Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’UMBRIA

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

  

TUTTO SU PERUGIA E L’UMBRIA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

I PERUGINI E GLI UMBRI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!

Quello che i Perugini e gli Umbri non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che i Perugini e gli Umbri non avrebbero mai voluto leggere. 

di Antonio Giangrande

 

 

 

SOMMARIO 

 

INTRODUZIONE

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

RAFFAELE SOLLECITO E LA PROSSIMITA’ SEMANTICA

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

HOTEL GOMORRA. PERUGIA E' COSCA NOSTRA.

PERUGIA COME SODOMA E GOMORRA?

LIBERTA’ DI PAROLA? AMMAZZATI PER UNA FRASE.

POVERA PERUGIA......

UMBRIA DA CENSURA E DA INSABBIAMENTI.

INSABBIAMENTI E MASSONERIA. I DELITTI DEL MOSTRO DI FIRENZE.

LA MALEDIZIONE DEL DELITTO DI PERUGIA.

PERUGIA: GLI SCANDALI; LA STRAGE….

LA PERUGIA DEI MISTERI. ANDREA ZAMPI E LA STRAGE DEL BROLETTO.

CASTA. AFFARI DI FAMIGLIA. L’ATENEO: ROBA NOSTRA!

INGIUSTIZIA A PERUGIA. IL CASO MEREDITH KERCHER

AMANDA E RAFFAELE: PERUGIA VI ODIA.

IL DELITTO DI PERUGIA. UNA STORIACCIA.

AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO: C'E' UN GIUDICE A PERUGIA.

PARLIAMO DI MASSONERIA E DI MAFIA.

PARLIAMO DI MAFIA.

FAVORITISMI E RACCOMANDAZIONI. VOTO DI SCAMBIO: IN ALTRI POSTI E' CONSIDERATA MAFIA.

PERUGIA INSICURA.

MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO KERCHER.

MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO BIANZINO.

MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO DELLA PICCOLA MARIA GEUSA.

MAGISTROPOLI.

PARLIAMO DI TERNI

CARCERI. MORIRE DI STATO.

MASSONI TERNANI.

LA MAFIA A TERNI.

MAGISTROPOLI.

MALAGIUSTIZIA.

MEDIOPOLI. IL CASO BOFFO.

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Pressioni e maltrattamenti, scrive Egle Piolo il 14 gennaio 2016 su “Il Messaggero”. "Forzata" a raccontare di essere stata nella casa del delitto la sera in cui fu uccisa Meredith Kercher. Un racconto, compreso uno "scappellotto", che ad Amanda Knox è valsa una denuncia per calunnia da parte dei poliziotti che, secondo lei, l'avevano maltrattata durante uno dei primi interrogatori dopo il delitto. Ma l'accusa oggi è caduta davanti al tribunale di Firenze (il fascicolo aperto dalla procura di Perugia è stato trasferito per il coinvolgimento dell'allora pm Giuliano Mignini come persona offesa), che ha assolto la giovane americana, già assolta in via definitiva per la morte di Mez insieme all'ex fidanzato Raffaele Sollecito. Il pm aveva chiesto una condanna a due anni e otto mesi, ma il tribunale fiorentino ha accolto invece la tesi degli avvocati Carlo Dalla Vedova, Luciano Ghirga e Tommaso Ducci.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

RAFFAELE SOLLECITO E LA PROSSIMITA’ SEMANTICA.

IL DELITTO DI PERUGIA. INNOCENTI? NO. FORTUNATI!

Nella roulette giudiziaria è uscita la sentenza di assoluzione, ma nella girandola delle pronunce emesse nulla ci impedisce di pensare che poteva uscirne qualcosa di diverso per gli imputati. E’ solo questione culo. In Italia sei fortunato se trovi un Giudice con la G maiuscola. Ancor più importante è avere tanti, tanti di quei soldi che ti permettano di cercarlo. Per questo stiamo qui a parlarne in un certo modo. Se la sorte fosse cambiata, il senso delle parole e dei reportage dei pennivendoli sarebbero diversi.

Che grama vita affidarsi alla fortuna!

La Bongiorno: "La Cassazione ha avuto il coraggio di affermare che Raffaele è innocente". L'avvocato difensore del giovane commenta la sentenza di assoluzione in via definitiva, scrive Caterina Pasolini su “La Repubblica”.

"E' stata una battaglia durissima, Sollecito è innocente, e questa Cassazione ha avuto il coraggio di affermarlo. Ora Raffaele torna a riprendersi la sua vita".

Fuori dal palazzaccio parla del suo assistito che ancora non riesce a credere alla fine dell'incubo, dei giudici "preparati, che hanno studiato a fondo le carte e per questo lo hanno assolto". L'avvocato Giulia Bongiorno nella notte più lunga scioglie la tensione e allarga un sorriso dopo anni di carte, di prove e perizie contestate. Ha vinto la sua linea, la sua costanza.

Se l'aspettava?

"Sì, avevamo consegnato seicento pagine per spiegare gli errori della sentenza, di una realtà frantumata nel corso di anni di processi e resa ormai irriconoscibile dal vero. Ho sempre detto che se si studiavano le carte si sarebbe capita la verità. E i giudici erano molto preparati, si vedeva, hanno fatto relazioni puntuali e rigorose. Hanno avuto coraggio".

Hanno avuto coraggio i magistrati?

"Sì, il coraggio di andare a fondo, di rileggere il materiale, in fondo c'era un'altra sentenza di Cassazione da valutare. Il coraggio di andare oltre l'apparenza e l'opinione pubblica. Il coraggio di essere indipendenti".

Raffaele e Amanda assolti per sempre?

"Si, i giudici potevano annullare la sentenza e decidere di approfondire, invece hanno deciso di annullare senza rinvio: è come dire basta indagini, non c'è alcun coinvolgimento di Sollecito".

Ha parlato con Raffaele?

"L'ho sentito, ha capito che è andata bene, non i passaggi tecnici. Mi è sempre piaciuto, mi è piaciuto il modo in cui ha affrontato a testa alta i momenti duri e sono stati tanti in questi otto anni di indagini, 4 dei quali passati in carcere. E in questo tempo non l'avete mai sentito imprecare, insultare i giudici o la giustizia. Sempre rispettoso, pacato, anche per il suo carattere mi sembrava impossibile l'accusa. Certo, ha avuto la fortuna di avere accanto un padre straordinario pronto a sostenerlo. Sempre".

Cosa le ha detto?

"È come se non riuscissi ancora a crederci. Dopo otto anni, dopo essermi svegliato tutte le mattine con questa spina nel cuore mi sembra impossibile sia finita. Invece, ora per Raffaele è il momento di riprendersi la sua vita".

Raffaele Sollecito si è laureato con una tesi su se stesso. Il giovane, condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, ha discusso la tesi in ingegneria informatica. Il tema: innocentisti e colpevolisti sul web. Il voto: 88 su 110, scrive Angela Geraci su “Il Corriere della Sera”. Raffaele Sollecito ha conseguito martedì mattina, 15 luglio 2014, la laurea specialistica in ingegneria informatica all’università di Verona. Il voto: 88 su 110. Il giovane pugliese, condannato con Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher (il 1° novembre del 2007 a Perugia), ha discusso una tesi riguardante l’analisi dei social network in cui ha esaminato i flussi sul web di innocentisti e colpevolisti sul suo caso. Sollecito - che ha scritto interamente in inglese la sua tesi di laurea ma poi l’ha discussa in italiano - ha sostenuto per esempio che sul web, nei giorni successivi all’ultimo verdetto (di condanna), il suo nome è stato più spesso associato alla parola innocente che a quella colpevole. Alla cerimonia erano presenti tutti i suoi familiari e anche uno dei suoi difensori, l’avvocato Luca Maori, e i consulenti informatici che lo hanno assistito nel processo per l’omicidio Kercher. Sulla torta fatta preparare dal padre Francesco c’era una pergamena disegnata con un filo di cioccolato e questa frase: «L’ingegner Raffaele Sollecito raggiunge uno dei più importanti traguardi della sua vita!». «Siamo felici - dice orgoglioso al telefono dall’aeroporto il padre del ragazzo, in attesa dell’aereo per Bari - per noi la meta raggiunta oggi da Raffaele ha un significato grandissimo in questo momento». Per la laurea il signor Sollecito non ha regalato nulla di materiale al figlio: «Il regalo che gli faccio tutti i giorni è il mio amore - spiega - Raffaele è il figlio ideale, quello che tutti i padri vorrebbero avere». Quando venne arrestato, pochi giorni dopo il delitto, Sollecito era iscritto all’Università di Perugia e si laureò infatti in carcere, il 16 febbraio del 2008. Si iscrisse quindi subito alla specialistica a Verona. Raffaele e Amanda sono stati condannati in primo grado, poi assolti in appello. La sentenza è stata però annullata dalla Cassazione che ha disposto un nuovo processo a Firenze al termine del quale i due ex fidanzati sono stati nuovamente condannati. La sentenza è stata però impugnata dalle difese in Cassazione che dovrà pronunciarsi nei prossimi mesi. Sollecito, come la Knox, si è sempre proclamato estraneo al delitto. Così come Rudy Guede, l’ivoriano già condannato in via definitiva per l’omicidio di via della Pergola e che sta scontando 16 anni di reclusione. Intanto Raffaele Sollecito continua a raccogliere fondi sul web per sostenere le spese per la sua lunga battaglia legale. L’ultima donazione, appena un’ora fa, è di John O’Loughlin: 20 dollari e un messaggio in cui si legge «Sei nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere, Raffaele. Siamo con te nella gioia e nei momenti difficili». Ma ieri anche Brigitte Gebhardt ha versato 40 dollari: «Sappiamo tutti che sei completamente innocente». E tre giorni fa un anonimo ha investito nella causa ben 300 dollari. L’obiettivo di Sollecito è quello di riuscire a mettere insieme 500 mila dollari, circa 370 mila euro. In 13 mesi, da quando ha lanciato la colletta, ne ha ricevuti 42.725 (circa 31.500 euro) da parte di 453 persone. Che lui periodicamente ringrazia. L’ha fatto con un messaggio soltanto cinque giorni fa: «Ogni giorno sono grato a Dio per avere avuto la fortuna di incontrare così tante persone che si rendono conto dell’incredibile ingiustizia che devo affrontare da così tanti anni ormai, perché chi accusa non vuole mai ammettere alcun errore - scrive Raffaele -. Vi ringrazio per la giornaliera dimostrazione di vicinanza e supporto. Nonostante tutto, non posso dire di non essere fortunato».

Meredith, otto anni per trovare la verità.

27 marzo 2015. Diario di una giornata. Processo omicidio Meredith «Assolvete Raffaele Sollecito è puro come Forrest Gump», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno. E' nella sua abitazione, in Puglia, a Bisceglie, Raffaele Sollecito: è nella casa di famiglia che il 30enne ha deciso di attendere, con il padre e le persone più care, la sentenza della Corte di Cassazione per l'omicidio di Meredith Kercher. È arrivato da Roma a Bisceglie in auto, insieme con il padre e ora è nella villetta, in via Carrara il Vuolo. Davanti all’abitazione c'è un’auto della polizia e un gruppo di giornalisti e cineoperatori assedia l'abitazione, circondata da un alto cancello. E' iniziata, con circa mezzora di ritardo, l’udienza del processo Meredith in Cassazione. Per la difesa di Raffaele Sollecito, ha preso la parola l’avvocato Giulia Bongiorno che ha detto che il suo intervento "si articolerà sugli unici due indizi a carico dell’imputato: il gancetto del reggiseno di Meredith, e l’essere stato fidanzato per 10 giorni con Amanda Knox". Dopo la parola passerà all’avvocato Luca Maori e poi i giudici si chiuderanno in camera di consiglio. "Sollecito non ha mai depistato, anzi ha sempre collaborato alle indagini, durante l’aggressione a Meredith vedeva i cartoni animati: Raffaele Sollecito è un puro che si vede coinvolto in vicende spettacolari e gigantesche delle quali, come Forrest Gump, non si rende conto. Assolvetelo!". Con queste parole l’avvocato Giulio Bongiorno ha chiuso la sua arringa in Cassazione al processo Meredith chiedendo ai giudici di scagionare Sollecito. "L'approccio della sentenza fiorentina con le prove genetiche sul gancetto e sul coltellaccio è fuorviante e anacronistico. La sentenza ammette che non vi è la prova certa della presenza del dna di Sollecito sul gancetto. I protocolli internazionali dei prelievi e degli esami, infatti, non sono stati rispettati", ha sottolineato l'avvocato Giulia Bongiorno nella sua arringa in difesa di Raffaele Sollecito. "Contro Raffaele è stato usato un metodo sospettocentrico perchè la prova del dna è stata fatta solo per cercare la sua traccia e non quella delle tante altre persone che frequentavano la casa di via della Pergola, tra le quali Giacomo Silenzi". Bongiorno ha spiegato di non voler dire che Silenzi "è colpevole, dal momento che ha un alibi, ma solo che su quel gancetto potevano essere trovate molte altre tracce genetiche se solo fossero state cercate". Inoltre l’avvocato ha criticato la sentenza dell’appello bis perchè ha dato all’impronta genetica di Raffaele rinvenuta sul gancetto una sorta di "valore di prova genetica a capacità ridotta, una cosa che non esiste in questo campo in quanto una mezza traccia genetica non è una prova, ma una trappola. Il criterio della capacità ridotta non si può applicare alla genetica, ma semmai alla valutazione delle dichiarazioni dei pentiti, come è avvenuto nel processo Andreotti". "Amanda Knox fu pressata da una stranissima medium nella stanza della polizia di Perugia, e una medium non ci deve stare in una stanza di polizia!", ha aggiunto l'avvocato Bongiorno. L’avvocato ha inoltre detto che, a suo avviso anche Amanda, come Raffaele, "è innocente" e che il delitto di Meredith è avvenuto la sera del primo novembre 2007, tra le ore 21 e le 22 e 13 minuti, quando Rudy Guede manda un mms dal suo cellulare. Secondo Bongiorno, inoltre, Meredith non è stata uccisa dal coltellaccio ma da un’arma non rinvenuta. L'avvocato Giulia Bongiorno ha parlato per circa un’ora e tre quarti nella sua arringa in difesa di Raffaele Sollecito all’udienza del processo Meredith in corso nell’Aula Magna della Cassazione, davanti ai giudici della Quinta Sezione Penale. Al termine della maratona oratoria, il presidente del collegio Gennaro Marasca ha disposto una breve pausa e poi la parola passerà a Luca Maori, l’altro difensore di Sollecito. Poi la Corte si ritirerà in camera di consiglio. "In questo enorme mosaico le tessere fondamentali sono il coltello e il gancetto del reggiseno, tutto il resto è subordinato a queste e se vengono a cadere cade tutto". E’ uno dei passaggi dell’arringa in Cassazione dell’avvocato Luca Maori, che assieme a Giulia Bongiorno,  difende Raffaele Sollecito nel processo per l’omicidio di Meredith Kercher. Il legale ha sottolineato che "la Corte di rinvio" di Firenze pur asserendo che l’esame del dna non fosse del tutto regolare l'ha ritenuto forte indizio, ma forte indizio non è prova certa". L’avvocato ha messo in discussione la perizia della Polizia postale sul computer di Sollecito, l’attendibilità dei testimoni, in particolare rispetto all’ora in cui questi dicono di avere udito un urlo provenire dalla villetta in via della Pergola e ha criticato lo "screditamento" della loro perizia di parte compiuta dai giudici fiorentino. Maori ha quindi concluso per l’annullamento della sentenza con cui la Corte d’assise d’appello di Firenze ha condannato il suo assistito a 25 anni di reclusione. Terminata l’udienza in Cassazione per il processo a Raffaele Sollecito e Amanda Knox per l'omicidio di Meredith Kercher. A breve il collegio della quinta sezione penale della cassazione si riunirà in camera di consiglio Il presidente, Gennaro Marasca, non fornito indicazioni sui tempi, ha solo specificato che un’ora prima della lettura del verdetto i difensori dei due imputati saranno avvertiti.

Amanda Knox e Raffaele Sollecito assolti in Cassazione per l'omicidio Meredith. I due erano stati condannati in appello a 25 anni di reclusione il primo e a 28 anni e sei mesi la seconda. Il padre di Sollecito piange lacrime di gioia dopo la decisione della Suprema Corte, scrive “La Gazzetta dello Sport”. Ci sono volute più di dieci ore in camera di consiglio per mettere la parola fine al processo per l’omicidio di Meredith Kercher, la giovane inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre del 2007. Un'attesa letta come preludio di una svolta, che è arrivata poco dopo le 22.30. La Cassazione ha assolto Raffaele Sollecito e Amanda Knox "per non aver commesso il fatto". La 27enne di Seattle è stata condannata a tre anni per calunnia nei confronti di Patrice Lumumba, ma è già stata in carcere per più tempo. Si conclude così dopo 8 anni uno delle vicende più controverse senza aver chiarito molti dubbi. "Finalmente abbiamo avuto giustizia. I giudici hanno capito che Raffaele non avrebbe mai potuto commettere quelle atrocità di cui era accusato", ha commentato a caldo il padre del ragazzo, Francesco. "Ha affrontato tutto a testa alta anche quando ha dovuto andare in prigione. Ha sempre mostrato rispetto per le istituzioni. È la migliore sentenza possibile", ha aggiunto il suo legale Giulia Bongiorno. Il diretto interessato ha parlato di "fine di un incubo, ora mi riprenderò la mia vita". Sentimenti opposti, nella famiglia Kercher "incredula e sgomenta". "La giustizia italiana ha dimostrato di non essere riuscita a trovare alla fine i responsabili. C’è stata un’alternanza di giudizio e ora non si può fare altro che prendere atto di questa assoluzione", ha affermato il legale. L’unico responsabile resta Rudy Guede, il solo degli imputati che ha scelto il rito abbreviato e definitivamente condannato a 16 anni di reclusione per "omicidio in concorso". L’ivoriano ha ammesso la sua presenza nella villetta del delitto, affermando però di essere stato in bagno mentre la Kercher veniva uccisa.

I Supremi giudici della V Sezione Penale si sono ritirati intorno a mezzogiorno e mezza. All’udienza finale, iniziata alle 9.30, ha preso la parola l’avvocato Giulia Bongiorno, che ha messo in evidenza tutte le incongruenze per cercare almeno di annullare con rinvio la condanna a 25 anni di reclusione inflitta a Sollecito nell’Appello bis davanti alla Corte fiorentina. "Sollecito non ha mai depistato, anzi ha sempre collaborato alle indagini, durante l’aggressione di Meredith lui era a casa sua a vedere i cartoni animati — aveva detto Bongiorno —. È un puro che si vede coinvolto in vicende spettacolari e gigantesche delle quali non si rende conto, come Forrest Gump". La sua arringa ha contestato le due perizie che, ad avviso dei giudici fiorentini, inchiodavano Sollecito. Quella sul gancetto del reggiseno di Meredith, e quella sul coltellaccio. Secondo l’avvocato, "è stato fuorviante l’approccio della sentenza dell’Appello bis con le prove genetiche nelle quali i protocolli non sono stati rispettati". Il legale ha spiegato che dopo la prima perquisizione, svoltasi dal 2 al 5 novembre 2007, "l’ambiente della casa non è stato sigillato e poi, quando ormai Sollecito era in carcere da 46 giorni, sono stati fatti altri prelievi". Nella sua requisitoria, invece, il sostituto procuratore della Cassazione Mario Pinelli aveva chiesto di confermare la condanna di Sollecito e quella di Amanda alla quale erano stati inflitti 28 anni.

Stupore e critiche alla giustizia italiana, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno". E’ questo il sentimento diffuso nei commenti apparsi sui media britannici dopo l’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. L’Independent parla di “atroce errore giudiziario” mentre il Guardian sottolinea che “questa non è certo la conclusione che i Kercher volevano o si aspettavano”, e aggiunge che i familiari della vittima avevano riposto fiducia nel sistema giudiziario italiano. “Non è chiaro se questa fiducia sia rimasta intatta dopo la sentenza della Cassazione”. Il giornale parla anche di “pillola amara” da digerire per i parenti di Mez, mentre il Sun sottolinea come sia iniziata “la nuova agonia per la mamma di Meredith”. L’Independent, in un commento a firma di Peter Popham, si chiede come “il sistema giudiziario di un Paese bello e illuminato” abbia potuto compiere così tanti errori.

In contemporanea con l’Italia, la notizia dell’assoluzione di Amanda Konx e Raffaele Sollecito e apparsa come "Breaking News" sui maggiori media americani, che allo stesso tempo l’hanno diffusa anche tramite i loro account Twitter. La Cnn riferisce con una scritta sul suo sito web che "il verdetto di colpevolezza di Amanda Knox è stato rovesciato", mentre nelle sue trasmissioni in diretta sta trasmettendo aggiornamenti con la sua inviata a Roma Barbie Nadeau. Il Wall Street Journal online scrive "Breaking: la corte d’appello rovescia la condanna di Amanda Knox per omicidio". E la notizia compare anche sul Washington Post, che sottolinea come "la sentenza mette definitivamente fine ad un caso di alto profilo", e sul New York Times, che l’ha immediatamente pubblicata dall’agenzia Ap. "La decisione dei giudici rappresenta l’ultima svolta di un’odissea della giustizia internazionale per Knox, che ha passato quattro anni in una prigione italiana", scrive Nbc News. Abc News afferma che la sentenza stabilisce che "Amanda Knox non sarà rispedita in prigione". Il maggiore spazio è dato però dal Seattle Times, il giornale della città natale di Knox. "La condanna di Amanda Knox rovesciata dall’Alta corte italiana", afferma nel titolo, e a sua volta sottolinea come si tratta di uno sviluppo che mette definitivamente fine alla vicenda.

LE TAPPE DELLA VICENDA.

La notte tra il primo e il due novembre 2007, la studentessa inglese, Meredith Kercher, venne barbaramente uccisa nella sua abitazione di via della Pergola, a due passi dall'Università per Stranieri di Perugia, dove si trovava per seguire il progetto Erasmus, mai terminato. Il suo corpo senza vita venne trovato in camera da letto, in una pozza di sangue, accoltellata alla gola e coperta con un piumone. Per lo stesso delitto il giovane ivoriano, Rudy Guede, è stato condannato con rito abbreviato a 16 anni di carcere per concorso in omicidio e violenza sessuale.

2 NOV. 2007 - Meredith Kercher, studentessa inglese di 22 anni, viene trovata morta nella sua camera da letto, nella casa di via della Pergola, a Perugia, dove si trovava per il progetto Erasmus. Meredith viene uccisa con una coltellata alla gola nel proprio appartamento. Il corpo viene trovato il giorno dopo in camera da letto, coperto da un piumone. A occuparsi delle indagini è la polizia.

6 NOV 2007 - la polizia ferma per l'omicidio la coinquilina di Mez, Amanda Knox, il fidanzato di questa ultima, Raffaele Sollecito e il musicista congolese Patrick Lumumba Diya. Lumumba è il datore di lavoro di Amanda. E' lei a indicarlo come l'autore del delitto. Amanda, americana, di Seattle, all'epoca ventenne, è la coinquilina di Meredith e studia all'Università per stranieri di Perugia. Sollecito, 24 anni, pugliese, laureando in ingegneria, ha da un paio di settimane una storia con Amanda. Lumumba, 38 anni, originario dell'ex Zaire, dal 1988 vive in Umbria dove gestisce un pub in cui lavorava Amanda. Tutti e tre si dichiarano estranei all'omicidio.

9 NOV 2007 - Il gip convalida i fermi.

11 NOV 2007 - Un docente svizzero racconta alla polizia di essere stato nel pub di Lumumba la sera del delitto e conferma l'alibi del musicista congolese.

15 NOV 2007 - Tracce del dna di Meredith e Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito.

19 NOV 2007 - Rudy Hermann Guede, 21 anni, originario della Costa D'Avorio è indicato come il quarto uomo. La polizia spicca un mandato di cattura internazionale.

20 NOV 2007 -  Patrick Lumumba viene rimesso in libertà dopo che dalle indagini è emersa la sua estraneità al delitto. Nello stesso giorno viene arrestato Rudy Guede, ivoriano di 21 anni, bloccato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori palmari hanno individuato l'impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere della studentessa inglese e a diverse tracce di Dna in casa. Si dichiara innocente.

6 DIC 2007 - Rudy è trasferito in Italia.

27 MAG 2008 - Il gip Claudia Matteini, su richiesta della procura, archivia il procedimento penale nei confronti di Patrick Lumumba.

19 GIU 2008 - I pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l'atto di chiusura indagini. Per loro Meredith Kercher fu uccisa da Knox, Sollecito e Guede per futili motivi.

16 SET 2008 - Inizia l'udienza preliminare davanti al gup di Perugia, Paolo Micheli. Il gup dispone di procedere con rito abbreviato per Guede e lo condanna a 30 anni di carcere per omicidio volontario e violenza sessuale e rinvia a giudizio Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Il gup Paolo Micheli accoglie la richiesta di rito abbreviato per Guede.

18 OTT 2008 - I pm chiedono al gup di Perugia la condanna all'ergastolo per Guede e il rinvio a giudizio per Sollecito e la Knox.

28 OTT 2008 - Il gup condanna a 30 anni di reclusione Rudy e dispone il processo per Amanda e Raffaele.

16 GEN 2009 - Inizia davanti alla Corte d'assise di Perugia il processo a Raffaele e Amanda.

18 NOV 2009 - Si apre davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Perugia il processo d'appello nei confronti di Rudy Guede.

5 DIC 2009 -  La corte d'Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna Knox a 26 anni di carcere e Sollecito a 25. La Corte di assise, dopo oltre 14 ore di camera di consiglio, condanna Amanda e Raffaele a 26 e 25 anni di carcere.

22 DIC 2009 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riduce da 30 anni a 16 anni la pena inflitta a Guede. Concesse le attenuanti generiche.

4 MAR 2010 - Depositate le motivazioni della sentenza di primo grado nei confronti di Amanda e Raffaele. Hanno ucciso spinti da un movente "erotico, sessuale, violento".

22 MAR 2010 - Depositate anche le motivazioni sulla condanna a Guede: "concorse pienamente", scrivono i giudici della Corte d'Assise d'Appello, all'omicidio Kercher.

15 APR 2010 - I difensori di Sollecito depositato l'appello contro la sentenza di primo grado. Anche la procura di Perugia presenta appello contro la concessione delle attenuanti generiche agli imputati e l'esclusione dell'aggravante dei futili motivi.

17 APR 2010 - La difesa di Amanda Knox deposita l'appello e chiede nuove perizie.

7 MAG 2010 -  la difesa di Guede presenta ricorso in Cassazione contro la sentenza della corte d'assise di appello di Perugia. - 24 NOV 2010: Si apre il processo davanti alla Corte d'assise d'appello di Perugia a Raffaele Sollecito ed Amanda Knox.

24 NOV 2010 - Si apre il processo d'appello per Amanda e Raffaele.

16 DIC 2010 - La Cassazione conferma i sedici anni di reclusione inflitti a Guede dalla Corte di appello, che diventa così definitiva..

18 DIC 2010 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riapre il dibattimento del processo a Raffaele Sollecito e ad Amanda Knox e dispone una nuova perizia super partes per le tracce genetiche sul coltello e sul gancetto del reggiseno indossato dalla vittima quando venne uccisa. La Corte d'assise d'Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello considerato l'arma del delitto e sul gancetto del reggiseno di Mez. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della Corte, "non sono attendibili".

29 GIU 2011 - I periti della Corte di assise di appello bocciano il lavoro svolto dalla polizia scientifica, definendo gli accertamenti tecnici "non attendibili", per il Dna attribuito a Meredith sul coltello e a Raffaele Sollecito sul gancetto di reggiseno. Gli esperti, inoltre, non escludono che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione.

24 SET 2011 - La Procura generale chiede la condanna all'ergastolo per Amanda Knox e Raffaele Sollecito.

3 OTT 2011 -  La Corte di assise di appello di Perugia assolve Amanda e Raffaele dall'accusa di aver ucciso Meredith Kercher. Amanda scoppia in un pianto liberatorio e subito dopo l'assoluzione torna in America con la sua famiglia.

15 DIC 2011 - La Corte di assise di appello di Perugia deposita le motivazioni della sentenza di assoluzione e parlano di mancanza di prova di colpevolezza. Secondo i giudici di secondo grado i "mattoni" su cui si è basata la condanna "sono venuti meno": c'e' una "insussistenza materiale" degli indizi, dalle tracce di Dna all'arma del delitto.

14 FEB 2012 - La procura generale e la famiglia di Meredith Kercher depositano il ricorso in Cassazione contro la sentenza di assoluzione.

19 LUG 2012 - La Cassazione fissa per il 25 marzo 2013 l'udienza per l'esame del ricorso.

25 MAR 2013 - Il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l'annullamento della sentenza di assoluzione, definita un "raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità".

26 MAR 2013 - La Cassazione annulla con rinvio la sentenza di assoluzione di secondo grado emessa dalla Corte di Assise di appello di Perugia. Conferma la condanna per calunnia ad Amanda. La Suprema corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d'appello di Firenze per un nuovo processo.

30 SET 2013 - Il processo bis riprende davanti alla Corte di Assise di appello di Firenze e riparte da capo, con difese e accuse che rappresentano, a partire dalla scena del delitto, le proprie arringhe. Sollecito, la Knox, così come i familiari di Meredith non sono presenti in aula.

26 NOV. 2013 -Il sostituto procuratore generale di Firenze, Alessandro Crini, chiede 30 anni di carcere per Amanda Knox e 26 anni per Raffaele Sollecito.

30 Gen 2014 - La Corte d'Assise di Appello di Firenze condanna a 28 anni e mezzo di carcere Amanda Knox e a 25 anni Raffaele Sollecito per il quale viene anche disposto il divieto di espatrio. Ad Amanda viene riconosciuta l'aggravante per il reato di calunnia nei confronti di Lumumba.

31 GEN 2014 - la polizia ritira il passaporto a Raffaele Sollecito in un albergo tra Udine e Tarvisio.

29 APR 2014 - la Corte d'Appello di Firenze deposita le motivazioni della sentenza.

16 GIU 2014 - i difensori di Amanda Knox e Raffaele Sollecito depositano i ricorsi in Cassazione contro la condanna nei confronti dei loro assistiti da parte della Corte d'assise d'appello di Firenze. Le difese chiedono l'annullamento della sentenza di appello bis e, quindi, l'assoluzione per i due ex fidanzatini.

30 SET 2014 - La Corte di Cassazione fissa per il 25 marzo 2015 il nuovo processo per Sollecito e la Knox.

25 MAR 2015 - Si apre il processo in Cassazione davanti alla quinta sezione penale. Il pg Mario Pinelli, nella sua requisitoria, chiede di confermare le condanne di Amanda e Raffaele per l'omicidio di Meredith.

27 MARZO 2015 . La Sentenza definitiva di assoluzione per gli imputati Amanda Knox e Raffaele Sollecito per e l'omicidio di Meredith. La Quinta sezione penale della corte di Cassazione presieduta da Gennaro Marasca ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. 

Processo di Perugia e omicidio di Meredith, 8 anni di sentenze e ribaltoni: le tappe, scrive “Libero Quotidiano”. Otto anni di polemiche, sentenze, ribaltoni, rinvii. Il giallo di Perugia e l'omicidio di Meredith Kercher, avvenuto l'1 novembre 2007, si è ufficialmente e definitivamente concluso con l'assoluzione dei due grandi sospettati, Amanda Knox e Raffaele Sollecito, condannati il 30 gennaio 2014 nell'Appello bis a 28 anni e a 25 anni di carcere. Sentenza annullata in Cassazione perché "il fatto non sussiste": non ci sono insomma sufficienti prove per condannare i due giovani ex fidanzatini. Ecco le tappe che hanno portato a questo verdetto.

L'omicidio - Nella notte del 1° novembre del 2007 in via della Pergola a Perugia viene assassinata Meredith Kercher, una studentessa inglese di 21 anni. Il giorno successivo il corpo viene scoperto dalla coinquilina Amanda Knox e dal suo fidanzato Raffaele Sollecito, che dopo 4 giorni vengono fermati dalla polizia, finendo sulle prime pagine di tutti i quotidiani. Giacomo Silenzi, fidanzato italiano di Meredith, accusa Amanda di essere insensibile alla vicenda, dal momento che non tradiva la minima emozione all'indomani dell'omicidio. A finire nei guai è anche Patrick Lumumba, proprietario del bar in cui Amanda lavorava ogni tanto, accusato dalla stessa Amanda. Le prove scarcerano poi Lumumba e nello stesso giorno viene accusato Rudy Guede - rintracciato e arrestato in Germania - perché viene trovata sulla scena del crimine l'impronta della sua mano insanguinata.

Il processo - Il 16 settembre 2008 inizia l'udienza preliminare davanti al gup di Perugia, che dispone di procedere col rito abbreviato per Guede - condannandolo a 30 anni di carcere per omicidio volontario e violenza sessuale - e rinvia a giudizio Amanda e Raffaele. Il loro processo inizierà il 16 gennaio 2009 e a fine anno arriverà la sentenza della Corte di assise di Perugia, che li condanna rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere.

L'appello - Il 18 dicembre 2010 la stessa Corte d'assise riapre il dibattimento del processo per i due ex amanti e dispone una nuova perizia per le tracce genetiche ritrovate sul coltello e sul gancetto del reggiseno trovato nella stanza di Meredith. Sei mesi dopo i periti bocciano il lavoro svolto dalla scientifica definendo gli accertamenti come non attendibili. Il 24 settembre 2011 la procura chiede l'ergastolo per entrambi, ma qualche giorno dopo la sorpresa: arriva l'assoluzione.

La Cassazione - La procura generale e la famiglia della vittima depositano il ricorso in cassazione contro la sentenza di assoluzione e il 25 marzo 2013 la cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado. Questo porta a un "nuovo inizio" del processo. Il pg Alessandro Crini aveva chiesto trent'anni di carcere per Amanda Knox e la riformulazione a 4 anni di reclusione per calunnia ("carattere non estemporaneo della calunnia stessa, e tarata per creare depistaggio") e 26 anni per Raffaele Sollecito.


L'Appello bis a Firenze - Il 30 gennaio 2014 arriva la seconda sentenza d'Appello, con la condanna di Amanda a 28 anni e 6 mesi e 25 anni per Sollecito. Ora l'ultimo ribaltone della Cassazione, che ha assolto di fatto i due giovani senza rinviare nuovamente all'Appello. Confermata la condanna di 3 anni per la Knox per calunnia nei confronti di Lumumba.

Omicidio Meredith: Amanda e Raffaele assolti. Per la corte di Cassazione i due non sono colpevoli del delitto Kercher, a Perugia, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. La corte di Cassazione ha cancellato la sentenza con la quale la Corte d’Appello di Firenze aveva condannato Amanda Knox e Raffaele Sollecito rispettivamente a 28 e 25 anni di carcere per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia la sera del primo novembre 2007. "Tutte le figure di questa storia sono inserite in una ricostruzione perfetta, come in una foto di Cartier-Bresson, dove ogni particolare trova la sua corrispondenza" ha detto il sostituto procuratore generale Mario Pinelli durante la sua requisitoria-fiume di martedì scorso al termine della quale ha chiesto la conferma del dispositivo di colpevolezza. Sul corpo della ventunenne Meredith Kercher hanno infierito in tre, ha spiegato Pinelli, e dopo l'omicidio la casa di via della Pergola è stata sottoposta a "una estesa attività di ripulitura selettiva". Mai citazione fu più impropria e inopportuna. Cartier-Bresson, il grande fotografo francese che ha inventato il fotogiornalismo, con il suo "occhio del secolo" avrebbe sicuramente focalizzato l'attenzione sui dettagli che mai come in questa indagine fanno emergere lacune e superficialità. Pensate alla telecamera che riprende il momento in cui vengono acquisiti i reperti rimasti sulla scena del delitto. Pensate all'immagine di quegli agenti che maneggiano in modo improprio il reggiseno sul cui gancetto verrà poi ritrovata una traccia di Raffaele alla quale si pretende di attribuire un valore scevro da ogni pericolo di contaminazione. Per non parlare della "ripulitura selettiva" a cui fa riferimento il sostituto procuratore generale. Dopo il delitto, Amanda e Raffaele avrebbero ripulito tutto. Immaginate la scena, le tracce rimaste sul pavimento che parlano: io sono di Amanda. Zac, via. Io sono di Raffaele. Zac, via. Io sono l'impronta di Rudi Guede. No, tu rimani. Surreale? A questo porta la tesi dell'accusa: i due fidanzati assassini avrebbero ripulito le tracce, ma guarda caso dentro la stanza sono state ritrovate solo quelle dell'ivoriano già condannato a 16 anni. La ripulitura selettiva, per l'appunto. Raffaele durante le udienze era a Roma, speranzoso come non mai che i giudici della suprema corte accogliessero i motivi di ricorso illustrati in oltre 600 pagine dai suoi avvocati Luca Maori e Giulia Bongiorno. Amanda non si è mossa invece dalla sua casa di Seattle, dove si appresta a convolare a nozze con il musicista Colin Sutherland. 

Omicidio Meredith: assolti Amanda e Raffaele.

Le prove scientifiche. Raffaele Sollecito è rimasto solo davanti ai giudici durante questo ultimo disperato tentativo nel quale i suoi difensori hanno volutamente separato il suo destino da quello dell’ex fidanzata americana. Ancora una volta la partita si è giocata sulle prove scientifiche, che nel corso di questi 7 anni e mezzo di processi sono state oggetto di valutazioni differenti, con un contrasto di giudizio apparso a tratti stupefacente. Vedi la traccia di Raffaele sul reggiseno di Meredith, quella di Amanda sul coltello da cucina indicato come arma del delitto, l’orma di piede di Raffaele sul tappetino del bagno. A ogni perizia si è assistito al ribaltamento del giudizio tecnico a seconda della direzione presa dai giudici.

Il movente. Senza entrare per l’ennesima volta nel merito delle prove scientifiche, un altro elemento fondamentale che nel corso dei vari dibattimenti è stato cambiato più volte è il movente, con il risultato finale di farlo apparire raffazzonato. Perché Amanda e Raffaele avrebbero ucciso Meredith quella sera in concorso con l’ivoriano Rudi Guede? Si era partiti dal gioco erotico: l’omicidio sarebbe maturato durante un’orgia tenuta in quella casa. Peccato che dentro la stanza degli amplessi non ci fossero tracce di Amanda e Raffaele, una circostanza che appariva inverosimile e che veniva giustificata dai giudici con la pulizia successiva fatta dai due fidanzati, che avevano cancellato ogni residuo organico. Però, c’era un però. Rimanevano dentro la stanza le tracce di Rudi Guede, particolare che portava l’avvocato Bongiorno a chiedere alla corte come fosse possibile che i due amanti avessero riconosciuto e distinto le tracce durante l’opera di pulizia per lasciare quelle dell’ivoriano. Il movente erotico ha poi lasciato il campo alla lite tra le due ragazze scatenata a causa delle pulizie, per arrivare alla fine all’omicidio come atto finale di una situazione incancrenita tra Meredith e Amanda, che guarda caso uccide l’amica proprio la sera in cui dentro casa c’è un altro uomo, Rudi Guede. Per il quale a questo punto ci si domanda: cosa ci faceva lì quel 27 novembre?

Il ruolo di Rudi Guede. Proprio l’ivoriano finisce per essere il miracolato di una indagine in cui sono stati commessi svariati e pacchiani errori, a cominciare dalle modalità con le quali sono stati acquisiti e conservati reperti fondamentali come il reggiseno di Meredith. Il paradosso attuale è che mentre Sollecito rischia di rientrare in quel carcere dove ha già trascorso quattro anni della sua vita, tra poco si appresta a uscire Rudi Guede, condannato a 16 anni con rito abbreviato per l’omicidio in concorso.

Ma dove sono le prove? Tornano alla mente le parole di Claudio Patrillo Hellmann, il presidente della Corte d’asside d’appello di Perugia che aveva assolto i due imputati: “Amanda e Raffaele possono anche essere responsabili della morte di Meredith, ma non ci sono le prove. Quelle che abbiamo valutato in dibattimento non le abbiamo ritenuto sufficienti a condannare”. Una presa di posizione netta, onesta e coraggiosa. E tornano alla mente anche le parole di Alessandro Nencini, presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze che ha emesso l’ultima sentenza di condanna. Il giorno dopo aver letto il dispositivo in aula, il giudice si concede ai giornalisti per spiegare come si è arrivati alla sentenza. Un atto irrituale nella forma, considerato in qualche modo anticipatore delle motivazioni, e stonato nella sostanza, visto che Nencini durante l’intervista esprime un giudizio critico sulla scelta di Raffaele Sollecito di non sottoporsi a interrogatorio durante il dibattimento. Un comportamento processuale legittimo che dovrebbe essere del tutto agnostico per i giudici. Senza dimenticare il fatto che la procura e la parte civile non hanno mai chiesto il suo interrogatorio. Ora si è visto chi aveva ragione. Abbiamo capito uquanto possa essere reale il garantismo della nostra legislazione penale. Dove c'è scritto che “nessuno può essere condannato se non esiste prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio della sua colpevolezza”. Se c’è un dubbio, anche minimo, si assolve, recita il nostro codice. E qui di dubbi ce n'erano  tanti.

Omicidio Meredith, assoluzione definitiva per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, scrive “la Repubblica”. La sentenza della Cassazione. Dopo le arringhe dei difensori, lunga camera di consiglio dei giudici. Il giovane ha atteso il verdetto a casa sua. L'americana è stata condannata per calunnia nei confronti di Lumumba, è in Usa. L'esultanza in casa del ragazzo, il disappunto dei familiari della giovane uccisa. La Quinta sezione penale della corte di Cassazione presieduta da Gennaro Marasca ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Solo la Knox è stata condannata a tre anni per il reato di calunnia, pena già scontata. Da Seattle Amanda Knox si dichiara "Tremendamente sollevata e grata" per la sentenza della Cassazione, in un comunicato inviato ai media statunitensi. Knox ha sottolineato che solo la sua consapevolezza di essere innocente le ha dato "forza nei momenti più bui di questa dura esperienza" e ha ringraziato famiglia, amici e anche sconosciuti per il sostegno avuto in questi anni. "A loro dico: Grazie dal profondo del mio cuore", scrive Amanda. Anche la famiglia della giovane di Seattle ha rilasciato una dichiarazione nella quale si esprime "profonda gratitudine" a tutti coloro che l'ha sostenuta. Dichiarazione poi ribadita ai media presenti davanti alla sua casa: "Sono molto grata che giustizia sia stata fatta. Grazie. Sono grata di riavere la mia vita", ha detto uscendo dal giardino con la madre, la sorella e il fidanzato. "Meredith era una mia amica. Meritava moltissimo nella vita. Io sono quella fortunata", ha aggiunto. "Finalmente è finita": così Vanessa Sollecito, sorella di Raffaele, dopo la sentenza di assoluzione. "E' finita... è finita...": Francesco Sollecito, padre del ragazzo, ha accolto in lacrime la sentenza. "Stiamo piangendo di gioia" è riuscito solo ad aggiungere. Francesco Sollecito ha atteso con il figlio la sentenza. L'uomo ha avuto la notizia dell'assoluzione dalla figlia che gli ha telefonato nella loro casa in Puglia. In sottofondo nell'abitazione si sentono pianti e urla di gioia. "Meredith è la prima e la più grande vittima di tutta questa tragedia perché è colei che ha perso la vita e noi siamo sempre stati vicini alla sua famiglia. Anche loro potranno dire che c'è stata giustizia perché l'unico vero responsabile di quella terribile storia è stato condannato in via definitiva e sta scontando la sua pena", ha detto ancora il padre del giovane assolto.  "Un lunghissimo abbraccio e un pianto a dirotto era l'unica cosa che io e Raffaele potevamo dirci". Raffaele Sollecito è scoppiato a piangere non appena ha ricevuto la notizia del verdetto della Cassazione. "Sono immensamente felice che quella stessa magistratura che mi ha condannato ingiustamente mi ha restituito oggi la dignità e la libertà". "Sono ancora incredulo", ha aggiunto. "Finalmente non dovrò più occuparmi di carte giudiziarie e posso tornare alla normalità". "E' stata una battaglia durissima, era pacifico che Sollecito è innocente, e questa Cassazione ha avuto il coraggio di affermarlo. Ora Raffaele torna a riprendersi la sua vita": così Giulia Bongiorno, legale di Raffaele Sollecito. "Ho sentito Amanda e le ho appena comunicato la sentenza di assoluzione definitiva. Ovviamente lei è felice. Finalmente l'errore è stato emendato dalla Corte di Cassazione. E' un importante riconoscimento per la giustizia". Lo ha detto l'avvocato Carlo Dalla Vedova, difensore della ragazza americana che attendeva la sentenza da Seattle. chiederemo il risarcimento per ingiusta detenzione". Amanda è stata condannata a tre anni per calunnia, ma ha sofferto una carcerazione preventiva superiore alla pena inflittale. Amanda ha atteso la sentenza partecipando ad una festa a casa sua a Seattle. Alla notizia della decisione della Cassazione in Italia, si sono sentite urla di gioia. Ci sono auto parcheggiate davanti alla villetta, una come tante nel quartiere rigoglioso in questo inizio di primavera: sono gli amici e la famiglia di Amanda Knox che sono rimasti con lei in queste ore di attesa e poi per festeggiare. E alla fine appare lei: "Sono molto grata che giustizia sia stata fatta. Grazie. Sono grata di riavere la mia vita" dice Amanda Knox comparendo sulla porta di casa a Seattle insieme con la madre, la sorella e il fidanzato. "E' una verità difficile da digerire per la famiglia, per noi che l'abbiamo difesa e per i giudici che hanno emesso i verdetti di condanna". Lo ha detto l'avvocato Francesco Maresca, difensore della famiglia Kercher, dopo l'assoluzione di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. "E' una sentenza che ci ha sorpresi, non me lo aspettavo, ne prendiamo atto. Dalla lunghezza della camera di Consiglio credo che ci sia stato un grosso dibattito.  Non ha un nome chi era con Rudy Guede - ha aggiunto il legale - I giudici hanno ritenuto che le prove non fossero sufficienti".  La famiglia Kercher ha dichiarato al Guardian che non manderà oggi, ma probabilmente domani, un comunicato sull'assoluzione. "Siamo allibiti...": Stephanie Kercher ha commentato con poche parole la sentenza sull'omicidio della sorella Meredith. Al suo avvocato ha chiesto se ci sarebbe stato un nuovo appello: "Le ho dovuto rispondere di no...", ha rivelato il legale. Poche parole anche dalla madre di Meredith, Arline Kercher: "Sono sorpresa e molto scioccata". E' quanto riferisce la Bbc. "Sono curioso di leggere la sentenza": il sostituto procuratore generale di Perugia Giancarlo Costagliola commenta così la sentenza della Cassazione su Raffaele Sollecito e Amanda Knox. "Prendo atto della decisione - ha detto il magistrato - e ho il massimo rispetto per le decisioni della Corte". Costagliola aveva rappresentato l'accusa in appello insieme a Giuliano Mignini e Manuela Comodi. "Evidentemente avevamo ragione noi": Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte d'assise d'appello di Perugia che nel 2011 assolse Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall'omicidio di Meredith Kercher commenta così la decisione della Cassazione. "Non ci speravo, dopo tanti errori giudiziari commessi da altri giudici la Corte di Cassazione ha dimostrato che in Italia c'è ancora una giustizia" ha detto Pratillo Hellmann, giudice ora in pensione. "Sono contento - ha sottolineato l'ex presidente della Corte - perché è stato evitato un errore giudiziario e quei due disgraziati di Amanda e Raffaele ne sono usciti perché innocenti. Non nascondo la mia soddisfazione personale perché la nostra sentenza era stato tanto bistrattata". La decisione della Cassazione ora compare in apertura del sito internet di Cnn, Usa Today, Fox News, Nbc, Cbs. È finito così il giorno della sentenza di Cassazione sull'omicidio di Meredith Kercher. Il lungo rocess, otto anni, per l'uccisione della studentessa inglese, morta a Perugia la notte dell'1 novembre 2007.  Era ripreso poco prima delle nove e mezza davanti alla quinta sezione penale della suprema corte. La seconda udienza, dopo il rinvio dell'altro ieri, è iniziata con l'arringa dell'avvocato Giulia Bongiorno, uno dei due difensori di Raffaele Sollecito, imputato insieme ad Amanda Knox per il delitto e presente in aula insieme alla sua fidanzata Greta e il padre Francesco. "Parlerò dei due indizi a carico di Raffaele Sollecito in questo processo: il dna sul gancetto del reggiseno e l'essere stato fidanzato da dieci giorni con Amanda", ha detto la Bongiorno aprendo la sua arringa. "Ho apprezzato lo stile della requisitoria del pg, non i contenuti", ha precisato l'avvocato arrivando in Cassazione. Durante la sua arringa, ha poi aggiunto: "Sollecito non ha mai depistato, ma ha collaborato con gli investigatori, ha preso a spallate la porta dove c'era il corpo di Meredith. Durante l'aggressione stava guardando i cartoni animati. E' un puro che si vede coinvolto in vicende spettacolari e gigantesche delle quali, come Forrest Gump, non si rende conto. Assolvetelo!". Secondo la difesa, non c'era prova certa del Dna di Raffaele sui gancetti del reggiseno di Meredith Kercher. Inoltre non è stato accertato "il rispetto dei protocolli internazionali che garantiscono margini di certezza scientifica". "Quindi - ha proseguito - il tema cruciale della prova genetica, ossia gli indizi a carico di Sollecito, hanno un approccio fuorviante e anacronistico". "Contro Raffaele è stato usato un metodo sospettocentrico perché la prova del dna è stata fatta solo per cercare la sua traccia e non quella delle tante altre persone che frequentavano la casa di via della Pergola". Inoltre l'avvocato ha criticato la sentenza dell'appello bis perché ha dato all'impronta genetica di Raffaele rinvenuta sul gancetto una sorta di "valore di prova genetica a capacità ridotta, una cosa che non esiste in questo campo in quanto una mezza traccia genetica non è una prova, ma una trappola. Il criterio della capacità ridotta non si può applicare alla genetica, ma semmai alla valutazione delle dichiarazioni dei pentiti, come è avvenuto nel processo Andreotti. Se una prova genetica non è valida per la scienza, quella prova genetica va cestinata perché o il dna è di Sollecito o non lo è. Il forse nella scienza non c'è". Bongiorno ha poi cercato di separare la posizione di Sollecito da quella di Amanda Knox: "Sono veramente convinta che Amanda non è entrata nella stanza del delitto, ma se si deve credere alle sue dichiarazioni allora bisogna credere che lei uscì dalla casa di Sollecito e mentì al suo ragazzo dicendogli che andava a lavorare dopo aver ricevuto il messaggio di Patrick Lumumba che invece le aveva detto di non andare al lavoro". "Amanda Knox fu pressata da una stranissima medium nella stanza della polizia di Perugia, e una medium non ci deve stare in una stanza di polizia!", ha detto Bongiorno in uno dei passaggi finali della sua arringa. Bongiorno aveva inoltre detto che, a suo avviso anche Amanda, come Raffaele, "è innocente" e che il delitto di Meredith è avvenuto la sera del primo novembre 2007, tra le ore 21 e le 22 e 13 minuti, quando Rudy Guede mandò un mms dal suo cellulare. Secondo la difesa di Sollecito, inoltre, Meredith non è stata uccisa dal 'coltellaccio' ma da un'arma non rinvenuta. "Io sono convinta che Amanda non sia mai entrata in quella stanza ma non si può pretendere che Sollecito sia colpevole per non aver tirato in ballo quella che per una decina di giorni sarebbe stata la sua fidanzata. Raffaele non era presente nella stanza del delitto e non ci sono neppure tracce riconducibili alla Knox". Davanti ai giudici della V sezione penale della Cassazione, Bongiorno aveva chiesto "l'annullamento della condanna a 25 anni per il ragazzo che insieme ad Amanda Knox è accusato dell'omicidio di Meredith Kercher". L'avvocato Carlo Dalla Vedova, che difendeva Knox, parlando al termine dell'udienza, ha raccontato lo stato d'animo della sua assistita: "Amanda non chiude occhio, non dorme e aspetta sulle spine la decisione della Cassazione. E' a Seattle con i suoi genitori, l'ho appena sentita ed é molto preoccupata". Terminate le arringhe, poco dopo le 12, i giudici sono entrati in camera di consiglio da cui sono usciti dieci ore dopo con la sentenza. Sollecito aveva già comunicato che non sarebbe stato in aula al momento del verdetto:  se fosse stata onfermata la sentenza d'appello, per lui sarebbe scattato l'arresto. Amanda Knox e Raffaele Sollecito hanno scontato quattro anni di carcere. Sono stati condannati in primo grado a 26 e 25 anni. Nel 2011, in appello, sono stati assolti e il 25 marzo 2013 la Cassazione ha annullato le assoluzioni rinviando il processo al tribunale di Firenze. La condanna dell'appello bis,  28 anni e 6 mesi per Knox e 25 anni per Sollecito, è scattata il 30 gennaio 2014. Per l'omicidio di Meredith è stato condannato in via definitiva Rudy Guede, processato con rito abbreviato: sta scontando 16 anni di reclusione.

Amanda dopo la sentenza: "Sollevata e grata di riavere la mia vita". "Shock" della famiglia di Meredith, scrive “La Repubblica”. La ragazza americana: "Meredith era mia amica. Non so cosa farò, ora mi godo questo momento di gioia". I familiari della vittima: "Dateci tempo". Il padre di Raffaele Sollecito: "Il  nostro equilibrio messo a dura prova" "Il risarcimento? Impossibile quantificare". Enorme gratitudine. Lo ha ripetuto più volte Amanda Knox, quando alla fine di una lunga giornata, dopo la decisione della Cassazione in Italia, ha voluto parlare, sulla porta della casa della madre nel quartiere di West Seattle. Qui si era "rifugiata" con amici e parenti fin da ieri, in attesa di sapere quale sarebbe stato il suo futuro. "Sono molto grata che giustizia sia stata fatta. Grazie. Sono grata di riavere la mia vita", ha detto tra le pause, con la voce rotta dall'emozione. Sollecito: "Il  nostro equilibrio messo a dura prova". Soddisfazione anche in casa di Raffaele Sollecito. "Sono stati giorni drammatici, nei quali il nostro equilibrio psico-fisico è stato messo a dura prova", ha detto Francesco Sollecito, padre di Raffaele. "Cosa faremo oggi? Andremo a pranzo fuori per passare una splendida giornata. Siamo al settimo cielo, è un sogno. Non potevamo sperare in una conclusione migliore. Finalmente abbiamo trovato magistrati che hanno letto e studiato le carte. Hanno capito come stanno le cose". Sulle difficoltà di questi anni aggiunge: "Risarcimento morale lo possono riconoscere soltanto i giudici di questa Suprema corte che hanno pronunciato questa splendida sentenza. Non c'è possibilità di ricompensare tutta la sofferenza che abbiamo dovuto patire in tutti questi anni". Parole di gioia, mentre i familiari di Meredith Kercher hanno chiesto "tempo" per poter assorbire la notizia dell'assoluzione di Amanda e Raffaele Sollecito e, arrivata "come uno shock". "Le emozioni sono naturalmente forti in questa fase", hanno fatto sapere con una dichiarazione diffusa dall'ambasciata britannica a Roma, "la decisione è arrivata come uno shock ma era un esito che sapevamo che era possibile, anche se non era ciò che ci aspettavamo". La famiglia ha fatto sapere di aver contattato il proprio avvocato, Francesco Maresca, ma di "comprendere che la decisione è ora definitiva e mette fine a quello che è stato un processo lungo e difficile per tutte le parti coinvolte". "Riteniamo che nei prossimi mesi apprenderemo tutto il ragionamento che c'e dietro alla decisione ma per il momento abbiamo bisogno di un pò di tempo per assorbirla e per ricordare Meredith, la vera vittima al centro di tutta questa vicenda", hanno chiesto i familiari. Anche i media americani hanno dato grande risalto alle reazioni di Amanda e della sua famiglia. Parlando ai giornalisti è comparsa con pantaloni e maglietta bordeaux, capelli corti, con accanto la madre, la sorella e il fidanzato. Parlando ai giornalisti che l'hanno attesa tutto il giorno, si è fermata più volte, le mani al petto, gli occhi socchiusi e la voce rotta dalla commozione. Ha ripetuto più volte la sua "gratitudine per la giustizia che ho ricevuto, per il sostegno ricevuto da tutti. Anche da gente come voi. Grazie. Mi avete salvato la vita". Amanda Knox alla fine di una lunga giornata dopo la decisione della Cassazione in Italia, ha voluto parlare, sulla porta della casa della madre nel quartiere di West Seattle. Qui si era "rifugiata" con amici e parenti fin da ieri, in attesa di sapere quale sarebbe stato il suo futuro. "Sono molto grata che giustizia sia stata fatta. Grazie. Sono grata di riavere la mia vita", ha detto tra le pause, con la voce rotta dall'emozione. Amanda è comparsa con pantaloni e maglietta bordeaux, capelli corti, con accanto la madre, la sorella e il fidanzato. Parlando ai giornalisti che l'hanno attesa tutto il giorno, si è fermata più volte, le mani al petto, gli occhi socchiusi e la voce rotta dalla commozione. Ha ripetuto più volte la sua "gratitudine per la giustizia che ho ricevuto, per il sostegno ricevuto da tutti. Anche da gente come voi. Grazie. Mi avete salvato la vita".Amanda Knox alla fine di una lunga giornata dopo la decisione della Cassazione in Italia, ha voluto parlare, sulla porta della casa della madre nel quartiere di West Seattle. Qui si era "rifugiata" con amici e parenti fin da ieri, in attesa di sapere quale sarebbe stato il suo futuro. "Sono molto grata che giustizia sia stata fatta. Grazie. Sono grata di riavere la mia vita", ha detto tra le pause, con la voce rotta dall'emozione. Amanda è comparsa con pantaloni e maglietta bordeaux, capelli corti, con accanto la madre, la sorella e il fidanzato. Parlando ai giornalisti che l'hanno attesa tutto il giorno, si è fermata più volte, le mani al petto, gli occhi socchiusi e la voce rotta dalla commozione. Ha ripetuto più volte la sua "gratitudine per la giustizia che ho ricevuto, per il sostegno ricevuto da tutti. Anche da gente come voi. Grazie. Mi avete salvato la vita". Amanda non avrebbe voluto rispondere a domande. Ma su Meredith non si è sottratta. "Meredith era una mia amica. Meritava moltissimo nella vita. Io sono quella fortunata". Non parla subito di futuro Amanda: "Non lo so, sto ancora assorbendo il presente, un momento che è pieno di gioia" ha detto ai giornalisti. E adesso la festa può continuare davvero: per tutto il giorno, nella casa di West Seattle, una villetta apparentemente come tante, è stato un andirinvieni di persone, famigliari, amici, diversi bambini. Sono arrivati portando buste, forse con cibo e bevande. Dall'altra parte della sua staccionata, dal giardino della casa di famiglia, sono arrivate vere e proprie urla di gioia quando è giunta la notizia, nel primo pomeriggio ora locale. E poi risate, chiacchiere, perfino un barbecue allestito all'imbrunire. "Una gran bella giornata", ha commentato con i giornalisti il padre di Amanda. Una vicina di casa, Marsha Lubetkien, passando di lì ha detto "sono così contenta. Meravigliata anche, ma felice. Sono brave persone. E anche io ho figli di quell'età. Mi immedesimo... Amanda ha passato anni di sofferenze, e io da subito ho pensato il sistema italiano avesse fatto pasticci nel modo in cui ha gestito il tutto. Qui per noi è stato molto difficile comprendere, per via delle differenze fra i due sistemi giudiziari". Da questa strada altrimenti silenziosa, comune, riparte il futuro di Amanda. Magari proprio da Seattle, la sua città, dove in queste ore anche i vicini hanno tirato un sospiro di sollievo. E chi lo sa, forse troverà anche un lavoro. Uno ce l'ha già: è giornalista free lance per il West Seattle Herald. "Abbiamo pregato per Meredith - ha raccontato  a Bbc Radio Tom Wright, un amico di Amanda Knox che si trovava con lei e la sua famiglia a Seattle quando è arrivata la notizia dell'assoluzione - . I nostri pensieri sono andati a Meredith e la solidarietà alla sua famiglia".

Omicidio Meredith, la Cassazione assolve Amanda e Raffaele. Sollecito: «Sono immensamente felice, finalmente posso riprendermi la mia vita». L’avvocato Bongiorno: «La sentenza di condanna era costellata di errori», scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere Della Sera”. Assolti. Dopo più di sette anni, cinque processi e oltre dieci ore di camera di consiglio, la Cassazione ha annullato la condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, il 1° novembre 2007 a Perugia. Cancellate le pene di 28 anni e mezzo (per lei) e 25 anni (per lui) stabilite dalla Corte d’assise d’appello di Firenze a gennaio 2014. L’unico colpevole resta Rudy Guede, che all’epoca scelse il rito abbreviato e sta scontando i 16 anni di carcere che gli erano stati inflitti. Incontenibile la gioia di Raffaele, che al termine dell’udienza ha lasciato Roma e ha atteso a casa sua, a Bari, l’esito del processo. Appena ha saputo come era finita, racconta il padre Francesco, si sono abbracciati e il ragazzo è scoppiato a piangere. «Sono immensamente felice che quella stessa magistratura che mi ha condannato ingiustamente mi ha restituito la dignità e la libertà - esulta dopo le lacrime -, ora posso riprendermi la mia vita. Finalmente mi hanno creduto, è questa la mia più grande soddisfazione». Esulta anche Amanda che, a Seattle, è stata sulle spine per l’intera giornata. Ma adesso festeggia con parenti e amici: «È la fine di un incubo - si sfoga -, sono tremendamente sollevata e grata a chi mi ha sostenuto». Entrambi chiederanno il risarcimento dei danni per il periodo dietro le sbarre. «Choccata», invece, si definisce la madre di Mez, Arline Kercher, che aggiunge: «Sono stati condannati due volte, quindi è un po’ strano che questo cambi adesso». «Siamo allibiti», aggiunge Stephanie, la sorella della studentessa 21enne uccisa. Il legale della famiglia, Francesco Maresca, osserva: «È una sentenza che ci ha sorpresi, non me lo aspettavo, ne prendiamo atto. Dalla lunghezza della camera di consiglio credo che ci sia stato un grosso dibattito». Infatti la sentenza è una vittoria, forse insperata, per l’avvocato Giulia Bongiorno, che ha difeso l’ex studente di Bari con il collega Luca Maori: «È un giorno importantissimo per Sollecito - commenta uscendo dal Palazzaccio - ma anche per coloro che credono nella giustizia. Raffaele è stato quattro anni in carcere: non ha mai protestato, mai imprecato, ha gestito il processo con il massimo rispetto per le istituzioni». Anche «quando gli hanno dato torto» e anche se «la sentenza di Firenze era costellata di errori». La particolarità è che la sentenza è stata annullata senza rinvio, cancellata insomma, e questa è una decisione piuttosto rara in Cassazione. Stando al dispositivo, i giudici della quinta sezione, presieduta da Gennaro Marasca, hanno ritenuto che i due ex studenti «non hanno commesso il fatto»: se fossero giunti alla conclusione contraria, avrebbero confermato il verdetto di Firenze,come aveva chiesto la procura generale; se avessero individuato errori di diritto avrebbero rinviato il processo a un’altra Corte d’assise d’appello. Invece hanno scritto la parola fine sulla vicenda, una delle più tormentate degli ultimi anni: resta solo la condanna a tre anni per calunnia inflitta ad Amanda - questa sì confermata dalla Suprema Corte - per aver accusato del delitto Patrick Lumumba. Ma la Knox ha già scontato la pena, poiché anche lei, come Raffaele, è stata quattro anni in carcere.

Sollecito assolto esulta a Bisceglie: «Sono immensamente felice». L’assoluzione della corte di Cassazione arriva nella villetta gremita di parenti. A casa del padre festa improvvisata. Una voce dal citofono ringrazia i giornalisti, scrive Carmen Carbonara su “Il Corriere della Sera”. Nella villa di contrada Carrara il Vuolo, a Bisceglie, sono rimasti in piedi fino a tardi ieri notte. La gioia della famiglia Sollecito, di tanti amici e anche vicini accorsi per abbracciare Raffaele, finalmente assolto e libero, era incontenibile. Fuori dalla villetta, dove è uscito per parlare alcuni minuti con i giornalisti, il padre di Raffaele, Francesco Sollecito, ha ringraziato tutti, ma in particolare la moglie “che – ha detto - mi hai aiutato in tutte le maniere possibili e anche quelle non immaginabili e ha aiutato soprattutto mio figlio, pur non essendo la sua madre naturale. Lo è diventata di fatto con un comportamento meraviglioso”. «Sono immensamente felice che quella stessa magistratura che mi ha condannato ingiustamente mi abbia restituito oggi la dignità e la libertà. È finito l’incubo, finalmente è finito tutto, ora posso cominciare a vivere», ha detto il ragazzo parlando al telefono con l’avvocato Francesco Mastro. All’annuncio della notizia un boato dalla casa gremita di parenti. Poi una voce femminile al citofono ha voluto ringraziare anche i giornalisti che attendevano dal pomeriggio: «Grazie a tutti». All’interno della casa è partita una festa improvvisata. Francesco Sollecito, rispondendo ad alcune domane, è entrato anche nel merito delle decisioni assunte in questi anni dai giudici e tradottesi in due condanne a 25 anni per il giovane ingegnere di Giovinazzo. L’ultima volta è stato il 30 gennaio 2014, quando la Corte d’Appello di Firenze confermò la condanna del primo grado, dopo l’assoluzione sancita nel 2011 dai giudici di secondo grado di Perugia, la cui decisione era stata poi annullata dalla Cassazione. “Più si approfondivano gli elementi e più ci si rendeva conto che Raffaele era innocente”, ha detto il dottor Sollecito. “E quindi più si andava avanti e più si commettevano errori su errori pur di trovare una qualche responsabilità. La peggiore sentenza è stata l’ultima: nella disperata ricerca di elementi a carico, sono stati commessi errori grossolani”. Secondo Francesco Sollecito c’è un unico assassino, Rudy Guede, condannato in via definitiva a 16 anni per omicidio in concorso e violenza sessuale, sebbene un “concorso” a questo punto sia difficile da individuare. “Come ha ricordato l’avvocato Giulia Buongiorno, il concorso di più persone – ha proseguito Francesco Sollecito - è stato supposto dagli inquirenti prima e dai giudici poi, semplicemente perché avevano rilevato delle tracce, sia quelle di dna che delle scarpe, che potevano far pensare ad altre persone. Ma effettivamente non è così perché tutte le tracce appartenevano all’unico assassino”. Dunque, il padre di Raffaele non ha esitato a parlare di “errori”, con “cambio di movente” pur di trovare una spiegazione alle ipotesi accusatorie. “Raffaele, invece, quella sera non è uscito di casa e si è trovato – ha concluso - coinvolto in una situazione immane senza aver messo il naso fuori di casa”. Ieri sera hanno festeggiato anche a Giovinazzo, dove abita il resto della famiglia Sollecito, in particolare lo zio Giuseppe Sollecito con sua moglie Sara, anche loro ieri notte a Bisceglie. Chi ha conosciuto Raffaele, già da bambino, dell’assoluzione è davvero felice. E commenta: “Sapevamo che non poteva aver ucciso nessuno”. Antonello Fringuello è allenatore in una palestra di Giovinazzo e ha seguito Raffaele, da quando aveva 14 anni e fino a quando non è andato a studiare a Perugia, negli allenamenti di kick boxing. “L’ultima volta l’ho visto dopo l’assoluzione, nel 2011”, racconta. “Adesso sta a Bisceglie, incontro la sorella Vanessa qualche volta. Era un ragazzo timido e anche molto educato e a modo. Se si allenava con altri ragazzi e li colpiva, chiedeva scusa”, prosegue. “So com’era fatto, per questo quando sentii la notizia del suo arresto, mi dissi che non poteva essere stato lui”. Piange di gioia Teresa Camporeale, parrucchiera in pensione amica della mamma e della nonna di Raffaele, entrambe scomparse da diversi. “Ho ascoltato i tg fino a tardi a serata”, dice. “Abbiamo ringraziato il Signore, conoscevamo la famiglia, anche la mamma e la nonna. Abbiamo sempre pensato che Raffaele si è trovato in un fattaccio più grande di lui. Ormai è diventato un uomo, questa sicuramente è stata le vicissitudine peggiore che poteva capitargli. Secondo me – prosegue - fin dall’inizio bisognava dividere le colpe dei protagonisti. Ma ora l’importante è che sia stato assolto”.

Omicidio Meredith, riscritta la verità. «Guede solo sul luogo del delitto». L’esito delle indagini è stato cancellato. Ora si rischia una battaglia sui risarcimenti Testimoni smentiti Vengono smentiti anche i testimoni che dissero di aver visto i due fuggire dalla casa, scrive

di Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere Della Sera”. È il verdetto clamoroso, quello su cui nessuno avrebbe scommesso. Perché la sentenza della Corte di cassazione cancella l’esito delle indagini, ma soprattutto sconfessa la sentenza che due anni fa altri giudici della stessa Corte suprema avevano pronunciato ritenendo che Amanda Knox e Raffaele Sollecito fossero certamente sulla scena del delitto. Assassini, questo era stato stabilito. La scelta di «annullare senza rinvio» quelle condanne inflitte poco più di un anno fa dalla Corte d’assise d’appello di Firenze (28 anni e sei mesi a lei, 25 a lui) smentisce invece in maniera sorprendente l’accusa, consegna alle difese una vittoria schiacciante. E soprattutto nega la validità di un’altra sentenza definitiva che ha ritenuto Rudy Guede colpevole del delitto «in concorso con altri».

I punti oscuri. Il giovane ivoriano, questa è la conclusione, era solo sulla scena del delitto. Uccise Meredith Kercher dopo aver tentato di violentarla in quella villetta di via della Pergola la sera del primo novembre. Cercò di ripulire la stanza, di cancellare le tracce. Nessuno entrò nella casa, come invece lui aveva sostenuto in una ricostruzione certamente fantasiosa e poco credibile. Non c’era un giovane che lo aveva minacciato né una ragazza che lo accompagnava, come aveva messo a verbale pur non facendo mai esplicitamente i nomi di Amanda e Raffaele. Smentiti anche i testimoni che avevano detto di aver visto i due fuggire dalla villetta. Molti punti rimangono oscuri, soltanto leggendo la motivazione si scoprirà come i giudici abbiano superato tutti gli indizi raccolti, per primo il memoriale che Amanda scrisse in una stanza della questura pochi giorni dopo l’omicidio descrivendo i momenti del delitto ma sostituendo Rudy con Patrick Lumumba. Ma già adesso si può dire che non è stata ritenuta «sufficientemente provata» la ricostruzione dell’accusa secondo la quale «entrambi erano gli assassini, insieme a Rudy Guede».

La mancanza di prove. Il quadro disegnato da chi aveva indagato e da chi li aveva poi condannati «non è sorretto da indizi sufficienti», questo hanno detto venerdì 27 marzo i giudici della quinta sezione penale presieduti da Gennaro Marasca. Ingiusta, secondo loro, è stata la sentenza di colpevolezza, evidentemente ancor più ingiusta la detenzione preventiva. E anche su questo adesso si discuterà a lungo perché è vero che dopo la lettura del dispositivo l’avvocato Giulia Bongiorno, difensore di Sollecito insieme al collega Luca Maori assicura che «non ci sarà alcun atteggiamento vendicativo», ma una richiesta di risarcimento allo Stato appare quasi scontata.

Caso chiuso. Finito, chiuso, il processo termina qui. Molti punti rimangono oscuri, molti interrogativi non avranno mai risposta, ma sembra impossibile che le indagini possano essere riaperte. Interrogatori, perizie, accertamenti: tutto annullato, cancellato, non valido. Nullo anche il verdetto di un’altra sezione della Cassazione che il 26 marzo del 2013 aveva dichiarato non valida la sentenza di assoluzione emessa in appello a Perugia ordinando un nuovo processo a Firenze. Allora i supremi giudici avevano scritto che bisognava «porre rimedio a una decisione segnata da molteplici profili di manchevolezza, contraddittorietà e illogicità» delineando «la posizione soggettiva dei concorrenti di Rudy Guede».

Meredith senza giustizia. Questo erano dunque per il collegio di Cassazione che per primo si è pronunciato, Amanda e Raffaele: «Concorrenti nell’omicidio». Altri giudici hanno ora stabilito che non è così. Hanno cancellato la ricostruzione del delitto che vedeva Meredith «aggredita contestualmente da tutti e tre, per immobilizzarla e usarle violenza». Rudy ha tentato di violentarla, ma non è vero che Amanda e Raffaele hanno infierito su di lei con due coltelli, non è provato che fossero lì e volessero «prevaricarla e umiliarla». Questa è la sentenza definitiva, questa è la verità parziale che arriva otto anni dopo il delitto. Perché la decisione di assolvere per mancanza di prove è comunque la sconfitta per la famiglia di Meredith che continua a non avere giustizia.

Sollecito in hotel a Bari: "Felicissimo per la sentenza". Il padre: "Il risarcimento? Impossibile da quantificare". Il giovane: "Lunedì conferenza stampa con il mio avvocato a Roma": La famiglia: "Siamo stati messi alla gogna,  in questo momento l'ultimo mio pensiero è pensare a questioni economiche", scrive Francesca Russi su "La Repubblica". "Ovviamente sono felicissimo per la sentenza, lunedì terrò una conferenza stampa a Roma con il mio avvocato". Sono queste le sole parole che Raffaele Sollecito dice il giorno dopo la sentenza di assoluzione, all'uscita dell'hotel di Bari dove ha trascorso la notte con la fidanzata. Il giovane ha trascorso la prima notte da innocente in un albergo nei pressi dell'aeroporto di Bari-Palese in compagnia della fidanzata Greta. Ha fatto colazione in camera e poi ha lasciato la camera per andare a pranzo con la sua famiglia. Sollecito è di casa nell'hotel il Parco dei Principi, perché è solitamente frequentato dalla sua fidanzata che è una hostess di Volotea. E' un giorno speciale per tutta la famiglia Sollecito. "L'alba di un nuovo giorno", dice sorridente il papà Francesco che esce di casa alle 10.30. "Abbiamo festeggiato fino alle 3-4 di notte, dopo tante nottate in bianco e questa tensione". Parla davanti al cancello del residence di villette a Bisceglie. "Adesso si ricomincia, Raffaele ha fatto tanti progetti, ma viveva in sospeso, adesso potrà finalmente approfondirli  e concretizzarli". Il padre di Raffaele fa sapere che il figlio ieri sera si è sentito con Amanda Knox, anche lei accusata di omicidio e assolta ieri dai giudici della Cassazione. "Amanda era felice e piangeva al telefono con lui". Oggi e  domani per Sollecito saranno giornate di riposo e lunedì invece ci sarà l'incontro con gli avvocati e con la stampa.  "Finalmente Raffaele potrà ritornare ad andare all'estero adesso, potrà ritornare a vivere" dice ancora Francesco Sollecito. Quanto a eventuali richieste di risarcimento. "Risarcimenti per questa terribile storia non si potrebbero neanche quantizzare,  noi siamo stati messi alla gogna,  in questo momento l'ultimo mio pensiero è pensare a questioni economiche".

Raffaele Sollecito si è laureato, nella tesi anche il caso Kercher. Della tesi presentata ha spiegato che si è trattato di un'analisi strutturale dei social network e di "prossimità semantica". "Un esame - ha detto - del significato sul web delle parole, degli interessi alle quali sono accostate e del tempo di interazione. Tenendo conto di diversi parametri". Di qui l'idea di condurre quello che definisce "un esperimento su me stesso", esaminando attraverso un motore di ricerca quante volte il suo nome sia accostato alla parola innocente e quante a colpevole. "L'interesse generale per il processo - ha spiegato Sollecito - è aumentato in occasione della sentenza di Firenze (che ha nuovamente condannato lui e Amanda Knox, ndr). Ma soprattutto è raddoppiato l'accostamento tra il mio nome e 'innocente'. Dato che è rimasto elevato anche quando l'attenzione su Internet per il processo è scemata".

Ha conseguito il titolo di dottore magistrale in Ingegneria e scienze informatiche. Esaminati i flussi sul web di innocentisti e colpevolisti sull’omicidio di Perugia. Nei prossimi mesi la sentenza della Cassazione, scrive Anna Martellato su “La Stampa”. “Con i poteri conferitemi dalla Legge la proclamo dottore magistrale in Ingegneria e scienze informatiche, valutazione di 88 su 110”. Applausi, flash dei parenti, strette di mano, espressione – finalmente – distesa in un sorriso. E la voglia di essere almeno per una mattina semplicemente un “normale” studente che ha concluso il suo percorso di studi. Raffaele Sollecito si è laureato, stamattina al Dipartimento di Scienze Informatiche a Verona: la sua tesi studiava l’analisi dei social network, in cui Sollecito ha esaminato anche i flussi sul web di innocentisti e colpevolisti sul suo caso. Normale il suo viso rosso dall’emozione, normale il “Ehi, Raffa!” dei suoi amici e compagni di corso, che lo abbracciano e gli stringono la mano. Un’altra vita, lontana anni luce da quella delle prime pagine dei giornali, concentrata per dovere di cronaca in quelle aule di tribunale dove si è a lungo dibattuto su chi avesse ucciso la giovane studentessa inglese Meredith Kercher. Completo nero, camicia bianca, tocco di colore nella cravatta verde acido. È protetto dalle schiere di amici e di parenti e dalla sua nuova ragazza, Raffaele: tutti lo tengono al riparo dai flash e telecamere, assiepati fuori dall’aula in cui ha discusso la tesi. Suo padre, emozionato quanto lui (o forse di più?), lo abbraccia, lo stringe. C’è anche uno dei suoi difensori, l’avvocato Luca Maori, e i consulenti informatici che lo hanno assistito nel processo per l’omicidio Kercher, come già scrivono i portali dei quotidiani locali, tutti con gli occhi puntati su di lui. Ma oggi è, deve essere, un giorno sereno per Sollecito. “È una giornata felice – commenta un po’ spaesato: forse per la tensione, forse per le telecamere – ci sono i miei amici, i miei parenti… ero molto teso”, si lascia sfuggire subito dopo la discussione, avvenuta a porte chiuse. Ancora qualche candidato, giusto il tempo di sbollire l’ansia nei corridoi accaldati della facoltà veronese, e poi la proclamazione, nell’aula “Gino Tessari”. Lì i giornalisti gli danno un attimo di tregua; non possono entrare: “è per tutelare lui e gli altri”, spiega l’efficiente ufficio stampa dell’Università scaligera. Sollecito è stato assolto con Amanda Knox per l’omicidio della studentessa Meredith Kercher, ma la sentenza è stata annullata in Cassazione, che ha fissato un nuovo processo a Firenze, al termine del quale i due ex fidanzati sono stati condannati. Sentenza subito impugnata dalla difesa: la Cassazione dovrà quindi pronunciarsi nei prossimi mesi. Ma oggi, è tempo di festeggiare. Per una giornata, forse, il resto si può dimenticare. 

Raffaele Sollecito si è laureato con una tesi su se stesso. Il giovane, condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, ha discusso la tesi in ingegneria informatica. Il tema: innocentisti e colpevolisti sul web. Il voto: 88 su 110, scrive Angela Geraci su “Il Corriere della Sera”. Raffaele Sollecito ha conseguito martedì mattina la laurea specialistica in ingegneria informatica all’università di Verona. Il voto: 88 su 110. Il giovane pugliese, condannato con Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher (il 1° novembre del 2007 a Perugia), ha discusso una tesi riguardante l’analisi dei social network in cui ha esaminato i flussi sul web di innocentisti e colpevolisti sul suo caso. Sollecito - che ha scritto interamente in inglese la sua tesi di laurea ma poi l’ha discussa in italiano - ha sostenuto per esempio che sul web, nei giorni successivi all’ultimo verdetto (di condanna), il suo nome è stato più spesso associato alla parola innocente che a quella colpevole. Alla cerimonia erano presenti tutti i suoi familiari e anche uno dei suoi difensori, l’avvocato Luca Maori, e i consulenti informatici che lo hanno assistito nel processo per l’omicidio Kercher. Sulla torta fatta preparare dal padre Francesco c’era una pergamena disegnata con un filo di cioccolato e questa frase: «L’ingegner Raffaele Sollecito raggiunge uno dei più importanti traguardi della sua vita!». «Siamo felici - dice orgoglioso al telefono dall’aeroporto il padre del ragazzo, in attesa dell’aereo per Bari - per noi la meta raggiunta oggi da Raffaele ha un significato grandissimo in questo momento». Per la laurea il signor Sollecito non ha regalato nulla di materiale al figlio: «Il regalo che gli faccio tutti i giorni è il mio amore - spiega - Raffaele è il figlio ideale, quello che tutti i padri vorrebbero avere». Quando venne arrestato, pochi giorni dopo il delitto, Sollecito era iscritto all’Università di Perugia e si laureò infatti in carcere, il 16 febbraio del 2008. Si iscrisse quindi subito alla specialistica a Verona. Raffaele e Amanda sono stati condannati in primo grado, poi assolti in appello. La sentenza è stata però annullata dalla Cassazione che ha disposto un nuovo processo a Firenze al termine del quale i due ex fidanzati sono stati nuovamente condannati. La sentenza è stata però impugnata dalle difese in Cassazione che dovrà pronunciarsi nei prossimi mesi. Sollecito, come la Knox, si è sempre proclamato estraneo al delitto. Così come Rudy Guede, l’ivoriano già condannato in via definitiva per l’omicidio di via della Pergola e che sta scontando 16 anni di reclusione.

