate. Le strutture sanitarie rilasciano agli organi di Polizia stradale la
relativa certificazione, estesa alla prognosi delle lesioni accertate,
assicurando il rispetto della riservatezza dei dati in base alle vigenti
disposizioni di legge. Copia della certificazione di cui al periodo precedente
deve essere tempestivamente trasmessa, a cura dell'organo di polizia che ha
proceduto agli accertamenti, al prefetto del luogo della commessa violazione per
gli eventuali provvedimenti di competenza. Si applicano le disposizioni del
comma 5-bis dell'articolo 187.
6. Qualora dall'accertamento di cui ai commi 4 o 5 risulti un valore
corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,5 grammi per litro (g/l),
l'interessato è considerato in stato di ebbrezza ai fini dell'applicazione delle
sanzioni di cui al comma 2.
7. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, in caso di rifiuto
dell'accertamento di cui ai commi 3, 4 o 5, il conducente è punito con le pene
di cui al comma 2, lettera c). La condanna per il reato di cui al periodo che
precede comporta la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della
patente di guida per un periodo da sei mesi a due anni e della confisca del
veicolo con le stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lettera c),
salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione. Con
l'ordinanza con la quale è disposta la sospensione della patente, il prefetto
ordina che il conducente si sottoponga a visita medica secondo le disposizioni
del comma 8. Se il fatto è commesso da soggetto già condannato nei due anni
precedenti per il medesimo reato, è sempre disposta la sanzione amministrativa
accessoria della revoca della patente di guida ai sensi del capo I, sezione II,
del titolo VI.
8. Con l'ordinanza con la quale viene disposta la sospensione della patente ai
sensi dei commi 2 e 2-bis, il prefetto ordina che il conducente si sottoponga a
visita medica ai sensi dell'articolo 119, comma 4, che deve avvenire nel termine
di sessanta giorni. Qualora il conducente non vi si sottoponga entro il termine
fissato, il prefetto può disporre, in via cautelare, la sospensione della
patente di guida fino all'esito della visita medica.
9. Qualora dall'accertamento di cui ai commi 4 e 5 risulti un valore
corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro, ferma
restando l'applicazione delle sanzioni di cui ai commi 2 e 2-bis, il prefetto,
in via cautelare, dispone la sospensione della patente fino all'esito della
visita medica di cui al comma 8.
9-bis. Al di fuori dei casi previsti dal comma 2-bis del presente articolo, la
pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale
di condanna, se non vi è opposizione da parte dell'imputato, con quella del
lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 28
agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste e consistente nella
prestazione di un'attività non retribuita a favore della collettività da
svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell'educazione
stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o
organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri
specializzati di lotta alle dipendenze. Con il decreto penale o con la sentenza
il giudice incarica l'ufficio locale di esecuzione penale ovvero gli organi di
cui all'articolo 59 del decreto legislativo n. 274 del 2000 di verificare
l'effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. In deroga a quanto
previsto dall'articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, il lavoro di
pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva
irrogata e della conversione della pena pecuniaria ragguagliando 250 euro ad un
giorno di lavoro di pubblica utilità. In caso di svolgimento positivo del lavoro
di pubblica utilità, il giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il
reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della
patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato. La decisione è ricorribile
in cassazione. Il ricorso non sospende l'esecuzione a meno che il giudice che ha
emesso la decisione disponga diversamente. In caso di violazione degli obblighi
connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il giudice che procede
o il giudice dell'esecuzione, a richiesta del pubblico ministero o di ufficio,
con le formalità di cui all'articolo 666 del codice di procedura penale, tenuto
conto dei motivi, della entità e delle circostanze della violazione, dispone la
revoca della pena sostitutiva con ripristino di quella sostituita e della
sanzione amministrativa della sospensione della patente e della confisca. Il
lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di una volta.
Art. 142 Codice della Strada
1. Ai fini della sicurezza della circolazione e della tutela della vita umana la
velocità massima non può superare i 130 km/h per le autostrade, i 110 km/h per
le strade extraurbane principali, i 90 km/h per le strade extraurbane secondarie
e per le strade extraurbane locali, ed i 50 km/h per le strade nei centri
abitati, con la possibilità di elevare tale limite fino ad un massimo di 70 km/h
per le strade urbane le cui caratteristiche costruttive e funzionali lo
consentano, previa installazione degli appositi segnali. Sulle autostrade a tre
corsie più corsia di emergenza per ogni senso di marcia, dotate di
apparecchiature debitamente omologate per il calcolo della velocità media di
percorrenza su tratti determinati, gli enti proprietari o concessionari possono
elevare il limite massimo di velocità fino a 150 km/h sulla base delle
caratteristiche progettuali ed effettive del tracciato, previa installazione
degli appositi segnali, sempreché lo consentano l'intensità del traffico, le
condizioni atmosferiche prevalenti ed i dati di incidentalità dell'ultimo
quinquennio. In caso di precipitazioni atmosferiche di qualsiasi natura, la
velocità massima non può superare i 110 km/h per le autostrade ed i 90 km/h per
le strade extraurbane principali.
2. Entro i limiti massimi suddetti, gli enti proprietari della strada possono
fissare, provvedendo anche alla relativa segnalazione, limiti di velocità minimi
e limiti di velocità massimi, diversi da quelli fissati al comma 1, in
determinate strade e tratti di strada quando l'applicazione al caso concreto dei
criteri indicati nel comma 1 renda opportuna la determinazione di limiti
diversi, seguendo le direttive che saranno impartite dal Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti.
Art. 142 Codice della Strada
3. Le seguenti categorie di veicoli non possono superare le velocità
sottoindicate:
a) ciclomotori: 45 km/h;
b) autoveicoli o motoveicoli utilizzati per il trasporto delle merci pericolose
rientranti nella classe 1 figurante in allegato all'accordo di cui all'articolo
168, comma 1, quando viaggiano carichi: 50 km/h fuori dei centri abitati; 30
km/h nei centri abitati;
c) macchine agricole e macchine operatrici: 40 km/h se montati su pneumatici o
su altri sistemi equipollenti; 15 km/h in tutti gli altri casi;
d) quadricicli: 80 km/h fuori dei centri abitati;
e) treni costituiti da un autoveicolo e da un rimorchio di cui alle lettere h),
i) e l) dell'art. 54, comma 1: 70 km/h fuori dei centri abitati; 80 km/h sulle
autostrade;
f) autobus e filobus di massa complessiva a pieno carico superiore a 8 t: 80
km/h fuori dei centri abitati; 100 km/h sulle autostrade;
g) autoveicoli destinati al trasporto di cose o ad altri usi, di massa
complessiva a pieno carico superiore a 3,5 t e fino a 12 t: 80 km/h fuori dei
centri abitati; 100 km/h sulle autostrade;
h) autoveicoli destinati al trasporto di cose o ad altri usi, di massa
complessiva a pieno carico superiore a 12 t: 70 km/h fuori dei centri abitati;
80 km/h sulle autostrade;
i) autocarri di massa complessiva a pieno carico superiore a 5 t se adoperati
per il trasporto di persone ai sensi dell'art. 82, comma 6: 70 km/h fuori dei
centri abitati; 80 km/h sulle autostrade;
l) mezzi d'opera quando viaggiano a pieno carico: 40 km/h nei centri abitati; 60
km/h fuori dei centri abitati.
4. Nella parte posteriore dei veicoli di cui al comma 3, ad eccezione di quelli
di cui alle lettere a) e b), devono essere indicate le velocità massime
consentite. Qualora si tratti di complessi di veicoli, l'indicazione del limite
va riportata sui rimorchi ovvero sui semirimorchi. Sono comunque esclusi da tale
obbligo gli autoveicoli militari ricompresi nelle lettere c), g), h) ed i) del
comma 3, quando siano in dotazione alle Forze armate, ovvero ai Corpi ed
organismi indicati nell'articolo 138, comma 11.
Art. 117 Codice della Strada. Per i primi tre anni dal conseguimento della
patente di categoria A2, A, B1 e B non è consentito il superamento della
velocità di 100 km/h per le autostrade e di 90 km/h per le strade extraurbane
principali. (102)
Art. 142 Codice della Strada. Per la determinazione dell'osservanza dei limiti
di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature
debitamente omologate (AUTOVELOX fisso e mobile, tolleranza 5 % fino a 5 km e
TELELASER), anche per il calcolo della velocità media di percorrenza su tratti
determinati, nonché le registrazioni del cronotachigrafo e i documenti relativi
ai percorsi autostradali, come precisato dal regolamento.6-bis. Le postazioni di
controllo sulla rete stradale per il rilevamento della velocità (TUTOR) devono
essere preventivamente segnalate e ben visibili, ricorrendo all'impiego di
cartelli o di dispositivi di segnalazione luminosi, conformemente alle norme
stabilite nel regolamento di esecuzione del presente codice. Le modalità di
impiego sono stabilite con decreto del Ministro dei trasporti, di concerto con
il Ministro dell'interno.
Autovelox, photored e telelaser, by Comune di Modena
Strumentazione elettronica omologata consente l'accertamento di alcune delle
violazioni più pericolose alle norme del Codice della Strada.
L'aumentare negli anni del flusso veicolare ha reso necessario l'utilizzo della
tecnologia per il controllo della circolazione stradale. In particolare, la
strumentazione elettronica omologata consente l'accertamento di alcune delle
violazioni più pericolose alle norme del Codice della Strada quali
l'attraversamento di incrocio con semaforo rosso ed il mancato rispetto dei
limiti di velocità.
Il dispositivo può essere collocato sia in postazione fissa che in postazione
mobile, con o senza contestazione immediata della violazione; in entrambi i
casi l'utilizzo di tali apparecchi di controllo viene reso noto mediante
apposita segnaletica conforme alle disposizioni ministeriali.
Il Telelaser è un rilevatore di velocità istantanea utilizzato dalle Forze
dell'Ordine per controllare la velocità dei veicoli in strada.
Lo strumento emette verso il veicolo una serie di impulsi Laser in banda
infrarossa (invisibile ad occhio nudo), legge l’eco riflessa dal veicolo per
ciascun impulso ed in base al tempo intercorso ne misura dapprima la distanza, e
quindi elaborando una serie di letture calcola la velocità del veicolo stesso.
Contrariamente all’Autovelox, la modalità di contestazione della violazione
mediante Telelaser non prevede il rilascio al trasgressore di scontrino o
documentazione fotografica; quindi, fa fede l’accertamento dell’agente di
polizia stradale. Secondo le disposizioni ministeriali lo strumento deve essere
ben visibile, adeguatamente segnalato e presidiato da un agente accertatore.
Il Photored permette l’accertamento dell’attraversamento di un'intersezione
semaforizzata con luce rossa dell’impianto fornendo due immagini in rapida
sequenza della violazione che testimoniano l’effettivo proseguire la marcia del
veicolo ripreso; anche in questo caso il dispositivo è presegnalato da apposito
cartello informativo verticale.
Il Velocar permette di rilevare automaticamente i passaggi con il rosso,
fornendo la possibilità di immagini fotografiche e video dei veicoli prima e
dopo la linea d’arresto e consente il riconoscimento automatico della targa
anche di notte.
Ma vi siete mai chiesti come funzionano i tutor? Tutor: funziona così. A
differenza di altri sistemi come autovelox e telelaser, che misurano la velocità
dell'auto in un dato istante, il sistema tutor calcola la velocità media su un
tratto di autostrada compreso tra due portali, lungo in genere tra i 10 e 25 km.
è prevista una condanna che va 6 mesi a 3 anni di reclusione mentre per
l’omissione di soccorso da 1 a 3 anni di reclusione.
fuga ed omissione di soccorso Art 189 |
|
Reato di Fuga |
Arresto in flagranza
Reclusione da 6 mesi a tre anni
Sospensione Patente da 1 anno a 3 anni, revoca ubriaco-drogato 10
punti |
Reato di omissione di soccorso |
Arresto in flagranza
Reclusione da 1 a 3 anni
Sospensione Patente da 1 anno e 6 mesi a 5 anni, revoca ubriaco-drogato
10 punti |
Superamento limiti di velocità Art 142 |
Importo sanzione |
Fino a 10 km/h |
Da 42 a 173 euro |
Da 10 a 40 km/h |
Da 173 a 694 euro
-
5 punti patente |
Da 40 a 60 km/h |
Da 543 a 2.170 euro
Sospensione patente da 1 a 3 mesi
-
10 punti patente |
Oltre 60 km/h |
Da 845 a 3.382 euro
Sospensione patente da 6 a 12 mesi
-
10 punti patente |
|
Per i neopatentati il doppio punti |
Tasso alcolemico Art. 186 |
Importo sanzione |
0-0,5 g/l per patentati speciali |
Da 164 a 664 euro
Da 328 a 1326 con incidente
-
5 punti |
0,5 e 0,8 g/l |
Da 708 a 2833 euro
sospensione patente da 4 a 8 mesi
-
10 punti dalla patente |
0,8 e 1,5 g/l |
ammenda da 800 a 3.200 euro
arresto - 6 mesi
sospensione patente da 6 mesi ad 1 anno.