Caso Meredith, Sollecito non ritratta: “Il memoriale di Amanda mi scagiona”. Il giovane ribadisce la sua posizione durante la conferenza stampa sul ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte di Assise d’Appello di Firenze che lo ha ritenuto colpevole con la Knox dell’omicidio dell’amica, scrive “La Stampa”. «Amanda è innocente», anche se è evidente che «ci sono anomalie» nel racconto che lei fa di quanto accade la sera in cui fu uccisa Meredith. Raffaele Sollecito non scarica l’ex fidanzata di cui, parole sue, «sono stato innamoratissimo»: ma forse per la prima volta, in maniera chiara, cerca di separare il suo destino da quello dell’americana di Seattle.  Giacca bianca e capello lungo, una laurea specialistica in realtà virtuale che discuterà il prossimo 15 luglio, Raffaele si presenta con i suoi avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori davanti ai giornalisti per spiegare perché con il ricorso presentato in Cassazione chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Firenze che ha condannato lui a 25 anni e Amanda a 28 anni e sei mesi. E la prima cosa che afferma è che lui, in tutti questi sette anni, non ha mai cambiato versione. Né, dunque, intende farlo ora: «Mi sono state messe in bocca parole che non ho mai detto, ho sentito tutto e il contrario di tutto su questa tragedia, che è una tragedia vera. Solo un pazzo o un criminale cambierebbe versione. E io non sono né un pazzo né un criminale ma solo una persona che da sette anni grida la sua innocenza». Dunque nessuna ritrattazione. Anzi: «io e la mia famiglia crediamo profondamente all’innocenza di Amanda». Però, ammette Raffaele, rispetto al passato ci sono delle novità e quelle novità sono contenute nella sentenza di Firenze. Che, sostengono i legali, si basa tutta sul memoriale scritto dall’americana nel quale la ragazza si colloca nella casa di via della Pergola, dice di aver sentito le urla di Meredith, ammette che c’era un altra persona che lei identifica in Patrick Lumumba e che invece è Rudy Guede, l’ivoriano condannato in via definitiva per l’omicidio. «In quel memoriale - afferma Sollecito - è lei stessa che mi scagiona e mi fornisce un alibi, dichiarandomi estraneo da tutto ciò che per i giudici è verità». E allora, «scusate signori giudici - dice il giovane - se è vero quel che dice il memoriale, che per me contiene allucinazioni ma per i giudici la verità, mi spiegate cosa c’entro io e qual è la mia responsabilità?». Versione che l’avvocato dei familiari di Meredith, Francesco Maresca, smonta così: «il fatto che Sollecito non vi fosse menzionato non elimina la sussistenza degli altri elementi a suo carico». Ma non solo: secondo i Sollecito, in quella sentenza c’è anche una «bugia» detta da Amanda che scagionerebbe Raffaele; una bugia, sostiene la difesa, che ha a che fare con l’sms che l’americana spedì a Lumumba alle 20.35 del giorno in cui fu uccisa Meredith. Amanda ha sostenuto di aver inviato quel messaggio da casa di Raffaele mentre per la sentenza quell’sms partì quando era già fuori, perché il cellulare aggancia una cella diversa da quella della via dove abitava Sollecito. «È la sentenza che afferma che l’sms è stato inviato fuori da casa mia, non io». Quel che Raffaele non dice è che questo prova le cose fino ad un certo punto, perché anche se fosse vero che l’americana non era più a casa di Sollecito, ciò non esclude che anche il giovane fosse fuori. O che l’abbia raggiunta poco dopo. Raffaele su questo punto non aggiunge nulla alla versione precedente, ribadendo di aver passato «la notte» con Amanda e di non poter «ricordare esattamente» cosa avvenne prima. La conclusione è una sola: «ho sempre detto che con Amanda vivevamo momenti felici e ho sempre creduto alla sua innocenza. Ma devo prendere atto di quel che c’è in sentenza. Per quella che è stata la mia esperienza con lei non posso pensare che possa aver fatto una cosa del genere, ma leggendo la sentenza scopro che ci sono alcune anomalie nel suo racconto». Al di là del racconto di Raffaele, la strategia della difesa davanti alla Cassazione è chiara: chiedere in primo luogo l’annullamento della sentenza di Firenze - «non è mai esistito nella storia che nella stanza di un delitto non ci sia una traccia degli assassini» sottolinea l’avvocato Bongiorno - o, in subordine, che venga rivista la posizione di Raffaele. «Mi pare evidente - dice non a caso Maresca - il tentativo di separare processualmente le posizioni nella ricostruzione di quella tragica notte». Conferma l’avvocato Bongiorno: «abbiamo sempre detto che non sono gemelli siamesi. E siccome la sentenza insiste sulle anomalie nel comportamento di Amanda, allora si prendano decisioni coerenti e conseguenti senza estendere per automatismo a Sollecito». Perché «se Amanda dice la verità nel memoriale, come sostiene la sentenza, allora Raffaele non c’entra. Quel memoriale lo scagiona, è la prima prova a suo favore». «Che sta succedendo?»: Amanda Knox lo ha chiesto ai suoi difensori negli ultimi giorni dopo le notizie sulle nuove dichiarazioni di Raffaele Sollecito. «Nulla di nuovo» l’hanno tranquillizzata gli avvocati Luciano Ghirga e Carlo Dalla Vedova. «Nessuna polemica con la difesa di Raffaele Sollecito, che tra l’altro ha ribadito l’innocenza di Amanda Knox», commenta quanto detto oggi dal giovane e dai suoi penalisti. «Quanto scrive la difesa Sollecito nel ricorso in Cassazione - sottolinea l’avvocato Ghirga - era già emerso nel dibattimento di Firenze. Le strade non si dividono e noi continueremo a difendere Amanda Knox. La nostra posizione è che i due non erano nella casa di via della Pergola quando Meredith Kercher venne uccisa ma a casa di Sollecito. Comunque - conclude l’avvocato Ghirga - simul stabunt, simul cadent».

Diffamazione e vilipendio, Sollecito rinviato a giudizio, continua "La Repubblica". Il processo sarà celebrato a Firenze e riguarda alcuni passaggi del libro Honor bound, il mio viaggio all’inferno e ritorno con Amanda Knox. Diffamazione del magistrato perugino Giuliano Mignini e vilipendio delle forze di polizia sono le accuse per le quali sarà processato a Firenze Raffaele Sollecito. Il gup del capoluogo toscano lo ha infatti oggi rinviato a giudizio. Il procedimento riguarda alcuni passaggi del libro Honor bound, il mio viaggio all’inferno e ritorno con Amanda Knox, scritto da Sollecito e Andrew Gumbel e pubblicato negli Stati Uniti. Sollecito, che respinge le accuse contestate, era oggi in aula al momento della decisione del gup insieme al suo difensore, l’avvocato Alfredo Brizioli. Nella stessa stanza anche Mignini, il magistrato che ha coordinato le indagini sull’omicidio di Meredith Kercher. Delitto al quale Sollecito e Amanda Knox sono stati dichiarati definitivamente estranei dalla Cassazione. L’indagine che ha portato al rinvio a giudizio di oggi è nata da una querela di Mignini. Il magistrato si è infatti ritenuto diffamato da una serie di passaggi del libro nel quale Sollecito ricostruisce la sua vicenda giudiziaria legata all’omicidio di Meredith Kercher. «Con questo libro - ha detto l’avvocato Brizioli -, Raffaele ha voluto dire la sua verità. Lo scrisse dopo essere stato assolto in appello e quattro anni trascorsi ingiustamente in carcere come ha poi stabilito anche la Cassazione con un verità definitiva. A questo punto nel dibattimento dimostreremo ancora una volta l’innocenza di Raffaele Sollecito». La prima udienza del processo è stata fissata per maggio 2016.

Chi la dura la vince. La vendetta dei magistrati. Caso Meredith: Sollecito a giudizio per diffamazione e vilipendio, scrive "La Repubblica" del 4 giugno 2015. La querela è partita dal magistrato perugino Giuliano Mignini che si è ritenuto diffamato da una serie di passaggi del libro "Honor Bound: my journey to hell and back with Amanda Knox, scritto insieme ad Andrew Gumbel e pubblicato negli Stati Uniti. La prima udienza è stata fissata per maggio 2016. Diffamazione del magistrato perugino Giuliano Mignini e vilipendio delle forze di polizia sono le accuse per le quali sarà processato a Firenze Raffaele Sollecito. Il gup del capoluogo toscano lo ha infatti oggi rinviato a giudizio. Il procedimento riguarda alcuni passaggi del libro "Honor Bound: my journey to hell and back with Amanda Knox (Patto d'onore: i miei giorni all'inferno e ritorno con Amanda Knox), scritto da Sollecito e Andrew Gumbel e pubblicato negli Stati Uniti. Il libro è il racconto della vicenda giudiziaria a partire dal novembre 2007 dopo la scoperta del cadavere di Meredith Kercher nella casa di via Della Pergola 7. Inedito in Italia, è uscito negli Usa nel 2013 poco prima di quello di Amanda. Repubblica aveva anticipato un brano di Honor Bound, le pagine in cui Sollecito ricostruisce la notte in questura, il suo interrogatorio e quello di Amanda senza risparmiare pesanti accuse alla polizia. Quella notte si concluse con la confessione di Amanda che accusò del delitto Patrick Lumumba (poi scagionato da un testimone, un professore svizzero) e con l'arresto della ragazza di Seattle e di Raffaele. Sollecito oggi in aula al momento della decisione del gup insieme al suo difensore, l'avvocato Alfredo Brizioli, ha respinto le accuse contestate. Nella stessa stanza c'era anche Mignini, il magistrato che ha coordinato le indagini sull'omicidio di Meredith. Delitto al quale Sollecito e Amanda Knox sono stati dichiarati definitivamente estranei dalla Cassazione. L'indagine che ha portato al rinvio a giudizio di oggi è nata da una querela di Mignini. Il magistrato si è infatti ritenuto diffamato da una serie di passaggi del libro. "Con questo libro - ha detto l'avvocato Brizioli -, Raffaele ha voluto dire la sua verità. Lo scrisse dopo essere stato assolto in appello e quattro anni trascorsi ingiustamente in carcere come ha poi stabilito anche la Cassazione con un verità definitiva. A questo punto nel dibattimento dimostreremo ancora una volta la sua innocenza". La prima udienza del processo è stata fissata per maggio 2016.

Eppure. Omicidio Meredith, non fece parlare Sollecito con un avvocato: pm sanzionato. Subito dopo il fermo, avvenuto il 6 novembre 2007, il pubblico ministero vietò al giovane di aver colloqui con un difensore, scrive il 4 dicembre 2015 “La Nazione”. La sezione disciplinare del Csm ha inflitto la sanzione della censura al pm di Perugia Giuliano Mignini, titolare del procedimento sull'omicidio di Meredith Kercher, finito sotto procedimento con l'accusa di aver violato la legge per aver vietato, subito dopo il fermo, avvenuto il 6 novembre 2007, a Raffaele Sollecito (assolto lo scorso marzo in via definitiva, con Amanda Knox, dall'accusa di omicidio) di avere colloqui con un difensore senza emettere un provvedimento scritto e motivato. Il tribunale delle toghe, presieduto dal consigliere laico Antonio Leone, ha emesso la sua sentenza dopo l'udienza svolta a Palazzo dei Marescialli questa mattina. Mignini, secondo l'incolpazione formulata dalla Procura generale della Cassazione, aveva arrecato "ingiusto danno al fermato", emettendo "oralmente, con grave e inescusabile violazione di legge", il provvedimento di "dilazione del diritto del fermato a conferire con il proprio difensore", in "palese contrasto" con la norma contenuta nel codice di procedura penale che prescrive un "decreto motivato" e la "consegna/esibizione" agli aventi diritto. Il sostituto pg di Cassazione, Luigi Salvato, pur ritenendo "provati" i fatti descritti nel capo di incolpazione, aveva invece sollecitato in udienza l'assoluzione di Mignini, (difeso dal consigliere della Suprema Corte Piercamillo Davigo) ritenendo il fatto "di scarsa rilevanza", tenuto anche conto che venne permesso a Sollecito di parlare con il suo difensore, l'avvocato Tiziano Tedeschi, prima dell'interrogatorio di garanzia. La richiesta del pg non è stata dunque accolta dal collegio disciplinare che depositerà entro un mese le motivazioni del suo verdetto. 

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere. 

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

HOTEL GOMORRA. PERUGIA E' COSCA NOSTRA.

Umbria, la nuova isola felice della 'Ndrangheta Tra minacce, usura, droga e business. I clan calabresi parlano umbro. L'operazione del Ros dei carabinieri ha smantellato un cosca con base in provincia di Perugia che ha seminato il panico tra gli imprenditori. Alcuni di questi hanno parlato. E raccontato delle minacce. Anche pizzo e prostituzione tra le attività dei boss, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. L'Umbria si è svegliata con il rumore degli elicotteri tipico delle grandi retate. Il risveglio ha il sapore della 'ndrangheta. Il Ros dei carabinieri hanno eseguito 61 arresti nell'inchiesta "Quarto passo" coordinata dalla procura antimafia di Perugia. Sotto scacco una "filiale" del clan di Cirò e Cirò Marina, paesi di origine delle persone finite in manette. Il gruppo umbro ruota attorno a Cataldo Ceravolo, Salvatore Facente e Mario Campiso. Questi sono i tre indagati ritenuti i capi del clan umbro. Si vantavano di conoscere i capi delle 'ndrine di Cirò, in particolare la famiglia di 'ndrangheta Farao-Marincola. Associazione mafiosa, usura, estorsioni, traffico di droga, incendi, truffe, prostituzione, sono i reati contestati. Molte le vittime locali. Chi non si allineava alle loro richieste avrebbe fatto una brutta fine: «Perché in Calabria è consuetudine murarli nelle gettate di cemento». È stata scoperta inoltre l'alleanza con un gruppo criminale di origine albanese per la gestione del traffico di eroina e cocaina. Nel 2008 c'è stata l'indagine “Neos” che ha riguardato gli affari della cosca Morabito di Africo, provincia di Reggio Calabria, nell'isola felice. Sei anni fa gli arresti furono 57. La storia si ripete. Nell'ultima operazione sono stati sequestrati beni per oltre 30 milioni di euro. «Un'associazione - scrivono gli investigatori - autonoma, radicata». Che manteneva i contatti con la casa madre, ma con un certo grado di autonomia. «L'inchiesta - si legge nell'ordinanza di custodia cautelare - ha documentato le modalità tipicamente mafiose di acquisizione e condizionamento delle attività imprenditoriali, in particolare nel settore delle costruzioni, con incendi e intimidazioni con finalità estorsive». Usura e estorsioni spesso erano l'anticamera dell'acquisizione dell'azienda pulita. I carabinieri di Perugia hanno inoltre documento diversi incontri tra la cellula umbra con gli emissari dei reggenti della cosca di Cirò, Silvio Farao e Giuseppe Farao. Il lessico, il metodo, le azioni sono tipici della mafia calabrese. «Siamo della 'ndrangheta, siamo calabresi». Così si presentavano gli affiliati che ormai da quindici anni vivevano nella tranquilla provincia perugina. E qui lavoravano nei cantieri con le proprie società: «Ai calabresi ho assegnato i lavori di scavo, di carpenteria, cemento armato e tamponature esterne. Sempre in quell'anno ho assegnato ai calabresi i lavori di carpenteria, acquistando a loro favore il relativo materiale, per la costruzione di quattro villette in località San Marino di Monte La Guardia» racconta un testimone. Nell'inchiesta ci sono tantissimi testimoni che hanno denunciato agli inquirenti le minacce, che si concludevano tutte con l'offerta di “protezione” da loro stessi. Incendi e danneggiamento delle macchine delle aziende. Ma anche teste mozzate di agnello e benzina lasciati davanti agli uffici della ditta, come è capitato a una piccola imprenditrice di Perugia. Non solo. Gli indagati si vantavano pure di saper sparare. Una delle vittime lo spiega ai detective :«Mi ha più volte rivolto le medesime minacce dicendomi che avrei dovuto consegnargli oggi 6 mila euro ed i restanti 5 mila o 6 mila entro il mese di gennaio-febbraio; mi ha anche detto che il garante di tutta questa operazione era lui e che se avessi pagato non avrei più avuto problemi, perché lui era uno che "sparava"». Un altro imprenditore ha raccontato: «Mi hanno costretto a fare ciò a seguito di continue pressioni e minacce, mi dicevano che era meglio per me aderire alle loro richieste per evitare con loro problemi e guai. lo avevo paura di loro e quindi aderivo alle loro richieste». Insomma, in Umbria la 'ndrangheta si sente a casa.

Perugia è cosca nostra. Imprese di costruzione. Ma anche estorsioni e traffico di droga. Così la camorra e la 'ndrangheta hanno esportato i metodi criminali in Umbria, scrive Marco Lillo su “L’Espresso”. C'è un ristoratore minacciato da un poco raccomandabile Carminiello di Gioia Tauro. Non sa come respingere l'assedio ma non vuole pagare. Invece di chiedere aiuto ai carabinieri si rivolge a un amico legato al clan campano dei casalesi. Se ne pentirà. Il calabrese sparisce ma i suoi nuovi protettori diventano in breve tempo i peggiori aguzzini. Al ristorante si comportano come padroni e chiedono anche il compenso per la protezione: 300 euro al mese. Lui non ce la fa e a un certo punto sbotta al telefono: "Vi ho fatto mangiare gratis a te e ai tuoi amici, ora basta, quello che è stato è stato, ma da questo momento tutte le volte che si viene al ristorante io devo incassare!". A quel punto l'amico tira giù la maschera: "Ste' allora non hai capito. Io vengo stasera e tu mi dai i trecento euro. Anche quell'altro non c'aveva i soldi e gli ho fatto fare le cambiali, a me non me ne fotte proprio. Ci vediamo dopo Ste'. Stasera le fai pure tu le cambiali". Il ristoratore abbozza una replica: "Vieni, vieni che ti faccio trovare i carabinieri e ti arrestano", ma non tiene fede alla promessa. I carabinieri che ascoltano in diretta scrivono nel loro rapporto: "Il ristoratore non ha formalizzato alcuna denuncia e, sentito dal pm, ha persino negato la conoscenza del Costanzo". Storie come questa non sono rare in Calabria o in Campania. Il fatto è che il ristorante in questione si trova a Ponte San Giovanni, frazione di Perugia. Strangozzi al tartufo e pizzo alla calabrese è un menù sempre più diffuso sulle tavole umbre. L'indagine Naos del Ros dei carabinieri ribalta tutti i luoghi comuni sulla regione più tranquilla, verde, serena e mistica d'Italia. Il cuore verde sta diventando un cuore di tenebra. L'inchiesta condotta dal pm Antonella Duchini ha portato a 57 arresti e si è guadagnata le prime pagine dei giornali per la reclusione dell'assessore calabrese Udeur Pasquale Tripodi e per i mega progetti delle cosche sull'energia e sul turismo nella loro terra natia. Ma a inquietare è lo scenario di una criminalità che replica il modello nel centro Italia senza trovare opposizione nella società. Una parte dell'imprenditoria umbra accetta l'abbraccio dei clan e quando scopre di essere finita in una tenaglia mortale è troppo tardi. L'ordinanza di arresto racconta la storia di un imprenditore perugino che comincia a usare i campani e i calabresi per i subappalti. Perché hanno liquidità e convengono. Magari non rispettano le leggi, usano poco ferro, ma costano poco e i lavoratori non si lamentano. Li accetta persino come soci per costruire un lotto del grande villaggio che sta realizzando in Sardegna. Salvo scoprire che con i clan non si tratta: o tutto o niente. Vogliono fare l'intero villaggio e quando rifiuta di allargare la joint venture gli bruciano la sua Mercedes e quella della fidanzata. "Lo so perfettamente chi è stato", dice terrorizzato a un amico, "è quel carpentiere che si spaccia per mio socio. Come te lo devo dire che mi stanno facendo un'estorsione in tutti i modi. M'hanno bruciato le macchine, mi stanno a mettere le capocce dei pollastri dentro alla cassetta, mi stanno a mettere la benzina sui davanzali dei capannoni. Sono 20 giorni che sono chiuso in casa a pigliarmi le gocce e le pasticche. Non so come uscirne, me stanno opprimendo e la polizia non fa un cazzo. Hai capito? Vogliono che faccio le denunce, ma io le denunce non le faccio per 'chiappare una revolverata". Il fenomeno è impressionante ma, per gli addetti ai lavori, non è nuovo. L'operazione Naos è solo l'ultima di una lunga serie. Il Ros ha arrestato negli ultimi nove anni qualcosa come 400 persone coinvolte in traffici di droga che transitavano su Perugia. La prima grande operazione, denominata Windshear, illustra bene perché la 'ndrangheta preferisce Perugia a Locri per i traffici di cocaina tra le due sponde dell'oceano. I calabresi allora avevano avuto l'idea geniale di creare un'offerta di pacchetti turistici con decollo da Perugia e atterraggio direttamente ai Caraibi. Una volta sbarcati i villeggianti umbri, felici per i prezzi davvero scontati, il pilota proseguiva per Barranquilla o Medellin e tornava con quintali di cocaina nella pancia dell'aereo. All'aeroporto di Perugia i controlli erano blandi e in Umbria era anche più facile riciclare i proventi in investimenti immobiliari. I calabresi fanno affari con la polvere bianca, ma non disdegnano quella grigia: il cemento. Negli anni magici della ricostruzione dopo il terremoto c'era bisogno di ruspe e betoniere e i calabresi si sono lanciati sui subappalti in un'alleanza anomala con i casalesi che perdura ancora oggi. L'operazione Naos ha coinvolto cinque imprese di costruzione e al vertice dell'organizzazione troviamo Giuseppe Benincasa, detto Pino il calabrese, un imprenditore edile nato nel crotonese, ma emigrato a Perugia nel 1972, e Ciro Zampella, legato per il tramite degli Iovine ai casalesi. Chi traffica in cocaina alla sera spesso firma contratti di appalto al mattino. Come dimostra l'uccisione nel 2004 di un muratore calabrese freddato nel suo appartamento di Perugia perché non aveva saldato il conto di una partita di droga. In questo magma, che mescola etnie e ambienti come accade tra i giovani gaudenti della Perugia by night, non ci sono confini né monopoli criminali. L'Umbria è terra di nessuno e quindi di tutti. Campani e calabresi gestiscono i traffici più importanti, ma c'è spazio anche per gli stranieri. Le partite di cocaina intercettate dal Ros seguono questo viaggio multiculturale: i nigeriani la portano in Umbria. I campani e i calabresi la distribuiscono all'ingrosso, con grande guadagno e minimo sforzo. Mentre gli albanesi si occupano dello spaccio in strada davanti ai locali più frequentati dai giovani come il Gradisca, il Red Zone, il Lido Tevere e il Country. L'Umbria da tempo non è più solo una base logistica delle rotte del narcotraffico, ma anche un mercato fiorente. I giovani della borghesia perugina consumano molta cocaina e anche gli studenti universitari spesso non si tirano indietro di fronte a una pista bianca, ai prezzi popolari che ha raggiunto oggi la neve. Così anche i colombiani si sono lanciati sul mercato e nel 2005 il Ros ha arrestato ben 51 persone che facevano capo al cartello del Nord della Valle. Il clan Montoya gestiva il traffico in proprio dal produttore al consumatore. Anche i calabresi arrestati la scorsa settimana talvolta si rifornivano da soli a Milano. Erano le donne del clan a partire da Perugia per caricare ogni volta un panetto da due chili. Usavano automobili noleggiate da un'agenzia amica, anche perché quelle dei boss di Perugia non passano certo inosservate: si va dalla Jaguar alla Ferrari cabrio gialla fino alla più banale Porsche Cayenne. Pino il calabrese e i suoi amici però erano molto ambiziosi. Puntavano a espandere le loro attività dai settori tradizionali a quelli più innovativi: turismo, energia e chimica. Con grande sorpresa i carabinieri hanno seguito la trattativa con la padrona di uno dei ristoranti più famosi di Milano che voleva vendere ai calabresi la sua fabbrica di plastica. La trattativa era avanzata e i nuovi entranti stavano per aprire una sede a Perugia quando i boss hanno scoperto che la società stava fallendo e hanno rispedito l'offerta al mittente. Pino il calabrese guardava al Nord, ma non perdeva di vista la sua terra. A Brancaleone voleva realizzare un grande centro commerciale da 18 mila metri cubi con uno dei maggiori gruppi del Mezzogiorno: la Sisa. Aveva già fatto il preliminare per comprare ettari di terreno sul quale voleva costruire un centro residenziale sulla costa dei Gelsomini. Voleva riaprire la più antica centrale idroelettrica calabrese a Bivongi e farne una nuova. Per le autorizzazioni non c'era problema, ci pensava l'amico assessore dell'Udeur: "Pasquale Tripodi di Bova: l'altra sera abbiamo mangiato con lui. È lui che firmerà le concessioni delle centrali idroelettriche, i fondi perduti per lo sviluppo del turismo per la Costa dei Gelsomini". Però alla fine la Calabria lo delude. La centrale dovrebbe sorgere al confine con la zona di influenza di un'altra cosca rivale. I summit si susseguono ma non si trova l'accordo. Gli 'ndranghetisti scesi dal Nord sono delusi dai loro cugini locali: "Troppa rozzitudine, lo vedi perché non si fa mai nulla in Calabria. Questi preferiscono fare i sequestri che gli affari. Non meritano la ricchezza", dice il boss sconsolato. Meglio tornare in Umbria dove l'attende il progetto di un residence e di un campeggio da costruire sulla collina più bella di Norcia. La proprietaria del terreno chiede 600 mila euro, ma i boss sono tranquilli: "Quella è matta. Non ti preoccupare però, lei sa chi siamo noi. Non venderà a nessun altro".

«Hotel Gomorra», 'ndrangheta, camorra e mafia alla conquista dell'Umbria perbene. L'infiltrazione dei clan che approfittano della crisi economica, scrive Amalia De Simone su “Il Corriere della Sera”. Hotel Gomorra. In questa frase c'è tutto il disprezzo della gente perbene di Perugia. La scritta apparve in cima ad uno dei palazzi in costruzione di un enorme cantiere posto sotto sequestro da parte del Gico della Guardia di Finanza su richiesta della Dda. L'intero complesso era finito nelle mani, secondo le indagini, di un gruppo di colletti bianchi ritenuti collegati al cartello camorristico dei Casalesi che si sarebbero approfittati di un momento di difficoltà dell'azienda costruttrice, infiltrandosi nel business. E così poco dopo il sequestro, che a Perugia fece molto scalpore, la gente decise di ribellarsi a modo suo con la scritta Hotel Gomorra. L'Umbria da alcuni anni e soprattutto con la crisi che ha colpito tutti i settori economici, è stata presa di mira dai clan di camorra, 'ndrangheta e mafia che hanno avviato una sorta di colonizzazione del territorio attraverso l'acquisizione di attività commerciali, aziende edili, locali, hotel, terreni. Ci sono personaggi che acquisiscono informazioni su aziende in difficoltà e le passano ad altri luogotenenti dei clan che si attivano per entrare in contatto con gli imprenditori locali. Le cosche non controllano il territorio come avviene nelle zone di origine ma cercano di insinuarsi nel tessuto economico per poter riciclare denaro. «Arrivano con le loro valigette piene di soldi e diventano una buona soluzione per quegli imprenditori che hanno problemi di liquidità o hanno necessità di rinverdite l'attività. L'Umbria è una regione tranquilla con una vocazione produttiva interessante – spiega il magistrato Simona Di Monte - e soprattutto accoglie due penitenziari di massima sicurezza: Spoleto e Terni. Quindi spesso familiari di boss, pur di stare vicino al loro parente detenuto, si trasferiscono alcuni mesi lì. Abbiamo trovato infiltrazioni camorristiche in molti settori, perfino in quello dell'educazione, che è quanto di più lontano possa esserci rispetto alla mafia». Finanziarie, società create solo per emettere fatture false, operazioni inesistenti: i meccanismi per riciclare soldi sono ormai noti. «Noi cerchiamo di seguire il flusso dei soldi - spiega il comandante del Gico della guardia di finanza di Perugia Marco Marricchi -. Monitoriamo personaggi che possono sembrarci interessanti e se notiamo una sproporzione tra dichiarazione dei redditi e investimenti o tenore di vita, interveniamo. Dal 2009 ad oggi abbiamo effettuato sequestri per 90 milioni di euro. Aggredirne i patrimoni è il colpo più grave che si riesce a dare ai mafiosi. Ci capitano però anche vicende paradossali come il caso di una signora che gestiva i fondi antiusura per conto della Fondazione Umbria Antiusura, di cui tutti si fidavano e a cui le persone colpite si affidavano e che invece, quei soldi destinati alle vittime, li faceva sparire e li teneva per sé. A lei abbiamo sequestrato beni per 3 milioni e mezzo di euro». Andiamo a vedere una delle proprietà della signora in questione a bordo di una delle vetture a lei sequestrata, un auto molto costosa. La villetta si trova in una zona verde vicino a Perugia ed è attrezzata anche con una piscina. Spesso gli imprenditori che cadono nella rete dei clan sono inconsapevoli di ciò che sta avvenendo. E così è accaduto anche per Roberto Tassi, imprenditore noto nel panorama nazionale che ha accettato di raccontare la sua storia a volto scoperto. «Voglio dire come è andata perché così, magari, apro gli occhi a qualcuno», spiega e ci riceve nel suo hotel Domi, la struttura finita nel mirino della camorra, un bellissimo albergo immerso nel verde a pochi passi dal centro di Perugia. «Ho perso tutto ma sto salvando questo hotel e mi sento più ricco dentro. Facevo l'amministratore delegato di alcune importanti società ed ero partner di personaggi dell'alta finanza italiana. Avevo alcune case e vivevo in una villa con la mia famiglia. Ad un certo punto decisi di vendere questo hotel perché non riuscivo ad occuparmene. Una conoscente mi presentò un imprenditore che mi sembrò affidabile. Aveva cantieri e affari in tutta Italia, sembrava sicuro di sé e dopo vari giri di avvocati accettai la sua proposta: cedergli l'albergo in cambio di appartamenti in costruzione. Fino alla consegna dell'immobile l'hotel sarebbe rimasto mio ma l'avrebbe gestito lui. Il capo si presentava bene, talmente bene che decisi di introdurlo nel gotha della finanza milanese. Invece era un camorrista». Tassi se ne rese conto quando passavano i mesi e i pagamenti venivano rimandati di continuo. Un bel giorno decise che sarebbe rientrato nel suo albergo e li avrebbe cacciati via. Così fu, ma Roberto trovò un buco da oltre un milione di euro tra mutui, conti non pagati, dipendenti non pagati e così via. In più cominciò a capire che dietro quell'organizzazione c'erano clan della camorra. Si rimboccò le maniche, vendette le sue società, vendette la sua casa e cominciò a lavorare in albergo facendo di tutto, anche le pulizie. Nel frattempo venne a galla anche la vicenda giudiziaria, fu interrogato dal pm, chiarì tutto ma l'hotel restò sequestrato alcuni mesi. «Mi cadde il mondo addosso. Continuare l'attività era l'unico modo che avevo per provare a risanarla e non mandare tutto in fallimento. - spiega - Andai avanti senza poter usare carte di credito e continuando a pagare i debiti che spuntavano di continuo e con tante tasse sulle spalle. Si, perché quando ti capita una cosa del genere il sistema non ti aiuta: non hai agevolazioni fiscali, né altri sostegni. Poi con la costituzione di parte civile e l'inserimento nel processo si attivano una serie di meccanismi di aiuto... ma fino ad allora devi anche provvedere alle spese legali e non è semplice riuscire a spuntarla. Io sono stato fortunato ma ci sono tantissimi imprenditori che si sono inconsapevolmente messi nelle mani della criminalità organizzata e ora rischiamo di fallire. Ormai l'Umbria è diventata terra di conquista».

PERUGIA COME SODOMA E GOMORRA?

Perugia è la nuova Sodoma? Sui giornali viene dipinta come la città della perdizione, ma in realtà i suoi problemi non sono gli studenti stranieri. Che non sono sempre ubriachi, scrive Alice T. su “Giovani.it”. “Quello che sentiamo sui telegiornali non è vero. Tutte esagerazioni. Questa città non c’entra niente con quello che si legge e si vede in tv”. Gli studenti, i residenti e i cittadini di Perugia sono stanchi. Dopo l’assassinio di Meredith Kercher che ancora tiene banco sui tg e sui maggiori quotidiani nazionali, il nuovo ‘mostro’ da additare è diventata la città di Perugia. O meglio, il centro storico di Perugia, teatro di chissà quali festini, spedizioni punitive, criminalità. Se proprio si vuole essere precisi, il nuovo mostro sono gli studenti. Quelli che animano le strade del centro, non da due settimane, ma da decine di anni, e che si sentono presi in giro. Il problema di Perugia non sono certo gli studenti, che, come si legge in alcuni quotidiani, sembrerebbero aver preso d’assedio la città. Decine di servizi dipingono questa categoria, a Perugia molto esigua rispetto a metropoli come Roma, Milano o Bologna, come una sorta di branco senza scrupoli. Gli studenti fumano canne, si drogano e soprattutto, sono sempre ubriachi. Ma sarà davvero così o è il solito modo per distogliere il pubblico dal vero problema, cioè un assassinio senza un vero movente? “Io esco tutte le sere, ma non torno sempre ubriaco – dice Andrea, studente di Scienze della Comunicazione, la facoltà ritenuta ‘peggiore’ – se ho lezione la mattina dopo torno presto, altrimenti faccio anche l’una di notte. C’è qualcosa di male? I miei voti sono ottimi e non porto a casa una ragazza ogni sera”. Infatti, un altro luogo comune sarebbero i cosiddetti festini. Come se invitare a cena cinque persone e bere una bottiglia di vino possa essere ritenuto immorale, perché fatto da gente che studia. A Perugia, tra l’altro, l’Università ha parecchie lacune. Come a Roma, dove si fa lezione nei teatri, a Perugia ci sono pochi spazi e capita di seguire lezioni in aule colme, ad orari indecenti, perfino il sabato. Per non parlare degli affitti, spesso in nero, che i proprietari degli appartamenti del centro storico gonfiano da anni. Questi sono i problemi degli studenti perugini, stranieri e non. Se si parla di vita notturna, le discoteche perugine, mai menzionate dai tg, si trovano tutte in periferia. “La tana dell’Orso? Dovrebbero fare un giro in certe discoteche – dice Mariagrazia – dove circola droga in abbondanza e nessuno dice nulla”. Invece, l’attenzione generale è sui pub del centro storico. Pochi e molto controllati, da quando c’è il divieto di servire alcolici dopo le due e soprattutto di far uscire dai locali bottiglie di vetro. Piuttosto, c’è poco controllo sugli immigrati che spacciano in alcune vie del centro storico. Le forze dell’ordine non presidiano alcuni spazi chiave della città, divenuti ormai off limits dopo una certa ora e non solo per le ragazze. “Gli studenti stranieri si divertono un po’ di più, questo è sicuro – dice Chiara, commessa - Lo farei anche io se fossi in un altro paese. Eppure, la mia coinquilina polacca che frequenta l’Università per Stranieri è bravissima e si sta impegnando molto per imparare l’italiano”. L’unica pecca sta nell’integrazione tra studenti stranieri e italiani. Per quanto possano abitare insieme, in genere gli stranieri, anche quelli in Italia per scambi Erasmus, preferiscono stare con altri stranieri. Con gli studenti perugini c’è poco scambio, con i residenti meno che mai, causato anche dalla natura fondamentalmente chiusa di Perugia e dei suoi abitanti. Insomma, gli studenti sono il nuovo capro espiatorio, mentre la mancanza di sicurezza e di lavoro non viene presa in considerazione. Perugia come Sodoma e Gomorra?

LIBERTA’ DI PAROLA? AMMAZZATI PER UNA FRASE.

Il re è nudo……C'era una volta (e solo una) molti anni fa, così tanti che il passaggio del tempo non era neppure iniziato, un Re che amava così tanto i vestiti nuovi che spendeva in essi tutto quello che aveva….". Così inizia la favola per i bambini (Eventyr Fortalte for Bom) scritta nel 1837 da Hans Christian Andersen che si era ispirato ad una novella spagnola del 13° secolo. Come le nostre lettrici ed i nostri lettori sanno, i cattivi consiglieri – sull'orlo della disperazione – confezionarono al Re "un bel nulla" convincendolo che si trattava di uno splendido vestito cangiante con la magnifica proprietà di essere invisibile agli stolti, agli ignoranti ed agli stupidi. Da allora, l'espressione "il Re è nudo" ha assunto un preciso significato simbolico quando si mettono….a nudo le debolezze delle pubbliche autorità. Espressioni come "i nuovi vestiti dell'imperatore", "l'imperatore (o il re) è nudo" e così via sono spesso usate in molti contesti con riferimento alla fiaba di Andersen. Solitamente, lo scopo è quello di denunciare una situazione in cui una maggioranza di osservatori sceglie volontariamente di non far parola di un fatto ovvio a tutti, fingendo di non vederlo. Una metafora simile, del XX secolo, è quella dell'elefante nella stanza. Uno dei contesti in cui la frase ricorre in modo più frequente è quello politico, in cui la corrispondenza con il contenuto della storia di Andersen è spesso rinforzata dal fatto che una certa verità venga taciuta per compiacere il potere politico. La storia è anche usata per riferirsi al concetto della "verità vista attraverso gli occhi di un bambino", ovvero al fatto che spesso la verità viene proclamata da una persona troppo ingenua per comprendere le pressioni esercitate all'interno di un gruppo affinché essa venga taciuta. Nell'opera di Andersen il tema della "purezza degli innocenti" ricorre anche in molte altre fiabe.

La frase deriva da una fiaba danese scritta da Hans Christian Andersen il cui titolo originale è "Keiserens Nye Klæder", ma che in italiano diventa "I vestiti nuovi dell'imperatore". Di seguito la trama della fiaba: La fiaba parla di un imperatore vanitoso, completamente dedito alla cura del suo aspetto esteriore, e in particolare del suo abbigliamento. Alcuni imbroglioni giunti in città spargono la voce di essere tessitori e di avere a disposizione un nuovo e formidabile tessuto, sottile, leggero e meraviglioso, con la peculiarità di risultare invisibile agli stolti e agli indegni. I cortigiani inviati dal re non riescono a vederlo; ma per non essere giudicati male, riferiscono all’imperatore lodando la magnificenza del tessuto. L’imperatore, convinto, si fa preparare dagli imbroglioni un abito. Quando questo gli viene consegnato, però, l’imperatore si rende conto di non essere neppure lui in grado di vedere alcunché; come i suoi cortigiani prima di lui, anch'egli decide di fingere e di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori. Col nuovo vestito sfila per le vie della città di fronte a una folla di cittadini che applaudono e lodano a gran voce l’eleganza del sovrano. L’incantesimo è spezzato da un bimbo che, sgranando gli occhi, grida: "ma non ha niente addosso!"; da questa frase deriverà la famosa frase fatta « Il re è nudo! » Quindi espressioni come "i nuovi vestiti dell'imperatore", "il re è nudo" e così via sono spesso usate in molti contesti con riferimento a questa fiaba. Solitamente,con lo scopo di denunciare una situazione in cui una maggioranza di osservatori sceglie volontariamente di non far parola di un fatto ovvio a tutti, fingendo di non vederlo. Inoltre questa fiaba è stata ripresa in una canzone degli Articolo 31 "Sputate al re" contenuta nell'album "Italiano Medio" (2003) e nella canzone di forte contenuto politico "Il re è nudo" dei Nomadi contenuta nell'album "Amore che dai amore che prendi", oltre che utilizzata anche per fare dei film tra cui "Gli abiti nuovi del granduca" (2005) di Alessandro Paci.

Il Cav sfida i giudici in aula: "Magistrati irresponsabili". Berlusconi sentito come testimone in tribunale al processo Panama-Impregilo. Risponde a tutte le domande e contrattacca: "Godete dell’immunità piena", scrive Carmine Spadafora su “Il Giornale”. «La magistratura è incontrollata, incontrollabile, irresponsabile e ha l'immunità piena». A un certo punto il testimone Silvio Berlusconi sbotta e replica così a una domanda di Giovanna Ceppaluni, presidente della sesta sezione del Tribunale di Napoli, dove si sta celebrando il processo a carico di Valter Lavitola, imputato per tentata estorsione. Duello e sfida con la Corte, terminato solo quando l'udienza si è conclusa. Berlusconi, mentre l'aula stava per svuotarsi, si è avvicinato alla presidente Ceppaluni e le ha donato l'attestato del giuramento dei testimoni, chiuso in una cornice e coperto da un vetro. «Affinché il decoro della giustizia italiana sia tutelato» le ha detto l'ex premier. Poi è andato via dopo più di tre ore trascorse nell'aula 219. Da palazzo di giustizia è trapelato che la Procura starebbe per inviare gli atti dell'udienza alla Procura generale di Milano per valutare se Berlusconi sia venuto meno agli obblighi imposti dall'affidamento in prova ai servizi sociali. Prima, la Corte si era riunita per decidere se interrogarlo in qualità di testimone, oppure, come volevano i legali Niccolò Ghedini e Michele Cerabona, in veste di indagato per reato connesso o collegato. I tre giudici della sesta sezione si sono riuniti in camera di consiglio e hanno stabilito che Berlusconi fosse ascoltato in qualità di «teste puro». Nell'aula 219 c'era anche l'imputato Lavitola (detenuto nel carcere di Poggioreale), difeso dall'avvocato Paniz, imputato per una tentata estorsione a Impregilo per degli appalti a Panama. Gli inquirenti sostengono che Impregilo per aggiudicarsi l'appalto da un miliardo e mezzo di dollari per la costruzione di un canale avrebbe dovuto anche realizzare l'ospedale, la cui costruzione sarebbe stata affidata a una azienda vicina al presidente Roberto Martinelli. Lavitola avrebbe avuto il ruolo di mediatore in considerazione dei suoi rapporti con la politica panamense. «Sapevo della costruzione di un ospedale di Impregilo, mi parve una iniziativa buona e lodevole - ha detto Berlusconi - Lo appresi nel corso di una cena ufficiale a Panama. Dissi che ai mobili e agli arredi potevo provvedere io. Chi dona è più fortunato di chi riceve. La mia famiglia destina il 10% alle opere di beneficenza». I pm sostengono che proprio sulla edificazione dell'ospedale ci sarebbe stato il tentativo di estorsione di Lavitola. L'ex giornalista avrebbe prospettato a Impregilo l'ipotesi che senza la realizzazione dell'ospedale, Martinelli poteva bloccare i lavori del canale. Berlusconi (che non si è sottratto ad alcuna delle domande che gli sono state poste dalla Corte e dai pm) ha riferito di non avere «mai saputo che rapporto c'era tra il canale e l'ospedale» e di essere stato contattato da Lavitola, che gli aveva prospettato dei problemi insorti a Panama e di riferirli a Impregilo. «Sono stato ambasciatore che non porta pena» ha detto l'ex premier, che si è poi detto «orgoglioso» di avere telefonato a Massimo Ponzellini di Impregilo «per il bene delle aziende italiane». E proprio all'ennesima domanda della presidente, sulla telefonata tra l'ex premier e Ponzellini, che Berlusconi ha perso la pazienza. «Chiedo scusa, ma non riesco a capire il senso di queste domande». Replica immediata del giudice: «Non c'è alcun bisogno che lei capisca». A quel punto, controreplica del teste: «La magistratura è incontrollata, incontrollabile, irresponsabile e ha l'immunità piena» ha detto il leader di Fi. «Ed è ancora tutelata dal codice penale» ha detto la presidente mentre, dal suo banco è scattato il procuratore aggiunto, Vincenzo Piscitelli, che rivolgendosi alla Ceppaluni ha detto «questo non lo posso accettare». Al termine dell'udienza, Berlusconi si è concesso un pranzo da Mattozzi, a pochi passi dal porto. Sulla tavola apparecchiata per cinque, (oltre a Berlusconi e i legali, il presidente della Provincia, Antonio Pentangelo e Luigi Cesaro) pizza margherita, mozzarella con pomodorini e babà. All'uscita, una gran folla lo attendeva per incitarlo ad «andare avanti per l'Italia». Il leader del centrodestra è salito sul predellino dell'auto e ha salutato i suoi fan, mandando baci e regalando sorrisi.

Magistrati, una casta intoccabile che vuole Silvio in galera. Berlusconi rischia grosso. Potrebbe finire in cella, nonostante i suoi 77 anni e nonostante il fatto che è il capo di uno dei tre grandi partiti italiani. E se così fosse, sarebbe il primo leader politico di tutta la storia della Repubblica ad andare in prigione per un reato d’opinione. L’ultima volta fu prima del 25 luglio del 194, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. E’ successo, come avete letto ieri su questo giornale, che giovedì 19 giugno 2014 al Tribunale di Napoli si è verificato, in aula, uno scontro verbale tra l’ex primo ministro e il Presidente della Corte. Ora la Procura di Napoli sta valutando l’ipotesi che nel corso di quell’incidente, Berlusconi, con le sue parole aggressive verso la magistratura, abbia nientepopodimenoché commesso il reato di oltraggio all’ordine giudiziario. Deciderà lunedì se aprire o no un procedimento e se trasmettere le carte al tribunale di sorveglianza di Milano perché possa decidere se revocare il beneficio dei servizi sociali e spedirlo in galera. La scelta tra archiviare o procedere è affidata al Procuratore Giovanni Colangelo e a due Pm: Vincenzo Piscitelli e…Henry John Woodcock. C’è bisogno di scrivere qualche riga su Henry John Woodcock? È un giovane magistrato molto noto e del quale tutto si può dire ma non che non abbia qualche inimicizia verso Berlusconi. Naturalmente questa evidente incompatibilità potrebbe persino giovare a Berlusconi: Woodcock, sentendosi troppo esposto, potrebbe finire per evitare lo scontro frontale. Woodcock però non è un tipo che evita gli scontri frontali. Gli sono sempre piaciuti, li ha sempre cercati, generalmente senza un grande successo visto che moltissime delle sue inchieste più spettacolari, contro imputati famosi, si sono risolte con un flop. Cosa potrebbero decidere i giudici di Napoli? Di aprire un procedimento per oltraggio, e le voci di corridoio dicono che si stanno orientando in quel senso. E poi potrebbero decidere di trasmettere la registrazione dello scontro tra Berlusconi e la dottoressa Ceppaluni al tribunale di sorveglianza di Milano. A quel punto Berlusconi si troverebbe sotto due fuochi: a Napoli dovrebbe affrontare un nuovo processo per un nuovo reato (di opinione, ma che prevede pene severe); a Milano potrebbe aspettarsi che il tribunale gli revochi l’affidamento ai servizi e lo mandi in cella. Il Tribunale di sorveglianza, quando decise di assegnare Berlusconi ai servizi sociali ( e precisamente all’assistenza ai malati di Alzheimer) lo aveva ammonito: non parlare male della magistratura o ti sbattiamo dentro. Berlusconi si è fatto tutta la campagna elettorale tappandosi la bocca per evitare che gli sfuggisse qualche sciabolata contro i giudici. L’altra sera però non ha retto. Ci sono stati due minuti di scintille. La presidente della Corte, la dottoressa Ceppaluni, gli ha chiesto qualcosa sui suoi rapporti con il finanziere Ponzellini. Lui ha risposto: «Non capisco il senso di queste domande». E lei, gelida, ha replicato: «Non c’è nessun bisogno che lei capisca». A quel punto Berlusconi è sbottato e ha parlato di irresponsabilità e impunibilità della magistratura. Che un capo politico definisca irresponsabile e impunibile la magistratura, è un’offesa o è critica politica? Se avesse definito irresponsabile Grillo, o Renzi, o Obama nessuno avrebbe avuto niente da dire. La magistratura in Italia è un luogo sacro? Può criticare e anche condannare ma non può essere criticata né tantomeno giudicata? Eppure in qualunque paese libero è legittimo criticare la magistratura. Forse è meno legittimo che un giudice, in tribunale, sbeffeggi e cerchi di umiliare un imputato. E affermi con protervia e arroganza la sua superiorità quasi divina.«Non c’è bisogno che lei capisca», che significa? Significa: qui c’è una sola persona che deve capire e comandare: io. Lei si sottoponga a me e obbedisca. Siamo sicuri che il Consiglio superiore della magistratura non debba valutare se l’atteggiamento assunto in aula dalla dottoressa Ceppaluni non fosse offensivo e violasse l’etica della magistratura? Se io ascoltassi un giudice rivolgersi con quella arroganza a un povero cristo (e temo che succeda molto spesso) mi indignerei parecchio. Per Berlusconi invece non bisogna indignarsi? La verità è che uno può anche indignarsi, ma poi non gli resta altro che abbozzare. La potenza assoluta e incontrollabile della magistratura è ormai fuori discussione e sembra inarrestabile. Il governo ha annunciato che giovedì presenterà la riforma della Giustizia. C’è da scommettere che in questa riforma non ci sarà di niente di sgradito ai magistrati: né la separazione delle carriere, né la responsabilità civile, né la riforma del carcere preventivo, né la limitazione delle intercettazioni, nè la riforma del processo.

Nell'esercitare la libertà di espressione è andata peggio al Prefetto di Perugia. Non sono cessate le polemiche intorno al servizio trasmesso il 29 maggio 2014 su La 7, ad Announo, che fotografava il capoluogo umbro come “capitale dell’eroina”. A distanza di alcune settimane dalla messa in onda della puntata incriminata, si è svolto un incontro chiarificatore con la stampa da parte delle istituzioni, non arrivato prima - spiega il prefetto di Perugia Antonio Reppucci - «per non essere strumentalizzati in campagna elettorale». Perugia e l'eroina tornano in tv, ancora su la7. E scoppia di nuovo la polemica dopo le dichiarazioni dell'ex ministro Carlo Giovanardi: «Perugia è una città persa, per fortuna non tutte sono così». Su la7, nel corso della trasmissione di Michele Santoro AnnoUno, infatti, è andato in onda un reportage di Giulia Cerino che racconta di Perugia come uno «dei crocevia della droga in Italia, tanto da essersi guadagnata il soprannome poco lusinghiero di “capitale dell’eroina” e il record per morti dovute a overdose». «In via Pellini, nel parco alle porte della città - prosegue la giornalista -, c’è un vero e fortino dei tossicodipendenti mente nel centro, qualche chilometro più in là, va in scena la movida del sabato sera. A sorvegliare piazza IV novembre c’è un gruppo di pusher tunisini, che controllano il racket. “Perugia è fatta così, c’è gente che vende, pippa, si droga e nessuno li arresta” raccontano due giovani», riassume Cerino. E sui social network riesplode la polemica, tra chi parla di attacco alla città e chi dice che Perugia meriti altro. Duro l'attacco di Giovanardi che l'ha definita «città persa». «È l'ennesima pioggia di fango sulla città - commentano il rettore Franco Moriconi e il prorettore Fabrizio Figorilli, raggiunti da decine di telefonate durante la messa in onda - che non rispecchia la realtà, soprattutto dopo tutti gli sforzi fatti».

A Perugia il problema della droga "esiste come nel resto d'Italia, da nord a sud, ma non con le dimensioni apocalittiche che vengono rappresentate": a sottolinearlo con un accorato appello in difesa della città è stato il prefetto del capoluogo umbro Antonio Repucci. Che il 19 giugno 2014  ha incontrato la stampa insieme al procuratore generale Giovanni Galati e ai vertici di polizia, carabinieri e guardia di finanza. Secondo Reppucci, nel capoluogo umbro "vengono usati toni sensazionalistici che invece non si sentono altrove". "Anche l'atteggiamento della società civile - ha aggiunto - è cambiato. Con tante più segnalazioni che giungono alle forze di polizia. Dobbiamo lavorare e sudare tutti insieme, io per primo. Tutti insieme possiamo farcela". "Bisogna dire basta con forza alla sistematica denigrazione di Perugia" l'invito del procuratore generale Galati. "La città - ha proseguito - non è minimamente toccata dal narcotraffico e nel processo per l'omicidio di Meredith Kercher del quale tanto si parla ci sono al massimo due spinelli. Dobbiamo ricordare Perugia - ha concluso il magistrato - non per questo maledetto processo ma per la sua arte, la sua storia e la sua cultura".

Bando al fioretto, si passa alla scimitarra. Il Prefetto Antonio Reppucci rompe gli schemi e parla come chi si arrotola le maniche della camicia per tuffarsi nel lavoro e non per il caldo: “Noi siamo in guerra con chi spaccia, scrive Sara Minciaroni in  collaborazione con Carlo Vantaggioli su “Tuttoggi”. Il prefetto ha riferito di aver già stabilito, insieme al nuovo sindaco di Perugia, incontri in tutte le scuole cittadine per parlare di sicurezza e che la guardia contro lo spaccio è sempre più alta. “Rovescia” il tavolo, tralascia l’etichetta e si esprime in modo durissimo e a tratti  in forma inusuale per il ruolo ricoperto. Ha convocato i giornalisti questa mattina al super vertice in prefettura con il chiaro scopo di difendere la sua città, presenti il procuratore generale Giovanni Galati e i vertici di polizia, carabinieri e guardia di finanza. “Non l’abbiamo fatto prima – spiega il Prefetto – perché in clima campagna elettorale si correva il rischio di strumentalizzazioni”. Ma lo scopo è fare chiarezza dopo la tanto criticata trasmissione AnnoUno trasmessa da La7 e dedicata al problema della droga a Perugia. “Perugia non è la capitale della droga. La droga è un male di vivere – spiega- della società contemporanea, trasversale, che colpisce tutte le classi sociali. Ma le famiglie dove sono?”. E il prefetto tira in ballo il ruolo delle famiglie, soprattutto quelle di quasi 500 assuntori che vengono segnalati ogni anno e di cui solo un 20% sono cittadini stranieri e la cui prevalenza ha un’età compresa tra i 18 e i 27 anni: “Mio padre mi avrebbe tagliato la testa – sentenzia il Prefetto – e invece sento genitori dire ‘ma che vuole che sia uno spinello?‘. E’ tempo che le famiglie guardino negli occhi i loro figli. Una madre che ha un figlio drogato è una madre che ha fallito. Una mamma, un genitore che non si accorge che il proprio figlio fa uso di droga è una fallita, si deve solo suicidare”. E ancora “Le forze di polizia non possono fare da badante o da tutore laddove la famiglia ha fallito”. Concetti duri che mirano alla pancia della società, per togliere quel marchio che tanto pesa sulla città. “La famiglia deve riprendere il suo ruolo nella logica di uno Stato /Comunità e non di Stato/Apparato”. E’ tempo che dalle parole si passi ai fatti sottolinea il prefetto usando un’efficace metafora “Diarrea di parole e stitichezza di fatti”. Sottolinea anche che le forze dell’ordine fanno il loro lavoro al massimo e i risultati iniziano a vedersi con il drastico calo delle morti per overdose. Perché “non esistono città a consumo droga zero il problema della droga esiste a Perugia come nel resto d’Italia, da nord a sud, ma non con le dimensioni apocalittiche che vengono rappresentate”. “Sono orgoglioso di sentirmi perugino – spiega il procuratore generale – e dico basta a questa denigrazione. Una trasmissione che definiscono impegnata, ma il cui impegno ho visto solo nell’offendere Perugia. Mi chiedo se l’illuminata giornalista sappia cosa sia il narcotraffico o lo confonda con lo spaccio al minuto”. Toni diversi certo quelli del procuratore ma con la stessa forte intensità tanto da spingerlo alla similitudine pascoliana; “Avete presente – dice rivolgendosi alla stampa - il frullo dei bofonchi parea parole questo l’effetto del deputato che in trasmissione ha parlato dell’omicidio Meredith (Giovanardi ndr). In quel processo, di cui tanto si parla, ci sono al massimo due spinelli”, per spiegare come invece l’impatto mediatico lo abbia trasformato, per chi non conosce i fatti, nell’emblema della droga a Perugia. E poi ancora sul programma “Il parco con siringhe messe in fila, un ubriaco che barcolla, lo sbandato che urina sul muro, le ragazzine eccitate per la ripresa. Un film dalla scenografia e dalla sceneggiatura squallida, creato ad arte con luoghi e oggetti come le siringhe in primo piano che si troverebbero facilmente in ogni città”. E poi l’appello ai giornalisti “che hanno più potere dei politici” affinché venga restituita la giusta immagine di Perugia perché: “Il fenomeno della droga esiste ma le statistiche sono ingannevoli – ha affermato il prefetto – altrove molte morti sono classificate come naturali, qui voi con l’efficienza della vostra sanità risalite sempre alle cause e allora il dato delle overdose sembra maggiore che altrove. Introdurre metodologie uniformi di rilevazione soprattutto dei decessi per overdose eviterebbe molte distorsioni. E rispetto al tipo di criminalità “a Perugia prende piede quella straniera perché a differenza di altre città non ve ne era una autoctona” prefetto e procuratore hanno anche negato che in Umbria ci siano infiltrazioni della criminalità organizzata e rimarcano il fatto che “Ci sono dei tentativi di infiltrazione – ha sottolineato il procuratore Galati – ma le operazioni dimostrano che vengono bloccate sul nascere, le stronchiamo prima. Vengono individuate e bloccate”. Anche Reppucci ammette di avvertire dei tentativi: “La crisi ha provocato anche questo, la criminalità che ha soldi da investire trova terreno facile nelle aziende in difficoltà, dobbiamo fare attenzione”. E sul consumo indigeno il prefetto punta molto. Per far capire una volta per tutte che gran parte dei consumatori della droga in circolazione “sono i nostri figli, i nostri vicini di casa, i professionisti a cui quotidianamente ci rivolgiamo”. Conclusione: Il nemico non viene da fuori, ma è al servizio di un bisogno interno e da questo bisogna partire per risolvere il problema, per la legge della domanda offerta. Non una frittata rigirata, piuttosto un punto di vista sul problema che vorrebbe spingere ad una diversa presa di coscienza e la minor facilità di scrollarselo di dosso come se provenisse dall’esterno. Il problema è endogeno e chiedendo alle famiglie di guardare negli occhi i propri figli il prefetto ha fatto molto più che una provocazione. Certo è che se il ruolo ricoperto dalla figura istituzionale,  di solito, prevede un linguaggio politicamente corretto, in questo caso quello usato a Perugia ha il sapore della vera e propria Crociata, o se volete, una “Sfida all’O.K. Corral”. Difficile che dichiarazioni del genere non suscitino reazioni.

Bene. Da questa difesa della città, la stampa additata come responsabile dell’infamia, si è gettata a capofitto sull’indifeso Prefetto e su una sua  frase estrapolata ad arte il sui senso era “La tossicodipendenza inizia in famiglia, col mancato controllo dei genitori.”

"Madri dei tossici fallite". Prefetto nei guai. Dichiarazioni choc (già quel choc anzichè shock la dice lunga): "Una mamma non si accorge che il figlio si droga? Si deve suicidare". Renzi e Alfano lo rimuovono, scrive Giuliana De Vivo su “Il Giornale”. «Se una madre non si accorge che il figlio si droga per me è una madre che ha fallito, si deve solo suicidare». A volte basta una frase sbagliata a rovinare una situazione in apparenza tranquilla. Ma di frasi dai contenuti inaccettabili il prefetto di Perugia Antonio Reppucci sembra se ne sia fatte scappare più d'una. Lo ha fatto durante una conferenza stampa svoltasi due giorni fa per tranquillizzare l'opinione pubblica sulla droga nel capoluogo umbro, e smentire che Perugia stia diventando una centrale dello spaccio. La toppa, però, è stata decisamente peggiore del buco. Le forze dell'ordine «non possono fare da badanti e tutori alle famiglie - ha proseguito il funzionario - se io avessi un figlio e lo vedessi per strada con la bottiglia in mano lo prenderei a schiaffi, spero che i padri taglino le teste ai figli che assumono stupefacenti». Insomma per il Prefetto «il cancro è lì nelle famiglie». Parole pesanti come pietre, andate in onda sul sito della televisione «Umbria24», che in poco tempo si sono diffuse e hanno fatto il giro del web. E che non potevano non fare rumore. Al punto che il giorno dopo, ieri, il procuratore distrettuale Antimafia di Perugia Antonella Duchini ha sentito l'esigenza di diffondere una nota, nella quale si dissociava dalla posizione del dirigente: «Le famiglie non devono sentirsi isolate, ma supportate e coinvolte», ha messo nero su bianco Duchini. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, su tutte le furie secondo fonti di palazzo Chigi, ha chiesto conto di quanto accaduto al ministro Angelino Alfano. Minuti convulsi, in cui il titolare degli Interni definisce «gravi e inaccettabili» le affermazioni del dirigente, annunciando «immediati provvedimenti» nei suoi confronti. E dopo l'annuncio della rimozione di Reppucci il premier si è espresso, scrivendo su Twitter: «Le frasi del Prefetto di Perugia sono inaccettabili, specie per un servitore dello Stato. Sono grato al ministro Alfano per l'intervento». Intanto la miccia della polemica era stata innescata, l'autodifesa di Antonio Reppucci, che ha invocato l'equivoco, è suonata stonata: «È stato un gigantesco fraintendimento del senso che volevo dare alle parole. Nessuno vuole il suicidio di nessuno. Volevo solo scuotere, era un invito a fare squadra tutti insieme, con magistratura e forze di polizia che fanno già un lavoro egregio. A loro si devono unire però anche le forze della società civile, compresa la famiglia».

Anche il politicamente corretto Corriere pubblica il suo articolo. Rimosso il prefetto di Perugia dopo le frasi choc sui giovani e la droga. (Già quel choc anzichè shock la dice lunga).  Intervenendo ad una conferenza stampa Antonio Reppucci aveva detto: «Se una madre non si accorge che il figlio si droga dovrebbe suicidarsi». Il premier Renzi: «Non può stare al suo posto», scrive Alfio Sciacca su “Il Corriere della Sera”. Rimosso a tempo di record il prefetto di Perugia Antonio Reppucci dopo le esternazioni choc su droga e giovani. «Se una madre non si accorge che il figlio si droga ha fallito, si deve solo suicidare» aveva detto qualche giorno fa suscitando la reazione sdegnata del procuratore della repubblica di Perugia . Dopo aver sentito le parole del prefetto il presidente del consiglio Matteo Renzi si è detto «furente». E a stretto giro è intervenuto anche il ministro dell’interno Angelino Alfano annunciando la rimozione del prefetto. «Ho sentito le sue dichiarazioni, sono gravi e inaccettabili. Non può restare lì nè altrove. Assumerò immediati provvedimenti». «Le frasi del Prefetto di Perugia sono inaccettabili, specie per un servitore dello Stato. Sono grato al Ministro Alfano per l’intervento» ha twittato poco dopo Matteo Renzi ufficializzando la rimozione del prefetto. Qualche giorno fa, parlando di droga in quella che viene considerata la capitale della tossicodipendenza, il prefetto Reppucci aveva preso di mira le famiglie. Intervenendo ad una conferenza stampa, assieme al procuratore generale di Perugia e alti ufficiali delle forze dell’ordine, era stato durissimo. «Il cancro sta nelle famiglie -ha affermato- se una madre non si accorge che il figlio si droga ha fallito, si deve solo suicidare». In un lungo monologo il rappresentante del governo ha detto che il problema della lotta alla droga non può essere caricato esclusivamente sulle forze di polizia. «Noi non possiamo fare da badanti e tutori al posto delle famiglie -ha gridato con intercalare di espressioni napoletane- se uno mette al mondo dei figli poi deve stare attento a quello che fanno. Se io avessi un figlio e lo vedessi per strada con la bottiglia in mano lo prenderei a schiaffi. Uno che beve per strada imbambolato io non lo accetto proprio». La conferenza stampa era stata convocata anche per replicare ad un servizio della trasmissione “Anno Uno” sul consumo e spaccio di droga a Perugia. Le parole del prefetto hanno fatto rapidamente il giro del Web grazie ad un video realizzato dal sito Umbria 24 suscitando un’ondata di indignazione. Il primo a prendere le distante dal prefetto era stata il procuratore della Repubblica di Perugia Antonella Duchini. «Questo ufficio - si legge in una nota- si dissocia in maniera netta dalle affermazioni del prefetto quando spera che i padri taglino le teste ai figli che assumono stupefacenti e quando sostiene che “il cancro è lì nelle famiglie, se la mamma non si accorge che suo figlio si droga è una mamma fallita e si deve solo suicidare”. Le tematiche afferenti al consumo di sostanze stupefacenti -aggiunge- sono complesse e riguardano sia l’aspetto della repressione che quello della prevenzione attraverso politiche sociali rivolte alle famiglie, che non devono sentirsi isolate ma piuttosto supportate e coinvolte». Indignate anche le comunità che assistono i tossicodipendenti e tanti genitori che vivono il dramma di avere un figlio tossicodipendente. A chiedere la rimozione del prefetto anche vari esponenti politici. «Quelle del prefetto sono parole che non sono degne di chi dovrebbe rappresentare la Repubblica Italiana. Frasi incredibili e inaccettabili, e neanche giustificabili come provocazione» ha affermato Sel con il suo coordinatore nazionale, Nicola Fratoianni. «Come ha giustamente affermato il Procuratore antimafia di Perugia Duchini le famiglie andrebbero sostenute e non isolate o giudicate. Credo che il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’interno debbano procedere immediatamente alla rimozione del prefetto». Anche il leader dei verdi Angelo Bonelli aveva chiesto le dimissioni del prefetto di Perugia. «Il nostro Paese - si chiede Bonelli- può consentire ad alti funzionari dello Stato di fare affermazioni volgari e offensive nei confronti dei genitori che vivono il dramma della tossicodipendenza dei propri figli?». Investito dalle polemiche Reppucci ha tentato una goffa marcia indietro. «Non volevo colpevolizzare le famiglie -afferma- volevo dire che dobbiamo fare squadra tutti insieme istituzioni, forze dell’ordine e famiglie per vincere la guerra contro la droga. Sono stato frainteso, il mio era un discorso molto più articolato». Il prefetto ribadisce che «si deve vedere tutto il contesto in cui mi sono espresso, poi erano presenti i vertici delle forze dell’ordine e nessuno ha avuto da ridire. Il mio discorso comunque era molto più articolato: non ho detto che tutte le mamme sbagliano, quindi non tutte le mamme si devono sentire chiamate in causa. Si deve anche capire il senso di un ragionamento». Quello di cui è comunque convinto è che «serve una responsabilizzazione maggiore da parte delle famiglie», perché « le istituzioni e le forze dell’ordine da sole non possono vincere la guerra contro la droga». A discutere della lotta allo spaccio e come smontare l'immagine di Perugia come ''capitale della droga'', erano presenti il procuratore generale della Corte d'Appello perugina Giovanni Galati, il questore Carmelo Gugliotta, il colonnello dei Carabinieri Angelo Cuneo e quello della Guardia di Finanza Vincenzo Tuzi. E' anche vero che proprio sul tema della criminalità e sullo spaccio si è giocata l'ultima campagna elettorale, che ha visto la clamorosa sconfitta del candidato del Pd, il sindaco uscente Vladimiro Boccali, al secondo turno.

Riportiamo il commento dell’On. Osvaldo Napoli ripreso da “Agenparl”. «Il prefetto di Perugia è una vittima, non la sola, del pensiero politicamente corretto, di quel mainstream tanto caro all’universalismo renziano. La sua rimozione immediata da parte del ministro Alfano è un gesto che rivela tutta la debolezza di chi rappresenta lo Stato. Il prefetto ha usato espressioni sopra le righe, non c’è ombra di dubbio, ma la sua denuncia contro il relativismo pedagogico in cui viene lasciata una generazione di ragazzi è più che fondata. La cultura del permissivismo e di una indulgenza generalizzata verso i comportamenti sbagliati dei ragazzi sono il prodotto di una deriva civile in atto da molti anni. Essa ha colpito i luoghi centrali della formazione e in molti casi le stesse famiglie. Richiamare i genitori, e non solo loro, ma anche gli insegnanti e quanti vengono a contatto con i giovani ad adottare comportamenti improntati a minore indulgenza e a una pedagogia più responsabile è un atto doveroso al quale una classe politica non dovrebbe mai sottrarsi. Sulle parole del prefetto sono state imbastite indegne speculazioni politiche. Se Renzi è furente, provi a calmarsi e a rivolgersi, prima che al prefetto, ai tanti, troppi genitori che sono insieme vittime e inconsapevoli carnefici di tanti figli con atteggiamenti di tolleranza che sfiorano l’indifferenza.»

Sui social, intanto, ci sono i commenti più svariati, viziati più da ortodossia ideologica che da conoscenza della realtà.

Reppucci, prima di andare a Perugia, è stato alla guida delle Prefetture di Cosenza e Catanzaro dove è stato molto apprezzato per i legami che ha stabilito con i singoli territori, dimostrandosi molto vicino alla gente. Per questo ha lasciato un buon ricordo in queste realtà.

È sparito per un giorno intero. Nemmeno in prefettura sapevano che fine avesse fatto. Eclissato dopo lo scandalo, quella frase choc che gli è costata il posto da prefetto di Perugia: «Una madre che non si accorge che il figlio si droga ha fallito. Deve solo suicidarsi». Antonio Reppucci riaccende il telefonino di servizio solo in serata, scrive Rinaldo Frignani su “Il Corriere della Sera”.

Che domenica è stata?

«Secondo lei? Guardi, non voglio parlare, non ho niente da dire. Questa cosa mi fa impazzire. Che amarezza! Ammazzate la gente con la penna: una frase, una frase sola, estrapolata da una conferenza stampa di un’ora e mezzo, e avete ammazzato una persona».

Sì ma, prefetto, non era una frase che poteva passare inosservata...

«Ma vi pare che io voglia davvero il suicidio delle persone? Che desideri la morte delle donne? Ma stiamo scherzando? Ma a nessuno viene il dubbio che forse volevo dire un’altra cosa?».

E cosa?

«Che non si può descrivere Perugia come la capitale della droga, che volevo solo svegliare l’opinione pubblica, che da 10 mesi lotto contro lo spaccio fuori dalle scuole».

Ma l’accusano di aver usato espressioni inopportune e violente...

«Quella era solo una frase pronunciata con il caratteristico intercalare napoletano: suicidati nel senso che hai fallito, che non sei riuscito in qualcosa. Non che ti devi ammazzare davvero. Sono profondamente cattolico, il Padreterno sa cosa volevo dire, sa che ho la coscienza pulita».

Visto quello che è successo, ha qualcosa da rimproverarsi?

«Il pensiero che ho lanciato era chiaro: fare squadra, stare con le madri. Da soli si perde, insieme si può vincere. Ho solo difeso Perugia dall’immagine negativa che ha. Visto quello che è successo, verrebbe da chiedermi perché non mi sono fatto i fatti miei. Può darsi che abbia avuto una caduta di stile, non lo so».

Renzi e Alfano non pensano la stessa cosa.

«Per carità capisco Renzi, ha assolutamente ragione, non posso certo ribattere al presidente del Consiglio. Con il ministro non ho ancora parlato. Ho spento tutto, volevo stare da solo a riflettere, mi sono chiuso in me stesso. Non ho nemmeno letto i giornali, alla processione per il Corpus Domini non mi è sembrato opportuno andarci. Ho risposto a voi solo perché ho visto il prefisso 06 e ho uno zio a Roma, pensavo fosse lui...»

In tanti (il dj antidroga Aniceto, i sindaci del Catanzarese, il sindacato dei prefetti) le hanno manifestato solidarietà. Chi l’ha chiamata?

«Tantissime persone, dalle Alpi alle Piramidi, potrei dire. Ma non vorrei essere accusato di captatio benevolentiae. Ho dato la vita per lo Stato, in Calabria ho subìto anche intimidazioni. Quattro anni di sacrifici, in vita mia ho sempre obbedito. Una carriera fatta di servizio rovinata da una frase».

Trenta sindaci e un disc jockey si sono sentiti in dovere, ieri, di intervenire in difesa del prefetto Antonio Reppucci, che aveva invitato a «suicidarsi» le madri che non si accorgono dei figli drogati ed era stato perciò prontamente richiamato (in vista della rimozione) dal premier Matteo Renzi e dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, scrive Mario Garofalo su “Il Corriere della Sera”. I trenta eletti dal popolo guidano Comuni del Catanzarese e hanno potuto constatare l’«ottimo lavoro» svolto dal suddetto nella loro provincia prima del trasferimento a Perugia: tanto quanto basta per criticare «una punizione giunta a tempo di record, sulla spinta di un’indignazione politica sorprendentemente tempestiva, che a volte non si riscontra neanche di fronte a comportamenti di tanto più gravi». Il dj è Aniceto, testimonial di campagne antidroga, che non condivide le frasi di Reppucci, ma ritiene eccessiva la decisione di rimuoverlo. Va detto, però, che Sua eccellenza il prefetto ha sbagliato di grosso. Adesso spiega di essere stato frainteso, di venire impiccato per una sola frase tirata fuori dal contesto, dopo una vita di impegno profuso per il Paese e perfino le minacce ricevute dalla criminalità organizzata. Ma un conto è richiamare le famiglie alla giusta collaborazione nella lotta all’uso di stupefacenti, altro conto è dire che «se una mamma non si accorge che suo figlio si droga è una mamma fallita e si deve solo suicidare», o che «i padri devono tagliare le teste alla prole che assume stupefacenti». Reppucci ha usato un linguaggio violento, aggressivo, al quale ci stiamo purtroppo abituando frequentando le Reti sociali e i talk show di serie B, ma che certo non si addice a un uomo delle istituzioni. Oltre tutto, non lo ha fatto mentre giocava a bocce con un gruppo ristretto di amici, ma in una sede pubblica, nel corso di una conferenza stampa, davanti alle telecamere e ai taccuini dei giornalisti. È indiscutibile che chi parla così - chi pensa così - non possa rappresentare il governo davanti ai cittadini.

Lo hanno condannato, rimosso e messo spalle al muro, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Ad Antonio Reppucci, prefetto di Perugia, sotto accusa per l’infelice «scivolata» sulle mamme che devono suicidarsi se non si accorgono che il loro figlio si droga, non è stata lasciata possibilità di appello. Ma quando sembrava ormai «spiaccicato» sulla graticola, di fronte a una stampa a «senso unico» e a un ministro dell’Interno sempre troppo frettoloso nel biasimare (gli altri), ecco spuntare i suoi difensori. Come Claudio Palomba, presidente del Sinpref, sindacato dei prefetti italiani, e 30 sindaci calabresi, di destra e sinistra, che di Reppucci hanno un ottimo ricordo per il ruolo svolto a Catanzaro. Del prefetto che per 22 anni, a Latina, ha svolto l’incarico di Capo di Gabinetto e Vicario degli otto prefetti che si sono succeduti, per poi approdare a Napoli, Cosenza e, appunto, Catanzaro, Palomba dice: «Toni sbagliati ed espressioni non condivisibili, ma non si possono cancellare 35 anni di carriera nel corso dei quali ha ricevuto encomi per la sua attività. Sono certo che il suo intento non era quello di creare scandalo». I 30 primi cittadini, dopo aver sottolineato «la costante vicinanza di Reppucci al territorio», hanno prima affermato di essere rimasti senza parole per la sua rimozione e di sperare in un ritiro della decisione, poi aggiunto che per quelle «poche frasi forse non opportune la punizione è giunta a tempo di record sulla spinta di un’indignazione politica sorprendentemente tempestiva, che a volte non si riscontra rispetto a comportamenti più gravi». Chissà se il loro riferimento è proprio ad Alfano, che la rimozione di Reppucci l’ha annunciata alla velocità della luce, totalmente immemore dei suoi ultimi, e gravi, infortuni «comunicativi»: quello sugli applausi che al congresso del sindacato di polizia Sap sono stati indirizzati ai tre poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, quando la «mannaia» del ministro dell’Interno arrivò in men che non si dica ma poi saltò fuori che la televisione di Stato aveva «taroccato» i servizi mandando in onda gli applausi al Capo della polizia e facendo credere che fossero riservati a quei tre poliziotti; o come quello sull’arresto di Giuseppe Bossetti, presunto assassino di Yara Gambirasio, che Alfano, attraverso il suo amato profilo Twitter, ha spacciato per «colpevole» dimenticandosi la presunzione d’innocenza. Mancanza di prudenza e di garantismo, dunque, che invece si ritrovano nelle parole pronunciate da Reppucci. Perché, a parte quella frase obiettivamente inammissibile sulla mamma che dovrebbe suicidarsi, il prefetto ha voluto evidenziare che è sbagliato rappresentare Perugia come «capitale della droga», così come spesso avviene sulla stampa, e che è un errore supporre che la criminalità organizzata si stia infiltrando nel tessuto economico perugino se prima non arriva una sentenza giudiziaria che lo certifichi. E quando il prefetto si è soffermato sulla droga, ha sì usato toni non da convegno e metafore discutibili, ma le altre affermazioni sono davvero così contestabili? «Ritiriamo patenti per alcol e droga – ha sottolineato Reppucci – e quando mandiamo le segnalazioni ai genitori, cominciano a minimizzare dicendo "mio figlio s’è fatto solo uno spinello". Mio padre mi avrebbe tagliato la testa. Spererei che qualche umbro tagli la testa al figlio, così cominciamo a dare il buon esempio». Reppucci si è soffermato su quella che considera «la decadenza della potestà genitoriale», spiegando che «se uno mette al mondo dei figli, poi deve stare attento. Dopo mezzanotte vado sul corso e vedo tutti questi giovani, con le bottiglie in mano, che bevono. Scusate, ma se mio figlio fosse in quelle condizioni, lo prenderei a schiaffi. Perché uno che beve per strada, mezzo ubriaco, io non lo accetto. Parlo da genitore, non come istituzione». Infine il prefetto ha definito «una stronzata» la distinzione fra droghe leggere e pesanti. È lecito il dubbio che forse, a dare fastidio, non è stata solo quella infelice frase sulla mamma?

Parole come sassi per svegliare le famiglie inerti, scrive invece Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. È più cruento rottamare non «qualcosa» ma «qualcuno» o invitare un irresponsabile al suicidio? Non saprei quale delle due nefandezze scegliere. E dico «nefandezze» perché si tratta di parole che è meglio non proferire. Una parte della mia notorietà si deve, tra altri improperi e invettive, a un'affermazione forte, da molti pensata e da pochissimi detta. Di un (...)(...) mio antagonista, e ovviamente in chiave metaforica, dissi: «Lo voglio vedere morto». Si trattava di Federico Zeri. Eccessivo? Forse, ma nella consuetudine, soprattutto quella dei tifosi sportivi. Qualcuno si scandalizza? Certo non si tratta di dichiarazioni istituzionali, ma di sfoghi. Nel caso di specie, però, il confronto che io ho posto all'inizio ha fonti analoghe istituzionali. Un sindaco e un prefetto. Non può che stupire la reazione di Matteo Renzi che chiede «provvedimenti immediati» dichiarandosi «furente» per la dichiarazione in conferenza stampa del prefetto di Perugia Antonio Reppucci, napoletano verace e persona generalmente equilibrata: «Una madre che non si accorge che il figlio si droga ha fallito e deve solo suicidarsi». Non male. Ma non grave dal mio punto di vista, e tanto meno dal punto di vista di chi, da sindaco, ha insistentemente dichiarato di voler «rottamare» i politici, e cioè esseri umani che non sono rifiuti ma semplicemente persone più vecchie di lui, talora anche per provvida esperienza. Con quale coerenza il provetto «rottamatore» si infuria con il povero prefetto di Perugia? Renzi sbaglia e lo segue Alfano, ministro delle interiora, detestabile politico equivocato dal Berlusconi tardo. Infatti, preso atto dell'indignazione di Renzi, Alfano interviene: «Ho sentito le dichiarazioni del prefetto, sono gravi e inaccettabili. Non può restare lì né altrove». Su Twitter, commosso, un Renzi-Pieraccioni ringrazia. A questo sono ridotte le nostre istituzioni. È evidente, infatti, che l'esuberante prefetto non ha fatto nulla di male se non sul piano verbale con enfasi ed iperboli che vanno intese come metafore, esattamente come la «rottamazione» di Renzi. È evidente anche a un cretino, anzi a due, che il povero Reppucci, persona gentile, sensibile ed educata, non desiderasse affatto il suicidio delle madri già sofferenti per il figlio scemo (si dica fuor di metafora), ma intendesse dire che le famiglie devono occuparsi dei figli, essere vigili, in particolare le madri; e che le forze dell'ordine «non possono fare da badanti e tutori alle famiglie». Giusto, giustissimo. Il suicidio significa fallimento di un'educazione da parte dei genitori. Come rottamazione non significa che Renzi volesse la morte di D'Alema o di Veltroni, semplicemente li riteneva superati. Il prefetto Reppucci ha aggiunto: «Se avessi un figlio e lo vedessi per strada con la bottiglia in mano, lo prenderei a schiaffi». Sbagliato? Sbagliato è l'eccesso di tolleranza dei genitori, sempre pronti a perdonare. Il prefetto di Perugia non ha fatto niente di male. Renzi e Alfano hanno abusato del loro potere. Naturalmente non poteva mancare il procuratore antimafia che si dissocia: «Le famiglie non devono sentirsi isolate ma supportate e coinvolte». Ma il prefetto intendeva semplicemente che non devono coprirsi gli occhi ed essere incoscienti. Bravo prefetto! Non bisogna avere paura delle parole ma degli stupidi.

Riceviamo e pubblichiamo la lettera aperta di uno studente fuorisede a Perugia che si schiera dalla parte del prefetto nel caso che ha portato alla decisione del ministro Alfano di procedere alla sua rimozione, scrive “Umbria 24”. La polemica scaturita dalle parole del Prefetto Reppucci porta ad una sola parola : Ipocrisia. E’ sconfortante per un giovane che vive proprio a Perugia, vedersi portare via chi aveva finalmente avviato un processo di bonifica e riuscito finalmente a coordinare forze di polizia, istituzioni locali e società civile. Se la gente ha iniziato a denunciare è perché aveva trovato finalmente un interlocutore serio e popolare, che scende tra la gente ed era ben felice di farlo. Il comportamento di Reppucci è stato piuttosto quello del “buon padre di famiglia” che difende una “creatura” affidatale in un momento difficile. Ha chiamato a raccolta tutti gli operatori del settore ed ha esposto la vera situazione di Perugia. All’assioma “Perugia capitale della droga” non ci sta. Sembrerebbe che i giornalisti godano della decadenza del loro territorio. La cronaca ha dimostrato che i titoli ad effetto attirano altri giornalisti in cerca dell’onda da cavalcare e se non la trovano sono pronti a crearsela. Sono cresciuto in una famiglia dove i figli ancora oggi non pronunciano una “parolaccia” di fronte al genitore né tantomeno se lo sognano di farlo i nipoti, e dove mia mamma mi ha sempre ripetuto di stare alla larga dalle “cattive compagnie” altrimenti…mi taglia la testa! Il rispetto maturato nei suoi confronti fa si che non accada perché altrimenti gli darei un dispiacere e si sentirebbe affranta, “fallita”. E’ questo in fondo il succo del discorso del Prefetto Reppucci. Mi chiedo se non l’avete capito veramente o fate soltanto finta di non capire. Per togliermi ogni dubbio vorrei provare a fare una traduzione, per chi ne avesse bisogno, del discorso incriminato senza tagli o montaggi ad hoc. “Molte volte, soprattutto il lunedì faccio il resoconto delle patenti che si ritirano per alcol e droga e, certo, il problema esiste; poi magari arrivano le segnalazioni: -“eh ma mio figlio che ha fatto? Si è fatto uno spinello!” – si tende dunque a minimizzare. Mio padre mi avrebbe tagliato la testa, spererei che qualche umbro tagli la testa al figlio così iniziamo a dare il buon esempio, perché poi fa parte anche di questa decadenza della potestà genitoriale, questo lo dobbiamo dire”. Nel meridione è di uso comune l’espressione “ti taglio la testa” di certo non usata in senso letterale ma per indicare di mettersi in guardia; è presente anche in un antico indovinello siciliano: “Ci tagghiu a testa, ci tagghiu a cura e viu nesciri na bedda signura. Chi cos’è?” Le taglio la testa, le taglio la coda e vien fuori una bella signora. Cos’è? La soluzione è il fico d’india. La potestà genitoriale è la potestà attribuita ai genitori di proteggere, educare ed istruire il figlio minorenne e curarne gli interessi. Così come stabilita dall’art. 155 c.c. «Provvedimenti riguardo ai figli», comprende diritti sia di natura personale sia di tipo patrimoniale tra cui quello di “educare, secondo la diligenza del buon padre di famiglia, ai costumi del luogo dettati dall’esperienza comune”. Un genitore ha dunque il diritto/dovere di “mettere in guardia” il proprio figlio da un pericolo certo ed attuale quale la droga. Minimizzare il problema e difendere il figlio non e’ certo la soluzione. In presenza di tanti figli viziati e padri accomodanti ai loro capricci l’unica soluzione è scuotere fortemente le loro coscienze; ricordare ai figli di onorare il padre e la madre, rispettarli. Gli è stato poi contestato di aver scaricato tutta la responsabilità sulle famiglie ma invece queste sono le sue testuali parole: “Chiamiamo a raccolta: siamo in guerra contro chi spaccia e questa guerra la combatteremo con grande energia. Questo vale per noi delle forze di polizia e della magistratura, però lavoriamo anche sul piano sociale: genitori, scuola, famiglia, volontariato, parrocchie, ecco lavoriamo tutti nella stessa direzione”. Il Prefetto continua cercando di far capire che non esistono differenziazioni tra le droghe, come tra l’altro ha affermato solo il giorno dopo anche Papa Francesco in udienza, nella sala Clementina del Palazzo Apostolico ai partecipanti alla 31esima edizione dell’International Drug Enforcement Conference dichiarando: “No ad ogni tipo di droga. Semplicemente, no ad ogni tipo di droga”- “Vorrei dire con molta chiarezza: la droga non si vince con la droga! La droga è un male, e con il male non ci possono essere cedimenti o compromessi”. Il giorno prima Reppucci diceva: “La droga fa male! Al di là di queste ultime trovate di differenziazione tra droghe leggere e pesanti che secondo me hanno portato ad un altro tipo di disorientamento perché magari nel giovane si crea il convincimento che la droga leggera è una “stronzata”, consentitemi il termine. Ma sempre droga è! Se andate a leggere i trattati qualche conseguenza la portano a livello celebrale anche le droghe leggere. Quindi bisogna stare attenti. Bisogna che le mamme, dico le mamme perché forse hanno più tempo ed hanno quel sesto senso per capire i disturbi dei figli, guardino a fondo negli occhi, vedere se c’è qualcosa che non funziona, anche perché le forze di polizia e la magistratura, scusate, non possono fare da badante e tutore perché la famiglia arretra. Il cancro è lì, sta nelle famiglie perché se una mamma non si accorge che il figlio si droga è una mamma fallita, ha fallito, si deve solo suicidare, scusate”. E’ inutile girarci intorno, inizia tutto dalla famiglia. Un ragazzo ci passa in media 17/18 ore al giorno. E’ un obbligo delle famiglie proteggere i propri figli. Se tuo figlio adolescente ti chiede soldi oltre a quelli della merenda ma non ritorna con un mazzo di fiori ogni giorno devi chiedertelo cosa ci fa con quei soldi! I ritmi di una famiglia attualmente sono sì diversi ma il Prefetto si appella a quel sesto senso che ogni mamma ha a prescindere dai suoi ritmi. Attualmente un ragazzo si droga per “provare” nuove sensazioni, a volte spinto anche da quell’aggettivo “leggera” che troppo spesso è usato come pretesto per giustificarsi ma che serve solo a disorientarsi; oppure lo fa perché si sente “solo”, travolto da quei ritmi incessanti che la società ci porta ad assumere, con genitori assenti e presi dal lavoro o dal non lavoro purtroppo. Franco Simone anni fa in una canzone diceva: “Cara droga approfitti di un istante in cui non reggo la mia solitudine e riempi la mia mente di quei vuoti che riesci a vendermi”. Spero riusciate a capire che da questo punto di vista le parole del Prefetto devono essere giustificate. Auspico in un ripensamento del Ministro Alfano e del Presidente del consiglio Renzi, che forse sull’onda emotiva hanno dimenticato ciò che di buono ha fatto fino ad’ora il Dott. Reppucci.

Già. E’ sol ipocrisia. Il problema rimane tale ed è grave. Di Perugia a torto od a ragione si è parlato, con un insolito accanimento.

In qualunque altra regione o provincia del Nord o del Sud  i morti scendono anno dopo anno. A Perugia il tasso di mortalità è di 4,1 ogni 100 mila abitanti, contro lo 0,9 della media nazionale. Nel 2011 i morti sono stati ventisei, nel 2010 ventiquattro. Nei primi cinque mesi del 2012 sono già arrivati a dodici. Lunedì 4 giugno, il tredicesimo. Un tunisino ritrovato in un anfratto sotto la collina, la sua casa.

L'altra Perugia ostaggio della droga. La Scampia umbra nelle mani dei tunisini, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Cocaina. Eroina. Ketamina. Exstasy. Anfetamina. Marijuana. Hashish. Popper. Mentre nel resto d'Italia le morti collegate al consumo di sostanze stupefacenti diminuiscono, nella cittadina medioevale aumentano. Sullo storico Corso Vannuci alle cioccolaterie si sostituiscono i kebab. E in Piazza IV novembre tutte le sere si assiste alle risse tra tunisini, albanesi e nigeriani che si contendono il territorio. Ci sono giorni che la danno anche gratis. E in altri la piazzano a dieci, quindici euro a bustina. Lo fanno per conquistare nuovi clienti e non perdere i vecchi, invogliati da una concorrenza spietata. Offerte promozionali nel più esagerato supermarket degli stupefacenti. Una volta Perugia era una città tranquilla, oggi si muore di droga cinque volte di più che in ogni altro luogo d'Italia. La fiera dello spaccio è qui, qui nella Perugia della vendita porta a porta, il giro di giostra costa poco, si compra tutto alla luce del sole, ce n'è per tutti i gusti. Cocaina. Eroina. Ketamina. Exstasy. Anfetamina. Marijuana. Hashish. Popper. Stimolanti. Allucinogeni. Antidepressivi. Da iniettare, da sniffare, da fumare. Naturali o sintetiche le droghe hanno fatto diventare questa città l'ultimo cimitero del buco, l'ultima frontiera dell'overdose. In qualunque altra regione o provincia del Nord e del Sud i morti scendono anno dopo anno e qui invece salgono. Nel 2011 sono stati ventisei, nel 2010 ventiquattro. A Milano 13. A Napoli 29. A Bologna 7. A Bari 1. Un tasso di mortalità di 4,1 ogni 100 mila abitanti contro lo 0,9 della media nazionale. E aumentano, aumentano sempre. Nei primi cinque mesi del 2012 sono già arrivati a dodici. Lunedì 4 giugno, il tredicesimo. Un tunisino ritrovato in un anfratto sotto la collina, la sua casa. È un massacro senza fine in questa Perugia fino a qualche tempo fa fuori rotta dalle grandi piste del crimine, silenziosa e ordinata, scelta come capitale delle droghe per la sua lontananza dal clamore e per quei suoi trentamila studenti acquartierati intorno alle università, un richiamo irresistibile, la piazza ideale per vendere tutto quello che si può vendere a prezzi stracciati. Tunisini. Albanesi. Nigeriani. E dietro di loro napoletani e calabresi. Tutti insieme l'hanno conquistata e devastata. Chi sta avvelenando Perugia? Venite a scoprire con noi come è cambiato il volto di Perugia da quando qualcuno ha deciso che doveva diventare una sorta di Scampia in mezzo a tesori medievali e rinascimentali, palazzi sontuosi, oratori e monasteri, rocche, vicoli che si arrampicano e che precipitano, gioielli di scultura, pozzi etruschi, fontane. Al posto delle antiche ed eleganti cioccolatterie sul corso Vannucci ci sono i kebab, paninerie e paninoteche, vetrine piene di cianfrusaglie, baretti che vendono sbobba alcolica a pochi centesimi, fumi di agnello arrosto e puzzo di piscio, vedette, spacciatori sulle scalinate del Duomo, le bustine infilate nelle fessure fra pietra e pietra delle case nobiliari, tre puscher di qua e sei pusher di là, uno squillo di cellullare, scambi veloci, qualche euro che passa di mano. "Li vediamo dappertutto, smerciano droga davanti a tutti e a qualunque ora", racconta Maria Luisa De Marco de "L'Altra Libreria", una sorella morta l'anno scorso per overdose e la sua bella bottega al centro di quello che lei chiama il "triangolo delle Bermude", via Ulisse Rocchi, piazza Danti, via delle Cantine, un crocevia dove i soliti dieci o venti spacciatori attirano i clienti per far scivolare una bustina nelle loro tasche. Fino a una trentina di anni fa, nel centro storico, abitavano più di 30 mila perugini. Ora ce ne sono meno di 6 mila. Negli scantinati, nei bassi, nei sottoscala  -  tutti affittati a peso d'oro e spesso in nero  -  vivono gli studenti e anche loro, i venditori porta a porta. Prima in questa Perugia passeggiavano le mamme con le carrozzine, ora s'inseguono i tossici e si accendono furibonde risse fra bande rivali. E' un'altra città. Se la sono presa quelli. E' sotto assedio. Quando fa buio, c'è il coprifuoco. "L'altra sera ho visto un gruppo di tunisini che menavano colpi di bastone contro alcune automobili, dopo un po' i poliziotti hanno dirottato il traffico e chiuso le strade, corso Vannucci era loro territorio fino al giorno del fattaccio", ricorda Walter Cardinali, proprietario dell'hotel "Decò" e uno degli animatori dell'associazione "Pro Ponte". Il "fattaccio" è avvenuto l'8 maggio. Nel salotto di Perugia, colpi di pistola e coltellate fra tunisini e albanesi. Una partita di droga non pagata. Dal giorno dopo la città è stata "militarizzata". Gipponi di polizia, carabinieri e finanza da una parte in piazza Italia e dall'altra in piazza IV Novembre, controlli, posti di blocco, fermi, retate. Gli spacciatori sono stati cacciati finalmente dal corso principale. Si sono spostati a qualche decina di metri. In via della Viola. In via del Dado. In via della Gabbia. In vicolo Volta della Pace. In via della Brocca. In via della Cupa. E giù al Campaccio. Continuano lì a vendere la loro roba. Ma come è stata possibile questa spaventosa invasione di pusher, in una città calma e pacifica come Perugia?

I traffici fanno paura ai cittadini, già si intravede l'ombra della mafia, continua Bolzoni. Perugia ha paura di quello che sta succedendo. Il sindaco Wladimiro Boccali chiede allo Stato di "riappropriarsi del territorio". E annuncia delle iniziative per "blindare il centro storico", come l'apertura di una nuova caserma. E nella guerra tra spacciatori e città, c'è chi sospetta che si stia inserendo anche la criminalità organizzata. Ma la partita è tutta da giocare. I pizzini di Lampedusa. Nell'ultimo anello della catena sono quasi tutti tunisini, gli spacciatori di strada. Ragazzi, approdati con i barconi. A molti di loro la polizia di frontiera ha sequestrato bigliettini con il nome di un bar di Perugia. Sapevano già dove andare prima di sbarcare in Europa. Tutti con una meta: corso Vannucci. Li aspettavano altri connazionali. Questi giovanissimi magrebini provengono quasi tutti da uno stesso quartiere di Tunisi  -  quello di Hammamet, dicono loro  -  e la leggenda metropolitana racconta che con lo spaccio di eroina e cocaina riescano a guadagnare anche 30 mila euro al mese. Fesserie. Sono tutti morti di fame, si trascinano, molti di loro sono "sfasciati", vendono la droga per racimolare qualche soldo e poi "farsela". Sopra di loro c'è un clan di albanesi. Piccoli grossisti. E poi anche corrieri nigeriani che vanno e vengono da Napoli, da Roma, forse dalla Calabria. E' un traffico ben regolato. Poca droga alla volta, un flusso continuo. Non ci sono grandi magazzini di stupefacenti a Perugia, non si stoccano grandi quantità in zona, l'ero o la coca arrivano in piccole quantità ma sempre. Chi la vende a Perugia non sa da chi la compra e da dove viene. Il sospetto è che camorra e 'ndrangheta riforniscano i gruppi criminali minori. Le mafie, Perugia l'hanno sub-appaltata. Il lavoro sporco è per loro, per chi è abituato ad entrare ed uscire di galera. I tunisini sono carne da macello per i boss. Per molto tempo tutti hanno finta di niente. Forze di polizia. Magistratura. Amministratori. Commercianti. Poi si sono ritrovati quella valanga di morti per overdose e le vie della loro città in mano agli spacciatori. E si sono messi paura. Soltanto negli ultimi dodici mesi, la polizia ha arrestato 221 persone per reati legati agli stupefacenti. E' da poco che è cominciata davvero la guerra contro lo spaccio. Un nuovo questore nel 2011, un'attività investigativa più intensa, summit, comitati per l'ordine pubblico e la sicurezza, viaggi della speranza al Viminale. Ma perché è passato tutto questo tempo? Perché hanno lasciato Perugia nella morsa dello spaccio per tanti anni? Gli interessi inconfessabili. Meglio tardi che mai, vero sindaco? "Ho chiesto un intervento molto forte e visibile, i cittadini hanno paura, lo Stato deve riappropriarsi di questo territorio", risponde Wladimiro Boccali, primo cittadino di Perugia che qualche giorno fa ha parlato di "un pezzo del centro storico rimasto fuori controllo delle istituzioni per alcune decine di minuti" e ha annunciato che, d'ora in poi, il Comune si costituirà parte civile contro gli spacciatori. L'altra settimana prima ha scritto e poi incontrato il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri, c'erano anche il capo della Polizia Antonio Manganelli e il comandante generale dell'Arma dei carabinieri Leonardo Gallitelli. A Perugia si riaprirà una piccola caserma nel centro storico, invieranno reparti mobili per la prevenzione. Basterà? "Perugia non è Napoli, la città ormai ha consapevolezza del fenomeno e tutto è recuperabile, siamo già tornati nella metà campo degli avversari", dice ancora Boccali alludendo ai gipponi che  -  dopo il "fattaccio"  -  presidiano Piazza Italia e piazza Danti come i blindati davanti all'aula bunker di Palermo negli anni del maxi processo. Ma le risulta che molti suoi concittadini si arricchiscono con gli spacciatori, affittando le cantine nel centro storico? "Ho già firmato una delibera che blocca l'uso dei pian terreni", spiega il sindaco che di colpe, in verità, non ne ha se non quella di avere aspettato un po' troppo prima di alzare la voce. Si è barcamenato, ha preso tempo. Ci volevano quelle pistolettate e quelle coltellate dell'altra notte per risvegliare tutti. Qualche bar ha assoldato i "buttafuori" per impedire l'ingresso a brutti ceffi, un paio di pub hanno la chiusura forzata a mezzanotte. A quell'ora i tunisini sono in piena azione. Sempre gli stessi e sempre diversi. Se ne andranno mai dalla "loro" Perugia? Mafiosizzata o capitale del buco. In città ci sono due partiti. Quello che sostiene che la mafia non c'è e quell'altro che garantisce che ha già allungato le mani lì dal terremoto di 15 anni fa. I primi negano anche sotto tortura la "mafiosizzazione" di Perugia, gli altri spiegano che i Casalesi e i boss della 'Ndrangheta si sono già "sistemati" in Umbria. Già confiscati beni mafiosi, già scoperti prestanome. Un terzo punto di vista  -  a metà strada  -  lo fornisce Fausto Cardella, il procuratore capo di Terni che dopo il 1992 ha indagato sulle stragi siciliane: "E' normale che ci siano tentativi di inserimento in una regione come questa, ma ancora non risulta una penetrazione vera e propria, solo episodi. Sul fenomeno dello spaccio non servono interventi speciali ma è necessaria un'attività costante, quotidiana". Quella che  -  di sicuro  -  è mancata. Sono solo spacciatori o sono avanguardie dei clan? Marcello Catanelli, della Direzione regionale di Sanità, il capo di una piccola task force che segue le vittime delle tossicodipendenze, è certo che ci sia dell'altro: "Questi morti sono solo la punta dell'iceberg, l'aspetto più clamoroso di un meccanismo di infiltrazione capillare. Qui c'è un'offerta qualificata di stupefacenti, c'è un marketing, una strategia sofisticata, nulla è casuale di ciò che sta accadendo in questi anni a Perugia". Il primo allarme era stato lanciato da una esperta del suo staff, Angela Bravi. E' dal 2007 che lei denuncia tutto. L'hanno lasciata sola con i suoi tossici. La città si è voltata dall'altra parte. Come finirà questa guerra con gli spacciatori e resisterà il primato dei morti per droga di Perugia? I giornali locali quasi ogni mattina dedicano il grande titolo di prima pagina a un sequestro o a un arresto. Una cronista, Vanna Ugolini, ha scritto anche un bel libro  -  Nel nome della cocaina, la droga di Perugia raccontata dagli spacciatori  -  che svela i retroscena di tante vite in ostaggio. Come quelle di via del Silenzio. Un vicolo ripido, un muro, una scritta: "Via tutti i tunisini di merda". Quelli che incontra ogni giorno e ogni notte anche il professore Maurizio Tittarelli, insegnante d'inglese che abita proprio qui. L'altra sera ha visto due pusher, avevano appena adocchiato un cliente. Poi hanno infilato la bustina in un grande vaso pieno di terra che il professore ha nel suo giardino. Tittarelli ha chiamato la polizia: "Mettono sempre la droga nella terra del mio vaso, cosa devo fare?". Gli hanno risposto: "Al posto della terra, il vaso lo riempia con il cemento, così la droga non ce la metteranno più".

«Sto come uno che sta andando al patibolo, sono diventato una larva umana, mi sono chiuso nella stanza da letto, pensavo a me stesso e a rendere conto al Padreterno». Lo ha detto Antonio Reppucci durante la trasmissione «La Zanzara» di Radio 24, scrive “Il Corriere della sera”. L’ormai ex prefetto di Perugia ha anche ammesso di aver pensato al suicidio dopo essere finto alla gogna pubblica. Curioso, visto che proprio una frase sul suicidio gli è costata il posto: Reppucci è stato rimosso dal ministro dell’Interno Angelino Alfano dopo aver detto durante una conferenza stampa che «una mamma che non si accorge che suo figlio è drogato è una fallita e si deve solo suicidare». Ad avere spinto l’ex prefetto a pensare a una soluzione così drastica sarebbe stata la stampa. «I giornalisti mi hanno messo in queste condizioni - ha spiegato Reppucci - Si può fare giornalismo estrapolando una frase da un discorso di oltre un’ora? La penna fa più male di una fucilata, mi hanno dipinto come un mostro, nei miei confronti c’è stata macelleria e killeraggio». A proposito della sua rimozione decisa da Alfano (e caldeggiata pubblicamente anche dal premier Renzi), Reppucci commenta:«Sono abituato ad accettare sempre le decisioni dei miei superiori. Capisco e comprendo. Obbedisco, un servitore dello Stato deve obbedire». Ma l’amarezza c’è: «Mia moglie mi ha detto - continua - “hai dato tutto allo Stato e adesso lo Stato ti prende a calci”. Ho sacrificato la mia famiglia, ho fatto il capo di gabinetto di tanti prefetti. Non ho mai cenato o mangiato con i miei figli. Tanti sacrifici e adesso… Vengo da una povera famiglia di contadini, fino a 25 anni zappavo la terra. Non ho mai avuto una raccomandazione, non ho mai chiesto favori..». Alla fine dell’intervento Reppucci tenta comunque, ancora una volta (dopo aver detto che «“suicìdati” è un intercalare napoletano»), una autodifesa: «Ho la coscienza tranquilla di fronte al Padreterno perché volevo lanciare un messaggio di risveglio, un inno alla vita invece che al suicidio: mamme state attenti ai figli, questo volevo dire». Lo stesso concetto, l’ex prefetto l’ha espresso anche nella lunga lettera aperta con cui stamane si è congedato dalla comunità umbra. «A chi si è ritenuto colpito dall’asprezza delle mie parole chiedo scusa per una frase infelice inserita in un intervento articolato - scrive Reppucci - Evidentemente, trasportato passionalmente, nella foga oratoria, ho troppo forzato il mio intervento (con una frase non immediatamente censurata, che altrimenti avrei meglio precisato) che voleva essere un “Inno alla vita”». «Non intendevo minimamente, criminalizzare od offendere ma svegliare, spronare, sensibilizzare - precisa - sgombrando il campo da ogni ipocrisia». Ma Reppucci ha ancora qualcosa da dire: «Comprendo di aver generato qualche equivoco e fraintendimento con tutte le conseguenze derivate - ammette - ma mi sia reso per lo meno “l’onore delle armi” circa la bontà del messaggio al di là delle espressioni utilizzate, perché non inviterei mai ad atti di autolesionismo chicchessia», scrive ancora nella lettera.

“Aspetto disposizioni da parte del ministro, andrò dove devo andare. Da buon servitore accetto e ubbidisco. In questi giorni ho pensato pure al suicidio. Così mi avrete sulla coscienza e potrei vedere dal cielo cosa scriveranno”. Queste le frasi choc pronunciate dall’ormai ex prefetto di Perugia Antonio Reppucci alla Zanzara su Radio 24, scrive “Libero Quotidiano”. Nei giorni scorsi Reppucci era stato rimosso dalla carica di prefetto dopo alcune frasi pronunciate sulle madri di persone tossicodipendenti. Davvero ha pensato al suicidio, chiedono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo?: “Certo. I giornalisti mi hanno messo in queste condizioni. Nessuno che abbia il coraggio di andare a vedere chi è questa persona. Non so, un mostro, uno che ha sbagliato ripetutamente, uno che ha rubato, uno che ha ammazzato qualcuno… Si può fare giornalismo in questo modo?”. Reppucci a La Zanzara se la prende con la stampa: “Si può fare giornalismo estrapolando una frase da un discorso di oltre un’ora? La penna fa più male di una fucilata, mi hanno dipinto come un mostro. Non ho mai fatto male a nessuno, nessuno ha guardato al mio curriculum, a quello che ho fatto nella vita”. Come si sente adesso? “Sto come uno che sta andando al patibolo, sono diventato una larva umana”. “Mi sono chiuso nella stanza da letto – dice Reppucci a Radio 24- non reggevo. Pensavo a me stesso e a rendere conto al Padreterno. Se non c’è giustizia ma solo ricerca dello scoop, se il prefetto di Perugia è diventato il caso Italia con tutti i problemi che ci sono. Posso avere avuto una caduta di stile, chiedo scusa se ho offeso qualcuno. Chiedo scusa a quelli che non hanno capito il mio messaggio”. Considera eccessiva la decisione di Alfano? “Sono abituato ad accettare sempre le decisioni dei miei superiori. Capisco e comprendo. Obbedisco, un servitore dello Stato deve obbedire. Ma ho la coscienza tranquilla di fronte al Padreterno perché volevo lanciare un messaggio di risveglio, un inno alla vita invece che al suicidio: mamme state attenti ai figli, questo volevo dire”. “Sono amareggiato e meravigliato con i giornalisti – prosegue Reppucci - nei miei confronti c’è stata macelleria e killeraggio. Volevo dire suicidatevi alle madri secondo voi? Volevo dire tutto il contrario”. “Renzi? Chissà come gli è stata rappresentata questa storia – prosegue Reppucci - chi ha visto integralmente il mio intervento sa che volevo difendere Perugia, l’onorabilità della città che è rappresentata come capitale della droga e non è vero. E poi dire: care mamme se c’è tanto spaccio e consumo stiamo attenti guardiamo i nostri figli in fondo agli occhi, un discorso di carattere sociologico”. Una madre si può sentire offesa, fanno notare i conduttori? “Sì, si può sentire offesa. Ma volevo dire: preveniamo, evitiamo che i ragazzi si droghino. Anche io sono genitore e poteva capitare questa calamità e non accorgermene. Ma era in termini di risveglio, spronavo a stare vicini ai nostri figli”. E il linguaggio, il termine suicidio? “A Napoli diciamo "accirit" quando è un fallimento, un intercalare. Questo è stato il mio errore e poi diciamo tagliare la testa come uno scappellotto educativo, lo schiaffo educativo, un ceffone benevolo”.

Puniscono le parole, tollerano gli incapaci. La rimozione lampo del prefetto di Perugia per l'infelice frase sulla mamma del drogato conferma che il governo del dire schiaccia il governo del fare, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. La demagogia di piazza è deplorevole ma la demagogia istituzionale è disgustosa. La rimozione lampo, come mai accade, del prefetto di Perugia per l'infelice frase sulla mamma del drogato conferma una cosa: che il governo del dire schiaccia il governo del fare. Ci sono centinaia, forse migliaia di funzionari che non funzionano, di dirigenti corrotti, incapaci, inefficienti, e ci sono migliaia di episodi di disservizi, malgestioni, danni commessi dalla pubblica amministrazione che restano impuniti o solo deplorati. Poi un prefetto, in un discorso condivisibile e sensato, dice una frase sconveniente e scorretta che rimbalza con enfasi nei media. Viene tempestivamente rimosso e massacrato seduta stante. Il dire conta più del fare, una battuta vale più di una carriera. Giustizia e buon senso consigliano di rispondere al dire col dire e al fare, anzi al non fare o al malaffare, col fare e col disfare. In questo caso sarebbe bastata una lettera di censura per le parole avventate. No, l'ipocrisia di Stato unita alla demagogia di governo comanda la ferocia di una pubblica esecuzione, sul posto. E si caccia il prefetto. Non ho pregiudiziali né antipatia verso il premier e nemmeno verso il ministro dell'Interno ma in questa vicenda vedo rappresentata tutta la fumosa inconsistenza del loro stare al governo: compiacere le fabbriche dell'opinione pubblica, governare a colpi di titoli di giornali e di tg. L'importante è l'apparenza. C'è meno senso dello Stato e della realtà nel loro gesto che in quelle incaute parole.

POVERA PERUGIA......

Criminalità o bugie? È polemica sulla Perugia descritta da Panorama.it. Il sindaco Wladimiro Boccali attacca, ma non riesce a smentire i dati. E critica chi fa cronaca nera, scrive Riccardo Paradisi “Panorama”. Wladimiro Boccali, sindaco di Perugia, non ha gradito l’inchiesta di Panorama.it sul degrado della città (Perugia, una città che assomiglia tanto a Gotham City ). Ha parlato di “giornalismo non libero”, di “meschinità” e ha rispolverato la teoria di una campagna mediatica contro la città. Si guarda bene, il sindaco, dal contestare il merito dell’articolo e di smentire fatti, notizie, riferimenti e dati: il record del consumo di eroina, l’alto numero di morti per overdose, l’aumento degli episodi criminali, la retrocessione al 78° posto nella classifica della sicurezza tra le città italiane, il crollo del valore degli immobili in quartieri un tempo residenziali della città e oggi vittime del degrado. Meglio ricorrere all’invettiva, parlare di stampa “sguaiata” e “non libera”. Come se esistesse un cartello mediatico cospirativo e trasversale contro la città che va da Panorama a Repubblica (due anni fa il quotidiano pubblicò un severo reportage da Perugia), dal Corriere della sera a emittenti televisive come la Rai e La7. Eppure non è difficile capire che Perugia sia ormai un caso paradigmatico del declino della provincia italiana: per le dimensioni del suo degrado e per la velocità con cui la città ha cambiato volto, in una manciata d’anni. E certo non giova a Perugia la rimozione del problema, l’esorcismo facile dell’insicurezza “percepita” e indotta dai media. Ci sono dichiarazioni di Boccali che lasciano interdetti: “Se in questi anni avessimo lasciato un po’ meno andar via notizie di questo tipo” dice il sindaco riferendosi evidentemente ai fatti di nera di cui la stampa locale ogni giorno dà fedele testimonianza “sarebbe stato meglio”. Che cosa significa “lasciare andare via notizie”? Forse che la cronaca nera non deve comparire sui giornali? Che il lato oscuro della città non va raccontato? È questo il giornalismo libero che ha in mente Boccali? Ma non tutte le istituzioni hanno reagito alla maniera del sindaco all’articolo di Panorama.it. Il presidente della provincia di Perugia Marco Vinicio Guasticchi, anch’egli del Pd, pur lamentando una concentrazione di inchieste giornalistiche sulla città s’è domandato il perché di tutto questo interesse: “Non basta” ha detto Guasticchi “la candidatura a capitale europea della cultura. Bisogna lavorare sul rispetto delle regole, che vuol per esempio dire organizzare delle task force che controllino per esempio gli abusi abitativi”. Scovare e smascherare, insomma, quell’area grigia di connivenza che a Perugia fornisce di fatto copertura e riparo alla delinquenza e indigna la gran parte della popolazione locale che dà vita a decine di iniziative nei quartieri per riqualificare la città. È la reazione che ci si aspetta da una classe dirigente che non nega la realtà né ricorre a degli eufemismi per ridurre la gravità della situazione. A proposito, nella sua polemica il sindaco si è appellato anche al prefetto per una presa di posizione che contestasse i fatti riportati dall’articolo. Ma è difficile smentire ciò che non è smentibile. Tanto che il prefetto, Antonio Reppucci, dopo aver parlato di “esagerazioni”, di “descrizioni lontane dalla realtà” dopo aver rivendicato un moltiplicato impegno delle forze di polizia (che Panorama.it non ha mai negato) deve ammettere che “i crimini sono in aumento” e che “sono aumentati i reati contro il patrimonio”. È un dato di fatto: accanto alle consueta attività di spaccio, in città, ormai purtroppo non fanno sentire la loro mancanza nemmeno le risse tra bande, come quella tra tunisini e rumeni che si sono fronteggiati con mazze da baseball il 13 febbraio in un ristorante di via Gallenga, descritta dal Corriere dell’Umbria come una scena da far west. Il prefetto sostiene che «a Perugia non c'è una sola via dove bisogna veramente aver paura di passare». Eppure molte testimonianze sostengono il contrario ed esprimono proprio la paura a muoversi per le vie del centro la sera e in alcuni quartieri della città. Una paura espressa alla presenza dello stesso prefetto da alcune studentesse che hanno dichiarato, in un dibattito su informazione e legalità tenuto alla provincia di Perugia pochi giorni addietro, di “avere difficoltà a muoversi da sole nella città per paura di essere aggredite o derubate”, come virgoletta Il Giornale dell’Umbria di domenica 16 febbraio. Così come arrivano delle conferme allo stato di insicurezza da parte di imprenditori e cittadini, che giustamente non identificano un’inchiesta giornalistica con un attacco a Perugia, ma al contrario come un’occasione di riflessione e di reazione a un degrado che sfregia e umilia una città con antiche e nobili tradizioni. E con le potenzialità che Panorama non ha mai taciuto.

Perugia, una città che assomiglia tanto a Gotham city. Droga, violenza, criminalità diffusa: così la città umbra si è trasformata in una delle più pericolose città d'Italia, scrive Riccardo Paradisi su “Panorama”. Le urla, i colpi, il rumore d’una bottiglia che si spezza. Un’anziana signora s’affaccia dalla finestra della palazzina che dà sul vicolo: a terra c’è un uomo con la testa rotta, riverso sul suo sangue che si allarga sul selciato. Sono le 2 del mattino d’un venerdì d’ordinaria violenza a Perugia. La scena del pestaggio tra spacciatori è via della Spina, una via semicentrale che taglia corso Garibaldi, a due passi dall’università. Ma potrebbe essere una qualunque strada della città. Perché Perugia è una città violenta, una delle più pericolose d’Italia secondo i dati del ministero degli Interni: criminalità, droga e degrado le hanno strappato la serenità di cui aveva goduto fino a una quindicina d’anni fa. Quando uno come Maurizio Marchei, calciatore del Perugia nei primi Settanta e oggi tabaccaio noto in città, pensava che solo al telegiornale o nei film potesse accadere quello che invece è capitato a lui la sera dello scorso 21 gennaio: due maghrebini entrano nel suo negozio all’ora della chiusura, gli fanno aprire la cassa con la minaccia d’un coltello e poi, dopo averlo rapinato, lo picchiano con crudeltà, lasciandolo a terra sanguinante. Una metamorfosi così repentina e profonda, quella di Perugia, da essere quasi un caso da manuale, senza confronti in altre città italiane. Il sociologo americano Robert Putnam, negli anni Novanta, aveva addirittura presentato il capoluogo umbro tra le città-modello di buon governo municipale nel suo Making democracy work: civic traditions in modern Italy; la città ideale dove vivere e studiare. Quel modello e quella città oggi non esistono più. Certo, l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, avvenuto nel 2007 e il cui processo d’appello si è appena chiuso il 30 gennaio 2014 con pesanti condanne per i due presunti assassini, è il crinale simbolico tra la Perugia d’una volta e quella di oggi. Ma il declino della città parte da più lontano. Inizia a metà degli anni Novanta, quando il degrado iniziato dalle periferie con l’insediamento delle avanguardie di cartelli criminali stranieri s’è arrampicato fino al centro storico. Un centro oggi deserto, spettrale: pochi gli studenti a spasso; corso Vannucci desolatamente vuoto; le saracinesche di negozi e caffè storici come la pasticceria Sandri e il Caffè Medioevo (un tempo polmoni sociali e culturali della città) abbassate; vicoli come via dei Priori o via delle Cantine presidiati dalle sentinelle dello spaccio; le volte etrusche e le mura medievali a fare da muti spettatori a un pullulare di kebabbari là dove prima c’erano negozi artigiani e alimentari. Da città degli studenti, in una manciata d’anni Perugia s’è trasformata in un crocevia per la criminalità internazionale che qui ha radicato bande organizzate che si contendono l’egemonia del territorio. Una guerra della droga in piena regola, cui partecipano le gang sudamericane ecuadoregne e dominicane, ma che vede soprattutto contrapporsi le mafie nigeriane e albanesi (le prime controllano il traffico di cocaina, le seconde quello dell’eroina) che organizzano lo spaccio e la manodopera di piazza, prevalentemente composta da tunisini. I quali hanno suddiviso e ribattezzato il territorio di Perugia con i nomi dei quartieri di Tunisi da cui provengono. Perugia ha il record nazionale di morti per droga: 36 ogni anno. I decessi per overdose sono pari a un terzo del totale italiano; il tasso di utenza ai Sert, i servizi contro le tossicodipendenze, è più alto della media nazionale. Una farmacia del centro, per dire, ha venduto l’anno scorso 25 mila siringhe; il sistema sanitario ha certificato 850 buchi al giorno in città. Perugia è anche la capitale italiana del consumo di eroina, in base alle certificazioni dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano e del dipartimento per le politiche antidroga della presidenza del Consiglio. Ma è la stessa commissione tossicodipendenze del consiglio regionale a parlare di «consumo di droga generalizzato» e di «squilibrio militare nel controllo del territorio». È una situazione fuori controllo, che ha ricadute pesanti sull’economia della città. Un esempio per tutti: la crisi immobiliare ha colpito Perugia come ogni altra città italiana, qui si registra una flessione media del valore degli immobili del 10 per cento, in linea con la media nazionale. Ma ci sono quartieri un tempo residenziali e signorili, come Fontivegge e la Pallotta, che hanno visto crollare di oltre il 30 per cento (dati elaborati dalla Fimaa, l’associazione degli agenti immobiliari legata a Confcommercio) il valore delle case per motivi legati al degrado e all’insicurezza del territorio. Nella zona di Fontivegge, alla stazione, accoltellamenti e risse sono all’ordine del giorno. L’ultimo episodio risale a metà gennaio, nella piazza del Bacio, dove s’affacciano gli uffici amministrativi della Regione: una rissa finita con feriti da armi da taglio e contusi. Solo un episodio, in una guerra quotidiana per bande che si affrontano anche a colpi di mannaia. Ora è poi iniziato un altro fenomeno: l’occupazione abusiva delle case sfitte. Per questo reato sono stati arrestati a metà gennaio tre tunisini, che avevano trasformato l’appartamento nel quale abitavano in un covo per lo spaccio. Poco lontano e a distanza di poche ore, in via Sicilia, la zona più martoriata del quartiere, l’ennesimo regolamento di conti tra spacciatori che ha lasciato a terra un tunisino 34enne pestato per il controllo del territorio. Stesse scene si ripetono con regolarità in via della Pallotta. L’ultima a fine gennaio: una rissa a colpi di bottiglia tra tunisini che si è conclusa con un’aggressione alle forze dell’ordine. Uno stillicidio che ha fatto di Perugia, secondo i dati del ministero degli Interni, una tra le 50 città più pericolose d’Italia: 226 scippi e rapine, 411 furti in appartamento, quasi 12 estorsioni ogni 100 mila abitanti. Ma un dato per tutti definisce l’escalation criminale della città: dal 2008 al 2013 i delitti sono saliti dell’89 per cento. Un trend confermato dai dati forniti dalla polizia nel bilancio sulla sicurezza del 2013: a Perugia le forze dell’ordine operano un arresto e un’espulsione al giorno. Il boom di denunce, 5 ogni 24 ore, riguarda scippi, borseggi, aggressioni e rapine. È così che la città ideale sprofonda nella classifica delle città più tranquille d’Italia: al posto numero 74 su 107. E non si tratta solo di microcriminalità. I sette tunisini arrestati a fine anno facevano parte di una banda che aveva esteso il traffico di stupefacenti fino a Napoli, in partnership con la camorra. Gli albanesi arrestati poche settimane prima avevano aperto un «corridoio» con la Spagna, mentre la criminalità nigeriana usa i suoi corrieri interagendo con Colombia e Venezuela. L’amministrazione comunale reagisce come può: dalla moltiplicazione delle telecamere, all’impiego straordinario della polizia municipale passando per il rimpatrio forzato di clandestini accusati di spaccio che vengono imbarcati all’aeroporto di sant’Egidio verso il Cie di Taranto in vista dell’espulsione. Ma si tratta di misure tampone. «Mancano le risorse» si difende il Comune, manca anche una strategia di prevenzione, rilevano le associazioni di categoria, come la salvaguardia del centro storico, una politica per arginarne l’esodo inarrestabile dei perugini. Fino a trent’anni fa in centro abitavano più di 30 mila perugini ora se ne contano meno di 6 mila. «Perugia muore» è stato il grido d’allarme con cui un imprenditore, Giordano Mangano, ha riunito qualche mese fa 600 persone in piazza Grimana, sotto l’arco etrusco: «Quindici  anni fa vedevo uno o due spacciatori in giro, il resto era la città degli studenti, vissuta in tutte le ore. Adesso è una città morta, vedi solo zombie, ombre». A proposito di studenti, in dieci anni l’ateneo perugino ne ha persi quasi 10 mila. Colpa della crisi economica sicuramente ma non solo: Perugia non esercita più l’attrazione di una volta, l’ateneo e la città hanno perso prestigio. Eppure Perugia ha risorse potenziali notevoli: conserva punte d’eccellenza nella sanità, vanta istituti prestigiosi come una scuola di alta formazione della Banca d’Italia, la scuola di lingue estere dell’esercito, fondazioni importanti, un’accademia di Belle arti tra le più antiche del Paese. Possibile non riesca a scuotersi, tornare alla sua antica tradizione? Il fatto è che la città non ha mai conosciuto un’alternanza di governo. Ernesto Galli della Loggia, che ha insegnato a lungo in città, parla di un vero e proprio regime: «Il problema» dice a Panorama «è che non esistono contropoteri che generino una vera competizione politica. Il potere è in mano a cacicchi locali che si sono distinti per mancanza di visione, di cultura politica e capacità di governare i problemi. Si aggiunga una struttura industriale e imprenditoriale gracile e un peso pachidermico dell’impiego pubblico: tutto questo produce autoreferenzialità e immobilismo». Magari la candidatura di Perugia a finalista del titolo per capitale europea della cultura è un raggio di speranza per questa città. Ma un raggio di luce non basta a fugare la notte calata sulla città.

UMBRIA DA CENSURA E DA INSABBIAMENTI.

E’ un terreno molto scivoloso quello su cui è entrato il Sindaco di Perugia, che ha denunciato la speculazione mediatica che, dall’omicidio di Meredith in poi, c’è stata sull’immagine della città, scrivono Giuseppe Castellini e Luigi Palazzoni su  “Il Giornale dell’Umbria”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’indignazione di Boccali sono state le parole dette in tv da Carmelo Abbate, giornalista di “Panorama”, il quale contestualizzando l’omicidio di Alessandro Polizzi ha parlato di fuga dei residenti dal centro storico, di mercato di stupefacenti fuori controllo, di pendolari della droga che vengono ad acquistarla da bande di microcriminali che, la notte, fanno risse e si accoltellano. Un contesto che Boccali

giudica estremamente esagerato e non pertinente, perché non c’è nulla che, in qualche modo, lo colleghi all’omicidio del giovane Alessandro. Il sindaco ha certamente ragione quando afferma che alcuni media (al tempo dell’omicidio Meredith soprattutto quelli anglosassoni, che dipinsero la città come una sorta di moderna riedizione di Sodoma e Gomorra) su Perugia hanno esagerato ed esagerano e che molti cittadini sono stanchi di questa immeritata, negativa pubblicità. Tuttavia è un po’ come lamentarsi che non si vola perché c’è la forza di gravità. Perché era inevitabile

che, dopo il delitto Meredith, su Perugia si accendessero potenti riflettori e che, ogni cosa di segno negativo che fosse avvenuta, da lì in poi avrebbe avuto risalto superiore rispetto a quanto accade per altre città. Lo spartiacque è stato

il delitto Meredith. Prima di esso i fatti di cronaca nera non accendevano le luci dell’attenzione su tutta la città. Forse che il caso Narducci o vari fatti di sangue si sono, per così dire, “impastati” con l’immagine di Perugia? No di certo. Sono stati considerati fatti isolati, capitati a Perugia quasi per caso, che poco o nulla avevano a che fare con la città e le sue nervature sociali. Nel caso Meredith no. Questo omicidio si è impastato con l’immagine della città, ha attraversato

le sue nervature. Il centro scoperto improvvisamente un luogo di spaccio a cielo aperto, come d’altronde altre aree della città, la questione della droga e dell’alcol a fiumi, l’escalation di furti, la crescita diffusa dell’insicurezza, lo scontro tra bande di spacciatori con periodici scontri all’arma bianca. Tutto si è disvelato e miscelato. Con le istituzioni non solo

completamente impreparate davanti a questa parte impresentabile di Perugia (benché da anni crescesse e prosperasse sotto i loro occhi), ma paralizzate da un riflesso condizionato a sminuire la portata dei problemi, a cercare di mettere

la polvere sotto il tappeto. Basti ricordare le volte, in quegli anni, in cui ogni campagna di stampa che denunciava l’imbarbarimento del centro - ma anche di altre aree di Perugia - veniva bollata dalle istituzioni locali non solo come demagogica ed esagerata, ma come una sottile forma di attacco politico. I risultati di questo non voler vedere sono emersi, poi, in tutta la loro gravità. Il tempo – con molti altri fatti di sangue o comunque di criminalità avvenuti dopo Meredith – ha invece dimostrato che non solo la Perugia impresentabile c’era (e c’è), ma che andava urgentemente combattuta. A cominciare da una chiara presa di coscienza e di impegno civile da parte delle istituzioni. E va dato atto al sindaco Boccali di avere avuto coraggio nell’alzare il tappeto, nell’assumere iniziative, nel mobilitare le altre istituzioni, nel pressare il Governo. Nel mettere la questione sicurezza (che non è solo questione di ordine pubblico,

ma qualcosa di più complesso, in cui entrano le politiche sociali, culturali, turistiche, giovanili...) tra le priorità della sua azione amministrativa. Cogliendo anche alcuni risultati e invertendo la rotta. Ma andava e va messo nel conto che è quasi inevitabile che, dopo Meredith e dopo la polvere sotto il tappeto che è stata “scoperta” in seguito a quel caso, Perugia sia sorvegliata speciale e ogni cosa di brutto che vi accade balzi subito, e pesantemente, agli onori della cronaca

(e di cose rumorose ne sono accadute, solo per restare all’ultimo anno l'assassinio di Alessandro Polizzi, l’omicidio delle due dipendenti della Regione al Broletto e il suicidio del loro killer, le rapine sanguinarie di Ramazzano e Cenerente, le scene drammatiche – la scorsa estate – della battaglia in centro tra bande di spacciatori, con quell’immagine di alcuni pusher che assaltano , proprio davanti al Comune e sotto la finestra dell'ufficio del sindaco, un’auto della Guardia di finanza con gli agenti a bordo). D’altronde è sempre accaduto così, per ogni città e per ogni luogo. Bisogna avere la forza e il coraggio di attuare le politiche giuste (e di cambiarle quando non funzionano), di portare a casa risultati concreti, di risalire la china. Ma bisogna anche avere pazienza, attendere che gli altri si accorgano del mutamento. Spiegare e dimostrare, più che battere i pugni sul tavolo. Far brillare Perugia per altre cose (da questo punto di vista, la candidatura di Perugia e Assisi come capitale europea della cultura è un fatto importante e Boccali ha fatto bene a puntarci con grande determinazione), a cominciare dalla scelta di farne fino in fondo una città universitaria a tutto tondo (con quel tocco speciale dato dall’Università per stranieri). Promuovere il positivo, farlo conoscere, mettersi in gioco quando accadono fatti negativi, sfidare gli interlocutori per convincerli (male ha fatto Boccali a non accettare un dibattito pubblico con Carmelo Abbate), mettendo eventualmente a nudo i loro errori, le loro omissioni,

i loro pregiudizi, i loro luoghi comuni, la loro superficialità (tutti elementi che, nei mass media, talvolta ci sono). Ma guai a dare, anche solo lontanamente (e siamo certi che non sia questo il significato della protesta di Boccali), l’idea di voler imbrigliare la stampa, di voler evitare che racconti le parti oscure, di distribuire sonniferi mediatici. Il sindaco

ha tutta l’autorità e l’autorevolezza per parlare e farsi ascoltare. Questo vale più delle minacciate querele, che sarebbero un boomerang, un segnale imbarazzante e preoccupante di impotenza politica e comunicativa. Quanto alla stampa locale, non deve essere - magari a fasi alterne – né il corazziere del Principe, né l’untore che vede solo degrado e pessimismo. Deve prima di tutto raccontare ciò che accade e ciò che vede, quindi deve favorire il dibattito e la circolazione delle idee per aiutare la crescita sociale, civile ed economica. Vedere il brutto ma anche il bello, i problemi ma anche le opportunità. Sempre con l’onestà intellettuale di chi vuole fornire un’informazione equilibrata e di qualità ai propri lettori.

Eppure a mettere il bavaglio alla stampa è proprio la magistratura. Umbria, il bavaglio al giornale online
"Oscurate quell'inchiesta sul web". Un gip ha stabilito l'oscuramento di tre articoli con le intercettazioni telefoniche legate al caso della Banca Popolare di Spoleto. "E' il primo episodio del genere. Un precedente pericoloso per il giornalismo d'inchiesta", scrive Carmine Gazzanni su “L’Espresso”. Il rischio è che ora non si possano pubblicare atti processuali anche dopo la comunicazione di conclusione indagini. È questo il precedente che potrebbe nascere dopo la vicenda capitata al giornale online umbro Tuttoggi.info a cui lo scorso 20 dicembre è stato recapitato l’avviso di sequestro preventivo , mediante oscuramento, di ben tre articoli contenenti intercettazioni relativi all’inchiesta che tocca la Banca Popolare di Spoleto e che vede rinviate a giudizio ben 34 persone, tra cda e imprenditori legati all’istituto, per reati che, a vario titolo, vanno dalla mediazione usuraria all’ostacolo alla Vigilanza, dall’associazione a delinquere fino alla bancarotta fraudolenta. La prima volta che accade per un quotidiano online. Ma c’è di più. Il motivo per cui l’ordinanza ha destato l’attenzione anche dello stesso Ordine dei giornalisti sta nel fatto che gli atti processuali erano ormai pubblici quando il giornale, diretto da Carlo Ceraso, ha pubblicato gli articoli incriminati. E da ben tre mesi. Occhio alle date: il 29 maggio il procuratore capo della Procura di Spoleto Gianfranco Riggio comunica l’avviso di conclusione indagine; dall’otto all’undici agosto, in successione, Tuttoggi si occupa della vicenda con tre inchieste scritte a quattro mani dallo stesso Ceraso e dal collega del Giornale dell’Umbria Massimo Sbardella. Ed ora arriva il sequestro preventivo disposto dal gip Daniela Caramico D’Auria dopo la querela presentata a novembre da Giovannino Antonini, ex dominus della Bps, che lo scorso 20 luglio, nell’ambito di un’altra inchiesta della Procura di Roma, è stato arrestato con l’accusa di corruzione in atti giudiziari insieme ad altre tre persone, fra cui il giudice del Tar Franco De Bernardi (per gli inquirenti Antonini avrebbe cercato di ‘sistemare’ il processo attraverso il quale far annullare il decreto di commissariamento disposto da Bankitalia e Mef). Atti pubblici o no allora? Pare proprio di sì dato che nell’ordinanza di sequestro del 20 dicembre scorso è lo stesso magistrato che dichiara che “le intercettazioni pubblicate negli articoli” sono “atti non più coperti da segreto avendo il PM emesso nell’ambito del procedimento nr. 319/2009 avviso di conclusione delle indagini”. Cosa si contesta allora? In pratica, a detta del gip, è necessario che il giudice non venga influenzato e non conosca gli atti prima dell’udienza preliminare, nonostante siano, di fatto, già atti pubblici. “Una preoccupazione che non esiste - come la definisce a L’Espresso il legale del giornale Salvatore Francesco Donzelli - perché contrastante con il codice che parla invece di pubblicità degli atti al momento della notifica di conclusione delle indagini, comunicazione che era stata resa nota alla stampa dallo stesso Procuratore capo di Spoleto con un comunicato ufficiale”. Un principio che se diventasse norma potrebbe portare all’oscuramento di gran parte della cronaca giudiziaria del nostro Paese. “In pratica - continua Donzelli - è stata applicata la ‘legge bavaglio’ su cui tanto ha insistito il passato governo Berlusconi”. Si legge infatti nell’ordinanza che “la libera disponibilità degli articoli può aggravare la conseguenza del reato” e, soprattutto, che il giudice “non può e non deve conoscere gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero se non attraverso il dibattimento”. Nessun riferimento, invece, alla pubblica opinione che, a conclusione indagini, dovrebbe avere il diritto di conoscere (e approfonditamente) atti che toccano un istituto importante come quello di Spoleto, quotato in Borsa. “È un’iniziativa assolutamente assurda quella intrapresa - chiosa ancora Donzelli - credo nella buona fede dei magistrati, però oggettivamente è una decisione abnorme perché si è fatto semplicemente giornalismo d’inchiesta informando su cosa stava accadendo in una banca di cui è stato devastato il patrimonio, con un buco spaventoso tanto che poi è stata commissariata da Bankitalia (il 16 febbraio 2013)”. Non è la prima volta, d’altronde, che Bps e Tuttoggi si scontrano a muso duro. L’otto maggio 2012 il giornale scovò e pubblicò in esclusiva un video che dimostrava il modus operandi dell’ex presidente Antonini e che prontamente venne consegnato alle autorità competenti (anche qui l’inchiesta ha portato la Procura a spiccare 9 avvisi di garanzia con varie accuse, dalla ingiuria alla minaccia, al falso ideologico a comportamenti fraudolenti grazie ai quali Antonini sfuggì alla sfiducia votata dalla maggioranza del board dell’epoca). Delle vicende sulla Pop Spoleto si è occupato anche Ossigeno, l’osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia, dato che lo stesso Ceraso ha ricevuto in passato intimidazioni e minacce di morte che, scrive lo stesso osservatorio, “avevano verosimilmente la loro origine nell’interesse della testata per le vicende dell’istituto di credito umbro”. Ed ora ecco l’ultima tessera: l’oscuramento di tre articoli, nonostante gli atti di cui ci si occupava fossero già pubblici. Sulla questione anche Guido Scorza, uno dei massimi esperti di web e censura, si dice stupito, almeno dal punto di vista dello squilibrio tra quotidiano online e cartaceo: “La mia sensazione - dice l’avvocato e giornalista - è che in effetti siamo di fronte ad un provvedimento abnorme nelle conclusioni. La cosa curiosa in questa partita è che se fossimo stati davanti ad un giornale di carta nessuno avrebbe neppure lontanamente avanzato l’idea del sequestro, mentre di fronte ad una testata registrata online qualcuno non solo denuncia, ma addirittura c’è chi dispone il sequestro”. Secondo Scorza, in altre parole, ci sono al momento due pesi e due misure tra l’online e il cartaceo: “Si sta andando in una direzione, come d’altra parte dice la nuova legge sulla diffamazione, nella quale fondamentalmente l’editore di carta e l’editore telematico sono soggetti allo stesso tipo di responsabilità. Quando si tratta di chiamare il giornalista o l’editore a pagare il conto per l’errore, l’informazione di carta e quella telematica vengono equiparate dal punto di vista giuridico; quando invece si tratta di garantire la tutela del giornalista siamo all’assurdo: l’editore del giornale di carta dispone della garanzia in pratica di non incorrere mai nel sequestro preventivo; mentre l’editore dell’online non può disporre della stessa tutela. Come dire: paga lo stesso prezzo ma gode di meno garanzie”. Al momento il giornale preferisce non rilasciare dichiarazioni in attesa del pronunciamento del Tribunale del Riesame di Perugia a cui è stato presentato ricorso perché annulli la disposizione ordinando il dissequestro. Forte è arrivata la vicinanza anche dall’Ordine dei Giornalisti il quale auspica “che la magistratura sia capace nelle sue articolazioni di porre riparo ad un atto che arrecherebbe un danno grave all’informazione ed al diritto fondamentale dei cittadini ad essere informati”. Quello che è in gioco è il giornalismo d’inchiesta.

“Oscurate tre articoli di Tuttoggi”,  scrive Leonardo Perini, Direttore editoriale, su “Tuttoggi”. E’ in sintesi l’ordinanza emessa dal Tribunale di Spoleto che ha disposto il sequestro preventivo degli articoli sulle intercettazioni relative all’inchiesta che ha travolto l’ex board e buona parte del management della Banca Popolare di Spoleto, l’istituto messo in sicurezza lo scorso febbraio da Bankitalia. Ad innescare la decisione, la denuncia dell’ex dominus Giovannino Antonini presentata nei confronti del nostro Carlo Ceraso e del collega Massimo Sbardella del Giornale dell’Umbria che aveva collaborato all’inchiesta giornalistica. L’ipotesi accusatoria è quella di “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”. Alla quale sta già lavorando il nostro legale, l’avvocato Salvatore Francesco Donzelli. Rispettosi dei principi che regolano l’obbligatorietà dell’azione penale e determinati a difenderci nel processo e non al di fuori di questo, sentiamo di doverne dar conto ai nostri lettori non solo perché l’ordinanza ci sembra abnorme ma, soprattutto, perché siamo convinti della correttezza del nostro operato dal momento che le intercettazioni non erano più coperte da segreto e l’avviso di conclusione indagini era stato notificato già dallo scorso mese di maggio ai 34 indagati, ben tre mesi prima dei nostri articoli. Il dispositivo non sembra avere precedenti nella storia del giornalismo italiano (almeno a cercare approfonditamente nel web), anzi esso stesso rischia di creare un precedente. Tralasciando per il momento ogni opinione sulle motivazioni del sequestro, appare evidente che la vicenda Bps-Scs è degna della massima attenzione, insomma di interesse pubblico: l’inchiesta, e ancor più gli scandali che l’hanno travolta nell’ultimo triennio, hanno interessato e interessano, direttamente, non meno di 18mila soci della Scs che controlla il pacchetto Bps; indirettamente, qualche milione fra azionisti Mps e soci Coop Centro Italia, le due società che partecipano al capitale della banca umbra. La denuncia presentata contro Tuttoggi.info rischia così di minare il giornalismo d’inchiesta: cosa sarebbe stato di scandali come Parmalat, Antonveneta o del latte cinese, solo per citarne alcune, se le notizie non fossero venute alla ribalta? Sulle vicende della Spoleto pensavamo di aver pagato già un amaro prezzo fatto di minacce, calunnie, diffamazioni, persino di una indagine avviata dalla Consob (attivata dall’ex board Bps?) dalla quale siamo usciti immacolati. Solo per aver fatto il nostro dovere, incluso l’aver consegnato prima alla Procura della Repubblica di Spoleto (e solo in un secondo momento pubblicato su queste colonne) il video della ormai tristemente nota “Assemblea della vergogna”, l’adunanza che rimise in sella Antonini con un colpo di spugna e per la quale ci sono 9 indagati per vari reati. Per questo modo di intendere il giornalismo, al servizio dei lettori e della giustizia, non ci siamo mai aspettati un trattamento di favore, ci mancherebbe altro, ma è indubbio che il provvedimento in corso ci lascia a dir poco sorpresi. Come è certo che non cambieremo di una virgola il nostro modo di fare informazione, non indietreggeremo di un millimetro. L’andazzo è ormai noto anche in Umbria dove chi ha forza e risorse ricorre in modo strumentale, eccessivo, a volte palesemente intimidatorio, alle querele e richieste di risarcimento danni per limitare l’attività dei giornalisti. Sono state ribattezzate “querele temerarie”, una sorta di intimidatorio ostruzionismo, con crismi di legalità, all’azione di verità che persegue il cronista quando decide di avviare e seguire un’inchiesta. Lo denunciano da anni l’Ordine dei giornalisti, Anso, Articolo21, Fnsi, Ossigeno per l’informazione, Change.org, e Libera Informazione che anche recentemente hanno chiesto un intervento del legislatore (lo scorso aprile ben 120mila firme sono state consegnate alla Presidente della Camera Laura Boldrini). Oggi lo denunciamo anche noi.

E’ scomodo per la magistratura scoprire gli altarini? Il giudice Schettini non risparmia neppure i magistrati umbri competenti su inchieste che coinvolgono i colleghi romani accusandoli di insabbiare gli esposti. Viaggi e soldi in contanti per comprare le sentenze dei giudici fallimentari, scrive Rita Di Giovacchino su Da Il Fatto Quotidiano del 31/12/2013. CHIARA SCHETTINI,ARRESTATA IN GIUGNO 2013: “A ROMA ERA UNA PRASSI DIVIDERE IL COMPENSO CON IL MAGISTRATO, 3 SU 4 SONO CORROTTI”. In un interrogatorio di 60 pagine, reso ai pm Nello Rossi e Rocco Fava il 29 settembre scorso, l’ex giudice Chiara Schettini, arrestata a giugno dal gip di Perugia per corruzione e peculato, offre uno spaccato devastante del sistema di corruzione del Tribunale fallimentare di Roma. Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio. Il giudice Schettini non risparmia neppure i magistrati umbri competenti su inchieste che coinvolgono i colleghi romani accusandoli di insabbiare gli esposti. Spiega anche il meccanismo delle truffe e i trucchi per pilotare i fallimenti milionari: “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. I soldi delle consulenze venivano poi ripartiti tra giudici delegati, curatori, periti e avvocati facendo levitare oltre misura le parcelle. Chiara Schettini tenta di scrollarsi di dosso le accuse pesantissime che l’hanno portata in carcere, aggravate da intercettazioni che la inchiodano a minacce, a frasi sorprendenti come: “Io se voglio sono più mafiosa dei mafiosi”. Di fronte ai pm romani, provata dai mesi in cella, cambia registro, ridimensiona il proprio ruolo e punta in alto, accuse che non risparmiano i vertici dell’ufficio, in particolare un magistrato che tirerebbe le fila del sistema: “Il più corrotto di tutti”. Afferma di aver ricevuto minacce di morte, anche dopo l’arresto: “L’ambiente della fallimentare è ostile, durissimo, atavico, non ci sono soltanto spartizioni di denaro ma viaggi, regali, di tutto di più, una nomina a commissario giudiziale costa 150 mila euro, tutti sanno tutto e nessuno fa niente”. Ancora: “Era una prassi dividere il compenso con il giudice, tre su quattro lì dentro sono corrotti”. Dito puntato anche contro il padre di suo figlio, l’ex compagno Piercarlo Rossi che accusa di avere conti all’estero. “Mi sono fidata, ero innamorata, lui trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila”. La percentuale per coprire la tangente. Un j’accuse a tutto campo che non risparmia il giudice fallimentare Tommaso Mar-vasi: “Piercarlo era l’ideatore e promotore, ma ripeto cresce come curatore di Marvasi… perché è troppo penetrante il suo controllo… poi veniva a chiedere a me ‘hai fatto questo? hai fatto quello’. ‘Non ti preoccupare sarà rimesso tutto perfettamente’… Io non l’ho più nominato Federico che rischia di far esplodere lo scandalo del tribunale fallimentare ai massimi vertici”. È un fiume in piena questa signora bionda che al momento opportuno parla come un facchino: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Descrive il meccanismo della corruzione: “C’era chi si faceva pagare le cene, chi i viaggi, chi smezzava il compenso, sul netto”. Uno in particolare non mollava mai l’osso: “Anche se era in un’altra sezione ha continuato a governare la fallimentare, è il capo della cupola”. Di un altro pezzo grosso dice: “Si sapeva tranquillamente e serenamente che per una nomina a commissario giudiziale andava a via Ferrari con la valigetta e prendeva 150 mila euro da un famoso studio, tutti sanno e ma nessuno fa niente, ha dato tre quarti delle nomine a quello studio”. Tira in ballo anche l’ex ministro Franco Frattini: “Mi telefonò dicendo che un suo amico, tale Maurizio Bonifati, aveva bisogno di consigli perché aveva questa società, la Mining, che stava per fallire…”. Ogni fallimento è organizzato con modalità predatorie. Crediti inesistenti attribuiti a soggetti inesistenti, sul piatto 2 milioni e mezzo di euro, ma prima di arraffarli è stata arrestata.

Certo, però, che anche la stampa locale ha le sue colpe nel coprire le nefandezze dei potenti. Vedi per esempio La villa abusiva di Guasticchi. Ecco le carte che confermano quanto rivelato da panorama.it sul garage trasformato in abitazione dall'uomo del Pd, scrive Laura Maragnani su “Panorama”. Polpette avvelenate. Bufala. Killeraggio. Non erano state delicate, in casa di Marco Vinicio Guasticchi, vulcanico e tri-laureato presidente Pd della provincia di Perugia, le reazioni all’articolo di Panorama.it sul suo splendido casale di Umbertide: 250 metri circa su tre livelli, con splendida vista sugli ulivi del parco (protetto) del Monte Acuto, realizzati trasformando in villa di lusso un ex fabbricato agricolo di 32 metri quadrati. Il tutto in spregio delle norme urbanistiche e paesaggistiche, e senza mai spendere un euro di Imu, Irpef, Iva e concessioni edilizie. In pratica: un abuso. «Una cosa che non solo non mi riguarda, ma che neanche esiste» aveva tagliato corto Guasticchi con la Nazione dopo l’uscita di Panorama. In effetti, intestatario del terreno e dell’annesso agricolo è il padre Giancarlo, ex potentissimo segretario generale della provincia detto un tempo «l’imperatore», che abita a pochi metri dal discusso casale, e in una villa altrettanto bella. Tra le due abitazioni, una piscina e un campo da tennis su cui certo non il padre, ultra-ottantenne, ma il presidente della provincia, appassionato tennista, si esercita appena gli è possibile. Con lodevoli risultati, come ben sanno gli intimi; anzi: non solo gli intimi, visto che il casale è stato sede di plurimi incontri politici, riunioni di corrente, pranzi e cene con compagni di partito, tutti colpiti, come racconta uno dei presenti a Panorama, dalla «ristrutturazione di gusto» dell’edificio, dotato anche di un’area spa con tanto di «sauna, bagno turco, idromassaggio». Tutto abusivo, come scritto da Panorama. Ora c’è la conferma dell’assessore regionale all’ambiente, Silvano Rometti, che in risposta a un’interrogazione del consigliere leghista Gianluca Cirignoni scrive: «L’amministrazione comunale ha ritenuto di non rilasciare il permesso di costruire in sanatoria né l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria» come richiesto dal proprietario. Niente condono edilizio o paesaggistico. Il motivo? Gli «ulteriori abusi edilizi, precedentemente non facilmente individuabili, riscontrati negli accertamenti eseguiti in data 22 e 25 ottobre 2013». Traduzione: a distanza di 5 e di 7 giorni dalla pubblicazione dell’articolo di Panorama.it, il comune di Umbertide ha sentito la necessità di capire l’effettiva consistenza degli abusi di casa Guasticchi e, grazie a due distinti sopralluoghi dei vigili, ha scoperto l’esistenza del piano interrato con tanto di idromassaggio e bagno turco. Da qui, il 29 ottobre, la firma di un’ordinanza di demolizione, la numero 114, che fa seguito alla numero 22 del 1° marzo, con cui il sindaco ordinava l’abbattimento delle prime opere abusive e il ripristino dei luoghi, evidentemente non effettuato. Anche il corpo forestale non è stato a guardare: il 25 ottobre, otto giorni dopo l’uscita di Panorama.it, comunicava ufficialmente alla regione le «presunte irregolarità in materia paesaggistica e urbanistico-edilizia». Quindi: abuso accertato, condono respinto, demolizione ordinata. Tutto è bene quel che finisce bene. Ma per quanti anni il comune di Umbertide, rigorosamente Ds-Pd, non è intervenuto per bloccare o sanzionare l’abuso del presidente Pd della provincia? E perché la regione Umbria, cui spetta la vigilanza sui beni paesaggistici come il parco del monte Acuto, ha chiuso un occhio su quest’ abuso eccellente, che pure in zona era conosciuto da tutti?

Se lo chiede il deputato leghista Paolo Grimoldi in un’interrogazione al Mibac , mentre il senatore leghista Stefano Candiani, paventando «il rischio di un insabbiamento da parte di soggetti istituzionali o pubblici funzionari interessati a dare copertura “politica” alla vicenda», si rivolge  al ministro dell’Intero Angelino Alfano per chiedergli di «impedire possibili condotte omissive da parte degli uffici pubblici interessati» . Neanche Cirignoni molla l’osso: è tornato alla carica con la regione Umbria per sapere «quanto è costato trasformare il garage in villa con tutti i comfort, incluso campo da tennis e piscina», oltre «a quali imprese hanno operato, come e quanto siano state pagate». Affari di Guasticchi, direte? Fino a un certo punto. Perché a Umbertide ricordano benissimo il viavai dei mezzi per lo sbancamento: "secondo informazioni anonime che ho ricevuto" ci spiega Cirignoni "e che ho subito girato alla procura di Perugia, sarebbero coinvolte ditte che hanno lavorato per la provincia di Perugia. Chiedo ai magistrati di accertarlo al più presto". Tra cui quello per la sistemazione esterna del centro faunistico di Torre Certalda di Umbertide. Centro faunistico, guarda la coincidenza, dove ha sede il centro ippico della polizia provinciale di Perugia creata da Guasticchi, e dove lavora una delle sue ex mogli, Sonia Galmacci, appassionata cavallerizza arruolata nel suddetto servizio di polizia equestre. Facciamola corta: alle ultime primarie Matteo Renzi ha travolto Gianni Cuperlo anche in Umbria, 75 a 15. Così Marco Vinicio Guasticchi, da un po’ convertito al renzismo, coltiva l’ambizione di candidarsi nel 2015 al posto della governatrice Catiuscia Marini, una bersanian-dalemiana. Ambizione legittima, per carità, per uno che è nato nel 1962 ed è già stato presidente del consiglio comunale e assessore al bilancio e patrimonio dl comune di Perugia, in quota Margherita, prima di diventare presidente della provincia nel 2009. Ma non sarebbe il caso, prima di candidarsi, di abbattere quella scandalosa villa-casale, idromassaggio e campo da tennis compresi?

INSABBIAMENTI E MASSONERIA. I DELITTI DEL MOSTRO DI FIRENZE.

Si parla di insabbiamenti? Mostro di Firenze, perquisiti gli inquirenti. Tutto è partito da un'accusa di «insabbiamento» risultata infondata, scrive Antonella Mollica  su “Il Giornale”. Indagini che si intrecciano e magistrati che si dividono. Sullo sfondo la solita vicenda infinita del Mostro di Firenze con i suoi mille misteri e le pochissime certezze che sembrano frantumarsi ogni volta che un nuovo tassello si aggiunge al mosaico: una doppia perquisizione, effettuata nella Procura di Perugia e negli uffici del Gides, lo speciale gruppo investigativo che si occupa dei delitti delle coppiette che insanguinarono le colline di Firenze dal 1968 al 1985. È stata la Procura di Firenze ad aprire l’ennesimo fascicolo su uno dei mille rivoli che si dipanano da quelle morti che ancora aspettano giustizia. Nella sede del Gides si è presentato il pm Gabriele Mazzotta in persona, accompagnato dal capo della squadra mobile Filippo Ferri e da uomini della sezione di polizia giudiziaria della polizia. Una perquisizione che è durata quasi otto ore e che è servita a mettere i sigilli ai documenti che sono conservati negli uffici, frutto di anni e anni di lavoro sull’indagine più lunga che la storia giudiziaria italiana conosca. In contemporanea il pm Luca Turco, accompagnato da altri uomini della sezione di polizia giudiziaria, si è presentato alla Procura di Perugia nell’ufficio del pm Giuliano Mignini, titolare dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, coinvolto nell’inchiesta sul Mostro di Firenze. Anche lì è stata acquisita diversa documentazione che ora dovrà essere passata al setaccio. L’inchiesta della Procura di Firenze è solo l’ultima tappa di una vicenda che parte da lontano: dalla registrazione di una conversazione avvenuta nel 2002 tra Michele Giuttari, capo del Gides, e il pm Paolo Canessa, titolare dell’inchiesta sul Mostro. Canessa di quella registrazione non ha mai saputo nulla fino a quando il pm Mignini non ha inviato un esposto a Genova contro il procuratore capo di Firenze Ubaldo Nannucci. In quell’esposto si puntava il dito contro Nannucci, accusandolo di voler rallentare le indagini sul Mostro. A sostegno dell’accusa si riportava una frase attribuita a Canessa («quello non è un uomo libero») riferita a Nannucci. Il Tribunale di Genova, su richiesta della stessa procura, ha archiviato il procedimento contro Nannucci: nessun tentativo di insabbiamento. «Tutte le accuse contro Nannucci - hanno scritto il procuratore capo di Genova Giancarlo Pellegrino e il sostituto Francesco Pinto - partono dalla presunzione che le indagini sui mandanti degli omicidi si identifichino con Giuttari, unico baluardo contro insabbiamenti, ostacoli, depistaggi, posti in essere da magistrati, giornalisti e poteri forti». La Procura di Genova, nell’archiviare la posizione di Nannucci, affidò una perizia sulla cassetta: la conclusione fu che quella frase non era stata pronunciata da Canessa. Per questo Giuttari e due suoi collaboratori che effettuarono la trascrizione di quella conversazione sono finiti sotto inchiesta per falso. Ma la storia non è finita così: Giuttari è passato all’attacco e ha denunciato alla Procura di Torino i pm Canessa e Pinto e lo stesso perito di Genova: «Quella consulenza è incompleta, superficiale e fortemente inesatta». In tutto questo vortice di denunce e controdenunce si inserisce l’inchiesta che ha portato alle perquisizioni: il 19 maggio scorso il perito era stato convocato dal pm Giuliano Mignini. Una procedura quantomeno insolita questa su cui la Procura di Firenze ora vuol vedere chiaro.

I pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto-scrittore Michele Giuttari sono stati condannati dal tribunale di Firenze rispettivamente a un anno e quattro mesi e un anno e sei mesi con l'accusa di abuso d'ufficio in concorso in un'inchiesta collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze, scrive “Il Corriere della Sera”. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell'inchiesta sull'omicidio di Meredith Kercher: la vicenda della studentessa inglese non ha comunque niente a che fare con il processo che si è chiuso ora. Michele Giuttari è stato a capo del Gides (gruppo investigativo delitti seriali) che ha condotto con le procure fiorentina e perugina le indagini sul mostro di Firenze. L'abuso d'ufficio per il quale sono stati condannati riguarda una serie di indagini svolte su giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per, secondo l'accusa, condizionare le loro attività riguardo l'inchiesta perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che sarebbe collegata alle vicende del mostro di Firenze. Il pm fiorentino titolare delle indagini, Luca Turco, aveva chiesto condanne a 10 mesi per Mignini e a due anni e mezzo per Giuttari. Secondo la procura di Firenze, Giuttari e Mignini avrebbero svolto indagini illecite - con intercettazioni o con l'apertura di fascicoli - su alcuni funzionari di polizia (come l'ex questore di Firenze Giuseppe De Donno e l'ex direttore dell'ufficio relazione esterne Roberto Sgalla) e giornalisti (come Vincenzo Tessandori, Gennaro De Stefano e Roberto Fiasconaro) con intento punitivo o per condizionarli nel loro lavoro, perché avrebbero tenuto atteggiamenti critici riguardo il comportamento di Giuttari con la stampa o riguardo l'inchiesta sulla morte del medico perugino Francesco Narducci. Mignini e Giuttari sono stati invece assolti «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di abuso di ufficio (e Mignini anche di favoreggiamento nei confronti di Giuttari), relativa ad accertamenti 'paralleli' a quelli della procura di Genova, che stava indagando Giuttari per falso, in merito a una sua registrazione di un colloquio fra lui e il pm fiorentino Paolo Canessa. All'epoca Giuttari era a capo del Gides, mentre Canessa coordinava la parte toscana dell'inchiesta sul mostro di Firenze. «Sono sconcertato» commenta il pm perugino Mignini. A chi gli chiedeva se la sentenza possa gettare un'ombra sul lavoro svolto sul caso Meredith, Mignini ha risposto ricordando che a Perugia «ci sono stati giudici che hanno giudicato sul caso Meredith. La sentenza di oggi, invece, riguarda me». Il difensore di Mignini, Mauro Ronco, spiega che «Giuttari e Mignini sono stati assolti dalla parte principale del processo e, di fatto, questo smentisce tutto l'impianto accusatorio». A chi gli chiedeva se l'interdizione dai pubblici uffici - come pena accessoria - possa avere effetti sulla professione di Mignini, Ronco ha ricordato che «ovviamente, la pena è sospesa per la condizionale e questo vale anche per l'interdizione».

Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith.

Giuttari, già capo del gruppo investigativo delitti seriali, che lavorò fianco a fianco con la procura fiorentina e quella perugina è sempre in tv a parlare dei delitti eccellenti.

Nel proseguo la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato l’incompetenza territoriale fiorentina per quanto riguarda il procedimento a carico del pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto scrittore Michele Giuttari, scrive “Umbria 24”. La Corte ha quindi annullato la sentenza di primo grado con cui nel gennaio del 2010 Mignini e Giuttari vennero condannati rispettivamente ad un anno e 4 mesi e a 6 mesi per abuso d’ufficio in concorso. La vicenda è collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze. La Corte d’Appello ha quindi disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, competente perché fra le persone offese nel procedimento fiorentino c’è un magistrato di Genova. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, che la Procura umbra riteneva collegata alle vicende del mostro di Firenze. Giuttari era il poliziotto che si occupava delle indagini. L’abuso di ufficio per il quale erano stati condannati riguarda una serie di indagini su giornalisti e funzionari delle forze dell’ordine svolte, secondo l’accusa, per condizionarli, perché avevano tenuto atteggiamenti critici riguardo l’inchiesta sulla morte di Narducci. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith Kercher. Giuttari, andato in pensione dalla polizia, adesso svolge l’attività di avvocato-investigativo ed è uno scrittore di gialli. Le reazioni «È una decisione obbligata. Fin all’inizio non potevano trattare questo procedimento a Firenze. Questo trasferimento doveva esserci prima». Lo ha detto il pm Giuliano Mignini commentando la sentenza d’appello che ha annullato la condanna del magistrato in primo grado e ha ordinato il trasferimento degli atti da Firenze a Torino. Mignini, rispondendo ai giornalisti, ha poi confermato che il reato (abuso d’ufficio) potrebbe cadere in prescrizione. Con lui è imputato il poliziotto-scrittore Michele Giuttari. Anche per lui c’è stato l’annullamento della condanna di primo grado e la dichiarazione di incompetenza territoriale. «Da investigatore ho un’amarezza – ha detto Giuttari – Questa attività svolta da Firenze bloccò l’indagine perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che si riteneva collegata al mostro di Firenze. Vennero sequestrati gli atti di quell’indagine, di fatto bloccandola». A Perugia, il pubblico ministero Giuliano Mignini aspetta le motivazioni con cui il gup Paolo Micheli prosciolse tutti i familiari di Narducci, colpevoli secondo il pm di aver architettato un colossale depistaggio sulla morte del medico perugino.

Quella strana condanna del Pm Giuliano Mignini, scrive Adriano Lorenzoni su Terni in rete. Di fatto bloccate le indagini perugine sui mandanti dei delitti del mostro di Firenze. Nel gennaio del 2010 il Pubblico Ministero di Perugia, Giuliano Mignini e l'ex capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, sono stati condannati dal Tribunale di Firenze con l'accusa di abuso d'ufficio in una inchiesta relativa al filone di indagini perugine collegate a quelle relative ai "mandanti" dei delitti del mostro di Firenze. Secondo la tesi accusatoria Mignini e Giuttari avrebbero intercettato e indagato illecitamente giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per condizionarne la loro attività. Un procedimento anomalo visto che il PM Mignini era stato regolarmente autorizzato dal GIP di Perugia ad avvalersi del mezzo delle intercettazioni per le sue indagini, atti che aveva il dovere di compiere. Un procedimento anomalo perché a condurre le indagini contro Mignini e Giuttari è stata quella stessa Procura della quale il Pm di Perugia, ne aveva indagato il capo, Ubaldo Nannucci. Non a caso il dottor Mignini ha eccepito la incompetenza funzionale di quella Procura a svolgere le indagini ed ha sollevato eccezioni di nullità della sentenza. Sarà la corte d'appello di Firenze il prossimo 22 novembre a decidere sulla questione. Tutto nasce da una registrazione effettuata da Michele Giuttari di un suo colloquio con il sostituto procuratore di Firenze, Paolo Canessa nel quale Canessa afferma che il suo capo non era un uomo libero e confessa di essere stato bloccato da quest'ultimo, cioè dall'allora Procuratore Ubaldo Nannucci in merito alle richieste dello stesso Giuttari relative all'inchiesta sui delitti del mostro di Firenze. Giuttari trasmette la registrazione a Mignini il quale la gira alla Procura di Genova competente ad indagare sui magistrati di Firenze. Il Procuratore Nannucci verrà inquisito per aver rallentato, anzi ostacolato le indagini sul mostro di Firenze. Genova archivierà subito. E' ancora Giuttari a lamentarsi con Mignini per il comportamento del questore di Firenze, De Donno il quale, come disposto dal Ministero dell'interno, avrebbe dovuto provvedere all'istallazione della sala intercettazioni del G.I.DE.S , ( gruppo investigativo delitti seriali ) dove si erano sistemati Giuttari e i suoi uomini, cosa che non fa. Mignini lo incrimina e manda il fascicolo a Firenze. Viene da chiedersi : dov'è l'abuso d'ufficio? Viene anche da chiedersi il perché di tanto apparente disinteresse nei riguardi delle indagini condotte da Michele Giuttari, laddove non vengono ostacolate. " Non bisogna farle le indagini sui mandanti, perché sono solo illazioni ", una inutile perdita di tempo , si sente dire Giuttari. Sorprendente. Finchè si indagano i compagni di merende, va tutto bene. Va bene Pacciani, va bene Lotti , va bene Vanni. Quando si alza il tiro cominciano a sorgere i problemi. Michele Giuttari viene addirittura sollevato dall'incarico e trasferito. Al PM Mignini viene perquisito l'ufficio e gli vengono sequestrati atti di una indagine in corso, quella sulla morte del medico perugino Francesco Narducci, atti sui quali aveva eccepito il segreto, inutilmente. Anche in questo caso viene da chiedersi perché tanta paura ( a Firenze e a Perugia ) dell'inchiesta sulla morte di Francesco Narducci? Secondo il PM perugino , Francesco Narducci era collegato , in qualche modo, con le vicende del mostro di Firenze. Giancarlo Lotti, uno dei compagni di merende, sostenne che ad un dottore venivano consegnate le parti di corpo femminile amputate, in cambio di denaro. Delitti, quindi, su commissione. Di un dottore. Un dottore, non un farmacista, Francesco Calamandrei, di San Casciano val di Pesa. Tra l'altro , nell'inchiesta è emerso che Calamandrei e Narducci si conoscevano. Narducci morirà in circostanze niente affatto chiare il 13 ottobre del 1985. Annegato nelle acque del lago Trasimeno. Un mese dopo l'ultimo omicidio commesso dal mostro di Firenze. Suicidio si sostenne all'epoca. Una verità assai poco credibile. Tanto che il Gip Marina De Robertis ha archiviato con formula dubitativa l'ipotesi dell'omicidio a determinati indagati ( il giornalista Mario Spezi, il farmacista di San Casciano , Calamandrei e altri ) e ha dichiarato prescritti ma esistenti i reati commessi all'epoca in materia di occultamento e sottrazione di cadavere e di falsificazione di numerosi documenti pubblici. Inoltre, dall'aprile scorso, si attende di conoscere le motivazioni con le quali, a vario titolo, anche con formule dubitative, il Gup, Paolo Micheli, ha assolto una ventina di persone ( anche il padre e il fratello di Narducci ) dalle accuse di falso, associazione per delinquere, omissione di atti di ufficio e occultamento di cadavere. Avverso questa decisione del Gup, Il PM Mignini proporrà , verosimilmente, appello e ricorso non appena verranno depositate le motivazioni che avrebbero dovuto essere depositate il 20 luglio scorso. Gli stessi Mignini e Giuttari sono stati , invece, assolti perché i fatti non sussistono ( e la Procura di Firenze non si è appellata ) dall'accusa di abuso di ufficio ( e Mignini anche dal favoreggiamento nei confronti di Giuttari ) relativamente ad accertamenti cosiddetti paralleli a quelli della Procura di Genova che stava indagando l'ex capo della mobile di Firenze per falso, per via di quella registrazione del colloquio con il sostituto Canessa ( di cui abbiamo parlato precedentemente ) registrazione che , secondo l'accusa, era stata manomessa. Inchiesta, questa, che ha poi portato alla perquisizione dell'ufficio del PM di Perugia e al sequestro di numerosi atti di indagine. Inutile aggiungere che il procedimento a carico di Giuttari e di due poliziotti si è concluso un una sentenza di non luogo a procedere per assoluta insussistenza del fatto, emessa dal GUP genovese Roberto Fenizia. Una condanna " anomala " quella di Giuliano Mignini che, non ha però subito conseguenze disciplinari di alcun tipo. Il procedimento disciplinare è infatti sospeso sino alla definizione del procedimento penale dal quale dipende. e il PM. Mignini ha potuto continuare a svolgere le sue funzioni , anche in processi importantissimi e di rilievo internazionale , come quello relativo alla morte della studentessa inglese, Meredith Kercher.

«La massoneria perugina sapeva che Francesco Narducci, il medico annegato nel lago Trasimeno nell'ottobre 1985, era coinvolto nei delitti del "Mostro di Firenze", ma decise di non far trapelare nulla per evitare che fossero coinvolti tutti». Una nuova testimonianza nell' inchiesta sui mandanti degli omicidi compiuti in Toscana tra il 1968 e il 1985 svela intrecci finora insospettabili, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. E delinea nuove responsabilità di chi avrebbe tentato di nascondere la verità. Sono centinaia i verbali raccolti negli ultimi due anni dai pubblici ministeri umbri e fiorentini che stanno cercando di identificare i componenti della congrega che avrebbe armato la mano dei «compagni di merende». Ma anche di individuare chi provocò la morte del medico perugino. Gli accertamenti svolti sinora portano infatti a escludere che Narducci sia stato vittima di un incidente mentre era in barca, come si era pensato fino a due anni fa. «È stato ucciso - ribadiscono gli inquirenti - e la sua morte è certamente legata agli assassinii delle coppiette». È stato Ferdinando Benedetti, uno storico che ha compiuto un'indagine personale sulla vicenda, a rivelare il ruolo della massoneria, alla quale lui stesso apparterrebbe. E le sue dichiarazioni sono state poi confermate da altre persone che frequentavano la famiglia Narducci. «Il padre del medico - ha raccontato Benedetti - faceva parte della loggia Bellucci e insieme al consuocero si rivolse al Gran Maestro per evitare che fosse effettuata l'autopsia sul cadavere del figlio. So che Francesco Narducci aveva preso in affitto una casa vicino Firenze, nella zona dove sono avvenuti i delitti. Era entrato a far parte di un'associazione segreta denominata "la setta della rosa rossa". Al momento dell'iniziazione era al livello più basso, ma dopo un po' di tempo aveva raggiunto il ruolo di "custode". Già nel 1987 si disse che poteva essere uno dei "mostri" e la massoneria si attivò per sapere la verità. Tra il 1986 e il 1987 ci furono riunioni tra logge diverse e si decise di compiere alcune indagini. Alla fine la loggia accertò che era coinvolto, ma si decise di non far trapelare nulla perché altrimenti c'era il rischio che venissero coinvolti tutti». Tra i testimoni ascoltati dai magistrati c'è anche Augusto De Megni, nonno del bimbo rapito nel 1990, per anni al vertice del Grande Oriente d' Italia. «So che Narducci andava a Firenze - ha confermato - e che frequentava giri poco raccomandabili». Secondo le indagini compiute sinora il dottore potrebbe essere stato il «custode» dei reperti genitali asportati alle vittime. E adesso si sta verificando se possa esserci un nesso tra la sua morte e la spedizione di un lembo di seno di Naudine Mauriot al pubblico ministero Silvia Della Monica. L'omicidio della francese e del suo compagno Jean-Michel Kraveichvili avvenne l'8 settembre agli Scopeti. Recentemente si è scoperto che la coppia era in Toscana per partecipare a pratiche esoteriche e che sarebbe poi rimasta vittima di un rito satanico. Un mese dopo il delitto scomparve il dottor Narducci. Era in ospedale a Perugia e dopo aver ricevuto una telefonata andò via sconvolto. Di lui non si seppe più nulla fino al 13 ottobre, quando il suo cadavere affiorò a circa duecento metri dalla riva. Alcuni testimoni dell' epoca hanno raccontato che aveva numerosi ecchimosi, ma la famiglia si oppose allo svolgimento dell'autopsia. Soltanto due anni fa si è scoperto che i rilievi del medico legale furono effettuati sul corpo di una persona alta almeno cinque centimetri più del dottore. Un'evidente sostituzione sulla quale dovranno adesso fornire spiegazioni alcuni familiari di Narducci e il questore dell' epoca Francesco Trio, tutti indagati per occultamento di cadavere. «Dalle lettere anonime che attribuivano un ruolo a Narducci e ai suoi amici di Firenze come mandanti dei delitti - ha dichiarato ieri Michele Giuttari, capo della squadra investigativa -, siamo passati alle testimonianze dirette. Tanti sapevano e ora hanno parlato».