-
10 punti dalla patente |
superiore a 1,5 g/l |
ammenda da 1500 a 6000 euro
arresto da 6 mesi ad un anno
sospensione patente da 1 a 2 anni
sequestro preventivo e confisca del veicolo
10 punti dalla patente |
Sanzione aumentata da un terzo alla metà se commesso tra le 22 e le 7
Sanzione raddoppiata
in caso di incidente + fermo del veicolo 180 giorni
se il veicolo appartiene a terzi
Revoca patente
se speciale
recidivo nel biennio
Art. 142 Codice della Strada
Violazione limiti di velocità
0 -10 da € 42 a € 17310,
-40 da € 173 a € 694 e 5 punti,
40-60 da € 543 a € 2.170 e 10 punti + sanzione amministrativa accessoria della
sospensione della patente di guida da uno a tre mesi Quando il titolare di una
patente di guida sia incorso, in un periodo di due anni, in una ulteriore
violazione del comma 9, la sanzione amministrativa accessoria è della
sospensione della patente da otto a diciotto mesi,
+ 60 da € 845 a € 3.382 e 10 punti e sanzione amministrativa accessoria della
sospensione della patente di guida da sei a dodici mesi. Quando il titolare di
una patente di guida sia incorso, in un periodo di due anni, in una ulteriore
violazione del comma 9-bis, la sanzione amministrativa accessoria è la revoca
della patente. Se le violazioni di cui ai commi 7, 8, 9 e 9-bis sono commesse
alla guida di uno dei veicoli indicati al comma 3, lettere b), e), f), g), h),
i) e l) le sanzioni amministrative pecuniarie e quelle accessorie ivi previste
sono raddoppiate.
Test superfici e polveri
Test palloncino
Etilometro omologato
Test salivare
Test urina sanitario
Test sangue sanitario
L'accertamento etilometrico misura la quantità di alcol (espressa in
milligrammi) per litro di aria espirata (mg/l).
L'esame del sangue, invece, rileva la quantità di alcol (espressa in grammi) per
chilo di sangue (g/kg = per mille).
PRE TEST – ALCOSENSOR FST - un precursore del misuratore speditivo di tasso
alcolemico
La Polizia Municipale si avvale anche di un ulteriore strumento portatile,
veloce, semplice ed efficace per la misura del tasso alcolemico di un soggetto
durante i controlli di pattuglia.
Lo strumento è in grado di rilevare la quantità di alcool ingerita, attraverso
il respiro in modo diretto o passivo.
Si tratta di uno strumento di più facile e pratico utilizzo rispetto
all’etilometro, una sorta di precursore che non richiede nessuna omologazione,
ma ugualmente in grado di rilevare la presenza di alcool nei vapori di soluzioni
liquide. L’esito di tali accertamenti, infatti, non costituisce in sé prova di
guida in stato di ebbrezza, ma rende solo legittimo il successivo accertamento
con etilometro omologato, in caso di esito positivo di test preliminare.
E’ dotato di una cella elettrochimica brevettata che genera una reazione
elettronica proporzionale alla concentrazione di alcool nel respiro; questa
cella è progettata esclusivamente per l’alcool. Rende un risultato della misura
in un tempo variabile tra i 3 e i 15 secondi ed è disponibile per una successiva
misura in 10 secondi. Lo strumento soddisfa la normativa CE della Comunità
Europea. E’ progettato per raccogliere misure dirette dal respiro umano
attraverso un boccaglio brevettato, misure passive su soggetti inconsci
attraverso la coppa riutilizzabile e rilievo di vapori d’alcool attraverso lo
“Sniffer” riutilizzabile.
Guida completa all'alcoltest: come funziona e quando può sbagliare
di Roberto Ruocco
1. Cos'è l'alcoltest?
L'alcoltest è uno dei vari test utilizzati per misurare la concentrazione di
alcol nel sangue di una persona, comunemente espressa in grammi per decilitro
(g/dL) o milligrammi per millilitro (mg/mL).
È uno strumento fondamentale per valutare l'ubriachezza o l'intossicazione
alcolica di un individuo e viene normalmente utilizzato dalle forze di polizia
per verificare la presenza di alcol nel sangue di chi è coinvolto in incidenti
stradali o sottoposto a controlli durante la guida.
2. Quanti tipi di alcoltest esistono?
Esistono diversi tipi di alcoltest, tra cui:
Alcoltest con l'etilometro: È lo strumento più comune e utilizzato dalla polizia
per misurare la concentrazione di alcol nell'aria espirata da una persona.
L'etilometro stima la concentrazione di alcol nel sangue basandosi sulla
quantità di alcol nell'aria espirata.
Esame del sangue: È sicuramente il metodo più accurato e preciso per misurare la
concentrazione di alcol nel sangue. Ma anche il più invasivo. Un campione di
sangue viene prelevato e analizzato in laboratorio per determinare la
concentrazione di alcol. Spesso viene utilizzato in caso di incidenti stradali,
quando non è possibile utilizzare l'etilometro.
Alcoltest con la saliva: Questo metodo misura la concentrazione di alcol nella
saliva ed è meno invasivo rispetto all'esame del sangue. Tuttavia, è meno
preciso rispetto all'esame del sangue.
Alcoltest tramite urine: Misura la concentrazione di alcol nelle urine. Anche
questo è meno preciso rispetto all'esame del sangue e viene usato in rari casi.
3. L'etilometro può sbagliare?
Come si è detto, l'etilometro è il principale strumento utilizzato dalle forze
dell'ordine per verificare se una persona stava guidando sotto l'influenza
dell'alcol, ma i risultati di questo test non sono sempre accurati.
Sì, l'etilometro può sbagliare.
In molti casi, la mancata manutenzione del dispositivo, le condizioni di salute
e persino una particolare dieta possono portare l'etilometro a risultati
imprecisi o addirittura falsati.
3.1 Etilometro non calibrato correttamente
Gli etilometri sono dispositivi abbastanza complessi ed un malfunzionamento o la
mancata revisione possono incidere in modo significativo sui risultati di un
test alcolemico.
Per questo motivo, le forze dell'ordine sono tenute a far controllare e
calibrare regolarmente questi dispositivi.
Inoltre, le forze dell'ordine devono seguire linee guida e procedure rigorose
durante la somministrazione del test.
Se non lo fanno, i risultati del test alcolemico potrebbero essere messi in
discussione nel corso del processo.
Pertanto, è utile annotare quanto prima tutto ciò che si ricorda.
3.2 Presenza di alcol nella bocca
Il tuo sistema digestivo può alterare i risultati di un test alcolemico.
Quando alcuni alimenti rimangono incastrati tra i denti, in particolare quelli
dolci o ricchi di amido, i batteri presenti nella bocca possono produrre il
fenomeno chiamato "alcol orale".
Chiaramente, stiamo parlando di un livello di alcol basso, ma poiché si trova
nella tua bocca può sicuramente distorcere i risultati di un test alcolemico.
Inoltre, anche una dieta a basso contenuto di carboidrati può innescare un falso
positivo nel test dell'etilometro.
Ed invero, una dieta povera di carboidrati può aumentare il livello di chetoni
nel tuo corpo, distorcendo significativamente i risultati dell'alcoltest.
3.3 Una condizione di salute preesistente
Alcune condizioni di salute possono determinare una falsa lettura
dell'etilometro, la più comune delle quali è il reflusso acido.
Se soffri di GERD, bruciore di stomaco o reflusso acido, il tuo corpo può
rigurgitare gas dallo stomaco e quando questi gas si mescolano con l'aria nei
polmoni, possono causare un falso positivo nel test dell'etilometro
Quando la Polizia Locale può utilizzare l'etilometro?
Gli organi di polizia stradale possono sottoporre ad accertamento tecnico con
etilometro il conducente di un veicolo soltanto quando ricorre almeno una delle
seguenti condizioni:
1.
è stato effettuato con esito positivo un accertamento preliminare anche
attraverso apparecchi portatili (pre-test);
2.
in ogni caso in cui il conducente sia rimasto coinvolto in un incidente
stradale;
3.
quando si abbia motivo di ritenere che il conducente si trovi in stato di
alterazione psico-fisica derivante dall’influenza dell’alcol.
In presenza di almeno una di queste condizioni il conducente, su richiesta
dell’operatore di polizia stradale, ha l’obbligo di sottoporsi ad accertamento
mediante etilometro.
ALCOLTEST – L’alcotest in seguito al sinistro stradale: quanto tempo dopo?
di R. Pullara polizialocale.com
Come noto, l’art. 186 del codice della strada concede (al comma 4) agli agenti
di polizia la facoltà di effettuare l’accertamento etilometrico “in ogni caso
d’incidente ovvero quando si abbia altrimenti motivo di ritenere che il
conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione psico-fisica derivante
dall’influenza dell’alcool”.
Tale disposizione, per la genericità della sua formulazione, non richiede che il
conducente da sottoporre a controllo sia anche quello che ha provocato il
sinistro. Si potrà, quindi, procedere alla verifica indipendentemente dalla
responsabilità dell’incidente, nonché dalla presenza o meno di feriti in
conseguenza dell’occorso. Addirittura, la facoltà concessa all’agente
accertatore prescinde dalla manifestazione di indizi sintomatici dello stato di
ebbrezza.
Sin qui tutto chiaro.
Ma, come risaputo, giunti sul luogo di un sinistro, si presentano agli operatori
una molteplicità di incombenti, dalla necessità di assicurare assistenza agli
eventuali feriti alle attività volte alla ricostruzione della dinamica degli
eventi e al ripristino delle normali condizioni di viabilità stradale. Tutte
attività che necessitano di tempo e che fanno slittare il momento in cui può
finalmente procedersi alla prova tramite etilometro o mediante analisi mediche.
Proprio di questo aspetto vogliamo adesso occuparci.
In caso di esito positivo del test alcolimetrico, sempre più di frequente la
strategia difensiva dell’indagato risulta volta a contestare – sia in sede
penale che in sede di opposizione al provvedimento di sospensione della patente
adottato dal Prefetto – la tempistica di effettuazione della suddetta prova la
quale, eseguita a distanza di tempo dal sinistro, avrebbe di per ciò solo
fornito un risultato alterato e comunque non corrispondente al reale stato di
alterazione al momento del fatto. È invero ormai anche noto alla generalità dei
cittadini che, in base ai meccanismi che presiedono all’assorbimento e
smaltimento dell’alcool nell’organismo, il tasso alcolemico varia con il decorso
del tempo seguendo una “curva” che sale in progressione nei momenti
immediatamente seguenti l’assunzione fino a raggiungere un picco, per poi
discendere.
Facendo applicazione di tali concetti sono perciò assurte agli “onori” della
cronaca alcune pronunce di merito in cui addirittura è stata esclusa la
responsabilità del trasgressore.
Tra queste, ci riferiamo in primis alla sentenza n. 1644 del 7.10.2010 resa dal
Giudice di Pace di Galatina. Ivi, è stata annullata l’ordinanza prefettizia di
sospensione della patente di guida in quanto il tempo trascorso tra il momento
dell’incidente e quello dell’accertamento del tasso alcolemico “toglie ogni
certezza giuridica all’accertamento effettuato, poiché non può con sicurezza
affermarsi che al momento del verificarsi del sinistro il ricorrente avesse già
trasgredito la norma di cui all’art. 186 c.d.s.”. Nel caso di specie erano
trascorse circa tre ore fra il sinistro e l’esame effettuato presso la struttura
sanitaria. Ma, si badi bene, l’accoglimento dell’opposizione viene giustificata
asserendo che, in tale arco temporale, il trasgressore “ha avuto la possibilità
di assumere liberamente sostanze alcoliche di vario genere”.
L’altra pronuncia è quella resa dal Tribunale di Brescia, sez. dist. di Salò in
data 10.12.2010 (dep. 14 gennaio 2011), n. 173. Anche in questo caso gli esami
venivano espletati decorsi almeno quaranta minuti dopo il fermo. Per tali
motivi, alla luce dei criteri di funzionamento della c.d. “curva alcolemica”, ne
deriva che “non è possibile prescindere dal metabolismo dell’etanolo, destinato
a giocare un ruolo di concreto ponderante soprattutto nei casi in cui non si è
in grado di comprendere se al momento del prelievo del sangue l’organismo si
trovasse nella fase ascendente della curva alcolemica, ovvero in quella
discendente, con il precipitato per il quale non si avrebbe mai la prova sicura
dell’entità concreta dell’intossicazione al momento della conduzione del mezzo,
prova che – come noto – è necessaria ed imprescindibile al fine di collocare il
fatto di reato in una delle tre ipotesi delittuose alternative create dal
legislatore del 2007”. Non potendo quindi determinare con certezza la fascia di
rilevanza penale in cui oggettivamente collocare il tasso alcolico rilevato
(nella fattispecie 1,18 g/l nella prima misurazione e 1,04 g/l nella seconda),
la violazione viene quindi ricondotta, giusto il principio del favor rei,
nell’ambito della fascia di cui alla lett. a) dell’art. 186 con conseguenze
assoluzione “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato” in virtù
dell’intervento di depenalizzazione di cui alla legge n. 120/2010.
In quali casi è possibile rifiutare di sottoporsi all’alcool test.
Di redazione il Salvagente
È possibile rifiutare di sottoporsi all’alcool test?