L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti, scrive il Prof. Paolo Franceschetti. Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati. Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso. Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo. Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze). Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale. I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente. Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore. L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande. Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)? Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti). Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro? Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso. Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo? La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore. Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti. Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre. Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente. Senz’altro queste due motivazioni ci sono. Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente. La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo). Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta. E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso. Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa. Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato. E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso. Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo. Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime. La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani. Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina. Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave. Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca. Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani). Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico). Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina. Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”). Il mio articolo termina qui. Non voglio approfondire per vari motivi. In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho. Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire. E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto. La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi. Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce. Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra. Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce. Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa. Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo. E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti.  (Io speriamo che non mi suicido).

Il Mostro di Firenze: quella piovra che si insinua nello stato, continua il Prof. Paolo Franceschetti. Una strage di stato mai chiamata come tale.

Premessa. Ho deciso di scrivere questo articolo dopo la vicenda del perito nella vicenda Moby Prince, sfuggito per miracolo alla morte; qualche giorno fa l’uomo, dopo essere stato narcotizzato da 4 persone incappucciate è stato poi messo in un auto a cui hanno dato fuoco. Si è salvato per un pelo, essendosi risvegliato in tempo dal narcotico. L’incidente è identico a molti altri capitati a testimoni di processi importanti della storia d’Italia. Non tutti però sanno che gli stessi identici incidenti sono capitati a molti dei testimoni nella vicenda del mostro di Firenze. Nella vicenda del mostro di Firenze è stato scritto tanto. E i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette. La vicenda del mostro, in effetti, per anni è stata considerata come un giallo in cui occorreva trovare il serial killer. In realtà la vicenda può essere guardata da una prospettiva assolutamente diversa, cioè quella tipica di tutte le stragi di stato italiane: l’ostinato occultamento delle prove affinché non si giunga alla verità, grazie al coinvolgimento della massoneria e dei servizi segreti; l’inefficienza degli apparati statali nel reprimere queste situazioni; l’impreparazione culturale quando si tratta di affrontare questioni che esulano da un nomale omicidio o rapina in banca e si toccano temi esoterici. Ripercorriamo quindi le tappe della vicenda per poi trarre le nostre conclusioni. Con la dovuta avvertenza che il nostro articolo non è volto a individuare nuove piste; non vogliamo discutere se Pacciani fosse o no colpevole, se il mostro fosse uno solo o fosse un gruppo organizzato, se dietro ai delitti del mostro ci sia la Rosa Rossa, come si è ipotizzato, o altre sette sataniche. Vogliamo analizzare la cosa dal punto di vista prettamente giuridico, evidenziando alcuni dati che nessuno finora ha abbastanza trattato.

Il processo Pacciani. Dal 1968 al 1985 vengono uccise otto coppie di giovani nelle campagne di Firenze. In 4 di questi duplici omicidi vengono prelevate delle parti di cadavere, seni e pube in particolare. Ricordiamoci questo particolare del pube, perché lo riprenderemo in seguito. La vera e propria caccia al mostro comincia dopo il terzo omicidio, quando si capisce che dietro ad essi c’è la stessa mano. Dopo errori giudiziari, e vicende varie, si arriva all’incriminazione di Pietro Pacciani nel 1994. Appare chiaro che Pacciani è colpevole, o perlomeno che è gravemente coinvolto in questi omicidi. Gli indizi infatti sono gravi, precisi e concordanti: in particolare lo inchiodano il ritrovamento di un bossolo di pistola nel suo giardino, inequivocabilmente proveniente dalla pistola del mostro (una beretta calibro 22); l’asta guidamolla della pistola del Mostro, inviata agli investigatori avvolta in un pezzo di panno identico a quello poi trovato in casa Pacciani; e soprattutto un portasapone e un blocco da disegno, di marca tedesca, che verrà riconosciuto come appartenente alla coppia tedesca uccisa dal mostro. C’era poi un biglietto trovato in casa sua, con scritto “coppia” e un numero di targa corrispondente a quello di una coppia uccisa. Le intercettazioni telefoniche ed ambientali poi fecero il resto, mostrando che Pacciani mentiva, celando agli investigatori diverse cose importanti. Eppure il processo fa acqua da tutte le parti. Tante cose, troppe, non quadrano in quel processo. Non quadra il movente, perché Pacciani – benché violento e benché in passato avesse già ucciso, per giunta con modalità che a tratti ricordano quelle di alcuni delitti - non sembra il ritratto del serial killer. Non quadrano alcuni particolari (ad esempio le perizie stabiliranno che l’uomo che ha sparato doveva essere alto almeno un metro e ottanta, mentre Pacciani è alto molto meno. Inoltre durante il processo alcuni dei suoi amici mentono palesemente per coprirlo, sembrando quasi colludere con lui. Perché mentono? In primo grado Pacciani verrà condannato. In secondo grado verrà assolto. L’impianto accusatorio, in effetti, era abbastanza fragile. Però proprio il giorno prima della sentenza di secondo grado, la procura di Firenze riesce a trovare nuovi testimoni (quattro) che inchiodano Pacciani e soprattutto riescono a spiegare il motivo di alcune incongruenze. Due di questi testimoni sono infatti complici di Pacciani e, autoaccusandosi, svelano che in realtà quei delitti erano commessi in gruppo. Ma la Corte di appello di Firenze decide di non sentire questi testimoni, e assolve Pacciani. La sentenza verrà annullata dalla Cassazione, ma nel frattempo Pacciani muore in circostanze poco chiare. Apparentemente muore di infarto, ma Giuttari, il commissario che segue le indagini per la procura di Firenze, sospetta un omicidio.

Il caso Narducci. Nel 2002 l’indagine sul mostro si riapre, ma a Perugia. Per capire come e perché si riapre però dobbiamo fare un passo indietro. Il 13 ottobre del 1985 viene trovato nel lago Trasimeno il corpo di un giovane medico perugino, Francesco Narducci. Il caso viene archiviato come un suicidio, anche se la moglie non crede a questa versione dei fatti. E sono in molti a non crederlo. Anzi, da subito alcuni giornali ipotizzano un coinvolgimento del Narducci nei fatti di Firenze. Nel 2002 la procura di Perugia, intercettando per caso alcune telefonate, sospetta che il medico Perugino sia stato assassinato e fa riesumare il cadavere. Il cadavere riesumato ha abiti diversi rispetto a quelli indossati dal cadavere nel 1985. Altri, numerosi e gravi indizi, nonché le testimonianze della gente che quel giorno era presente al ritrovamento, portano a ritenere che il cadavere ripescato allora non fosse quello di Narducci, e che solo in un secondo tempo sia stata riposta la salma del vero Narducci al posto giusto. Indagando sul caso, il PM di Perugia, Mignini, scopre che il giorno del ritrovamento le procedure per la tumulazione furono irregolari; che quel giorno sul molo convogliarono diverse autorità, tutte iscritte alla massoneria, come del resto era iscritto alla massoneria il padre del medico morto e il medico stesso. E si scopre che il Narducci era probabilmente coinvolto negli omicidi del mostro di Firenze. Anzi, forse era proprio lui che, in alcune occasioni, asportò le parti di cadavere. Le indagini portano ad ipotizzare una pluralità di mandanti coinvolti negli omicidi del mostro, che commissionavano questi omicidi per poi utilizzare le parti di cadavere per alcuni riti satanici. In particolare, il Lotti confessa che questi omicidi venivano pagati da un medico. E con un accertamento sulle finanza di Pacciani verranno trovati capitali per centinaia di milioni, di provenienza assolutamente inspiegabile. Vengono mandati 4 avvisi di garanzia a 4 persone, tra cui il farmacista di San Casciano Calamandrei, un medico e un avvocato, che sarebbero i mandanti dei delitti del mostro di Firenze. Mentre per occultamento di cadavere, sviamento di indagini e altri reati minori (che inevitabilmente andranno in prescrizione) vengono rinviate a giudizio il padre di Ugo Narducci, e i fratelli di Francesco; il questore di Perugia Francesco Trio, il colonnello dei carabinieri Di Carlo, l’ispettore Napoleoni, l’avvocato Fabio Dean e molti altri, quasi tutti iscritti alla stessa loggia massonica, la Bellucci di Perugia, e alcuni di essi, compreso il padre di Narducci, collegati addirittura alla P2. Appartengono alla P2 Narducci, il questore Trio, mentre l’avvocato Fabio Dean è il figlio dell’avvocato Dean, uno dei legali di Gelli.

Depistaggi e coperture eccellenti. In questa vicenda sono presenti ancora una volta i servizi segreti e i loro depistaggi, nonché tutte le mosse tipiche che vengono attuate quando occorre depistare. In pratica l’indagine conosce una prima fase, che arriva fino al processo di appello di Pacciani, in cui essa scorre senza problematiche particolari, tranne ovviamente quella tipica di ogni indagine, e cioè l’individuazione dei colpevoli. Ma appena si apre la pista dei mandanti si scatena un vero inferno. Anzitutto lo screditamento degli inquirenti, che vengono derisi, sminuiti; vengono continuamente sottolineati gli errori fatti da costoro (come se fosse semplice condurre un indagine del genere senza commetterne); la procura fiorentina viene spesso presentata dai giornali come una procura che vuole a tutti i costi incastrare degli innocenti; Giuttari viene presentato come uno che vuole farsi pubblicità; un pazzo che crede alla folle pista satanista; quando il commissario è vicino alla verità lo si isola, oppure si cerca di trasferirlo con una meritata promozione (che però metterebbe in crisi tutta l’inchiesta). Più volte giornali e televisioni annunceranno scoop fantastici tesi a demolire il lavoro di anni della procura di Firenze, e di Perugia. Alcuni giornalisti che ipotizzano il collegamento massoneria – delitti del mostro – sette sataniche vengono querelati anche se le querele verranno poi ritirate. Vengono fatte indagini parallele e non ufficiali di cui non vengono informati gli inquirenti. Il PM Mignini scopre che dopo l’ultimo delitto del mostro la polizia di Perugia aveva indagato su Narducci e sul mostro, e ciò risulta dai prospetti di lavoro, datati 10 settembre 1985. Ma di queste indagini non viene avvisata la procura di Firenze. Ma in compenso anche i carabinieri, per non essere da meno, fanno le loro indagini parallele di cui non informano gli inquirenti. Alcuni carabinieri confidano che anni prima avevano fatto un’irruzione nell’appartamento fiorentino del Narducci per trovare le parti di cadavere che il Narduci teneva nell’appartamento, ma che erano stati “preceduti”. Anche di questi fatti la procura di Firenze non viene informata. Queste indagini parallele erano coordinate a Perugia dall’ispettore Napoleoni, che pare agisse addirittura all’insaputa del suo diretto superiore Speroni (così scrive Licciardi nel suo libro). Su Narducci c’era un fascicolo da tempo, ma il fascicolo venne smarrito, e ritrovato dopo anni privo di varie parti. Così come scomparvero misteriosamente molti reperti che erano stato acquisiti durante le indagini, come la famosa pietra a forma di piramide trovata sulla scena di uno dei delitti. Non manca poi – stando alla ricostruzione di Giuttari nel suo libro - anche il procuratore capo di Firenze, Nannucci (che è sempre stato contrario all’indagine sui mandanti) che avvisa un indagato, il giornalista Mario Spezi, dell’imminente indagine; questo fatto verrà segnalato alla procura di Genova che però archivierà la posizione del procuratore. Infine, ci sono gli immancabili depistaggi dei servizi segreti deviati. Il Sisde aveva già dai tempi del terzo delitto preparato un dossier che ipotizzava che non fosse coinvolto un solo serial Killer, ma i componenti di una setta satanica che agivano in gruppo, e ciò appariva evidente da alcuni particolari della scena del delitto. Ma questo dossier – che porta la data del 1980 - non viene mai consegnato agli inquirenti di Firenze. Il dossier era firmato da Francesco Bruno, consulente del Sisde. In totale, sono tre gli studi commissionati dal Sisde che si persero misteriosamente per strada e non arrivarono mai sulle scrivanie degli inquirenti fiorentini. Guarda caso proprio quei dossier che ricostruivano la pista dei mandanti plurimi e delle messe nere. Ma qualche anno dopo Francesco Bruno, intervistato, sosterrà che a suo parere il serial Killer è un mostro isolato, ancora in libertà.

Morti sospette. Ci sono poi le solite morti sospette tipiche di tutte le grosse vicende giudiziarie italiane. Una vera strage, in realtà. O meglio, una strage nella strage. La prima morte sospetta è quella del medico Perugino trovato morto nel lago Trasimeno. Poi la morte di Pacciani per la quale la procura di Firenze apre un fascicolo per omicidio. E poi la solita mattanza di testimoni. Elisabetta Ciabiani, una ragazza di venti anni che aveva lavorato nell’albergo dove Narducci e la sua loggia massonica si riunivano e che aveva rivelato al suo psicologo, Maurizio Antonello (fondatore dell’Associazione per la ricerca e l’informazione delle sette) il nome di alcuni mandanti del mostro e aveva rivelato il coinvolgimento della Rosa Rossa nei delitti: Elisabetta verrà trovata uccisa a colpi di coltello, compresa una coltellata al pube, ma il caso venne archiviato come suicidio. Mentre lo psicologo Maurizio Antonello verrà trovato “suicidato”, impiccato al parapetto della sua casa di campagna. Renato Malatesta, marito di Antonietta Sperduto, l’amante di Pacciani, che viene trovato impiccato, ma con i piedi che toccano per terra; uno degli innumerevoli casi di suicidi in ginocchio, che non fanno certo l’onore delle nostre forze di polizia subito pronte ad archiviare il caso come suicidio nonostante l’evidenza dei fatti. Francesco Vinci e Angelo Vargiu, sospettati di essere tra i compagni di merende di Pacciani (il primo è anche amante di Milva Malatesta) trovati morti carbonizzati nell’auto. Anna Milva Mattei, anche lei bruciata in auto. Claudio Pitocchi, morto per un incidente di moto, che sbanda ed esce di strada all’improvviso, senza cause apparenti. Anche questa è una modalità che troviamo in tutte le vicende italiane in cui sono coinvolti servizi segreti e massoneria: Ustica, soprattutto, e poi nel caso Clementina Forleo, di cui ci siamo già occupati. Milva Malatesta e il suo figlio Mirko, anche loro trovati carbonizzati nell’auto; una fine curiosamente simile a quella che volevano far fare al perito del Moby Prince poche settimane fa. La stessa tecnica. Così come la tecnica dei suicidi in ginocchio è identica a quella dei morti di Ustica e di tutte le altre stragi che hanno insanguinato l’Italia. Tecniche identiche, che fanno ipotizzare una firma unica: quella dei servizi segreti deviati. Rolf Reineke, che aveva visto una delle coppiette uccise poche ore prima della loro morte, che muore di infarto nel 1983. Domenico, un fruttivendolo di Prato che scompare nel nulla nell’agosto del 1994 e venne considerato un caso di lupara bianca. E poi ce ne sono tanti altri. C’è il caso di tre prostitute, una suicidatasi, e due accoltellate, che avevano avuto rapporti a vario titolo con i compagni di merende, e chissà quanti altri di cui si non si saprà mai nulla. Un discorso a parte va fatto per Luciano Petrini. Consulente informatico, nel 1996 avvicinò una persona (anche lei testimone al processo) Gabriella Pasquali Carlizzi, dandogli alcune informazioni sul mostro e mostrando di sapere molto su questa vicenda; ma il 9 maggio fu ucciso nel suo bagno, colpito ripetutamente con un porta asciugamani a cui tolsero la guarnizione per renderla più tagliente. Nella casa non compaiono segni di scasso o effrazione. Conclusioni: omicidio gay. Nessuno prende in considerazione altre piste. Nessuno prende in considerazione – soprattutto - l’ipotesi più evidente: Petrini aveva svolto consulenza nel caso Ustica, sul suicidio del colonnello dell’aereonautica Mario Ferraro, quel Mario Ferraro che venne trovato impiccato al portasciugamani del bagno. Ma il fatto che sia stato ucciso – guarda caso – proprio con un portasciugamani, non induce a sospettare di nulla. Omicidio gay!?!?

Conclusioni. La verità sul mostro di Firenze non si saprà mai. Non si sapranno mai i nomi dei mandanti, perlomeno non di tutti. In realtà, in questa vicenda molte cose sono chiare, molto più chiare di quanto non sembri a prima vista. Leggendo attentamente i fatti e i documenti è possibile farsi un’idea della vicenda, e delle motivazioni che spingono alcune delle persone coinvolte. Ma non è mio intendimento fare ipotesi, smontare tesi o costruirle. Non mi interessa poi così tanto capire se Pacciani era il vero mostro o fu solo incastrato. Se Narducci era il mostro, o se erano altri. Se Pietro Toni, il procuratore che chiese l’assoluzione di Pacciani e definì“aria fritta” l’ipotesi dei mandanti sia in mala fede oppure se gli sia sfuggito un “leggerissimo” particolare: che una simile mattanza di testimoni e di occultamenti presuppone un’organizzazione dietro tutto questo. E che a fronte dei depistaggi, delle sparizioni di fascicoli, dei tentativi di insabbiamento, l’ipotesi del mandante isolato diventa fantascientifica, perché in tal caso si impone di presupporre che tutti gli investigatori che si sono occupati delle vicende del mostro siano impazziti o si siano messi d’accordo per fregare Pacciani e gli altri e che tutti i testimoni siano morti per delle coincidenze. Atteniamoci quindi ad un dato di fatto. Quando in un indagine importante compare il binomio massoneria – servizi segreti, questo binomio indica che sono coinvolti dei mandanti eccellenti, al di là di ogni immaginazione. Ancora una volta la massoneria deviata riesce a mostrare tutta la sua forza, riuscendo a tacitare ogni tipo di delitti, purché siano coinvolte persone a loro legate. Non solo colpi di stato, stragi e altro, ma addirittura delitti come quelli del Mostro di Firenze. Il che porta a concludere che anche i morti legati alla vicenda Mostro di Firenze, che non sono solo le sedici vittime ufficiali, ma anche tutte le altre (i testimoni soppressi brutalmente e gli omicidi non individuati ufficialmente) possono essere considerati una strage di stato. L’ennesima strage compiuta con la connivenza di pezzi dello stato, resa possibile sia dalle complicità ad alto livello, sia dall’ignoranza degli organi investigativi, dalla loro impreparazione riguardo al modus operandi e alla struttura delle logge massoniche deviate e in particolare delle sette sataniche. Ancora una volta viene in evidenza poi la totale inutilità delle norme giuridiche e processuali. Finché un PM che avvisa un indagato commetterà un reato minimo; finché l’occultamento di prove o di un fascicolo agli inquirenti, subirà un pena minima, destinata tra l’altro ad andare in prescrizione; finché l’operato dei servizi segreti rimarrà sempre impunito in nome del cosiddetto segreto di stato; finché il tempo massimo per le indagini preliminari, anche in reati così complessi, continueranno ad essere due anni; finché avremo questo sistema, insomma, la macchina giudiziaria sarà sempre paralizzata nel perseguimento di questo tipo di delitti, cioè i delitti che vedono coinvolti, a vario titolo, i colletti bianchi nel coprirsi a vicenda i reati da ciascuno di loro commessi. Finisco questo articolo riportando le parole di un mio amico di infanzia, ufficiale dei carabinieri di un paese della Toscana. Mi ha detto: “Certo Paolo che dietro ai delitti del mostro di Firenze ci sono alcune sette sataniche legate a logge deviate della massoneria. I fatti di Perugia parlano chiaro. Noi spesso sappiamo chi sono e cosa fanno certi personaggi. Ma abbiamo l’ordine di non indagare. Vedi… Un tempo, se toccavi il tasto mafia – politica e indagavi su questo filone, o scrivevi un pezzo di giornale, morivi. Oggi la politica ha capito che è inutile uccidere per questo, perché i magistrati si possono trasferire, i reati vanno in prescrizione… insomma ci sono altri mezzi per insabbiare un’inchiesta. Ma il tasto delle sette sataniche, e dei coinvolgimenti eccellenti in queste sette, non si può toccare, altrimenti si muore. Pensa che ogni anno, in Italia, spariscono migliaia di bambini. Oltre ai dati ufficiali della polizia di stato, ce ne sono molti altri, Rom, immigrati clandestini, ecc. che non compaiono nelle statistiche. E questi bambini finiscono nel circuito delle sette sataniche, che sono collegate spesso al circuito dei sadici e pedofili, che pagano cifre astronomiche per video ove i bambini muoiono veramente”. E mi ha anche detto i nomi di alcune persone coinvolte, tra l’altro chiaramente ricavabili dal fatto di essere proprietarie dei luoghi in cui si svolgevano questi riti. Questo mio amico non sapeva, all’epoca, che ero coinvolto anche io in vicende che riguardavano la massoneria deviata e raccontò queste cose con tranquillità, davanti alla mia fidanzata dell’epoca, mentre eravamo seduti in un bar. Tempo dopo, quando lo venne a sapere, e gli feci delle domande, negò di avermi mai dato quelle informazioni. Ma, lo ripeto, quello che importa non sono i nomi. Non è se Tizio o Caio sia coinvolto, e in che cosa sia coinvolto. Anche perché il singolo nome talvolta può essere il frutto di un errore, di un tentativo di screditare qualcuno. E francamente a me non è questo che fa paura. Ciò che fa paura è la vastità delle connivenze; il fatto che per delitti di questa gravità ed efferatezza ci possano essere coperture eccellenti e che la macchina della giustizia sia paralizzata. Il fatto che gli organi investigativi siano impreparati quando si affrontano vicende che sfiorano l’esoterismo e i servizi segreti deviati. Eppure la vicenda del Mostro di Firenze dovrebbe interessare tutti, non solo gli amanti dei gialli, dell’horror e dell’esoterismo. 18 vittime ufficiali che potevano essere nostri amici, nostri partner, o potevamo essere noi; decine di vittime nella mattanza dei testimoni e delle persone coinvolte; centinaia di famiglie inconsapevoli coinvolte nella vicenda, che escono distrutte, alcune perché vittime del mostro, altre perché sospettate di essere familiari di un mostro. Il vero mostro in questa vicenda, non è solo chi ha ucciso ma anche tutte le persone che hanno coperto la verità, che in virtù dei loro legami con la massoneria deviata o con pezzi deviati dello stato hanno coperto, colluso, e taciuto. Il vero mostro è la massoneria deviata, che come una piovra si è insinuata in tutti i punti vitali dello stato. Il mostro di Firenze è solo uno dei suoi tentacoli.

Bibliografia. Se molti in questi anni hanno cercato di nascondere la verità, è anche vero che, come dice un detto famoso, la verità non si può nascondere per sempre. Per chi vuole cercarla e capire segnaliamo due testi. Michele Giuttari, Il mostro anatomia di un indagine, BUR. Una cosa che mi colpisce leggendo il libro di Giuttari è che quando parla dei depistaggi e degli occultamenti vari non nomina mai la massoneria. Parla di un “partito avverso”. Anche se, leggendo, non è difficile intuire cosa sia questo partito avverso, non si capisce se la cosa sia voluta o casuale. Questi legami vengono descritti meglio nel libro: Luca Cardinalini, Pietro Licciardi, La strana morte del dottor Narducci, ed. Deriveapprodi. L'idea del titolo non è nostra, ma di Piero Licciardi; è lui che definisce il Mostro di Firenze “una piovra che si insinua nello Stato".

LA MALEDIZIONE DEL DELITTO DI PERUGIA.

L'ex vicecomandante della polizia penitenziaria di Perugia è accusato di violenza sessuale aggravata e concussione nei confronti di un'ex detenuta del carcere di Capanne, scrive “Virgilio”. La donna lo ha denunciato dopo aver letto le parole di Amanda Knox. L'americana, assolta in secondo grado per l'omicidio di Meredith Kercher, aveva scritto sui suoi diari, secondo il The Sun, che la sua guardia carceraria "era fissata col sesso". "Di notte mi convocava al terzo piano in un ufficio vuoto, per una chiacchierata. Quando gli ripetevo che dell'omicidio di Meredith Kercher non ne sapevo nulla cercava di parlarmi di lei o di portarmi verso l'argomento sesso", aveva detto Amanda. Il tutto anche se i legali difensori dell'uomo hanno sempre negato qualsiasi evento di questo genere. L'uomo, che da sempre respinge ogni accusa, comparirà martedì davanti al gip Lidia Bruti. Secondo l'accusa, come riporta Il Messsaggero, "nell'assenza temporanea del personale penitenziario in servizio presso il primo piano della sezione detentiva e facendosi in plurime occasioni aprire il cancello della cella, costringeva o comunque induceva la stessa, in stato di soggezione psicologica derivante dallo stato di depressione sofferto a seguito della carcerazione, dall'assunzione di psicofarmaci in dosi rilevanti e anche superiori a quanto prescritto, e dal ruolo rivestito dalla guardia, a compiere atti sessuali anche ripetendole spesso che “si doveva comportare bene". Amanda Knox è stata, diverse volte, vittima di violenza sessuale da parte dello staff e dei reclusi, mentre si trovava in carcere. La studentessa americana racconta nel suo libro, che un dottore ha esaminato le sue parti intime, dopo essere stata arrestata, mentre un altro signore le ha riferito, erroneamente, che era risultata positiva al test HIV. Una guardia del carcere l’ha tormentata in diverse occasioni, chiedendole se voleva dormire con lui e aggiungendo: “quali posizioni ti piacciono di più?” Amanda Knox, 25, ha passato quattro anni in carcere, per l’accusa dell’omicidio della sua compagna di stanza, la studentessa inglese Meredith Kercher. Dopo essere stata rilasciata nel 2011, Knox ha presentato la sua autobiografia, Waiting to Be Heard, in cui racconta gli eventi, dal suo punto di vista. Come riporta il Daily News, nel libro, lei dichiara l’umiliazione sessuale, che ha dovuto sopportare. Un dottore le ha ordinato di spogliarsi, per esaminare i suoi genitali con le mani, mentre la polizia stava a  guardare. Lei scrive: “lui esaminò e fotografò le mie parti intime”. Il sospetto cadde su Knox e Sollecito, quando Kercher, 21, fu trovata morta nella casa, che condivideva con Amanda, mezza nuda e pugnalata al collo. Ciò incitò a pensare che la ragazza era stata vittima di un gioco sessuale, andato male. Dopo essere stata accusata di omicidio e dopo aver avuto la sentenza di 26 anni in carcere, Knox afferma di aver avuto particolari attenzioni da  Raffaele Argiro, un custode. Lei scrive: “lui mi diceva, “ho sentito dire che ti piace fare sesso. Come ti piace farlo? Quali sono le tue posizioni preferite? Vorresti fare sesso con me? No? sono troppo vecchio per te?” Inoltre, Knox fu anche molestata da reclusi – una compagna di cella bisessuale la baciò sulle labbra e cercò di aver un rapporto sessuale con lei. La ragazza americana parla anche del rapporto con Kercher: “siamo diventate amiche intime, in poco tempo. Io vedevo in Meredith, la mia confidente. Lei mi trattava con rispetto e senso di umorismo”.

Violenza in carcere, atti sessuali subiti mentre era dietro le sbarre. A denunciarlo una vigilessa di Milano che ha accusato la guardia penitenziaria che faceva parte della scorta di Amanda Knox. , scrive “Il Messaggero”. Comparirà infatti davanti al giudice Lidia Brutti l'ex vicecomandante della polizia penitenziaria di Perugia, Raffaele Argirò, accusato di violenza sessuale con l'aggravante di aver agito su persona sottoposta a limitazioni della libertà personale e di concussione da un'ex detenuta del carcere perugino di Capanne. Di lui, che si è sempre detto innocente, aveva parlato anche Amanda Knox, all'indomani dell'assoluzione di secondo grado. «Era fissato col sesso e voleva sapere con chi avesse avuto rapporti la giovane americana e cosa le piacesse fare sotto le lenzuola», aveva scritto il tabloid inglese Sun riportando passaggi dei diari dell'americana accusata di aver ucciso la coinquilina inglese Meredith Kercher insieme all'ex fidanzato Raffaele Sollecito. «Di notte - aveva detto Amanda - mi convocava al terzo piano in un ufficio vuoto, per una chiacchierata. Quando gli ripetevo che dell'omicidio di Meredith Kercher non ne sapevo nulla cercava di parlarmi di lei o di portarmi verso l'argomento sesso». Argirò, che faceva sempre parte della scorta della Knox per le udienze di Perugia, annunciò che avrebbe valutato se denunciare la giovane per queste frasi che nell'ottobre del 2011 bollò come menzognere. Adesso però, davanti al giudice ci è finito per la denuncia di una ex detenuta del carcere perugino, che ha detto di aver trovato la forza di raccontare tutto proprio dopo aver sentito le parole di Amanda Knox. Si tratta di una vigilessa di Milano detenuta a Capanne tra dicembre 2006 e gennaio 2007. La donna denuncia i fatti con anni di ritardo: «Nel 2011 erano usciti articoli su alcune rivelazioni fatte da Amanda Knox - aveva raccontato - la quale però non ha mai detto di aver avuto rapporti sessuali con lui. Così mi sono incavolata, ho pensato “Cavolo non è possibile, lo devo denunciare, adesso c'è un'altra persona che ha parlato”». La donna, il due ottobre dello scorso anno, in sede di incidente probatorio davanti al gup Luca Semeraro aveva raccontato di aver avuto «una decina di rapporti sessuali nell'arco di un mese circa» con l'ispettore (ora in pensione): «palpeggiamenti», «rapporti completi non protetti», «richieste di mostrare le parti intime». Secondo la ricostruzione dell'accusa, sostenuta dal pubblico ministero Massimo Casucci, l'ex guardia Raffaele Argirò, «nell'assenza temporanea del personale penitenziario in servizio presso il primo piano della sezione detentiva e facendosi in plurime occasioni aprire il cancello della cella, costringeva o comunque induceva la stessa, in stato di soggezione psicologica derivante dallo stato di depressione sofferto a seguito della carcerazione, dall'assunzione di psicofarmaci in dosi rilevanti e anche superiori a quanto prescritto, e dal ruolo rivestito dall'Argirò, che l'aveva indotta a ritenere che un suo rifiuto avrebbe potuto determinare effetti pregiudizievoli sulla sua condizione di indagata in stato di detenzione e di madre di una bambina di sette anni, a compiere atti sessuali anche ripetendole spesso che “si doveva comportare bene”». Lui invece ha sempre detto di «non averla mai sfiorata neanche con un dito. A me - aveva spiegato Argirò difeso dagli avvocati Daniela Paccoi e Guido Rondoni - come agli altri agenti uomini, non è permesso entrare nel braccio in cui sono detenute le donne, senza essere accompagnati da una collega di sesso femminile».

La Procura è andata dritta, scrive Erika Pontini su “La Nazione”. E ritiene che sussistano tutti gli elementi d’accusa per mandare a giudizio l’ex ispettore della polizia penitenziaria del carcere perugino di Capanne, Raffaele Argirò, già vicecomandante del Reparto (e in questa veste per molto tempo guardia di Amanda Knox) imputato di violenza sessuale con l’aggravante di aver agito su persona sottoposta a limitazioni della libertà personale e di concussione nei confronti di una vigilessa di Milano, arrestata ma poi scarcerata e assolta. Il pubblico ministero Massimi Casucci ha infatti chiesto il rinvio a giudizio dell’uomo e il giudice per l’udienza preliminare, Lidia Brutti ha fissato per il 19 novembre l’udienza. La Procura ha inoltre depositato, come indagini integrative, gli accertamenti finanziari (conti correnti, finanziamenti, reddito) sul conto della vigilessa forse proprio nell’ottica di verificare la sua attendibilità in riferimento alle pesanti accuse contro l’ex ispettore e al suo bisogno di denaro, come paventato dalla difesa di Argirò nel corso dell’incidente probatorio. I fatti al centro dell’inchiesta, svolta dalla polizia della sezione di polizia giudiziaria di Perugia, sarebbero avvenuti nella sezione femminile della Casa circondariale tra dicembre 2006 e gennaio 2007. A denunciare Argirò era stata la stessa vittima degli abusi dopo il «caso-Amanda». «Quando ho letto il nome di Argirò quale autore delle molestie in danno di Amanda ho pensato che era arrivato il momento giusto per riferire quanto accadutomi... Ho il desiderio che una persona che approfitta di situazioni di soggezione psicologica non possa farlo più», disse, tra l’altro, l’ex detenuta ma cinque anni dopo i fatti. Nel corso delle indagini la polizia ha sentito come persone informate dei fatti anche le agenti della sezione femminile: alcune avrebbero confermato delle continue visite di Argirò nel braccio e di essersi allontanate per qualche minuto. Agli atti anche una conversazione telefonica registrata tra la vigilessa e l’allora ispettore. L’imputato è difeso dagli avvocati Daniela Paccoi e Guido Rondoni che sono pronti a dare battaglia. L’ex ispettore infatti si è sempre professato innocente. Dall'America intanto la Knox insiste nelle accuse contro la guardia carceraria che non ha mai denunciato. La giovane, di nuovo sotto processo davanti alla Corte d’assise d’appello di Firenze per l’omicidio di Meredith Kercher, insieme a Raffaele Sollecito, ha scritto anche nel suo ‘Waiting to be Heard’ di essere stata molestata proprio da Argirò che, sostiene la Knox, le faceva domande esplicite sulle sue abitudini sessuali.

Meredith, a Perugia la casa del delitto è senza pace: 8 intossicati per monossido. Nella casa, rimasta a lungo vuota dopo il delitto della giovane studentessa inglese, gli occupanti, tra cui due neonati, sono stati trasportati in ospedale dopo aver utilizzato un braciere per cucinare carne: avevano cominciato ad accusare malori e vertigini, scrive “La Repubblica”. Non c'è pace per la villetta di via della Pergola, a Perugia, dove nella notte tra il primo e il 2 novembre del 2007 venne uccisa Meredith Kercher: nella casa, rimasta a lungo vuota dopo il delitto della giovane studentessa inglese, la scorsa notte otto persone, tutte di origini marocchine, fra le quali due neonati, sono rimaste intossicate dal monossido di carbonio. Le loro condizioni - si è appreso in ospedale - non destano preoccupazione. Solo una coincidenza, naturalmente, in un periodo in cui - a causa dell'arrivo del freddo e, spesso, di stufe difettose - in Umbria si contano diversi intossicati da monossido: solo ieri erano stati soccorsi, a San Giustino, sette componenti di un gruppo musicale e, a Marsciano, una intera famiglia di origini marocchine, genitori e due figli piccoli. La villetta alle porte del centro storico, in cui hanno vissuto Meredith Kercher e Amanda Knox, e che gli italiani hanno imparato a conoscere per le tante ricostruzioni che ne sono state fatte nelle trasmissioni televisive dedicate all'assassinio della giovane americana, torna così a far parlare di sé. Il giovane che ha preso in affitto i due appartamenti, un marocchino di 24 anni, avrebbe riferito che, dopo aver cucinato della carne utilizzando un braciere, sia lui che gli altri occupanti hanno accusato cefalea e vertigini. Durante la notte sono state prestate le prime cure a tre adulti, che occupavano il piano terra del piccolo casale. Stamani l'ospedale ha quindi preso in cura due mamme e i rispettivi figli, di un anno e un mese di età, oltre ad un uomo di 23 anni. A metà mattina due dei ricoverati sono stati dimessi. I due neonati sono ricoverati in Pediatria e gli altri quattro intossicati sono stati trasferiti dal pronto soccorso in altrettante diverse strutture di medicina. La villetta era stata ristrutturata dopo il dissequestro da parte della polizia che svolse le indagini sul delitto. Negli anni scorsi l'agente immobiliare incaricato di affittare l'immobile aveva spiegato che alcune persone si erano tirate indietro una volta venute a conoscenza di quale fosse la casa. La proprietaria aveva dovuto aspettare due anni, fino all'ottobre del 2009, per definire un nuovo contratto d'affitto con tre giovani studenti stranieri, scaduto il quale, quelle stanze erano di nuovo rimaste a lungo vuote. "L'ho scelta perché è un posto tranquillo e le camere sono belle per studiare", aveva detto ai giornalisti Christ, ventiduenne originario del Congo che per primo era tornato ad occupare la stanza - rimessa a nuovo - di Meredith.

Nei guai uno dei pm che rappresentavano l'accusa al processo di primo grado per la morte di Meredith Kercher. Manuela Comodi sarà giudicata alla Sezione disciplinare del Csm per il filmato computerizzato usato per ricostruire la scena del delitto. L'accusa è quella di aver liquidato il compenso per l'incarico alla società Nventa Id, (un' "ingente somma", pari a 182.740 euro), senza esplicitare nel decreto di pagamento le motivazioni e i criteri adottati. E di aver così provocato un "danno ingiusto" all'Erario. L'incarico venne conferito da Comodi e dall'altro pm titolare delle indagini, Giuliano Mignini, che autorizzarono insieme un preventivo di spesa pari nel massimo a 180mila euro, estendendo poi l'incarico alla realizzazione di una data base contenente gli atti del procedimento penale. Ma fu la sola Comodi a emettere il decreto di liquidazione con cui - secondo la procura generale della Cassazione - recepì "acriticamente e per intero" la fattura che era stata presentata dalla società, "senza motivare alcunché sui parametri di riferimento indicati" dalla normativa per la determinazione dell'importo e "senza nemmeno procedere, pur a fronte della cospicua entità del denaro corrisposta, alla distinzione tra le somme da imputare alla ricostruzione della scena del delitto e quella da ricollegare alla creazione del data base". Così il magistrato non solo ha "eluso" la normativa in questione, ma ha arrecato, "in conseguenza del significativo importo liquidato irregolarmente - sottolinea l'atto di incolpazione - un indebito vantaggio alla Nventa Id, con correlato danno ingiusto all'Erario che il 30 giugno del 2011 ha anticipato l'ingente somma". Nel processo disciplinare Comodi avrà un difensore di eccezione: l'ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, da anni ormai consigliere in Cassazione. In particolare, il sostituto procuratore Manuela Comodi dovrà rendere conto al Csm di una spesa di 182.740 euro, di cui oltre 30.000 per l’Iva liquidata alla società ‘Nventa Id Srl’ e per una ricostruzione animata in 4D dell’ambientazione della scena del crimine. Secondo quanto contestato al pm, «la liquidazione veniva disposta con un visto a margine della fattura apposto tramite un timbro recante la formula di stile asserente la ritenuta regolarità della fornitura o congruenza dei prezzi, per altro interamente anticipati dall’erario il 30 giugno 2012». Secondo l’accusa mossa al magistrato sarebbe stata «omessa la motivazione del decreto di pagamento e della conseguente mancata applicazione dei criteri e tabelle all’uopo predisposti per la corretta anticipazione della somma da liquidare». Secondo la procura generale della Cassazione, l’episodio avrebbe arrecato un danno ingiusto all’erario e ilo stesso magistrato, questa la contestazione, avrebbe recepito  «acriticamente e per intero», «senza nemmeno procedere , pur a fronte della cospicua entità del denaro corrisposta, alla distinzione tra le somme da imputare alla ricostruzione della scena del delitto e quella da ricollegare alla creazione del data base».

«Sento una persecuzione nei miei riguardi, senza alcun senso logico». Raffaele Sollecito prende la parola al nuovo processo d'appello per la morte di Meredith Kercher. È arrivato a Firenze, come aveva annunciato, per dire la sua verità davanti ai giudici: «È stata costruita, con prove e testimoni, una realtà che non esiste. Ancora oggi dopo 6 anni vengo ad ascoltare cose ridicole» dice in aula. «Sono qui - continua - per cercare di farmi conoscere e farvi capire la realtà di questa vicenda. Ho rispetto per voi giudici, vi chiedo di guardare la realtà e il grande sbaglio che è stato fatto. Vorrei per me la possibilità di una vita come voi. Mi hanno descritto come un assassino spietato, non sono niente di tutto questo». Sollecito, a tratti commosso, quando racconta di non avere più «una vita normale», ripercorre tutto da principio: «A Perugia nel novembre 2007 stavo per laurearmi in informatica. Mancava una settimana alla discussione della tesi. Avevo conosciuto Amanda, il mio primo vero amore. Vivevamo una vita spensierata, isolata da tutti: la nostra favola. Adesso mi sento in colpa per non aver preso sul serio questa situazione. Sono stato arrestato per l'impronta di una scarpa, che solo più tardi si è scoperto che era di Rudy Guede. Un coltellino serramanico indicato come arma del delitto che poi anche questo è stato smentito. Non mi è mai piaciuto l'alcool e non andavo alle feste, anche se mi sono fatto qualche spinello, questo non ha cambiato la mia personalità».

Superaccusatori. Curriculum dei pm sconfitti: Mignini punito, la Comodi sconfessata. Mignini punito per abuso d'ufficio: "Non ha senso del limite". La Comodi bacchettata quando indagò il cardinal Giordano, scrive Andrea Scaglia su “Libero Quotidiano”. Ora, tanto per chiarire: non è che qui si voglia imbastire una generica accusa alla casta dei magistrati, né chi scrive è fra quelli che immaginano una confraternita di toghe complottarde che sempre trama nell’ombra.  E però, insomma, destano più d’una perplessità le dichiarazioni dei pm di Perugia. Con il sostituto procuratore Giuliano Mignini che alle telecamere denuncia, a proposito del processo per l’omicidio di Meredith Kircher, «una pressione mediatica inaccettabile» - e chissà se si riferisce a chi per anni ha dipinto Amanda Knox come una sorta di mantide manipolatrice, eventualmente per informazioni il pm può chiedere agli imbecilli che l’altra sera gridavano “vergogna” in piazza. E ancora Mignini, riguardo l’assoluzione dei due imputati, così commenta: «Purtroppo una decisione quasi annunciata» - annunciata più che altro dal fatto che, in aula, le ricostruzioni dell’accusa sono state smontate pezzo per pezzo. E forse non  si rende conto che, così facendo, insinua il dubbio che  la Corte abbia sentenziato facendosi condizionare da elementi diversi dal diritto, di fatto disponendo la scarcerazione di due assassini - che invece sono stati dichiarati innocenti da un tribunale dello Stato. E poi, comunque: si grida allo scandalo perché troppo spesso ci si permette di criticare una sentenza da pubblici pulpiti, e poi sono proprio i magistrati a farlo a telecamere spiegate: pure l’altro inquirente titolare dell’inchiesta, Manuela Comodi,   ha dichiarato che «è una sentenza che non fa giustizia». No, perché allora uno s’informa.  Cerca di ricostruire, non come e quanto i giudici fanno con la vita passata degli imputati ma insomma,  giornalisticamente  scavando.  Ed ecco: per quanto riguarda la dottoressa Comodi, peraltro nota anche fra gli avvocati per serietà e preparazione - e viene qui rimarcato senz’alcuna ironia -, ecco, la dottoressa Comodi condusse in un passato nemmeno troppo lontano un’altra inchiesta clamorosa, quand’era in servizio al tribunale lucano di Lagonegro. Si trattava  dell’indagine che mise sotto accusa per usura fra gli altri anche il cardinale di Napoli Michele Giordano.  Il quale nel dicembre del 2000 - quando la Comodi era da poco stata trasferita - venne assolto in udienza preliminare. Nelle motivazioni, il gup sottolineò «il magma di diverse rappresentazioni» emerse dall’inchiesta stessa, concludendo che «gli elementi indiziari non assurgono a dignità di prova in quanto difettano in essi i necessari requisiti della gravità, concordanza e precisione». C’è da dire che la Comodi ha cominciato ad occuparsi dell’inchiesta sul delitto di Meredith nel maggio del 2008, sette mesi dopo l’omicidio, quand’ormai mancava poco alla chiusura dell’indagine. Tutta l’inchiesta preliminare è stata invece coordinata dal sostituto Mignini. Il quale  aveva poi chiesto d’essere affiancato da un collega proprio poiché impegnato in un’altra indagine clamorosa. Quella sul decesso di Francesco Narducci, trovato morto annegato nell’ottobre del 1985 nel Lago Trasimeno. E niente, questa faccenda - presa in carico per l’appunto dalla Procura di Perugia - venne collegata ai delitti del mostro di Firenze, e si parlò delle onnipresenti logge massoniche e vennero indagati avvocati e magistrati e giornalisti, e per la verità tutto pare finito in niente, con archiviazioni varie e non luoghi a procedere. E però, d’altro canto, proprio Giuliano Mignini e il poliziotto-scrittore Michele Giuttari - che in qualità di capo del Gides, il Gruppo investigativo delitti seriali, conduceva le indagini di Firenze e Perugia sul maniaco delle coppiette e sui mandanti - Magnini e Giuttari, dicevamo, furono messi sotto accusa per abuso d’ufficio, in sostanza accusati d’aver svolto accertamenti illeciti, arresti compresi. E vennero processati, e poi nel gennaio del 2010 condannati in primo grado: un anno e sei mesi a Giuttari, un anno e quattro mesi a Mignini - pene sospese con la condizionale. E per quanto riguarda Mignini, così recitava la sentenza:  «La critica al modo di procedere è, in definitiva, di avere costantemente dimostrato nei suoi atti una mancanza di adeguata ponderazione e di senso del limite». E ancora: «L’azione penale è obbligatoria, ma ciò non significa che il pm debba qualificare in termini di illecito qualsiasi minimo spunto che consenta una vaga lettura in chiave accusatoria». Chissà se un eventuale ribaltamento del verdetto in Appello farà loro gridare allo scandalo. E comunque, intendiamoci, non è nemmeno che un errore professionale debba per forza segnare per sempre la carriera d’un magistrato - anche se “l’errore” di un pm può anche significare la galera per un innocente. E in ordine all’annoso dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati - oggetto d’un disatteso referendum voluto dai soliti Radicali, rimasti unici e isolati a combattere per questioni di giustizia al di là delle logiche di schieramento - ecco, per questo si rimanda ad altri articoli. Per quanto ci riguarda, anche e soprattutto dopo una sentenza d’assoluzione, si vorrebbe dai pm proprio un po’ di «senso del limite». No, che non è neanche chiedere troppo.

PERUGIA: GLI SCANDALI; LA STRAGE….

Un uomo è entrato stamane negli uffici della Regione Umbria e, dopo aver gridato "mi avete rovinato", ha ucciso una dirigente ed un’impiegata e si è tolto la vita. Un eccidio annunciato, dopo i suicidi (tentati o compiuti) da parte di cittadini che ritenevano di essere vessati da Equitalia od abbandonati dalle istituzioni. L’uomo si chiamava Andrea Zampi, di 43 anni, e le due vittime sono Daniela Crispolti, 46 anni di Todi, e Margherita Peccati, 61 anni di Umbertide. Sembra che, nei giorni scorsi, la Regione gli avesse respinto la richiesta di accreditamento per carenza dei requisiti, che gli avrebbe permesso l’accesso ad un finanziamento ammontante ad un centinaio di migliaia di euro. Una somma misera se si considerano le ‘chiacchiere’ e gli ‘scandali’ che riportano i giornali locali. Come le “crepe nel mito dell’Umbria, regione verde per geomorfologia e rossa per la monocromia politica dei suoi amministratori”, di cui racconta Blitz Quotidiano  accennando ad una “gestione clientelare e un arcipelago di piccoli scandali locali”. Un ciclone sta per abbattersi sulla quieta Umbria, che insieme all’Emilia Romagna è una “regione rossa” spesso portata ad esempio come modello di buon governo. Conti in regola, 350 milioni di euro di cassa generati ogni anno, sanità in attivo che offre un servizio di buon livello. Ma i tagli decisi dal governo di Roma rischiano di rompere gli equilibri solidi solo in apparenza di una regione amministrata per 60 anni dallo stesso partito, il Pci-Pds-Ds-Pd. Nel 2011 l’impatto sui conti umbri è stato di 245 milioni in meno. Nel 2012 il bilancio regionale dovrà fare a meno di 305 milioni, nel 2013 di 330 milioni, nel 2014 di 375 milioni. In totale fanno 1,2 miliardi in meno in quattro anni per una spesa che nel 2011 è stata di 2,1 miliardi. Roba da far saltare il coperchio alla pentola della spesa pubblica, che finora ha contribuito notevolmente a consolidare il potere “rosso” che ha governato su Perugia e Terni dal dopoguerra ad oggi. Come spiega al Sole 24 Ore Francesco Bistoni, rettore uscente della settecentenaria Università perugina: “Da una parte c’erano i comunisti, che avevano in mano tutte le leve dell’amministrazione; dall’altra i democristiani, cui spettavano l’Università e le banche. Al di là delle lotte di facciata, il sistema di potere era fondato su una diarchia allargata alla chiesa e alla massoneria”. Ora che gli ex comunisti e parte degli ex democristiani si sono fusi nel Pd, se gratti sotto lo strato rassicurante del monocolore trovi le sfumature cromatiche delle correnti. Che agitano lotte intestine fra ex Ds che rivogliono l’egemonia ed ex Margherita che non ci stanno, come Giampiero Bocci che, dopo essere stato battuto alle primarie, non nasconde i contrasti con Catiuscia Marini, la bersaniana presidente di Regione succeduta nel 2010 alla dalemiana Maria Rita Lorenzetti. Scontro che ai tempi del Pci rimaneva nelle segrete stanze del partito ma che adesso viene portato in piazza, sui giornali e sulle tv locali. Litigano ex Ds ed ex Margherita, litigano anche gli ex Ds fra di loro: la Marini e la Lorenzetti, per esempio. E d’altra parte per placare le polemiche ci saranno, dopo i tagli del governo, sempre meno poltrone, posti di lavoro e appalti da distribuire. La mancanza di fondi per le clientele è un vero pericolo per il sistema di potere che ha retto l’Umbria negli ultimi 60 anni. Poi c’è anche la lenta erosione dei consensi alla sinistra. La stessa Marini nella sua Todi dopo essere stata sindaco dal 1998 al 2007 ha posto le premesse per una storica vittoria della destra. Poi ha vinto le regionali del 2010 col 57%, dal 63% che le portava in dote la Lorenzetti. Fiammetta Modena, candidata del Pdl sconfitta dalla Marini, dice al Sole 24 Ore che un apparato pubblico sempre più pesante non può reggere con la crisi è i tagli. E se il Pd, che sta riorganizzando a fatica la sanità locale, dovesse trovarsi costretto a sforbiciare gli impiegati regionali, potrebbe rischiare seriamente le prossime elezioni. Quello che la Modena non dice è che il Pdl erediterebbe gli stessi problemi senza avere la stessa base sociale.

Dal “sesso rosso” che imperversa dalle parti di Orfeo Goracci,”zar” di Gubbio e sindaco della cittadina medievale targato Rifondazione Comunista all’assessore regionale all’agricoltura Fernanda Cecchini, che con i fondi di un bando del Programma di sviluppo rurale varato dal suo stesso assessorato ha finanziato con 83 mila euro a fondo perduto la ristrutturazione dell’abitazione dove vive la sorella. Stessa cosa, con 200 mila euro, ha fatto il sindaco democratico di Città di Castello, successore peraltro della stessa Cecchini.

“La logica era chiara: o eri donna, e cedevi alle avances del sindaco Goracci, o eri uomo e avevi agganci politici o di amicizia con Goracci o con persone riconducibili al suo gruppo, oppure eri fuori dai giochi”. Questa la dichiarazione al Messaggero di una donna vigile urbano di Gubbio. La donna è stata illegittimamente esclusa dalle stabilizzazioni dei contratti, che ora sono a tempo determinato, perché esterna alla presunta associazione a delinquere promossa dall’ex sindaco di Gubbio Orfeo Goracci. La vigilessa ha detto che alla richiesta di chiarimenti sulla mancata stabilizzazione l’ex sindaco le ha risposto: “Qui decido io, lei per me non entra”. Anche un’altra vigilessa di Gubbio a dichiarato di essere stata esclusa dalla stabilizzazione perché ha rifiutato le avances sessuali di Goracci, che in un’occasione l’avrebbe “attirata a sé, abbracciandola per le spalle e cercando di baciarla sulle labbra”. La donna ha detto di essersi “ritratta ed essere riuscita ad andarsene dall’ufficio”. Ad un secondo tentativo di Goracci la donna gli avrebbe detto: “ancora una volta di piantarla, ricordandogli che aveva una moglie e una figlia”.

Avances sessuali che sarebbero proseguite fino a poco prima del concorso per diventare agente di polizia municipale, secondo l’accusa organizzato per “sistemare la coordinatrice della segreteria di Rifondazione comunista legata al gruppo del sindaco”, mentre la donna che ha respinto Goracci sarebbe stata “penalizzata ingiustamente nella prova orale e nella valutazione dei titoli e danneggiata per avere cantato in chiesa con il colletto azzurro della camicia della divisa (da vigile urbano) che sporgeva dall’abito da chiesa”. La vigilessa ha così ”cominciato a dar credito alle voci insistenti che indicavano molte delle donne “sistemate” all’interno dell’Amministrazione come amanti (o ex amanti) del Goracci)”.

Oppure la vicenda delle ‘tangenti ENAC’ in cui Catiuscia Marini, presidente della Regione, è menzionata ma non indagata nell’inchiesta anche se, su “un foglietto sequestrato a Viscardo Paganelli, proprietario della Rotkopf aviation arrestato per corruzione, c’è scritto “Marini 20 mila”. Sembra accertato che una parte della somma sia finita come contributo per Umbria Jazz, ma non è che la cosa appaia così chiara e trasparente come vorremmo noi contribuenti. Per non parlare dello scandalo che coinvolge l’ex presidente “Maria Rita Lorenzetti, indagata insieme ai due assessori della sua giunta Maurizio Rosi e Vincenzo Riommi nell’inchiesta “sanitopoli”: i pm li accusano di assunzioni sospette alla Asl di Foligno, contratti di lavoro pilotati, distruzione di atti relativi a un’operazione che costò un rene a un paziente“. Oppure “l’ex vicepresidente Carlo Liviantoni, indagato per Sanitopoli, così come il consigliere regionale del Pd Luca Barberini. Il presidente del Consiglio regionale Eros Brega è indagato per peculato, come ex responsabile dell’associazione “Eventi Valentiniani” organizzatrice della festa di San Valentino, patrono di Terni. Dai conti della festa mancano all’appello 200 mila euro.” “Nell’informativa dei Carabinieri ci sono decine di telefonate che si riferiscono alla pressioni per far ottenere il posto alla «raccomandata» di turno. Tanto che gli indagati nelle intercettazioni le chiamano «marchette” (Terni Magazine). Il tutto condito con l’allegra partecipazione di dirigenti regionali e sanitari, impiegati a vario titolo e "raccomandati" in lista d’attesa, dilapidando centinaia di migliaia di euro. Andrea Zampi ne chiedeva molti di meno e, per ora, non sappiamo quanto ne avesse diritto o meno: sarà, si spera, un’indagine della Guardia di Finanza a chiarirci se a monte del gesto esasperato ci fossero anche delle irregolarità o delle pressioni indebite da parte delle due impiegate morte o da chi le aveva precedute, dando adito ad aspettative e speranze disattese in un uomo che, su Radio Capital, Vladimiro Boccali, sindaco di Perugia, ha definito "matto". Un uomo con "problemi psichici" – secondo le affermazioni del sindaco – che però era in possesso di una pistola calibro 21, due impiegate uccise dell’ufficio dell’assessorato alla Formazione che sono un fatto atroce di per sè, le vergognose notizie che riportano i giornali umbri sui loro politici e tante malversazioni. Una strage annunciata, come non pensarlo?

Lorenzetti: "Quello studente va promosso" e il raccomandato prese 30 in patologia. Perugia, così l'ex governatrice segnalava al rettore i suoi pupilli. Nelle telefonate intercettate usava come tramite una docente (già suo assessore), scrive Franca Selvatici su “La Repubblica”. "Senti pisché, ti devo chiedere una cortesia. Tu una tale Romani di patologia generale la conosci?". "Luigina Romani? L'assistente del rettore? Come no, certo, perché, che c'è?". È il 3 settembre 2012. Maria Rita Lorenzetti, ex presidente Pd della Regione Umbria e allora presidente di Italferr, ora agli arresti per associazione a delinquere e corruzione nell'inchiesta sui lavori del passante Tav di Firenze, chiama la professoressa Gaia Grossi, ordinaria di Chimica generale all'università di Perugia e suo ex assessore alle Politiche sociali alla Regione Umbria. Comincia così una serrata serie di contatti telefonici per raccomandare uno studente di Odontoiatria che - spiega Lorenzetti - ha urgenza di aprire uno studio a Terni ma teme che uno studente più danaroso di lui arrivi prima sul mercato. È il padre del giovane a rivolgersi alla ex governatrice dell'Umbria: il ragazzo deve superare entro il mese l'esame di patologia generale. E lei si prodiga. I carabinieri del Ros di Firenze registrano. La professoressa Grossi afferra al volo la richiesta: "Ho capito, ha bisogno di non essere fermato ingiustamente, diciamo così, per qualche finezza accademica". "Ecco ecco, brava, hai capito perfettamente, Gaia mia", le fa eco la presidente Lorenzetti: "Noi siamo concrete e pratiche senza tante seghe. Insomma, questa è l'ansia di chi dice: "Io non è che sono figlio di papà, sono uno normale che però sto più avanti di quest'altro, allora vorrei arrivare prima"". Il 6 settembre la professoressa Grossi annuncia alla amica Maria Rita di aver parlato con il rettore, il professor Francesco Bistoni, ordinario di microbiologia. "Lo vedo domani pomeriggio perché queste cose è meglio farle di persona, comunque si è prosternato perché gli ho detto da chi viene. "A disposizione" (ride). Ti faccio sapere domani... Però insomma la persona è molto molto, molto vicina a lui, è la sua allieva". L'indomani annuncia: "Fatto!". "Sei grande", le risponde Lorenzetti. E la professoressa commenta: "Come si diceva, a noi chi c'ammazza?". Lorenzetti però ha bisogno di ulteriori chiarimenti: "Il ragazzo deve avere qualche informazione o va tranquillo?". Risponde la professoressa: "Lui (il rettore) ha detto: "Cosa fatta"". Ma il papà dello studente non è tranquillo. Meglio sarebbe se il figlio conoscesse in anticipo le domande. E qualche giorno più tardi provvede a riferire alla amica Lorenzetti gli argomenti preferiti dal figlio. Ma ancora non basta, perché la professoressa Romani non sembra aver capito che deve avere un occhio di riguardo per il ragazzo. Maria Rita Lorenzetti torna alla carica con Gaia Grossi: "Allora bisogna proprio che Frà (Francesco, il rettore)... Gli devi dire, guarda, proprio per le ragioni che ti ho detto io ci tengo proprio in modo particolare appunto che la chiami". Perché - dice il padre del ragazzo - "a lui non gli può dire di no perché trema". Cioè la docente non potrebbe dire di no al rettore. Maria Rita Lorenzetti non molla la presa. Insiste con l'amica perché si faccia di nuovo sentire col rettore: "Grazie pischella mia. Noi della vecchia guardia siamo sempre dalla parte del più debole". Il 27 settembre Gaia Grossi la rassicura definitivamente: "Istruzioni per l'uso. Il capo è andato in laboratorio ieri. Ha parlato con i suoi, ha visto le analisi, sono tutte positive. Quindi la prognosi è positiva". Previsione esatta. Poche ore più tardi il padre del ragazzo chiama Maria Rita Lorenzetti. È entusiasta: "Allora, il mio è andato a fare la visita, è rimasto contentissimo, però gli ha ordinato 30 analisi da fare". La presidente resta un momento disorientata, poi capisce: "Eh, quindi? Alla grande. Ah, ecco 30 analisi, scusami, c'ho avuto un momento... Quindi alla grande". In serata Maria Rita Lorenzetti invia un sms all'amica Grossi: "Tutto a posto. 30. Grazie e ringrazia il capo".

Maria Rita Lorenzetti, la zarina di D'Alema. Chi è l'ex presidente della regione Umbria arrestata questa mattina nell'ambito dell'inchiesta sul passante Tav di Firenze, scrive Giacomo Amadori su “Panorama”. È stata arrestata questa mattina Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della Regione umbria e dal 2010  capo di Italferr , società del gruppo Ferrovie dello Stato che opera nel settore dell’ingegneria dei trasporti ferroviari e dell'Alta Velocità.  La Procura di Firenze ha fatto bloccare i lavori della Tav cittadina e ha indagato 31 persone per associazione a delinquere: una rete composta dai vertici della Italferr e della Rfi (che si definisce parte lesa), società del gruppo Ferrovie, delle coop rosse (Coopsette) e da funzionari dei ministeri delle Infrastrutture, dell’Ambiente e dell’Autorità di vigilanza per gli appalti pubblici, soggetti che avrebbero lucrato risparmiando sulle commesse per lo smaltimento dei residui di scavo. Non mancherebbero i legami con la camorra.  Per gli inquirenti Lorenzetti svolgeva «la propria attività nell’interesse e a vantaggio della controparte Novadia e Coopsette, da cui poi pretendeva favori per il marito», metteva a disposizione «le proprie conoscenze personali, i propri legami politici e una vasta rete di contatti grazie ai quali era in grado di promettere utilità ai pubblici ufficiali avvicinati» e conseguiva «incarichi professionali in favore del marito». La presidenta - molto vicino a Massimo D'Alema - è accusata di associazione per delinquere, abuso di ufficio, corruzione e traffico di rifiuti.  Nelle 400 pagine di ordinanza di custodia cautelare viene ipotizzato il rischio di inquinamento probatorio.   Ecco il ritratto della Lorenzetti uscito su Panorama il 30 gennaio 2013.

Nel centro del «centru de lu munnu», ovvero piazza della Repubblica di Foligno, alcuni pensionati scuotono la testa di fronte ai giornali. La combriccola confabula sotto Palazzo Trinci, uno dei lavori di recupero affidati dalla pubblica amministrazione al principe consorte della «zarina», l’architetto calabrese Domenico Pasquale. Per i pm di Firenze la signora avrebbe agevolato affari illeciti, in cambio di favori per il marito. «È una “spadara” mica una ladruncola» replica sicuro il gruppetto di concittadini di Maria Rita Lorenzetti, classe 1953, nata sotto il segno dei Pesci, dipendente provinciale di settimo livello in attesa di pensione. La Spada è il suo rione nell’antica giostra cittadina della Quintana, di cui la signora, vaga somiglianza con Meryl Streep, è influente vicepresidente. Ai tempi del liceo classico era meno elegantemente soprannominata «Mozzarella», per il colore eburneo dell’incarnato. Da allora ne ha fatta di strada: prima giovane militante comunista, poi assessore e sindaco della sua città (a quei tempi il suo futuro marito diventava membro della commissione urbanistica del comune), quindi parlamentare, presidente della commissione dei Lavori pubblici all’epoca del terremoto in Umbria, infine per due lustri presidente della regione, sino a quando una fronda interna al partito le impedì il «triplete». Tanti anni di navigazione nei mari procellosi della politica non le hanno sgualcito la fedina penale: un’indagine per una storia di liquami, finita con un proscioglimento, una chiamata di correo di un imprenditore ritenuto dai magistrati inattendibile e, infine, solo nel 2012, la prima richiesta di rinvio a giudizio della sua vita, nella cosiddetta Sanitopoli umbra, per abuso d’ufficio e falso consumati, secondo l’accusa, per favorire la nomina a dirigente della propria segretaria particolare. Che per paura di tornare a fare l’impiegata pronunciò al telefono l’ormai celebre: «Con 1.500 euro (al mese, ndr) non so cosa mangiare». Nel frattempo, nel 2011, Lorenzetti è diventata presidente dell’Italferr, società di progettazione del gruppo Ferrovie. Una poltrona ottenuta dal governo Berlusconi, anche se i veri sponsor erano il presidente del Copasir Massimo D’Alema e l’amministratore delegato di Ferrovie Mauro Moretti, entrambi habitué dell’Umbria e di Foligno, il primo per villeggiatura e passione enologica (con il sostegno di Lorenzetti ha intrapreso a Terni l’attività di vignaiolo), il secondo per la sua antica attività sindacale. Ma il nuovo incarico ora rischia di trasformarsi in una punizione, viste le accuse che planano a Foligno da Firenze (vedere il riquadro a destra). La trama è intricata, ma si può riassumere così: per i magistrati esisterebbe una banda (gli indagati sono 31), composta da dirigenti del gruppo Ferrovie, delle coop e da funzionari ministeriali, impegnata a lucrare sulla costruzione del tratto fiorentino della Tav, così da incassare illeciti guadagni e realizzare fondi neri. Una delle figure centrali di questa associazione a delinquere, secondo gli inquirenti, sarebbe proprio Lorenzetti, indagata per abuso d’ufficio e corruzione. I lavori sarebbero stati eseguiti in barba alle più elementari norme di sicurezza e di rispetto ambientale. Rischiando, persino, di far crollare una scuola confinante con uno dei cantieri della Tav a causa di lavori realizzati «senza nesso logico». Per non parlare del pericolo incendi nelle gallerie, visto che le paratie ignifughe venivano costruite con materiali scadenti. «Chi vuoi che si accorga di questi magheggi» dice uno degli indagati al telefono. Per l’accusa anche lo smaltimento dei residui di scavo veniva facilitato da giochi di prestigio. Carte truccate firmate da alcuni funzionari dei vari ministeri. Tra questi ci sarebbe l’ingegner Pietro Calandra, di area pd, dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, addirittura «servizievole e devoto» verso Lorenzetti. Accuse gravissime che forse la zarina respingerebbe con il suo classico «a pischè», a metà tra il rimprovero e il buffetto. Eppure, per i magistrati la donna si sarebbe spesa in particolare per ottenere «incarichi professionali nella ricostruzione del terremoto in Emilia in favore del marito». Quali lavori? Nell’ordinanza del tribunale non sono specificati, ma sul sito della società di Domenico Pasquale, la Cooper studio, forse si può individuare il settore d’interesse. Fra le commesse più recenti è indicata la progettazione architettonica delle scuole primarie e secondarie temporanee di Novi (Modena), una delle 28 gare assegnate a tempo di record l’estate scorsa dalla Regione Emilia-Romagna per gli edifici scolastici. La Cooper ha partecipato a tre, vincendone una. Centinaia di altre aziende e studi sono rimasti all’asciutto, anche perché i progetti andavano preparati e presentati in pochi giorni. Quindi un successo insperato o un mezzo flop? I folignati potrebbero vedere il bicchiere mezzo vuoto, visto che a giugno i giornali locali avevano annunciato con orgoglio l’invio in Emilia (a spese dell’Umbria) dell’ex direttore generale del Comune di Foligno Alfiero Moretti con la motivazione che «la sua esperienza è stata ritenuta strategica per il recupero di edifici scolastici delle zone emiliane colpite». Di certo il gruppo della zarina, secondo gli inquirenti, poteva contare su molti addentellati. Tra questi ci sarebbero pure Maurizio Brioni, dirigente della Coopsette, e il consulente Walter Bellomo, membro della commissione Valutazione impatto ambientale del ministero dell’Ambiente, ex coordinatore provinciale del Pd palermitano. Per la procura, quest’ultimo era a «disposizione per stilare pareri compiacenti utilizzando documenti forniti dagli stessi interessati», in cambio di «plurime utilità», per esempio le «assunzioni di parenti presso la Coop centro Italia». Anche qui i folignati collegano i fili, fanno associazioni. Vere o erronee che siano. Presidente del consiglio di sorveglianza di Coop centro Italia è Giorgio Raggi (ex sindaco di Foligno che passò il testimone a Lorenzetti), ex comunista di pia estrazione parrocchiale, storica conoscenza della zarina. Oggi è alla sbarra per una storia di presunta appropriazione indebita di circa 800 mila euro provento della compravendita gonfiata di un immobile da parte della Coop centro Italia. Fra gli altri imputati anche un imprenditore, ex socio dello studio di Pasquale in un appalto. Una quindicina di anni fa una voce isolata si alzò a stigmatizzare il presunto conflitto di interessi nel rapporto tra Lorenzetti e Pasquale. Era quella dell’ex parlamentare Maurizio Ronconi, che in un’intervista disse: «Il terremoto (di Umbria e Marche del 1997, ndr) è stato gestito in modo mafioso, la sinistra con a capo Maria Rita Lorenzetti, allora presidente della commissione Lavori pubblici, marito architetto che si occupa, guarda caso, di opere pubbliche, venne agevolata in tutto perfino nella designazione dei capi campo, che nell’emergenza decidevano l’assegnazione di viveri e coperte, diventando veri e propri capò». Lorenzetti denunciò. Il giudice decise di non procedere per l’immunità parlamentare, sottolineando però che «la difesa dell’imputato aveva documentato gli incarichi conferiti al coniuge della Lorenzetti» sino all’inizio del 2000. Nella lista 10 commesse pubbliche per un fatturato complessivo di circa 11 miliardi di lire. Gli amici della coppia ribattono che in città è un altro lo studio di architettura che lavora a pieno regime con le coop e che la parentela con Lorenzetti in realtà ha danneggiato Pasquale. Chi non ama i coniugi invece consiglia di visitare il sito della Cooper studio e di esaminare le centinaia di lavori in portfolio: la maggior parte hanno un committente pubblico. Tra i lavori più importanti la biblioteca di Foligno, il restauro della Chiesa del Suffragio, infrastrutture e pavimentazione del polo didattico cittadino (un appalto da 3,2 milioni). Erano tempi migliori, la Cooper dal 2009 al 2011 ha perso più del 30 per cento dei ricavi, passando da 550 mila euro a 345 mila. Pasquale in tutto questo tiene un profilo bassissimo. Per anni è stato più facile incrociarlo ai giardinetti con il figlio, che con la consorte sul corso. Snello, testa lucida, giacche ben tagliate e occhiali da vista, l’architetto ha recentemente sostituito la troppo vistosa berlina della moglie con una utilitaria. Come casa di famiglia 12 vani (cinque ereditati dal suocero Damiano, ex poliziotto e ferroviere) in un anonimo condominio, a cui vanno aggiunte una casetta alla periferia di Firenze e diverse proprietà in Calabria. Nel suo patrimonio personale anche investimenti in titoli per centinaia di migliaia di euro. Un tenore di vita da medio professionista, quale risulta essere. Passioni, quelle per la finanza e l’architettura, trasmesse al figlio Carlo, 24enne allevato in Bocconi, stage tra New York (Cucinelli) e il Brasile, per 6 mesi membro dello staff del direttore generale dell’Unicredit Roberto Nicastro. Sul suo profilo Twitter il ragazzo tifa Pd, boccia Michele Santoro per l’ospitata di Silvio Berlusconi e si complimenta con la senatrice Anna Finocchiaro (ex compagna di stanza della madre a Roma) «per il bel risultato alle primarie». Consultazioni in cui Lorenzetti ha corso per interposto candidato sponsorizzando in provincia di Perugia un giovane assessore di Foligno, Joseph Flagiello. Ma il giovanotto, non certo sorretto dal nome, è scivolato malinconicamente in fondo alla classifica, settimo su sette. Per qualcuno la rappresentazione plastica del declino dell’ultima zarina di Foligno.

LA PERUGIA DEI MISTERI. ANDREA ZAMPI E LA STRAGE DEL BROLETTO.

In Italia non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Quando la gente è esasperata dalle ingiustizie, perché l’Italia non è terra di Giustizia, esercita arbitrariamente il suo esercizio di tutela dei propri diritti: la giustizia se la fa da sé. Esemplare è il caso limite di Brindisi con l’attentato di Giovanni Vantaggiato e l’uccisione di Melissa Bassi. Oppure la sparatoria al Tribunale di Milano. Le istituzioni, l'informazione e la massa (cosiddetta società civile) bollano questi soggetti come pazzi o mitomani, senza nemmeno sentire le loro ragioni, pur sproporzionate al fatto reso. Ma è proprio così, come ce la vogliono dare a bere? Qual è il retro della medaglia che nessuno osa vedere?

Strage al tribunale, segretario leghista: certi giudici ti fanno salire l’odio. Sul proprio profilo Facebook il segretario della Lega dell'Isola, Tullio Angioletti quasi giustifica la strage di Milano e l'assassinio del magistrato Ciampi: "La legge italiana e le interpretazioni di certi giudici ti fanno certo salire l'odio....", scrive "Bergamo News il 9 aprile 2015. Gherardo Colombo, magistrato del pool di Mani Pulite, in mattinata l’aveva detto, commentando a caldo il far west al palazzo di giustizia di Milano quando l’imprenditore Claudio Giardiello ha sparato 13 colpi di pistola uccidendo tre persone, tra cui il giudice del tribunale fallimentare Fernando Ciampi: "C’è un brutto clima in questa Italia, i magistrati sono svalutati". E puntuale è arrivata una sorta di conferma del clima anti-giudici. Sul proprio profilo Facebook il segretario della Lega dell’Isola, Tullio Angioletti, quattro ore dopo la folle sparatoria, posta: "La legge italiana e le interpretazioni di certi giudici ti fanno certo salire l’odio….". Quasi a comprendere, a giustificare il gesto estremo, la strage compiuta da una persona a processo per bancarotta fraudolenta, che si è recata in Tribunale armata di pistola, con due caricatori, che è entrata con un falso tesserino di avvocato, che ha pianificato l’assassinio di un magistrato…Già, sarebbe colpa dell’"odio che certi giudici ti fanno salire", secondo il commento (assurdo) del segretario del Carroccio. Pubblichiamo anche la precisazione del segretario leghista: Assolutamente nessuna “comprensione” o “giustificazione” ad azioni criminali invece da condannare con forza. La mia frase è un pensiero comune di chi, soprattutto imprenditore, vede o rischia quotidianamente di veder persi anni se non generazioni di sacrifici solo perché delle aziende clienti han dichiarato fallimenti fraudolenti più o meno mascherati vedendosi protratti all’infinito i pagamenti dei propri crediti con la certezza che MAI li vedranno completamente saldati (si parla normalmente di saldi a dine pratica pari al 10-30% del credito). La legge italiana permette vie di fuga LEGALI a costoro, lasciando in braghe di tela piccole e medie aziende con relativi dipendenti che onestamente han prestato i loro servizi perdendo tempo e denaro (e sicuramente non poche notti di sonno). Non chiedo se ciò è legale, ma vi pare giusto? Il “brutto clima in questa italia” lo soffrono migliaia di uomini e donne, giudici compresi, che non si trovano tutelati da uno Stato ladro come quello in cui viviamo. Concludo informando che provvederò a prendere provvedimenti legali verso chiunque associ la mia persona a frasi o pensieri assolutamente lontani da quelli espressi dal sottoscritto.

Sparatoria in Tribunale: prima di Milano è accaduto a Reggio Emilia. L'episodio riapre le discussioni sulla sicurezza nei palazzi di giustizia: un precedente (con tre morti) nel 2007 per una causa di divorzio, scrive "Panorama" il 9 aprile 2015. A dispetto dello stupore di cittadini e politici per quanto accaduto al Tribunale di Milano, con l'uccisione del giudice Fernando Ciampi e di almeno altre due persone da parte di Claudio Giardiello, non è la prima volta che le armi entrano per far fuoco in un palazzo di giustizia italiano a dispetto dei controlli di sicurezza.

Il precedente di Reggio Emilia. Era infatti già accaduto il 17 ottobre 2007 al Tribunale di Reggio Emilia, quando Clarim Fejzo, albanese di 40 anni, lì presente per una causa di divorzio, estrasse davanti agli occhi delle due figlie una pistola calibro 7.65 per scaricarla prima contro l'avvocato della controparte, ferendolo di striscio, e poi contro la moglie Vjosa (che morì poi in ospedale per le ferite riportate) e contro il fratello di quest'ultima, freddato a morte mentre cercava di disarmare il cognato. Dopo di che ci fu l'intervento di due giovani poliziotti che si trovavano in un'aula vicina: il primo venne a sua volta ferito a una gamba, il secondo freddò invece Fejzo, che dopo aver scaricato un caricatore ne stava inserendo un altro nell'arma per andare avanti nella sua folle strage.

L'imprenditore-killer di Perugia. Altro contesto, ma dinamica per molti versi simile nel doppio omicidio compiuto dal quarantenne imprenditore Andrea Zampi alla sede della Regione Umbria, a Perugia, il 6 marzo 2013. Armato di una pistola Beretta, l'uomo fece irruzione nell'ufficio in cui lavoravano Daniela Crispolti (46 anni, precaria con contratto di collaborazione) e Margherita Peccati (61 anni, prossima alla pensione), freddandole sul colpo per "vendicarsi" di un mancato finanziamento da 100 mila euro. L'uomo si è poi ucciso sparandosi a sua volta.

Il Palazzaccio di Milano come il Broletto di Perugia? il movente sembra lo stesso, scrive il 9 aprile 2015 “Fiorucci News”. C’è una certa identità di movente tra la sparatoria di oggi nel palazzo di Giustizia di Milano e i colpi di pistola esplosi all’interno degli uffici della Regione Umbria al Broletto di Perugia. Claudio Giardiello l’imprenditore immobiliare che ha ucciso il giudice che doveva decretare la bancarotta della sua azienda avrebbe detto ai carabinieri:” Volevo vendicarmi di chi mi ha rovinato”. Qualcosa di molto simile avrebbe mormorato più volte, qualche tempo prima di entrare in azione Andrea Zampi l’imprenditore in difficoltà che ha ucciso Daniela Crispolti e Margherita Peccati, due incolpevoli dipendenti pubblici. Due impiegate della Regione. Andrea Zampi,6 marzo 2013, poi si è ucciso con la stessa arma del duplice omicidio, una pistola. L’uomo del blitz al Broletto e l’uomo che ha aperto il fuoco a Milano sembra abbiano elaborato lo stesso progetto criminale che ha visto problemi economici e finanziari, amministrativi e burocratici prendere le sembianze di persone che sono finite sulla traiettoria del loro piombo solo per la funzione che esercitavano. E’ come se i bersagli umani fossero stati identificati con bersagli fatti di gestione aziendale, carte bollate, giustizia che deve fare il suo corso. Così l’uomo del palazzo di Giustizia di Milano ha freddato il giudice Fernando Ciampi, l’avvocato Lorenzo Alberto Claris Appiani testimone in quel processo e un coimputato Giorgio Erba. Il movente che identifica funzione e colpa sembra lo stesso. Lo stato di salute mentale di Andrea Zampi è stato accertato. Lo stato di salute mentale di Claudio Giardiello deve essere valutati. La sostanza, in relazione alla identità possibile di movente non cambia. E anche la facilità con la quale due uomini armati (determinati ad uccidere, ma questo si saprà dopo), uno a Perugia, l’altro a Milano, sono entrati in uffici pubblici che, pur nel diversissimo ruolo e nel differente grado di allerta, c sono costantemente sotto-controllo, è un dato in qualche modo comparabile. E c’è un’altra cosa che avvicina l’Umbria alla Lombardia. Il giudice fallimentare Fernando Ciampi era arrivato ragazzino ad Orvieto. Erano gli anni ’50. Destinazione il collegio del Mercedari. Poi il liceo classico Filippo Antonio Gualtiero dove è stato sempre il primo della classe. Poi Perugia per la laurea e l’Insegnamento all’Università degli studi. Ha insegnato diritto industriale alla Facoltà di Economia e Commercio. Brillante, meticoloso, grande studioso, i legami con Perugia li aveva mantenuti intatti negli anni partecipando a convegni e congressi. Aveva 71 anni. Lo ricordano come un uomo probo.

La gestione di sicurezza e giustizia: così nascono gli atteggiamenti dell'uomo verso le regole, scrive Vera Slepoj su “Il Mattino di Padova" il 12 aprile 2015. Nel 1764 esce il breve saggio “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, illuminista milanese che influenzò il pensiero sul tema della giustizia in tutta Europa, persino dentro il pensiero filosofico di Diderot e Voltaire e in quello di Thomas Jefferson e dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America in quella che poi sarà la Costituzione americana. Tempo ne è passato, ma il saggio è estremamente attuale sul valore della “immediatezza della pena” e la “giusta proporzione” tra un reato e un altro, soprattutto a distanza di due giorni dall’incredibile e prevedibile eccidio nel tribunale di Milano, che ha portato alla morte di un giudice, di un avvocato e di un imputato per mano dell’imputato principale per bancarotta fraudolenta. Quest’ultimo aveva programmato l’esemplare esecuzione non solo di vite umane ma di un intero sistema. C’è molto e c’è anche poco da dire su questo episodio che genera inevitabili e problematiche riflessioni su cosa sia la giustizia italiana, su cosa si regga l’equilibrio tra giustizia, giudizio, punizione e pena e, soprattutto, su questo equilibrio che sembra perduto, forse distrutto o, se vogliamo essere ottimisti, leso. Beccaria dava molta importanza all’immediatezza del processo e all’equilibrio della pena, Giardiello questo equilibrio non solo lo aveva perso, ma aveva riassunto nella sua azione un’idea quasi giustizialista. Del resto, come fa il cittadino a comprendere i 16 anni di condanna di Schettino e la sua mancata carcerazione o altri esempi quotidiani in cui si arresta chi uccide e poi si vede l’imputato uscire dopo un giorno, dopo un anno anche per crimini terribili. C’è poi la pena che diventa leggenda, una sorta di metafora del nulla, il luogo della formazione dell’ingiustizia quando ci sono personalità pubbliche o private perennemente impunite. La gestione della sicurezza è un tema caro da sempre agli studiosi del comportamento sociale, è la gestione della giustizia a determinare la formazione di molti atteggiamenti dell’individuo e dei suoi atteggiamenti verso le regole, il rispetto della vita umana, l’idea di onestà e l’affermazione di valori positivi. I tribunali se sono diventati simili a un deserto è anche per l’ambiguità di un sistema che nel nostro Paese sembra disconoscere più o meno consapevolmente non solo le leggi, ma anche i diritti e i doveri di un cittadino. Se Schettino viene fatto parlare in un’università, se uomini diventano nei loro crimini una suggestione mediatica, se politici e potenti di turno sono fuori da ogni legge, da ogni dovere, da ogni pena, vuole dire che il cittadino su tutto questo costruirà l’idea sociale. Giardiello costruisce sulla sua fragilità, sul sistema nella sua globalità dove il denaro e l’apparenza sociale diventano il luogo della vita e della morte. Per questo il nostro Paese non può che aspettarsi altre situazioni alla Giardiello che in fondo nel suo delirio ha determinato l’idea della giustizia fai da te. Quando l’individuo si sente fuori dall’equilibrio del giudizio e della pena può decidere di costruire una trincea tra se stesso e il mondo esterno per la propria sopravvivenza. Lasciando il cittadino privo di risposte sul bisogno di giustizia reale si costruiscono le basi per la perdita del controllo su ogni tipo di sicurezza, ci si perde innanzitutto dentro un’idea di sfiducia e di tradimento da parte dello Stato che da amico si trasforma in nemico da combattere.