Certo, è possibile, ma il conducente non ne trae alcun beneficio. Per chi si
rifiuti di sottoporsi all’alcool test è prevista la massima tra le sanzioni
penali previste.
Sottoporsi all’alcool test, qualora la richiesta sia legittima, è obbligatorio
in linea teorica. Diciamo “in linea teorica” perché non è prevista alcuna
coercizione fisica perché il conducente si sottoponga all’alcool test, motivo
per il quale può a tutti gli effetti rifiutare. Bisogna sapere, però, che,
qualora la richiesta delle autorità sia da considerarsi legittima, rifiutare di
sottoporsi all’alcool test costituisce reato (articolo 186, comma 7, Codice
della Strada), punibile con l’ammenda e la detenzione da 6 mesi a 1 anno.
Quando può essere richiesto l’alcool test?
Gli organi di Polizia stradale possono procedere all’accertamento mediante
l’etilometro (anche accompagnando il conducente presso il più vicino ufficio o
comando) quando:
1.
abbiano sottoposto i conducenti ad accertamenti qualitativi non invasivi o a
prove, anche attraverso apparecchi portatili, e tali accertamenti abbiano dato
esito positivo. Per l’accertamento della guida in stato di ebbrezza vi è quindi,
solitamente, un’iniziale valutazione complessiva del guidatore. Il corretto
modus operandi prevede che la fase di accertamento del superamento della soglia
alcolemica avvenga per gradi, partendo da un controllo “qualitativo”, per il
tramite di “figure sintomatiche”. Limitandosi ad osservare il conducente del
veicolo gli agenti possono ritenere che il soggetto in questione abbia assunto
alcool. Se dovessero emergere elementi rilevanti dovranno essere indicati nel
verbale;
2. in ogni caso d’incidente;
4.
quando si abbia motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi in
stato di alterazione psicofisica derivante dall’influenza dell’alcool.
Se invece i conducenti sono coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle
cure mediche, l’accertamento del tasso alcolemico viene effettuato, su richiesta
degli organi di Polizia stradale, dalle strutture sanitarie di base o da quelle
accreditate/ a tali fini equiparate. Le strutture sanitarie rilasciano agli
organi di Polizia stradale la relativa certificazione, estesa alla prognosi
delle lesioni accertate.
L’accertamento dello stato di ebbrezza avviene tramite apposito
strumento, l’etilometro, anche gergalmente conosciuto come “test del
palloncino“. Lo scopo è quello di
analizzare l’aria alveolare espirata con l’apparecchio traducendolo, con una
formula matematica, nel tasso corrispondente che in quel momento è in
circolazione nell’organismo.
Il risultato appare immediatamente visibile sul display dello strumento ed è
espresso da un numero decimale, che indica il valore in grammi dell’alcol
presente in ogni litro di sangue.
Cosa accade, concretamente, se ci si rifiuta di sottoporsi all’alcool test?
La legge prevede che, al conducente che si rifiuti di sottoporsi all’alcool
test, si applichi la sanzione più grave delle due ipotesi rientranti nel penale.
La sua condotta viene pertanto, a tutti gli effetti, assimilata a quella di chi
viene trovato con il tasso alcolemico più alto. Ma quali sono le soglie e le
sanzioni previste dalla legge?
da 0,51 a 0,8 g/l-pena principale: sanzione amministrativa di 531 €
-pena accessoria: decurtazione di 10 punti dalla patente / sospensione patente
da 3 a 6 mesi;
da 0,81 a 1,5 g/l-pena principale: ammenda da 800 a 3.200 €
-pena accessoria: decurtazione di 10 punti dalla patente / sospensione patente
da 6 a 12 mesi;
da 1,5 g/l in poi-pena principale: ammenda da 1.500 a 6.000 €
-pena accessoria: decurtazione di 10 punti dalla patente /sospensione della
patente da 1 a 2 anni; confisca dell’auto.
Gli importi di queste ammende sono aumentati da un terzo alla metà nei casi di
guida di notte, tra le 22 e le 7.
Mentre nel primo caso, quindi, ci troviamo di fronte una sola sanzione
amministrativa, negli ultimi due scatta il reato di guida in stato di ebbrezza.
Per “stato di ebbrezza” si intende una condizione di alterazione psico-fisica
conseguente all’assunzione di sostanze alcoliche, in grado di modificare il
comportamento dei soggetti che si trovano in tale condizione. La conseguenza di
tale stato è una percezione distorta della realtà, un peggioramento delle
facoltà intellettive e un rallentamento dei riflessi, combinazione evidentemente
molto pregiudicante nel momento in cui ci si metta alla guida di un veicolo.
Nonostante si tenda spesso a fare confusione con il similare concetto di
“ubriachezza”, quest’ultima viene considerata come temporanea alterazione
mentale conseguente a intossicazione per abuso di alcool e si manifesta con il
difetto della capacità di coscienza. È, a tutti gli effetti, una condizione di
“ebbrezza estrema”.
Pur considerando che rifiutare di sottoporsi all’alcool test rappresenta reato,
forse non tutti conoscono il concetto di “tenuità del fatto” introdotto più o
meno recentemente nel codice penale. Vediamolo nel dettaglio.
La particolare tenuità del fatto
Il meccanismo di “tenuità del fatto” riguarda i reati penali con pena inferiore
ai 5 anni (con o senza sanzione pecuniaria), che può essere di fatto applicato a
colui che rifiuti di sottoporsi all’alcool test. Viceversa, il principio di
tenuità del fatto non può essere applicato a coloro che vi si siano sottoposti e
abbiano ottenuto un tasso “minimo” (fino a 0.8 g/l), per la cui ipotesi è
prevista la sola sanzione amministrativa, rappresentando un autentico paradosso
del sistema giudiziario. La tenuità del fatto prevede in sostanza
l’archiviazione immediata del procedimento e la mancata applicazione della pena,
nonostante la fedina penale rimane comunque intaccata. La Corte Suprema ha
concretamente stabilito che chi rifiuta l’alcool test può comunque beneficiare
della giustificazione per “tenuità del fatto” (definita dai tecnici del diritto
“causa di non punibilità”) e, così, vedere archiviato il proprio fascicolo. Nel
caso in cui un conducente rifiuti di collaborare, pertanto, le Sezioni Unite
della Cassazione prevedono che:
nulla esclude che si possa applicare a tale soggetto la “particolare tenuità del
fatto”;
se ha commesso un incidente, per quanto si applichi la sanzione più grave delle
tre, non scatta anche l’aggravante prevista per chi, messosi alla guida in stato
di ebbrezza, provoca un sinistro stradale.
Le circostanze andranno valutate, quindi, caso per caso. È chiaro che l’aver
riscontrato i sintomi tipici dell’ebbrezza, congiuntamente al rifiuto di
sottoporsi all’alcool test, potrebbero bastare per il mancato riconoscimento
della tenuità del fatto. Com’è ampiamente concordato in giurisprudenza, ormai,
lo stato di ebbrezza alcolica può essere di fatto determinato anche senza una
verifica strumentale (esami del sangue o etilometro).
Quando è possibile contestare i risultati di un alcool test?
Tenendo presente che il risultato positivo dell’etilometro costituisce prova
certa della sussistenza dello stato di ebbrezza, è possibile contestare in
alcuni casi i risultati del test. La difesa dell’imputato potrà infatti fornire
prove contrarie al test, con riferimento ad eventuali irregolarità nelle
operazioni o nella verbalizzazione, difetti nello strumento utilizzato o
l’assunzione da parte del guidatore di farmaci ad elevata componente
alcolica idonea ad influenzare l’esito del test.
In quanto alle irregolarità, bisogna in primo luogo sapere che la polizia
giudiziaria, previa somministrazione dell’alcool test, deve dare avviso alla
persona sottoposta alle indagini della facoltà di farsi assistere da un
difensore di fiducia (ai sensi dell’art.114 c.p.p.). Tale avviso deve essere
fornito anche qualora, in seguito a sinistro stradale, l’alcool test venga
eseguito dagli operatori di una struttura sanitaria come atto urgente richiesto
dalla polizia giudiziaria in modo che non gli venga mai negato il suo diritto
alla difesa. Se, viceversa, gli operatori sanitari svolgono autonomamente il
test secondo il protocollo di pronto soccorso della struttura ospedaliera, non
sussiste alcun obbligo di avviso al paziente. I risultati del prelievo ematico
saranno, comunque, utilizzabili nel processo per l’accertamento del reato.
Bisogna tener presente che, in ogni caso, la polizia non è tenuta ad attendere
l’arrivo del legale, anche qualora questi sia stato informato e intenda
partecipare. Di fatto, come più volte è stato chiarito in merito, l’alcool test
è un atto di polizia giudiziaria urgente e indifferibile e impone agli agenti di
procedere con tempestività, pur dando avviso alla persona che vi sia sottoposta
della facoltà di farsi assistere da un difensore. La necessità di procedere
immediatamente è legata al fatto che il tasso alcolemico tende, naturalmente, a
subire variazioni nel tempo; l’attesa prolungata di un difensore potrebbe
inficiare la validità del test. La Suprema Corte ha tuttavia precisato che
«questo naturalmente non preclude all’indagato, preavvertito della facoltà, di
mettersi in contatto con il difensore, di chiedere e ricevere i consigli del
caso; né impedisce al difensore di essere presente all’accertamento, se, ad
esempio, si trovi nelle vicinanze del luogo in cui si stia procedendo al
medesimo e sia in grado di intervenire nello spazio di pochi minuti e di
esercitare la difesa, ad esempio richiedendo la verbalizzazione di eventuali
osservazioni riguardanti i presupposti e le modalità di esercizio del potere da
parte degli organi di polizia”.
Le Autorità che intendano sottoporre un utente della strada all’esame
dell’alcool hanno inoltre l’obbligo di effettuare due verifiche ad intervallo
almeno di cinque minuti l’una dall’altra e considerare rilevante quello
riportante il valore inferiore.
Altre due questioni di cruciale importanza nella contestazione di un alcool test
positivo riguardando i costrutti di omologazione e taratura, punti su cui si è
ampiamente espressa la Cassazione. Citandola: “qualsiasi strumento di misura,
specie se elettronico, è soggetto a variazioni delle sue caratteristiche e
quindi a modifiche dei valori misurati dovute ad invecchiamento delle proprie
componenti e ad eventi quali urti, vibrazioni, shock meccanici e termici,
mutamenti della tensione di alimentazione”, eventualità che rendono
intrinsecamente irragionevole l’esonero delle apparecchiature da verifiche
periodiche.
Mancata omologa
Ogni apparecchio elettronico, sia esso di controllo della velocità che del tasso
di alcool nel sangue, deve essere oggetto di una verifica preliminare, anteriore
al suo primo utilizzo. Tale procedura viene definita omologa (o omologazione), e
il suo scopo è verificare che lo strumento sia conforme alle caratteristiche
tecniche fissate dalla legge e, quindi, sia in grado di funzionare
correttamente.
Spetta al produttore dell’etilometro chiedere al Mit (Ministero dei Trasporti)
l’omologazione. In seguito, viene effettuata una verifica il cui esito positivo
è imprescindibile per la concessione dell’omologa del prototipo. Da quel momento
in poi, in caso di avvenuta omologa, le forze di polizia potranno acquistare
l’etilometro e assumerlo nella propria dotazione d’impiego. Le conseguenze sono
importanti: se manca l’omologa o questa viene smarrita la multa con l’alcool
test è nulla. Prima di depositare il ricorso, quindi, è necessario presentare
un’istanza di accesso agli atti amministrativi presso l’organo che ha elevato
l’infrazione chiedendo di visionare il certificato di omologa. Altro punto
fondamentale: l’omologa deve essere concessa all’effettivo produttore, e non ad
un soggetto diverso che abbia poi ceduto la licenza a terzi.
Mancata taratura
Un secondo sistema per contestare la multa per guida in stato di ebbrezza
ricorre quando l’alcool test non è stato sottoposto a controllo periodico di
funzionalità, la sua cosiddetta “taratura“. Un’importante sentenza della Corte
Costituzionale ha chiarito bene questo punto, sostenendo che tutti gli strumenti
elettronici in dotazione della polizia devono essere sottoposti, almeno una
volta l’anno (salvo diverse istruzioni contenute nel manuale d’uso rilasciato
dal costruttore) ad un check-up. Questo controllo viene appunto chiamato
«taratura». Senza la taratura, la multa è illegittima e può essere contestata.
Non basta, però, che lo strumento sia stato sottoposto a taratura; il verbale
deve infatti riportare quando è avvenuta l’ultima taratura, in modo da
consentire all’automobilista di verificare se la stessa ha rispettato la cadenza
annuale stabilita dai giudici.
Similmente a quanto accade per autovelox, vige una regola ferrea: gli apparecchi
utilizzati per la sicurezza nella circolazione stradale devono essere sempre
efficienti. La conseguenza immediata è che, se nel giudizio di opposizione alla
sanzione il conducente multato contesta il funzionamento del dispositivo, spetta
all’amministrazione dimostrare le revisioni periodiche effettuate.
Di fronte alla contestazione dell’automobilista, spetta all’amministrazione
dimostrare di aver compiuto le attività strumentali indicate dalla Consulta
perché la circostanza rientra nel cosiddetto “fatto costitutivo della pretesa
sanzionatoria“.