LA PERUGIA DEI MISTERI. Il capoluogo umbro oltre che essere la città del cioccolato è anche la città dei misteri e dei delitti, una città indubbiamente attraente che richiama migliaia di studenti stranieri che frequentano l’Università, si legge nel blog “Marcos61”. Città che è diventata famosa a livello internazionale per il delitto della studentessa inglese Meredith. Amanda Knox la principale imputata, insieme a Sollecito sembra rispecchiare quest’anima di Perugia. Natalie Hayward, una delle migliori amiche Meredith, in un’intervista al Sunday Telegraph, disse che il tutor universitario avvertì le due ragazze sui “pericoli nascosti tra i chiassosi bar studenteschi, le pizzerie, le passeggiate, medievali”. Il legale di Patrick Lumumba (che alla fine è l’unico a pagare, non essendo a differenza di Amanda amerikano e per questo degno di avere l’attenzione del Dipartimento di Stato), Carlo Pacelli, dipinge Amanda come una ragazza dalla “doppia anima”, l’una immacolata, l’altra luciferina “cospiratrice, dedica al sesso e alle droghe”. Un’anima subdolamente influenzata dalla torbida atmosfera della “piccola città medievale”, com’è stata definita Perugia nella miriade cronache giudiziarie estere. Una città circondata da misteri e di morte. Il 6 marzo 2013 Andrea Zampi, titolare di un’impresa che si occupa di formazione, entra negli uffici della Regione Umbria uccide due impiegate e poi si toglie la vita. La motivazione ufficiale è quella per un finanziamento mancato. C’è chi associa la tragedia umbra ai numerosi casi di suicidi per “disperazione economica” di cui è stato costellato il 2012 e l’inizio del 2013. Tutto chiaro all’apparenza, c’è il cortocircuito crisi-mancanza di soldi per continuare l’attività economica-follia-omicidio-suicidio. Ma si tende a rimuovere le ultime parole di Zampi: “Siete dei massoni, guadagnate un sacco di soldi e mi avete rovinato”, poi ancora “160.000 euro… è colpa vostra, è colpa del Pd…siete tutti uguali, ladri…io sono Dio”. E infine gli spari: 9 per uccidere le due impiegate e due togliersi la vita. Soffermiamoci su quest’aspetto della Massoneria. Il Guardian in un articolo del 3 ottobre 2011 mise a confronto i due aspetti della città: città del cioccolato e centro nevralgico della massoneria. A Perugia ci sono 20 logge del Grande Oriente d’Italia, che in città può contare su 1500 membri. Un numero non certo trascurabile per un centro di 170.000 mila abitanti. Se a livello nazionale i massoni che sono iscritti al Pd sono fonte d’imbarazzo, invece a Perugia il legame tra Pd e massoneria non è un mistero per nessuno. Sono soprattutto gli ex socialisti confluiti nel Pd ad avere dimestichezza con grembiulini e cappucci. Detto questo, c’è da domandarsi le frasi di Zampi sono un segno di pura follia?. Nessuno se mai degnato di vedere gli eventuali rapporti di Zampi con la Massoneria (o il Pd). Ma la fama di città maledetta è dovuta ad altri casi di cronaca nera. A pochi chilometri, sul lago Trasimeno, nel 1985, fu trovato il cadavere di Francesco Narducci, ritenuto uno dei possibili mandanti della serie di omicidi messi atto dal cosiddetto Mostro di Firenze. Narducci, una moglie giovane, una casa bellissima, viaggi, barche e tanti soldi. Questa era la vita pubblica di Francesco Narducci. Ma forse, ne esisteva un’altra fatta da rituali, popolata da demoni. Narducci ha sempre saputo celare la sua vera identità. E soltanto in una lettera, lasciata alla famiglia prima di scomparire, potrebbe avere deciso di svelare sua vera identità. Adesso vediamo i misteri inerenti alla morte di Narducci. Un pescatore dice di averlo ritrovato su una spiaggetta del lago Trasimeno il 9 ottobre 1985, quattro giorni prima della scoperta ufficiale. “Era incaprettato” ricorda. E questo dimostrerebbe che fu una vera e propria esecuzione. L’eliminazione di un uomo diventato scomodo. In quei giorni i giornali scrivevano che il Mostro aveva i giorni contati, che aveva commesso un errore tale da inchiodarlo. Narducci potrebbe avere avuto paura, o sentendosi minacciato decise di tirarsi fuori. Suo padre Ugo Narducci, famoso medico, massone, era riuscito a costruire per il figlio una carriera luminosa. In un certo periodo, cominciano a concentrarsi su di lui delle chiacchere tremende, si comincia a sospettare che abbia dei collegamenti con il Mostro. Alcuni lo ricordano di averlo visto nelle campagne tra San Casciano e Mercatale in compagnia del farmacista del paese. Ci sono voci che Narducci partecipava a festini e messe nere. Una doppia vita che dura fino al 1985. Nell’estate di quell’anno il suo equilibrio si spezza. Ricorda la moglie: “Era molto preoccupato mi sembrava depresso. Una sera mentre parlavamo della difficoltà di avere un bambino, scoppiò a piangere e questo mi sembrò molto strano perché lui non era assolutamente il tipo che se la prendeva per queste cose. Restava alzato fino a tardi, chiuso nel suo studio”. L’8 ottobre, dopo aver ricevuto una telefonata, Francesco Narducci va via sconvolto dall’ospedale. Prende la barca ancorata sul Trasimeno e sparisce per sempre. Secondo la versione ufficiale il suo cadavere affiora il 13 ottobre. Causa della morte: annegamento. Soltanto nel 2004 un pescatore ammette di averlo trovato il giorno dopo la scomparsa e di aver consegnato il corpo alla famiglia. Nel 2000 il corpo viene riesumato e riparte l’inchiesta: l’ipotesi è che, con la complicità di alcuni pubblici ufficiali, la famiglia volesse nascondere il delitto. In sostanza c’è il forte sospetto che la famiglia avesse sepolto il corpo, e gettato un’altra salma nel lago e fatta passare per quella di Narducci. L’ipotesi formulata dalla Procura di Perugia secondo cui Narducci sarebbe stato ucciso perché la cellula impazzita dell’inquietante circuito che ha commissionato, e in certi casi anche portato termine i duplici omicidi attribuiti al Mostro, aveva deciso di eliminarlo. C’è un uomo che negli anni ’70 e ’80 afferma di conoscere a fondo le realtà del Mostro. In una memoria consegnata agli inquirenti che indagano sugli omicidi, ricostruisce per filo e per segno gli ambienti e i poteri che decisero la fine delle copie di fidanzati e del Narducci divenuto non più affidabile e di altre persone divenute via via scomode al sistema. Tra le realtà che secondo il teste, avrebbero avuto un ruolo importante nell’assassinio del Narducci e nella costruzione di una rete di convivenza che coprisse la verità, ci sarebbe la Massoneria. Nel suo documento il testimone parla anche d’ingerenze da parte di ambienti di Cosa Nostra e di un circuito dedito alla pedofilia. Per l’occultamento del cadavere del Narducci, sviamento delle indagini e altri reati minori, furono indagati il questore di Perugia Francesco Trio, il colonnello dei carabinieri Di Carlo, l’ispettore di PS Napoleoni, l’avvocato Fabio Dean, tutti iscritti alla stessa loggia massonica, alcuni collegati loro collegati alla P2. Appartenevano alla P2 il questore Trio, mentre Fabio Dean è il figlio di uno dei legali di Gelli. Ferdinando Benedetti, uno storico che ha compiuto un’indagine personale sulla morte di Narducci, ha rivelato il ruolo della Massoneria (lui stesso è un massone). Racconta Benedetti: “Il padre del medico faceva parte della loggia Bellucci e insieme al consuocero si rivolse al Gran Maestro per evitare che fosse effettuata l’autopsia del figlio. So che Francesco Narducci aveva preso in affitto una casa vicino a Firenze, nella zona dove sono avvenuti i delitti. Era entrato a far parte di un’associazione segreta denominata “la setta della rosa rossa”. Al momento dell’iniziazione era al livello più basso, ma dopo un po’ di tempo aveva raggiunto il ruolo di “custode”. Già nel 1987 si disse che poteva essere uno dei “mostri” e la massoneria si attivò per sapere la verità. Tra il 1986 e il 1987 ci furono riunioni tra logge diverse e si decise di compiere alcune indagini. Alla fine la loggia accertò che era coinvolto, ma si decise di non far trapelare c’era il rischio che venissero coinvolti tutti”. Tra i testimoni ascoltati dai magistrati, c’è anche Augusto De Megni, nonno del bambino rapito nel 1990, per anni al vertice del Grande Oriente che conferma: “So che Narducci andava a Firenze e che frequentava giri poco raccomandabili”. Secondo le indagini compiute sinora Narducci, potrebbe essere stato il custode dei reparti genitali asportati dalle vittime. Si cerca di verificare se c’è un nesso tra la sua morte e la spedizione di un lembo di seno di Naudine Mauriot. L’omicidio della francese e del suo compagno avvenne l’8 settembre. Si è scoperto recentemente che la coppia era in Toscana per partecipare a pratiche esoteriche. Un mese dopo il delitto scompare Narducci (8 settembre duplice omicidio, 8 ottobre scomparsa di Narducci, una casualità?). In questa vicenda del “Mostro di Firenze” entrano i servizi segreti. Il SISDE, già dal terzo delitto aveva preparato un dossier che ipotizzava che non fosse un solo serial killer, ma i membri di una setta satanica che agivano in gruppo. Il dossier era firmato da Francesco Bruno, noto criminologo (e star televisiva), consulente del SISDE. Tre degli studi commissionati dal SISDE si persero “misteriosamente” per strada e non arrivarono mai sulle scrivanie dei magistrati fiorentini. Guarda caso, i dossier “scomparsi” erano quelli che riguardavano la pista dei mandanti plurimi. E poi ci sono le morti sospette di persone convolte con la storia del Mostro. Da quella del Narducci, a quella di Pacciani. In molte di queste morti è stata usata una tecnica simile a quella dei morti “suicidi” di persone implicate nell’inchiesta per la strage di Ustica e delle altre stragi che hanno insanguinato l’Italia. Questo utilizzo delle stesse tecniche fa ipotizzare una firma unica: quella dei servizi segreti. In questa indagine sui misteri di Perugia, abbiamo visto un intreccio tra sette, massoneria, servizi segreti e reti di pedofili (si sospetta che l’Umbria e la Toscana ci potrebbe essere una rete di pedofili con collegamenti internazionali). Potrebbe apparire stravagante parlare di culti misterici. Ma poniamoci la domanda cosa è un culto misterico? Esso è un culto riservato a pochi, che prevede riti d’iniziazione e di passaggio da un livello più basso a uno più alto, il più totale segreto concernente il culto, alle cerimonie e l’idea che il gruppo fornirà conoscenze esoteriche importanti. Molti personaggi che esercitano il potere economico, politico e culturale fanno parte di questi gruppi. Da molti elementi emerge che attraverso le logge, queste persone tengono sotto controllo le autorità, curandosi di formarle e di obbligarle al segreto circa aspetti del sistema evidentemente inconfessabili. L’uso di queste formazioni conferme, la natura criminale del sistema, che ha bisogno di manipolare e controllare per continuare a esistere. I gruppi segreti di natura massonica servirebbero a controllare mentalmente chi è destinato a ricoprire cariche di potere. È come se alcune persone dovessero essere formate in modo tale da commettere le più grandi cattiverie senza avere scrupoli di coscienza e motivandole in maniera truffaldina per renderle legittime. In effetti, organizzare guerre, uccidere o torturare persone inermi significa distruggere il sentimento umano naturale di empatia con i propri simili, e dunque non sembrerebbe possibile farlo senza un’accurata formazione. Per questo motivo sembrerebbe necessario far praticare a chi ricoprirà ruoli importantissimi (o che aspirano a ricoprirli), culti che disumanizzano, che stimolano glia spetti più negativi e distruttivi dell’uomo, o che inducono a credere che possano esistere principi, valori e ideologie che giustificano i crimini più terribili contro l’umanità. Forse, dietro ai misteri di Perugia c’è questa oscena realtà.

UMBRIA: CI SONO DEI RAPPORTI TRA ‘NDRANGHETA-MASSONERIA E COLLETTI BIANCHI? L’Umbria e Perugia è indubbiamente una terra di misteri, dove la presenza massonica è forte, si legge nel blog “Marcos61” il 18 giugno 2014. A pochi chilometri di distanza da Perugia, nel 1985, fu trovato il cadavere di Francesco Narducci.

Il caso Narducci. Ferdinando Benedetti, uno storico che ha compiuto un’indagine personale su questa vicenda, fa delle affermazioni molto pesanti: “La massoneria perugina sapeva che Francesco Narducci, il medico annegato nell’ottobre 1985, era coinvolto nei delitti del “Mostro di Firenze”. Le sue dichiarazioni sono state poi confermate da altre persone che frequentavano la famiglia Narducci. Racconta Benedetti: “Il padre del medico faceva parte della loggia Bellucci, uno storico e insieme al consuocero si rivolse al Gran Maestro per evitare che fosse effettuata l’autopsia sul cadavere del figlio. So che Francesco Narducci aveva preso in affitto una casa vicino a Firenze, nella zona dove sono avvenuti i delitti. Era entrato a far parte di un’associazione denominata “la setta della rosa rossa”. Al momento dell’iniziazione era, al livello più basso, ma dopo un po’ di tempo aveva raggiunto il ruolo di “custode”. Già nel 1987 disse che poteva essere uno dei “mostri” e la massoneria si attivò per sapere la verità. Tra il 1986 e il 1987 ci furono riunioni tra logge diverse e si decise di compiere delle indagini. Alla fine la loggia accertò che era coinvolto, ma si decise di non far trapelare nulla perché altrimenti c’era il rischio che venissero coinvolti tutti”.

Il rapimento di Augusto De Megni. Il rapimento del piccolo De Megni (aveva 10 anni), avvenne il 3 ottobre 1990 e durò 110 giorni (dal 3 ottobre 1990 al 22 gennaio 1991). Ufficialmente il riscatto non fu mai pagato perché la magistratura congelò tutti i beni della famiglia, che è molto nota a Perugia (il nonno, che ha lo stesso nome del nipote, negli anni Ottanta aveva anche fondato una banca ed era all’epoca esponente di rilievo ai vertici della Massoneria, del Grande Oriente, poi espulso). Il bambino fu liberato dai NOCS che fecero irruzione nel luogo del sequestro il 22 gennaio 1991. Sul luogo del sequestro vengono circondati e si arresero poco tempo dopo i due cognati di Mamoiada Antonio Staffa e Marcello Mele (fratello dell’ex latitante Annino); il primo, latitante da una decina di anni, venne descritto dal piccolo De Megni come il “bandito buono” che gli teneva compagnia, il secondo, una sorta di latitante volontario e dalla vita spericolata, si era allontanato dalla Sardegna dopo essere riuscito a fuggire per miracolo ad alcuni agguati e dopo l’uccisione del fratello e di due suoi cognati. Il nonno di De Megni, è stato tra l’altro è stato un testimone sentito dai magistrati a proposito della morte di Narducci, dove ha confermato che: “So che Narducci andava a Firenze e che frequentava giri poco raccomandabili”.

Massoneria e ‘ndrangheta. A Perugia, il capoluogo della regione, senza dubbio la Massoneria è molto influente. Basti pensare che ci sono ben 20 logge del Grande Oriente d’Italia, che in città può contare su 1.500 membri. Un numero non certo trascurabile per un centro di 170.000 abitanti. Certo la maggior parte delle logge umbre sono legali, ma non si può far finta che si potrebbero verificarsi dei “conflitti di interesse” (chiamiamoli così per semplificare). Proviamo a immaginare un giudice che si ritrova come un imputato, un suo confratello, oppure immaginiamo che bisogna aggiudicare un appalto e ci si ritrova amici e appartenenti alla stessa loggia. I processi in questo caso sarebbero davvero equi? Nel lontano 1993, questi dubbi vennero a un magistrato calabrese: Agostino Cordova. Egli scoprì che gli iscritti alle logge sparse per la provincia appartenevano tutti alle varie stanze dei bottoni degli ospedali, delle banche, delle università, della magistratura, degli ordini professionali (come quello degli avvocati, dei medici e degli ingegneri).

Per capire meglio l’affinità della ‘ndrangheta e massoneria è il caso di ricordare come si sia evoluta nel tempo. Negli anni ’70 i capobastoni delle varie ‘ndrine si riunirono a Montalto, nell’Aspromonte. Molti avvertirono la necessità di liberarsi di quella mentalità poco elastica che impediva ai boss di avere contatti e rapporti con il potere politico ed economico. Decisero di entrare in rapporto con la Massoneria, in altre parole di quella zona grigia nella quale era possibile incontrare magistrati, poliziotti, politici, avvocati e banchieri. Anzi, tramite una loro struttura interna saranno proprio loro a creare delle logge massoniche coperte. Per fare questo venne creare un’enclave all’interno della ‘ndrangheta, detta Santa, composta di 33 persone. Essa divenne una vera e propria élite della ‘ndrangheta, tanto vero che un santista pur di salvare l’organizzazione può persino tradire la ‘ndrangheta stessa. Rappresenta uno stadio talmente occulto che gli aderenti a quanto sembra non si conoscono nemmeno tra di loro. Sono tutelati dal segreto, e i riti d’iniziazione sono diversi, i mitici cavalieri Osso, Mastrosso, Carcagnosso sono sostituiti con le figure eroiche massoniche come Garibaldi, Mazzini e La Marmora. Per questi motivi non c’è da meravigliarsi che troviamo che la ‘ndrangheta ha avuto un ruolo in fatti come il Golpe Borghese, o la strage di Gioia Tauro. L’Umbria ha il triste primato di consumazione di droga e morte per overdose tra i giovani. Il monopolio del traffico di stupefacenti è in mano alla cosca dei Facchineri, i quali hanno dato vita ad una struttura associativa multiforme, dedita ad attività criminose principalmente volte all’importazione di consiste partite di stupefacenti e alla sua successiva commercializzazione. Nell’indagine denominata windshear condotta dal ROS dei Carabinieri di Perugia fece emergere una rete dedita all’importazione ed al traffico di stupefacenti, nella quale figuravano personaggi Roberto Pannunzi e il figlio Alessandro, nonché appartenenti alle cosche Coluccio, Aquino e Agostino, tutte originarie della Locride. Ma la ‘ndrangheta in Umbria, con i tempo non si è limitata più alla semplice commercializzazione della droga. Poiché i soldi sono tanti e bisogna riciclarli più presto possibile. Da qui è nato un altro triste primato: le morti sul lavoro a causa di ditte a sapor di mafia. L’Umbria da molto tempo non è assolutamente una regione verde. È in corso una cementificazione selvaggia, si costruiscono interi villaggi, case inutili e numerosi centri commerciali. E non è proprio un caso che la Regione Umbria si dimostrò favorevole al Piano Caso ideato dal Governo Berlusconi. In un’inchiesta dei Carabinieri del 2008 fece emergere un accordo tra ‘ndrangheta e Camorra (e in particolar modo il clan dei Casalesi). Ci furono numerosi arresti, tra i quali anche numerosi amministratori locali. Da questa inchiesta emerse che molte delle società edili controllate dalla ‘ndrangheta furono acquisite tramite estorsione o acquisite a ribasso, e risultano e vincenti sul mercato degli appalti perché riescono a mantenere prezzi ultra competitivi grazie all’uso di materiali scadenti e soprattutto di manodopera rigorosamente in nero e malpagata, con paurose carenze in merito alla sicurezza del lavoro. E quindi non è un caso che le morti sul lavoro in Umbria, superano la media nazionale. Le ‘ndrine succhiano il sangue agli operai e mettono a rischio la popolazione con i suoi manufatti di scarsa qualità. Ma purtroppo non c’è solo questo. Sempre nel 2008 in Umbria, scattarono diversi arresti tramite un’inchiesta dalla DDA di Perugia e si scoprì un gruppo molto particolare il quale ufficialmente tra il 2006 e il 2007. Era composto da Paolo Carpinassi imprenditore che aveva il compito di trattare con gli spacciatori albanesi; Marcello Russo, pugliese ex pentito, Salvatore Conte casalese ex pentito affiliato al clan camorristico La Torre e Salvatore Menzo, il capo dell’organizzazione, un siciliano appartenente al clan mafioso di Niscemi ed ex pentito anche lui. Fu definita la “banda degli ex pentiti” essa non era un fenomeno locale, ma una strutturale criminale molto potente e raffinata, composta da microcellule operanti non solo in Umbria, ma anche in Lombardia, Toscana, Sicilia, Campania e Calabria.

La genesi della “banda degli ex pentiti”. Essa nasce nel carcere di Voghera tra detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, fra di loro spiccava un uomo, un “pentito”, appartenente alla mafia siciliana: Salvatore Menzo. Era ed è talmente carismatico e con ottime capacità relazionali con i cosiddetti colletti bianchi, che tutti gli altri lo temevano e lo chiamavano addirittura “papà”. Si riunirono nel carcere e decisero, appena usciti dalla galera, di andare a vivere a Perugia perché Menzo in questa città aveva ottime conoscenze negli ambienti della finanza, della criminalità organizzata e molto probabilmente della Massoneria. Il gruppo si sarebbe subito organizzato e riuscirono a imporsi sul territorio umbro tramite il traffico di stupefacenti, di armi, prostituzione e a quanto pare anche attività illecite tramite delle aziende. Questi signori pur essendo dei “pentiti”, mantenevano legami con i clan di provenienza. Quindi il loro “pentimento” era modo di mettere in contatto le mafie con alcuni personaggi delle istituzioni. Una cellula legata a questa banda sarebbe stata quella Milanese e partirono gli arresti anche per loro. Marcello Russo era uno di loro. Quest’ultimo fu ritenuto l’esecutore materiale di Salvatore Conte, uomo della banda, ma il mandante era Salvatore Menzo. Conte doveva essere interrogato dal PM calabrese Francesco Neri perché doveva parlare dei legami della Massoneria con la mafia. Marcello Russo, quello che è ritenuto l’omicida, doveva essere ascoltato dal PM perugino Paci, ma si “suicidò” in carcere. La madre non crede al suicidio, anche perché anche perché voleva parlare. Una storia mai chiarita. In pratica chiunque vuole parlare, muore. Nel 2010, la PM perugina Duchini, apre un’altra inchiesta, dove c’è sempre di mezzo questa banda e scopre che Salvatore Menzo aveva lanciato dei rapporti con dei colletti bianchi per far smaltire dei rifiuti illegalmente tramite la Sirio Ecologica. Quest’azienda è passata di mano lasciando enormi buchi finanziari e ora gli operai lottano perché rischiano il posto di lavoro. Sulle aziende che lasciano dei buchi, bisogna chiarirsi. Erroneamente viene strombazzato che essi sono il frutto di un’italica mania alla truffa. Queste “perdite” sono il risultato del fatto che per mille motivi economici e politici dei capitalisti, anziché investire i loro capitali direttamente nella società X li affida alle istituzioni del mercato finanziario (banche e altro), le quali li prestano alla società X. La società X alla fine dell’anno realizza una massa di profitto diciamo 50, deve versare 60 (per interessi e altri istituti finanziari), 20 ai vari capitalisti (sotto forme e voci varie) e chiude brillantemente con una perdita di 30, che banche e gli altri istituti finanziari sono ben lieti di coprire con un altro prestito che si aggiunge ai vecchi, perché in questo modo lucreranno ancora per l’anno successivo buoni interessi (i famosi oneri finanziari delle società). Torniamo a Menzo. Riferiscono gli inquirenti, egli avrebbe utilizzato come prestanome Rucchini, il titolare di un night club perugino chiamato Kristal. Nell’attività malavitosa che si ramificava anche nel settore finanziario e immobiliare, era centrale la figura di due colletti bianchi come il commerciante milanese Vincenzo Borrelli e dall’esperto del mondo del lavoro S. R.. Personaggi coinvolti in questa inchiesta, i fratelli Francesco e Giuseppe Cimieri (poi esclusi nel coinvolgimento con la Banda) e Carlo Contini, si ritrovano indagati in un’altra inchiesta, questa volta fiorentina, e sempre nell’anno 2008. Un’inchiesta dove perse la vita in carcere un giovane ragazzo incensurato di 24 anni che voleva parlare con i magistrati. Voleva chiarire la sua posizione per uscire dal carcere di Sollicciano dove era recluso. Il ragazzo si chiamava Niki Aprile Gatti e l’inchiesta in questione fu denominata “Operazione Premium”, fu condita dalla Procura di Firenze. La madre di Niki non ha mai creduto al suicidio e sta conducendo una battaglia per ristabilire la verità. Quest’inchiesta era partita tramite la denuncia di migliaia di persone, principalmente fiorentine, che si sono ritrovati con le bollette gonfiate. Si arrivò a scoprire il coinvolgimento di grosse società telefoniche e informatiche. La Telecom è stranamente escluda dalle indagini pur intascando i soldi, lo stesso poiché quelle società lavoravano per lei. L’arrestato più noto è Pietro Mancini, presidente dell’Arezzo Calcio e amministratore dell’Internet provider Fiy Net, concessionario di numeri “premium”, altri personaggi erano Giuseppe Cimieri, Francesco Cimieri e Carlo Contini, soci della Plug Easy di Londra, una società che faceva da schermo per i fruitori finali italiani del traffico elettronico e consentiva – come due società di San Marino – cospicue evasione Iva e il riciclaggio degli ingenti profitti delle frodi: almeno 10 milioni di euro. Uno di questi personaggi è stato intercettato mentre parlava con Salvatore Menzo per aiutarlo a riciclare il denaro (si parla di 55 milioni di euro) tramite lo Stato di San Marino. Nell’inchiesta Premium c’è di mezzo proprio lo Stato di San Marino perché una delle società indagate è l’Oroscop. Il cui socio di maggioranza di questo insieme di società è Serafino Vallorani e uno dei dipendenti proprio Niki Aprile Gatti. Tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, tranne Niki. Forse fu questa scelta la sua condanna a morte. Non è trasferito al carcere di Rimini così come avviene per gli altri 17 arrestati, ma, solo fra tutti, presso quello di massima sicurezza di Solliciano. Al termine dell’interrogatorio di garanzia, Niki è l’unico tra gli indagati ad aver collaborato. Ed è anche l’unico al quale è confermata la custodia cautelare in carcere; per i “silenziosi” scatta invece il privilegio degli arresti domiciliari. È il 23 giugno. Poche ore più tardi, nella mattinata di martedì 24 giugno 2008 Niki viene trovato morto dai suoi compagni di stanza. Ufficialmente è un “suicidio”. È questo ciò che affermarono le autorità inquirenti sin dai primi istanti. La procura di Firenze non spiega come sia stato possibile che alle ore 20.58 del 20 giugno fosse recapitato a Niki (che si trovava in carcere) un telegramma proveniente dalla sua stessa abitazione che per logica avrebbe dovuto essere sotto sequestro poiché c’era materiale sotto sequestro come i PC. C’è un processo, un corso per furto: hanno ripulito l’appartamento e non hanno lasciato nemmeno un calzino du Niki. Il telegramma gli ordinava di nominare un nuovo avvocato. Tutti sanno che in isolamento è vietato comunicare con l’esterno e ricevere qualunque tipo di raccomandata. L’avvocato che Niki dovette scegliere lavora presso un grande studio di Bologna, il cui titolare è Umberto Guerini. Egli è un personaggio, che in una vecchia interrogazione parlamentare del 1990 per opera di Luigi Cipriani (DP), è citato per la storia di depistaggi nel processo sulla strage di Bologna. Niki Aprile Gatti pesava 90 Kg e si sarebbe suicidato con un solo laccio di scarpe!! Ma non è questa la sola contraddizione, ci sono anche la testimonianza di due detenuti stranieri che non collimano, oppure la valutazione positiva dello psicologo e la chiacchierata con la guardia molto pacata dove Niki risultava fiducioso. Ma il magistrato archiviò, senza far luce sulle innumerevoli contraddizioni, come suicidio. Ma in questa storia c’è qualcosa di molto più grave. Da un dossier della Confesercenti umbra del 2010 risulta che la banda di Salvatore Menzo aveva dei rapporti con la cosca calabrese molto radicata in Umbria dai Farao-Marincola. Questa è una ‘ndrina che ha come business proprio gli affari con le società telefoniche e, grazie al caso Eutella e soprattutto allo scoop di un giornalista del Manifesto, si è scoperto che loro, tramite un prestanome, possiedono una società off-shore proprio a Londra. A Londra ci sono le famose società incriminate dalla Premium. E tra i nomi degli indagati c’è Carlo Contini, il complice della banda e i fratelli Cimieri i quali hanno messo come indirizzo di residenza la stessa abitazione perugina. In sostanza c’è un vero e proprio asse che parte dalla Calabria, attraversa l’Umbria, passa per San Marino e approda a Londra. Che dire. Come mai tutti questi misteri? Forse ha ragione Ingroia, quando era ancora, magistrato affermò che un terzo dell’economia italiana è penetrata, infiltrato, da capitali di carattere mafioso?

Perugia, tra omicidi, misteri e storie di sangue. Dal caso Francesco Narducci all’assassinio di Meredith Kercher, scrive Micol Pieretti il 30 Marzo 2013 su “L’Inkiesta”. Gira gira, alla fine sceglie Perugia. Fresco di maturità e con fantasticherie da universitario indipendente, via con la valigia enorme e lo zaino da campeggio sui bus da Reggio Calabria e da Lecce, ché lasciare il mare per la cittadina più giovane e pulsante del centro Italia non è poi una grande rinuncia. Ovvio che uno studente scelga Perugia: la più a sud delle città universitarie del nord, decisamente meno cara di Firenze, infinitamente meno disordinata e alienante di Roma. Dici «Perugia» e chiunque ti risponde: «A misura d’uomo». Università rinomata, tanto da far dire a Indro Montanelli nel 1934 che se «l’Inghilterra ha Oxford, la Francia Parigi, Grenoble e Lilla, la Germania Monaco, Bonn e Heidelberg, l’Italia ha Perugia … [che] non ha niente da invidiare alle sue consorelle estere». Il centro del centro d’Italia, terra di santi e di cultura e, perché no, di divertimento sano: il set ideale per il rito di passaggio verso l’autonomia. Così era fino a dieci anni fa, e nessuno lo avrebbe messo in dubbio percorrendo la famosa “vasca” di Perugia, regno degli studenti, da piazza Morlacchi alla passerella quasi teatrale del Corso fino ai giardini Carducci, un sipari spalancato su una città che si abbraccia con uno sguardo. Eppure, sotto i tappeti di questi salotti buoni, di polvere ce n’era già. Cumuli di segreti dispersi tra le vie tortuose che non danno soddisfazione allo sguardo e mura spesse che sembrano fatte apposta per trattenerli. Segreti vecchi del 1985. Quello del dottor Francesco Narducci, morto suicida, anzi, per un incidente. Oppure no: per i legami con il mostro di Firenze. In quasi trent’anni dal misterioso ritrovamento del corpo del medico perugino nelle acque del lago Trasimeno in aula e fuori è successo di tutto: depistaggi, scambi di salma, false testimonianze, calunnie. Di certo c’è solo il cadavere eccellente, e la lettera (guarda caso introvabile) in cui Narducci avrebbe detto addio. La nuova puntata qualche giorno fa: la Cassazione riapre il caso. «Ricomincia la telenovela e rispuntano tutti i personaggi…», commenta con un risolino Rita, storica fruttivendola della centralissima via dei Priori. Difficile ricordarsi ormai della verità della carne e del sangue di quel corpo esanime. Segreti nuovi – e sulla bocca di tutti — sono quelli che della villetta di via della Pergola dove nel 2007 fu trovata uccisa la studentessa inglese Meredith Kercher. Un mistero intriso di dubbi, indagini lacunose, parole affrettate dei media e di qualche abbaglio dei magistrati, come l’arresto del barista Patrick Lumumba, poi scarcerato. «La parola “probabile” (o “improbabile”) ricorre per ben 39 volte nella sentenza di primo grado», avevano detto i giudici della Corte d’appello. E da ora, per la Cassazione, il processo è tutto da rifare. Segreti avvolti nel silenzio, troppo silenzio. Quello che circonda Sonia Marra, ovunque sia, la studentessa pugliese di cui non si hanno notizie dal 16 novembre del 2006. Nella sua casa del quartiere di Elce, la cittadella degli universitari, gli inquirenti hanno trovato le sue cose in ordine. Nessun indizio, praticamente nessun testimone. Segreti che chissà per quanto tempo resteranno tali: quelli che racchiudono il perché due notti fa Alessandro Polizzi, 24 anni, è stato freddato sotto gli occhi della fidanzata in zona stazione. Nel mezzo, tra il 1985 e l’altro ieri, Perugia che cambia. Nulla di simile si era mai visto nei sette secoli di vita dell’ateneo che fa gola agli studenti senza scontentare le mamme, acropoli minuscola eppure con l’incredibile melting pot dell’Università per Stranieri. Le mura, robuste e imperturbabili, sembrano prestare il fianco a questi misteri “spot”, che in realtà sembrano aver attraversato Perugia da parte a parte ma senza colpirla al cuore. Sono i segreti a lungo occultati e ormai cronici che oggi tracimano. Come quello di Andrea Zampi, l’imprenditore perugino che venti giorni fa ha fatto irruzione nel palazzo del Broletto, sede della Regione, e ha sparato a due impiegate prima di togliersi la vita. «Mi avete rovinato» è la confessione disperata dell’imprenditore che si è visto rifiutare l’ennesimo finanziamento, e che sa di essere arrivato a fine corsa. Trabocca il “segreto” delle bustine di polvere bianca infilate fra le fessure delle pareti di travertino, o delle dosi scambiate velocemente sulle scalette del Duomo. E lo hanno visto tutti nella rissa da far west dell’8 maggio scorso, una nuvola di spari fra le vetrine eleganti di corso Vannucci che solo per miracolo non fa vittime. Un regolamento di conti fra pusher maghrebini, professionisti della droga che si spartiscono la piazza più fruttuosa d’Italia per lo smercio di eroina: cinque dosi al giorno ogni mille abitanti. Un segreto sussurrato a bassa voce ma noto da tempo: già nei giorni dell’omicidio Kercher l’allora sindaco Renato Locchi ammetteva ai microfoni di RadioUno che «a Perugia di droga ce n’è in quantità, di qualità, e a prezzi ridicoli». Una Amsterdam del centro Italia, Sodoma degli universitari, condanna la stampa. E i perugini? In squadre, di tanto in tanto, provano a ribellarsi invocando più controlli. Più ancora di quelli previsti nel Patto per la sicurezza tra le forze dell’ordine, rinnovato in Prefettura, ironia della sorte, poche ore prima dell’ultimo omicidio. I più, però, nascondono la testa sotto la sabbia. Dribblano le vie dello spaccio, nascondono come possono che si è tutti un po’ più poveri. Si consolano per la chiusura del vecchio cinema del centro con il comfort dell’ampio parcheggio dei multisala. Non c’è più il vecchio bar, ma in compenso c’è un nuovo kebabbaro. Colonizzano spazi nuovi, dilatando le periferie e svuotando la città vecchia che oggi ha trentamila residenti in meno rispetto agli anni Settanta. Deserta e desolata, come il Far west.

Impiegate uccise a colpi di pistola: un minuto di silenzio in Regione. Il medico di Zampi: "Non aveva alcun disturbo", scrive “La Nazione” il 7 marzo 2013. "Andate via, lasciateci in pace...": un uomo ha liquidato così i pochi giornalisti che si trovavano fuori dalla casa dei genitori di Andrea Zampi per chiedere un commento su quanto avvenuto ieri mattina in Regione, dove il 43enne imprenditore si è sparato dopo aver ucciso due impiegate, Margherita Peccati, 61 anni, di Città di Castello e Daniela Crispolti, 46 anni. A Casaglia, località alla periferia perugina dove risiede la famiglia Zampi, stamani è una giornata grigia e anche la poca gente che si incontra per strada non ha molta voglia di parlare della tragedia di ieri. Con i cronisti ieri aveva scambiato poche parole il parroco, monsignor Antero Alunni Gradini, ribadendo che gli Zampi "sono una famiglia molto religiosa, sconvolta da una tragedia del tutto imprevista" e che "Andrea era un ragazzo buono e tranquillo, anche se ultimamente i problemi dell'azienda gli avevano provocato uno stato di angoscia". E' chiusa stamani Progetto moda, l'azienda di formazione professionale di Andrea Zampi. Nessuno risponde al campanello di uno dei palazzi di via Enrico Toti, nel quartiere di Madonna Alta, nell'immediata periferia perugina. Diverse le persone affacciate alle finestre, ma quasi nessuno ha voglia di parlare. Si limitano a dire che stamani a 'Progetto Moda' non si è visto nessuno. Diverse invece le persone che conoscevano Zampi nella via e al bar che si trova di fronte all'edificio. Dell'imprenditore parlano come di una persona schiva, "che ce l'aveva con tutti e in particolare con le istituzioni". Secondo le indagini condotte dalla polizia il movente del duplice omicidio e del suicidio di Zampi è legato alla pratica di accreditamento in corso in Regione per l'azienda dell'uomo, impegnata nel settore della formazione nel campo della moda. Pratica tuttora in corso con la ditta che doveva essere sottoposta a breve ad una verifica "in loco" come prevedono le normali procedure per questi adempimenti. La Regione ha comunque sottolineato già ieri che "Progetto Moda" non aveva con l'Ente alcuna pendenza relativa a finanziamenti. Anche Antonio, il barista, lo conosceva. "Era un tipo di poche parole - racconta - pochi sorrisi, molto serioso. Veniva soprattutto la sera, alla fine dei corsi. Si lamentava spesso del fatto che i soldi non bastavano più. Non urlava, ma si lamentava spesso, tra i denti, anche della vicenda dell'accreditamento". Antonio ha però detto di non aver mai sentito parlare Andrea di una pistola o di quello che l'imprenditore aveva in mente di fare. Non ha riscontrato ''alcun disturbo particolare'' il medico di base di Andrea Zampi, quello che gli aveva rilasciato il primo certificato utilizzato per ottenere il rilascio dell'abilitazione al tiro a volo sportivo. Lo ha detto lui stesso ieri sera alla polizia e al magistrato che coordina le indagini. Il sanitario ha riferito di essere stato medico di famiglia di Zampi da meno di un anno. ''Stava bene, non aveva alcun disturbo” ha sostenuto con gli inquirenti. Per quanto riguarda l'arma Andrea Zampi aveva da sei mesi un'abilitazione al tiro a volo sportivo, e non un porto d'armi. Accertamenti sono stati avviati dalla procura di Perugia e dalla polizia sulla documentazione medica in base alla quale è stata concessa la licenza dalla questura. L'abilitazione al tiro sportivo era stata già concessa a Zampi nel 2009 e poi revocata dopo che nei suoi confronti era stato applicato un trattamento sanitario obbligatorio. Quindi sei mesi fa l'imprenditore aveva presentato nuovamente la domanda, corredandola - si è appreso - dai due certificati medici previsti dalla normativa che lo definivano idoneo all'attività. Documenti ora al vaglio degli inquirenti. L'abilitazione permetteva a Zampi di recarsi al poligono per praticare il tiro a segno sportivo. In base alle norme poteva quindi portare la pistola, smontata e all'interno di un'apposita valigetta, nel tragitto tra casa e dove si sarebbe dovuto esercitare. Dalle indagini è emerso che Zampi aveva acquistato di recente la Beretta semiautomatica nove per 21 utilizzata per uccidere ieri le due impiegate. Non si sarebbe però mai recato al poligono per praticare il tiro a segno. Inoltre, stamani fuori del palazzo regionale si è svolto un presidio organizzato dalla rappresentanza sindacale unitaria e dalle organizzazioni sindacali dei dipendenti della giunta regionale umbra. Erano in circa 200 i lavoratori che vi hanno preso parte, molti con una fascia nera di lutto al braccio, per dimostrare ''affetto, stima e riconoscenza per le colleghe morte'' e per ''esprimere vicinanza ai familiari delle vittime''. In piazza del Bacio i dipendenti, molti dei quali con le lacrime agli occhi, hanno ricordato le vittime con un minuto di silenzio. Nel corso della veglia di preghiera di Quaresima di oltre 1.000 giovani dell'archidiocesi di Perugia con l'arcivescovo monsignor Gualtiero Bassetti, in programma stasera nella cattedrale di San Lorenzo, si pregherà e si rifletterà anche sull'omicidio-suicidio di ieri negli uffici della Regione. Inoltre, la Regione dell'Umbria precisa rispetto alla procedura di accreditamento gestita dall'ente ''con riferimento alla situazione dell'agenzia formativa Associazione Progetto moda, riferibile anche al sig. Andrea Zampi ed alle notizie apparse sulla stampa'', che si limita a garantire "la qualità dell'attività formativa e, ove previsti, anche la corretta gestione di fondi pubblici, e non comporta alcuna attribuzione di finanziamenti, contributi o altre forme di sostegni pubblici". Pertanto, "l'associazione Progetto Moda, già accreditata fino al 2009, è incorsa, in quel periodo, nella sospensione temporanea di tale accreditamento, a seguito di accertamenti svolti in seguito a segnalazioni di presunte irregolarità pervenute da parte di soggetti frequentanti corsi di formazione tenuti dalla stessa. Nel contempo si è riavviato un percorso di accompagnamento, svolto anche dagli uffici regionali, in esito al quale, nel corso del 2011, è stato accertato nuovamente il possesso dei requisiti previsti dalla normativa. Rientrando nell'elenco dei soggetti accreditati, l'associazione Progetto Moda doveva essere sottoposta, nel corso del 2013, alla verifica ordinaria, prevista dalle disposizioni amministrative rispetto al mantenimento dei requisiti necessari, come stabilito per tutti i soggetti accreditati. Ad oggi l'associazione Progetto Moda - conclude la Regione - non risulta né titolare né gestore di alcun progetto formativo finanziato con risorse pubbliche di competenza regionale''. "Nell'esprimere le più sentite condoglianze alle famiglie delle vittime di un atto di violenza terribile auspico che la presidente Marini e tutti gli assessori della sua Giunta, insieme alle forze politiche che in Consiglio regionale la sostengono, si astengano dallo strumentalizzare politicamente questo doloroso accadimento al fine di difendere un sistema che in Umbria ha colonizzato amministrazioni e istituzioni". Così - in una nota della Regione - il capogruppo regionale della Lega Nord, Gianluca Cirignoni, in merito alla tragica vicenda delle due impiegate uccise nella sede regionale del Broletto.

L'ultima intervista di Zampi: "Sono disperato". Perugia, il piccolo imprenditore aveva raccontato la sua tragedia: "Quei soldi mi servivano per finanziare i corsi di formazione. Ma me li hanno tolti per motivi politici", scrive “TGCom 24” il 7 marzo 2013. Un finanziamento dato e subito tolto. Sarebbe questo il motivo che ha scatenato la furia omicida del piccolo imprenditore Andrea Zampi, che ieri ha ucciso due impiegate alla Regione Umbria, per poi togliersi la vita. Solo poche settimane fa, a gennaio, Zampi raccontava la sua storia di rabbia e disperazione, in un'intervista ad alcuni allievi della scuola giornalismo della Rai in cui diceva: "Sono disperato". Il testo dell'intervista è stato diffuso da LaPresse. "Qui tre anni fa è successo un disastro - racconta l'omicida-suicida -, quando mi sono ammalato. È successo che noi avevamo un finanziamento per 200mila euro, per dei corsi. Poi, come ben sapete, qui la politica comanda tutto. Comunisti, sinistra, Ds, no? Chi comanda son tutti loro. I finanziamenti li danno a chi vogliono loro. A noi ce li hanno dati e poi per nulla, per un motivo politico, ce li hanno tolti". "Da quando mi è successa quella cosa - continua Zampi nel colloquio - io non sono stato più bene, per l’ingiustizia ricevuta. Ho avuto un problema e quindi non è che vado più a controllare queste cose. Noi abbiamo dei progetti allegati, si fa la progettazione, e c’è l’ultima parte in cui bisogna inserire gli esiti occupazionali, dichiarati e sottoscritti dalle allieve. Non c’è più stata progettazione, l’ultima è una progettazione per competenze chiave di 60 ore, e non puoi far nulla. È una devastazione totale…".  E poi, via con le accuse alla Regione: "La Regione Umbria una volta era florida, e comunque anche ora ci sono le aziende. Il mondo dell’abbigliamento è una cosa dove si devono fare i corsi, che sono importanti. Ma danno i soldi a valanga, destra, sinistra. Sono cose per prendere soldi e basta. Questo è un mestiere vero, una professione. Ci sono delle competenze… Quella invece è una politica sbagliata, a sua volta di tutti i governi che hanno permesso questo, perché il lavoro tocca tutelarlo all’interno dell’Italia. Sono politiche sbagliate, è tutto un disastro”. L'imprenditore si riferisce poi ad alcuni episodi che, secondo lui, avrebbero bloccato quei soldi. Parla di carenze nei suoi corsi che, a suo dire, sono pretestuose. "Il dispositivo di accreditamento? – dice –. I locali io li avevo a norma. Poi tre mesi prima è successa una variazione sulla normativa di sicurezza. Io ho telefonato alla ditta e questo mi ha detto Tutto a posto, lascia stare così. Io ho lasciato stare così, sono venuti e mi mancavano tre cartellini: “Divieto di fumo” e Macchine in movimento. Una cavolata e mi hanno tolto l’accreditamento e conseguentemente i 160mila euro di finanziamenti approvati. È terribile. No, io sono finito… Io sono un cristiano e non mi interessa nulla. Io sono regolare, preciso, mai raccomandazioni, niente. Per tre cartellini mi hanno chiuso i finanziamenti, ma stiamo scherzando? L’Ilva, quella inquina, produce, ammazza tutti e ci ha le tangenti dai presidenti. Nelle scuole pubbliche cadono i solai, ma vanno avanti ugualmente. Io per tre cartellini perdo i soldi. Se vedi che tre cartellini non ci sono mi dici "Ok, ti do un tempo per rimetterceli". No? Questa è la realtà".

Strage del Broletto, il piano di Andrea Zampi descritto nel suo memoriale esclusivo. Per la prima volta reso pubblico un documento sconcertante che l'imprenditore scrisse prima del tremendo 6 marzo, scrive Luca Vagnetti su “La Nazione” il 26 febbraio 2014. «THE FINAL countdown». Così Andrea Zampi aveva intitolato il suo memoriale. Centouno pagine scritte al computer nei mesi precedenti alla tragedia del Broletto e ritrovate solo dopo la ‘strage’. Un racconto allucinato e allucinante. Si tratta di un fascicolo, redatto in due copie, in cui l’uomo sfoga tutta la sua amarezza, rivela tutta la sua disperazione, riversa tutta la sua sofferenza. E anticipa ciò che poi effettivamente farà la mattina del 6 marzo 2013: «Alcuni della Provincia e della Regione — scrive Zampi in uno dei primi passi — abbassano lo sguardo quando mi incontrano. La coscienza parla, dopo che mi hanno massacrato, non è sufficiente, ora arriva la morte». Le sue intenzioni sono chiare e vengono esplicitate in più di uno stralcio: «Ora sono malato, soffro tantissimo, e quindi ora pagate l’errore fatto. Voi avete annientato la mia vita, io anniento la vostra». Zampi scrive chiaramente di una «irruzione a mano armata nell’Istituzione pubblica Regione Umbria» e ammette: «Mi dispiace non entrare in Provincia a terminare chi di dovere, perché sono loro che hanno iniziato il tutto». Il «Final countdown» di Andrea Zampi terminerà in un bagno di sangue: «Io sono avvelenato contro la massoneria, come la politica locale mafiosa, e ho dei buoni motivi, motivi di morte». Misticismo e rabbia, la sensazione di sentirsi finito, la malattia. Tutto si mescola nel memoriale, di cui esistono solo due copie: una venne lasciata dall’omicida nella stanza all’interno della quale furono uccise Margherita Peccati e Daniela Crispolti, l’altra fu ritrovata dentro la camera del giovane imprenditore al momento dell’ispezione della polizia nelle fasi successive alla tragedia. «Era indirizzato alla stampa — sottolinea il padre Giancarlo —, mio figlio voleva che diventasse di pubblico dominio». Nella follia di Zampi l’intento di uccidere è chiara: l’uomo manifesta «l’impossibilità a elargire Misericordia a coloro che mi hanno massacrato, in quanto nessuno, nonostante informati delle mie condizioni di salute, ha avuto il pensiero e l’umiltà di comunicarmi formalmente il dispiacere e il dolore, quindi riconoscermi il peccato elargito. Il calice della Misericordia è pieno di sangue. Lo sanno (i rappresentanti delle istituzioni, ndr) che l’hanno fatta grossa, ma mi avete sottovalutato. Ora arrivano i conti. E non ve lo meritate? Hai voglia se ve lo meritate». E ancora, sempre in modo molto diretto: «La mia condizione esistenziale porta al desiderio di una sola via d’uscita, la morte, onde evitare a vita sofferenze non sopportabili». Andrea Zampi non ha sparato a caso, come in un primo tempo si pensava. Il suo obiettivo era colpire Margherita Peccati, che cita più volte nel memoriale. Uno stralcio in particolare è agghiacciante e tristemente premonitore: «Mi impongo per raggiungere la mia massima perfezione a terminare solo la Peccati, ma non è sicuro. Quando dico solo la Peccati, dentro di me provo molta rabbia e dolore, anche nella mente cerco di contenere tutto, mi faccio del male nel sopprimere, sarebbe meglio scaricare e quindi starei bene a terminare ulteriori soggetti, perché sono stato colpito da tanti esseri. Dio vuole la terminazione di tutti i responsabili. Comunque devo dare il massimo senza esagerare. Sentite, Peccati, un cognome, un segno, deve prendersi lei tutti i peccati commessi contro me, forse è un indirizzo espresso da Dio, metaforico forse non a caso. Darò il tempo alla Peccati di dire un Padre nostro e un atto di dolore, se vorrà, con la pistola nascosta e puntata, come loro hanno fatto a me. Era il loro fine, uccidermi in tutti i modi». L'equilibrio psichico di Zampi è visibilmente precario, i suoi sono deliri: «Attenzione, alcuni dipendenti si possono sentire dichiarati cadaveri ma saranno no graziati, miracolati, ripeto miracolati, in quanto eravate morti per certo ma ora vivete, forse. Tuttavia per guadagnare il miracolo verranno alcuni visitati e di fronte a me con la pistola puntata dovranno invocare il Signore pronunciando l’invocazione: "Signore, abbi pietà di me, secondo la tua Misericordia". Tutti loro non hanno avuto Misericordia di me, tuttavia il Signore è misericordioso e la concederà, sparandogli un colpo mortale in testa, deviato al muro, ma forse no». Le ultime pagine, scritte poco prima che la tragedia del Broletto arrivasse a compimento, sono altrettanto crude: «Nell’ora dell’estremo atto supremo sacrificale nel giorno della santificazione e del martirio finale, come in ricordo dei miei aguzzini, io sia prudente, forte, temperante e giusto, nel procedere e tenere ferma la mia mano». Nel consumare l’ultimo atto della sua vita Andrea Zampi si sente quasi un angelo armato: «Dio — scrive nell’ultimo passo —, spero di aver fatto la tua volontà. Forse non uccideranno più il prossimo come me. Oggi vedo il cielo e il tuo mistero. Un bel giorno per morire. Padre, nelle tue mani affido il mio spirito. A testa alta. Tutto è compiuto. Amen. Portami in cielo». Il resto purtroppo è storia, sangue, spari, disperazione, paura. E vittime innocenti.

Strage Perugia, i genitori di Andrea Zampi: "Soldi solo a chi ha amici politici, è crollato". Dal sogno della moda alla depressione. Il racconto della madre e del padre dell'uomo che ha ucciso due impiegate della Regione Umbria. Da cinquant'anni l'azienda di famiglia forma stilisti: lui voleva farla crescere. Segni di squilibrio ripetuti e profondi, ricorre più volte ai servizi sociali, scrive Corrado Zunino su “La Repubblica” il 07 marzo 2013. La fine di Andrea Zampi, imprenditore della moda, formatore di sarti e stilisti, era iniziata quattro anni fa, a febbraio del 2009. La Regione Umbria, gli uffici dei corsi professionali della struttura di via Angelosi, gli aveva tolto l'accreditamento, la sua scuola non era più una struttura convenzionata. "Con quella bocciatura sono sfumati 160 mila euro di finanziamenti europei". Lo racconta la madre, sul cancello della sua villa in località Casagli, frazione di Perugia, sotto una pioggia fitta e lenta. Ci aveva lavorato tredici anni a quel progetto, "Il filo della moda". E la madre, ora assistita da un padre, Giancarlo, scavato da un dolore antico esploso ieri mattina nel modo peggiore, racconta: "Noi siamo piccoli imprenditori e in questa città i finanziamenti vanno solo ai grossi, quelli sostenuti dalla politica. Per entrare in graduatoria servivano 70 punti, Andrea li aveva raggiunti, ma gli uffici gli dissero che gli mancavano due documenti, due fogli che si sarebbero potuti ottenere in una mattinata". "Puff", mima la madre con le mani, "ogni sogno è crollato insieme al finanziamento mancato". Il colpo è troppo forte. "Noi siamo un'impresa della moda da cinquant'anni, più. Mio figlio voleva portare avanti l'azienda, farla crescere, darle un respiro internazionale, ma senza quell'assegno tutto è diventato difficile, per lui impossibile". Le crisi depressive, ripetute. Presto prendono il corpo di un esaurimento. Il quarantenne Andrea Zampi chiede aiuto ancora una volta alla struttura pubblica, consigliato e sostenuto dai tre fratelli. I servizi sociali. Non basta. I segni di squilibrio sono ripetuti e profondi. Per due volte viene richiesto, lo raccontano i genitori, il trattamento sanitario obbligatorio. La famiglia decide di accompagnare l'uomo - che nel 2011 ha riottenuto l'accreditamento, è rientrato nell'albo della Regione, ma ormai ha perduto il denaro necessario a far decollare l'impresa - a Pisa. Un importante psichiatra lo prende in cura. "Gli hanno fatto due volte le stimolazioni al cervello", ancora la madre, "non sapevamo più come curarlo". Il padre si affida alle preghiere, la famiglia è devotamente cattolica. La scuola di formazione - loro la chiamano associazione, Andrea ne è il presidente, il padre Giancarlo il vice - non chiude. Stilista di moda, designer di moda, modellista: sei corsi. E poi le sfilate dove si presentano le creazioni degli allievi, in ditta a Perugia, via Enrico Toti, e poi a Fano. Sono diciotto le sedi distaccate di Progetto moda. Il giovane imprenditore gira anche per le scuole di zona, invitato, e parla di tessuti e di impresa. Ma la sua tenuta vacilla. E quel finanziamento bruciato è un mostro che risale quasi ogni notte. Sei mesi fa Andrea Zampi trova un medico a Perugia che, nonostante la sua storia clinica pesante, gli riconosce un equilibrio sufficiente per fargli maneggiare una pistola. Da tempo è un frequentatore dei poligoni, tiro a segno: "Sparava, con la pistola sportiva, e due colpi a capodanno in villa". Ma a inizio ottobre presenta la richiesta del porto d'armi personale in questura. Grazie alle certificazioni mediche, lo ottiene. Non lo utilizza subito, per cinque mesi ancora l'unica pistola nel cassetto in camera resta quella da poligono. "Venti giorni fa è arrivato l'ultimo dolore", ora è l'anziano padre a parlare. "Mio figlio ha riproposto il vecchio progetto del 2009, su sollecitazione dei funzionari della Regione, ha ottenuto 74 punti quando quattro anni prima ne bastavano 70, eppure lo hanno bocciato ancora". Andrea non resiste più. Contatta una clinica in Svizzera che accompagna alla morte per eutanasia: "Non voleva più stare con noi". Nei giorni scorsi giorni - accerterà la Digos - acquista una Beretta semiautomatica. E inizia a organizzare la sua fine, sua e di qualche nemico, così vissuto nella testa. Al computer l'imprenditore Zampi prepara quattro biglietti, quattro almeno ne ha fin qui trovati la squadra mobile. Uno lo lascia a casa, chiede alla famiglia cattolica di essere cremato. Ieri mattina, sono le otto e mezzo, saluta la madre: "Devo andare a sistemare la cinghia di trasmissione della Bmw". Lascia la villa di Casaglie. In tasca ha altri due foglietti. Uno - lo lascerà sulla scrivania di una delle impiegate - è un'invettiva contro la Regione e i suoi burocrati. Un altro, gli resterà nei pantaloni, dice: "Mamma guarda nel cassetto del mio comodino, guarda chi ti guarda, ci vedremo quando saremo più in salute e giovani. Ciao". 

Andrea Zampi e i troppi misteri della sparatoria a Perugia, scrive il 07/03/2013 Alberto Sofia su "Giornalettismo". L'imprenditore della moda, uccide due impiegate nel palazzo della Regione. Colpa di un finanziamento negato? “Siete massoni, guadagnate un sacco di soldi, mi avete rovinato”. Poi soltanto il rumore degli spari, nove in tutto. Queste le parole pronunciate a Perugia da Andrea Zampi, un piccolo imprenditore 40enne, che ha ucciso due impiegate dopo aver fatto irruzione nel palazzo della regione Umbria. E si è poi tolto la vita. Tutta colpa di un finanziamento negato: l’uomo, i cui genitori erano titolari della scuola di formazione “Progetto Moda”, si è barricato nell’ufficio, con la convinzione che gli avessero impedito di ottenere un finanziamento necessario per la sua attività. Mancavano alcuni requisiti previsti dalla legge, così la Regione aveva deciso la revoca dell’accreditamento all’agenzia. In realtà, non era nemmeno un provvedimento definitivo, come conferma il Bollettino ufficiale della Regione Umbria: era in corso una verifica, dopo la sospensione. Ma quei fondi dipendevano anche da altri enti. A perdere la vita sono state due dipendenti pubbliche che lavoravano al quarto piano del palazzo, all’ufficio accreditamento, che fa parte del settore della formazione. Si tratta di Daniela Crispolti, una precaria con contratto di collaborazione di 46 anni, e Margherita Peccati, di 61 anni, ormai vicina alla pensione. La vicenda di Andrea Zampi andava avanti ormai da quattro anni. Giovane imprenditore della moda, che con la sua agenzia formava sarti e stilisti, con un progetto aveva ottenuto nel 2009 un finanziamento europeo di 160 mila euro. Denaro in realtà mai erogato dalla Regione: questo perché mancavano alcuni requisiti previsti dalla normativa. Si era visto togliere quei fondi comunitari, nello scorso febbraio del 2009. Per la decisione della Regione Umbria, la sua scuola risultava così non più convenzionata: ma i fondi erano essenziali per la sua attività. Tanto che Zampi cade in depressione e viene sottoposto a cure psichiatriche. Negli ultimi tempi era stato anche costretto a ricoverarsi in ospedale. Poi, la delusione più grande. L’ultimo “no”, al quale, secondo i genitori, Zampi non avrebbe più retto. “Soldi solo agli amici dei politici”, hanno accusato gli stessi genitori. Venti giorni fa era infatti arrivata un’altra delusione, con la bocciatura del progetto approvato quattro anni prima. Troppo per il giovane imprenditore, che lo conduce fino alla follia del duplice omicidio premeditato. In base alle ricostruzioni di alcuni testimoni, l’uomo avrebbe fatto irruzione nel palazzo, urlando: “Siete massoni, guadagnate un sacco di soldi, mi avete rovinato”. Secondo quanto riporta Repubblica, Zampi “avanza con un pistola in pugno e con dei fogli in mano, con i dipendenti che d’istinto si buttano sotto la scrivania”. Raggiunti l’ufficio, avrebbe gridato alle donne frasi sconclusionate: “160.000 euro…è colpa vostra, è colpa del Pd…siete tutti uguali, ladri…io sono Dio”E gli spari, nove in tutto, che sono costati la vita alle due impiegate, una morta sul colpo. Infine, la decisione di togliersi la vita, come spiega Repubblica: “Andrea Zampi, dopo aver fatto fuoco sulle donne indifese e aver lasciato su un tavolo un dossier scritto al computer con pesanti accuse alla Regione e ai suoi dipendenti, percorre altri venti metri, arriva fino all’ultima stanza del quarto piano, entra, si rivolge contro la pistola e preme il grilletto due volte. Il secondo colpo, alla testa, lo lascia in un lago di sangue. Fine”. Ai genitori Zampi ha lasciato una serie di messaggi, a sfondo religioso, oltre che un testamento in cui spiega la volontà di essere cremato. Tutto il materiale sarà ora vagliato dalla polizia. In un biglietto, oltre alle accuse contro la Regione, quelle ai dipendenti. Ed emerge un particolare: in tasca Zampi conservava un biglietto che recitava: “Finalmente mi ricongiungerò con te, Dio”. La conferma della premeditazione del gesto. Sono stati attimi di panico nel Palazzo della Regione. Una volta appresa la notizia, ad intervenire è stato lo stesso sindaco perugino, Vladimiro Boccali: “E’ una tragedia immane, frutto di un clima orribile legato all’attuale situazione economica”, ha affermato, invitando tutti a riflettere. Da Roma, dove aveva partecipato alla direzione nazionale del Pd, è rientrata anche Catiuscia Marini, presidente della regione Umbria. Il Comune di Perugia, dopo l’omicidio, “ha deciso di annullare tutte le manifestazioni pubbliche in programma per oggi e proclamare il lutto cittadino”. L’uomo aveva già denunciato la sua situazione, in alcune interviste radiofoniche. Come quella rilasciata ai praticanti della scuola di giornalismo di Perugia, dove spiegò di “essere finito” a causa dello stop ai fondi. L’uomo aveva manifestato la sua preoccupazione per la troppa burocrazia che aveva sospeso i fondi già stanziati. Aveva spiegato: “Mi mancavano tre cartellini, libretto di fumo, macchine in movimento, una cavolata. Ma mi hanno tolto un accreditamento e di conseguenza i 160 mila euro di finanziamento approvati”. Ma non ha retto alle pressioni, dopo la bocciatura del progetto. Il volto delle difficoltà del paese reale.

CASTA. AFFARI DI FAMIGLIA. L’ATENEO: ROBA NOSTRA!

L'ateneo, un affare di famiglia, scrive Carmine Gazzanni su “L’Espresso”. Padri, mogli, figli. A Perugia, nella facoltà di medicina e all'ospedale, i cognomi che contano sono sempre gli stessi. Mentre le immatricolazioni degli studenti sono in caduta libera e la valutazione dei risultati accademici è tra le più basse in Italia. Che non si osi parlare di parentopoli. Nell'ateneo di Perugia, e in particolare nella facoltà di medicina, nessuno vuole sentire questa parola. Eppure, tra i dipartimenti dell'università e tra i reparti dell'ospedale del capoluogo umbro, i nomi che si ritrovano sono sempre gli stessi. Una valanga di mogli, mariti, zii, figli. Tutti insieme appassionatamente. "Beh - ci dice il preside di facoltà, il professore Luciano Binaglia - in una cittadina come Perugia se il figlio di un dottore decide di intraprendere la carriera medica è più che normale ritrovarli nella stessa struttura ospedaliera. Il problema quello vero è andare a vedere come si sono svolti i concorsi. Se uno è meritevole è giusto stia lì". Lettura impeccabile, ci mancherebbe. Alcuni casi, però, lasciano più di un dubbio, specie se moglie, marito e figlia poi li ritroviamo nello stesso reparto e nello stesso dipartimento. L'ordinario di gastroenterologia Antonio Morelli, per dirne una, lavora ormai da anni fianco a fianco con la moglie, Monia Baldoni, e con la figlia, Olivia Morelli. Entrambe ricercatrici. Entrambe nello stesso dipartimento di papà e consorte. E come se non bastasse le ritroviamo entrambe anche nell'equipe medica proprio del reparto di gastroenterologia dell'Ospedale di Perugia, il cui primario - indovinate un po' - è ancora lui, Antonio Morelli. Altra medaglia al merito: come rivelato già da L'Espresso, Morelli, su cui pende già una condanna in via definitiva, è ora rinviato a giudizio per truffa a danno proprio dell'Azienda Ospedaliera. Secondo l'accusa avrebbe "dirottato" pazienti dalla struttura pubblica a quella privata dell'Ars Medica, di proprietà proprio della moglie Monia Baldoni. Ma andiamo avanti. Già, perché basta spostarsi di poco per leggere altre situazioni simili. Come quella dei Mannarino. Elmo, infatti, è professore ordinario e primario del reparto di medicina interna dell'ospedale. Proprio lo stesso reparto dove ha trovato occupazione un altro Mannarino, Massimo Raffaele, che è anche ricercatore nel dipartimento di medicina clinica e sperimentale. Lo stesso - manco a dirlo - dove Elmo è ordinario. Che dire, poi, della famiglia Donato. Calabrese proprio come Morelli e come Mannarino, Rosario Francesco è professore ordinario di anatomia umana. Ebbene, nello stesso dipartimento lavorava anche la consorte, Ileana Giambanco. Il figlio Giulio, invece, è titolare di un assegno di ricerca proprio nel reparto di gastroenterologia della famiglia Morelli. Ma di coniugi, d'altronde, ne troviamo a gogò. Lanfranco Corazzi, professore ordinario, condivide vita e ricerca con Rita Roberti, professoressa associata: entrambi docenti di biochimica, entrambi nel dipartimento di medicina interna. E anche spostandosi di uffici la situazione non cambia: Paolo Puccetti, ordinario di farmacologia al dipartimento di medicina sperimentale e scienze biochimiche, lavora fianco a fianco con la consorte Luigina Romani, ordinaria di patologia generale. Curiosità: la Romani è finita sotto processo perché, secondo l'accusa, avrebbe alterato un concorso da ricercatore favorendo una persona di suo gradimento. Eppure pare proprio che questi legami parentali non facciano più di tanto scalpore. Secondo il professor Puccetti "non ci sono casi eclatanti che possono far parlare a Perugia di quello che tecnicamente è noto come 'nepotismo'. Sicuramente ci possono essere letture che potrebbero far pensare a una sorta di consociativismo". Ecco, 'consociativismo'. Nulla più. E poi, continua il docente, "è una cosa comune a tutto l'ambiente universitario che io conosco. Universitario ed extrauniversitario. Ci sono anche ciabattini figli di ciabattini, voglio dire". "Non bisogna dimenticare - chiosa Puccetti - che spesso in alcune famiglie si tramanda un amore per la medicina". Tanto basterebbe a giustificare il tutto. Ma dev'essere stato un "amore" ai limiti dell'impossibile vista la mole di parenti che lavorano "core a core" nell'università e che godono anche di una convenzione con il Servizio Sanitario Regionale. Come non sono pochi, peraltro, i figli e nipoti di ex primari oggi in pensione. Insomma, anche la sfilza delle seconde generazioni è decisamente lunga. Quello che ne esce è una rete incredibile. Carlo Cagini, per dire, è professore associato presso l'ateneo ma anche primario del reparto di clinica oculistica, lo stesso reparto dove tra gli altri lavora Tito Fiore, il quale è anche ricercatore universitario e, soprattutto, è figlio di Cesare, ex primario ed ex ordinario proprio di oculistica. Il fratello di Carlo, Lucio Cagini, oltre ad essere anche lui ricercatore, è membro dell'equipe medica di chirurgia toracica e componente del cda universitario. Nello stesso reparto lavora, come dirigente di prima fascia, anche Niccolò Daddi, figlio dell'ex professore Giuliano che, manco a dirlo, era primario dello stesso reparto. E che dire, ancora, dei fratelli Gerli, Roberto (ordinario) e Sandro (ricercatore), il primo responsabile della struttura semplice di reumatologia, il secondo dirigente di seconda fascia della clinica ostetrica e ginecologica. Nello stesso dipartimento di Roberto Gerli, lavorano come associata anche Laura Pasqualucci, il cui cugino, Alberto, è ordinario di anestesiologia, ed Enrico Velardi, ricercatore e figlio di Andrea, ordinario in malattie del sangue. Basta incrociare i nomi, dunque, per capire come, spesso, ruoli apicali spettino a persone della stessa famiglia. Anche quando padre, marito o zio è andato in pensione. E così, se ad esempio l'ex preside Adolfo Puxeddu ha appeso il camice al chiodo (ma resta comunque professore emerito), il figlio Efisio è ricercatore in medicina interna oltre a lavorare anche lui in ospedale, nel reparto di medicina endocrinologica. Situazione analoga a quella dei Martelli: l'ex ordinario Massimo è oggi emerito, mentre la figlia, Maria Paola, è ricercatrice e dirigente di ematologia. E ancora Giuseppe Rinonapoli: professore associato e membro dell'equipe medica di ortopedia, lo stesso reparto dove lavorava, da ordinario, il padre Emanuele. Insomma, quella perugina sembrerebbe una realtà del tutto naturale, visti i numerosi i casi. Se infatti Renato Palumbo, ex primario di medicina nucleare, è andato in pensione, oggi nell'equipe medica dello stesso reparto ritroviamo la figlia Barbara nelle vesti di dirigente di prima fascia, mentre Isabella, la seconda, lo è di radioterapia oncologica. Entrambe, ovviamente, anche ricercatrici universitarie. Che sia una realtà che va avanti da tempo, lo capiamo colloquiando telefonicamente con il preside Binaglia, il quale, alla nostra domanda, argomenta: "guardi, non penso che le malversazioni siano poi così diffuse". E poi aggiunge: "Noi peraltro abbiamo una regola - non solo noi ma proprio tutto il sistema universitario - per la quale non possono lavorare nello stesso dipartimento persone fino al quarto grado di parentela". Ebbene, il silenzio del professore che segue alle nostre osservazioni sui tanti casi della facoltà che tradiscono tale "regola" è più eloquente di mille parole. "Eh... ahimè sì... ma è una situazione che ho trovato. Non potevo mica licenziarli?". Una situazione surreale, dunque. Che si è acuita, dicono i ben informati, sotto la lunga gestione del rettore Francesco Bistoni, non a caso anche lui proveniente proprio dalla facoltà di medicina (di cui è stato anche preside dal 1987 al 1994). Ben quattordici anni di mandato per lui. Era il 1999, infatti, quando divenne numero uno dell'università di Perugia. E da allora è riuscito a prolungare fino all'inverosimile la sua presenza sullo scranno più alto dell'ateneo (scranno da circa 196 mila euro annui. Qualcosa come 16 mila euro al mese). Surreali anche le proroghe ottenute per arrivare ad essere uno dei rettori più longevi d'Italia. Lo statuto accademico che vigeva nel '99 prevedeva un mandato di tre anni con una sola proroga. Insomma, Bistoni avrebbe potuto collezionare sei anni di rettorato se tutto fosse rimasto invariato. Peccato però che durante il primo mandato il regolamento interno cambia: gli anni diventano quattro. Ergo: strada spianata per Bistoni fino al 2007. A questo punto, però, il rettore riesce nuovamente a cambiare lo statuto con l'inserimento di una norma ad personam: ulteriore elezione giustificata dal fatto che, poiché l'anno dopo si sarebbe tenuto il 700centesimo anniversario dell'ateneo perugino, era necessario garantire continuità per l'organizzazione delle celebrazioni. Arriviamo così al 2011. Ma non è finita: interviene un'ulteriore proroga in virtù di un comma della riforma Gelmini, che prevedeva che i rettori in carica al momento dell'adozione dei nuovi statuti (previsti appunto dalla riforma) potessero restare per altri dodici mesi. Una norma di transizione per accompagnare il passaggio dal vecchio al nuovo. Peccato però che una parte dei rettori (tra cui, guarda caso, anche Bistoni) la interpretano in modo estensivo agganciando alla prima proroga, dal 2011 al 2012, una seconda aggiuntina, di un altro anno. Risultato: per l'immortale rettore perugino lo scranno è rimasto saldo. Risultato? I quattordici anni di Bistoni - che si concluderanno, nel caos più totale, tra poco più di un mese con l'elezione del nuovo rettore - hanno portato l'ateneo umbro ad uno scadimento progressivo della qualità della ricerca e dell' insegnamento. Almeno questo è quello che sembra andando a leggere l'ultima valutazione dell'Anvur (luglio 2013): l'ateneo umbro si è piazzato 21esimo sui 32 grandi atenei complessivi, con poche punte di eccellenza e ripercussioni negative sui fondi ministeriali (che peraltro, come se non bastasse, verranno congelati visto che l'università perugina sarà l'ultima a recepire la riforma Gelmini). Avremmo voluto parlarne direttamente con Bistoni. Ma "in questo periodo è praticamente impossibile", ci dicono dal rettorato. Peccato. E gli studenti? Questi, come indica il crollo delle iscrizioni (meno 30% in 8 anni), stanno ormai scomparendo. Ma i professori, quelli no. Restano. Soprattutto se sei "figlio di".

La scalata al Rettorato si fa via Tar, scrive Carmine Gazzanni su “L’Espresso”. Dopo 14 anni di "regno", Francesco Bistoni lascia il posto di comando all'università di Perugia. Sulla successione è buio fitto. Tra rinvii, ricorsi, proroghe ed esclusioni eccellenti. L'università degli studi di Perugia è Francesco Bistoni. Lo è stata, perlomeno, per ben quattordici anni. Incredibile a dirsi, ma tanto è durato il suo rettorato. Fin dal 1999. Uno dei mandati più lunghi d'Italia. Meglio di lui, forse, è riuscito a fare solo Giovanni Cannata dell'università del Molise, andato in pensione quest'anno dopo essere stato rettore addirittura dal 1995, anno di nascita dello stesso ateneo. Eppure, all'indomani del baronato a firma Bistoni, le acque non sono affatto tranquille. Quello che è accaduto e che sta accadendo a Perugia ha dell'unico. Dell'incredibile. Le elezioni del nuovo rettore, previste nel mese di giugno, sono infatti state rimandate, a suon di ricorsi al Tar, ad ottobre. Fa niente se quello perugino sarà l'ultimo ateneo a recepire la riforma Gelmini con il conseguente congelamento dei fondi pubblici destinati all'università (come ci confermano dal ministero). Un problema non da poco considerando che i rubinetti non siano poi così aperti. Ma torniamo ai fatti. Perché questo disastro? Colpa, dicevamo, di alcuni ricorsi al Tar - presentati da diverse associazioni a cominciare da quella di area Pd dell'Udu (Unione degli Universitari) - per via (anche) di un regolamento decisamente caotico e confuso. "Diverse erano le criticità - ci dicono - si passava da un regolamento che aveva un punto, com'era nel vecchio regolamento, a uno che ne aveva più di 45. I criteri non erano assolutamente chiari, non erano tesi a permettere una forte partecipazione attiva degli studenti". Per dirne una: per la presentazione di ogni singola lista erano necessarie cinquanta firme. Un numero elevatissimo se si pensa che ci sono anche dipartimenti molto piccoli dove gli iscritti sono anche solo 180. "Una percentuale che a livello giuridico non esiste da nessuna parte", commenta Tiziano Scricciolo, segretario dell'Udu perugino. Per questi ed altri motivi (alcune liste, nonostante fossero state ammesse "senza colpo ferire" dalla commissione elettorale dell'ateneo, avrebbero consegnato i plichi ben oltre i termini previsti. Anche ore dopo) il Tar ha riammesso le associazioni studentesche alla corsa elettorale. Non è stato questo, però, l'unico ricorso presentato. All'inizio di agosto, infatti, ancora il Tar di Perugia ha riammesso la candidatura del professore Mauro Volpi (ex componente laico del Csm), il quale era stato escluso dalla commissione elettorale per la corsa al rettorato per sopraggiunti limiti di età. Il giudizio di merito, infatti, resta sospeso perché il Tar ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità relativa all'articolo 2 comma 11 della legge Gelmini che non consente a Volpi di partecipare alle elezioni per difetto del requisito previsto per l'elettorato passivo, ossia "assicurare un numero di anni di servizio pari almeno alla durata del mandato prima del collocamento a riposo". Il fatto è che Volpi ha 65 anni e il mandato da rettore ne dura sei, mentre la legge Gelmini mette fuori dell'università gli ultrasettantenni. La questione non è affatto di poco conto: nel caso in cui Volpi venisse eletto e la Consulta dovesse nel frattempo stabilire che l'articolo 2 non è incostituzionale, chiunque potrebbe presentare un ulteriore ricorso e si dovrebbe tornare al voto nel giro di uno o due anni. Un disastro completo, insomma. E i paradossi non finiscono qui. Un'altra delle conseguenze dei vari pronunciamenti del Tar è che le matricole non potranno partecipare al voto. Il motivo? I giudici amministrativi hanno di fatto congelato le elezioni e hanno disposto che proprio da quelle si dovrà ripartire. Ergo: gli aventi diritto saranno gli stessi che lo erano a giugno 2012. E, dunque, matricole fuori mentre - paradosso dei paradossi - anche coloro che nel frattempo si sono laureati potranno partecipare al voto, sebbene ora fuori dall'università. Una situazione che definire assurda è poco. Ma ecco la ciliegina sulla torta: viste le tante stranezze di queste elezioni, se qualcuno dovesse, all'indomani del voto, decidere di ricorrere nuovamente al Tar e questo dovesse dargli ragione, la strada che potrebbe aprirsi sarebbe quella del commissariamento. E quale nome sarebbe il più indicato se non quello di Francesco Bistoni vista l'esperienza maturata? Non c'è dubbio che il magnifico accetterà. Per il bene dell'ateneo, certo. Ma anche per arrotondare a cifra tonda i suoi anni di rettorato. Ipotesi remota, forse. Ma che, come ci confermano in tanti, rimane in piedi.

Perugia, ma che strano primario, scrive Carmine Gazzanni e Maurizio Bongioanni su “L’Espresso”. Condannato per corruzione nel 2003, Antonio Morelli è rimasto al vertice dell'ospedale. Ora è alla sbarra per truffa: avrebbe dirottato i pazienti dal nosocomio pubblico all'ambulatorio privato della moglie. Che insegna nella sua stessa facoltà. Dalla condanna per corruzione al processo per truffa, passando dagli affari di pastasciutta a programmi Rai con sponsorizzazioni sospette. Senza mai perdere la cattedra, né l'incarico nella sanità pubblica. Antonio Morelli è uno che conta a Perugia: ordinario all'Università di Medicina e primario di gastroenterologia all'ospedale cittadino. Che la sua carriera sia andata a gonfie vele anche per i rapporti che è riuscito a stringere, sembrerebbe un dato di fatto. A cominciare da quelli col rettore Francesco Bistoni, il quale non l'ha scalzato dalla sua posizione universitaria, nonostante una condanna definitiva per corruzione nel 2003. In quel caso Morelli aveva chiesto a un paziente il pagamento di un referto istologico benché ci si trovasse in una struttura ospedaliera pubblica. Il paziente aveva pagato: subito dopo però si era recato in Procura per presentare un esposto. Da qui, indagini e relativa condanna a 2 mesi di reclusione. Nonostante questo, Morelli è rimasto al suo posto. Sia nell'azienda ospedaliera, sia nell'ateneo. Dove nel frattempo ha trovato incarichi anche la famiglia. Sarà semplicemente un caso, ma spulciando tra l'equipe medica ospedaliera del primario, compaiono i nomi della moglie di secondo letto, Monia Baldoni, e quello della figlia, Olivia. Le due familiari, come se non bastasse, lavorano pure nel dipartimento universitario diretto da Morelli stesso: ricercatrici entrambe, la figlia dal 1999, la moglie dal 2007. Ora però, accanto alla condanna definitiva, spunta una nuova tegola per Morelli. Il prossimo 4 luglio ci sarà la prima udienza del processo dove è rinviato a giudizio per truffa a danno dell'Azienda Ospedaliera. Le indagini, durate ben cinque anni e condotte dal pm Giuseppe Petrazzini, sono nate nel 2007 quando vengono presentate alle forze dell'ordine diverse denunce da pazienti che erano stati "dirottati" dalla struttura pubblica all'ambulatorio privato Ars Medica srl, la cui titolare, formalmente, risulterebbe essere tale Gioia Pia. Secondo l'accusa, però, Pia altro non sarebbe che un prestanome, cosa accertata dal pubblico ministero Petrazzini attraverso un fitto lavoro di indagini su conti bancari (la perizia messa agli atti testimonia giri di soldi da oltre 4 milioni di euro) e società private. L'illecito sarebbe dimostrato anche dalla visura camerale dell'ambulatorio: la proprietà dell'azienda privata è infatti riconducibile totalmente alla moglie del professore Monia Baldoni. Secondo l'imputazione, diversi pazienti recatisi in ospedale per un'operazione o per un'analisi, sarebbero appunto stati convinti a rivolgersi all'ambulatorio privato. Il primario, sfruttando la sua posizione, avrebbe avuto gioco facile nel dirottare pazienti dalla struttura pubblica a quella di famiglia. Il tutto, ovviamente, facendo pagare ai malcapitati cifre decisamente elevate per ottenere prestazioni che avrebbero invece potuto ricevere semplicemente pagando il ticket sanitario. Ma la cerchia del professore avrebbe messo affari ancora più consistenti. E' notizia di poche settimane fa: Alessandro Di Pietro, giornalista Rai, è stato sollevato dal suo contratto in Rai per aver parlato troppo bene (in ben tre puntate) di una pastasciutta per diabetici, la Aliveris. Ebbene, nella società produttrice Aliveris spiccano i nomi di diverse persone che lavorano nell'ateneo perugino, tutte a stretto contatto con Morelli, alcune delle quali poi si intrecciano anche con la Ars Medica. Non solo: il professore Morelli stesso è stato titolare della Aliveris tramite fiduciaria (la Fidam), prima di cedere la quota, attraverso prestanome, alla moglie Baldoni. Quel che si dice, letteralmente, avere le mani in pasta.

INGIUSTIZIA A PERUGIA. Il Caso Meredith Kercher.

«Ho incastrato io Amanda Knox». Parla il super testimone: «Condanna giusta», scrive Luigi Foglietti su “Il Messagero”. «Per me, sentenza giusta». Non ha dubbi Marco Quintavalle, il testimone chiave del processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito dopo il verdetto che rimanda in carcere i due ormai ex fidanzatini. Accusati di aver ucciso la notte tra il primo ed il 2 novembre 2007 Meredith Kercher, l'inglesina che aveva preso alloggio in via della Pergola. Fu lui a raccontare di aver visto Amanda la mattina del delitto, mentre lei disse di essere a dormire con Sollecito. «Ma la pena è troppo severa - aggiunge -, perché due giovani come loro hanno diritto ad essere assistiti per avere una possibilità di recupero». Marco Quintavalle, oggi cinquantacinquenne, testimone chiave al processo Kercher, fece la sua deposizione, ritenuta determinante, sabato 21 marzo del 2009 quando si celebrava il primo grado di giudizio. Poi non è stato più chiamato alla sbarra, sia nel primo appello né ora nel rinvio della Cassazione al secondo svoltosi a Firenze.

Sempre fermo nelle sue convinzioni?

«Se mi chiamassero ancora a testimoniare direi le stesse cose perché quella è la verità. Sono abituato a giudicare una persona per i fatti, quindi se Amanda dice che quella mattina dormiva, invece stava aspettando che aprissi il negozio, dice una bugia, poi quello che ha fatto prima e dopo io non lo so».

Quindi mai dubbi?

«Qualcuno ha tentato di farmi cambiare versione, addirittura un giornalista inglese, che stava tra gli innocentisti, mi ha accusato di essere un bugiardo, quando venne da me ad intervistarmi nel mio negozio, insieme ad una amica di Amanda che cercava di farmi dire che mi ero sbagliato. Mi chiedeva con insistenza se ero certo che nella vita non si può sbagliare, le risposi che ovviamente è possibile, ma in quella occasione ero sicuro del contrario».

Essere tacciato da bugiardo le ha pesato?

«Molto, anche gli avvocati della difesa hanno detto che sono inattendibile, ma sono nato al centro di Perugia, ci ho lavorato tanti anni, mi conoscono tantissime persone, amici e clienti, che sanno che invece sono molto affidabile».