GUIDA IN STATO DI EBBREZZA, MODALITÀ DI ACCERTAMENTO E NATURA DELL’ESAME
ALCOLIMETRICO.
Pietro MOLINO
Precisate le modalità operative per la verifica della guida in stato di ebbrezza
e sotto l’influenza di droghe: con la recente circolare n. 300/A/1/42175/109/42
del 29 dicembre 2005, il Ministero dell’Interno fornisce le opportune
indicazioni per uniformare lo svolgimento delle fasi procedurali - disegnate
dalle norme e assegnate alla responsabilità degli organi di polizia stradale –
per l’accertamento dello stato di ebbrezza alcolica e da sostanze stupefacenti.
Tralasciando le problematiche relative a tale seconda evenienza, in questa sede
meritano qualche approfondimento le disposizioni ministeriali in tema di
accertamento della guida in stato di ebbrezza, anche in relazione alla questione
ancora aperta – stante la perdurante assenza di un consolidato approdo
interpretativo - in ordine alla natura e al regime processuale dell’accertamento
del tasso alcolemico mediante utilizzo dell’etilometro. L’accertamento della
guida in stato di ebbrezza. Come noto, a seguito della entrata in vigore del
Decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151, convertito in Legge 1 agosto 2003, n. 214,
sono state introdotte sostanziali modifiche all’art. 186 del Codice della
Strada. Ispirato alla finalità di contenere il fenomeno dei drunk drivers, il
legislatore non è intervenuto sulla definizione del reato di guida in stato di
ebbrezza da alcool, scegliendo invece di mutare in maniera significativa i
presupposti e le modalità del suo accertamento. La nuova formulazione dei commi
3 e 4 consente ora all’organo di polizia di imporre al conducente accertamenti
sulla presenza di alcool nel sangue, anche in assenza di evidenti indici
sintomatici caratteristici: al solo scopo di acquisire elementi utili per
motivare l’obbligo di un controllo con l’etilometro, la nuova disposizione
dell’art. 186, comma 3 C.d.S. stabilisce infatti che gli organi di polizia
stradale possano sottoporre tutti i conducenti ad accertamenti qualitativi non
invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili. Si tratta di
accertamenti e di prove che ben possono essere svolti nel luogo in cui il
conducente viene fermato per il controllo, ma a condizione che sia garantito il
rispetto della riservatezza personale e dell’integrità fisica: resta escluso –
allora - che gli accertamenti e le prove possano consistere in esami clinici o
di laboratorio sul sangue prelevato al conducente, sia pure in presenza di
personale medico opportunamente attrezzato con laboratori mobili. (*) Commento a
Circolare Ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, n.
300/A/1/42175/109/42 del 29 dicembre 2005. (**) Magistrato, Tribunale di
Grosseto. 2 NOTE E’ dunque consentito agli organi di polizia stradale, in
occasione di controlli ordinari ovvero a campione, di richiedere a tutti i
conducenti fermati di sottoporsi a questo tipo di accertamenti preliminari,
anche se essi non manifestino sintomi tipici d’abuso di alcool. Ma in che cosa
consistono tali accertamenti preliminari? Garantendo il carattere non invasivo
dell’esame e la riservatezza personale, la gamma dei metodi utilizzabili può
essere molto ampia: si va dai già conosciuti test comportamentali (prove di
coordinazione psicomotoria o di linguaggio) alla utilizzazione di apparecchi
portatili in grado di rilevare la presenza di alcool senza arrivare ad una
quantificazione del valore. Occorre precisare che per tali strumenti,
diversamente dagli etilometri, non è richiesta omologazione secondo le procedure
previste dall’art. 379 del Regolamento di esecuzione e di attuazione del Codice
della Strada: e ciò proprio in quanto l’eventuale esito positivo degli
accertamenti con apparecchi portatili non costituisce fonte di prova per
l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza alcolica, ma rende solo
legittimo il successivo accertamento tecnico più accurato mediante etilometro,
in grado di certificare, a fini legali, il valore del tasso alcolemico nel
sangue. Il controllo mediante etilometro – dunque – scatta non solo, come
avveniva in vigenza della precedente formulazione, in presenza di un incidente
stradale ovvero della manifestazione di presumibili segni di ebbrezza alcolica,
ma anche allorquando gli accertamenti o le prove preliminari abbiano espresso un
esito positivo: in tutti questi casi gli organi di polizia stradale hanno la
facoltà di effettuare direttamente sul posto un esame con gli strumenti e le
procedure indicate nel citato Regolamento di esecuzione (cioè appunto con gli
apparecchi per la misurazione dell’area alveolare espirata) oppure, se questi
non sono disponibili e non possano essere fatte giungere sul luogo unità
appositamente attrezzate, possono disporre - sempre al medesimo fine -
l’accompagnamento del conducente presso il più vicino ufficio di Polizia. E’
opportuno ricordare che la norma non consente di disporre l’accompagnamento
coattivo della persona che rifiuti l’esame con l’etilometro: in questa ultima
ipotesi, tuttavia, saranno applicate a carico dell’utente le sanzioni penali
previste per il rifiuto. Per tali motivi la facoltà di accompagnare il
conducente non richiede l’espletamento di formalità o l’attivazione di garanzie
difensive. Inoltre, atteso il ragionevole sospetto che la persona si trovi in
stato di ebbrezza e per evitare che la guida del veicolo fino al luogo in cui si
trova l’etilometro possa determinare una situazione di pericolo per la
circolazione, gli organi di polizia procedenti devono trasportare la persona
stessa a bordo del veicolo di servizio. La circolare prende poi in esame le
ipotesi di incidente stradale. In tale frangente, indipendentemente dalle
conseguenze sulle persone, l’art. 186, comma 4 C.d.S. consente agli organi di
polizia stradale di procedere ad accertamento del tasso alcolemico nei riguardi
di tutti i conducenti coinvolti, anche se non manifestano sintomi caratteristici
dello stato di ebbrezza. Il Ministero ricorda tuttavia che tale facoltà non
comporta un obbligo indiscriminato di sottoporre a controllo con etilometro tali
soggetti: pertanto, l’esame alcolimetrico nei riguardi dei conducenti dovrà
tenere conto delle concrete circostanze in cui il sinistro si è verificato e
delle prioritarie esigenze di ricostruzione dell’evento e di ripristino delle
normali condizioni di circolazione. L’impianto normativo, peraltro, pur
legittimando l’accertamento con etilometro, non esclude la possibilità di
effettuare un accertamento preliminare con i dispositivi o le prove
precedentemente citati: la circolare suggerisce che sia sempre compiuto un
accertamento qualitativo su tutti i conducenti coinvolti, allo scopo di
evidenziare e selezionare i casi meritevoli di accertamenti più accurati e
probatoriamente conclusivi.
Il comma 5 dell’art. 186 C.d.S., disciplinando il modus operandi in caso
d’incidente stradale in cui il conducente sia rimasto ferito e sia ricorso a
cure mediche, prevede che l’accertamento del tasso alcolico sia effettuato dalle
strutture sanitarie a richiesta degli organi di polizia. Questa attività può
svolgersi con l’ausilio di un etilometro, oppure con le metodologie cliniche ed
analitiche in uso nella struttura sanitaria o fondarsi sull’esame dei liquidi
biologici e - ma solo previo consenso dell’interessato - del sangue. La
circolare assoggetta le complesse procedure che discendono dagli accertamenti
dello stato di ebbrezza in ambito ospedaliero ad una serie di linee guida
appositamente predisposte da un gruppo di lavoro interministeriale, allo scopo
di orientare l’attività delle strutture sanitarie e degli organi di polizia, ed
in modo tale da conferire uniformità alla documentazione amministrativa
prodotta. Il Ministero ricorda infine che la riformulazione dell’art. 186 C.d.S.
ha introdotto nuove ipotesi di reato in tema di rifiuto di sottoporsi ad
accertamenti circa l’alterazione psicofisica derivante dall’alcool. Viene
infatti punito con le medesime sanzioni previste per chi guida in stato di
ebbrezza, non solo chi si oppone all’esame per etilometro – in linea con la
precedente disciplina - ma anche chi rifiuta di sottoporsi agli accertamenti
qualitativi non invasivi o a prove con apparecchiature portatili, ovvero chi non
consente il proprio accompagnamento per l’esame con etilometro presso l’ufficio
di polizia, ed infine, chi rifiuta di sottoporsi ad accertamenti sanitari presso
la struttura ospedaliera che ha prestato le cure mediche. Tale ultima ipotesi
comprende anche il rifiuto opposto al sanitario incaricato dall’organo di
polizia stradale di effettuare l’accertamento: il sanitario documenterà il
rifiuto ricevuto e sulla base di questa documentazione l’organo di polizia
stradale richiedente procederà alla denuncia per il reato previsto dall’art.
186, comma 7 del codice della strada. La natura dell’alcooltest alla luce delle
precisazioni ministeriali. La possibilità – normativamente codificata – per
l’organo di polizia di imporre al conducente accertamenti sulla presenza di
alcool nel sangue anche in assenza di evidenti indici sintomatici
caratteristici, ripropone la questione ancora aperta relativa alla natura e al
regime processuale dell’accertamento del tasso alcolemico mediante utilizzo del
cd. “etilometro”: questione tutt’affatto teorica, dovendosi stabilire se
l’alcooltest soggiace all’obbligo di deposito entro i tre giorni dal suo
compimento presso la segreteria del PM e quali siano le conseguenze in caso di
omesso deposito e di mancato tempestivo avviso – entro lo stesso termine – al
difensore dell’indagato. L’intera problematica ruota intorno alla natura delle
operazioni di analisi dell’aria alveolare espirata dai conducenti di veicoli,
attraverso le quali - per espresso disposto dell’art. 1 del D.M. 22.5.1990 n.196
(Regolamento recante individuazione degli strumenti e delle procedure per
l’accertamento dello stato di ebbrezza) - gli operatori di polizia accertano
l’eventuale stato di ebbrezza del soggetto sottoposto. Secondo una prima
interpretazione, la verifica del tasso alcolico mediante etilometro non
rientrerebbe fra gli accertamenti urgenti di cui all’art. 354 c.p.p., cui
conseguirebbero gli adempimenti di comunicazione e deposito di cui al già
menzionato art. 366 c.p.p.: l’accertamento de quo – secondo questa impostazione
- rivestirebbe la natura di attività di pubblica sicurezza, avendo una funzione
di prevenzione generale e solo indirettamente di documentazione della notitia
criminis.
Fulcro essenziale dell’orientamento in esame è la considerazione che gli
accertamenti “negativi”, ossia quelli che registrano un valore di alcool
inferiore ai limiti di concentrazione normativamente prefissati, non sono
soggetti – come invece dovrebbero se avessero realmente natura di attività di
indagine – a comunicazione all’autorità giudiziaria, sfociando invece in una
autonoma archiviazione da parte della autorità di polizia. Completamente
rovesciata è invece l’angolazione prospettica su cui viene fondata la tesi che
sostiene la natura di “accertamento urgente sulla persona” dell’analisi
dell’aria alveolare espirata (alcooltest): una natura, questa, da riconoscersi
se non ) Per completezza espositiva, deve peraltro menzionarsi l’ulteriore
argomento - posto a sostegno della tesi in esame nel periodo in cui la condotta
contemplata dall’art. 186 del Codice della Strada era assegnata alla competenza
penale del giudice di pace – che fa leva su una individuata incompatibilità
delle formalità previste dall’art. 366 c.p.p. con il rito penale disegnato per
il giudice onorario. Nella vigenza di quella attribuzione di competenza (come
noto successivamente venuta meno, in quanto riassegnata al Tribunale ordinario),
si sosteneva infatti che mentre la norma codicistica presuppone un sistema nel
quale la polizia giudiziaria comunica tempestivamente all’autorità giudiziaria
la notizia di reato ed ogni successivo sviluppo investigativo, l’assetto
introdotto dal D.Lvo 274/2000 è improntato, al contrario, su una marcata
autonomia della polizia giudiziaria nel compimento e nella direzione delle
investigazioni; cosicché, al di fuori delle particolari ed eccezionali ipotesi
nelle quali la PG comunica al PM gli esiti di indagine al fine di ottenere
l’autorizzazione al compimento di singoli specifici atti, non sembra esservi
altro spazio per comunicazioni o interlocuzioni di sorta fra i referenti
indicati. La tesi – allo stato attuale – sconta il venir meno del presupposto
essenziale, poiché a seguito del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151,
convertito con modifiche nella legge 1 agosto 2003, n. 214, il reato di guida in
stato di ebbrezza è stato ricondotto alla competenza del giudice ordinario. Ciò
non di meno, il brusco mutamento del panorama legislativo non può certo esimere
dal confrontarsi con la tesi riferita, a buon diritto avanzata nel momento in
cui fortemente avvertita era – con riguardo alla fattispecie di reato in esame -
l’esigenza di valutare la compatibilità delle norme codicistiche con quelle
disegnate dal rito speciale onorario. E d’altra parte, anche senza tener conto
della possibilità di ulteriori dietro-front legislativi in punto di competenza,
permane – pur con un diverso quadro normativo di riferimento – la concreta
esigenza di rispondere all’obiezione, certamente non eludibile mediante il
semplice richiamo alle modifiche intervenute nelle more: il pensiero corre per
esempio al giudice ordinario chiamato a decidere, anche in funzione di giudice
di appello avverso le sentenze penali di primo grado emesse dal giudice
onorario, sulla utilizzabilità di un accertamento mediante alcool-test
effettuato prima della entrata in vigore della novella del 2003. Ciò premesso,
l’argomentazione prospettata nella tesi di chi nel passato ha negato
l’applicabilità dell’art. 366 c.p.p. in forza delle peculiarità del rito
onorario non appare comunque decisiva. Non si contesta certamente il modus delle
indagini in tema di reati attribuiti al giudice di pace: tuttavia, non pare che
gli adempimenti ex art. 366 c.p.p. si pongano in contrasto così irrimediabile
con il sistema dei rapporti PG-PM disegnato nel rito onorario. Nella stragrande
maggioranza dei casi (se non nella totalità), infatti, le indagini per il reato
di guida in stato di ebbrezza nascono e si esauriscono con l’intervento sulla
strada degli organi di polizia. Una volta proceduto al controllo del guidatore e
sottoposto alla verifica diretta delle sue condizioni psicofisiche per come
direttamente percepibili ed (eventualmente) alla prova per etilometro, il
compendio delle attività investigative può dirsi pressoché concluso: alla
polizia non rimane altro da fare che trasmettere la relazione conclusiva in
ordine alla notizia di reato assieme al verbale e alla eventuale prova
documentale (gli stampati cartacei delle misurazioni operate dall’etilometro).