Ma tornando al suo minimarket dove la mattina del 2 novembre è venuta Amanda?

«Certo, ma da marzo del 2009 non ce l'ho più ho ceduto l'attività ad un libico. Anche lì giornali e televisioni hanno detto tante cose sbagliate, ad esempio che avevo dichiarato che Amanda avesse acquistato saponi e detergenti. Io non l'ho mai detto, perché mentre sono sicuro che quella mattina lei fosse lì al momento dell’apertura, non posso dire che cosa avesse acquistato in quanto non stavo alla cassa e l'ho vista con il suo cappottino grigio, quello sì, di spalle mentre pagava».

E Sollecito veniva al market?

«Certo è venuto alcune volte, una addirittura in concomitanza con Rudy che acquistò una Coca Cola. Per me stavano insieme, ma non li ho visti parlare tra loro».

All’inizio della indagine non si era presentato a dare la sua testimonianza, perché?
«Non sentivo la necessità di riferire che Amanda quella mattina era venuta da me, quindi non poteva stare a casa di Raffaele, l'avevo detto solo ai miei familiari, poi la cosa si è risaputa e mi hanno convinto ad andare in procura. Certo, ho la coscienza a posto, ma la cosa per me ha avuto un costo altissimo sotto tutti i punti di vista».

INGIUSTIZIA A PERUGIA (dall’omonimo Blog). Un tempo, un luogo, una o più persone, il dramma classico ha queste caratteristiche e anche la drammatica vicenda cui questo sito è dedicato rispetta queste regole: il tempo è il 1 novembre 2007, un giorno emblematico in Italia, Ognissanti, generalmente associato al culto dei defunti, assieme al 2 novembre, giorno anche esso chiave in questa storia; il luogo è una villetta o cottage ai bordi del centro di Perugia, in una strada dal nome apparentemente rassicurante, Via della Pergola e le persone sono quelle che conosceremo ora. La vittima, innanzitutto, la quasi ventiduenne studentessa inglese Meredith Kercher, a Perugia per motivi di studio nell’ambito del programma Erasmus, poi un’altra studentessa, la ventenne americana Amanda Knox, anche lei studentessa in trasferta per motivi di studio dalla lontana Seattle, infine due ragazzi, il ventitreenne Raffaele Sollecito, nativo della Puglia ma studente pure lui a Perugia e il prossimo ventunenne Rudy Guede, nato in Costa d’Avorio ma arrivato in Italia a sei anni e oramai perugino d’adozione. Ovviamente ci sono altri personaggi, molti altri: coinquiline, ragazzi del piano di sotto, amici vari, il proprietario di un pub, poliziotti, magistrati, testimoni, periti, un sacco di gente, come sempre succede in vicende di questo tipo, particolarmente in quelle che catturano l’attenzione del grande pubblico, ancora di più quando questo pubblico è internazionale. Ma al centro della storia ci sono loro: la vittima e le persone accusate di averla uccisa. Rudy Guede è già stato condannato in via definitiva a 16 anni, mentre per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, oramai popolarmente noti come Amanda e Raffaele, è tuttora in corso un’altalena giudiziaria: condannati in primo grado, assolti in appello e ora rinviati a nuovo processo dalla Cassazione. Ma come in ogni tragedia classica c’è almeno un atto che precede l’evento di sangue, anche in questa storia ci sono dei fili che si devono intrecciare prima del dramma e, diversamente da una tragedia greca, qui tutto inizia con i toni di una commedia. Amanda e Meredith si conoscono intorno al 20 settembre in Via della Pergola: Amanda torna dalla Germania dove era andata dopo un primo passaggio a Perugia, durante il quale aveva affittato una stanza nella villetta di Via della Pergola e vi trova la giovane inglese ora sua coinquilina, assieme a due italiane, Laura Mezzetti e Filomena Romanelli. I rapporti tra le due ragazze sono buoni, dopotutto hanno circa la stessa età e parlano la stessa lingua, oltre a dormire in stanze contigue, perché qualcosa non dovrebbe andare? Certo, con Meredith morta e Amanda sul banco degli imputati si scatenerà di tutto: da quelli che faranno di questioni di scarichi idraulici un movente per l’omicidio, a quelli che vedranno il movente nell’abitudine di Amanda di mettersi a cantare a squarciagola nelle situazioni più impensate. E in mezzo una buona dose di pruriginosi scenari a sfondo sessuale, che fanno sempre bene alle vendite dei giornali e all’audience televisiva. Nonostante tutto questo però nessun testimone credibile ha mai potuto citare una sola evenienza di uno scontro anche solo verbale tra le due ragazze, fino all’ultimo giorno della vita di Meredith. Raffaele entra in scena una settimana prima della morte di Meredith: lui e Amanda si incontrano ad un concerto di musica classica e tra i due nasce immediatamente un’intesa che li porta ad essere inseparabili nei giorni successivi. Tra l’altro occorre notare che la coppia appena formata passerà insieme tutte le notti, ma sempre nell’alloggio di Raffaele, un dettaglio da considerare nel contesto di quello che sarà poi l’impianto accusatorio contro di loro. Rudy Guede in verità nella scena ci è entrato anche prima di Raffaele, ma molto tangenzialmente: è infatti amico dei ragazzi che vivono nell’appartamento sotto quello delle quattro ragazze, i ragazzi del piano di sotto di molte descrizioni, e una sera ha l’occasione di fare brevemente la conoscenza di entrambe le ragazze (Meredith e Amanda) proprio al piano di sotto. Pare accertato che abbia poi incrociato, in qualità di cliente, Amanda nel pub Le Chic dove lei lavorava part-time, oltre a questo non risulta nessun altro legame o contatto dimostrato né con la vittima né con gli altri imputati. Ora che il preambolo è terminato, possiamo analizzare come la commedia diventi tragedia.

Morte a Perugia.

Dato che da questo momento in poi ogni minimo dettaglio, ogni minimo racconto, verbale o scritto, è stato sviscerato, analizzato e vi si sono cercate contraddizioni che qualcuno ha creduto anche di trovare, il resoconto che faremo non potrà che essere succinto e lasciare ad altri articoli il compito di analizzare in dettaglio particolari aspetti della vicenda. In questa introduzione seguiremo principalmente il racconto di Amanda e Raffaele. La mattina del 2 novembre 2007 Amanda si alza abbastanza tardi, intorno alle 10 e va al villino di Via della Pergola per fare una doccia e cambiarsi d’abito prima di partire per una programmata gita a Gubbio insieme a Raffaele. Ci sono alcune anomalie: la porta esterna aperta (ma era difettosa), alcune piccole macchie di sangue nel bagno e una più significativa ma slavata sul tappetino del bagno (notata però solo dopo aver fatto la doccia), tuttavia Amanda non si preoccupa veramente finché non scopre che qualcuno ha defecato nell’altro bagno, quello comunemente usato dalle coinquiline italiane, senza tirare l’acqua. Lascia precipitosamente il cottage per tornare a casa di Raffaele, nel mentre cercando di contattare senza successo Meredith per poi riuscire a parlare con Filomena che le consiglia di tornare alla villa con Raffaele per verificare cosa è successo. Quando i due tornano in Via della Pergola iniziano ad esplorare l’alloggio e scoprono che la finestra della camera di Filomena è stata rotta da un grosso sasso e che tutto in essa è sottosopra. Dopo qualche tentativo di capire se Meredith è nella sua stanza e qualche altra telefonata con Filomena, Raffaele chiama i Carabinieri che dicono che invieranno una pattuglia. La coppia esce pertanto fuori dal villino, ad attenderli. Al loro posto arrivano invece due agenti della Polizia Postale, che sono venuti a riconsegnare un telefono intestato a Filomena Romanelli (ma in realtà in uso a Meredith Kercher) che è stato ritrovato quella mattina nel giardino di una villa a non molta distanza da Via della Pergola. Amanda e Raffaele li invitano ad entrare per verificare lo stato dell’alloggio e della stanza di Filomena, la quale poco dopo arriva e manifesta una certa agitazione, mentre gli agenti della Postale manifestano molta più tranquillità ed uno dei due cerca di calmarla con una battuta che probabilmente si ricorderà finché vive: “non preoccuparti, non c’è mica un morto sotto il divano”. Su chi fosse preoccupato, quanto, perché e se avrebbe dovuto esserlo o meno si è imbastita un’incredibile sofistica querelle piena di analisi su come Amanda (in particolare) avrebbe o non avrebbe dovuto reagire, su cosa avrebbe o non avrebbe dovuto dire e soprattutto l’esegesi della differenza di opinioni tra lei e Filomena sulla frequenza con cui Meredith chiudeva la porta della sua stanza è diventata un autentico leit-motiv colpevolista. Ma tant’ è: ogni parola, gesto, atto della giovane coppia e particolarmente di Amanda in questa mattinata e nei giorni seguenti verrà interpretato in chiave accusatoria costruendo incredibili castelli di carte interpretativi sulle più misere basi fattuali. E’ il prodotto di quella che si chiama cultura del sospetto. Ma torniamo agli eventi di quella mattina: Filomena insiste con l'amico del suo ragazzo, contro il parere opposto degli agenti della Postale, finché questi con una serie di calci ben assestati sfonda la porta della stanza di Meredith e si ha la scoperta del cadavere. Un altro elemento contro Amanda, ancora ribadito dalla motivazione della Cassazione, in piena, diciamo pure letterale, sintonia con il ricorso della Procura, sarebbe costituito dai dettagli della scena del crimine che l’americana avrebbe mostrato di conoscere parlando con le amiche inglesi di Meredith in Questura e che secondo la pubblica accusa lei non poteva conoscere se innocente perché non poteva averli visti all’atto dello sfondamento della porta e del ritrovamento del cadavere, essendo troppo lontana. Ora, a parte che i “dettagli” raccontati da Amanda sono alquanto confusi e chiaramente dimostrano di essere il prodotto di sentito dire, dovrebbe apparire evidente a delle brillanti menti legali che se si lascia qualcuno un’ora a parlare fuori dalla scena del delitto con chi i dettagli li ha visti (Luca Altieri che aveva sfondato la porta, ma anche i paramedici), non si può poi pretendere di vedere nel suo racconto elementi autoincriminanti che magari invece vi si sarebbero potuti vedere se tutti i presenti fossero immediatamente stati isolati gli uni dagli altri e interrogati. Interrogatori, ovvero assunzioni di sommarie informazioni, perché sembra che la parola “interrogatorio” non piaccia molto alla pubblica accusa, ce ne saranno in abbondanza nei giorni successivi, fino a quello fondamentale e altamente controverso della notte tra il 5 e il 6 novembre. Qui vogliamo far notare soprattutto due cose: la prima è che Amanda verrà costantemente interrogata (ci perdoni la Procura ma è un termine più facile da usare) per parecchie ore al giorno dal 2 al 4 novembre, mentre Raffaele dopo il 2 novembre verrà lasciato in pace fino al 5, è importante e ci torneremo sopra; la seconda è che progressivamente il cerchio si stringe su Amanda e Raffaele, non solo i loro telefoni sono intercettati, ma si effettua un’intercettazione ambientale ad hoc in Questura il 4 novembre e secondo quanto scritto da un giornalista locale, quello è lo stesso giorno in cui iniziano a girare voci che gli inquirenti “non ci vedrebbero chiaro nel ruolo di Amanda e Raffaele”. Inoltre la Polizia propende quasi subito per ritenere che l’effrazione attraverso la finestra della camera della Romanelli sia in realtà una simulazione, e poiché il loro ragionamento è che ha interesse a simulare un’effrazione solo chi, avendo le chiavi, vuole stornare da sé i sospetti, dato che delle quattro persone aventi le chiavi una è la vittima e le due italiane hanno alibi confermati da più persone, chi resta con il cerino in mano? Tutto ciò è importante, perché secondo la pubblica accusa (ma anche molti dei giudici che sono intervenuti nei vari gradi di giudizio sono riusciti a non vederci niente di strano) Amanda e Raffaele arrivano alla fatidica notte tra il 5 e il 6 novembre come persone informate dei fatti, che possono essere interrogate (o quell’altra cosa sulle sommarie informazioni) senza che s’imponga la presenza di un avvocato. Una bella differenza …Ma davvero Amanda e Raffaele la sera del 5 novembre vanno in Questura come semplici persone informate sui fatti? Il fronte colpevolista, oltre a rispondere ovviamente sì, fa anche notare che in realtà Amanda nessuno l’ha chiamata per andare in Questura quella sera, che il convocato era il solo Raffaele e che lei si è aggregata spontaneamente (o addirittura per controllare lui, secondo qualcuno). Ecco appunto, la Polizia vuole sentire il solo Raffaele, dopo averlo ignorato per più giorni e per di più alle dieci di sera. Perché è così fondamentale sentire così urgentemente una semplice persona informata sui fatti, oltretutto in un contesto in cui non c’erano state nuove eclatanti evoluzioni (nessun secondo omicidio di un potenziale serial killer, per esempio)? Già, chissà perché…Comunque il fatto è che quella sera verso le 22.30 -23 inizia un interrogatorio parallelo, in stanze separate, per Amanda e Raffaele, le cui conseguenze, oltre a portarli immediatamente in carcere, continuano a segnare ancora oggi la vicenda giudiziaria. Amanda firmerà due “spontanee dichiarazioni”, una alle ore 1.45 e l’altra alle ore 4.45 del 6 novembre, entrambe verranno poi dichiarate inammissibili, almeno nel contesto del processo per omicidio, dalla Corte di Cassazione. Che cos’è realmente successo durante tutte quelle ore di interrogatorio, di cui non esiste alcuna registrazione? La testimonianza dell’interprete Anna Donnino parla di un’Amanda che di punto in bianco e senza aver subito sollecitazione alcuna si mette ad accusare il suo datore di lavoro Patrick Lumumba (il proprietario del pub Le Chic presso il quale lavorava due sere la settimana come cameriera) non appena le viene mostrato un SMS che lei negava di avergli inviato. Il racconto di Amanda è un po’ diverso e parla di parecchie sollecitazioni e anche di qualcosa di più, tra minacce di trent’anni di galera, scappellotti e inviti a risvegliare i suoi “ricordi rimossi”. Il racconto di Raffaele è anch’esso pieno di urla, minacce, commenti non gentilissimi rivolti a lui ma ancora di più ad Amanda e anche qualche contatto fisico. Insomma, una notte da ricordare che i primi due gradi di giudizio valuteranno diversamente: tutto sommato ordinaria il primo, decisamente ai limiti del consentito il secondo. Alla fine persino la Cassazione, nel contesto di una motivazione chiaramente favorevole alla Procura, non potrà esimersi dal far cadere qua e là parole come “pressante richiesta di un nome da parte delle forze dell’ordine”, “smarrimento, amnesia, confusione”, “eccessi inquisitori”. Sembra proprio che di una tranquilla chiacchierata tra amici non si parli più. Il prodotto più evidente di quest’agitata nottata è che le versioni di Amanda e Raffaele cambiano (per la prima e unica volta) rispetto alle loro precedenti dichiarazioni, che li vedevano insieme a casa di Raffaele per tutta la notte del 1 novembre. Raffaele mette su una confusa ricostruzione, chiaramente improntata ai ricordi della serata precedente, quella di Halloween, in cui Amanda lascia l’appartamento abbastanza presto durante la serata e Amanda di suo ci mette un confuso (l’espressione “ricordo confusamente” appare esplicitamente nel verbale) racconto in cui incontra Patrick vicino al cottage e insieme vanno appunto al villino dove poi il congolese avrebbe ucciso Meredith mentre un’atterrita Amanda si copriva le orecchie in cucina per non sentire le urla. La presenza di Raffaele in quel contesto è ipotizzata in forma altamente dubitativa solo nel verbale delle 5.45. A questo punto la Polizia, presente il PM Giuliano Mignini, titolare dell’inchiesta, ha in mano delle dichiarazioni, appunto, confuse, nelle quali Lumumba apparirebbe come l’assassino (e in cui, incidentalmente, nemmeno si capisce bene che ruolo abbia Raffaele). Non sarebbe la prima volta nella storia delle indagini di polizia se a questo punto si volesse chiarire la posizione del congolese convocandolo discretamente in Questura per vedere per esempio se può fornire un alibi per la notte del delitto. Si preferisce invece arrestarlo all’alba a casa sua con un certo spiegamento di mezzi per poi sottoporlo ad un interrogatorio (o magari un’assunzione di sommarie informazioni) sulla cui intensità il racconto dello stesso Lumumba varierà nel tempo: prima ad un tabloid inglese racconterà di metodi non esattamente propri di uno stato democratico, per poi ritrattare tutto e dichiarare di essere stato trattato civilmente. Quello che appare piuttosto singolare è che quella stessa mattina, mentre in casa di Sollecito (che a prestar fede alle dichiarazioni di Amanda manco si capiva se era presente al delitto) vengono sequestrati tre coltelli, uno dei quali, il solo preso in mezzo ad altri tra l’utensileria da cucina, diventerà la supposta ed estremamente controversa arma del delitto, dalla casa di Lumumba, che (sempre secondo le dichiarazioni di Amanda, che in quel momento sono, ufficialmente, tutto quello che la polizia ha in mano) è l’autore materiale del crimine, non se ne preleva manco uno. Segue poi la famosa conferenza stampa del “caso chiuso”, nella quale viene un po’ prematuramente dichiarato che tutto è chiarito e che i responsabili sono stati individuati. Un po’ prematuramente perché ancora non sono arrivati i risultati delle indagini forensi sui reperti raccolti sul luogo del delitto e particolarmente nella stanza di Meredith. Quando questi arrivano scoppia la bomba: nella stanza non vi è traccia dei tre arrestati ma ve ne sono invece di un quarto individuo, che si scoprirà poi da un’impronta palmare essere Rudy Guede, al quale appartiene anche il DNA trovato sulla carta igienica nel water del bagno delle due coinquiline italiane. Inoltre un professore svizzero fornisce un alibi inoppugnabile a Lumumba, che a questo punto viene scarcerato ed esce dalle indagini, tranne che come parte lesa per il reato di calunnia da parte di Amanda Knox. Gli unici elementi seri a carico di Amanda e Raffaele a questo punto sono il famoso coltello, scelto, pare, per “intuizione investigativa”, sul quale la Polizia Scientifica ha rilevato (elemento controversissimo a tutt’oggi) una traccia quantitativamente molto esigua del DNA di Meredith sulla lama e una abbondante ma in sé poco significativa del DNA di Amanda sul manico e poi alcune impronte insanguinate di scarpe che vengono attribuite a Raffaele, mentre successivamente verrà appurato che sono di Guede. Per raccogliere altre prove la Polizia Scientifica effettuerà un ulteriore sopralluogo della scena del crimine il 18 dicembre 2007, a 46 giorni dal crimine, in un contesto di ampia alterazione della scena stessa, per via dei precedenti sopralluoghi, documentato in abbondanza da foto e filmati. E’ proprio durante questo sopralluogo che si “ritrova” il famoso gancetto del reggiseno di Meredith, fotografato il 2 novembre ma poi “perso di vista”, sul quale la Polizia Scientifica rileverà (e anche questo sarà elemento di controversia) il DNA di Raffaele e poi numerose impronte di piede nudo evidenziate dal luminol, due sole delle quali presentano un profilo genetico misto Amanda-Meredith. Incidentalmente, tutte queste impronte, che si vorrebbero di Amanda, sono al più compatibili dimensionalmente con il piede di Amanda ma o sono troppo indefinite per presentare elementi distintivi veramente utili ad un’identificazione o, nel caso di un’impronta più definita delle altre, presentano una morfologia chiaramente diversa da quella del corrispondente piede di Amanda. Infine, nessuna di queste impronte risulterà positiva al test della tetrametilbenzidina (TMB), un test particolarmente sensibile alla presenza del sangue.

I testimoni.

Nell’anno circa che passa tra l’arresto e il rinvio a giudizio di Amanda e Raffaele spunteranno (termine particolarmente appropriato) diversi testimoni a carico, la maggior parte di essi nella parte finale di quei dodici mesi. Due di essi, Kokomani e Gioffredi, gli unici che avrebbero attestato una frequentazione dei tre imputati antecedente il delitto e anzi addirittura nei giorni immediatamente precedenti ad esso, vengono ritenuti inattendibili per le molteplici contraddizioni in cui cadono in sede di esame. Oltre a loro però si presentano, in tempi più o meno lunghi e magari sotto lo sprone di un giornalista, un clochard, un proprietario di negozio, un’anziana signora dal buon udito e due più giovani signore anch’esse dotate di valide capacità uditive. Il clochard si chiamava (è deceduto nel 2012) Antonio “Toto” Curatolo e all’epoca del delitto viveva in Piazza Grimana, a breve distanza dal villino di Via della Pergola. Eroinomane per sua stessa ammissione e tuttavia già testimone in altri processi, Curatolo afferma di aver visto a più riprese la sera del 1 novembre Amanda e Raffaele proprio in Piazza Grimana tra le 9,30 e un orario mai veramente definito bene ma che potrebbe spaziare tra “dopo le 23” e “prima di mezzanotte”. Il proprietario di negozio, a nome Marco Quintavalle, afferma, ma solo dopo circa un anno con apparente sicurezza, che la mattina del 2 novembre 2007 una ragazza, che egli ritiene di riconoscere in Amanda Knox, entrò nel suo negozio alle 7.45 e si diresse nella zona dei prodotti per la pulizia, per poi uscire senza tuttavia aver effettuato, a memoria del Quintavalle (e del suo registratore di cassa) alcun acquisto, dirigendosi infine, una volta uscita, in direzione della vicina Piazza Grimana (e quindi, implicitamente, di Via della Pergola). Le prima testimone “uditiva” è l’anziana Nara Capezzali, la prima a dichiarare di aver udito, attraverso i doppi vetri chiusi di casa, in un intervallo di tempo piuttosto vagamente identificato come orientativamente intorno alle 23.30, un urlo straziante di donna proveniente dalla direzione del villino, direzione identificata grazie alla propria “buona conoscenza dei luoghi”. Dopo qualche minuto la signora Capezzali ritenne anche di aver udito, sempre attraverso le finestre chiuse, dei passi di corsa sulla scaletta di ferro vicina al parcheggio sottostante e poi anche sulla ghiaia e le foglie secche (!) del vialetto del villino. La seconda teste che ha, letteralmente, orecchiato qualcosa si chiama Antonella Monacchia e sente, anche essa in un orario vagamente compatibile nella sua indeterminatezza con quello della Capezzali, solo l’urlo ma non i passi di corsa. La terza infine delle tre ascoltatrici, Maria Ilaria Dramis, sempre in un orario che è più o meno compatibile con quello delle altre due, sente i passi di corsa ma non l’urlo. Questi sono i testimoni che conteranno davvero nel corso del procedimento giudiziario, almeno relativamente al delitto di omicidio. Ad essi si aggiungeranno, più che altro come testimoni a (cattiva) reputazione di Amanda Knox, le sue ex coinquiline italiane, le amiche inglesi di Meredith e tanto per gradire anche il proprietario di una boutique dove Amanda aveva comprato, il giorno successivo alla scoperta del delitto, un paio di mutande, per sfortuna sua non proprio castigatissime. Già, la reputazione di Amanda … in effetti al processo Amanda ci arriva con una reputazione già completamente fatta a pezzi, perché un anno è lungo e la stampa nel frattempo si è scatenata.

I media.

Non è una gran novità che i mezzi d’informazione, stampa, TV e oramai anche Internet, vengano attratti morbosamente da alcuni casi, che per un motivo o per l’altro diventano “celebri” (i casi Montesi e Fenaroli negli anni ’50 e ’60 attrassero più attenzione, in proporzione ai media di allora, dei casi degli ultimi anni) e perciò quando una somma di variabili non chiaramente definibili a priori si materializza, ecco che l’attenzione dei media si polarizza su quel caso e sui suoi personaggi. O su alcuni di essi. Il caso di Perugia aveva sin dall’inizio molti ingredienti per diventare “celebre”: protagonisti belli e giovani, torbidi elementi sessuali supposti sin dall’inizio, un’atmosfera internazionale. Non era forse del tutto prevedibile che l’attenzione si concentrasse in maniera pressoché esclusiva su di una sola persona, ovvero Amanda Knox. Forse sarebbe meglio dire che l’attenzione si concentrò su di un personaggio che di Amanda aveva il nome (e per i tabloid inglesi manco quello, visto che il soprannome “Foxy Knoxy” sostituì e ancora oggi in buona parte sostituisce, il vero nome dell’americana) e naturalmente le fattezze fisiche rappresentate in fotografia, ma la cui presunta personalità, la cui vita privata addirittura, erano più che altro il prodotto di fantasie elaborate ad arte per vendere più copie o avere più audience. In realtà pure questa non è una novità: succede spesso che i media creino i mostri (molto raro vedere posizioni apertamente innocentiste) e poi se li crescano come creature proprie, totalmente sganciate dal reale essere umano che dovrebbero rappresentare e di cui tuttavia portano il nome e l’immagine esteriore. Tuttavia in questo caso si sono aggiunti altri fattori: essendo la vittima inglese e la supposta assassina americana anche i media di questi due grandi paesi sono stati coinvolti, inizialmente più quelli inglesi in verità, creando un cortocircuito dove le illazioni di un tabloid d’oltremanica venivano gonfiate da un quotidiano italiano per poi essere riprese da un altro giornale o da una TV come base per la successiva sparata ancora più grossa. Tutto il sensazionalismo era chiaramente incentrato sulla sfera sessuale, per cui Amanda Knox diventava una mangiauomini in grado letteralmente di telecomandare due ragazzi come Guede e Sollecito nel compimento di un omicidio a sua volta a sfondo sessuale, per alcuni addirittura con elementi quasi da racconto a sfondo morale, visto che si arrivava a supporre una Meredith costretta a subire violenza sessuale poiché aveva criticato i facili costumi della coinquilina. Favole di dubbio gusto, semplici stupidaggini, tuttavia tutto questo battere e ribattere il tasto della prorompente, incontrollabile sessualità della Knox durante tutto un anno, dal novembre 2007 al novembre 2008, e poi ancora oltre, ben dentro il processo di primo grado, creò le condizioni necessarie affinché Amanda arrivasse al primo processo non solo con il marchio dell’assassina ma dell’assassina perversa. Tutto il mondo occidentale condivide più o meno le stesse mode e gli stessi stereotipi, tuttavia fa un po’ strano che un paese come l’Italia, centro della moda, della sofisticazione nel vestire, dove anche le ragazze ancora minorenni selezionano attentamente il proprio abbigliamento, curano il trucco e guardano con attenzione alla propria acconciatura, si sia potuto tranquillamente bere come prototipo della torbida e sofisticata dark lady una che riusciva ad accoppiare un paio di scarpe da hiking nere con una lunga gonna bianca.

Il processo di primo grado.

Dopo il rinvio a giudizio nel corso dell’udienza preliminare da parte del GUP MIcheli (contestualmente lo stesso GUP aveva condannato Guede a trent’anni) Amanda e Raffaele si trovano ad affrontare nel corso del 2009 il processo con rito ordinario di fronte alla corte presieduta da Giancarlo Massei. A rappresentare la pubblica accusa vi sono i PM Giuliano Mignini e Manuela Comodi. Il processo dura quasi un anno e finisce con la condanna a ventisei anni per Amanda (giudicata colpevole anche di calunnia nei confronti di Patrick Lumumba) e a venticinque per Raffaele. La motivazione del giudice Massei sostanzialmente accoglie più o meno tutti i punti dell’accusa, perlomeno per quello che riguarda l’attendibilità dei testimoni e la validità delle prove scientifiche e particolarmente di quelle riguardanti il DNA, per le quali la difesa aveva richiesto invano un riesame da parte di periti nominati dal tribunale. Alcuni elementi riguardanti appunto le prove scientifiche risultarono particolarmente controversi perché, per esempio, solo a processo in corso si scoprì che il DNA attribuito a Meredith Kercher e campionato sulla lama del famoso coltello, era di tipo Low Copy Number, cioè essenzialmente in quantità molto esigua e che richiede particolari cautele per il suo trattamento. Così pure, solo a processo ben inoltrato si scoprì che sulle presunte impronte insanguinate il test del TMB aveva avuto esito negativo. Una cosa sulla quale invece il giudice Massei si discosta dall’impianto accusatorio è nella ricostruzione dell’evento omicidiario e del connesso movente, o forse si dovrebbe dire della mancanza dello stesso. L’omicidio viene infatti rappresentato come la conseguenza di una serie di circostanze casuali chiaramente non pianificate: Amanda e Raffaele, nonostante abbiano un appartamento tutto per loro decidono di andare a dare libero sfogo alle loro effusioni nella striminzita cameretta di Amanda al villino (con letto singolo, particolare importante), non prima però di aver stazionato (o comunque di essere apparsi a più riprese) nella fredda serata per un paio d’ore davanti al buon Toto Curatolo che così li può notare. Per strada però (o forse più tardi, quando sono già al cottage: Massei lascia aperte entrambe le strade) si unisce a loro Rudy Guede, che … passava da quelle parti … vai a vedere il caso alle volte cosa ti combina! Una volta al villino si appartano nella stanza di Amanda e iniziano le loro attività amorose (con Meredith nella camera a fianco), ma a un certo punto accade che Rudy Guede “si sia lasciato trascinare da una situazione avvertita come carica di sollecitazioni sessuali” e “cedendo alla propria concupiscenza” aggredisce Meredith per costringerla ad un rapporto sessuale; Amanda e Raffaele “ne dovettero essere disturbati ed intervennero”… aiutando Rudy a violentare Meredith! Perché mai? La sentenza risolve il tutto con un “rientra nell’esercizio continuo della possibilità di scelta e questa Corte non può che registrare la scelta di male estremo che fu operata”. Una formula con cui si può giustificare qualsiasi cosa, forse un po’ troppo generica, visto che subito dopo Massei aggiunge “si può ipotizzare che tale scelta di male iniziò con il consumo di sostanze stupefacenti [spinelli] che si era verificato anche quella sera, come dichiarato da Amanda.” Visto poi che magari qualche spinello non è ancora abbastanza viene aggiunta anche, per buona misura “la visione di film e la lettura di fumetti nei quali la sessualità si accompagna alla violenza ed a situazioni di paura”. Insomma sesso, droga e cattive letture.

Il processo d’appello.

Il secondo grado di giudizio ha inizio alla fine del 2010 e si protrarrà fino ai primi giorni di ottobre del 2011, nel frattempo la sentenza di Rudy Guede è stata ridotta a 16 anni e resa definitiva dalla Cassazione. La pubblica accusa è rappresentata dal Sostituto Procuratore Generale Costagliola, ma ancora affiancato dai PM Mignini e Comodi. La Corte, presieduta da Claudio Pratillo Hellmann, accoglie durante le prime udienze la richiesta da parte della difesa di un riesame delle prove genetiche e nomina due periti, Stefano Conti e Carla Vecchiotti a questo scopo. Il rapporto dei due periti sarà l’elemento centrale e più determinante dell’intero processo d’appello, di fatto smantellando agli occhi della Corte la credibilità delle prove genetiche, attraverso il lavoro della Prof.ssa Vecchiotti sul DNA del coltello e del gancetto di reggiseno, e anche quella più in generale dei rilievi effettuati dalla Polizia Scientifica sulla scena del crimine, attraverso le critiche mosse dal Prof. Conti all’operato mostrato nei filmati girati dalla stessa Polizia. Il processo si concluderà con l’assoluzione di Amanda e Raffaele per non avere commesso il fatto e, relativamente all’accusa di aver simulato una falsa effrazione nella camera della Romanelli, perché il fatto non sussiste. Viene invece confermata la condanna di Amanda per calunnia, senza però ovviamente l’aggravante di aver calunniato a scopo di depistaggio. La motivazione smonta praticamente tutto quanto ritenuto fermamente stabilito in primo grado:

Curatolo non è attendibile perché confonde i giorni e comunque ha facoltà intellettive molto compromesse;

Quintavalle può essere soggettivamente convinto di quel che dice di aver visto ma non è affatto certo che lo abbia visto davvero, soprattutto perché nell’immediatezza degli eventi non aveva manifestato tale certezza;

l’ora della morte deve essere anticipata a prima delle 22.13 perché ci sono altri elementi che risultano più convincenti di quelli riferiti da Capezzali, Monacchia e Dramis;

l’impronta sul tappetino non è di Raffaele ma piuttosto di Guede;

le impronte “insanguinate” tali non sono principalmente perché negative al TMB ed inoltre per alcune di esse si può chiaramente dire che non sono né di Amanda né di Raffaele;

l’attribuzione del DNA sul coltello a Meredith non ha valore scientifico;

il DNA di Raffaele sul gancetto è probabile frutto di contaminazione;

tutte le altre prove genetiche raccolte nel bagno piccolo non hanno valore, sia per come sono state raccolte, sia perché il fatto che Amanda e Meredith condividessero il bagno le giustifica senza bisogno di un evento violento;

il famoso coltello sequestrato in casa di Sollecito con ogni probabilità non è affatto l’arma del delitto, perché di fatto incompatibile con alcune caratteristiche delle lesioni e perché è estremamente difficile giustificare la sua presenza in Via della Pergola nel contesto delle altre evidenze processuali;

l’effrazione è autentica e probabilmente compiuta da Guede per introdursi in casa;

il comportamento di Amanda e Raffaele durante il ritrovamento del corpo e nei giorni successivi non ha alcun valore indiziario a loro carico;

Amanda è sì colpevole del reato di calunnia, ma “il contesto nel quale sono state rese quelle dichiarazioni era chiaramente caratterizzato da una condizione psicologica divenuta per Amanda Knox davvero un peso insopportabile”. I due imputati sono quindi scarcerati e Amanda torna subito a Seattle. Qualcuno è riuscito a criticare pure questo ritorno, definito come troppo precipitoso … che dire … non avrà gradito la sistemazione in albergo o il servizio in camera durante quei quattro anni …

 Il ricorso della Procura e la Cassazione.

Nel febbraio 2012 la Procura Generale di Perugia ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza di secondo grado, in un documento a firma del Procuratore Generale Galati e del Sostituto Costagliola, criticando praticamente tutte le conclusioni della medesima. Il giudizio della Cassazione è fissato per il 25 marzo 2013, ma i supremi giudici prendono tempo fino al mattino successivo, per poi annullare con rinvio le assoluzioni e confermare invece la condanna di Amanda Knox per calunnia. Pratillo Hellmann, oramai in pensione e quindi libero da vincoli professionali, critica apertamente la decisione dicendo  “Prevedevo che la decisione della Cassazione sarebbe stata quella dell’annullamento con rinvio. Il partito dei pm è molto forte nella magistratura” e poi ancora “Voglio vedere chi si assumerà la responsabilità di condannare due innocenti  o comunque sfido chiunque ad affermare che ci sono le prove per condannarli”. Il 18 giugno 2013 viene resa pubblica la motivazione della sentenza della Cassazione ed è ancora Pratillo Hellmann a farsi sentire apertamente: a suo parere la Cassazione sarebbe entrata a piedi uniti nell’ambito delle decisioni di merito, che per legge non le competono. In effetti, ad una prima, ed ancor più ad una seconda lettura, la sentenza, oltre a mostrare una conformità spesso letterale alle argomentazioni della Procura e oltre a presentare, nella critica alla logica della corte d’appello, parecchi passaggi di una logicità a sua volta piuttosto dubbia, formula talvolta proprie ipotesi sul corso degli eventi che sono semplicemente alternative a quelle della sentenza annullata (e già questo non sembrerebbe molto consono al ruolo della Cassazione) per poi affermare come dato di fatto, per esempio, che l’urlo udito da Capezzali e Monacchia era “sicuramente della povera Meredith”, il che suona parecchio come un giudizio di merito. Tutta la sentenza si presenta come una completa sconfessione dell’operato dei giudici di secondo grado e come una quasi completa rivalutazione della sentenza di primo grado e del lavoro della Polizia Scientifica, fino al punto di affermare che i video ripresi sulla scena del crimine dimostrerebbero l’operato conforme ai protocolli della Polizia Scientifica, cosa che oltre a suonare un’altra volta come un giudizio di merito, porta anche a chiedersi di quali video si stia parlando. Infine, praticamente nelle ultime righe, viene riproposto come probabile scenario del delitto quello del gioco erotico, che aveva furoreggiato a suo tempo ma che era stato abbandonato un po’ da tutti nel corso degli anni.

Il nuovo processo.

La prossima tappa di questa maratona giudiziaria avrà luogo a Firenze, a partire dal 30 settembre 2013, salvo rinvii e ritardi, il Presidente della Corte sarà Alessandro Nencini, mentre la pubblica accusa sarà rappresentata dal Sostituto Procuratore Generale Alessandro Crini. Certamente il tono tutto della sentenza di Cassazione sembra far presagire una condanna, in particolare viene esclusa di fatto la possibilità che Guede possa essere l’unico autore del crimine (anche se la sentenza lo definisce “sicuramente protagonista principale”) e la completa rivalutazione dell’attendibilità dei testimoni e delle indagini forensi non sembra lasciare molti spazi alle difese dei due imputati. Amanda con ogni probabilità non presenzierà, soprattutto dopo una motivazione di quello stampo, mentre Raffaele ha già dichiarato che sarà presente.

Commentario critico alla sentenza della Cassazione sul processo Knox-Sollecito. Scritto da Luca Cheli. Il presente articolo vuole costituire un’analisi critica della sentenza della Cassazione 26455/13 che il 25 marzo 2013 (con annuncio dato il giorno successivo 26 e pubblicazione della motivazione il giorno 18 giugno 2013) ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, al contempo confermando la condanna a tre anni inflitta in secondo grado alla Knox per calunnia ai danni di Diya Patrick Lumumba. In quest’analisi verranno esaminate una per una le quattordici sezioni o capitoli in cui la motivazione ha suddiviso i motivi della decisione (da pagina 39 a pagina 74), evidenziando per ciascuna quelle che sono per lo scrivente le lacune, le contraddizioni o anche aspetti dubbi da un punto di vista di diritto di tali motivazioni. Chi scrive non ha una formazione giuridica, se non quella da autodidatta che si è fatta seguendo questo e altri casi, perciò l’approccio sarà essenzialmente basato sulla logica e sui principi fondamentali del diritto, sui quali qualsiasi persona di buona volontà si può informare abbastanza facilmente. Per spazzare ulteriormente il campo da fraintendimenti o ambiguità, si dichiara apertamente che l’autore è un fermo innocentista nell’ambito della causa in questione e che tuttavia cercherà di mantenersi, per quanto possibile, obbiettivo e neutrale, sostenendo argomentazioni logiche che siano le più ampiamente condivisibili possibile. Si riconosce tuttavia che una completa obbiettività è in generale estremamente difficile e probabilmente impossibile per chi è decisamente schierato da una parte in un dibattito di questo tipo. Iniziamo dunque, seguendo passo passo le argomentazioni della Suprema Corte.

Capitolo 1 – Premesse sui limiti del sindacato di questa Corte. Basilarmente i Supremi Giudici affermano di aver eseguito la loro valutazione solo nell’ambito del “ragionamento probatorio, quindi il metodo di apprezzamento della prova, non essendo consentito lo sconfinamento nella rivalutazione del compendio indiziario”, anche se poi ulteriormente si precisa che non è affatto impedito ai giudici di Cassazione “di verificare se la valutazione operata sia avvenuta secondo criteri logici”. Il confine è sottilissimo e di fatto si possono trovare sentenze della Suprema Corte in cui tale limite è percepito in un certo modo e altre (tra cui, ad avviso dello scrivente, questa) in cui esso è sentito come alquanto lasco. Un altro campo in cui i criteri della Suprema Corte non appaiono essere sempre così coerenti è quello della valutazione degli indizi in base al comma secondo dell’articolo 192 del Codice di Procedura Penale: in particolare su che rapporto ci sia tra la prima fase in cui gli elementi indiziari vengono valutati ciascuno individualmente per valutarne gravità e precisione e la seconda in cui tutti gli elementi vengono valutati collettivamente (o “osmoticamente”, per usare un aggettivo molto caro agli estensori della presente sentenza) per valutarne la concordanza e anche se tale valutazione collettiva permetta di superare l’ambiguità che essi hanno se presi singolarmente. Particolarmente, la Prima Sezione Penale della Cassazione critica i giudici di secondo grado di Perugia in quanto “la decisione impugnata presenta ictu oculi una valutazione parcellizzata ed atomistica degli indizi, presi in considerazione uno ad uno e scartati nella loro potenzialità dimostrativa, senza una più ampia e completa valutazione”. In realtà la questione è abbastanza aperta ad interpretazioni: altre sentenze hanno interpretato in maniera diversa il rapporto tra le due fasi e i problemi di “atomizzazione” o “frammentazione” del quadro indiziario, per esempio, sempre la Cassazione a Sezioni Unite Penali (33748/2005, Mannino), scrive: “Essendo stato privilegiato dalla Corte palermitana il metodo di lettura unitaria e complessiva dell'intero compendio probatorio, a fronte di una pretesa polverizzazione ed atomizzazione delle fonti di prova asseritamente operata dal giudice di primo grado, si è finito per dare rilevanza anche ad una serie di indizi che, pur analiticamente presi in esame in prime cure e ritenuti ciascuno di essi incerto, non preciso né grave (ovvero, trattandosi di dichiarazioni dirette o de relato di collaboratori di giustizia, neppure assistite da riscontri individualizzanti) e perciò probatoriamente ininfluente, sembravano tuttavia raccordabili e coerenti con la narrazione storica delle vicende, come ipotizzata dall'accusa e recepita dai giudici di appello. Ma un siffatto metodo di assemblaggio e di mera sommatoria degli elementi indiziari viola le regole della logica e del diritto nell'interpretazione dei risultati probatori.” Che pensare dunque? Forse che il giudizio dipende da quali giudici formano la Corte quel giorno e per quel caso? Comunque, al di là del tema in sé, molto importante per il diritto italiano, nella concreta economia di questo caso, la suddetta disquisizione di principio assume un ruolo alla fine molto secondario, poiché, come vedremo, non si tratterà di stabilire se n elementi indiziari ciascuno poco affidabile individualmente possano essere rivalutati da una valutazione “osmotica”, ma che, grazie alla rivalutazione degli stessi  fatta da questa sentenza, ci si trova davanti a n elementi indiziari già di per sé attendibili individualmente.

Capitolo 2 – La condanna della Knox per il delitto di calunnia.

Come prima annotazione di merito c’è da dire che la Suprema Corte ritiene particolarmente importante e apparentemente addirittura dirimente ai fini della consumazione del reato di calunnia che la Knox abbia confessato alla madre in un colloquio in carcere il 10 novembre 2007 di provare rimorso per l’accusa rivolta a Lumumba, senza però averlo comunicato prima agli inquirenti, segnando così “l’assoluta mancanza di volontà di chiarire presso gli inquirenti la falsa indicazione”. Tuttavia la Suprema Corte sembra ignorare (o quanto meno di sicuro trascura) l’esistenza del memoriale autografo della Knox del 7 novembre, nel quale si legge: “non ho mentito quando ho detto che pensavo che l’assassino fosse Patrick. Ero molto stressata in quel momento e pensavo veramente che lo fosse. Ma adesso ricordo che non potevo sapere chi fosse l’assassino, perché non sono ritornata alla casa [di Via della Pergola]. So che la polizia non sarà lieta di ciò, ma è la verità”. Detto ciò, portiamo invece la nostra attenzione su di un aspetto puramente attinente al diritto, che se pur magari fondatissimo, come argomenta la motivazione, nell’ambito del diritto italiano, potrebbe invece fornire ampio spazio per un ricorso presso il Tribunale Europeo per i Diritti dell’Uomo (ECHR), si afferma infatti: “E’ bene premettere, a confutazione di quanto sostenuto nei motivi di ricorso della difesa dell’imputata, che è principio affermato da questa Corte con continuità quello secondo cui la notizia di reato ben può essere tratta dalle dichiarazioni della persona sottoposta ad indagini preliminari, anche se in ipotesi inutilizzabili per la mancanza dell’avvertimento ex art. 64 c.p.p e che quindi si possa correttamente addebitare il reato di calunnia al dichiarante, sulla base di indicazioni accusatorie inutilizzabili o di dichiarazioni contenute in atto di interrogatorio nullo.” Viene spontaneo chiedersi a cosa serva fornire garanzie e diritti all’imputato se poi le dichiarazioni rese in violazione di tali diritti o garanzie hanno comunque valore alla fine della costruzione di un capo di accusa ed eventualmente di una condanna. In questo senso un ricorso a Strasburgo per violazione dell’articolo 6 (diritto a un equo processo) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) potrebbe avere conseguenze ben al di là di questo singolo caso per la giustizia italiana, visto che la Corte Costituzionale, con sentenza 113/2011 ha di fatto aperto la strada alla revisione quei processi che abbiano violato, in base a sentenza dell’ECHR, l’articolo 6 della CEDU. C’è poi un altro aspetto, eminentemente di diritto, che suscita perplessità: nella sentenza si scrive che “risulta quindi manifestamente illogico il passaggio della sentenza in cui è stato giustificato che la Knox doveva ritenersi certa dell’innocenza del Lumumba, anche se lontana dal luogo del delitto”. Ora, a pensar male verrebbe da dire che i giudici hanno dato per scontata una condanna della Knox per omicidio (o almeno la sua presenza sul luogo al momento dello stesso), ma se si esclude tale pensiero maligno non si può fare a meno di notare che, avendo essi demolito la spiegazione del perché l’imputata poteva sapere il Lumumba innocente per l’omicidio della Kercher (condizione necessaria per l’esistenza del reato di calunnia) nel caso essa stessa fosse estranea (anche fisicamente) al delitto, se mai il nuovo processo di appello dovesse assolvere la Knox, ci si troverebbe ad avere una condanna per calunnia priva di motivazione nel suo elemento fondamentale. Forse sarebbe stato meglio annullare con rinvio anche la condanna della Knox per calunnia…

Capitolo 3 – La simulazione del furto.

La sezione riguardante la presunta simulazione di furto nella stanza di Filomena Romanelli sostanzialmente fa proprie le obiezioni avanzate dal ricorso del PG Galati e si allinea pressoché in toto con la ricostruzione effettuata nella sentenza di primo grado. E’ al di fuori dello scopo del presente articolo una dissertazione puntuale sugli elementi costituenti indicazione o meno di una possibile simulazione, si vogliono invece qui far notare alcune imprecisioni e contraddizioni della sentenza su questo punto. Innanzitutto si afferma che secondo la corte d’appello “l’interesse a simulare sarebbe stato del solo Guede […] tale affermazione del tutto assertiva, non era consentita, anche perché inficiata da contraddittorietà e frutto di omessa considerazione di dati acquisiti definitivamente agli atti. La sentenza che ebbe a condannare Rudy, non smentita sul punto da nuove emergenze, ebbe ad affermare che le tracce delle scarpe sporche di sangue del menzionato segnarono il percorso da lui seguito dalla camera della povera Meredith, alla porta esterna della casa, senza passare dalla camera della Romanelli, atteso che come è stato scritto, le tracce di sangue della vittima segnarono il percorso seguito dal Guede, senza alcuna deviazione”. Allora, per prima cosa la teoria della simulazione da parte di Guede è solo un’alternativa molto secondaria nella motivazione della corte d’appello (Hellmann), in quanto è detto esplicitamente che la corte ritiene non essersi trattato di simulazione ma di vera effrazione, mentre i giudici della Cassazione tendono a presentare questa teoria secondaria quasi come elemento portante della sentenza cassata. Bisogna inoltre dire che non è affatto vero che non vi sono state “nuove emergenze” al di fuori del processo di Rudy che possano mettere in crisi la ricostruzione di cui sopra: alle pagine 103-104 della motivazione di secondo grado si fa esplicito riferimento al fatto che la perizia Vinci ha trovato macchie di sangue sulla parte inferiore del tappetino del bagno, non in corrispondenza con quelle arcinote sulla parte superiore, che potevano essere perfettamente compatibili con l’aver Amanda Knox trascinato con i piedi bagnati tale tappetino dalla doccia fino alla propria camera, cancellando con tale atto una serie di impronte insanguinate lungo tale percorso la mattina del 2 novembre 2007. Come ulteriore inconsistenza si può citare l’asserzione che fotografie e video dimostrerebbero che i frammenti di vetro erano sopra e non sotto i vestiti: in realtà sul fatto che le foto dimostrino l’esatto contrario sono d’accordo tanto la sentenza di primo grado (Massei, pag. 42-43) quanto quella di secondo (Hellmann, pag. 119), per quanto poi differiscano sul valore da attribuire a tali immagini. Infine è da notare che la Suprema Corte, pur dando tanto valore in chiave simulativa ai frammenti trovati sopra gli oggetti, non si chiede come spiegare, sempre nel contesto di una simulazione, quelli trovati sotto.

Capitolo 4 – La testimonianza Curatolo

Il capitolo dedicato all’ormai defunto clochard perugino è nell’opinione dello scrivente un mix di apparente incomprensione di quanto realmente affermato nella sentenza di secondo grado e di escursione nel campo delle valutazioni di merito, cosa da cui, per mandato, la Suprema Corte dovrebbe astenersi. Incomprensione perché, seguendo la falsariga dell’appello Galati, si prospetta il ragionamento della corte d’appello come volto a dimostrare che il Curatolo avrebbe visto gli imputati in Piazza Grimana la sera di Halloween e non la sera del 1 novembre, cosa palesemente impossibile visto che i loro movimenti per la sera del 31 ottobre sono noti e diversi. Il punto però è che la motivazione di secondo grado prendeva spunto proprio dal fatto che il teste collocava i due imputati in un contesto spaziotemporale incoerente e confuso per argomentare che tutta la sua testimonianza era inaffidabile e che non si poteva essere certi di quando e se egli li avesse veramente visti. Per quanto Curatolo possa avere, come ribadisce la Cassazione, riconosciuto i due imputati in aula come i due giovani che egli vide in Piazza Grimana, il fatto che egli li collochi (con abbondanza di dettagli e affermando di averli visti a più riprese) in un contesto, quello della sera di Halloween, in cui essi sicuramente non erano dove egli dice di averli visti, dovrebbe sollevare molti dubbi sull’attendibilità generale della sua testimonianza, ovvero su ogni punto di essa. La Suprema Corte invece ritiene che l’elemento veramente importante a cui fare riferimento (“dato ad elevatissimo quoziente di univocità, più di ogni altro”) è il fatto che nei ricordi del Curatolo egli collochi la vista di uomini vestiti di tute bianche (gli operatori della Polizia Scientifica) intorno al villino di Via della Pergola la mattina dopo la sera in cui afferma di aver visto gli imputati. E’ difficile non considerare questa come una profonda incursione nel terreno delle valutazioni di merito: un conto è criticare (forse senza nemmeno capirlo bene) l’argomentare della sentenza annullata, un conto è indicare categoricamente quali elementi di una testimonianza debbano essere considerati di maggiore o addirittura assoluto valore. Dal capitolo in questione si evince piuttosto chiaramente che la Suprema Corte crede che Curatolo abbia visto i due imputati in Piazza Grimana la sera dell’omicidio, con ciò rivalutando in pieno la ricostruzione della sentenza di primo grado ed è difficile immaginare come tale implicita indicazione possa essere ignorata dai giudici del nuovo processo di appello.

Capitolo 5 – La testimonianza Quintavalle.

Per quanto concerne Marco Quintavalle, all’epoca titolare di un minimarket nei pressi di Piazza Grimana e che testimoniò di aver visto Amanda Knox entrare nel suo esercizio molto presto la mattina del 2 novembre, le critiche della Suprema Corte alla sentenza di secondo grado si concentrano sull’averne sminuito il valore indiziario, sull’aver trascurato alcuni dettagli della testimonianza e sulla valutazione della formazione progressiva nel tempo della convinzione da parte di Quintavalle di aver visto proprio la Knox quella mattina. Sul primo punto la sentenza della Cassazione contesta che “la corte ebbe a premettere (pag. 51 sentenza) che il dato che la Knox si fosse presentata di primissima mattina ad acquistare detersivi il giorno seguente al fatto di sangue, anche se accertato, non rivestiva alcuna rilevanza”. Ebbene questo semplicemente non è vero, perché a pagina 51 della sentenza di secondo grado sta in verità scritto: “In verità si tratterebbe, anche se in ipotesi circostanza vera, di un elemento indiziario debole, in quanto di per sé solo non idoneo a provare neanche presuntivamente la colpevolezza”, che è cosa diversa. Passando al secondo punto la Suprema Corte accoglie le doglianze del PG sull’omissione, in fase di motivazione da parte della corte d’appello di Perugia, del fatto che il Quintavalle avesse affermato di aver visto ad un certo punto di fronte e da distanza ravvicinata la ragazza. Si può accogliere l’obiezione in se stessa, in quanto il punto avrebbe dovuto essere considerato, tuttavia sarebbe stato da meglio valutare se davvero tale omissione potesse far cadere nell’illogicità o nella carenza motivazionale l’intera trattazione del Quintavalle da parte della sentenza di appello. Infatti tale sentenza considerava anche altri aspetti critici nella testimonianza del Quintavalle, quali l’aver affermato che la supposta Knox indossasse un cappotto grigio, da lei mai posseduto, nonché il fatto che questa ragazza nulla aveva acquistato nel suo negozio (su questo punto Quintavalle non è chiaro ma dai suoi scontrini di cassa non risultano acquisti per quell’ora), dettaglio che mal si concilierebbe con la presunta necessità, secondo l’impianto accusatorio e la sentenza di primo grado, da parte della Knox di acquistare materiale per effettuare la pulizia della scena del crimine. Da notare, en passant, che con una certa originalità, la Cassazione identifica tali pulizie con quelle di indumenti, non di pavimenti come generalmente ritenuto nelle ipotesi accusatorie. Ma infine il punto più importante è probabilmente il terzo, cioè se la convinzione del Quintavalle di aver davvero visto Amanda Knox si formò solo progressivamente nel tempo e se in tal caso tale convinzione può essere ritenuta credibile. La Suprema Corte su questo aspetto sembra un po’ ambigua, perché di fatto conferma che la convinzione si formò nel tempo, ma pare accettare tale evoluzione come fatto normale se non addirittura rafforzativo della deposizione. In particolare si legge “il teste ebbe a chiarire nei passi della sua deposizione, di essersi convinto della identità della ragazza apparsa sui giornali con quella che si presentò a lui di prima mattina il 2 novembre 2007, visto che dalla foto non appariva il colore degli occhi, ma di avere acquisito certezza, una volta vista direttamente la ragazza in aula.[…] il testimone ebbe a spiegare le ragioni delle sue perplessità e la evoluzione della sua convinzione in termini di certezza”. Dunque a parere dei Supremi Giudici Quintavalle acquisì la certezza della propria identificazione della ragazza da lui vista con Amanda Knox soltanto quando la vide in aula e cioè anche dopo un anno dal fatto, diciamo pure un anno e mezzo. Se poi il problema del Quintavalle era tutto nel fatto che dalle foto in bianco e nero dei quotidiani non si poteva riconoscere il colore degli occhi della Knox, viene spontaneo chiedersi come mai il teste non sia stato spinto dalla propria incertezza a procurarsi una copia dei tanti settimanali pieni di belle foto a colori che nel corso di quell’anno misero più volte tanto in copertina quanto nelle pagine interne numerose foto, appunto a colori, della Knox, tratte tanto dalle udienze preliminari quanto di fonte americana.

Capitolo 6 – La mancata valorizzazione del memoriale della Knox.

La sentenza della Corte di Cassazione ritiene che la corte d’appello non abbia valutato con sufficiente attenzione il memoriale scritto dalla Knox nella mattina del 6 novembre, nel quale essa si colloca apparentemente nella casa di Via della Pergola al momento del delitto. La Suprema Corte ammette che si tratta di affermazioni scritte “collocandosi in un contesto più onirico che reale” e che “si tratta di riflessioni di dubbio significato sostanziale”, ma tuttavia afferma che “non potevano essere liquidate – come furono –sul presupposto della pressione psicologica a cui fu posta l’autrice e della manipolazione psichica operata, in primis perché lo scritto fu confezionato della piena solitudine successivamente agli eccessi inquisitori e poi perché proprio quello scritto venne usato dalla stessa corte di secondo grado come base probante del delitto di calunnia, sul presupposto della piena capacità di intendere e volere, tanto da venire la Knox condannata anche sulla base di questo scritto”. Qui sono due i punti dove la motivazione della sentenza appare perlomeno dubbia. Il primo riguarda quanto il fatto che il memoriale sia stato scritto qualche ora dopo la fine dell’interrogatorio notturno possa renderne il contenuto libero dagli effetti psicologici degli “eccessi inquisitori”: la Suprema Corte tanto in questa sezione quanto in quella precedente dedicata alla calunnia lo dà praticamente per scontato, ma è un aspetto in realtà  molto discutibile. Sul secondo aspetto il discorso è sottile: la corte di secondo grado afferma sì che il memoriale non fu scritto in una condizione di incapacità di intendere e volere (Hellmann pag. 34), tuttavia tale memoriale viene pure definito “la narrazione confusa di un sogno” (Hellmann pag. 32) e che in esso l’autrice “scrive di una confusione totale, di non essere in grado di ricordare quanto le viene chiesto” (Hellmann pag. 33): è dunque quantomeno dubbio che davvero la corte di secondo grado abbia ritenuto tale memoriale un elemento a carico nella condanna per calunnia.

Capitolo 7 – La mancata valutazione del contenuto della sentenza definitiva pronunciata contro Rudy Guede.

Uno dei più controversi aspetti della sentenza sotto esame è senza dubbio il forte legame di dipendenza nei confronti della sentenza passata in giudicato del processo con rito abbreviato a cui è stato sottoposto Guede separatamente dagli altri due imputati. E’ in realtà un problema che in prospettiva potrebbe toccare molti altri casi in Italia e che ha le sue radici nell’istituzione stessa, nel 1990, del rito abbreviato. Il rito abbreviato avviene “allo stato degli atti”, cioè in questo caso facendo riferimento alle evidenze probatorie raccolte fino all’udienza davanti al GUP Micheli nell’autunno 2008; talvolta può essere ordinata una perizia aggiuntiva, ma non è stato questo il caso, eccetto che per una valutazione sul lavoro svolto dai laboratori della Polizia Scientifica. Ora, è chiaro che il rito abbreviato è più veloce di quello ordinario ed è pure quasi sempre vero che si basa su informazioni parziali, dato che usualmente nel rito ordinario ne emergono altre durante il dibattimento (perizie, testimonianze, etc.). Di conseguenza è praticamente inevitabile che se per un dato crimine ci sono più imputati e uno di essi  sceglie (ed è un suo insindacabile diritto) il rito abbreviato, l’esito del suo giudizio (che si basa quasi sempre su di un insieme di prove più limitato o addirittura superato perché corretto da successive evidenze emerse nel rito ordinario) arriverà ad essere confermato dalla Corte di Cassazione prima di quello degli altri imputati che hanno scelto il rito ordinario e, come ben si vede in questo caso, lo influenzerà pesantemente. Questo è un grosso problema di diritto per l’Italia ma nel caso specifico potrebbe avere anche grosse conseguenze su di un’eventuale richiesta di estradizione della Knox a seguito di un’eventuale condanna, in quanto potrebbe configurarsi una violazione dei suoi diritti costituzionali (che hanno la precedenza sugli impegni dei trattati) in quanto l’esito del suo giudizio è fortemente dipeso da quanto deciso in un processo in cui lei non era rappresentata. Questo aspetto è parzialmente vero anche in Italia ed infatti la Cassazione ammette che la sentenza Guede non può essere considerata “vincolante” per l’altro giudizio, tuttavia nel contesto statunitense esso è decisamente più sentito. Lo scrivente non è certo un esperto di diritto USA (e nemmeno di quello italiano, se per questo), tuttavia ha seguito con molta attenzione un caso che, tra l’altro, è stato riaperto più o meno in contemporanea con quello di Perugia, quello della cittadina americana residente in Arizona Debra Milke, accusata di aver cospirato con due complici al fine di uccidere il proprio figlio di quattro anni nel 1989. Ebbene quando i tre “cospiratori” vennero sottoposti a giudizio dopo il fatto si ebbero tre processi successivi separati e praticamente a tenuta stagna, nel senso che le dichiarazioni rese in uno di essi o i risultati di uno di essi non vennero neppure citate negli altri, nonostante i tre fossero accusati di cospirazione tra loro: è molto evidente quindi quanto diverso sia l’atteggiamento americano in merito. Tornando ora alle questioni italiane e a questa particolare sentenza, la prima cosa che causa una certa perplessità relativamente al ragionamento svolto dalla Suprema Corte per l’indebita noncuranza della sentenza Guede da parte dei giudici d’appello di Perugia è la sua insistenza sull’importanza del possesso delle chiavi di Via della Pergola da parte della Knox. Causa perplessità perché a fronte di un ragionamento piuttosto esteso ed argomentato della sentenza di secondo grado, che elenca i diversi motivi per cui la sentenza Guede oltre ad essere non vincolante è pure da considerarsi superata sotto l’aspetto della ricostruzione dei fatti, il primo e più pesante motivo di critica da parte della Suprema Corte sia la mancata considerazione della disponibilità delle chiavi. Innanzitutto questo è un elemento che, pur avendo pesantemente influenzato le indagini sin dall’inizio, di per se stesso è molto meno ovvio di quanto sembrano credere tanto la Suprema Corte quanto la Pubblica Accusa, quasi che in tutta la storia del crimine mai ci sia stata occorrenza di un crimine da parte di qualcuno introdottosi in un’abitazione attraverso una scusa o sfruttando una conoscenza occasionale con la vittima. In secondo luogo è poi particolarmente dubbio il modo in cui tale elemento (la disponibilità delle chiavi) dovrebbe rendere più significativo o di maggior influenza il giudicato del processo Guede nell’ambito del processo a Knox e Sollecito. E’ ben vero che i supremi giudici argomentano che “la conclusione dei giudici di secondo grado, secondo cui anche a volere tenere ferma l’ipotesi del concorso necessario di persone, non per questo la sentenza [Guede] assume valore probatorio determinante per riconoscere negli attuali imputati i correi di Rudy, è frutto di un ragionamento basato su un’insufficienza argomentativa, poiché il dato della presenza di altre persone andava necessariamente correlato con il dato della disponibilità della casa”, tuttavia, anche a voler accettare quell’assai arbitrario “necessariamente”, anche volendo perciò assumere che Knox e Sollecito sono più candidati di altri a ricoprire il ruolo di complici di Guede perché avevano le chiavi, qual è il contributo aggiuntivo che la sentenza su Guede dà su questo punto, visto che la sua presunta importanza può essere ricavata in maniera del tutto autonoma da esso? Forse la vera risposta sta in un passaggio successivo della sentenza sotto esame: “la sentenza acquisita [quella della Cassazione su Rudy] escludeva che il Guede fosse autore della simulazione di reato che veniva riconosciuta sussistente ed imputabile ad altri soggetti”. Un passaggio che suona tanto come “l’effrazione è simulata perché così si è deciso in un altro processo passato in giudicato”. Certamente poi la Suprema Corte cita alcuni dettagli tratti dalla sentenza su Guede e a suo dire trascurati dalla corte d’appello nella sua valutazione dell’effrazione, tuttavia a questi se ne potrebbero opporre altri di segno opposto e la sensazione generale che si trae dalla lettura di questo capitolo è che i supremi giudici ritengano come dato definitivo l’esistenza di una simulazione e che a tale dato i giudici del processo a Knox e Sollecito, passati e futuri, si debbano scrupolosamente attenere. Con una conclusione un po’ pilatesca i supremi giudici chiudono il capitolo dicendo che vi è un “difetto di adeguata motivazione nel passaggio cruciale della ricostruzione del fatto che attiene alla presenza di concorrenti nel reato, nell’abitazione nella disponibilità oltre che della vittima, della sola Knox, in quella maledetta serata, profilo che non va sicuramente inteso in un automatismo probatorio, ma che costituisce un segmento significativo nell’itinerario ricostruttivo, da valutare unitamente agli altri elementi di prova.” Un colpo al cerchio e uno alla botte.

Capitolo 8 – La valutazione delle dichiarazioni rese da Rudy Guede nel giudizio di appello.

A modesto parere dello scrivente il capitolo parte con un equivoco, attribuendo un significato errato a quanto affermato dalla corte di appello nella sua sentenza in merito alle dichiarazioni del Guede. Avevano infatti scritto Hellmann e Zanetti (pag. 35): “Per quanto possa sorprendere, Rudy Guede non è stato mai interrogato nell’ambito del presente processo circa i fatti verificatisi la notte tra il 1 ed il 2 novembre 2007 in via della Pergola; né prima ai sensi dell’art. 210 c.p.p., né successivamente ai sensi dell’art. 197 bis c.p.p. cosicché, a prescindere dalla attendibilità o meno del medesimo, non sussistono dichiarazioni rese in tale veste aventi per oggetto i fatti principali del processo.” Questa è un’affermazione neutra: si dice che Guede non ha mai testimoniato sui fatti nel contesto del processo Knox-Sollecito e si citano gli articoli del Codice di Procedura Penale in base al quale ha potuto esimersi dal farlo. Nient’altro. Ora leggiamo invece le conclusioni della Suprema Corte sul punto, che peraltro riprendono quasi letteralmente il testo dell’appello Galati , anch’esso all’apparenza caduto nell’equivoco: “vizio di violazione di legge riscontrabile, ictu oculi, nel passaggio della sentenza in cui viene fatto carico al Guede (e verosimilmente all’organo dell’accusa) di non esser stato mai interrogato né in primo, né in secondo grado. Come correttamente rilevato dalla parte pubblica ricorrente, Rudy Guede era all’epoca del giudizio di primo grado a carico dei due fidanzatini, imputato in processo connesso ex art. 12 comma 1 lett. a), con il che l’art. 210 comma 4 cod.proc.pen. gli consentiva di non rispondere. L’art. 197 bis comma 4 cod. proc. pen. inoltre lo scioglieva dall’obbligo di deporre su fatti per cui era stata pronunciata la sua colpevolezza con sentenza di condanna, avendo egli negato le sue responsabilità e non avendo reso alcuna dichiarazione. Dunque nessuna forzatura della procedura sarebbe avvenuta per compiacere il coimputato, a danno di Knox e Sollecito, ma stretta osservanza dei parametri normativi di riferimento; né può essere ritenuta l’inattendibilità del medesimo, sul semplice presupposto che ebbe a rifiutarsi di deporre, essendosi semplicemente avvalso del suo buon diritto, riconosciutogli dalla legge.” Si noti bene che si citano gli stessi articoli del Codice di Procedura Penale per dire la stessa cosa: Guede aveva diritto di tacere e l’ha fatto. Punto. Dove nella sentenza di secondo grado si accennerebbe a “favori” fatti dalla Pubblica Accusa al Guede a danno di Knox e Sollecito? Dove nella sentenza di secondo grado si dichiara di ritenere il Guede inattendibile per il solo fatto di non aver testimoniato?Dove? Il resto del capitolo demolisce le ragioni con le quali la corte di secondo grado aveva ritenuto di vedere nella conversazione via Skype del Guede con l’amico Benedetti elementi favorevoli agli imputati Knox e Sollecito. Per far questo, oltre a ripetere, avvalorandolo, un punto dell’appello Galati particolarmente discutibile, ovvero quello in cui si ritiene che Guede, collocandosi sul luogo del delitto al momento del delitto ma in un orario antecedente a quello ritenuto vero dall’accusa abbia voluto depistare, continua dando poi al Guede una notevole patente di totale inaffidabilità e definendolo pure “sicuramente protagonista principale” del crimine. Il motivo per cui causa forte perplessità l’argomentazione del depistaggio è presto detto: non si capisce davvero che effetto depistante si otterrebbe a piazzarsi sul luogo del crimine al momento del crimine ma alterando tale orario. Si capirebbe l’intento depistante se Guede avesse dichiarato di essersene andato mentre la Kercher era viva e vegeta, ma dichiarando di aver assistito al crimine e spostandolo di un paio d’ore (secondo la Pubblica Accusa) non si capisce davvero che effetto depistante si prefiggerebbe. Al contrario, visto che nega la sua partecipazione materiale all’omicidio, avrebbe ogni motivo di riportare il corretto orario proprio per acquisire credibilità agli occhi degli inquirenti. D’altra parte poi l’unico effetto depistante che si può ottenere collocandosi nel posto sbagliato al momento sbagliato ma cambiando l’orario è quello di apparire come un mitomane, ma qualcuno che ha lasciato le tracce che il Guede ha lasciato sulla scena del crimine e che sa di essere ricercato proprio in virtù di quelle tracce, non può davvero sperare di essere ritenuto un semplice mitomane. Dicevamo poi che a Guede viene data una qualifica di totale inattendibilità, e infatti le parole “inaffidabilità” e “generale” o “totale” vengono ripetute tre volte in una pagina: di conseguenza è ragionevole attendersi che qualsiasi dichiarazione futura di Rudy Guede non  avrà influenza alcuna sul processo a Knox e Sollecito. Oltre a sancirne l’inattendibilità, la Suprema Corte addossa però a Guede anche un livello di responsabilità nel crimine che potrebbe avere, questo sì, effetti sul giudizio riguardante gli altri due imputati. Con quella che, ad essere onesti, suona un po’ come un’incursione nel merito, la Suprema Corte afferma infatti (pag. 57): “Il messaggio captato non poteva essere valutato attendibile, non foss’altro per il fatto che lo stesso autore [Guede] si teneva lontano da quel fatto di sangue di cui fu sicuramente protagonista principale, per le numerosissime tracce che ebbe a lasciare sul luogo del delitto”. Si parlava di incursione nel giudizio di merito perché quanto sopra citato potrebbe essere letto come un’ammissione che Guede ha lasciato molte più tracce dei suoi complici e che quindi egli ha maggior responsabilità, da ciò potendo conseguire che la pena dei suoi complici andrebbe ridotta rispetto alla sua. Questo è un punto potenzialmente foriero di notevoli conseguenze pratiche, come meglio vedremo nell’analisi della sezione conclusiva, la quattordicesima.

Capitolo 9 – Rigetto dell’istanza di audizione di Aviello Luciano.

Luciano Aviello è un pregiudicato e compagno di prigionia di Sollecito, che venne prima presentato come testimone della difesa, con un racconto abbastanza improbabile in base al quale l’assassino della Kercher era il fratello del teste, per una storia di quadri; in un secondo tempo Aviello ritrattò e divenne testimone d’accusa, affermando che Raffaele Sollecito in carcere gli aveva confessato le responsabilità proprie e della Knox nell’omicidio, avvenuto per motivazioni di tipo “sessuale”. Ora, a prescindere dall’attendibilità intrinseca di un teste capace di così notevoli giravolte a 180 gradi, tema sul quale la Suprema Corte non si esprime, dicendo solo che da un’eventuale audizione “il giudizio di inaffidabilità avrebbe anche potuto essere rafforzato”, il resto del capitolo è un discorso di dettaglio su questioni procedurali che superano di gran lunga le competenze in materia dell’autore del presente articolo e perciò ci si rimetterà alle conclusioni della Corte. Se proprio dobbiamo sentire Aviello, con questa o quella versione, vorrà dire che lo sentiremo a Firenze.

Capitolo 10 – La riparametrazione operata in secondo grado sull’ora della morte.

E’ questo il capitolo in cui forse la Suprema Corte entra più pesantemente nell’ambito del giudizio di merito, formulando anche proprie ipotesi alternative e cioè sollevando ampie perplessità sul rispetto dei limiti che essa stessa si era imposta, in accordo con le norme di legge, nel capitolo primo della motivazione. Sostanzialmente la Corte ritiene che la determinazione dell’orario della morte di Meredith Kercher così come effettuato nella sentenza di primo grado, basandosi prevalentemente sulle più o meno convergenti testimonianze delle signore Capezzali, Monacchia e Dramis, superi per logicità e affidabilità quella effettuata dalla corte d’appello, che si basava soprattutto su di elementi riscontrati da una perizia sul telefonino della vittima, sulla chat di Guede con Benedetti e su alcune considerazioni logiche. La Suprema Corte applica nei confronti della chat via Skype di Guede tanto un’operazione di negazione di validità basata sul giudizio di totale inaffidabilità del Guede emesso nel procedimento che lo ha riguardato, quanto una logica secondo la quale le parole di Guede possono solo essere accettate o totalmente o per nulla. Infatti i supremi giudici censurano la corte d’appello di Perugia per essersi basata su alcune affermazioni fatte da Guede nella suddetta chat e relative all’orario della morte (da lui indicata intorno alle 21.30), al contempo non prestando attenzione al fatto che nella stessa chat Guede collocava Amanda Knox sulla scena del crimine e che soprattutto escludeva “di aver visto rotto il vetro della camera della Romanelli per tutto il tempo in cui ebbe a trovarsi in detta dimora. Realtà del tutto disattesa dalla corte, in un passaggio immediatamente successivo, allorquando ebbe a concludere che fu il Guede ad essere entrato dalla finestra della stanza della Romanelli, dopo aver lanciato il sasso di quattro chili dal terrapieno esterno sottostante la finestra, così realizzando un’insanabile contraddizione interna, che evidenzia il tasso sempre più marcato di illogicità che permea la sentenza”. Dunque Guede per la Suprema Corte è come la Rivoluzione Francese per Clemenceau: può essere solo accettato o rifiutato in blocco, come un tutt’unico. Non sembrano pensare i supremi giudici che l’autore di un’effrazione possa avere interesse a negarne l’esistenza piuttosto che ad ammetterla, né forse si sono resi conto che Guede nella chat non parla esplicitamente di Amanda Knox ma di una voce femminile che sente discutere animatamente con Meredith Kercher (in una lingua non specificata, ma è dubbio che Guede sarebbe stato in grado di riportare il contenuto di un litigio tra due persone di madre lingua inglese che in tale stato d’animo non si sarebbero certamente messe a cercare le parole in italiano) e che tra l’altro è stata fatta entrare in casa dalla Kercher dopo aver suonato il campanello, particolare questo che dovrebbe generare almeno qualche dubbio sull’identità della sconosciuta negli strenui sostenitori della teoria della “disponibilità delle chiavi”. Comunque, una volta tolto ogni valore all’orario riportato in chat da Guede, la Suprema Corte prosegue demolendo il valore probatorio dell’esame delle tracce sul cellulare della vittima e qui compie un passo particolarmente critico, formulando ipotesi alternative proprie su elementi di fatto: “suona del tutto implausibile che si possa fondare un’alternativa ipotesi ricostruttiva sulla base del fatto che poiché la vittima non ebbe a ripetere la chiamata a casa dopo le 20.56, sarebbe giocoforza ritenere l’intervento di accadimento infausto: la prima mancata risposta dei familiari potrebbe aver indotto la giovane a ricordare impegni serali degli stessi che si potevano protrarre fino a tardi e quindi è assolutamente ragionevole pensare che la giovane inglese abbia desistito, per ragioni non legate necessariamente alla sorte che le sarebbe poco dopo toccata.” Si richiama ora quanto scritto dagli stessi giudici nel capitolo ottavo della stessa sentenza a pagina 56: “avendosi riguardo a parametri valutativi non già rimpiazzabili con altri non meno validi e congruenti (situazione che precluderebbe qualsivoglia incursione ad opera di questa Corte, Sezioni Unite, 31/5/2000 n°12) ma a …”. Andando un passo oltre citeremo anche un articolo del consigliere di Cassazione Giovanni Canzio sul tema dei limiti dell’operato della Corte di Cassazione nei confronti di una sentenza di appello e in particolare il seguente passaggio a pagina 6 dello stesso: “In ordine alla definizione dei confini del controllo di legittimità sulla motivazione in fatto, può dirsi peraltro ormai consolidato il principio giurisprudenziale, ripetuto in plurime sentenze delle Sezioni Unite penali (Cass., Sez. un., 13/12/1995, Clarke; Sez. un., 19/6/1996, Di Francesco; Sez. un., 30/4/1997, Dessimone; Sez. un., 24/11/1999, Spina; Sez. un., 21/6/2000, Tammaro; Sez. un., 31/5/2000, Jakani; Sez. un., 24/9/2003, Petrella; Sez. Un., 30/10/2003, Andreotti; Sez. un., 12/7/2005, Mannino), per il quale la Corte di cassazione ha il compito di controllare il ragionamento probatorio e la giustificazione della decisione del giudice di merito, non il contenuto della medesima, essendo essa giudice non del risultato probatorio, ma del relativo procedimento e della logicità del discorso argomentativo. Le contestazioni del ricorrente non possono risolversi in una non ammessa rilettura degli acquisiti elementi di prova, perché la Corte non può procedere a una nuova e diversa valutazione degli elementi materiali e di fatto delle vicende oggetto del processo, e che le ricostruzioni alternative, al pari delle censure sulla selezione e l’interpretazione del materiale probatorio, non sono idonee ad accedere al giudizio di legittimità, poiché, in presenza di una corretta ricostruzione della vicenda, non è ammessa incursione alcuna nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti, né la possibilità di scrutinare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali.” Certamente la ricostruzione della vicenda deve essere “corretta”, ma in questa particolare sezione della sentenza della Cassazione non si sta argomentando che l’uso fatto delle tracce trovate sul telefono della vittima è “illogico” o “contraddittorio”: si postula semplicemente un’ipotesi alternativa, magari anche possibile, ma semplicemente alternativa, non sostitutiva di un ragionamento illogico. Preso atto di tale apparente forzatura, andiamo avanti e passiamo all’elemento centrale del capitolo: le testimonianze di Capezzali, Monacchia e Dramis. La Capezzali riferisce di aver sentito un urlo straziante e poi poco dopo passi su di una scaletta in ferro e sulla ghiaia e sulle foglie secche di Via della Pergola. La Monacchia sente un urlo, ma non passi di nessun genere. La Dramis non sente l’urlo ma “passi di corsa sotto la finestra, come non ne aveva mai sentiti”. Ora, a parte chiedersi come dovessero essere questi passi per meritarsi una tale qualifica di unicità, bisogna anche notare che le tre donne non guardano l’orologio e riferiscono la collocazione temporale dei fatti da loro testimoniati semplicemente come avvenuti più o meno dopo le 22.30 in tutti e tre i casi, ma quanto dopo non è dato sapere se non con margini di errore di almeno trenta minuti. La Suprema Corte ritiene tali testimonianze concordanti e non si fa nessun problema sull’orario, diversamente dalla corte di appello che aveva scritto “mezz’ora più o mezz’ora meno non sono affatto indifferenti”. Non contenta di ciò, la Suprema Corte fa un’altra incursione, verrebbe da dire alquanto esplicita, nell’ambito del giudizio di merito, definendo categoricamente (pag. 63) “l’urlo straziante sicuramente della povera Meredith”. Di fatto quindi la Suprema Corte ha fissato l’ora della morte di Meredith Kercher a beneficio dei giudici del prossimo processo. A sostegno di tale pesante affermazione i supremi giudici citano ancora il fatto che “dell’urlo straziante ne ebbe a fare cenno anche la stessa Amanda nel suo memoriale”, del cui contesto “più onirico che reale” gli stessi giudici avevano parlato qualche pagina prima ed infine il particolare che avendo i dati tanatologici indicato un range per l’ora della morte dalle ore 18.50 alle ore 4.50 del 2 novembre, le ore 23/23.30 del 1 novembre vi cadrebbero perfettamente in mezzo. Non viene invece trattato, neppure per confutarlo, l’argomento speso dalla corte d’appello considerando che la vittima era ancora, quando fu aggredita, vestita  nello stesso modo in cui era stata vista per l’ultima volta dall’amica Sophie Purton e che a quest’ultima la Kercher aveva detto di essere stanca e di voler andare a dormire presto, rendendo così improbabile che fosse rimasta due ore sul letto ancora sveglia e pure vestita di tutto punto.

Capitolo 11 – Le ordinanze con cui venne disposta una nuova perizia genetica e con cui successivamente venne rigettata l’istanza di nuova perizia sulla nuova traccia campionata.

Come in un crescendo giungiamo qui ad uno degli elementi più controversi di tutto il caso ( e anche della sentenza), ovvero le perizie genetiche. L’argomento è diviso in tre capitoli, questo, l’undicesimo, tratta specificamente delle tracce sul coltello sequestrato a casa di Sollecito e supposta arma del crimine, il successivo dodicesimo capitolo delle indagini genetiche più in generale e dell’argomento contaminazione in particolare, mentre il tredicesimo capitolo si occupa delle impronte e delle altre tracce, particolarmente quelle nel bagno piccolo in uso a Knox e Kercher. A proposito della perizia Conti-Vecchiotti ordinata dalla corte d’appello, il ricorso Galati si era spinto fino a chiedere che ne fosse dichiarata l’illegittimità: su questo punto la Suprema Corte è molto chiara e pur dicendo che la sua necessità è stata malamente motivata, tuttavia ritiene tale perizia assolutamente legittima da un punto di vista di diritto. Ciò che invece i supremi giudici censurano in questo capitolo è il fatto che non sia stata testata la nuova traccia campionata dalla Vecchiotti sul coltello, secondo loro addirittura in prossimità di quella attribuita “con forti contestazioni” alla vittima, cosa che a memoria dello scrivente non dovrebbe essere proprio corretta visto che la nuova traccia “36I” si trova vicino al manico, mentre la vecchia, famosa, 36B si trovava più vicino alla punta della lama. Comunque, al di là di simili dettagli, è interessante analizzare la logica argomentativa della Suprema Corte su questo aspetto. I supremi giudici ripetono più volte che tale decisione (di non testare la nuova traccia) è stata una decisione “assunta in solitudine da uno dei periti, la prof. Vecchiotti, senza una documentata preventiva autorizzazione in tal senso da parte della Corte […] Tale scelta incontrò peraltro la successiva condivisione del Collegio” e poi più oltre “In ogni caso non poteva uno dei componenti il collegio peritale assumere la responsabilità della decisione di autoridursi il mandato ricevuto”, non si capisce quindi se la Vecchiotti doveva chiedere un’autorizzazione scritta della Corte a non testare o se doveva testare comunque ed in ogni caso. Dalle argomentazioni successive della Suprema Corte pare infine di capire che si doveva testare comunque e poi eventualmente discutere della affidabilità o meno dei risultati. Nel corso di tale ragionamento la Suprema Corte entra di nuovo considerevolmente nel tema delle prove fattuali, arrivando a citare i dieci picogrammi (o anche meno) che Novelli, consulente della Procura, ritiene essere la soglia di sensibilità della strumentazione attuale in ambito diagnostico (che la Suprema Corte ritiene esplicitamente essere del tutto equivalente a quello forense) e anche i 120 picogrammi in cui, diversamente dalla Vecchiotti, la professoressa Torricelli, consulente delle parti civili, ha quantificato la sostanza utile sulla nuova traccia. In tutto questo trionfo di argomentazioni tecniche nell’ambito di un giudizio di legittimità, si dice pure che il verbale in cui la Vecchiotti giunse alla conclusione di non procedere al test, non venne “ovviamente” sottoscritto dai consulenti del Procuratore Generale e delle parti civili, punto seccamente contestato da Sollecito dopo la pubblicazione della motivazione e di cui magari sentiremo riparlare nel prossimo processo. Sono due i punti però sui quali possiamo fondare una valutazione critica. Innanzitutto, cos’è una “moderna tecnica di analisi sperimentata”, alla quale, secondo la Suprema Corte, la nuova traccia dovrebbe essere sottoposta? Sono i mezzi di cui parla Novelli con i loro 8-10 picogrammi di sensibilità di soglia, magari usati abitualmente sugli embrioni, ma che non sembra siano altrettanto consolidati in campo forense, o sono quelle tecniche sulle quali c’è ampio consenso in quella parte della comunità scientifica più specificamente dedicata alle analisi forensi? Un’altra sentenza della Corte di Cassazione, ritenuta importante in anni recenti, la cosiddetta Cozzini (43786/2010), si esprime nel modo seguente su come trattare teorie scientifiche (e tali si possono considerare anche le teorie sui metodi da applicare all’analisi delle tracce di DNA) in contrasto tra loro (pag. 35): “D'altra parte, in questo come in tutti gli altri casi critici, si registra comunque una varietà di teorie in opposizione. Il problema è, allora, che dopo aver valutato l'affidabilità metodologica e l'integrità delle intenzioni, occorre infine tirare le fila e valutare se esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l'argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. In breve, una teoria sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso.” E decisamente dalla letteratura presentata nella motivazione di secondo grado la teoria di non testare se non si poteva procedere ad un’amplificazione multipla pareva quella con il maggior consenso da parte della comunità scientifica. La Prima Sezione Penale nella presente sentenza ha invece adottato una logica del tipo “prima si testa e poi si discute”: benissimo, ne vedremo i frutti al processo di Firenze. E proprio ricollegandoci al prossimo processo veniamo a trattare il secondo elemento di analisi critica, ovvero il famoso coltello come arma del delitto. Cominciamo facendo notare che c’è un intero capitolo nella sentenza di secondo grado riguardante tale coltello e trattante tutti i motivi per cui, a prescindere dalle analisi genetiche, tale strumento risulta molto improbabile nel ruolo dell’arma che ha ucciso Meredith Kercher. Tutti questi elementi (la poca o nulla compatibilità con le ferite, la presenza di amido, l’improbabilità della spiegazione con cui la corte di primo grado ha giustificato la sua presenza in Via della Pergola la notte dell’omicidio, etc.) non sono stati oggetto di contestazione da parte della Procura Generale di Perugia nel suo appello e di conseguenza non sono stati neppure trattati dalla Suprema Corte nella presente sentenza. Si desume quindi che tali argomenti mantengano intatta la loro efficacia anche nel nuovo processo. In questo senso questo autore si sente di criticare il fatto che la Suprema Corte abbia definito la nuova traccia un elemento “di portata non solo significativa ma decisiva”. Ovviamente la Suprema Corte era obbligata a definire tale prova come “decisiva” per poter invocare l’articolo 606 sezione d) c.p.p e giustificare il ricorso della Procura su questo punto, tuttavia lo scrivente contesta che si possa definire “decisivo” il test sulla traccia 36I quando molti altri elementi di prova di senso contrario possono renderla al più un elemento di prova contraddittorio ma non decisivo. Detto questo, e ammetto di aver compiuto un atto di presunzione a pormi sullo stesso piano della Corte di Cassazione, anche accettando la definizione della traccia 36I come “decisiva”, se la si testa e viene fuori che non appartiene a Meredith Kercher, che succede? Si assolve automaticamente perché l’elemento “decisivo” è andato a sfavore dell’accusa e a favore della difesa? Sarebbe troppo ingenuo credere in un tale automatismo, tuttavia questo punto verrà trattato nuovamente, in un più ampio contesto, nell’analisi del capitolo finale, il quattordicesimo.