Pertanto, anche la inevitabile compressione della fase delle investigazioni
preliminari effettuate dalla PG che segue – nel rito introdotto dal decreto
legislativo 274/2000 - al deposito degli atti ex art. 366 c.p.p., calata nel
contesto specifico del reato di guida in stato di ebbrezza (il cui accertamento
– come detto – normalmente si consuma sulla strada, illic et immediate), si
presenta come sviluppo assolutamente fisiologico.
Da subito, senz’altro dal momento in cui, effettuata la prima verifica con esito
positivo (ossia con la rilevazione di una concentrazione alcolemica nell’aria
espirata superiore alla percentuale consentita), i verbalizzanti si accingono ad
effettuare la seconda determinazione nel rispetto della distanza temporale
fissata dall’art. 1 comma 2 del D.M. citato, che prevede appunto un intervallo
di tempo fra le due determinazioni quanto meno pari a cinque minuti l’una
dall’altra. Secondo l’opinione in commento, avuto riguardo alla risultanza
positiva del primo referto la notizia criminis, non può più dirsi misconosciuta
agli operatori di polizia, sicché grava su di essi l’obbligo di depositare il
verbale dell’attività compiuta, a quel punto senz’altro qualificabile come
attività di indagine. Nel valutare le ragioni delle due posizioni, non può
certamente negarsi che l’analisi dell’aria alveolare risponda ad una evidente
finalità di prevenzione e di tutela della incolumità pubblica; appare anche
chiaro, però, che alla natura amministrativa dell’alcooltest (quale attività di
pubblica sicurezza) si accompagna una altrettanto evidente funzione di attività
di indagine. Se la precedente formulazione della norma legava infatti
l’accertamento in esame al “…caso di incidente o quando si abbia motivo di
ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione
psicofisica derivante dall’influenza dell’alcool…”, l’attuale scrittura,
aggiungendo l’ipotesi di esito positivo degli accertamenti preliminari
qualitativi, sembra rafforzare gli argomenti di chi conferisce all’accertamento
mediante etilometro la natura di attività ex art. 354 c.p.p.. E ciò in quanto,
se è vero che l’attivazione del test alcolemico scaturisce, nelle intenzioni del
legislatore, da situazioni “indizianti di reato”, quali appunto possono essere
la ricorrenza di un sinistro stradale (parendo indubitabile che, a sinistro
avvenuto, l’intervento dei verbalizzanti si atteggi – quanto meno nell’ipotesi
di presenza di persone rimaste ferite - in termini di attività di polizia
giudiziaria in relazione ai reati di lesioni/omicidio colposi), ovvero la
presenza di altre circostanze oggettive e/o soggettive percepite dagli operatori
come rivelatrici di una possibile condizione di ebbrezza, a maggior ragione ciò
vale per il presupposto ultimo introdotto, relativo al chiaro risultato
indiziante scaturente da una accertamento di carattere e natura preliminare.
D’altra parte, che l’accertamento mediante etilometro abbia (anche) natura di
atto inserito nel procedimento penale è testimoniato dal fatto che l'art. 186
del codice stradale demanda agli organi di polizia la facoltà di accertare, in
caso di incidente, lo stato di ebbrezza del conducente del veicolo con gli
strumenti e la procedura previsti dal regolamento di esecuzione, ben potendo
tuttavia in alternativa acquisirsi la prova – in sostituzione di un accertamento
strumentale non sempre possibile in talune circostanze per la complessa
apparecchiatura da adoperare - anche attraverso i dati sintomatici riguardanti
il comportamento del guidatore che siano oggetto di conoscenza diretta da parte
dei verbalizzanti. Non sembra dunque di andare lontano dal vero, dunque,
nell’affermare che l’accertamento tramite etilometro si connota come attività di
duplice natura, conservando - in aggiunta ad un indiscutibile carattere
amministrativo con finalità di prevenzione - una altrettanto palese connotazione
di atto di indagine teso alla acquisizione della prova. In questo senso pare
orientarsi la dottrina prevalente.
Conforta nel convincimento esposto l’insegnamento della Suprema Corte, allorché
statuisce che l'accertamento effettuato dalla polizia tramite alcooltest sulla
base dei dati sintomatici è compatibile con il disposto dell'art. 354 comma 3
del codice di rito che conferisce, in caso di urgenza, il potere agli ufficiali
di polizia giudiziaria di compiere i necessari accertamenti e rilievi sulla
persona del soggetto, senza violare l'art. 32 della Costituzione (4). D’altra
parte, l’ordinamento non esclude affatto che un attività amministrativa possa
eventualmente assumere concorrenti connotazioni di attività di polizia
giudiziaria: al contrario, l’art. 220 delle norme di attuazione del codice di
rito prevede proprio che quando nel corso di attività di ispezione o di
vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato - situazione
questa che, se non vuol essere parificata ai presupposti indicati dall’art. 186
comma 4 C.d.S., quanto meno deve essere riconosciuta allorché la prima
misurazione dia esito positivo – “gli atti necessari per assicurare le fonti di
prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge
penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”. La
posizione ministeriale. Nel fornire un rapido quadro dei principali aspetti
processuali, il Ministero evidenzia – e fa propria – l’opinione prevalente
secondo cui gli esami previsti dai commi 4 e 5 dell’art. 186 C.d.S.
(accertamento con etilometro, esami clinici presso le strutture sanitarie) per
controllare il tasso di alcool nel sangue debbano ricondursi agli atti di
polizia giudiziaria urgenti ed indifferibili previsti dall’art. 354, comma 3,
del codice di procedura penale. Di conseguenza, indica come prassi conforme a
legalità quella prevista dall’art. 114 disp. att. c.p.p., che impone di
informare la persona della possibilità di avvalersi dell’assistenza di un
difensore, il quale ha facoltà di presenziare alle operazioni senza, peraltro,
avere diritto di essere preventivamente avvisato (art. 356 c.p.p.). Sul piano
squisitamente operativo, molto opportunamente la circolare suggerisce che gli
operatori, prima di procedere alle richiamate forme di controllo sul conducente,
redigano uno specifico e circostanziato avviso scritto alla persona nei
confronti della quale vengono svolte indagini, reputando non sufficiente una
generica richiesta di nomina del difensore di fiducia avanzata ai sensi
dell’art. 349 c.p.p. che, costituendo un semplice invito a garanzia del diritto
di difesa, non può ritenersi completamente esaustiva degli obblighi imposti
dall’art. 356 c.p.p. e dal richiamato art. 114 delle relativa disposizioni di
attuazione. Il Ministero ricorda che – come ovvio - avuto riguardo al luogo e
alle modalità di accertamento del tasso alcolico, e salvo il caso in cui il
difensore possa essere presente in tempi veramente molto brevi, l’inizio delle
operazioni di controllo non può essere subordinato all’arrivo di quest’ultimo,
in ragione del fatto che il trascorrere del tempo dal momento dell’ingestione
dell’alcool determina una graduale riduzione del tasso alcolico il cui livello,
invece, per essere concretamente riferibile all’attività di guida, deve essere
accertato nell’immediatezza del controllo. Diritto di nomina del difensore,
dunque, e diritto di questi ad assistere, se presente (per esempio, perché
passeggero del veicolo condotto dal soggetto sottoposto ad accertamento),
all’operazione di verifica; nessun diritto di preavviso, invece, né di
obbligatoria partecipazione. Nell’ottica prettamente operativa che le si confà,
la circolare disciplina nel dettaglio le operazioni da compiere qualora gli
accertamenti diano esito positivo, dovendo gli operanti procedere alla stesura
dei seguenti atti:
a) un verbale che documenti l’elezione di domicilio, secondo le forme richieste
dall’art. 349 c.p.p., l’eventuale nomina del difensore di fiducia e
l’autorizzazione rilasciata a persona idonea a condurre il veicolo fino al luogo
indicato dall’interessato oppure fino alla più vicina autorimessa, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 186, comma 3, e 187, comma 7 C.d.S.;
b) un verbale che documenti l’operazione di accertamento svolta, con specifica
annotazione che, richiamando espressamente l’art. 114 disp.att. c.p.p., attesti
l’avvenuta informativa al conducente della possibilità di farsi assistere dal
difensore; il verbale deve contenere anche la descrizione dei fatti che hanno
determinato l’effettuazione degli accertamenti qualitativi o delle prove nonché
il loro esito; ovvero deve dare atto che il conducente è rimasto coinvolto in un
incidente stradale oppure descrivere i sintomi che lo stesso abbia evidenziato
facendo ragionevolmente ipotizzare lo stato di alterazione psicofisica derivante
dall’influenza dell’alcool (o dall’assunzione di sostanze stupefacenti o
psicotrope). In conformità alle disposizioni di cui all’art. 366 c.p.p., i
suddetti verbali, unitamente a tutta la documentazione probatoria dell’esito
dell’attività di accertamento svolta sulla persona (ad esempio, il tagliando
stampato dall’etilometro), nonché la certificazione medica rilasciata dalla
struttura sanitaria presso la quale la persona è stata accompagnata, devono –
secondo le disposizioni ministeriali - essere depositati entro il terzo giorno
successivo presso la cancelleria del pubblico ministero, affinché del deposito
sia dato avviso al difensore nominato.
Le conseguenze del mancato deposito.
L’indagine sulla natura dell’accertamento mediante etilometro pone un ulteriore
interrogativo, che la circolare ministeriale non può (non spettandole il
compito) risolvere: quali le conseguenze nell’ipotesi di mancato deposito e
mancato successivo avviso? Ad avviso di alcune posizioni giurisprudenziali,
invero più risalenti, l’omissione delle suddette formalità comporterebbe la
nullità relativa dell’atto – ossia dell’accertamento - sanabile se non eccepita
tempestivamente ma non sanabile, invece, con il deposito degli atti conseguente
all’emissione del decreto di citazione giudizio: poiché la patologia risiede
nell’indebito sacrificio delle necessità difensive di approfondimento e di
verifica che sorgono nell’immediatezza dell’atto (tant’è che la norma prevede -
non a caso - termini molto ravvicinati per il deposito, per l’avviso, per
l’esame e l’estrazione di copia degli atti), tali necessità non possono essere
soddisfatte a distanza di tempo e ad indagine chiusa. Il delineato orientamento,
però, è ben lontano dal dirsi consolidato. Al contrario, nel corso degli ultimi
anni, plurime sentenze di legittimità hanno infatti escluso la nullità
dell’accertamento dello stato di ebbrezza mediante etilometro in conseguenza
dell’omesso tempestivo deposito del verbale nella segreteria del pubblico
ministero e del conseguente avviso del deposito medesimo nella ipotesi di
mancata presenza del difensore durante il compimento dell’atto. Le premesse del
revirement giurisprudenziale non toccano le conclusioni raggiunte circa la
natura dell’alcooltest: ancora secondo una recente pronuncia, non vi è dubbio
che l’accertamento mediante analisi del tasso alcolemico contenuto nell’aria
espirata costituisca atto di polizia giudiziaria urgente e indifferibile ai
sensi dell’articolo 354, comma 3 del codice di rito, cui il difensore può
assistere ai sensi del successivo articolo 356, senza però diritto a essere
previamente avvisato. Molto diverse - invece - le valutazioni circa gli obblighi
della polizia giudiziaria e le conseguenze in caso di omissione, qualora
l’accertamento mediante etilometro fornisca esito positivo: il mancato
tempestivo deposito nella segreteria del pubblico ministero non può comunque
configurare alcuna nullità. Infatti, laddove l’interessato, avvertito dalla
polizia giudiziaria della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia
(secondo quanto previsto dall’articolo 114 delle disposizioni di attuazione),
non abbia proceduto a tale nomina, la nullità sarebbe da escludere per la
mancanza del soggetto al quale depositare l’atto, non essendo del resto prevista
per gli atti di che trattasi la nomina di un difensore di ufficio, come
diversamente disposto per altri atti. Invece, quando l’interessato abbia
nominato un difensore di fiducia, il mancato tempestivo deposito nella
segreteria del pubblico ministero non determinerebbe parimenti alcuna nullità,
in ossequio al principio di tassatività delle stesse, perché questa sanzione non
è espressamente prevista dalla norma; né, a tal fine, potrebbe invocarsi il
disposto dell’articolo 178, lettera c), del c.p.p., perché il deposito è una
formalità che attiene ad un momento successivo al compimento dell’atto e il suo
eventuale ritardo non concerne, come indicato nella citata disposizione,
l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato nel momento del compimento
dell’atto di polizia giudiziaria.
In tale evenienza, piuttosto, il ritardato deposito può procrastinare solo il
termine per il compimento di ulteriori attività defensionali ed eventuali atti
di impugnazione previsti dalla legge (8). In realtà, una parte della recente
giurisprudenza nomofilattica si spinge ancora più in avanti, ponendo in
discussione il postulato stesso – come visto, oramai cristallizzato anche nella
circolare ministeriale – dell’obbligo di deposito presso la segreteria del
Pubblico Ministero con riferimento all’accertamento mediante etilometro,
ancorché inquadrabile sotto la categoria degli atti ex art. 354 del codice di
rito. Secondo alcune pronunce (9), infatti, dall'esame dell'art. 366 c.p.p. si
ricava che l'obbligo del deposito successivo con avviso al difensore che non sia
già stato precedentemente informato è stabilito per gli "atti compiuti dal
Pubblico Ministero e dalla polizia giudiziaria ai quali il difensore ha diritto
di assistere": diritto che si deve ritenere sussistente solo per gli atti del
P.M., per i quali l'assistenza difensiva è garantita dalla obbligatoria
designazione di un difensore (di fiducia o di ufficio), mentre per gli
accertamenti urgenti della P.G. la garanzia difensiva è stabilita in termini di
mera facoltà di ottenere la presenza all'atto del difensore di fiducia ed è
assicurata unicamente dall'avviso che della stessa deve essere dato a norma
dell'art. 114 delle disposizioni di attuazione. Qualche considerazione di
sintesi. Sulla base delle premesse sin qui svolte, pare potersi affermare in
conclusione che:
• l’accertamento dello stato di ebbrezza mediante prova per espirazione
dell’aria alveolare costituisce accertamento urgente ex art. 354 c.p.p.;
• gli organi di polizia che procedono hanno il dovere – ai sensi di quanto
disposto dall’art. 114 delle norme di attuazione del codice di rito - di
avvisare il soggetto sottoposto che ha facoltà di nominare un difensore, il
quale può presenziare all’accertamento senza però diritto di essere
preventivamente avvisato;
• in conseguenza della natura “garantita” dell’atto, il relativo verbale deve
essere depositato nella cancelleria del PM e - trattandosi di atto che non
necessita di preventivo avviso al difensore – del suo avvenuto deposito occorre
darne notizia ai sensi e con le modalità temporali di cui all’art. 366 c.p.p.
Tali conclusioni, condivise - come si è avuto modo di sottolineare - anche dalle
linee di prassi suggerite nella circolare ministeriale, sembrano poter mantenere
validità anche nel confronto con la citata recente giurisprudenza di
legittimità. E ciò per una serie di ragioni. Innanzitutto, il disposto dell’art.
366 fa espresso riferimento al deposito dei <<… verbali di atti compiuti dal
P.M. e dalla Polizia giudiziaria…>> e, quindi, di tutti i verbali degli atti cui
all’articolo 357, secondo comma, senza distinzione alcuna. Né si può ritenere
che il citato articolo 366, nel precisare che gli atti in questione sono quelli
<>, vada interpretato in senso restrittivo escludendo, cioè, gli atti per i
quali il difensore ha solo la facoltà di assistere. E’ evidente, infatti che la
facoltà (posta in ontologica antitesi con l’ipotesi della obbligatorietà)
attiene semplicemente alle modalità di esercizio di un diritto che non può che
darsi come presupposto. Peraltro, la stessa giurisprudenza di legittimità, pur
in maniera non univoca, non ha mancato di affermare la nullità di atti (anche di
quelli compiuti dalla Polizia giudiziaria) quali il sequestro, per i quali non
sia stato dato avviso di deposito al difensore che aveva la facoltà di
assistere, pur ritenendo la stessa nullità sanata nel caso di esercizio delle
facoltà derivanti dall’atto omesso: con ciò parendo poter confortare la tesi,
qui accolta, della necessità dell’avviso di deposito anche per il verbale di
accertamento dello stato di ebbrezza. Quanto poi all’obiezione secondo cui, in
mancanza di un’eventuale nomina del difensore d’ufficio, non sarebbe di fatto
possibile l’avviso di deposito del verbale dell’accertamento mediante alcoltest,
essa non appare insuperabile. Una volta effettuato l’accertamento, la Polizia
Giudiziaria deposita il verbale nella segreteria del P.M., cui ben potrebbe
essere rimesso il potere/dovere, ai sensi dell’articolo 364 comma secondo
c.p.p., di avvisare la persona sottoposta ad indagini, priva di un difensore,
della nomina di un difensore d’ufficio effettuata in suo favore (e della
possibilità di nominarne uno di fiducia) cui inviare l’avviso di deposito.
Rimane invece ancora priva di soluzione univoca la questione delle conseguenze
derivanti dal mancato deposito/avviso di deposito. I segnalati recenti
orientamenti giurisprudenziali negano, come si è visto, la nullità ex articolo
178, lettera C) del c.p.p., sul rilievo che il deposito è una formalità che
attiene ad un momento successivo al compimento dell’atto e il suo eventuale
ritardo non concerne l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato. Peraltro,
le nullità c.d. "a effetto domino" previste dall'art. 185 c.p.p. valgono solo
per gli atti successivi dei quali l'atto dichiarato nullo è il presupposto,
sicché la nullità per omesso avviso del deposito non potrebbe comunicarsi
all'accertamento alcolimetrico (che viene prima), mentre per altro aspetto non
si rinvengono altri atti processuali che vedano come presupposto necessario
l'avviso di cui all'art. 366 c.p.p. Tale impostazione è criticata da chi guarda
alla ratio legis sottesa all’art. 178 lettera C) del codice di rito, diretta
alla tutela dei diritti di assistenza e rappresentanza complessivamente
considerati ed indipendenti da limitazioni di ordine cronologico. Tuttavia, le
conseguenze pratiche sono destinate ad essere più o meno le medesime: anche
volendo riconoscere la nullità nel caso di mancato deposito o mancato avviso, il
vizio non può non essere considerato sanabile alla luce del disposto dell’art.
415 bis del codice di procedura. Quest’ultima norma, infatti, garantisce
comunque il diritto dell’indagato e del difensore di prendere visione (ed
eventualmente estrarne copia) dei documenti, depositati nella cancelleria del
P.M., relativi alle indagini. Unico dubbio residuo, la non perfetta
sovrapponibilità delle garanzie <> fornite dall’articolo 366, c.p.p. e quelle,
in ipotesi, meno tempestive di cui all’art. 415 bis del codice di rito, attesa
la necessità della conclusione delle indagini (sebbene nella quasi totalità
delle ipotesi di guida in stato di ebbrezza le indagini si esauriscono proprio
con l’attività di accertamento mediante alcooltest): le facoltà difensive
potrebbero essere di fatto pregiudicate - si pensi ad una eventuale richiesta di
visione e perizia dello strumento di misurazione concretamente adoperato per la
rilevazione del tasso alcolemico - dal naturale mutamento, per il decorso del
tempo, della “scena” del crimine.
Articolo 590 bis Codice Penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398)
Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo XII
- Dei delitti contro la persona → Capo I - Dei delitti contro la vita e
l'incolumità individuale
"Chiunque cagioni per colpa ad altri una lesione personale con violazione delle
norme sulla disciplina della circolazione stradale o della navigazione marittima
o interna è punito con la reclusione da tre mesi a un anno per le lesioni gravi
e da uno a tre anni per le lesioni gravissime.
Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore o di una delle unità da
diporto di cui all'articolo 3 del codice della nautica da diporto, di cui al
decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171, in stato di ebbrezza alcolica o di
alterazione psicofisica conseguente all'assunzione di sostanze stupefacenti o
psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c),
e 187 del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n.
285, nonché degli articoli 53 bis, comma 2, lettera c), e 53 quater del codice
della nautica da diporto, di cui al decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171,
cagioni per colpa a taluno una lesione personale, è punito con la reclusione da
tre a cinque anni per le lesioni gravi e da quattro a sette anni per le lesioni
gravissime.
La stessa pena si applica al conducente di un veicolo a motore di cui
all'articolo 186 bis, comma 1, lettere b), c) e d), del decreto legislativo 30
aprile 1992, n. 285, o di un'unità da diporto di cui all'articolo 53 ter, comma
1, lettera b), del decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171, il quale, in
stato di ebbrezza alcolica ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2,
lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e 53-bis, comma 2,
lettera b), del decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171, cagioni per colpa a
taluno lesioni personali gravi o gravissime.
Salvo quanto previsto dal terzo comma, chiunque, ponendosi alla guida di un
veicolo a motore o di una delle unità da diporto di cui all'articolo 3 del
decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171, in stato di ebbrezza alcolica ai
sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera b), del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e 53-bis, comma 2, lettera b), del decreto
legislativo 18 luglio 2005, n. 171, cagioni per colpa a taluno lesioni
personali, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a tre anni per le
lesioni gravi e da due a quattro anni per le lesioni gravissime.
Le pene di cui al quarto comma si applicano altresì:
1) al conducente di un veicolo a motore che, procedendo in un centro urbano ad
una velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non
inferiore a 70 km/h, ovvero su strade extraurbane ad una velocità superiore di
almeno 50 km/h rispetto a quella massima consentita, cagioni per colpa a taluno
lesioni personali gravi o gravissime;
2) al conducente di un veicolo a motore che, attraversando un'intersezione con
il semaforo disposto al rosso ovvero circolando contromano, cagioni per colpa a
taluno lesioni personali gravi o gravissime;
3) al conducente di un veicolo a motore che, a seguito di manovra di inversione
del senso di marcia in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o
dossi o a seguito di sorpasso di un altro mezzo in corrispondenza di un
attraversamento pedonale o di linea continua, cagioni per colpa a taluno lesioni
personali gravi o gravissime.
Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti la pena è aumentata se il fatto è
commesso da persona non munita di patente di guida o, ad eccezione delle ipotesi
di cui al quinto comma, di patente nautica, ove prescritta, o con patente
sospesa o revocata, ovvero nel caso in cui il veicolo a motore o l'unità da
diporto sia di proprietà dell'autore del fatto e tale veicolo o unità da diporto
sia sprovvisto di assicurazione obbligatoria.
Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora l'evento non sia esclusiva
conseguenza dell'azione o dell'omissione del colpevole, la pena è diminuita fino
alla metà.
Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora il conducente del veicolo o
dell'unità da diporto cagioni lesioni a più persone, si applica la pena che
dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino
al triplo, ma la pena non può superare gli anni sette.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa se non ricorre alcuna delle
circostanze aggravanti previste dal presente articolo.
Articolo 589 bis Codice Penale (R.D. 19
ottobre 1930, n. 1398)
Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo XII
- Dei delitti contro la persona → Capo I - Dei delitti contro la vita e
l'incolumità individuale
Chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme
sulla disciplina della circolazione stradale o della navigazione marittima o
interna è punito con la reclusione da due a sette anni.
Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore o di una delle unità da
diporto di cui all'articolo 3 del codice della nautica da diporto, di cui al
decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171, in stato di ebbrezza alcolica o di
alterazione psicofisica conseguente all'assunzione di sostanze stupefacenti o
psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c),
e 187 del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n.
285, nonché degli articoli 53 bis, comma 2, lettera c), e 53 quater del codice
della nautica da diporto, di cui al decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171,
cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a
dodici anni.
La stessa pena si applica al conducente di un veicolo a motore di cui
all'articolo 186 bis, comma 1, lettere b), c) e d), del decreto legislativo 30
aprile 1992, n. 285, o di un'unità da diporto di cui all'articolo 53 ter, comma
1, lettera b), del decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171, il quale, in
stato di ebbrezza alcolica ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2,
lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e 53-bis, comma 2,
lettera b), del decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171, cagioni per colpa la
morte di una persona.
Salvo quanto previsto dal terzo comma, chiunque, ponendosi alla guida di un
veicolo a motore o di una delle unità da diporto di cui all'articolo 3 del
decreto legislativo 18 luglio 2005, n. 171, in stato di ebbrezza alcolica ai
sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera b), del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e 53-bis, comma 2, lettera b), del decreto
legislativo 18 luglio 2005, n. 171, cagioni per colpa la morte di una persona, è
punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
La pena di cui al quarto comma si applica altresì:
1) al conducente di un veicolo a motore che, procedendo in un centro urbano ad
una velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non
inferiore a 70 km/h, ovvero su strade extraurbane ad una velocità superiore di
almeno 50 km/h rispetto a quella massima consentita, cagioni per colpa la morte
di una persona;
2) al conducente di un veicolo a motore che, attraversando un'intersezione con
il semaforo disposto al rosso ovvero circolando contromano, cagioni per colpa la
morte di una persona;
3) al conducente di un veicolo a motore che, a seguito di manovra di inversione
del senso di marcia in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o
dossi o a seguito di sorpasso di un altro mezzo in corrispondenza di un
attraversamento pedonale o di linea continua, cagioni per colpa la morte di una
persona.
Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti la pena è aumentata se il fatto è
commesso da persona non munita di patente di guida o, ad eccezione delle ipotesi
di cui al quinto comma, di patente nautica, ove prescritta, o con patente
sospesa o revocata, ovvero nel caso in cui il veicolo a motore o l'unità da
diporto sia di proprietà dell'autore del fatto e tale veicolo o unità da diporto
sia sprovvisto di assicurazione obbligatoria.
Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora l'evento non sia esclusiva
conseguenza dell'azione o dell'omissione del colpevole, la pena è diminuita fino
alla metà.
Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora il conducente del veicolo o
dell'unità da diporto cagioni la morte di più persone, ovvero la morte di una o
più persone e lesioni a una o più persone, si applica la pena che dovrebbe
infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo,
ma la pena non può superare gli anni diciotto.
Tabella riepilogativa delle sanzioni allegata alla circ. 25.3.2016 prot. n.
300/A/2251/16/124/68 Patente.it
Ipotesi delittuosa |
Riferimento normativo |
Pena principale |
Arresto in flagranza di reato |
Fermo di polizia giudiziaria |
Procedibilità |
Sospensione cautelare della patente |
Sanzioni amministrative accessorie |
Tempo minimo per conseguire nuova patente |
Omicidio colposo con violazione delle norme sulla disciplina della
circolazione stradale (diverse da quelle indicate nei casi seguenti).
Ipotesi base.
|
Articolo 589 bis, c. 1 c.p.
|
Reclusione da 2 a 7 anni |
SI, facoltativo |
SI |
D'ufficio |
Fino a 3 anni (art. 223 c. 2 CDS) |
Revoca patente (art. 222 c. 2 CDS) |
5 anni (10 anni in caso di precedente condanna per i reati dell'art.
186, c.2, lett. b), c) e 2-bis, ovvero 187 cc. 1 e 1-bis; 12 anni in
caso di fuga per art. 189 CDS)
|
Omicidio colposo da parte di conducenti [diversi da quelli di cui
all'art. 186 bis c. 1, lett. b), c) e d) CDS] in stato di ebbrezza
alcolica (oltre 0,8 ma non oltre 1,5 gr/l).
|
Articolo 589 bis, c. 4 c.p.
|
Reclusione da 5 a 10 anni
|
SI, facoltativo
|
SI
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
15 anni (20 anni in caso di precedente condanna per i reati dell'art.
186. c.2. lett. b), c) e 2-bis, ovvero 187 cc. 1 e 1-bis CDS;30 anni in
caso di fuga art. 189 CDS)
|
Omicidio colposo da parte di conducente di cui all'art. 186 bis c. 1,
lett. b), c) e d) CDS in stato di ebbrezza alcolica (oltre 0,8 ma non
oltre 1,5 gr/l).
|
Articolo 589 bis, c. 3 c.p.
|
Reclusione da 8 a 12 anni
|
SI, obbligatorio [art. 380, c.2, lett. m-quater) c.p.p.]
|
SI
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
15 anni (20 anni in caso di precedente condanna per i reati dell'art.
186. c.2. lett. b), c) e 2-bis, ovvero 187 cc. 1 e 1-bis CDS;30 anni in
caso di fuga art. 189 CDS)
|
Omicidio colposo da parte di conducente in stato di ebbrezza alcolica
(oltre 1,5 gr/l - art. 186 c.2 lett. c) CDS) o sotto l'effetto di
stupefacenti (art. 187 CDS).
|
Articolo 589 bis, c.2 c.p.
|
Reclusione da 8 a 12 anni
|
SI, obbligatorio [art. 380, c.2, lett. m-quater) c.p.p.]
|
SI
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
15 anni (20 anni in caso di precedente condanna per i reati dell'art.
186. c.2. lett. b), c) e 2-bis, ovvero 187 cc. 1 e 1-bis CDS;30 anni in
caso di fuga art. 189 CDS)
|
Omicidio colposo da parte del conducente che commette una delle seguenti
violazioni:
• velocità oltre il doppio di quella consentita (e comunque superiore a
70 km/h) in strada urbana (art. 142 CDS);
• velocità di almeno 50 km/h oltre quella consentita in strada
extraurbana (art. 142 CDS),
• attraversamento con semaforo rosso (art. 146, c.3 CDS);
• circolazione contromano (artt. 143, 176 CDS);
• inversione del senso di marcia in prossimità di intersezioni, curve o
dossi (art. 154 CDS);
• sorpasso in corrispondenza di attraversamenti pedonali (art. 148 CDS);
• sorpasso in presenza di linea continua (art. 146 CDS)
|
Articolo 589 bis, c.5 c.p.
|
Reclusione da 5 a 10 anni
|
SI, facoltativo
|
SI
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in casa di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
10 anni (20 anni in caso di precedente condanna per i reati dell'art.
186, c.2, lett. b), c) e 2-bis, ovvero 187 cc. 1 e 1-bis CDS;30 anni in
caso di fuga art. 189 CDS - art. 222 c. 3 bis CDS)
|
Omicidio colposo con morte di più persone, ovvero di una o più persone e
di lesioni a una o più persone.
|
Articolo 589 bis, c.8 c.p.
|
Pena prevista per la più grave delle violazioni aumentata fino al
triplo, ma la pena non può superare 18 anni di reclusione
|
SI, obbligatorio, o facoltativo a seconda delle violazioni riscontrate
|
SI
|
D'ufficio
|
SI, durata variabile in relazione alle circostanze sopra indicate
|
Revoca patente
|
Durata variabile in funzione della ricorrenza dei casi sopraindicati
(minimo 5 anni)
|
Lesioni LIEVI o LIEVISSIME a seguito di qualsiasi violazione di norme di
comportamento.
|
Articolo 590, c.1 c.p.
|
Reclusione fino a 3 mesi o multa fino a 309 euro
|
NO |
NO |
A querela di parte
|
Fino a 3 anni
|
Sospensione patente da 15 gg a 3 mesi; revoca ove nell'incidente si
accerti lo stato di ebbrezza (oltre 1,5 gr/l) ovvero l'effetto di
stupefacenti (ai sensi degli artt. 186, c.2-bis e 187, c.1 bis CDS)
|
Nei casi di revoca, 3 anni (Art. 219, c.3-ter CDS)
|
Lesioni stradali LIEVI o LIEVISSIME di più persone
|
Articolo 590, c.4 c.p.
|
Pena prevista per la più grave delle violazioni aumentata fino al
triplo, ma la pena non può superare 5 anni di reclusione
|
NO |
NO
|
A querela di parte
|
Fino a 3 anni
|
Sospensione patente da 15 gg a 3 mesi; revoca ove nell'incidente si
accerti lo stato di ebbrezza (oltre 1,5 gr/l) ovvero l'effetto di
stupefacenti (ai sensi degli artt. 186, c.2-bis e 187, c.1 bis CDS)
|
Nei casi di revoca, 3 anni (Art. 219, c.3-ter CDS)
|
Lesioni GRAVI con violazione delle norme sulla disciplina della
circolazione stradale diverse da quelle indicate nei casi seguenti.
Ipotesi base.
|
Articolo 590 bis, c.1 c.p.
|
Reclusione da 3 mesi a 1 anno
|
NO
|
NO
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva) |
Revoca patente
|
5 anni (10 anni in caso di condanna precedente per art. 186. c.2, lett.
b) o c) ovvero 187 CDS;
12 anni in caso di fuga per art. 189 CDS)
|
Lesioni GRAVI stradali provocate da conducenti [diversi da quelli di cui
all'art. 186 bis, c. 1, lett. b), c) e d) CDS) in stato di ebbrezza
alcolica (oltre 0,8 ma non oltre 1,5 gr/l)
|
Articolo 590 bis, c.4 c.p.
|
Reclusione da 1 anno e 6 mesi a 3 anni
|
NO, salvo il caso di fuga ed omissione di soccorso (art. 189, c.8 CDS)
|
NO
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
5 anni (10 anni in caso di condanna precedente per art. 186. c.2, lett.
b) o c) ovvero 187 CDS; 12 Anni in caso di fuga per art. 189 CDS)
|
Lesioni GRAVI provocate da conducenti di cui all'art. 186 bis, c. 1,
lett. b), c) e d) CDS in stato di ebbrezza alcolica (oltre 0,8 ma non
oltre 1,5 gr/l)
|
Articolo 590 bis, c.3 c.p.
|
Reclusione da 3 a 5 anni
|
NO, salvo il caso di fuga ed omissione di soccorso (art. 189, c.8 CDS)
|
NO
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
5 anni (10 anni in caso di condanna precedente per art. 186. c.2, lett.
b) o c) ovvero 187 CDS; 12 anni in caso di fuga per art. 189 CDS)
|
Lesioni GRAVI provocate da conducente in stato di ebbrezza alcolica con
tasso alcolemico oltre 1,5 gr/l (art. 186, c.2, lett. c) CDS) o sotto
l'effetto di stupefacenti (art. 187 CDS)
|
Articolo 590 bis, c.2 c.p.
|
Reclusione da 3 a 5 anni
|
NO, salvo il caso di fuga ed omissione di soccorso (art. 189, c.8 CDS)
|
NO
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
5 anni (10 anni in caso di condanna precedente per art. 186. c.2, lett.
b) o c) ovvero 187 CDS; 12 anni in caso di fuga per art. 189 CDS)
|
Lesioni GRAVI stradali di più persone
|
Articolo 590 bis, c.8 c.p.
|
Pena prevista per la più grave delle violazioni aumentata fino al
triplo, ma la pena non può superare 7 anni di reclusione
|
Aspetti procedurali corrispondenti alle violazioni riscontrate
|
|
|
|
|
|
Lesioni GRAVI cagionate per colpa da conducente responsabile di una
delle seguenti violazioni:
• velocità oltre il doppio di quella consentita (e comunque superiore a
70 km/h) in strada urbana (art. 142 CDS);
• velocità di almeno 50 km/h oltre quella consentita in strada
extraurbana (art. 142 CDS),
• attraversamento con semaforo rosso (art. 146, c.3 CDS);
• circolazione contromano (artt. 143, 176 CDS);
• inversione del senso di marcia in prossimità di intersezioni, curve o
dossi (art. 154 CDS);
• sorpasso in corrispondenza di attraversamenti pedonali (art. 148 CDS);
• sorpasso in presenza di linea continua (art. 146 CDS).
|
Articolo 590 bis, c.4 c.p.
|
Reclusione da 1 anno e 6 mesi
|
NO, salvo il caso di fuga ed omissione di soccorso (art. 189, c.8 CDS)
|
NO
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
5 anni (10 anni in caso di condanna precedente per art. 186. c.2, lett.
b) o c) ovvero 187 CDS; 12 anni in caso di fuga per art. 189 CDS)
|
Lesioni GRAVISSIME stradali con violazione delle norme sulla disciplina
della circolazione stradale diverse da quelle indicate nei casi
seguenti. Ipotesi base
|
Articolo 590 bis, c.1 c.p.
|
Reclusione da 1 a 3 anni
|
NO
|
NO
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
5 anni (10 anni in caso di condanna precedente per art. 186. c.2, lett.
b) o c) ovvero 187 CDS; 12 anni in caso di fuga per art. 189 CDS)
|
GRAVISSIME provocate da conducenti [diversi da quelli di cui all'art.