Capitolo 12 – Indagini genetiche.

Il capitolo comincia criticando la corte d’appello di Perugia per aver “supinamente recepite le indicazioni dei periti [Conti e Vecchiotti], quanto alla mera inadeguatezza delle indagini condotte dalla Polizia Scientifica” per poi affermare che in sede di motivazione non è stato tenuto conto delle motivate obiezioni dei professori Novelli e Torricelli, consulenti del Procuratore Generale e delle parti civili. Questo primo insieme di obiezioni introduce una questione di metodo che impatterà sicuramente sul nuovo processo, ma anche ben al di là di questo, sfociando probabilmente in un dibattito internazionale. Sostanzialmente la Suprema Corte aderisce alle obiezioni di Novelli e Torricelli sulla stretta aderenza ai protocolli, propugnata invece da Conti e Vecchiotti. I supremi giudici sembrano infatti concorrere con Novelli che “aveva convenuto che esistono protocolli e raccomandazioni, ma aveva aggiunto che prima di tutto doveva concorrere l’abilità dell’operatore ed il suo buon senso, pena la messa in discussione di tutte le analisi del DNA fatte dal 1986 in avanti” e con la Torricelli che “aveva puntualizzato come a detti protocolli necessariamente è consentito derogare, proprio in ragione della particolarità dei singoli casi”. Su questo argomento lo scrivente si sente costretto a spendere qualche parola, avendo una formazione universitaria nel campo delle scienze fisiche che pur se persa nella notte dei tempi in quanto ai dettagli, gli ha lasciato almeno qualche ricordo sui metodi. Sarà forse perché la fisica non è la biologia, ma sono assolutamente certo di non aver mai sentito dire nel contesto dell’ambito sperimentale che “prima di tutto devono concorrere l’abilità dell’operatore ed il suo buon senso”, avendo sempre ricevuto l’insegnamento che la validità di una misurazione scientifica deve dipendere dai metodi seguiti e dagli strumenti impiegati ma non dalle qualità individuali dell’individuo che la esegue, anche perché è requisito fondamentale che essa sia ripetibile da chiunque possieda analoghi strumenti e segua gli stessi protocolli. Si ricava invece dalla lettura di queste pagine, ma in realtà da tutta la diatriba sulle indagini genetiche in questo processo, la sensazione che in questo campo ci si trovi di fronte più ad un’arte (dove molto dipende dall’ ”operatore”) che ad una scienza esatta (dove il risultato deve essere indipendente dall’ “operatore”), almeno per quel che riguarda la determinazione e l’attribuzione dei profili genetici, essendo evidente dalla lettura degli atti processuali che molto viene lasciato all’interpretazione dei singoli “operatori”. Orbene, se questo è lo stato  delle cose nella genetica forense non ci si può che adeguare ad esso, tuttavia deve essere ben chiaro, soprattutto ai giudicanti, togati e popolari indifferentemente, che, contrariamente a quanto mostrato in numerose serie televisive estremamente popolari, non ci sono macchine in cui si inserisce il campione e da cui esce, dopo rigorosa analisi matematica, la foto del sospettato, bensì una serie di interpretazioni individuali con ampio margine di soggettività. Questo è molto importante perché oggigiorno le giurie hanno una fede pressoché assoluta nel valore della “prova regina”, ovvero il DNA, immaginando confusamente però, il più delle volte, che l’attribuzione di un profilo genetico segua gli stessi passaggi della risoluzione di un’equazione matematica, il che sicuramente non è vero e questo dovrebbe essere chiarissimo ai giudicanti. Forse ancora più importante è l’aspetto trattato subito dopo dalla Suprema Corte in questo capitolo, ovvero quello della contaminazione, sul quale citiamo estesamente le parole dei supremi giudici: “L’aspetto ancora più sorprendente è stato quello di recepire senza alcun senso critico, la tesi sostenuta dai periti sulla possibile contaminazione dei reperti, tesi del tutto disancorata da un dato scientifico idoneo ad accreditarla concretamente. L’ipotesi indimostrata di una contaminazione è stata assunta quale assioma, […] laddove i dati acquisiti non consentivano di addivenire a simili conclusioni. Era stata esclusa anche dagli stessi periti [quali? Conti e Vecchiotti?] la contaminazione da laboratorio. Il professor Novelli disse che della contaminazione deve essere dimostrata l’origine, il veicolo”. Viene poi fatto una lunga citazione di elementi che dimostrerebbero l’assenza di contaminazione in laboratorio, ma visto che nella sentenza di secondo grado era stata ritenuta ben maggiore una probabilità di contaminazione nella fase di refertazione (Hellmann pag. 89-93), si procede a negare pure questa. Innanzitutto, poiché nella sentenza di secondo grado si era fatto riferimento alla presenza del DNA di Sollecito su di un mozzicone di sigaretta, viene addirittura ridicolizzata la possibilità che tale DNA sia “trasmigrato” sul gancetto del reggiseno di Meredith Kercher, senza però considerare che per la sentenza di secondo grado quello era solo un esempio: “ma il DNA di Sollecito era certamente presente nel resto della casa, tanto da essere stato rilevato, per esempio, su un mozzicone di sigaretta, né potendosi escludere su altri oggetti non repertati” (Hellmann pag 93). Ancor più lacunosa appare poi l’assenza di ogni riferimento alla presenza di altri profili maschili sul gancetto di reggiseno, che nel processo di secondo grado era stato ritenuto uno degli elementi chiave a favore della contaminazione. Si potrebbe anche dire che nessun test quantitativo su possibilità di contaminazione per trasferimento multiplo è mai stato effettuato dalla Polizia Scientifica nell’ambito di questo caso (e forse in nessun caso). Ma lasciando ora da parte questioni tecnicamente sofisticate (e che peraltro competono più al giudizio di merito che a quello di legittimità), dobbiamo ora volgere la nostra attenzione ad una serie di affermazioni ed argomentazioni che saranno certamente fonte di conseguenze, anche ben oltre i confini nazionali. Prima affermazione: “Né poteva essere affermato, come fu, che nel tempo intercorso tra il primo sopralluogo ed il secondo, compiuto a distanza di più di quaranta giorni, presso la casa locus commissi delicti, ‘vi avessero tutti scorrazzato’, visto che alla casa furono apposti i sigilli ed in detto intervallo nessuno ebbe l’opportunità di accedervi, come risulta dai dati processuali.” Premesso che Sollecito, dopo aver letto la motivazione ha pubblicamente affermato che i dati processuali indicherebbero proprio l’opposto, cosa che sicuramente sarà approfondita nel nuovo processo, quello che si vuol far notare qui è che i filmati girati durante il secondo sopralluogo mostrano uno stato dei luoghi totalmente diverso da quello che si vede nei filmati dei primi giorni. Chi sia stato e quando ovviamente i filmati e le foto non lo dicono, ma che sia successo è evidente ed era stato infatti detto nella sentenza di secondo grado che “è certo che tra il sopralluogo della Polizia Scientifica, nella immediatezza della scoperta del delitto, e il secondo sopralluogo della stessa Scientifica del 18 dicembre, la casa di Via della Pergola fu oggetto di più perquisizioni, dirette a ricercare eventuali altri elementi utili per le indagini, nel corso delle quali la casa venne messa a soqquadro, così come documentato anche dalle fotografie proiettate dalla difesa degli imputati ma realizzate dalla stessa Polizia. E queste perquisizioni vennero comprensibilmente effettuate senza le cautele che accompagnano le indagini della Scientifica, nella convinzione che ormai, comunque, i reperti da sottoporre ad indagini scientifiche fossero stati acquisiti.” (Hellmann pag. 90-91) Seconda affermazione: “i dati obbiettivi raccolti deponevano per l’assenza di evidenze (già messa in luce nella sentenza di primo grado da pag 281 in avanti, in cui si fece riferimento alla video registrazione delle operazioni di refertazione avvenute con le cautele da protocolli della polizia scientifica, adusa ad interventi di questa natura) accreditanti l’ipotesi della contaminazione”. Tra tutte le cose i supremi giudici dovevano citare proprio quei video che nell’udienza del 25/07/2011 il professor Conti esaminò in aula passo passo, evidenziandone le discrepanze rispetto a quelle che avrebbero dovuto essere le procedure seguite. Ora, mentre su alleli, stutter e tante altre questioni riguardanti la profilazione del DNA, la gran massa del pubblico è totalmente ignorante e non può che rimettersi agli esperti, chiunque abbia gli occhi non può non vedere se non si usano le pinzette quando si dovrebbe o se non ci si cambiano i guanti quando sono sporchi o se non si vestono gli appropriati indumenti anti contaminazione quando si dovrebbe. E’ evidente nell’affermazione citata sopra una certa volontà di tutelare il buon nome della Polizia Scientifica, aspetto evidente anche nelle argomentazioni del sostituto PG Riello all’udienza, tuttavia mi chiedo se si pensa di fare un grande favore a questi servitori dello Stato negando in assoluto che ci siano stati errori anche dove essi sono evidenti e visibili da tutti senza necessità di alcuna formazione specialistica. Perché è ben noto che tali immagini hanno già fatto il giro del mondo una volta ed è certo che lo rifaranno una seconda volta durante il nuovo processo e c’è da chiedersi se in tale contesto, particolarmente all’estero, le parole “operazioni di refertazione avvenute con le cautele da protocolli della polizia scientifica, adusa ad interventi di questa natura” non verranno interpretate come “questo è quello che fanno di solito e perciò bisogna accontentarsi”. Terza affermazione: “La corte di secondo grado ha condiviso la tesi della probabile contaminazione avanzata dai periti, basata sul ‘tutto è possibile’, che non è un argomento spendibile […]: il veicolo di contaminazione andava individuato […] non bastava ipotizzare un’insufficiente professionalità degli operatori nella refertazione […] ma soprattutto si è fondato sulla erronea convinzione che incombesse sull’accusa dimostrare l’assenza di agenti contaminanti, laddove i dati […] si basavano […] su un’attività di refertazione compiuta sotto gli occhi dei consulenti di parte che nulla ebbero a rilevare. Tale quadro era tale da poter accreditare una correttezza di procedura che faceva inevitabilmente ricadere su chi lo volesse sostenere, l’onere di individuare e dimostrare il fattore contaminante […] La confutazione della prova scientifica doveva quindi, per forza di cose, passare attraverso la dimostrazione delle circostanze di fatto specifiche e concrete, accreditanti l’asserita contaminazione.” Allora, per prima cosa la tesi della contaminazione non si basa sul “tutto è possibile” (frase del professor Conti già citata nell’appello Galati e totalmente estrapolata dal contesto in cui fu pronunciata) ma, come argomentato dalla sentenza di secondo grado, è basata sulla letteratura in materia e sull’esame delle prove visive. In secondo luogo, a prescindere dagli ulteriori sopralluoghi di cui si è detto sopra, di sicuro l’attività di refertazione svolta dal pomeriggio del due fino alla mattina del sei novembre, non fu svolta sotto gli occhi dei consulenti di parte, per il semplice fatto che tecnicamente non c’erano indagati e quindi nemmeno loro consulenti. Infine per quello che riguarda l’asserzione che la contaminazione vada provata, che ne vada identificato il veicolo e quindi la dettagliata meccanica, in opposizione al concetto della corte di secondo grado, nel corso del 2012 apprezzato su siti e riviste giuridiche italiane, secondo il quale il mancato rispetto dei protocolli che prevengono la contaminazione è sufficiente come prova di avvenuta contaminazione, ebbene qui certamente si genererà una grossa contesa, sui media certamente, ma anche a livello giuridico. Tale affermazione potrebbe essere infatti la base per un ricorso al Tribunale di Strasburgo sulla base dell’articolo 6 comma 3 lettera b) della CEDU, che dice che “ogni accusato ha diritto di … disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa”: infatti se è richiesto all’accusato di provare in dettaglio l’avvenire della contaminazione ed egli è privato non solo del controllo completo della scena del crimine, ma anche di fonti audiovisive che documentino gli atti di tutti gli operatori in ogni momento e da più angolazioni, nonché della possibilità di effettuare in proprio prelievi ed analisi per documentare tali trasferimenti contaminanti, allora l’accusato è privato delle “facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa”. Non si tratta tanto di inversione dell’onere della prova, bensì del negare gli strumenti necessari a sostenere tale onere. Tutto ciò è tanto più vero se si considera che le riprese video, a prescindere dal numero e dalla qualità, non sono nemmeno un obbligo per la legge italiana e che comunque la refertazione avviene nella maggior parte dei casi prima che ci siano degli accusati e quindi prima che essi possano in modo diretto od indiretto avere un controllo sulla scena del crimine, anche qualora la legge desse loro questa facoltà.

Capitolo 13 – Analisi delle impronte e delle altre tracce.

Questa sezione si occupa, piuttosto sommariamente rispetto alla più lunga e accurata trattazione presente nella sentenza di secondo grado, tanto delle impronte di piede rilevate con il luminol e ritenute dall’accusa (e dalla sentenza di primo grado) impresse con il sangue della vittima che delle tracce di sangue repertate nel bagno piccolo. Oltre a essere sommaria, l’analisi della Suprema Corte verte quasi esclusivamente su due elementi secondari e alquanto periferici nell’economia della sentenza annullata. Dopo aver infatti ammesso che la valutazione dell’impronta sul tappetino del bagno come non attribuibile a Sollecito non è sindacabile in questo contesto trattandosi di un profilo valutativo, la Suprema Corte censura però la sua attribuzione a Guede. Per quanto gli argomenti che i supremi giudici spendono a questo proposito non manchino di una certa logica, non per questo quelli della corte d’appello sono “contro ogni evidenza”, come invece sostenuto dalla Suprema Corte, la quale poi, nel corso di tali argomentazioni, oltre ad assumere apparentemente che la corte di secondo grado abbia fatto confusione tra impronte palmari e di scarpe del Guede, cosa non vera, torna a basarsi pesantemente sulle conclusioni della sentenza riguardante Guede, ancora una volta dando per scontato che le impronte dell’ivoriano indichino un’uscita diretta, senza deviazioni dalla casa e ancora una volta ribadendo che Guede agì “in concorso con altri, così come è stato affermato nella sua sentenza di condanna”. Ma a prescindere da tutti questi dettagli, l’attribuzione dell’impronta sul tappetino a Guede è un puro fattore accessorio nel contesto di un processo dove l’imputato interessato è Sollecito e dove quello che veramente conta e che non si possa attribuire a lui tale impronta. Ma il punto più dubbio non solo di questa sezione ma forse di tutta la sentenza viene toccato a proposito delle impronte evidenziate dal luminol: innanzitutto si trascura di dire che solo due di esse hanno dato un profilo misto Knox-Kercher (anzi, si afferma erroneamente che esso è misto in tutte e trascurando completamente il fatto che fossero tracce di DNA Low Copy Number, come invece evidenziato dalla corte d’appello), ma soprattutto si afferma apoditticamente “il luminol evidenzia tracce di sangue e non era davvero ipotizzabile che la Knox avesse avuto i piedi imbrattati di sangue della vittima in precedenti occasioni.” Tale frase, a parte il cattivo gusto da battuta macabra, certamente involontario, riprende un’affermazione simile presente nell’appello Galati, dove però almeno ci si era preoccupati di dire che il luminol “esalta principalmente le tracce di sangue”, mentre nella versione della Suprema Corte ogni precisazione è sparita e sembra che il luminol reagisca solo ed unicamente con il sangue. Cosa palesemente non vera. Non si può inoltre non notare che la Suprema Corte, che in questo capitolo riprende con ampie citazioni la sentenza di primo grado per descrivere quali atti la Knox avrebbe compiuto per lasciare non solo queste impronte insanguinate, ma anche svariate altre tracce di sangue nel bagno piccolo, trascuri totalmente quello che invece era elemento fondamentale delle ragioni assolutorie della sentenza di secondo grado, ovvero la negatività delle presunte impronte insanguinate al test della tetrametilbenzidina (TMB), definito dalla corte di secondo grado “molto sensibile,  tanto da riuscire positivo anche in presenza di soli cinque globuli rossi. La stessa dottoressa Stefanoni, inoltre, ha chiarito (udienza preliminare del 4 ottobre 2008) che mentre l’esito positivo dell’esame potrebbe essere ingannevole in ragione della reattività dell’evidenziatore anche ad altre sostanze, l’esito negativo dà certezza sull’assenza di sangue.” Senza entrare in disquisizioni tecniche sull’effettiva sensibilità del TMB rispetto al luminol, quello che si vuole sottolineare qui è che tale aspetto fondamentale (non messo in questione neppure nell’appello Galati) non viene minimamente affrontato, neppure per confutarlo, da parte della Suprema Corte, che però scrive all’inizio di questo capitolo di ritenere fondate “le censure avanzate in termini di manifesta illogicità della motivazione, quanto ai criteri di valutazione in materia genetica”. Allo stesso modo nulla si dice, neppure per confutarle, delle obiezioni mosse dalla sentenza di secondo grado al modo in cui vennero campionate le cosiddette tracce miste nel lavandino o nel bidet e neppure nulla si dice, nemmeno per confutarla, sull’ovvia considerazione che la presenza del DNA di Kercher e Knox sui sanitari che usavano insieme sia cosa del tutto naturale. La Suprema Corte conclude poi il capitolo con un’operazione che non può che sollevare forte perplessità nello scrivente: essa eleva un’argomentazione del tutto secondaria della corte di secondo grado a fulcro delle motivazioni di questa, per poi demolirla. L’argomentazione è quella che nel bagno piccolo non vennero evidenziate tracce di Sollecito e la Suprema Corte, riprendendo la sentenza di primo grado, la “smonta” affermando che egli potrebbe essersi lavato nel vano doccia con abbondanza d’acqua. Ma il punto critico è che quest’argomentazione è nella sentenza di secondo grado poco più che un’appendice conclusiva, una piccola nota finale, mentre nella sentenza della Cassazione viene fatta passare come l’unica risposta della corte d’appello al problema delle tracce miste rinvenute nel bagno, cosa che certamente non fu, perché altre furono le risposte, queste sì ignorate dalla Suprema Corte, come si è detto sopra.

Capitolo 14 – Le dichiarazioni della Knox (e conclusioni).

L’ultimo capitolo della sentenza inizia affermando che non sono state prese in dovuta considerazione alcune dichiarazioni (o atti, come una telefonata) di Amanda Knox che potrebbero costituire elemento indiziario a suo carico in quanto indicanti una conoscenza dei particolari dell’omicidio che essa non avrebbe dovuto possedere se innocente. In particolare si ritorna ancora una volta su quanto Amanda Knox avrebbe detto in Questura nel pomeriggio del 2 novembre alle amiche inglesi della vittima e cioè “che il cadavere dell’amica l’aveva trovato lei, che era davanti all’armadio, che era coperto da una trapunta, che spuntava fuori un piede, che le avevano tagliato la gola e che c’era sangue dappertutto, laddove nel suo interrogatori del 13/6/2009, aveva escluso di aver visto alcunché.” La prima consistente imprecisione è che la Knox in realtà disse che il cadavere dell’amica era stato ritrovato dentro un armadio (il fatto è riportato correttamente nell’appello Galati), cosa che già dimostra quanto tale presunta conoscenza fosse indiretta e derivante da sentito dire. Il dire “l’ho trovato io” è interpretabile come un’approssimazione per “ero presente al ritrovamento”, mentre il taglio alla gola e il sangue sono dettagli facilmente appresi dalle altre persone presenti, che tali dettagli videro e con le quali la Knox venne lasciata tranquillamente a conversare per un’ora fuori dal villino prima di andare in Questura. In aggiunta a tutto ciò il trasferimento in Questura avvenne sulla macchina di due altri testimoni presenti al ritrovamento con i quali avvenne ulteriore travaso di informazioni. Queste sono evidenti obiezioni che dovrebbero emergere chiaramente e facilmente nel nuovo processo, anche se in realtà avrebbero già dovuto essere abbondantemente chiare a questo punto. Infine la Suprema Corte riprende il tema della telefonata fatta dalla Knox a sua madre alle ore 12.47 italiane del 2 novembre, notte fonda a Seattle, della quale sottolinea il valore potenzialmente indiziario sia per l’orario sia perché a suo dire la Knox in sede di interrogatorio fu reticente o poco chiara su di essa e infine perché avvenne prima delle telefonate di Sollecito ai Carabinieri. Ancora una volta le motivazioni della Suprema Corte destano profonda perplessità nello scrivente: “la sottovalutazione della circostanza non è questione di pura valutazione, se solo si consideri che ancora una volta i dati non sono stati correttamente recepiti dai flussi informativi, avendo ritenuto il Collegio di secondo grado che si fosse trattato di telefonata in contemporanea con quella che il Sollecito fece dapprima al 112 e poi alla sorella [in realtà avvenne il contrario]. In realtà agli atti risultava che la prima a manifestare inquietudine la mattina del 2/11/2007 fu sicuramente la Knox che telefonò alla madre cogliendola in piena notte, che il Sollecito tre minuti dopo chiamò la sorella”. Dunque per la Suprema Corte tre minuti di differenza rendono tali telefonate non in contemporanea: mentre la cosa è vera in senso letterale, tuttavia era evidente nella motivazione di secondo grado che si parlava di un crescendo di preoccupazione nel cui contesto avvengono a breve distanza le une dalle altre le suddette telefonate e non si può credere che i supremi giudici di questa nazione non siano in grado di capirlo. Infine, terminato l’esame delle manchevolezze della sentenza annullata, la suprema corte fornisce quelle che potrebbero essere definite “indicazioni” alla prossima corte giudicante: “Il giudice del rinvio dovrà quindi porre rimedio, nella sua più ampia facoltà di valutazione, agli aspetti di criticità argomentativa, operando un esame globale ed unitario degli indizi, esame attraverso il quale dovrà essere accertato se la relativa ambiguità di ciascuno elemento probatorio possa risolversi, poiché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri. L’esito di tale valutazione osmotica sarà decisiva non solo a dimostrare la presenza dei due imputati nel locus commissi delicti, ma ad eventualmente delineare la posizione soggettiva dei concorrenti del Guede, a fronte del ventaglio di situazioni ipotizzabili, che vanno dall’accordo genetico sull’opzione di morte, alla modifica di un programma che contemplava inizialmente solo il coinvolgimento della giovane inglese in un gioco sessuale non condiviso, alla esclusiva forzatura ad un gioco erotico spinto di gruppo, che andò deflagrando, sfuggendo al controllo.” A parte le questioni “osmotiche”, che lasciamo volentieri alla chimica, queste “direttive” mantengono almeno una parvenza d’imparzialità, in esse infatti non si dà per scontata la presenza dei due imputati sulla scena del crimine, anche se questo lo si capisce quasi solo da quel “eventualmente” messo prima di dell’elencazione delle possibili “situazioni soggettive”, ovvero più o meno dei possibili livelli di responsabilità degli imputati se la loro presenza sul luogo del delitto risultasse certa agli occhi dei nuovi giudici. Bisogna però dire che il tono tutto della sentenza, con la critica pressoché totale della sentenza di secondo grado, l’accettazione quasi completa del ricorso della Procura, le cui argomentazioni vengono spesso riproposte in maniera quasi letterale e gli apprezzamenti più volte espressi verso la sentenza di primo grado, non lascia molto spazio per un’interpretazione positiva da un punto di vista innocentista. Perciò se si vuole usare questa sentenza come chiave di lettura per i possibili esiti del prossimo processo, il modo più immediato di farlo è di esaminare i tre possibili scenari di condanna che essa delinea. Il primo, l’accordo “genetico” sull’opzione di morte, usa un’espressione un po’ enigmatica per definire quello che potrebbe essere uno scenario con premeditazione, una tesi abbandonata già durante il secondo processo, se non addirittura durante il primo, e che quindi è difficile che riveda la luce nel nuovo processo d’appello. Il secondo, la modifica di un programma che inizialmente contemplava solo un gioco sessuale non condiviso dalla giovane inglese, potrebbe essere una riedizione, riveduta e corretta dello scenario prospettato dalla motivazione di primo grado, forse addirittura alleggerito come responsabilità, visto che i supremi giudici, che si suppone ben conoscano il valore delle parole in un contesto penale, non usano i termini “stupro” o “violenza sessuale”, ma solo “gioco sessuale”. Il terzo infine, l’esclusiva forzatura ad un gioco erotico, potrebbe prospettare una partecipazione semplicemente passiva dei due imputati all’atto omicidiario, ovvero essi erano presenti ma non vi presero materialmente parte, mentre misero in seguito in atto attività depistanti perché avevano paura di essere considerati colpevoli anche dell’omicidio. Sorprende un po’ che in due casi su tre si riproponga quel “gioco erotico” che, sebbene considerato elemento quasi certo nelle fasi iniziali del caso, nel corso degli anni e dei processi era apparso sempre più improbabile. Giunti al termine di questa lunga analisi, rammentiamo quindi quanto si era detto sul fatto che la Suprema Corte avesse apertamente descritto Guede come protagonista principale e gli appunti fatti sul coltello nei commenti all’undicesimo capitolo. La traccia 36I del coltello verrà probabilmente testata e se darà esito negativo per il profilo di Meredith Kercher, o anche solo un risultato inconclusivo (ci sono indicazioni nella relazione Conti-Vecchiotti che si tratti di una mistura di DNA maschile e femminile), il probabile effetto sarà quello di far escludere il famoso coltello come arma del delitto: questo assieme al ruolo da protagonista attribuito dalla Suprema Corte a Guede, potrebbe far retrocedere Knox e Sollecito a colpevoli di reati secondari anche in caso di condanna. 

Ringraziamenti. Voglio ringraziare Clive Wismayer e Rose Montague per i preziosi suggerimenti fornitimi.

AMANDA E RAFFAELE: PERUGIA VI ODIA.

“Perugia vi odia”: la pagina Facebook contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Dopo le battaglie giudiziarie, per la studentessa di Seattle arrivano anche quelle sui social network , scrive “Giornalettismo”. Il tutto era cominciato la settimana scorsa con un tweet di Amanda Knox nel quale aveva postato una foto che la ritrae mentre sorregge un foglio di carta riportante la scritta “Siamo innocenti”. L’iniziativa della ragazza americana aveva scatenato una valanga di commenti sui social network e la foto è stata modificata più volte, dando il  via ad una serie infinita di meme. C’è però chi non ha proprio digerito l’appello sui social network della ragazza di Seattle, così su Facebook è stata aperta la pagina “Amanda e Raffaele, Perugia VI ODIA“, sulla quale alcuni ragazzi e ragazze replicano l’iniziativa della Knox facendosi ritrarre con dei cartelli sui quali manifestano l’odio verso Amanda. A quest’iniziativa la studentessa americana ha voluto rispondere con un post  sul suo blog intitolato  “Perugia, ti voglio bene“. In seguito la pagina Facebook contro la studentessa americana e lo studente barese è stata presa d’assalto dai critici: «Vi ho appena segnalato per incitamento all’odio. Spero di non vedervi più» si legge tra i tanti commenti, tant’è che gli amministratore della pagina hanno dovuto ricorrere al blocco dei post e del ban degli utenti che scrivevano messaggi ritenuti troppo offensivi. A 7 anni di distanza, i condannati per l’omicidio di Meredith Kercher fanno ancora parlare di sè.

"Siamo innocenti" scrive Amanda Knox, "Perugia vi odia", rispondono i 2283 seguaci del gruppo creato su Facebook "Amanda e Raffaele, Perugia vi odia". Lei procalma la sua innocenza riguardo l'omicidio di Meredith Kercer, postando su Twitter una foto che la ritrae con un cartello con scritto 'Siamo innocenti', e il gruppo la condanna. Una pagina che grida dissenso specificando però che "la nostra città è fatta anche di quelle persone che hanno il loro pensiero sull'accaduto. Non starò qui a giudicarlo", scrive l'amministratore. Che sia amata o no Amanda Knox risponde che a Perugia vuole bene e lo fa scrivendolo nel suo blog proprio nel giorno di San Valentino. 

“Perugia vi odia”. Su Facebook le foto contro Amanda. La risposta all’autoscatto dalla ragazza Usa. Ma la città si divide. Rabbia on line con i «selfie». Il primo autoscatto («selfie»), postato da un giovane perugino su Facebook in risposta a quello di Amanda: in poche ore ha raccolto 2 mila preferenze. Un post dal titolo "Perugia ti voglio bene" sul proprio blog, così Amanda Knox risponde al gruppo Facebook "Perugia vi odia", riferito a lei e a Raffaele Sollecito. Il gruppo è stato lanciato da un giovane perugino ed era in effetti una risposta al "selfie" (nel linguaggio web una sorta di autoscatto) della stessa Amanda pubblicato alcuni giorni fa su Twitter in cui l'americanina esponeva un cartello con la scritta in italiano «Siamo innocenti» che in pochi giorni ha raccolto parecchi sostenitori. Anche gruppo "Perugia vi odia" conta molti "mi piace": venerdì mattina oltre 2mila. E tanti commenti diversi. Spuntano anche cartelli che rimproverano ad Amanda e Raffaele di aver pubblicato libri sulla vicenda.

CICLONE AMANDA Botta & Risposta: su Fb da Perugia Vi Odia a Sono Innocenti. Botta, risposta e contro-risposta. Sempre ovviamente tramite social network. La storia infinita del processo Meredith - nuova condanna per omicidio per Amanda Knox e Raffaele Sollecito - si arricchisce di un altro "pesante" tormentone. Andiamo per ordine: Amanda mette su twitter una sua foto con il cartello Amanda e Raffaele sono innocenti e di fatto spara a zero sui magistrati italiani e indirettamente riporta Perugia nel tritacarne mediatico. A quel punto nasce il gruppo su Fb - Amanda e Raffaele Perugia Vi odia - di chi a Perugia non ne può più delle provocazioni della ragazza di Seattle e della cattiva e ingiusta pubblicità (oltre un boicottaggio dell'Umbria e dell'Italia dichiarato sul web dai fan di Amanda) subita dal nostro capoluogo. In poche ore raggiunge i 2mila mi piace e scatta una serie di attacchi contro l'iniziativa. Amanda allora scrive sul suo sito che ama Perugia e se la prende anche con Perugiatoday.it. Solo perchè PT ha riportato i fatti ironizzando con dei titoli da....tabloid made in Usa. Ma non finisce qui. Arrivano le truppe cammellate - autonome - di Sollecito e Knox che fondano la pagina "Amanda e Raffaele sono innocenti" in risposta a quella di disistima fatta da perugini. Peccato però che l'unica pagina che sarebbe stata gradita è quella di ricordo di Meredith Kercher, la sola vittima di questa storia. Ma a lei purtroppo sta pensando, con qualche limite, solo le toghe di casa nostra.

Chissà perché, ma Perugia che ama e che odia, per condannare o assolvere Amanda e Raffaele, ricorda tanto quei processi di Roy Bean, the Hanging judge, che mandava alla forca gli imputati nel suo saloon fumoso a ovest del fiume Pecos, dicendo «prima impiccateli e poi facciamo il processo», fra le urla di giubilo degli avventori, scrive Pierangelo Sapegno su “La Stampa”. Come allora, al posto di un tribunale ci sono i social network che sono un po’ come i nuovi saloon, dove la violenza lapidaria delle parole ha sfoghi altrettanto febbrili e contagiosi. Ha cominciato Amanda con un tweet, mostrando la foto di lei che tiene un cartello con scritto sopra «Siamo innocenti». In poche ore ha raccolto più di 2mila preferenze. Allora su Facebook un giovane perugino ha creato una pagina in risposta a quel selfie (l’autoscatto), postando un altro cartello: «Perugia vi odia». Ci ha messo qualche giorno di più, ma adesso anche lui è arrivato a 2240 «mi piace». Per la verità, assieme ai fan con i volti mascherati o seminascosti che espongono manifesti con le scritte «Te lo diamo noi il tweet, Perugia vi odia» o «Perugia vi odia e non vi vuole», e «fate schifo» e altra roba così, molti altri sono intervenuti come Francesco D’Avanzo per condannare questa iniziativa: «Cari perugini, guardatevi in casa vostra ogni tanto. La vostra città è una capitale della droga...». Ne è nata un’altra battaglia a suon di insulti, ma anche di poesie. Se una ragazza scrive che Amanda ci mette la faccia, «mentre voi vi nascondete dietro le maschere», Marie Yvette Di Benedetto risponde «i knoxisti sono quasi tutti analfabeti», e un altro urla «se toccate la mia città, vi rovino la vita». Poi, magari, Riccardo Bazzurri quasi ci canta sopra: «Dormi Perugia, dormi sotto la luna, come t’ho amato non t’amerà nessuna». C’è però in tutto questo, qualcosa di folle e incomprensibile, così medioevale e così oscuro, e così lontano da qualsiasi senso di Giustizia, da far quasi paura. Amanda ha risposto sul suo blog con un altro post dal titolo «Perugia ti voglio bene» e un lungo messaggio per dire che quella pagina su Facebook dimostra quanto sia irrazionale e violenta la campagna colpevolista scatenata dall’accusa: «L’odio riflette la natura del caso scandalo dell’omicidio di Meredith, ed è una delle poche cose che possono spiegare la persecuzione di parte dell’accusa nei nostri confronti. Queste persone che portano le loro emozioni sui cartelli aiutano me e il mondo a capire quello che è realmente accaduto. Il mio amore invece si estende a quella Perugia compassionevole e generosa che abbiamo conosciuto durante la mia prigione». Questa battaglia senza regole e senza confini rappresenta bene il clima di qualsiasi processo pubblico. Sarebbe meglio fermarsi qui, però. Roy Bean ne aveva fatto un’istituzione. Serviva whiskey dietro il bancone del suo Jersey Lile, sulle sponde del Rio Grande, e poi spediva il cowboy di turno al patibolo solo per «aver commesso qualche grave offesa alla dignità dello Stato del Texas». Ma assolse anche uno che aveva ucciso un cinese: «Non trovo nulla sull’uccisione di un cinese». E tutti bevevano e urlavano di gioia lo stesso. Una casa di produzione porno di Los Angeles, la Monarch Distributions, ha offerto ad Amanda Knox una parte in un suo film hard. Il compenso, secondo il Daily Beast, sarebbe di 20mila dollari. Il capo della Monarch, Mike Kulich, riferisce che sin da quando Foxy Knoxy è diventata famosa, il suo ufficio è stato invaso di richieste da parte del pubblico di poterla vederla protagonista in un suo film.

La memoria di Mez offuscata dalla saga di Amanda e Raffaele, scrive “RaiNews”. L'anticipazione sul documentario della Bbc, in programmazione questa sera. Parlano il fratello e la sorella della studentessa uccisa a Perugia nel 2007: "Vogliamo che questa storia arrivi alla fine, con una decisione definitiva dai tribunali italiani. Solo allora potremo ricordare Mez". Meredith dimenticata nel tormentone mediatico che avvolge le vicende, giudiziarie e non solo, di Amanda Knox e Raffele Sollecito. A parlare è, questa volta, la famiglia della giovane studentessa inglese, in un documentario dal titolo "Amanda Knox è colpevole?" che la Bbc trasmetterà questa sera e di cui il Guardian pubblica un'anteprima. I due fratelli Kercher, Lyle e Stephanie, nell'intervista richiamano l'attenzione sulla storia della vittima, sulla sua vita. Perchè - dicono - il circo mediatico si concentra troppo e solo sul processo e sui due principali imputati, retroscena inclusi, dimenticando il resto. "Mez è stata dimenticata in tutto questo - ha detto la sorella Stephanie - I ritratti dei giornali non sono mai rivolti a lei. Non c'è molto su ciò che è accaduto all'inizio, prima del delitto. Per questo è molto difficile tenerne viva la memoria". In merito all'ennesimo capitolo del processo che ha portato alla candanna in appello di Amanda e Raffaele, il fratello Lyle: "Non è la fine è solo un altro capitolo di una storia che andrà avanti". Quello che interessa ai fratelli è ricordare chi fosse Meredith. La giovane di Coulsdon, appena ventunenne, arriva nel capoluogo umbro per uno scambio universitario. "Era molto entusiasta di venire in Italia, era curiosa di conoscere la cultura italiana, di vedere la città di Perugia e fare nuove amicizie - ricorda la sorella Stephanie - Ha davvero lottato per questo. Lo desiderava". "Stavamo parlando sul divano, in una sorta di dolce saluto - racconta la sorella - mi ricordo che lei è scoppiata a piangere, perchè era triste di dover partire ma allo stesso tempo entusiasta". Poi i fatti di Perugia sono  noti. Sul calvario della famiglia Lyle ha detto: "È sempre dura perdere qualcuno, soprattutto così giovane. Ma il modo in cui Meredith è morta ha reso tutto 100 volte più difficile. È stato impegnativo gestire anche il rapporto con la stampa". La sorella aggiunge: "Noi tutti vogliamo un punto. Vogliamo che questa storia arrivi alla fine, con una decisione definitiva dai tribunali italiani. Solo allora potremo cominciare a ricordare solo Meredith". Il 30 gennaio scorso la Corte d'Appello di Firenze, dopo il rinvio da parte della Corte di Cassazione del 26 marzo 2013, ha confermato la colpevolezza di Sollecito e della Knox condannandoli rispettivamente a 25 anni di reclusione e 28 anni e sei mesi. Le motivazioni arriveranno entro 90 giorni dalla sentenza. In un processo separato nel 2008, è stato condannato a 30 anni anche Rudy Guede per l'omicidio della Kercher. Il giudice, nella sentenza, aveva precisato che l'ivoriano non avrebbe agito da solo.

Raffaele Sollecito, intervista esclusiva: pensateci, e se io fossi innocente?

Intervista esclusiva del 16 febbraio 2014 a Domenica Live di Barbara D’Urso a Raffaele Sollecito, l’ex ragazzo di Amanda Knox recentemente condannato a 25 anni di reclusione per l’omicidio di Meredith Kercher. Vero e proprio colpaccio giornalistico della D’Urso che porta davanti alle telecamere uno dei protagonisti più laconici dell’omicidio di Perugia. Raffaele è tranquillo e lucido, appare comunque determinato a mostrare l’assurdità delle accuse a suo carico e racconta la sua verità. Sollecito comincia a ricostruire i fatti: “La persona che parlava di più con Meredith era Amanda, noi stavamo insieme da poco più di una settimana prima dell’omicidio e io non avevo grande dimestichezza con l’inglese”. Poi parla delle accuse: “L’ipotesi dovrebbe partire da un teorema accusatorio fondato. Dov’è la droga e alcool che l’accusa dice essere una serata di droga e alcol? A un certo punto l’accusa decide che dovevamo andare fuori casa ad incontrare Rudy Guede con cui è iniziato tutto: io Guedè non l’ho mai visto e non l’ho mai incontrato prima”. Sollecito, appassionato ma composto, racconta anche di Patrick Lumumba. “Ti faccio una domanda Barbara: perché la polizia ha preso Patrick Lumumba da casa e l’hanno arrestato senza accertare quello che aveva detto Amanda, una ragazza che non parlava neanche tanto bene in italiano?”. Parte l’rvm con Lumumba che dichiara: “A me nessuno mi ha mai chiesto scusa. Comunque di Amanda posso dire che vivrà nella sua prigione mentale, se non finirà in quella materiale”. La D’Urso torna ad incalzare il ragazzo sulla ricostruzione del suo alibi e del suo movente, lui risponde: “Ero al mio computer: ho finito di vedere un film alle 21.30″. Barbie: “E se c’è questa prova perché ti hanno condannato a 25 anni fa?”. Sollecito: “Me lo chiedo anch’io Barbara. Dovrei aver fatto un omicidio per solidarietà ad una ragazza, Amanda, che comunque conoscevo appena!”. Quindi l’intervistato racconta della mattina in cui scoprirono il corpo di Meredith: “Dovevamo andare tutti a Gubbio: sono andato a casa di Amanda. Dopo un po’ che chiamavamo Meredith – la sua porta era chiusa – e non rispondeva ci siamo preoccupati e ho sfondato la porta, così abbiamo scoperto il corpo. Poici hanno arrestato per i comportamenti strani di Armanda. Ma il problema non è quello: uno può avere sospetti, ma qui le figurine non s’incastrano anche se loro le vogliono far incastrare per forza. Se una storia è poco credibile, tale rimane”. Poi c’è Amanda. Alla domanda della D’Urso, “Vi siete visti dopo l’arresto?” Raffaele è quasi sorpreso e dice: “In realtà, non ci siamo mai più parlati in questi anni di carcere, al massimo ci siamo scambiati due sguardi al processo. Il punto non è stata la nostra storia su cui si sono concentrati i media, ma proprio l’esperienza vissuta di anni in carcere che vorrei raccontare. Pensate per un attimo, tutti a casa, anche coloro che mi considerano colpevole, se io fossi innocente e allora cercate di capire cosa vuol dire non poter fare quelle attività quotidiane, ordinarie, che voi tutti fate ogni giorno. Fate finta per un attimo che io sia innocente e cercate di pensare a cosa ho vissuto in questi quattro anni e potrei vivere per i prossimi venti”. Solo qualche giorno fa, a qualche settimana di distanza dalla sentenza Meredith, era stata Amanda Knox a ribadire, questa volta con foto e cartello su Twitter, la sua innocenza e quella del suo ex fidanzato. “Siamo innocenti”, aveva scritto Amanda facendo riferimento al delitto della sua coinquilina ai tempi di Perugia. Innocenza di cui parla ancora una volta anche Raffaele Sollecito, condannato in appello a Firenze a 25 anni e ora senza passaporto. L’ex studente di Perugia è tornato in televisione per parlare ancora della sentenza Meredith e per raccontare il suo stato d’animo. L’ha fatto in un’intervista che sarà trasmessa domani 15 febbraio su Sky Tg24. “Per me e per la mia famiglia è una tragedia enorme. Attraverso le telecamere voglio dare il mio messaggio e spero di riuscire a far conoscere a tutti i tragici fatti di questa vicenda e spiegare le ragioni della mia innocenza. Non avevo alcun motivo di fare del male a Meredith Kercher”, così Sollecito, il quale ha aggiunto di non avere “una luce nel futuro”.  “Combatto per far capire quanto è grave questa falla nel sistema” - L’ex fidanzato di Amanda Knox ha ricordato come la giustizia gli abbia ritirato la carta d’identità e il passaporto: “Non so se riuscirò a realizzare i miei sogni o qualsiasi cosa io voglia fare. Ho discusso con i miei amici e familiari l’ipotesi di andare all’estero circa un anno fa ma non accetto di abbandonare tutte le persone a me veramente care per un teorema”. Un teorema – ha sottolineato Sollecito – “resta un teorema, e per quanto potere possano avere le persone che mi accusano, io non accetto di distruggere la mia esistenza”. Il giovane condannato per il delitto di Perugia ha detto di voler usare i media per denunciare il fatto, “ma ci sono molti innocenti che hanno avuto un destino analogo al mio e sono stati completamente dimenticati”. Dimenticati in un sistema – ha spiegato – “in cui si costruisce una teoria contro una persona, si crea un vestito di colpevolezza che ti tatuano addosso e qualsiasi cosa dici, qualsiasi sia la verità, qualsiasi cosa siano i fatti, si va oltre e per loro diventa la verità assoluta, indipendentemente da tutto e tutti”. Per queste sue ragioni Sollecito ha detto di voler combattere per far capire “quanto è grave questa falla nel sistema”. «Io ero a casa quella notte, ho le prove nel mio computer. Hanno definito l’ora della morte di Meredith tra le 21 e le 22. Io fino alle 21.15 ho visto un film al pc, Il fantastico mondo di Amelie, insieme ad Amanda, e poi ho aperto un altro file video della serie animata giapponese Naruto». A Domenica Live, Raffaelle Sollecito parla dell’omicidio di Meredith, per ribadire la sua innocenza, nonostante la condanna a 25 anni. «Non ho mai visto la scena del delitto nelle realtà. L’ho vista in una fotografia. L’accusa dice che io l’avrei fatto per solidarietà. Solidarietà verso Amanda, che conoscevo da poco e contro una ragazza che non conoscevo, è assurdo. Non avrei mai fatto una cosa del genere». La mattina, la scoperta. «Quella mattina dovevamo andare a Gubbio, ma io da un po’ non ero abituato a dormire con un’altra persona, quindi a non dormire un sonno lineare. Sono rimasto a letto. Amanda è tornata a casa per farsi una doccia. L’ha fatto, poi è tornata da me e mi ha raccontato alcune stranezze, come la porta aperta e delle macchioline di sangue nella doccia. Ho lasciato andare a Gubbio, le ho detto di chiamare le sue amiche e siamo andati. Quando siamo arrivati, ho visto il vetro rotto e i vetri rotti in terra». Non ti sembra strano che Amanda non abbia notato nulla?, domanda la D’Urso. «La stanza di Meredith era chiusa. Amanda ha provato a chiamarla. Io ho provato a buttare giù la porta per tre volte, non ci sono riuscito, ho chiamato mia sorella e lei mi ha detto di uscire subito e non toccare nulla». I due fidanzatini però attirano presto l’attenzione delle forze dell’ordine. «Ci hanno arrestato subito perché i comportamenti strani di Amanda hanno lanciato sospetti. Una persona può avere dei sospetti però accertati, non puoi sposare una cosa che non esiste e poi cercare per forza di appiccicare tutte le cose insieme anche se non ci stanno». Sollecito contesta anche l’impronta del piede lasciato sul tappetino. Prove alla mano – «Ho l’alluce valgo e questo difetto dimostra che l’impronta non è la mia» – e sollecitato dalla D’Urso espone la sua idea sul caso. «Rudy aveva precedenti per furti. Lui è stato ripreso dalle telecamere. Io non lo conosco, non l'ho mai visto». Inevitabile un richiamo a Patrick Lumumba, ingiustamente accusato da Amanda Knox. «Su Lumumba, Amanda ha avuto quella che io chiamo un'allucinazione e comunque io non ero in quell'allucinazione». E il rapporto con Amanda dopo il caso giudiziario? «Ci siamo sentiti per mail o via skype. Sentirla non era la mia priorità in quel momento. Vorrei che le persone a casa mi pensassero per un attimo innocente e capissero che in quel periodo, quando ho fatto dei viaggi in Austria, cercavo solo di portare avanti una vita normale e di stare vicino alla mia ragazza. Ho saputo della condanna via radio. Mio padre mi ha detto di andare subito in Questura a consegnare il passaporto, che mi era stato ritirato». Cosa ha pensato Sollecito sentendo la notizia della condanna? «Mi sono sentito morire dentro. Una persona che sente che a nessuno interessa più quale sia la verità, non conta più nulla. Ero nel mezzo di una tempesta di neve. Mi sentivo come se non ci fosse speranza per nulla. la verità sembra proprio non interessare, fino ad arrivare a una sentenza del genere dove dei periti giudiziari dichiarano completamente inattendibili le prove portate dall’accusa». La D’Urso tocca nuovamente la corda del rapporto con Amanda: «Hai sentito le sue reazioni?». «Non mi interessa – ribadisce Sollecito – Lo so che è difficile far capire alla gente, le persone non hanno mai vissuto lo stare in una stazione di polizia, le accuse che vengono costruite contro di te, contro cui non puoi fare nulla, perché ogni volta che dimostri che le provi non sono vere, ti dicono comunque sei colpevole. Sto facendo di tutto per far capire quanto siano gravi le falle di questo sistema. Il teorema dell'accusa non è mai stato dimostrato, rimane nell’ambito della fantasia». Cosa sarà ora di Raffaele Sollecito? «La giustizia italiana ha sbagliato, lo sto dicendo in tutti i modi. Loro non sono infallibili anche se hanno questo potere enorme. Hanno fallito in questo caso. Secondo l’accusa io e Amanda avremmo portato un coltello che stava a casa mia nel cassetto, che aveva pelato delle patate, hanno trovato dell’amido di patate e, dicono, il dna di Meredith all’inizio della lama. I periti della corte d’appello a Perugia hanno detto che quel risultato è assolutamente inaffidabile perché non sono stati seguiti i protocolli per capire come si è giunti a quel risultato. Il coltello ha una lama di 30 centimetri, è assurdo solo pensare che avremmo potuto portarlo da casa mia a casa di Meredith. Quelli che hanno fatto i rilievi hanno fatto un casino dentro la casa, il materasso di Meredith era in cucina. Il gancetto del reggiseno è stato pestato e spostato, e chissà quante altre prove sono state spostate così. Su quel gancetto, secondo l’accusa, ci sono il Dna mio, di Meredith e uno di chi non si sa e altri possibili». L’Italia ti crede colpevole o innocente? «Non posso saperlo, ho molto sostegno da chi ha capito come è stata condotta questa cosa. La maggior parte delle volte, le persone mostrano supporto e talvolta curiosità di capire chi sono, la vicenda, perché tutta questa attenzione, ma non so se per assolvermi o condannarmi». Amanda, condannata a 28 anni, non verrà in Italia a scontare la pena. Sollecito tornerà in carcere? «Capisco il dolore della famiglia Meredith, io dall’altra parte ho perso una madre. Vorrei che tutti si concentrassero sul fatto che se si sposa una teoria falsa si possono fare più vittime. Io sono davanti alle telecamere non perché mi piaccia, ma per denunciare con quelle che sono le mie armi, una tragedia che può capitare a chiunque. Se la Cassazione conferma io dovrò essere davanti alle porte del carcere. Non so quando. Io non ho la più pallida idea delle motivazioni. Passerà comunque ancora un anno, qui bloccato in Italia, con tutti i miei progetti nel dimenticatoio. Cosa c’è dietro questa sentenza? Io non sono una persona folle, sono una persona come tutti, è assurdo essere sbattuto sui giornali e in carcere per quattro anni per qualcosa che non esiste».

Sollecito: “Se un interrogatorio poteva scagionarmi perché non chiederlo?”. Condannato per l’omicidio di Mez: sconcertato dalle parole del giudice, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Parlano tra di loro sottovoce, Greta e Raffaele. Lei mi chiede: le piace l’indiano? Piove, e a pochi minuti dall’una è come se fosse in vigore il coprifuoco a Treviso. Un gran deserto. Greta è discreta e silenziosa. Spettatrice. Hostess perché? «Mi piace volare. E poi è uno stile di vita. Quattro giorni in volo, altrettanti a terra, di riposo...». Unico commento che si riesce a strapparle. Raffaele Sollecito, il sempre muto, occhi bassi, voce sussurrata, fragile, visto da vicino, sei anni e passa dopo l’omicidio di Meredith, quattro anni di carcere, decine di udienze di processo, è tutta un’altra persona. «Dopo sei anni, non mi posso permettere di vedere un futuro. Non me ne danno la possibilità». Berretto di lana color cammello, prova a non farsi notare. «Difficile essere ottimista in questa situazione. Sono estraneo ai fatti. Non ho ucciso nessuno». La sua verve polemica esplode come un parafulmine quando attrae scosse elettriche, all’accusa di non essersi mai fatto interrogare. È polemica di queste ore le considerazioni del presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze, Alessandro Nencini, sul suo silenzio in aula che potrebbe aver pregiudicato un esito diverso dello stesso processo: il magistrato è stato accusato di mancanza di imparzialità, e oggi il suo caso approda al Csm. «Se solo me lo avessero chiesto.... Mica stavo in aula per riscaldare la sedia. Ero a disposizione. Il presidente Nencini mi disse che se avessi voluto prendere la parola sarebbe stato il benvenuto. Ero a disposizione ma in tutti questi anni nessun pubblico ministero o giudice ha mai fatto un cenno, mai si sono rivolti al sottoscritto chiedendomi di rispondere, precisare, difendermi. Trovo sconcertanti le considerazioni del presidente della Corte. E poi, se davvero le mie dichiarazioni avrebbero potuto cambiare il corso del processo perché nessuno ha avvertito l’esigenza di interrogarmi?». Mano nella mano, gomiti poggiati sul tavolo del ristorante indiano, Greta e Raffaele sono due giovani innamorati. Ma è vero che volevate fuggire? L’altra sera, il giorno della sentenza, siete stati in Austria per poi rientrare? «Scappare? Non ci crederà ma io l’altra sera credevo nell’assoluzione. Se avessi voluto far perdere le mie tracce non mi sarei ridotto all’ultimo minuto, l’avrei fatto una volta uscito dal carcere. Io invece sto combattendo per la verità e lo farò con tutte le mie forze». Uno pensa al soggiorno a Santo Domingo. Sbagliato. «Quello è stato recente, l’anno scorso. Ed è stato un viaggio per aprirmi una prospettiva di lavoro. No, la fuga l’avrei dovuta pianificare e attuare prima, una volta uscito dal carcere, nel 2011». Durante il pranzo, Raffaele torna spesso sulla questione del suo contributo al dibattimento che avrebbe potuto cambiare l’esito del processo. È un groppone che non riesce a mandare giù. «Ho letto che avrei dovuto scaricare tutto su Amanda. La verità è che contro di me non c’era nulla. C’era il memoriale di Amanda, che su di me non aveva detto nulla. Io Meredith l’avevo vista una paio di volte ma non le avevo mai parlato. Insomma la mia era una conoscenza superficiale. Rudy addirittura non l’avevo mai incontrato. E questo giudice che parla di questa cosa, l’omicidio, che può succedere tra ragazzi. No, non mi riconosco nella immagine di un depresso dalle manie strane. Vivevo una vita felice. Allucinante dipingermi come uno che partecipa a un omicidio per solidarietà. Non c’ero. E sulla scena del crimine le mie tracce non le hanno trovate». Controverso l’esame sul gancetto del reggiseno strappato di Meredith, che proverebbe la sua presenza. Controverse le impronte di piede insanguinate sul tappetino del bagno, rilevate dall’esame con il Luminol. Raffaele contesta tutto. Tento la provocazione: prima del fermo nelle dichiarazioni in questura una volta ammise che forse Amanda si ripresentò a casa sua in tarda mattinata. «Fu un equivoco. Ero sotto pressione e non riuscivo a capire a quale giorno si riferissero i poliziotti. Se il giorno prima o il giorno dopo. Oltretutto nel pormi le domande erano molto minacciosi». Ma non sembrò strano a Raffaele che la mattina dopo, il 2 novembre, lei andò a casa sua a farsi una doccia? Non poteva farsela a casa Sollecito? «Effettivamente. Chiedetelo a lei. Comunque, quando tornò a casa, da me, mi chiese se fosse normale che la porta di via della Pergola fosse aperta, che ci fossero piccole tracce di sangue nel bagno, e nulla mi disse del disordine nella stanza della Romanelli, che invece io notai subito quando poi andai a casa di Amanda». Amanda e ancora lei, quasi un’ossessione: «Il suo memoriale? Non so come è andata. Non sono io il responsabile delle sue dichiarazioni. Non posso accusarla perché non so nulla. Devo essere sincero: non ho alcun ricordo di quella serata senza di lei. Insomma, non ricordo». Ma com’era Amanda la “luciferina”? «Come tutte le donne, molto più sfuggente. L’ho conosciuta per così poco tempo che non posso esprimere un giudizio definitivo. Di certo era solare, espansiva, “Alice nel paese delle meraviglie”. Oggi è cambiata». Disarmante Raffaele, quando risponde alla domanda: «Come penso che sia andata quella sera? Non mi riguarda. Io non c’ero. Sono estraneo e non sono io che devo trovare risposte. Rudy Guede aveva precedenti per rapine con modalità identiche. Vetro rotto, scalata, entrata nell’appartamento. Io quella sera ero a casa mia. Tra le 21 e 21.30. Prima “Il favoloso mondo di Amelie”, poi aprii il file di una puntata di “Naruto”. Sul cuscino di Mez c’era anche una macchia di sperma mai analizzata. Io non c’entravo eppure loro hanno deciso che dovessi esserci per forza nel cerchio». La sua è quasi una arringa difensiva fuori tempo massimo. «Che tristezza - dice mentre si infila il giaccone- quello che è capitato a me può succedere a tutti. Perché questo accanimento contro un innocente?». Greta, la compagna di Raffaele, sempre silenziosa durante tutto il pranzo, si lascia andare: «Mi sforzo di essere ottimista». 

IL DELITTO DI PERUGIA. UNA STORIACCIA.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

Raffaele Sollecito "ha deciso di non farsi mai interrogare nel processo": è questa frase del presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze, Alessandro Nencini, contenuta in una sua intervista riportata da alcuni quotidiani, a innescare le polemiche dopo la nuova condanna del giovane pugliese e di Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher. A prendere posizione sono subito i difensori di Sollecito, gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori. "E' gravissimo, anzi inaccettabile – sottolineano -, che il presidente Nencini abbia commentato pubblicamente quanto accaduto nel segreto della camera di consiglio e si sia spinto a criticare la strategia difensiva".

«Le sentenze si rispettano, le interviste no. È gravissimo, anzi inaccettabile, che il presidente Nencini abbia commentato pubblicamente quanto accaduto nel segreto della camera di Consiglio e si sia spinto a criticare la strategia difensiva di Sollecito». A dirlo sono in una nota congiunta gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori, legali del giovane, dopo l’intervista del presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze al Corriere della Sera.

«Ci chiediamo innanzitutto - affermano Bongiorno e Maori - se parla a nome di tutti i giurati e se la frase sul mancato interrogatorio di Raffaele Sollecito significa che, se avesse accusato Amanda Knox, sarebbe stato assolto». «In ogni caso, ricordiamo a tutti che ai magistrati compete il potere di giudicare - sottolineano i due difensori -, non quello di intromettersi nelle scelte della difesa e di commentarle pubblicamente. Nei prossimi giorni valuteremo le iniziative da intraprendere». Per gli avvocati Maori e Bongiorno «la moda delle interviste sulle camere di consiglio scredita l’intera magistratura, ma rilasciare un’intervista dopo una sentenza di condanna è semplicemente inammissibile».

"La moda delle interviste sulle camere di consiglio scredita l'intera magistratura, ma rilasciare un'intervista dopo una sentenza di condanna è semplicemente inammissibile", scrive “La Repubblica”. Con queste parole affidate a una nota congiunta, i legali di Sollecito, Giulia Bongiorno e Luca Maori, hanno accusato il presidente della Corte d'Appello di Firenze, Nencini, di un comportamento "gravissimo, anzi inaccettabile". Ovvero, l'aver "commentato pubblicamente quanto accaduto nel segreto della camera di consiglio e si sia spinto a criticare la strategia difensiva di Sollecito". Bongiorno e Maori si chiedono se Nencini nell'intervista parli "a nome di tutti i giurati, e se la frase sul mancato interrogatorio di Raffaele Sollecito significa che, se avesse accusato Amanda Knox, sarebbe stato assolto". "In ogni caso, ricordiamo a tutti che ai magistrati compete il potere di giudicare - hanno sottolineato i due difensori -, non quello di intromettersi nelle scelte della difesa e di commentarle pubblicamente. Nei prossimi giorni valuteremo  le iniziative da intraprendere". Luca Maori si è spinto anche oltre, affermando che le parole di Nencini sono la "prova provata" che la condanna di Raffaele e Amanda nell'appello bis è maturata su un "evidente pregiudizio da parte dei giudici nei confronti degli imputati, e in particolare di Sollecito".  Maori ha chiesto "l'intervento del Csm e del procuratore generale della Cassazione perché valutino attentamente le dichiarazioni, al fine di considerare non solo un'azione disciplinare ma anche la legittimità della decisione". "Ricordo - ha aggiunto il legale di Sollecito - che in seguito a un'intervista rilasciata dal dottor Claudio Hellmann Pratillo, presidente della Corte d'Assise d'Appello di Perugia (ora in pensione) che assolse Raffaele e Amanda, allo stesso è stata negata la presidenza del tribunale di Perugia pur essendo in possesso di tutti i requisiti formali per ricoprire quel posto". Tra le ipotesi che sarebbero al vaglio della difesa Sollecito quelle di rivolgersi al Csm o alla procura generale della Cassazione. Secondo gli avvocati Bongiorno e Maori "rilasciare un'intervista dopo una sentenza di condanna è semplicemente inammissibile". "Non entro nel merito dell'intervista - ha detto il presidente dell'Anm Rodolfo Sabelli - ma il fatto che il presidente del collegio giudicante rilasci delle dichiarazioni prima del deposito delle motivazioni e il giorno dopo una sentenza che è all'attenzione pubblica, è inopportuno". "Il caso è sicuramente grave", ha commentato il consigliere del Csm Nicolò Zanon, laico di Forza Italia. "Lunedì - ha aggiunto - decideremo se chiedere l'apertura di una pratica in Prima Commissione". La difesa di Amanda Knox, invece, non ha commentato le parole del presidente Nencini. "Mai come in questo caso il silenzio è d'oro" si è limitato a dire l'avvocato Luciano Ghirga.

Le toghe si svegliano tardi: processo a chi parla troppo. L'Anm vuol mandare davanti ai probiviri il giudice intervistato dopo la sentenza. Ma quando la vittima era il Cav l'associazione non si è mossa, scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Roma - Due processi sui quali l'attenzione dell'opinione pubblica è sempre stata altissima e due giudici che, all'indomani delle rispettive sentenze di condanna, spiattellano sui giornali dettagli e confidenze su quanto accaduto in camera di consiglio. Con una differenza: quando il chiacchierone di turno è il giudice Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che lo scorso agosto ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi per il processo dei diritti tv Mediaset, l'Associazione Nazionale Magistrati fa quadrato intorno al collega liquidando tutt'al più come «inopportuna» la chiacchierata con il giornalista amico; quando invece a lasciarsi andare a rivelazioni sul verdetto a poche ore dalla decisione è Alessandro Nencini, il presidente del collegio giudicante che ha dichiarato colpevoli Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l'omicidio di Meredith Kercher, l'Anm è pronta a bastonare chi non rispetta le regole. Due pesi e due misure, insomma, per due toghe inciampate nella medesima leggerezza ma interpretata, chissà perché, in maniera diversa. Fatto sta che per Nencini i magistrati si sono mossi immediatamente e il giudice fiorentino rischia adesso di essere «processato» davanti al collegio dei probiviri dell'Anm per aver violato una norma del codice etico delle toghe. Si tratta dell'articolo 6 che disciplina i rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa dei magistrati e pretende che i giudici si ispirino a criteri di «equilibrio», «equità» e «misura» nel rilasciare dichiarazioni a giornali o Tv. Uno dei componenti del collegio ha anticipato che, verosimilmente, si occuperanno del caso, andando oltre quanto già detto due giorni fa dal presidente dell'associazione, Rodolfo Sabelli, il quale aveva bollato come «inopportuna» l'intervista (esattamente come aveva fatto la scorsa estate con quella del giudice Esposito) e sottolineato che «tanto maggiore è l'interesse pubblico di una vicenda giudiziaria, tanto maggiore è il rischio che possono avere i commenti offerti da chi di quel processo è titolare». Ma il fatto che la condanna definitiva del Cavaliere, rischiando di tagliare fuori dalla vita politica del Paese il leader dell'opposizione, andasse a toccare equilibri delicatissimi, non è bastato per convincere l'Anm ad intervenire contro il giudice che aveva anticipato a mezzo stampa le motivazioni di una sentenza di tale rilievo a poche ore dal verdetto. Allora Sabelli spiegò che le dichiarazioni di Esposito non avrebbero avuto conseguenze processuali, né disciplinari, perché si riferivano ad una sentenza definitiva. Anche il segretario dell'associazione, Maurizio Carbone, concordò che quella di Esposito era stata una semplice «scivolata», la quale non avrebbe cambiato assolutamente la vicenda processuale. E così, dell'intervista in cui il giudice spiegava che Berlusconi era stato condannato non perché «non poteva non sapere» della frode fiscale ma perché «qualcuno aveva detto che sapeva» alla fine si occuparono il Csm e la Procura Generale della Cassazione. Non l'Anm, la cui difesa corporativa evidentemente segue regole arbitrarie. Questa volta, invece, per l'Associazione Nazionale magistrati ci potrebbe essere materia per un procedimento disciplinare associativo in attesa di sapere che cosa deciderà di fare oggi il Csm, come anticipato dal consigliere Nicolò Zanon: «Il caso è sicuramente grave, decideremo se chiedere l'apertura di una pratica in prima commissione».

Adesso straparla anche il giudice di Sollecito. Nencini rivela ai media le motivazioni della condanna, dicendo persino che una parte sarà "discutibile". Andrebbe punito, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una macchina da interviste: il discreto e riservato giudice Alessandro Nencini prima ha letto il dispositivo della sentenza d’appello sul caso Meredith (scritto da lui) e poi si è concesso a Corriere della Sera, Stampa, Messaggero, Mattino e chissà chi altri. Diritto di opinione? Facciamola breve: è un giudice che andrebbe punito e basta. Il Csm dovrebbe muoversi - ma non si muoverà - o il Parlamento in alternativa dovrebbe fare un apposita legge - che non farà, perché al dunque salterà sempre fuori qualcuno a sostenere che la libertà di parola è garantita dalla Costituzione: refrain preferito per giustificare ogni sparata dei De Magistris e degli Ingroia. Cosicché è da vent’anni che blateriamo contro il protagonismo dei giudici e che ci inamidiamo la bocca dicendo che «le sentenze non si commentano»: col risultato che i più, da vent’anni, se ne fottono, e le belle frasi rimangono sfondi di talkshow, di convegni e di pompose inaugurazioni dell’Anno giudiziario. In questo caso, poi, non siamo neanche a un commento della sentenza propriamente detta, comprensiva cioè delle motivazioni: quelle verranno rese note più avanti. Siamo al commento del semplice dispositivo da parte del giudice che l’ha redatto, cioè a un’approssimativa anticipazione mediatica di quanto potrebbe scrivere: con l’ausilio di qualche «motiveremo», «espliciteremo» e addirittura un «abbiamo sviluppato un ragionamento che sarà la parte più discutibile». Incredibile. E se tutto questo attiene a un apparente piano formale - senza dimenticare che la forma, in diritto, è sostanza - poi c’è un piano di merito, ossia le cose che il giudice ha concretamente detto nelle varie interviste. Per farla breve: Nencini ha commentato pubblicamente quello che è successo nel segreto della camera di Consiglio: e pare grave. Poi si è spinto a criticare la strategia difensiva del condannato, Raffaele Sollecito, e in particolare la sua scelta di non sottoporsi a interrogatorio: una facoltà liberamente concessa dal Codice anche se non dovesse piacere al giudice Nencini. E pare grave anche questo, a noi profani. Anche perché la circostanza spinge a chiedersi se un comportamento processuale legittimo possa aver influito sulla decisione di condannarlo: «Lo leggerete nelle motivazioni» ha risposto il giudice, che giudica anche ciò che ha voglia o non ha voglia di dire adesso. Del resto le dinamiche di una decisione di tribunale, insegna Nencini, si rivelano in parte con le motivazioni (che non ci sono) e in parte con le interviste, rilasciate a titolo personale e che quindi non sappiamo neppure se condivise dai giudici popolari che hanno condiviso la camera di Consiglio. Nel complesso, un meraviglioso spettacolo offerto alla stampa mondiale: galera preventiva all’italiana, indagini per sei anni, trenta perizie, colpevolezza in primo grado, assoluzione in Appello, Cassazione che smonta l’Appello, rifacimento dell’Appello e presto un’altra Cassazione, il tutto condito da quell’assenza di chiaroscuri - innocenti, anzi colpevoli, anzi vittime, anzi assassini - che contraddistingue un sistema giudiziario che sembra aver smarrito il ragionevole e umano dubbio, ma non l’irragionevole e umana vanità di chi giudica e poi si concede alla passerella. E già ci sembra di sentirlo, il giudice Alessandro Nencini: prima di straparlare, direbbe, «attendete le motivazioni». E lui, prima di straparlare, cominci a scriverle. 

«Raffaele Sollecito voleva sposarmi per ottenere la cittadinanza americana e scappare dall'Italia», scrive “Il Messaggero”. A pochi giorni dalla sentenza dell'appello bis sull'omicidio di Meredith Kercher, una ragazza dell'Idaho, Kelsey Kay, accusa lo studente pugliese. Non solo. Sostiene anche che Sollecito avrebbe prima chiesto la mano ad Amanda Knox, ma quando lei ha rifiutato ha pensato di rivolgersi altrove. L'italiano nega tutto, così come il suo avvocato Luca Maori. Ma la storia, partita da un sito americano, Radar Online, è poi approdata sul tabloid inglese Mirror e da lì la notizia è rimbalzata ovunque. Non una bella figura per Raffaele, che giovedì prossimo conoscerà il suo destino. Eppure la faccenda sa tanto di vendetta personale. Basta leggere i presunti messaggini (tra sms, WhatsApp, Skype, ecc.) che si sono scambiati l'italiano e la 22enne Kelsey. La ragazza, scoperto che Sollecito era stato fotografato a Santo Domingo con un'altra, dà in escandescenze e giura di vendicarsi. La storia comincia il 10 giugno dell'anno scorso. L'americana legge il libro di Raffaele (Honor bound) e si immedesima in lui. Anche lei, una volta, è stata condannata per un crimine non commesso. Così lo cerca su internet, trova il suo appello per donare soldi per pagare gli avvocati, lascia un'offerta e un messaggio. «Lui mi ha risposto subito e ha chiesto il mio numero. Nella prima telefonata ha subito parlato di matrimonio e di diventare cittadino americano per poter rimanere in Usa. Nonostante fossi un po' esitante ho accettato di incontrarlo», ha raccontato la signorina Kay che ha una figlia di 3 anni e si è dichiarata single. Così sei giorni dopo, da New York, Raffaele prende un aereo e vola in Idaho a Coeur D'Alene, dove vive la ragazza. Si incontrano all'aeroporto, lei è accompagnata da un'amica. E appena questa li lascia soli lui comincia a baciarla. E Kelsey inizia a prendersi una sbandata. «Raffaele non si è mai inginocchiato per chiedermi la mano. Ma quando è venuto a trovarmi sembrava già che la decisione fosse presa. E in banca mi ha presentato come la sua futura sposa», prosegue. Il secondo giorno Sollecito le mostra un accordo prematrimoniale, secondo cui la coppia deve rimanere sposata almeno per 3 anni (tempo necessario per la cittadinanza). Nel caso in cui lei lo lasciasse prima del tempo dovrebbe pagare una penale di 20.000 dollari. A quel punto Kelsey si insospettisce e quando l'italiano le dice di aver chiesto anche la mano di Amanda, mesi prima, si arrabbia molto. Confessa a sua volta di avere precedenti penali, inizia una lite furibonda e lei se ne va rifiutando le nozze. Insomma Quando poi Sollecito ha scoperto che Kalsey aveva problemi con la giustizia è andato su tutte le furie e l'accordo tra i due saltò. Mesi dopo, però, i due tornano a chattare e Raffaele le scrive scoraggiato (o per liberarsene) che «sposarti non mi protegge dagli italiani». Seguono molti scambi. Se sono genuini (impossibile verificarlo tramite Radar Online) è chiaro che la storia tra i due si è ormai raffreddata e che l'italiano è sempre più stressato per il processo e per gli esami dell'università. E quando Kelsey scopre che frequenta un'altra lo insulta e minaccia di raccontare tutto. «Mio figlio non ha mai fatto proposte ad Amanda. Sono tutte falsità, questa signora dovrebbe vergognarsi - ha dichiarato il padre, Francesco Sollecito - Raffaele era andato a trovarla in Idaho, ma lei si è mostrata poco disponibile e poi è emerso che era sposata con una figlia. Gli ha mentito. Inoltre si sono conosciuti l'estate scorsa, perché ne parla adesso dopo nove mesi?». Ed a dispetto di tutto ciò, invece.......

E' bionda e fa la hostess la nuova fiamma di Sollecito. Si sono conosciuti in volo, Raffaele Sollecito e Greta Menegaldo: lui tra i passeggeri, lei al lavoro come hostess, scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”. Naturalmente, adesso, il ragazzo pugliese ha ben altro a cui pensare: condannato giovedì a 25 anni per l’omicidio di Meredith Kercher, Raffaele da qualche mese frequenta questa ragazza trevigiana, conosciuta appunto in uno dei suoi viaggi. È con lei che l’ex fidanzato di Amanda Knox, proprio giovedì, ha raggiunto l’Austria; era con lei quand’è arrivata la polizia, venerdì mattina, e in paese (Oderzo, dove lei vive) sono in molti ad averli notati, «li vediamo spesso - raccontano nei pub frequentati dai due - passeggiano mano nella mano, teneri e discreti». Lei ha 31 anni, è di Ponte di Piave - dove vivono i genitori, in una villetta bianca, bassa, graziosa - e di mestiere fa la hostess di terra per una compagnia low cost, all’aeroporto di Venezia. Il padre ha lavorato con Giuseppe Stefanel e la madre gestiva un laboratorio per lo stesso gruppo a Ponte di Piave. Lei, dunque, in paese è conosciuta da tutti: viene descritta come riservata, elegante, determinata. Con la passione per i viaggi. In questi giorni si è spesso sottratta alle mille domande che, soprattutto i media locali, le hanno rivolto: quando ha accompagnato Raffaele alla questura di Udine, venerdì mattina, ha detto più volte ai poliziotti di non gradire tanta attenzione. Per un po’, infatti, i due sono riusciti a tenere la loro relazione fuori dalla portata dei giornalisti: poi però hanno cominciato a parlarne i siti, e da internet la notizia è rimbalzata sulla stampa del Trevigiano e in questi ultimi giorni ovunque. I due ragazzi anche ieri sono stati avvistati dalle parti di Treviso, anche se l’appartamento di lei ha avuto le finestre sbarrate per tutto il giorno. Escono soprattutto di sera, una birra al pub, una passeggiata: inseguono la normalità, per quanto sia possibile. Di Greta, a Oderzo, tutti conoscono la storia: si è diplomata all’istituto linguistico Dorotee di Oderzo e subito dopo, ha cominciato a lavorare. Da hostess, in volo, ha conosciuto Raffaele: anche se forse, quel giorno di qualche mese fa, non poteva immaginare ciò che l’aspettava una volta tornata sulla terra.

Greta Menegaldo, 31 anni, è di Oderzo in Veneto, scrive “Libero Quotidiano”. Amanda è lontana. Dall'altra parte dell'America canterebbe Lucio Dalla. Lontani i tempi di quell'amore finito tragicamente una notte in una villetta di Perugia e in una condanna a 25 anni di carcere. Per Raffaele Sollecito, questa è un'altra vita. E nel suo cuore c'è una nuova ragazza. No, non la brunetta (abbronzata, la definirebbe Berlusconi) in compagnia della quale il ragazzo pugliese condannato per l'omicidio di Meredith Kercher era stato fotografato alcune settimane fa a Santo Domingo, in quella che potrebbe essere la sua ultima vacanza di qui a molti anni. Ma una ragazza della padania profonda, per lui del sud. Si chiama Greta Menegaldo e viene da Oderzo, veneto profondo. Ha 31 anni e lavora come hostess di terra all'aeroporto Marco Polo di Venezia. Sollecito l'ha conosciuta proprio in aeroporto, ai banchi di una compagnia aerea low cost. Di Amanda ha gli stessi tratti dolci, ma più schietti e meno da gatta morta. È con lei che giovedì ha raggiunto l’Austria; era con lei quand’è arrivata la polizia, venerdì mattina, e in paese (Oderzo, dove lei vive) sono in molti ad averli notati. In paese, scrive il Corriere della Sera, viene descritta come riservata, elegante, determinata. Con la passione per i viaggi. In questi giorni si è spesso sottratta alle mille domande che, soprattutto i media locali, le hanno rivolto: quando ha accompagnato Raffaele alla questura di Udine, venerdì mattina, ha detto più volte ai poliziotti di non gradire tanta attenzione. Per un po’, infatti, i due sono riusciti a tenere la loro relazione fuori dalla portata dei giornalisti: poi però hanno cominciato a parlarne i siti, e da internet la notizia è rimbalzata sulla stampa del Trevigiano e in questi ultimi giorni ovunque.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

Amanda Knox, Raffaele Sollecito: ricondannati. Undici ore e 29 minuti dopo, la campanella dell’aula suona e il silenzio piomba nell’aula fin lì elettrica. Il silenzio è interrotto solo dai clic delle macchine fotografiche. Sono le 21,48, la porta della camera di consiglio si apre, passano tre minuti. Sguardi fra gli avvocati, l’aula trattiene il respiro, scrive Gigi Paoli su “Il Quotidiano Nazionale”. Risuona la campanella e finalmente dalla porta esce il presidente della corte d’assise d’appello Alessandro Nencini, seguito dal giudice a latere Luciana Cicerchia e dai giudici popolari. «In nome del popolo italiano» Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono colpevoli ancora una volta per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto nel novembre del 2007 a Perugia: 28 anni e 6 mesi (due e mezzo in più del primo grado) per la ragazza americana, da tempo a Seattle e difficilmente rivedibile da questa parte dell’oceano, e 25 anni per il suo ex compagno Raffaele che ieri mattina era in aula e poi, assieme al padre, è sparito. E ora lo cercano perché la corte d’assise d’appello, accogliendo la richiesta in tal senso del sostituto procuratore generale Alessandro Crini, ha disposto il divieto di espatrio per il giovane pugliese, con il ritiro del passaporto, per evitare che scappi all’estero in Paesi che non hanno accordi giudiziari con l’Italia. Come Santo Domingo, ad esempio, dove è stato più volte. La squadra mobile di Firenze, non casualmente presente ieri sera alla lettura del dispositivo della sentenza, lo sta già cercando. Dunque, il settimo sigillo (perché settimo è il processo per questo caso) del delitto di Meredith Kercher arriva dopo undici ore di camera di consiglio. Il presidente Nencini rientra in aula con mille occhi che lo guardano. Ne mancano diversi però: non c’è più Raffaele Sollecito, non c’è suo padre Francesco che nei giorni scorsi aveva gridato al mondo che suo figlio sarebbe stato presente. Ma non ha mentito, Sollecito senior: Raffaele in aula c’è venuto, ma un’oretta al mattino, il tempo di farsi vedere dalla corte e di ascoltare le ultime repliche degli avvocati di Amanda, Carlo Dalla Vedova e Luciano Ghirga. Poi, alle 10,19, la corte d’assise ha lasciato l’aula e si è chiusa nella stanza della camera di consiglio. «Verso le 5 vi faremo sapere qualcosa sui tempi» ha detto Nencini prima di andarsene. Da quel momento, di Raffaele si è persa ogni traccia. È in albergo, verrà per la lettura del dispositivo, è andato a casa sua in Puglia. Voci, chiacchiere. Ma nessuna conferma. Le ore di attesa della sentenza sono state estenuanti, intervallate dai carrelli e dai vassoi del bar del Palagiustizia di Firenze che sparivano dietro la porta chiusa della camera di consiglio. E le 17 sono diventate le 18, le 18 le 19, le 19 un «non si sa, potrebbero anche essere le dieci» con cui la cancelliera della corte ha gelato gli avvocati e il plotone di giornalisti da tutto il mondo che per l’intera giornata ha stretto d’assedio il Palagiustizia. E mentre il tempo scorre, l’aula si riempie. Di pubblico, taccuini e telecamere. Giulia Bongiorno, legale di Sollecito, è una sfinge e ostenta sicurezza. Ha aspettato la sentenza Andreotti, che vuoi che le faccia l’attesa di un Sollecito qualunque? Il sostituto procuratore generale Alessandro Crini attende una decina di piani più in alto, nel suo splendido ufficio dove un’intera parete è una vetrata che domina le colline di Firenze. Il suo capo Tindari Baglione è con lui e scendono insieme per la sentenza. In aula, silenziosi, mezz’ora prima della lettura, si presentano due giovani, scortati dalla console della Gran Bretagna: sono Stephanie e Lyle Kercher, i fratelli della povera Meredith. Diranno poco con le parole («non è tempo di festeggiare») e moltissimo con gli occhi. Parleranno stamattina assieme ai loro avvocati Maresca, Perna e Fabiani in una conferenza stampa. Sono le 21,48. È l’ora. Silenzio e poi un campanello: entra la corte. Tutti in piedi. «In nome del popolo italiano» si condannano due fantasmi. Per rendere giustizia a Meredith, in verità, dovrebbero scontare almeno la pena.