186 bis, c.1, lett. b), c) e d) CDS] in stato di ebbrezza alcolica
(oltre 0,8 ma non oltre 1,5 gr/l)
|
Articolo 590 bis, c.4 c.p.
|
Reclusione da 2 a 4 anni
|
NO, salvo il caso di fuga ed omissione di soccorso (art. 189, c.8 CDS)
|
NO |
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
5 anni (10 anni in caso di condanna precedente per art. 186. c.2, lett.
b) o c) ovvero 187 CDS; 12 anni in caso di fuga per art. 189 CDS)
|
Lesioni GRAVISSIME provocate da conducenti di cui all'art. 186 bis, c.1.
lett. b), c) e d) CDS in stato di ebbrezza alcolica (oltre 0,8 ma non
oltre 1,5 gr/l)
|
Articolo 590 bis, c.3 c.p. |
Reclusione da 4 a 7 anni
|
NO, salvo il caso di fuga ed omissione di soccorso (art. 189, c.8 CDS)
|
SI
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
5 anni (10 anni in caso di condanna precedente per art. 186. c.2, lett.
b) o c) ovvero 187 CDS; 12 anni in caso di fuga per art. 189 CDS)
|
Lesioni GRAVISSIME provocate da conducente in stato di ebbrezza alcolica
con tasso alcolemico oltre 1,5 gr/l (art. 186, c.2, lett. c) CDS) o
sotto l'effetto di stupefacenti (art. 187 CDS)
|
Articolo 590 bis, c.2 c.p
|
Reclusione da 4 a 7 anni
|
NO, salvo il caso di fuga ed omissione di soccorso (art. 189, c.8 CDS)
|
SI
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D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
5 anni (10 anni in caso di condanna precedente per art. 186. c.2, lett.
b) o c) ovvero 187 CDS; 12 anni in caso di fuga per art. 189 CDS)
|
Lesioni GRAVISSIME stradali di più persone
|
Articolo 590 bis, c.8 c.p.
|
Pena prevista per la più grave delle violazioni aumentata fino al
triplo, ma la pena non può superare 7 anni di reclusione
|
Aspetti procedurali corrispondenti alle violazioni riscontrate
|
|
|
|
|
|
Lesioni GRAVISSIME cagionate per colpa da conducente responsabile di una
delle seguenti violazioni:
• velocità oltre il doppio di quella consentita (e comunque superiore a
70 km/h) in strada urbana (art. 142 CDS);
• velocità di almeno 50 km/h oltre quella consentita in strada
extraurbana (art. 142 CDS),
• attraversamento con semaforo rosso (art. 146, c.3 CDS);
• circolazione contromano (artt. 143, 176 CDS);
• inversione del senso di marcia in prossimità di intersezioni, curve o
dossi (art. 154 CDS);
• sorpasso in corrispondenza di attraversamenti pedonali (art. 148 CDS);
• sorpasso in presenza di linea continua (art. 146 CDS).
|
Articolo 590 bis, c.5 c.p.
|
Reclusione da 2 a 4 anni
|
NO, salvo il caso di fuga ed omissione di soccorso (art. 189, c.8 CDS)
|
NO
|
D'ufficio
|
Fino a 5 anni (prorogabile a 10 anni in caso di condanna non definitiva)
|
Revoca patente
|
5 anni (10 anni in caso di condanna precedente per art. 186. c.2, lett.
b) o c) ovvero 187 CDS; 12 Anni in caso di fuga per art. 189 CDS)
|
Che cos'è l'hardware e il software?
L'hardware è la parte fisica del computer, ed è composto da dispositivi
elettrici, elettronici e meccanici. Il software è la parte logica del
computer, ed è costituito dall'insieme di tutti i programmi, dati e documenti
che descrivono tutte le operazioni che il computer deve eseguire.
In informatica, con input/output o ingresso/uscita (abbreviato I/O) si intendono
tutte le interfacce informatiche messe a disposizione da un sistema
operativo ai programmi, per effettuare un cambio o svincolo di dati o segnali.
Sono anche i due componenti fondamentali delle operazioni effettuate da
un elaboratore: collegate a queste interfacce nell'interazione con l'utente ci
sono le varie periferiche di I/O.
Descrizione
Gli input sono i dati che il programma riceve in ingresso mentre gli output sono
i dati che il programma trasmette in uscita verso un soggetto terzo. Anche i
dati salvati su disco rigido sono output dato che vengono inviati al gestore
delle periferiche che provvede a memorizzarli nella memoria magnetica. Anche
l'utente utilizza dispositivi di I/O infatti, per esempio il mouse, la tastiera,
il gamepad, lo scanner, i lettori ottici e il microfono sono dispositivi di
Input mentre il monitor, la stampante e le casse audio sono dispositivi di
Output.
Oltre a dispositivi di carattere fisico i programmi e il sistema operativo hanno
dei dispositivi di I/O che sono a loro volta dei componenti software. Questi
consentono la comunicazione tra processi e quindi consentono agli applicativi di
scambiarsi dati e di sincronizzarsi se necessario. In elettronica questo termine
viene usato per designare dei pin dei circuiti integrati (ed in particolar modo
dei microprocessori) che hanno funzioni sia di ingressi che di uscite.
Dati di output
All'inizio l'output era costituito dall'accensione o meno di mini-lampadine
organizzate in file orizzontali sul pannello di controllo dell'elaboratore,
cioè bit, da interpretare in esadecimale oppure ottale o in binario. Esempio di
dispositivi di output, specialmente per quello finale, sono i display oppure
le stampanti. Le interfacce grafiche consentono di avere un output più
facilmente comprensibile. Sono presenti anche gli altoparlanti, che consentirono
anche un output sonoro.
Pc, tutte le scorciatoie da tastiera per Windows
Websim
su L'Inkiesta
Combinazioni di tasti di sistema di Windows
F1: Guida
CTRL + ESC: consente di aprire il menu Start
ALT + TAB: consente di passare da uno all’altro dei programmi aperti
ALT + F4: consente di chiudere un programma
MAIUSC + CANC: consente di eliminare un elemento definitivamente
Logo Windows + L: consente di bloccare il computer (senza utilizzare CTRL + ALT
+ CANC)
Combinazioni di tasti di programma di Windows
CTRL + C: consente di copiare
CTRL + X: consente di tagliare
CTRL + V: consente di incollare
CTRL + Z: consente di annullare
CTRL + B: grassetto
CTRL + U: sottolineato
CTRL + I: corsivo
Combinazioni clic del mouse/modificatore di tastiera per oggetti della shell
MAIUSC + clic destro: consente di visualizzare un menu di scelta rapida
contenente altri comandi
MAIUSC + doppio clic: consente di eseguire il comando alternativo (la seconda
voce del menu)
ALT + doppio clic: consente di visualizzare le proprietà
MAIUSC + CANC: consente di eliminare un elemento immediatamente senza collocarlo
nel Cestino
Comandi generici solo da tastiera
F1: consente di avviare la Guida di Windows
F10: consente di attivare le opzioni della barra dei menu
MAIUSC + F10: consente di aprire un menu di scelta rapida per l’elemento
selezionato (corrisponde al clic con il pulsante destro del mouse su un oggetto)
CTRL + ESC: consente di aprire il menu di avvio (utilizzare i tasti di direzione
per selezionare un elemento)
CTRL + ESC oppure ESC: consente di selezionare il pulsante di avvio (premere TAB
per selezionare la barra delle applicazioni oppure premere MAIUSC + F10 per
visualizzare un menu di scelta rapida)
CTRL + SHIFT + ESC: consente di aprire Gestione attività Windows
ALT+ FRECCIA GIÙ: consente di aprire un elenco a discesa
ALT + TAB: consente di passare a un altro programma in esecuzione (per
visualizzare la finestra per cambiare attività, tenere premuto il tasto ALT,
quindi premere il tasto TAB)
MAIUSC: tenere premuto il tasto MAIUSC mentre si inserisce un CD per ignorare la
funzione di esecuzione automatica
ALT + BARRA SPAZIATRICE: consente di visualizzare il menu Sistema della finestra
principale (il menu Sistema consente di ripristinare, spostare, ridimensionare,
ridurre a icona, ingrandire o chiudere la finestra)
ALT+- (ALT + lineetta): consente di visualizzare il menu Sistema della finestra
secondaria dell’interfaccia a documenti multipli (MDI) (il
menu Sistema dell’interfaccia MDI consente di ripristinare, spostare,
ridimensionare, ridurre a icona, ingrandire o chiudere la finestra secondaria)
CTRL + TAB: consente di passare alla successiva finestra secondaria di un
programma di interfaccia MDI
ALT + lettera sottolineata nel menu : consente di aprire il menu
ALT + F4: consente di chiudere la finestra corrente
CTRL + F4: consente di chiudere la finestra di interfaccia MDI corrente
ALT + F6: consente di passare da una finestra all’altra nello stesso programma
(ad esempio, quando viene visualizzata la finestra Trova di Blocco note, ALT +
F6 consente di passare tra la finestra di dialogo Trova e la finestra principale
Blocco note)
Oggetti della shell e tasti di scelta rapida della cartella generica o di
Esplora risorse
Per un oggetto selezionato:
F2: consente di rinominare l’oggetto
F3: consente di trovare tutti i file
CTRL + X: consente di tagliare
CTRL + C: consente di copiare
CTRL + V: consente di incollare
MAIUSC + CANC: consente di eliminare la selezione immediatamente, senza spostare
l’elemento nel Cestino
ALT + INVIO: consente di aprire la finestra delle proprietà per l’oggetto
selezionato
Per copiare un file
Tenere premuto il tasto CTRL mentre si trascina il file in un’altra cartella.
Per creare un collegamento
Tenere premuti i tasti CTRL + MAIUSC mentre si trascina un file sul desktop o in
una cartella.
Controllo generico cartella/collegamento
F4: consente di selezionare la casella Vai a una cartella diversa e di spostare
le voci della casella verso il basso (se la barra degli strumenti è attiva in
Esplora risorse)
F5: consente di aggiornare la finestra corrente.
F6: consente di spostarsi tra i riquadri di Esplora risorse
CTRL + G: consente di aprire lo strumento Vai alla cartella (solo in Esplora
risorse di Windows 95)
CTRL + Z: consente di annullare l’ultimo comando
CTRL + A: consente di selezionare tutti gli elementi della finestra corrente
BACKSPACE: consente di passare alla cartella principale
MAIUSC + clic + pulsante Chiudi: per le cartelle, chiude la cartella corrente,
oltre a tutte le cartelle superiori
Controllo albero di Esplora risorse
Tasto * del tastierino numerico: consente di espandere tutti gli elementi della
selezione corrente
Tasto + del tastierino numerico: consente di espandere la selezione corrente
Tasto – del tastierino numerico: consente di comprimere la selezione corrente.
FRECCIA DESTRA: consente di espandere la selezione corrente (se non è già
estesa); in caso contrario va al primo elemento secondario
FRECCIA SINISTRA: consente di comprimere la selezione corrente se è estesa; in
caso contrario va all’elemento principale
Controllo proprietà
CTRL + TAB/CTRL + MAIUSC + TAB: consente di spostarsi tra le schede della
proprietà
Collegamenti Accesso facilitato
Premere MAIUSC cinque volte: consente di attivare o disattivare i Tasti
permanenti
Tenere premuto il tasto MAIUSC di destra per otto secondi: consente di attivare
o disattivare la funzionalità Filtro tasti
Tenere premuto il tasto BLOC NUM per cinque secondi: consente di attivare o
disattivare la funzionalità Segnali acustici
Tasto ALT di sinistra + tasto MAIUSC di sinistra + BLOC NUM: consente di
attivare o disattivare la funzionalità Controllo puntatore
Tasto ALT di sinistra + tasto MAIUSC di sinistra + STAMP: consente di attivare o
disattivare il contrasto elevato
Tasti della tastiera Natural di Microsoft
Logo Windows: menu di avvio
Logo Windows + R: finestra di dialogo Esegui
Logo Windows + M: consente di ridurre a icona tutti gli elementi
Logo Windows + MAIUSC + M: consente di annullare la riduzione a icona di tutti
gli elementi
Logo Windows + F1: Guida
Logo Windows + E: Esplora risorse
Logo Windows + F: consente di trovare file o cartelle
Logo Windows+D: consente di ridurre a icona tutte le finestre aperte e di
visualizzare il desktop
Logo Windows + CTRL + F: consente di trovare il computer
CTRL + Logo Windows + TAB: consente di spostare lo stato attivo da Start alla
barra degli strumenti Avvio veloce, alla barra delle applicazioni (per spostare
lo stato attivo sugli elementi della barra degli strumenti Avvio veloce e della
barra delle applicazioni, utilizzare FRECCIA DESTRA o FRECCIA SINISTRA)
Logo Windows + TAB: consente di passare da uno all’altro dei pulsanti della
barra delle applicazioni
Logo Windows + Interruzione: finestra di dialogo Proprietà del sistema
Tasto MENU SCELTA RAPIDA: consente di visualizzare un menu di scelta rapida per
l’elemento selezionato
Tastiera Natural di Microsoft con software IntelliType installato
Logo Windows + L: consente di effettuare la disconnessione da Windows
Logo Windows + P: consente di avviare Print Manager
Logo Windows + C: consente di aprire il Pannello di controllo
Logo Windows + V: consente di avviare la funzione Appunti
Logo Windows + K: consente di aprire la finestra di dialogo Proprietà tastiera
Logo Windows + I: consente di aprire la finestra di dialogo Proprietà mouse
Logo Windows + A: consente di avviare Accesso facilitato (se installato)
Logo Windows + BARRA SPAZIATRICE: consente di visualizzare l’elenco dei tasti di
scelta rapida di Microsoft IntelliType
Logo Windows + S: consente di attivare e disattivare BLOC MAIUSC
Comandi della tastiera per le finestre di dialogo
TAB: consente di passare al controllo successivo nella finestra di dialogo
MAIUSC + TAB: consente di passare al controllo precedente nella finestra di
dialogo
BARRA SPAZIATRICE: se il controllo corrente è un pulsante, consente di fare clic
sul pulsante. se il controllo corrente è una casella di controllo, consente di
attivare o disattivare la casella di controllo. se il controllo corrente è
un’opzione, consente di selezionare l’opzione.
INVIO: equivale a fare clic sul pulsante selezionato (il pulsante sottolineato)
ESC: equivale a fare clic sul pulsante Annulla
ALT + lettera sottolineata della voce della finestra di dialogo: consente
di passare all’elemento corrispondente
In Windows, per massimizzare la finestra attiva si può utilizzare la sequenza di
tasti CWin+FrecciaSu ("tasto con il logo di WINDOWS"+ freccia su)
Quale delle seguenti è una periferica di input? Scanner