Chi è il presidente della Corte d’Appello di Firenze? Di lui ne parla Franco Bechis su Libero Quotidiano. La vicenda giudiziaria, riassunta nel documento IV-ter n.19 della Camera dei deputati, riguarda una causa civile intentata a Berlusconi da Alessandro Nencini, giudice della Corte di Appello presso il tribunale di Firenze nonché segretario della sezione toscana di Magistratura democratica. Una toga rossa, dunque, abituato nella sua vita civile a cantarle chiare a Berlusconi (firmò il manifesto contro il premier a difesa della Costituzione, spesso presenta libri assai critici contro il premier). Ma che nel caso in questione si è sentito danneggiato dal premier e vuole avere un risarcimento poco più che simbolico, di 10 mila euro. Berlusconi non fece in realtà il nome di alcun magistrato, ma Nencini che effettivamente aveva condannato i dirigenti di Impregilo si sentì colpito nel vivo, e fece causa al premier perché «aveva manifestato ai giornalisti presenti alcune considerazioni in ordine al procedimento penale sopra citato, e nell’occasione aveva espresso nei confronti dell’odierno esponente dei giudizi gravemente offensivi definendolo una metastasi, un soggetto che applica la legge come un Moloch che deve colpire». Gianfranco Fini è pronto a consegnare per la prima volta ai magistrati Silvio Berlusconi. Non è un caso da manette, né una delle grandi inchieste da cui il cavaliere aveva cercato di essere protetto con il Lodo Alfano o uno scudo giudiziario. Ma il caso è destinato lo stesso a fare rumore. Il gruppo di Futuro e Libertà, secondo quanto risulta a Libero, è infatti orientato per concedere l'autorizzazione a procedere richiesta dal tribunale civile di Milano nei confronti del presidente del Consiglio. La vicenda giudiziaria, riassunta nel documento IV-ter n.19 della Camera dei deputati, riguarda una causa civile intentata a Berlusconi da Alessandro Nencini, giudice della Corte di Appello presso il tribunale di Firenze nonché segretario della sezione toscana di Magistratura democratica. Una toga rossa, dunque, abituato nella sua vita civile a cantarle chiare a Berlusconi (firmò il manifesto contro il premier a difesa della Costituzione, spesso presenta libri assai critici contro il premier). Ma che nel caso in questione si è sentito danneggiato dal premier e vuole avere un risarcimento poco più che simbolico, di 10 mila euro. Il casus belli era avvenuto il 24 marzo 2009, giorno in cui il Cavaliere si era imbarcato sul treno Milano-Roma che inaugurava la nuova linea ad alta velocità. Chiacchierando con i giornalisti Berlusconi raccontò che la linea ferroviaria era stata costruita da Impregilo e disse: «La cosa drammatica è che i dirigenti di Impregilo dopo avere fatto questo lavoro dell'Alta velocità che ha del miracoloso sono stati condannati a cinque anni dalla magistratura di Firenze dopo essere stati assolti da quella di Bologna. È qualcosa di patologico, una metastasi del nostro Paese contro cui dobbiamo reagire perchè c'è qualcuno che usan la legge come un Moloch che deve colpire». Berlusconi non fece in realtà il nome di alcun magistrato, ma Nencini che effettivamente aveva condannato i dirigenti di Impregilo si sentì colpito nel vivo, e fece causa al premier perché «aveva manifestato ai giornalisti presenti alcune considerazioni in ordine al procedimento penale sopra citato, e nell'occasione aveva espresso nei confronti dell'odierno esponente dei giudizi gravemente offensivi definendolo una metastasi, un soggetto che applica la legge come un Moloch che deve colpire». La causa è andata davanti un po', raccogliendo le tesi difensive e poi è arrivata al più classico degli scogli: quello della immunità parlamentare garantita per l'espressione delle opinioni dei parlamentari dall'articolo 68 della Costituzione. Il giudice milanese non è di quella idea, ma ha dovuto chiedere alla Camera il giudizio che le spetta costituzionalmente. E il fascicolo è ora approdato alla giunta per le autorizzazioni. Dove appunto la questione è diventata più politica del solito. Lì siede un finiano sicuramente moderato e ben disposto più di tanti altri nei confronti del premier: Giuseppe Consolo. Ma è in imbarazzo, in forte imbarazzo. Sospira: «Gli atti non li ho ancora letti. Ma certo se il presidente del Consiglio la smettesse di attaccare così la magistratura saremmo tutti in minore imbarazzo». L'appiglio che hanno i finiani è proprio quello della genericità delle accuse. Che la magistratura sia una "metastasi" e i giudici un "Moloch" diventano espressione politica assai più della rilevanza che possa avere il giudice Nencini. Nelle fila del gruppo di Futuro e Libertà si vuole cogliere l'occasione d'oro per dare una lezione che non faccia troppi danni al premier, anche se il sì alla autorizzazione verrebbe a costituire un precedente rischioso sotto il profilo delle immunità parlamentari. Una partita da giocarsi anche come avviso di garanzia lanciato nei confronti del futuro "pacchetto giustizia" che Berlusconi porterà prima davanti al consiglio dei ministri e poi naturalmente in Parlamento. Un simbolo della guerriglia che ormai sta combattendo senza esclusione di colpi Fini, che proprio ieri ha sfidato il presidente del Senato, Renato Schifani, con una lettera ufficiale in cui chiedeva a palazzo Madama di rinunciare alla discussione della legge elettorale che secondo lui dovrebbe iniziare alla Camera dove esistono maggioranze diverse in grado di mettere in difficoltà il premier. “La vicenda giudiziaria, riassunta nel documento IV-ter n.19 della Camera dei deputati, riguarda una causa civile intentata a Berlusconi da Alessandro Nencini, giudice della Corte di Appello presso il tribunale di Firenze nonché segretario della sezione toscana di Magistratura democratica. Una toga rossa, dunque, abituato nella sua vita civile a cantarle chiare a Berlusconi (firmò il manifesto contro il premier a difesa della Costituzione, spesso presenta libri assai critici contro il premier). Ma che nel caso in questione si è sentito danneggiato dal premier e vuole avere un risarcimento poco più che simbolico, di 10 mila euro. Berlusconi non fece in realtà il nome di alcun magistrato, ma Nencini che effettivamente aveva condannato i dirigenti di Impregilo si sentì colpito nel vivo, e fece causa al premier perché «aveva manifestato ai giornalisti presenti alcune considerazioni in ordine al procedimento penale sopra citato, e nell’occasione aveva espresso nei confronti dell’odierno esponente dei giudizi gravemente offensivi definendolo una metastasi, un soggetto che applica la legge come un Moloch che deve colpire».”

Chi è il giudice a latere del presidente della Corte d’Appello di Firenze? Condanna per Meredith: decisivo il ruolo nella corte d'assise d'appello del giudice aretino Luciana Cicerchia. Sarà lei a motivare la sentenza, scrive Salvatore Mannino su “La Nazione”. E' in corte d'appello da un paio d'anni, in precedenza ha diretto l'ufficio Gip del Palazzo di giustizia ed ha fatto parte del tribunale di Variantopoli. Un magistrato di indiscussa serietà. E' entrata in diretta tv nelle case degli italiani alle dieci della sera. In silenzio, a fianco del presidente della corte d'assise d'appello che ha emesso la clamorosa sentenza per il delitto Meredith: i 25 anni a Raffaele Sollecito e i 28 ad Amanda Knox. Lei, Luciana Cicerchia, aretina doc, di quella corte era il giudice a latere, il magistrato togato che affianca il presidente insieme ai sei giudici popolari. Conoscendone la preparazione e il garbo, sicuramente le sue opinioni hanno pesato sul verdetto che ribalta quello di assoluzione della corte d'appello di Perugia, che era stato poi annullato dalla cassazione. All'epoca Luciana Cicerchia era ancora in servizio al tribunale di Arezzo, capo dell'ufficio Gip, ultimo incarico al palazzo di giustizia del Garbasso prima di chiedere e ottenere il trasferimento alla corte d'appello di Firenze. Ora la giudice aretina è attesa da un altro compito delicatissimo: sarà lei probabilmente, almeno questa è la prassi per i giudici a latere in corte d'assise, stendere le motivazioni della sentenza, in vista del sicuro ricorso in cassazione. E quando la suprema corte prenderà di nuovo in esame il caso, saranno proprio le motivazioni e la loro coerenza nell'interpretare e nello spiegare la sentenza a decidere di cosa disporranno i giudici del Palazzaccio, ultima istanza inappellabile del sistema giudiziario italiana. Cinquantenne, sposata con figli, Luciana Cicerchia è una abituata a convivere con le responsabilità. Tanto per dire, fu lei a stendere le motivazioni della sentenza di condanna di Variantopoli: un migliaio di pagine scritte in un italiano chiaro e anche sferzante, così diverse dal giuridichese corrente, che poi sono risultate inattaccabili anche in appello, dove il verdetto è stato confermato praticamente in toto. E prima ancora era toccato alla giudice nel 2006 presiedere la corte d'assise che condannò  la britatista rossa Nadia Lioce per l'omicidio sul treno Roma-Arezzo del poliziotto Emanuele Petri, nei pressi della stazione di Castiglion Fiorentino, domenica 2 marzo 2003. Un processo in trasferta, nell'aula bunker di Firenze, che Luciana Cicerchia si trovò a guidare quasi all'improvviso, dopo la pensione del presidente in carica della sezione penale aretina, Mario Bartalesi. Come al solito condusse le udienze con equilibrio e anche con fermezza. Con cortesia ma anche senza concedere niente alla propaganda delle Br che la Lioce avrebbe voluto portare in aula. Basterà ricordare la scena, immortalata dalla Tv, del confronto tra Luciana Cicerchia e la terrorista, cui fu impedito di trasformare l'aula in un luogo di proselitismo. Ma senza alcun tono autoritario, solo col carisma di chi sta stare sul banco dei giudici. Ma nemmeno quello era il primo grande processo della giudice aretina, che era stata già parte del tribunale che condannò l'anarcoanimalista Sergio Maria Stefani, poi scivolato in carcere verso ambienti legati al terrorismo vero e proprio, accusato insieme all'allora fidanzata Agnese della bomba rudimentale in una macelleria di via Cavour. Il verdetto scatenò la contestazione dei compagni dei due, che improvvisarono un corteo lungo il corso, scontrandosi con la polizia. Ne nacque un parapiglia e anche un arresto per resistenza. Ma le immagini mostrarono il giorno dopo in aula, nel processo per direttissima, che l'arrestato non c'entrava. Luciana Cicerchia non esitò ad assolverlo. Prima di pronunciare il verdetto, nella vecchia aula del tribunale monocratico di via Garibaldi, chiese il silenzio e disse che non avrebbe tollerato incidenti. La sua sentenza fu letta in un'aula nella quale non volava una mosca. Quella del processo Meredith è stata una camera di consiglio interminabile, lunga più di dieci ore. Anche questa è una situazione cui la giudice aretina è abituata: per Variantopoli il tribunale rimase in camera di consiglio per una dozzina di ore: il verdetto fu letto a notte fonda, quando mezzanotte era passata da un pezzo. E di una cosa si può stare certi: Luciana Cicerchia ha affrontato anche questo processo da prima pagina, con le luci della ribalta delle tv nazionali, con la stessa tranquillità di sempre. Lei è una fine interprete del diritto, non si fa certo impressionare dal clamore.

IL RESOCONTO.

Meredith, dall'omicidio all'appello bis, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Meredith Kercher venne uccisa a Perugia la sera del primo novembre del 2007 e la vicenda giudiziaria legata al delitto è una delle più controverse degli ultimi anni. Queste le tappe del giallo.

1 NOV 2007 – Meredith, studentessa inglese di 22 anni, in Italia per Erasmus, viene uccisa con una coltellata alla gola nel proprio appartamento. Il corpo viene trovato il giorno dopo in camera da letto, coperto da un piumone. A occuparsi delle indagini è la polizia con la squadra mobile del capoluogo umbro e il Servizio centrale operativo.

6 NOV – In carcere finiscono Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Patrick Lumumba Diya. Amanda, americana, di Seattle, all’epoca ventenne, è la coinquilina di Meredith e studia all’Università per stranieri di Perugia. Sollecito, 24 anni, pugliese, laureando in ingegneria, ha da un paio di settimane una storia con Amanda. Lumumba, 38 anni, originario dell’ex Zaire, dal 1988 vive in Umbria dove gestisce un pub in cui lavorava Amanda. Tutti e tre si dichiarano estranei all’omicidio. Contro Patrick ci sono le dichiarazioni di Amanda, ma lui sostiene che si trovava nel suo locale.

9 NOV – Il gip convalida i fermi.

15 NOV – Tracce del dna di Meredith e Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito. 20 NOV - Patrick Lumumba viene rimesso in libertà dopo che dalle indagini è emersa la sua estraneità al delitto. Nello stesso giorno viene arrestato Rudy Guede, ivoriano di 21 anni, bloccato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori palmari hanno individuato l’impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere della studentessa inglese e a diverse tracce di Dna in casa.

6 DIC – Rudy è trasferito in Italia.

27 MAG 2008 – Il gip Claudia Matteini, su richiesta della procura, archivia il procedimento penale nei confronti di Patrick Lumumba.

19 GIU – I pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l'atto di chiusura indagini. Per loro Meredith Kercher fu uccisa da Amanda, Raffaele e Rudy per futili motivi.

16 SET – Il gup Paolo Micheli accoglie la richiesta di rito abbreviato per Guede.

18 OTT – I pm chiedono al gup di Perugia la condanna all’ergastolo per Guede e il rinvio a giudizio per Sollecito e la Knox.

28 OTT – Il Gup condanna a 30 anni di reclusione Rudy e dispone il processo per Amanda e Raffaele.

18 GEN 2009 – Inizia il dibattimento per Sollecito e per la Knox.

18 NOV – Si apre davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Perugia il processo d’appello nei confronti di Rudy Guede.

5 DIC – La corte d’Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna Amanda a 26 anni di carcere e Raffaele a 25.

22 DIC – La corte d’Assise d’Appello riduce da 30 a 16 anni la pena inflitta a Rudy. Concesse le attenuanti generiche.

4 MAR 2010 – Depositate le motivazioni della sentenza di primo grado nei confronti di Amanda e Raffaele. Hanno ucciso spinti da un movente “erotico, sessuale, violento”.

22 MAR – Depositate anche le motivazioni sulla condanna a Rudy Guede: “concorse pienamente”, scrivono i giudici della Corte d’Assise d’Appello, all’omicidio di Meredith.

24 NOV – Si apre il processo d’appello per Amanda e Raffaele.

16 DIC – La Cassazione conferma la condanna a 16 anni per Rudy Guede. La pena diventa così definitiva.

18 DIC – La Corte d’assise d’Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello considerato l’arma del delitto e sul gancetto del reggiseno di Mez. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della corte, “non sono attendibili”.

4 OTT 2011 – La corte d’Assise d’appello assolve i due imputati dall’omicidio “per non avere commesso il fatto” e ne dispone la scarcerazione. Il pg ne aveva chiesto l’ergastolo.

15 DIC 2011 – Depositate le motivazioni. Secondo i giudici di secondo grado i “mattoni” su cui si è basata la condanna “sono venuti meno”: c'è una “insussistenza materiale” degli indizi, dalle tracce di Dna all’arma del delitto. E l'ordinamento “non tollera la condanna dell’innocente”.

25 MAR 2013 – Il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l’annullamento della sentenza di assoluzione, definita un “raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità”.

26 MAR 2013 – La Suprema corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d’appello di Firenze per un nuovo processo.

30 SET 2013 – A Firenze si apre il nuovo processo di appello. Amanda è negli Stati Uniti, Raffaele non è in aula.

6 NOV – Sollecito rilascia dichiarazioni spontanee: "Sento nei miei confronti una persecuzione allucinante, senza senso".

26 NOV – Il pg Alessandro Crini chiede condanne a 30 anni per Amanda Knox (compresi i tre già definitivi per la calunnia a Lumumba) e 26 per Raffaele Sollecito. Secondo il pg il movente non è un gioco erotico finito male ma una lite legata anche a vecchie ruggini fra Amanda e Meredith per le pulizie di casa.

17 DIC – Amanda invia una lettera alla Corte: “Non sono presente in aula perchè ho paura. Ho paura che la veemenza dell’accusa vi impressionerà”.

20 GEN 2014 – Il pg Alessandro Crini chiede “l'applicazione di una misura cautelare” nei confronti di Amanda Knox e Raffaele Sollecito in caso di condanna.

30 GEN - Amanda e Raffaele sono condannati a 28 e 25 anni dalla Corte di Appello di Firenze.

Dagli Stati Uniti, patria di Amanda, alla Gran Bretagna dove vive la famiglia Kercher. E' su tutti i siti la notizia della nuova condanna nel processo d'appello bis per l'omicidio di Meredith Kercher. Dalla Cnn alla Bbc, è la notizia che rimbalza ovunque.  E la notizia fa il giro del mondo. “Guilty again” (“colpevole ancora”), titola la Cnn. La notizia della condanna di Amanda Knox e Raffaelle Sollecito nel nuovo appello bis rimbalza in tempo reale sui siti d’informazione britannici e statunitensi. Alcuni, nelle loro home page, hanno dato le dirette del processo. Tra questi il londinese «the Guardian» e il «Telegraph». La stampa inglese è stata colpevolista. Inchieste sulle storture della giustizia italiana sono state invece condotte dai media Usa. Amanda Knox colpevole, negli Usa rabbia su Twitter: "Giudici italiani corrotti". La condanna ai danni di Amanda Knox provoca una bufera di proteste negli Stati Uniti, scrive “Leggo”. Un'onda d'indignazione che scoppia sui social network dove in tanti, tantissimi, attaccano a caldo, in modo violento il sistema giudiziario italiano e le sue procedure.   ''Incapaci per anni di condannare Berlusconi, ora fanno un altro pasticcio con Amanda''. Attacca Ben dalla Florida. ''La giustizia italiana è morta del tutto. Sembra che possano tenere alla sbarra la gente sino a quando non ottengono il verdetto che vuole l'accusa''. In tanti non capiscono, da questa parte dell'oceano, come mai si possa fare un secondo processo, sulla stessa vicenda. ''Tutta questa storia non ha alcun senso - twitta un ragazzo di colore - prima è stata in galera per 4 anni, poi assolta, liberata, e ora di nuovo condannata''. ''Si tratta di un sistema corrotto - attacca un'altra utente di Los Angeles - che oggi prova a salvarsi la faccia alle spese della povera Amanda. Lo sapete che il killer è già in galera?''. E ancora, senza mezzi termini: ''il sistema giudiziario italiano è la cosa più corrotta presente nell'universo''. ''Sono un avvocato - ammette Steve - ma il sistema italiano mi lascia interdetto…Amanda Knox ora è di nuovo colpevole? ''. E sono in tanti, tantissimi, che descrivono la nostra magistratura un 'joke'', uno scherzo, una barzelletta, una ''farsa di proporzioni epiche''. Qualcosa che ha ''zero credibility'', credibilità nulla. ''Sono sicuro - anticipa un altro tweet - che ci sarà un altro giudizio. Altri giorni di paga per gli avvocati. Giustizia italiana ha il record assoluto del tempo impiegato per raggiungere un nulla di fatto''.

Amanda Knox: i colpevoli per gli americani siamo noi? Si chiede Alberto Sofia su “Giornalettismo”. C'è chi azzarda paragoni con i processi alle streghe di Salem. O chi si scaglia contro il sistema giudiziario italiano, definito come «viziato e corrotto». Per parte dell'opinione pubblica americana la responsabilità sul caso Kercher non è della studentessa americana, definita "innocente" e "vittima di una persecuzione giudiziaria".  C’è chi azzarda paragoni con i processi alle streghe di Salem o con i tempi dell’Inquisizione. O chi si scaglia contro il sistema giudiziario italiano, definito come «viziato e corrotto». Ma c’è anche chi “consiglia” agli studenti americani di «non andare più in Italia», attaccando il nostro Paese: dopo l’appello bis di Firenze sul caso del delitto Meredith Kercher, con Amanda Knox e Raffaele Sollecito dichiarati colpevoli e condannati rispettivamente a 28 anni e sei mesi e 25 anni di carcere, su alcuni media americani e soprattutto sui commenti degli utenti statunitensi sui media e sui social network non manca chi critica l’Italia, parlando di “persecuzione giudiziaria” ai danni delle propria cittadina e attaccando il verdetto della corte fiorentina. Se i giudici fiorentini avevano ieri decretato la colpevolezza di Knox e Sollecito, per i due ex fidanzati l’unica consolazione era arrivata dalle misure cautelari. Se Sollevito temeva l’arresto i giudici si sono limitati a un divieto di espatrio, mentre per Amanda – che si trova «legittimamente nel suo Paese di origine», gli Stati Uniti, hanno spiegato i giudici nella sentenza – non è stato deciso alcun provvedimento cautelare. Il verdetto ha scatenato non poche polemiche negli Stati Uniti: diversi quotidiani sono tornati ad attaccare il nostro sistema giudiziario, definendo Amanda “innocente” e “vittima” delle disfunzioni nel nostro sistema. mentre si parla di nuova “svolta drammatica” nel caso. Già in passato, nel marzo 2013, dopo la sentenza di Cassazione e le assoluzioni annullate per Knox e Sollecito, il sistema italiano era stato definito “carnevalesco”.  La stessa accusa è rilanciata sempre dall’Atlantic, dove si spiega come sia stata ribaltata la precedente sentenza di assoluzione: «Knox ha atteso il verdetto dalla sua casa di Seattle. Improbabile che le autorità italiane richiedano l’estradizione fino a quando il verdetto non sarà definitivo. In base al sistema italiano, il processo potrebbe richiedere fino a un altro anno di tempo . Alcuni esperti dicono che è improbabile che la Knox sarà estradato in Italia, anche perché si rischia di danneggiare i rapporti internazionali tra i due paesi». Si riportano anche le parole del giornalista Tobias Jones, che sul Guardian, subito dopo il verdetto di assoluzione del 2011, spiegò come nel nostro paese “quello che succede di solito è lasciare la porta aperta fino al successivo grado di giudizio. Così tra appello e Cassazione, tutto può essere stravolto”. Un eccesso di “garantismo” o un sistema contorto, secondo i media americani. Altri quotidiani spiegano invece come con la condanna e i prossimi passi del processo ci sia il rischio di una lunga contesa sull’estradizione. Sempre sul Guardian si legge come il verdetto per l’omicidio di Meredith Kercher potrebbe creare una disputa diplomatica tra i due paesi. Per evitare di consegnare Knox alla giustizia italiana Washington dovrebbe violare il trattato sull’estradizione del 1983. Da Seattle, dove è stata raggiunta per telefono dai suoi difensori, la diretta interessata già ieri aveva replicato  facendo sapere di essere «spaventata e rattristata dal verdetto» e di sentirsi vittima di una «persecuzione ingiusta». Chi era con Raffaele ha invece spiegato di averlo visto «incredulo»di fronte al verdetto. E Knox viene considerata una vittima anche dai propri concittadini, come si legge in diversi commenti sui social e sui quotidiani locali.

Nessun commento da parte sua è apparso sulla pagina Facebook di Raffaele Sollecito dopo la sentenza di ieri sera, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Piuttosto, sono tantissimi i messaggi di incredulità e solidarietà inviati a Raffaele, la maggior parte dei quali in lingua inglese. Così c'è chi commenta che verdetti di colpevolezza riguardano migliaia di "persone buone" nel mondo, chi prega per Raffaele, chi ha il cuore devastato da un verdetto "ingiusto" definendolo "a great miscarriage to justice" come un grande fallimento della giustizia. Da Seattle, per esempio, Linda scrive: "…the Italian "justice system" is a fucking joke", il sistema italiano è uno scherzo. Da Amsterdam c'è chi aggiunge: "I Am So Sorry Raffaele! Words Are Not Enough At This Moment", sono molto dispiaciuto non ci sono parole. Mimmo, invece, dice a Raffaele: "non mollare", Paola lo incita: "Và via". Poi c'è il commento di Cristian: "Forza e coraggio amico mio!". Gianni è diretto: "La giustizia a volte è infame ... Lotta col cuore amicone mio ... Tvtttttttb ...". Decine di messaggi di solidarietà affidati alla rete tra cui compare una foto di Amanda e Raffaele, di qualche tempo fa, sorridenti e in apparenza spensierati.

La sintesi l’ha fatta uno dei difensori, l’avvocato Luciano Ghirga: "Una bella botta", scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Corte d’assise d’appello di Firenze ha condannato Amanda Knox a 28 anni e sei mesi di carcere e Raffaele Sollecito a 25. Per la studentessa americana i giudici hanno stabilito una pena più alta dei 26 anni che le vennero inflitti in primo grado a Perugia per effetto dell’aggravante legata alla calunnia nei confronti di Patrick Lumumba. L’unica consolazione, per i due ex fidanzatini, sono le misure cautelari. Sollecito stamani è arrivato in aula a Firenze col timore che la Corte d’assise d’appello potesse stabilire per lui anche un arresto. Invece, i giudici si sono limitati a un divieto di espatrio: gli verrà tolto il passaporto, niente di più. Nessun provvedimento per Amanda che si trova "legittimamente nel suo Paese di origine", gli Stati Uniti, hanno spiegato i giudici nella sentenza. Da Seattle, dove è stata raggiunta per telefono dai suoi difensori, Amanda ha fatto sapere di essere "spaventata e rattristata dal verdetto" e di sentirsi vittima di una "persecuzione ingiusta". Non ha pianto, però. Raffaele, che si è allontanato quando i giudici sono entrati in camera di consiglio, ha preferito non tornare in aula. Probabilmente ha atteso la sentenza a casa sua, a Bari. A chi era con lui è apparso "incredulo". La sentenza è arrivata alle 21.55, dopo più di undici ore di camera di consiglio. Il verdetto è stato accolto in silenzio dal pubblico. Anche i familiari di Meredith, la sorella Stephanie e il fratello Lyle, arrivati al Palazzo di giustizia pochi minuti prima della lettura del dispositivo, sono rimasti impassibili. "E' la cosa migliore che potevamo sperare – ha detto il fratello Lyle – ma non è tempo di festeggiare". Il pg Alessandro Crini aveva chiesto 30 anni per Amanda e 26 per Sollecito. Per l’ingegnere pugliese la sentenza di oggi è stato come un brutto passo indietro nel tempo. La Corte ha confermato la condanna che gli venne inflitta in primo grado a Perugia. Per lui è stato disposto il divieto di espatrio perchè ha la "disponibilità di supporti logistici in Paesi in relazione ai quali lo Stato italiano non risulta legato da accordi di assistenza giudiziaria". Tradotto: è stato più volte a Santo Domingo e c'è il rischio che torni là, evitando così di scontare la pena nel caso in cui la Cassazione confermi la condanna. La sentenza fiorentina arriva sette anni dopo l’omicidio di Meredith, uccisa la sera del primo novembre del 2007 a Perugia, e dopo tre sentenze: la condanna in primo grado, l’assoluzione in appello, l’annullamento in Cassazione. Da stasera, i colpevoli tornano ad essere tre: Rudy Guede, che sta scontando una condanna a 16 anni, Raffaele e Amanda, per i quali, comunque, si dovrà aspettare la Cassazione. La Corte si è presa 90 giorni per le motivazioni. Uno dei punti da chiarire è il movente. C'è da capire se ribadirà quello ipotizzato dai magistrati di Perugia, e cioè un gioco erotico degenerato, o quello tratteggiato dal pg della Toscana: una lite legata a vecchi rancori fra Amanda e Meredith per la pulizia della casa e innescata, quella sera, dal comportamento di Guede, che andò in bagno senza tirare lo sciacquone.

La Knox: “Terrorizzata dalla giustizia italiana. È una persecuzione”. La studentessa Usa a Seattle durante la sentenza: impietrita ma senza lacrime. Amanda Knox ha trascorso la giornata più lunga della sua vita chiusa nella casa della madre a Seattle: qui, dopo le 22, ha ricevuto la telefonata del suo legale che le ha dato la notizia della condanna a 28 anni di carcere, scrive Paolo Mastrolilli su “La Stampa”. Impietrita, ma senza lacrime. Così Amanda Knox reagisce alla sentenza che la fa tornare assassina: «Sono terrorizzata e intristita - dice - da questo verdetto ingiusto. Essendo stata riconosciuta innocente in precedenza, mi aspettavo di meglio dal sistema giudiziario italiano».  Amanda parla dalla casa della madre, dove ha aspettato la sentenza con i famigliari, e la sua reazione è durissima: «Le prove e il teorema accusatorio non giustificano un giudizio di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Piuttosto, nulla è cambiato. C’è sempre stata una chiara mancanza di prove. Io e la mia famiglia abbiamo sofferto enormemente per questa persecuzione sbagliata». Non si ferma, la sua rabbia va oltre: «Questa storia ormai è fuori controllo. E la cosa che mi dà più fastidio è che poteva essere evitata. Io mi appello alle autorità perché pongano rimedio ai problemi che hanno pervertito il corso della giustizia, e sprecato risorse preziose del sistema: una procura troppo zelante e intransigente, una investigazione segnata dal pregiudizio e la strettezza mentale, la mancanza di volontà di riconoscere gli errori, l’attenzione prestata a testimoni e prove non affidabili, l’assassinio del mio carattere, l’inconsistenza del teorema accusatorio, le tecniche coercitive e controproducenti di interrogatorio, che hanno prodotto confessioni inaccurate».  

Omicidio Meredith, condannati Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La sentenza delle Corte d'assise d'appello a Firenze. Ventotto anni e sei mesi per la giovane americana e 25 per il suo ex fidanzato. Divieto di espatrio per lui. Lei: "Sono spaventata. Verdetto ingiusto". Legali pronti ad andare in Cassazione, scrive “La Repubblica”. Quasi dodici ore di camera di consiglio, poi la sentenza di condanna per Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Una pena di 28 anni e sei mesi per Amanda Knox e di 25 per Raffaele Sollecito per l'omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia nel 2007. Divieto di espatrio per Sollecito e nessuna misura cautelare per Amanda. La sentenza dei giudici della Corte d'Appello di Firenze è arrivata alle 21.50. Rispetto alla condanna di primo grado emessa nel dicembre 2009 dalla Corte di Perugia, è stata aumentata di due anni e sei mesi la pena inflitta ad Amanda Knox perché i giudici hanno ritenuto aggravato il reato di calunnia commesso dalla ragazza americana nei confronti di Patrik Lumumba. Secondo la Corte d'Appello di Firenze, Amanda lo accusò per assicurare a sé l'impunità dal reato di omicidio. Anche Lumumba era in aula, dopo la sentenza ha detto: "Ho sempre avuto fiducia nella giustizia italiana, Amanda può dire cosa accadde quella notte". "Sono spaventata e rattristata da questa sentenza ingiusta", ha detto poco dopo la giovane, intervistata dal network televisivo Abc. Questa dura condanna "non è una consolazione per la famiglia Kercher", e credo che tutta la vicenda sia "sfuggita di mano". Amanda Knox è rimasta "impietrita, ma non ha pianto e non ha parlato", aveva detto poco prima uno dei suoi legali, Carlo Dalla Vedova, che le ha comunicato la decisione. La Knox è negli Stati Uniti a casa della madre. L'altro legale della ragazza, Luciano Ghirga, ha aggiunto: "E' stata una bella botta, faremo ricorso, Amanda è innocente". E più tardi anche la madre della giovane americana, Edda Mellas, ha rilasciato un'intervista alla Abc: "Amanda è sconvolta. Tutti noi siamo sconvolti e scioccati, ma siamo anche pronti a combattere. Tutti in famiglia, anche nella nostra famiglia allargata, siamo pronti a continuare a lottare per la verità e per la sua libertà, e nessuno di noi ha intenzione di mollare". Anche Sollecito non era in aula al momento della lettura della sentenza. E' apparso "annichilito" ad uno dei suoi difensori, l'avvocato Luca Maori. I legali di Amanda Knox si sono detti pronti a fare ricorso. "La lunga discussione - ha detto Ghirga - dimostra che ci sono stati temi controversi. La strada del ricorso dopo il rinvio è molto difficile da determinare ma siamo pronti a una nuova battaglia". Pronta a impugnare la sentenza anche Giulia Buongiorno, legale di Raffaele Sollecito, che ha definito il processo "vuoto di prove e di indizi". "Lo abbiamo dimostrato. Questo è solo un passaggio", ha detto. Alla notizia della condanna i familiari di Meredith sono rimasti impassibili. Hanno stretto le mani ai loro legali. "Non è tempo di festeggiare", ha detto il fratello di Meredith, Lile. Poco dopo Stephanie, sorella della vittima, ha affermato: "Non sapevamo cosa aspettarci. Siamo ancora sotto shock". I due concordano sul fatto che "non importa quale sia stata la sentenza perché non c'è comunque nulla da festeggiare ma probabilmente è la cosa migliore che ci saremmo mai potuto aspettare". Soddisfatto il legale della famiglia della giovane inglese uccisa la notte tra il 1 e il 2 novembre del 2007: "Riteniamo che sia stata fatta giustizia per Meredith e la sua famiglia", ha detto Francesco Maresca. Nelle scorse settimane il pg aveva chiesto pene di 30 anni per Amanda (compresi i 3 già definitivi per la calunnia a Lumumba) e 26 per Raffaele. Aveva chiesto anche che, in caso di condanna, la Corte d'assise d'appello di Firenze disponesse le misure cautelari. 

Amanda Knox e Raffaele Sollecito condannati a 28 anni e a 25 anni di carcere per l'omicidio di Meredith Kercher, scrive “Libero Quotidiano”. Il verdetto del tribunale di Firenze arriva dopo 12 ore di camera di consiglio. Raffaele non era presente in Aula, Amanda invece è negli Stati Uniti.  I due imputati erano stati condannati in primo grado e assolti in appello, la Cassazione aveva ordinato un nuovo processo d'appello a Firenze. Dopo la sentenza di assoluzione Amanda è volata nella sua Seattle. Raffaele non ha mancato un'udienza e anche giovedì mattina era in aula. Poi però ha preferito aspettare la lettura della sentenza lontano dal tribunale. A Raffaele Sollecito ora sarà ritirato il passaporto. Intanto però la vicenda non finisce qui. Il legale di Sollecito, Giulia Bongiorno è pronta per una battaglia in Cassazione: "Impugneremo la sentenza. Questo è un processo vuoto di prove e di indizi. Lo abbiamo dimostrato. Questo e' solo un passaggio". Soddisfazione invece per il Pg Crini: "E' stato riconosciuto il nostro impianto accusatorio". Per i Kercher invece parla l'avvocato Maresca:"Riteniamo che sia stata fatta giustizia per Meredith e la sua famiglia". "Siamo pronti ad accettare qualsiasi decisione. Non vogliamo che a pagare siano le persone sbagliate: quello che vogliamo è sapere cosa è successo quella notte", aveva detto la sorella di Meredith Kercher  questa mattina alla stampa. Ora quella decisione c'è stata. In aula non era presente nessuno degli imputati: Raffaele Sollecito si era presentato in tribunale durante la mattinata, ma poi ha cambiato idea ed è andato via insieme al padre che ha dichiarato "Non ce la facciamo". Sui banchi della difesa erano quindi presenti solamente i legali, Giulia Bongiorno e Luca Maori per Sollecito e Carlo Dalla Vedova e Luciano Ghirga per Amanda Knox, che è rimasta negli Stati Uniti e ha seguito il verdetto dalla casa della madre. Con questa sentenza si chiude per il momento (nell'attesa del processo in Cassazione) una vicenda lunga 7 anni. Ecco le tappe che hanno portato a questo verdetto: 

L'omicidio - Nella notte del 1° novembre del 2007 in via della Pergola a Perugia viene assassinata Meredith Kercher, una studentessa inglese di 21 anni. Il giorno successivo il corpo viene scoperto dalla coinquilina Amanda Knox e dal suo fidanzato Raffaele Sollecito, che dopo 4 giorni vengono fermati dalla polizia, finendo sulle prime pagine di tutti i quotidiani. Giacomo Silenzi, fidanzato italiano di Meredith, accusa Amanda di essere insensibile alla vicenda, dal momento che non tradiva la minima emozione all'indomani dell'omicidio. A finire nei guai è anche Patrick Lumumba, proprietario del bar in cui Amanda lavorava ogni tanto, accusato dalla stessa Amanda. Le prove scarcerano poi Lumumba e nello stesso giorno viene accusato Rudy Guede - rintracciato e arrestato in Germania - perché viene trovata sulla scena del crimine l'impronta della sua mano insanguinata. 

Il processo - Il 16 settembre 2008 inizia l'udienza preliminare davanti al gup di Perugia, che dispone di procedere col rito abbreviato per Guede - condannandolo a 30 anni di carcere per omicidio volontario e violenza sessuale - e rinvia a giudizio Amanda e Raffaele. Il loro processo inizierà il 16 gennaio 2009 e a fine anno arriverà la sentenza della Corte di assise di Perugia, che li condanna rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere.

L'appello - Il 18 dicembre 2010 la stessa Corte d'assise riapre il dibattimento del processo per i due ex amanti e dispone una nuova perizia per le tracce genetiche ritrovate sul coltello e sul gancetto del reggiseno trovato nella stanza di Meredith. Sei mesi dopo i periti bocciano il lavoro svolto dalla scientifica definendo gli accertamenti come non attendibili. Il 24 settembre 2011 la procura chiede l'ergastolo per entrambi, ma qualche giorno dopo la sorpresa: arriva l'assoluzione. 

La cassazione - La procura generale e la famiglia della vittima depositano il ricorso in cassazione contro la sentenza di assoluzione e il 25 marzo 2013 la cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado. Questo porta a un "nuovo inizio" del processo. Il pg Alessandro Crini aveva chiesto trent'anni di carcere per Amanda Knox e la riformulazione a 4 anni di reclusione per calunnia ("carattere non estemporaneo della calunnia stessa, e tarata per creare depistaggio") e 26 anni per Raffaele Sollecito. Ora per Amanda e Raffaele è arrivata la nuova condanna. 

Quella di Firenze è una nuova sentenza di una vicenda giudiziaria che dura da sette anni, ovvero da quando Meredith, studentessa inglese di 22 anni, fu trovata senza vita nella camera da letto del suo appartamento di via della Pergola a Perugia.  Knox e Raffaele Sollecito erano stati condannati in primo grado a 26 e 25 anni per l'omicidio e poi assolti in appello nell'ottobre 2011. Ma il 26 marzo dello scorso anno la Corte di Cassazione aveva cancellato l'assoluzione e ordinato un nuovo processo, di cui oggi è arrivata la sentenza. Rudy Guede, il terzo accusato per l'omicidio, è stato condannato con rito abbreviato a 16 anni di carcere per concorso in omicidio e violenza sessuale. Amanda ha atteso il quarto verdetto dagli Stati Uniti, nella sua casa di Seattle. La studentessa americana ha rilasciato un'intervista via Skype al New York Times. "Nulla potrà cancellare l'esperienza di essere stata ingiustamente imprigionata", aveva  detto nelle ore che hanno preceduto la decisione dei giudici della Corte d'Appello di Firenze.

Hanno seguito le indicazioni della Corte di Cassazione e «hanno posto rimedio» come era stato sollecitato il 26 marzo scorso proprio dai supremi giudici, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Perché la sentenza d’appello che assolveva Amanda Knox e Raffaele Sollecito, era stata annullata ritenendo fosse «segnata da molteplici profili di manchevolezza, contraddittorietà ed illogicità». E ieri sera il nuovo collegio presieduto da Alessandro Nencini è addirittura andato oltre le aspettative, aggravando la pena inflitta in primo grado ad Amanda Knox e confermando quella per Raffaele Sollecito. I 28 anni e sei mesi per lei e i 25 per lui dicono che entrambi erano sulla scena del delitto, entrambi hanno partecipato all’omicidio di Meredith Kercher.  La linea tracciata dalla Cassazione ordinando un nuovo processo d’appello era chiara: «Delineare la posizione soggettiva dei concorrenti di Rudy Guede, a fronte del ventaglio di situazioni ipotizzabili, che vanno dall’accordo genetico sull’opzione di morte, alla modifica di un programma che contemplava inizialmente solo il coinvolgimento della giovane inglese in un gioco sessuale non condiviso, alla esclusiva forzatura ad un gioco erotico spinto di gruppo, che andò deflagrando, sfuggendo al controllo». «Concorrenti»: è questa la parola chiave. E infatti il verdetto emesso ieri sera conferma la posizione dominante di Amanda, ma assegna a Raffaele un ruolo da protagonista. Non passa la linea degli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori che avevano chiesto di «separare» i due ragazzi. Non passa la linea di chi ipotizzava per lui una condanna per favoreggiamento. Raffaele, questo dice la Corte, c’era e partecipò attivamente all’assassinio. Erano 14 i punti controversi evidenziati dai supremi giudici. Testimonianze, prove genetiche, ricostruzioni: ogni aspetto era stato rimesso in discussione. E molti dubbi erano stati espressi sulla valutazione delle dichiarazioni di Amanda Knox, la sua confessione e quel memoriale che - meno di una settimana dopo il delitto, quando le indagini della polizia non avevano ancora imboccato alcuna pista - ricostruì che cosa era accaduto nella villetta di via della Pergola indicando in un giovane di colore l’assassino di Mez. Davanti ai poliziotti della squadra mobile di Perugia la giovane di Seattle entrò nei dettagli, disse che Patrick Lumumba voleva avere un rapporto sessuale con la sua amica, che si erano chiusi in camera e poi lei si era tappata le orecchie perché non voleva sentire «ma avevo capito che cosa stava accadendo». Decise anche di scriverlo a mano, in bella grafia su alcuni fogli a righe che poi consegnò agli agenti. Non era Patrick, ma Rudy. E proprio lui, unico ad aver ammesso di essere stato quella sera con Mez pur negando di averla uccisa, ha confermato ogni particolare di quella ricostruzione. Avvalorando l’ipotesi che Amanda abbia accusato uno per coprire l’altro, così sperando di salvare anche se stessa.  Una tesi che la Cassazione aveva in qualche modo confermato affermando: «È vero che si tratta di riflessioni di dubbio significato sostanziale, ma è anche vero che non potevano essere liquidate - come furono - sul presupposto della pressione psicologica a cui fu sottoposta l’autrice e della manipolazione psichica operata, in primis perché lo scritto fu confezionato nella piena solitudine successivamente agli eccessi inquisitori e poi perché proprio quello scritto venne utilizzato dalla stessa corte di secondo grado come base probante del delitto di calunnia, sul presupposto della piena capacità di intendere e volere, tanto da venire la Knox condannata anche sulla base di questo scritto, oltre che sulla base di quanto raccontato ancora una volta in piena autonomia e al riparo da interventi pressanti, alla madre, nel corso di un colloquio con lei». Quanto bastava per evidenziare «una palese contraddittorietà nella valutazione della stessa prova, che mette in discussione la coerenza strutturale della decisione» e invitare «il giudice di rinvio a formulare nuovo giudizio, con maggiore coerenza argomentativa, trattandosi anche in questo caso di un passaggio significativo del discorso giustificativo, afferente la presenza o meno della giovane presso la sua abitazione al momento del fatto». E poi c’è la sentenza che ha condannato Guede a 16 anni di carcere, diventata ormai definitiva, per concorso in omicidio. Su questo la Cassazione era stata lapidaria, specificando come «il dato della presenza di altre persone andava necessariamente correlato con quello sulla disponibilità della casa» dove fu compiuto il delitto e dunque sulla presenza di Amanda. Dna, testimoni, interrogatori: la partita tra accusa e difesa non è conclusa, si giocherà nuovamente tra qualche mese davanti alla Corte di Cassazione. Ma la sentenza di ieri sera sembra aver segnato inesorabilmente il futuro di Amanda e Raffaele.

Dopo sei anni vissuti come una comparsa all’ombra di Amanda, scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”,  Raffaele Sollecito diventa protagonista all’ultima udienza del quarto processo, in un modo semplice, e ben prima della condanna: lei è in America, a Seattle, a casa, e invece lui arriva in aula al mattino coi capelli lunghi e gli occhiali da sole, i lineamenti tesi, «essere qui è la risposta migliore per chi sosteneva che sarei scappato», ringhia, e quando i giudici si ritirano in camera di consiglio, alle dieci e un quarto del mattino, lui si dissolve. E da quel momento, fino a sera, nessuno sa dire con certezza dove sia. «È in camera, comprendetelo - spiegava il padre al mattino nella hall dell’albergo - la tensione è tanta, ha attacchi di panico, forse verrà stasera per la lettura della sentenza, forse no, non so, non è facile». Da quel momento in poi, tutti lo cercano: c’è chi dice sia a Roma, dalla sorella del padre, c’è chi dice sia tornato in Puglia, chi crede sia in un albergo tra la capitale e Bari. Non è in aula quando i giudici rientrano per la sentenza, e alle 10 di sera, oltre alla condanna e al ritiro del passaporto, è l’unica certezza. Del suo stato d’animo, di come ha vissuto le ore che lo separavano dal verdetto, aveva detto al mattino: «È uno stillicidio, mai avrei pensato di arrivare a questo punto, è il quarto grado di giudizio, questa storia va avanti da quasi sette anni». Al mattino Raffaele è con la nuova fidanzata, Greta, una ragazza di Treviso che gli è vicina da un po’: all’avvocato Giulia Bongiorno aveva detto che non sarebbe mai stato presente alla lettura della sentenza, per mesi glielo aveva ripetuto, poi due giorni fa aveva cambiato idea. Invece no. «Siamo a casa di parenti - dice il padre, Francesco Sollecito, a metà pomeriggio - l’attesa era snervante, non potevamo rimanere in hotel». Infatti, nell’albergo dei Sollecito non c’è traccia, né Raffaele né il padre né gli zii, nessuno. Le uniche parole di Raffaele sono del mattino, uscendo dal tribunale: «Non ho niente da aggiungere a quello che ho sempre detto: sono innocente». Ha la pelle chiara, Raffaele, ma mentre sfila via dal Tribunale il colorito pare quello della camicia e del maglione, viola. Stringe la mano a Patrick Lumumba, l’uomo accusato da Amanda di essere l’assassino di Meredith e liberato dopo l’arresto di Guede. È braccato da decine di operatori tv, fotografi, giornalisti: rispetto a sei anni e mezzo fa, all’inizio di questa storia terribile, è cambiato completamente, perfino nei lineamenti, che ora sono più duri, gli zigomi a spigoli, il volto scavato. Ha un giaccone blu che lo fa sembrare massiccio, ha una faccia che lo fa sembrare sfinito. Dribbla i cronisti e sale su un taxi con la fidanzata, direzione albergo, che però è a 300 metri dal tribunale, due minuti a piedi. Invece i due se ne vanno sull’auto bianca: in fuga dai giornalisti e dalle telecamere, certo. Ma è evidente, anche, che questa giornata sia una specie di incubo per lui, un’attesa di dodici ore - tanto dura la camera di consiglio - nella quale, di colpo, tutti vogliono sapere dove sia. Davanti al suo albergo, fin dal mattino, ci sono poliziotti in borghese. Il procuratore generale Alessandro Crini, del resto, aveva chiesto alla corte di disporre, in caso di condanna, una misura cautelare tale da assicurare alla giustizia i due imputati. In quel momento Amanda era (ed è anche ora) in America, Raffaele era in aula: istintivamente s’è voltato verso uno dei suoi legali, Luca Maori, e ha sussurrato una frase impaurita, «e adesso cosa mi succede?». Quella domanda deve essergli girata in testa per tutta la giornata di ieri, per tutta la notte, senza dargli scampo. Ovunque fosse, ovunque andrà.

Ha aspettato il verdetto barricata con la sorella e la madre nella casa di quest’ultima a Seattle, dove studia Scrittura Creativa all’Università di Washington e dove ieri anche l’appartamento nell’International District che condivide con la sua migliore amica Madison Paxton (talvolta col fidanzato James Terrano, chitarrista newyorchese) è stato preso d’assalto da paparazzi e troupe televisive di ben tre nazioni, scrive Alessandra Farkas su “Il Corriere della Sera”. «Amanda è rimasta impietrita ma non ha pianto e non ha parlato» ha rivelato il suo avvocato Carlo Dalla Vedova, che ha avuto l’ingrato compito di comunicare per telefono la sentenza di condanna alla studentessa americana che dopo l’ennesima notte insonne ha preferito spegnere la tv, scegliendo di rimanere aggiornata con gli sms dei suoi legali in aula a Firenze. «Oggi Amanda non concederà interviste», mette in guardia da Seattle il suo pr David Marriott che alle 22 e 25 (ora italiana) invia un messaggio in cui Amanda si dice «impaurita e rattristata da questo ingiusto verdetto», spiegando che «una condanna errata è terribile non solo per chi viene accusato erroneamente ma anche per la vittima, i suoi famigliari e la società». «Sono stanca. Cerco pace», si era sfogata ore prima in uno dei suoi tanti messaggi mentre i siti di mezzo mondo diffondevano le immagini del suo «nuovo, drammatico look»: caschetto corto castano, occhiali e abbigliamento casual, più da secchiona che da biondissima femme fatale Foxy Knoxy di un tempo. In realtà sono mesi che la 26enne, finita su Wikipedia nella top list dei Vip di Seattle, si appellava ai media italiani e americani, forse nel tentativo di influenzare il processo. «Voglio provare la mia innocenza», ha ribadito nell’ultima intervista, concessa mercoledì via skype al New York Times . Nel suo ultimo post sull’account Twitter #amandu_knoxx, lo scorso 13 gennaio, era stata ancora più lapidaria: «Non mi consegnerò volontariamente in mano all’ingiustizia». Anche se in un recente sondaggio Abc-Washington Post il 73% degli americani over-50 continua a crederla innocente (si scende al 56% tra i suoi coetanei) e su Twitter i suoi seguaci hanno fatto quadrato intorno a lei, il suo dramma continua a dividere. «Ho ricevuto minacce di morte», ha confessato al New York Post . «Ogni volta che esco di casa mi guardo alle spalle», ha incalzato, spiegando di avere dovuto apprendere il Krav Maga, tecnica israeliana di autodifesa. Dopo l’uscita di «Waiting To Be Heard», che le è valso quasi 4 milioni di dollari («già tutti spesi per pagare agenti, avvocati, tasse e collaboratori, oltre ai debiti accumulati dalla mia famiglia») Amanda ha lanciato il sito web amandaknox.com dove, oltre a presentarsi come «scrittrice di bestseller del New York Times », si è trasformata in paladina di tutti i «giovani innocenti finiti ingiustamente dietro le sbarre», dall’italiano Chico Forti alla canadese Nyki Kish. Mentre in patria psicologi e sociologi si interrogano sull’effetto che il nuovo verdetto colpevolista avrà sul suo futuro, in una «lettera aperta a mio figlio mai nato» pubblicata sul sito del famoso Today show, Amanda si immagina tra 50 anni, vecchia, rugosa e sdentata in un penitenziario italiano, dove il suo desiderio di maternità è stato soffocato per sempre. «Soffro di disturbo post traumatico», racconta al Post , «Piango molto spesso e non riesco a respirare, muovermi e parlare, non posso leggere, né studiare e voglio solo fuggire dalla vita per raggomitolarmi in un buco senza più uscirne».

Notificato nelle prime ore del mattino dopo il divieto di espatrio a Raffaele Sollecito, scrive “La Repubblica”. Secondo quanto appreso, Sollecito è stato raggiunto da agenti della squadra mobile di Firenze e di Udine a Venzone in un paese tra Udine e Tarvisio,  uno degli ultimi paesini vicino al confine austriaco. Sollecito lo aveva raggiunto nel primo pomeriggio di ieri in attesa della sentenza.  In serata, dopo quasi 12 ore di camera di consiglio, Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati condannati a, rispettivamente, 28 anni e sei mesi e 25 anni per l'omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia nel 2007. Sollecito, sorpreso dalla polizia in albergo, ora si trova negli uffici della Questura del capoluogo friulano per la notifica del provvedimento del divieto di espatrio emesso nei suoi confronti a seguito della sentenza di condanna a 25 anni pronunciata ieri sera nell'appello bis dalla Corte d'Assise di Firenze. Per Amanda, che ha seguito il processo dalla sua casa a Seattle, non è stata disposta nessuna misura cautelare. Amanda  è una cittadina americana che si trova "legittimamente" nel suo Paese dopo una sentenza di assoluzione.  Per Raffaele Sollecito, invece, "è concreto e attuale il pericolo che possa sottrarsi con la fuga dalla giurisdizione italiana" e da qui la decisione della Corte d'Assise d'appello di Firenze di emettere il divieto di espatrio.  Una decisione a due facce che il giovane pugliese ha probabilmente cercato di scongiurare fino in ultimo. Secondo il collegio fiorentino Sollecito "pur non sottraendosi alla partecipazione al giudizio ha evidenziato la disponibilità di supporti logistici in Paesi con cui l'Italia non è legata da rapporti di assistenza giudiziaria". Quali la Corte non li ha citati, ma recentemente il giovane è stato fotografato in vacanza a Santo Domingo o indicato in Svizzera alla ricerca di lavoro. Per Sollecito, quindi, i giudici considerano "concreto e attuale" il pericolo di fuga. L'unico che la Corte ha ritenuto si possa ipotizzare per la richiesta di misura avanzata dal pg per "garantire l'esecuzione della sentenza". Di qui il divieto di espatrio. Il giovane non potrà quindi uscire dall'Italia "senza autorizzazione del giudice" di Firenze. Gli verrà ritirato il passaporto ma il suo nome è già nella banca dati nella quale sono inseriti i nominativi di coloro che non possono espatriare. "Amanda è sconvolta. Tutti noi siamo sconvolti e scioccati, ma siamo anche pronti a combattere". Così la madre di Amanda Knox, Edda Mellas, nella sua prima intervista alla Abc dopo la sentenza di condanna da parte della Corte d'Appello di Firenze. "Tutti in famiglia, anche nella nostra famiglia allargata, siamo pronti a continuare a lottare per la verità e per la sua libertà, e nessuno di noi - conclude la madre di Amanda - ha intenzione di mollare".

Sollecito fermato al confine con l’Austria. Il padre: Amanda non tornerà in Italia. La polizia lo ha rintracciato ieri sera a Tarvisio: «Voleva varcare il confine». La polizia gli ha ritirato il passaporto. Lui: adesso la mia battaglia continua, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. La fuga di Raffaele Sollecito accompagnato da Greta, la sua fidanzata, è durata quasi un giorno e si è conclusa stamani all’alba nell’hotel Carnia, di Venzone, in Friuli. Quando gli uomini della Mobile di Firenze gli hanno notificato il divieto di espatrio e il ritiro del passaporto e dei documenti utili all’espatrio. Gli uomini della Mobile nelle prossime ore porteranno una informativa alla procura generale che dovrà valutare se chiedere alla Corte d’assise d’appello che ha giudicato Amanda e Raffaele, una misura cautelare di custodia in carcere. Nella ricostruzione delle ore concitate che hanno preceduto la sentenza emessa l’altra notte, Raffaele ha abbandonato l’aula del Tribunale intorno a mezzogiorno. Un’ora dopo era già in macchina della fidanzata. Hanno pranzato a Venezia, nelle prime ore del pomeriggio in Friuli. Naturalmente Raffaele veniva costantemente «monitorato» a distanza. Il problema per gli investigatori era quello di aspettare la decisione della Corte d’assise d’appello. Intorno a mezzanotte la misura interdittiva del divieto di espatrio e del ritiro del passaporto è stata consegnata agli uomini della Mobile. «Non ha avuto alcuna reazione». Chi gli ha notificato il provvedimento nega che Raffaele abbia avuto una reazione». Ora Sollecito è trattenuto in questura, a Udine. Per pratiche burocratiche. I l suo nome è già nella banca dati nella quale sono inseriti i nominativi di coloro che non possono espatriare. «Avvocato, io sono innocente. La battaglia va avanti»: a dirlo è stato stamani il ragazzo ad uno dei suo difensori, l’avvocato Luca Mauri con il quale si è sentito al telefono dopo la notifica del divieto di espatrio.  I genitori di Amanda, intanto, hanno annunciato che non tornerà in Italia per scontare i 28 anni e sei mesi a cui è stata condannata. Lo assicura, all’indomani della sentenza della Corte d’assise d’appello di Firenze, il padre Curt. «Se si usa il buon senso, se si guardano le prove...no, non ci aspettavamo (questa sentenza), assolutamente no», ha detto all’Abc. 

Ritirato il passaporto a Sollecito. Era a 30 km dal confine con l'Austria. Il giovane pugliese: "Avvocato, sono innocente. La battaglia va avanti". La polizia gli ha notificato il divieto di espatrio a 30 km dal confine, scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. Ieri sera i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Firenze hanno ribaltato la sentenza di assoluzione per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, condannando la prima a 28 anni, il secondo a 25, per la morte di Meredith Kercher. Al giovane pugliese, svegliato all’alba dalla polizia in un albergo della provincia di Udine, è stato notificato il divieto di espatrio e gli è stato ritirato il passaporto. Nei suoi confronti, inoltre, è stato disposto anche il divieto di lasciare l’Italia. Sollecito è stato fermato dalla polizia in un albergo di Venzone, a una trentina di chilometri dal confine con l'Austria. Ieri sera aveva raggiunto la fidanzata dopo aver partecipato ieri mattina alla prima parte dell’udienza fiorentina. "Avvocato, io sono innocente. La battaglia va avanti": Sollecito lo ha detto a uno dei suo difensori, l’avvocato Luca Mauri, con il quale si è sentito al telefono dopo la notifica del divieto di espatrio. La Knox, che ha commentato la nuova sentenza come "ingiusta", potrà rimanere negli Stati Uniti in attesa del ricorso in Cassazione e di una sentenza definitiva. I familiari di Meredith Kercher hanno annunciato per oggi una conferenza stampa. All’incontro parteciperanno il fratello e la sorella di Meredith, Lyle e Stephanie, ed il loro legale Francesco Maresca. Il legale di Sollecito, Giulia Bongiorno, ha riferito alla stampa che ha sentito il suo assistito per telefono. È "incredulo" ha detto la Buongiorno. La reazione negli Stati Uniti. Se da una parte i principali giornali americani riportano la notizia della condanna senza prendere una posizione netta (almeno nelle prime ore e a parte un titolo sibilino di Cnn, "Colpevole, ancora"), sui social network americani esplode la polemica. In centinaia di migliaia hanno difeso Knox su Twitter e su Facebook criticando il sistema giudiziario italiano. "Vergogna è innocente, sistema italiano non funziona", scrive AdamB. E ancora "Il sistema giudiziario italiano? Amanda Knox ha mai sentito parlare di Berlusconi?", scrive Jasmine Merryweather. "Il noto sistema giudiziario a canguro ha tirato un’altra volta uno scherzo. Richiamate il mostro di Firenze", scrive Kataisa. Come funziona l'estradizione con gli Usa. Quasi sicuramente il ministero della Giustizia italiano non richiederà l'estradizione per la Knox prima che il verdetto venga confermato dalla Cassazione. Se la condanna dovesse essere confermata, inizierebbe un lungo processo legale. La decisione finale spetterebbe al dipartimento di Stato e, in seconda istanza, al dipartimento Giustizia. L'accordo sull'estradizione tra Italia e Stati Uniti prevede questo: affinché una persona venga estradata deve aver commesso una violazione considerata un reato in entrambi i Paesi e per la quale la legge prevede una pena superiore a un anno di carcere. Il dipartimento di Stato Usa valuterà se ci siano motivazioni sufficienti per chiedere il trasferimento della 26enne. Se il dipartimento di Stato lo ritiene opportuno, trasferirà il caso al dipartimento della Giustizia, che rappresenterà gli interessi del governo italiano ordinando l'arresto della Knox e conducendola davanti a una Corte distrettuale Usa. I tribunali americani hanno una capacità limitata di valutare richieste di estradizione in Paesi stranieri e il loro compito è piuttosto quello di garantire che la richiesta rispetti i requisiti di base. "I tribunali americani non danno giudizi sui sistemi legali di altri Paesi", ha spiegato l'ex procuratrice federale Usa Mary Fan, che insegna diritto all'Università di Washington a Seattle.

Processo Meredith, Lele e Amanda condannati ma liberi. La giustizia cambia ancora idea dopo il quinto processo: 28 anni a lei, 25 a lui. Ma niente arresto. Per Sollecito divieto d'espatrio, scrive Massimiliano Mugnaini su “Il Giornale”. Colpevoli. Allo stesso modo. Sei anni, due mesi e 29 giorni dopo quella maledetta notte del 1 novembre 2007, il giallo di Perugia è risolto. Almeno per la giustizia italiana, Amanda Knox e Raffaele Sollecito hanno aiutato l'ivoriano Rudy Guede - già in carcere - ad uccidere Meredith Kercher. L'ex studentessa americana è stata condannata a 28 anni e sei mesi di carcere, l'ingegnere pugliese a 25, con il divieto di espatrio e il ritiro del passaporto. Accolte in pieno dunque, in pratica, le richieste dell'accusa (30 e 26 anni di reclusione): la differenza di pena è determinata solo dalla condanna Ad Amanda per calunnia contro Patrick Lumumba, il musicista che aveva accusato ma poi risultato estraneo all'indagine. Cancellata dunque l'assoluzione in secondo grado: per Amanda e Raffaele ricomincia il calvario. Ci sono voluti quattro processi, varie sentenze ribaltate, una lunga serie di interrogatori, perizie e controperizie: il verdetto è arrivato alle 21,55 di ieri, mentre all'esterno del Palazzo di Giustizia di Firenze diluviava. Iniziata alle 10,15, la camera di consiglio è durata più del previsto, oltre 11 ore: evidentemente non c'era accordo neppure tra i 12 giudici. Sentenza attesa per le 17, poi si sono susseguiti vari annunci di slittamento. Un'attesa davvero spasmodica ma quando il presidente della Corte d'Assise d'appello del tribunale toscano, Alessandro Nencini, è rientrato in aula per leggere il dispositivo ha trovato ad attenderlo uno stuolo di giornalisti, avvocati e di gente comune. Non c'erano invece loro. Né Amanda - rimasta negli Usa per tutto il processo - né, a sorpresa, Raffaele. Accompagnato dal padre Francesco, il giovane ingegnere pugliese era stato tra i primi a presentarsi ieri mattina. Elegante nel suo cappotto blu e maglioncino viola, Raffaele era sembrato abbastanza tranquillo, quasi baldanzoso. Poi però in tribunale non si è più visto: è tornato in albergo, a pochi passi dal Palazzo di Giustizia, ma non si è ripresentato in aula al momento della lettura della sentenza come aveva assicurato anche in mattinata. Amanda Knox invece non ha mai messo piede in Toscana. Ha atteso la sentenza a Seattle, sempre on line ma anche «attaccata» al telefono coi propri avvocati. Anche ieri, prima del verdetto, i legali hanno chiesto in aula che venisse assolta per mancanza di prove. Raccontando di una Knox agitatissima e tutt'altro che intenzionata a tornare in Italia, sempre vista come un Paese ostile, come ha spiegato ieri in un'intervista al New York Times in cui ha ribadito per l'ennesima volta di essere diversa da come è stata dipinta. In giornata sono sbarcati a Firenze i familiari di Meredith Kercher che dopo la sentenza hanno commentato: «Non festeggiamo». La sorella Stephanie aveva anticipato come la famiglia fosse pronta ad accettare qualsiasi decisione, pur ritenendo «irricevibile» una lettera scritta da Amanda, ovviamente prima di venire a conoscenza del verdetto che lei ha seguito in tribunale. Amanda non avrebbe tradito emozioni durante la lettura delle sentenza, ma più tardi alla Abc ha detto di «essere rattristata e spaventata da un verdetto ingiusto». «Solo un passaggio doloroso», ha commentato il suo avvocato Giulia Bongiorno, preannunciando ricorso in Cassazione. In aula a Firenze c'era anche Patrick Lumumba, il musicista coinvolto nell'indagine sull'omicidio di Meredith per le dichiarazioni di Amanda, poi risultato estraneo al delitto. Lui ha avuto parole positive per Sollecito cui in mattinata aveva stretto la mano, accusando la Knox per la sua assenza. «Scappa: se non ha fatto niente doveva essere qua. Mi aspetto che sia condannata, lei è un lupo travestito da agnello». I giudici hanno dato credito a questa tesi e a quella secondo cui il movente dell'omicidio di Amanda non fu un gioco erotico finito male. Hanno creduto che quella sera, nella casa di via della Pergola, esplosero conflitti irrisolti tra Amanda e Meredith sulla pulizia dell'appartamento. E che Sollecito e Amanda avrebbero preso le difese di Rudy Guede aiutandolo ad uccidere Meredith.

Colpevoli per l’omicidio di Meredith: la sentenza su Amanda Knox e Raffaele Sollecito, scrive Maddalena Balacco su “Giornalettismo”. Si chiude anche l'appello Bis di Firenze, i due dichiarati colpevoli: la corte ha inoltre imposto il divieto di espatrio per Raffaele Sollecito e nessuna misura cautelare per Amanda Knox. Condannati a 25 e 28 anniLa sentenza su Amanda Knox e Raffaele Sollecito è infine arrivata. Amanda Knox è stata condannata a 28 anni e sei mesi e Raffaele Sollecito a 25 per l’omicidio di Meredith Kercher. E ‘la Sentenza della Corte d’appello di Firenze. La corte ha inoltre imposto il divieto di espatrio per Raffaele Sollecito e nessuna misura cautelare per Amanda Knox.  Impassibili i familiari di Meredith Kercher alla lettura della Sentenza di condanna. Hanno stretto le mani ai loro legali e hanno scambiato qualche parola con il pg.  Amanda Knox è rimasta ”impietrita” appena saputa la sentenza di condanna, ma non ha pianto e non ha parlato. Così uno dei suoi legali, Carlo Dalla Vedova, che ha comunicato, via telefono alla studentessa americana che è a casa della madre, la decisione della corte d’appello di Firenze.  ”Essendo stata in passato giudicata innocente, mi aspettavo di meglio dal sistema giudiziario italiano. Contro di me un apparato accusatorio inesistente”. Così Amanda Knox commenta, in una nota, la condanna dalla Corte d’Appello di Firenze. ”La mia famiglia ed io – sottolinea Amanda in una nota – abbiamo sofferto molto da questa persecuzione ingiusta. Quindi ha attaccato il sistema giudiziario italiano, osservando che è stata vittima di ”indagini grette e piene di pregiudizi, della riluttanza ad ammettere errori”. Contro di lei, secondo Amanda s’è ricorso a ”testimonianze inattendibili e un apparato accusatorio e probatorio inconsistente e infondato”. “Impugneremo la sentenza”. Così Giulia Buongiorno, legale di Raffaele Sollecito, al termine della sentenza. Un processo “vuoto di prove e di indizi. Lo abbiamo dimostrato. Questo è solo un passaggio”. Intanto la notizia fa il giro del mondo. Rispetto alla sentenza di condanna di primo grado emessa nel dicembre 2009 dalla Corte di primo grado di Perugia, i giudici d’appello di Firenze hanno aumentato di due anni e sei mesi la pena inflitta ad Amanda Knox perché hanno ritenuto aggravato il reato di calunnia commesso dalla ragazza americana nei riguardi di Patrik Lumumba. A poche ore dal verdetto della Corte d’Assise d’Appello di Firenze per l’omicidio di Meredith Kercher, Amanda Knox racconta in un’intervista via Skype pubblicata dal New York Times le sue sensazioni. “Nulla potrà cancellare l’esperienza di essere stata ingiustamente imprigionata”, afferma la giovane di Seattle. Amanda è stata descritta come una persona diabolica, scrive il giornale: “Ma io non sono così, sono diversa da come mi hanno dipinta”, afferma. La studentessa americana spiega perché ha deciso di non essere in aula per la sentenza, a differenza del suo ex fidanzato Raffaele Sollecito: “Mi sarei messa nelle mani di persone che hanno dimostrato chiaramente di volermi in carcere per qualcosa che non ho fatto – racconta – E io non posso farlo. Proprio non posso”. “Le persone che mi accusano – conclude – sostengono che non può essere fatta giustizia per Meredith sino a che io non verrò condannata”. Meredith Kercher venne uccisa a Perugia la sera del primo novembre del 2007 e la vicenda giudiziaria legata al delitto è una delle piu’ controverse degli ultimi anni. Queste le tappe del giallo.

AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO, LA STORIA DEL CASO: Ecco la cronistoria, riportata dall’Ansa:

1 NOV 2007 – Meredith, studentessa inglese di 22 anni, in Italia per Erasmus, viene uccisa con una coltellata alla gola nel proprio appartamento. Il corpo viene trovato il giorno dopo in camera da letto, coperto da un piumone. A occuparsi delle indagini è la polizia con la squadra mobile del capoluogo umbro e il Servizio centrale operativo.
6 NOV – In carcere finiscono Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Patrick Lumumba Diya. Amanda, americana, di Seattle, all’epoca ventenne, è la coinquilina di Meredith e studia all’Universita’ per stranieri di Perugia. Sollecito, 24 anni, pugliese, laureando in ingegneria, ha da un paio di settimane una storia con Amanda. Lumumba, 38 anni, originario dell’ex Zaire, dal 1988 vive in Umbria dove gestisce un pub in cui lavorava Amanda. Tutti e tre si dichiarano estranei all’omicidio. Contro Patrick ci sono le dichiarazioni di Amanda, ma lui sostiene che si trovava nel suo locale.
9 NOV – Il gip convalida i fermi.

SOLLECITO KNOX, LE PRIME TRACCE: 15 NOV – Tracce del dna di Meredith e Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito.

20 NOV – Patrick Lumumba viene rimesso in libertà dopo che dalle indagini è emersa la sua estraneità al delitto. Nello stesso giorno viene arrestato Rudy Guede, ivoriano di 21 anni, bloccato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori palmari hanno individuato l’impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere della studentessa inglese e a diverse tracce di Dna in casa.

6 DIC – Rudy è trasferito in Italia.

27 MAG 2008 – Il gip Claudia Matteini, su richiesta della procura, archivia il procedimento penale nei confronti di Patrick Lumumba.

19 GIU – I pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l’atto di chiusura indagini. Per loro Meredith Kercher fu uccisa da Amanda, Raffaele e Rudy per futili motivi.

16 SET – Il gup Paolo Micheli accoglie la richiesta di rito abbreviato per Guede.

18 OTT – I pm chiedono al gup di Perugia la condanna all’ergastolo per Guede e il rinvio a giudizio per Sollecito e la Knox.

AMANDA, RAFFAELE E RUDY, LE PRIME CONDANNE - 28 OTT – Il Gup condanna a 30 anni di reclusione Rudy e dispone il processo per Amanda e Raffaele.

18 GEN 2009 – Inizia il dibattimento per Sollecito e per la Knox.

18 NOV – Si apre davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Perugia il processo d’appello nei confronti di Rudy Guede.
5 DIC – La corte d’Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna Amanda a 26 anni di carcere e Raffaele a 25.

22 DIC – La corte d’Assise d’Appello riduce da 30 a 16 anni la pena inflitta a Rudy. Concesse le attenuanti generiche.

4 MAR 2010 – Depositate le motivazioni della sentenza di primo grado nei confronti di Amanda e Raffaele. Hanno ucciso spinti da un movente ”erotico, sessuale, violento”.

22 MAR – Depositate anche le motivazioni sulla condanna a Rudy Guede: ”concorse pienamente”, scrivono i giudici della Corte d’Assise d’Appello, all’omicidio di Meredith. 24 NOV – Si apre il processo d’appello per Amanda e Raffaele.

16 DIC – La Cassazione conferma la condanna a 16 anni per Rudy Guede. La pena diventa così definitiva.

18 DIC – La Corte d’assise d’Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello considerato l’arma del delitto e sul gancetto del reggiseno di Mez. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della corte, ”non sono attendibili”.

4 OTT 2011 – La corte d’Assise d’appello assolve i due imputati dall’omicidio ”per non avere commesso il fatto” e ne dispone la scarcerazione. Il pg ne aveva chiesto l’ergastolo. 15 DIC 2011 – Depositate le motivazioni. Secondo i giudici di secondo grado i ”mattoni” su cui si e’ basata la condanna ”sono venuti meno”: c’e’ una ”insussistenza materiale” degli indizi, dalle tracce di Dna all’arma del delitto. E l’ordinamento ”non tollera la condanna dell’innocente”.

25 MAR 2013 – Il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l’annullamento della sentenza di assoluzione, definita un  “raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità”.

26 MAR 2013 – La Suprema corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d’appello di Firenze per un nuovo processo.

30 SET 2013 – A Firenze si apre il nuovo processo di appello. Amanda è negli Stati Uniti, Raffaele non è in aula.

6 NOV – Sollecito rilascia dichiarazioni spontanee: “Sento nei miei confronti una persecuzione allucinante, senza senso”.

26 NOV – Il pg Alessandro Crini chiede condanne a 30 anni per Amanda Knox (compresi i tre già definitivi per la calunnia a Lumumba) e 26 per Raffaele Sollecito. Secondo il pg il movente non è un gioco erotico finito male ma una lite legata anche a vecchie ruggini fra Amanda e Meredith per le pulizie di casa.
17 DIC – Amanda invia una lettera alla Corte:  “Non sono presente in aula perché ho paura. Ho paura che la veemenza dell’accusa vi impressionerà”.

20 GEN 2014– Il pg Alessandro Crini chiede ”l’applicazione di una misura cautelare” nei confronti di Amanda Knox e Raffaele Sollecito in caso di condanna.

AMANDA, RAFFAELE E I PROTAGONISTI - Questi i protagonisti della vicenda processuale relativa all’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia la sera dell’1 novembre 2007.

Meredith SUSANNA CARA KERCHER – Era nata il 28 dicembre 1985 a Londra. In Inghilterra aveva frequentato l’Università di Leeds. Giunta a Perugia circa un mese prima del suo omicidio grazie al programma Erasmus, all’Università del capoluogo umbro studiava storia del cinema, letteratura inglese e lingua francese. La sua salma riposa ora in un cimitero alle porte di Londra dove vive la famiglia.

AMANDA KNOX - Nata a Seattle il 9 luglio del 1987 è cresciuta nella città americana dove seguiva un corso di lingua e letteratura creativa nella locale Università per stranieri. Appassionata di yoga e calcio, a Perugia viveva nella casa di via della Pergola insieme a Meredith e a due coinquiline italiane. Nel capoluogo umbro frequentava un corso di scrittura creativa. Durante il processo di primo grado, al termine del quale è stata condannata a 26 anni di reclusione, ha mostrato in aula maglie dedicata ai Beatles dei quali è appassionata. Nel giudizio di secondo grado, conclusosi con l’assoluzione, è invece apparsa sempre tesa. Vive a Seattle dove è tornata appena scarcerata.

RAFFAELE SOLLECITO - Nato a Bari il 26 marzo del 1984 è l’ex fidanzato della Knox che ha conosciuto a un concerto di musica classica. Nel 2003 si è iscritto all’Ateneo perugino laureandosi in informatica in carcere dopo il suo arresto. Sta seguendo ora il corso di specialistica in realtà virtuale all’Università di Verona e si laureerà alla fine di marzo. I giudici della corte d’assise l’hanno condannato a 25 anni di carcere. Anche lui è stato assolto in appello. Lo scorso settembre ha pubblicato negli Usa il libro ”Honor bound” in cui racconta la sua versione dei fatti.

RUDY GUEDE - Originario di Agou, in Costa d’Avorio, dove é  nato il 26 dicembre del 1986 è arrivato in Italia all’età di sei anni. Arrestato in Germania dopo l’omicidio è stato processato con il rito abbreviato e condannato definitivamente a 16 anni di carcere che sta scontando a Viterbo, dove studia.

PATRICK LUMUMBA - Nato a Kindu, in Congo, il 5 maggio del 1969, è giunto in Italia all’età di 15 anni lavorando inizialmente nel settore della produzione di abbigliamento. Musicista, ha a lungo gestito un pub, chiuso dopo il suo coinvolgimento nell’inchiesta sull’omicidio Kercher. Venne arrestato in seguito alle dichiarazioni di Amanda e passò  circa due settimane in carcere prima di essere riconosciuto estraneo alla vicenda e prosciolto. La Knox è stata condannata a tre anni, già scontati, per calunnia nei suoi confronti.

Una verità in fondo al pasticcio, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Sei anni e mezzo di processi avvitati sugli errori dell'inchiesta. E ancora una camera di consiglio che si trasforma in un bivacco fino oltre l'ora di cena. È il solito pasticcio all'italiana, sia detto senza ironia verso i giudici costretti a mettere toppe e pezze su un vestito comunque sformato. Amanda e Raffaele sono quasi colpevoli, ma fino a ieri quasi innocenti e chissà che altro succederà nel pendolo impazzito delle sentenze. Ad incastrare lui c'è, per i giudici dell'appello bis, il famoso gancetto del reggiseno, che però fu repertato 46 giorni dopo il primo sopralluogo e infatti non aveva convinto la corte di Perugia. E Amanda? Qui c'è in ballo il coltello da cucina con tracce della vittima sulla lama e dell'americana sul manico. Tutto chiaro? Neanche per idea, perché pure quelle prove sarebbero contaminate. Intanto, la solita giustizia a doppio taglio ha condannato in via definitiva Rudy Guede per «concorso in omicidio». Con Amanda e Raffaele? Forse sì, forse no. Ora più sì che no, ma non è detto che i colpi di scena siano terminati. Aspettiamo le motivazioni e incrociamo le dita. Sembra di stare in un girotondo che si presta a tutte le soluzioni. Come tanti altri gialli italiani che hanno inquietato l'opinione pubblica ma, purtroppo, senza un finale consolatorio o con una conclusione ancora oltre l'orizzonte: basta citare la tragedia di Garlasco, con Alberto Stasi imputato unico ad un passo dall'innocenza e ora di nuovo a rischio condanna, o il dramma infinito di Yara, il caso di nera più nera della nostra storia recente, una successione interminabile di errori, incertezze e balbettii dell'intero apparato investigativo. Ma purtroppo la Spoon River delle croci che aspettano un verdetto è lunga e molte lapidi sono ormai sbiadite e fuori dai radar della nostra memoria: nessuno si ricorda più, ad esempio, di Serena Mollicone e dell'incredibile guazzabuglio giudiziario seguito a quell'atroce omicidio. Con tanto di mostro sbagliato, Carmine Belli, il carrozziere di Arce, sventolato davanti a tv e giornali nell'ormai lontano febbraio 2003, salvo poi riabilitarlo nell'imbarazzo generale; esattamente come è accaduto nella vicenda di Meredith Kercher, con l'arresto dell'incolpevole Patrick Lumumba, peraltro sulla base delle dichiarazioni di Amanda. Circostanza che non può non suscitare foschi retropensieri. E che rende più sensata la condanna rispetto alla precedente assoluzione, ma non cancella i punti ti di domanda. Così, fra sbandate e passi falsi, il cittadino medio si convince che la giustizia sia una sorta di lotteria, o peggio, una sorta di quiz. E dove alla fine dilaga la dietrologia che tutto abbraccia e nulla spiega. Burattinai, trame oscure, 007 deviati per definizione, collegamenti cervellotici con altri misteri italiani fino a scoprire, vedi l'Olgiata, che l'assassino della contessa Alberica Filo della Torre era il maggiordomo. E che le prove, addirittura le intercettazioni, c'erano ma rigorosamente chiuse in un cassetto. Contrappasso beffardo per un Paese che ogni giorno svela in tempo quasi reale squarci di conversazioni. Le sentenze, quando arrivano, sono comunque in ritardo. E si resta basiti nel leggere quel che Stephanie Kercher, sorella di Meredith, ha dichiarato al Corriere della sera: «In America e in Gran Bretagna molti pensano che la famiglia Kercher vuole portare avanti questo giudizio infinito verso i due imputati». Come se si trattasse di una vendetta personale e non di una vergogna corale. Ora i Kercher hanno almeno un punto fermo. In attesa del nuovo round, l'ultimo?, in Cassazione.

Omicidio Meredith: Amanda e Raffaele condannati. La corte d'Assise d'Appello di Firenze ha deciso: 28 anni ad Amanda, 25 a Raffaele scrive Nadia Francalacci  su “Panorama”. Dopo 11 ore di camera di Consiglio i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Firenze hanno condannato Amanda Konx a 28 anni e sei mesi  di carcere e Raffaele Sollecito a 25 anni per l'omicidio di Meredith Kercher. Una sentenza che accoglie la tesi della Cassazione, che aveva respinto la condanna d'Appello della corte di Perugia di assoluzione per i due giovani che si sono sempre detti innocenti. Nessuno dei due imputati era in aula. Amanda si trova dal giorno dopo la sentenza di assoluzione nella sua casa a Seattle. Raffaele Sollecito invece dopo aver sostenuto la sua innocenza in tutte le fasi del processo ha preferito attendere la sentenza lontano dall'aula e dalle decine di telecamere e giornalisti che hanno affollato l'aula. Ma la battaglia legale non è ancora finita. E' certo infatti che i due condannati faranno a loro volta ricorso in Cassazione. "E' stata una bella botta, faremo ricorso, Amanda è  innocente". Così ha commentato uno dei difensori di Amanda Knox, Luciano Virga, alla lettura della sentenza. La parola fine quindi a questo processo non è stata ancora scritta e non mancheranno le polemiche. Certo, sono già in molti a chiedersi come si comporterà il nostro paese e soprattutto come si comporteranno gli Stati Uniti in caso di richiesta di estradizione per Amanda. Soddisfatti i familiari della vittima. Il fratello e la sorella di Meredith, presenti in aula, sono apparsi sorridenti dopo la lettura della sentenza. In primo grado, a Perugia, Amanda venne condannata a 26 anni e Raffaele a 25. In Appello vennero assolti. La Cassazione ha poi annullato quella seconda sentenza ordinando un nuovo appello, quello in corso a Firenze. La Corte di Cassazione ha deciso: il processo d'appello per l'omicidio di Amanda Kercher nel corso del quale sono stati assolti Raffaele Sollecito ed Amanda Knox, è stato annullato e quindi deve ricominciare da capo. Una decisione a sorpresa che riapre uno dei fatti di cronaca più intricati degli ultimi anni, cominciato la notte del 1 novembre del 2007 con l'omicidio della giovane inglese. Meredith Susanna Cara Kercher era nata il 28 dicembre 1985 a Southwark, Londra ed era  residente a Croydon, Londra. Studentessa presso l'Università di Leeds dove frequentava un corso di laurea in Studi Europei, aveva aderito al programma Erasmus e per questo motivo era giunta in Italia, a Perugia, nel settembre 2007 per completare proprio il corso di laurea in "European Studies”.

1 novembre 2007: Meredith venne ritrovata priva di vita con la gola tagliata nella sua camera da letto, nella casa che condivideva con altri studenti. La causa della morte fu un'emorragia dovuta alla perdita di sangue da una ferita al collo, provocata da un oggetto acuminato usato come arma. La mattina seguente un'anziana signora, residente nelle vicinanze dell'abitazione di viale Sant'Antonio in cui è stato ritrovato il cadavere di Meredith, chiama la polizia, insospettita dal ritrovamento di due cellulari abbandonati all'interno della sua proprietà. Le informazioni ricavate da uno dei due cellulari indirizzano gli agenti della Polizia Postale di Perugia verso la casa di Meredith Kercher. Al loro arrivo i poliziotti trovano fuori della casa Amanda Knox, coinquilina di Meredith Kercher, e il suo amico italiano, Raffaele Sollecito, con il quale aveva di recente iniziato una relazione. I due giovani dichiarano di essere in attesa dell'arrivo dei carabinieri, da loro chiamati perché, avendo trovato il vetro di una finestra rotto e la porta di casa aperta, avevano sospettato un furto. Il corpo di Meredith è stato sepolto nel piccolo cimitero di Croydon, alla periferia sud di Londra.

IL PROCESSO: secondo la Knox e Sollecito, la sera dell’omicidio hanno appuntamento in piazza Grimana con Guede, conoscente della Knox, il quale decide di unirsi a loro per la serata. I tre si recano nella casa della studentessa, dove la sua coinquilina Meredith Kercher, dopo una serata trascorsa con delle amiche britanniche, era da poco rientrata. La Knox e Sollecito si scambiano effusioni intime e tenerezze, mentre Guede si trova in bagno, come riscontrato in sede di indagini. Guede, probabilmente eccitato dalle effusioni tra Sollecito e la Knox, sarebbe entrato nella camera della Kercher per tentare un approccio, ma, di fronte al suo rifiuto, avrebbe assunto atteggiamenti violenti fino a tentare di violentarla. Alle grida della Kercher, Knox e Sollecito si sarebbero uniti a Guede nell'azione criminosa, in quella che avrebbero trovato una "situazione eccitante", tentando così di immobilizzarla con la minaccia di un coltello. La perizia sulle ferite inferte evidenzia che l'arma in possesso di Sollecito era verosimilmente piccola, mentre la Knox impugnava un coltello da cucina, successivamente ritrovato, sul quale sono state trovate le sue tracce genetiche insieme a quelle della Kercher. Questa perizia, però, è stata "neutralizzata" da ulteriori perizie, effettuate per il processo di secondo grado, che hanno dimostrato come su quel coltello da cucina non ci sia mai stato il DNA della Knox né si possa considerare l'arma del delitto. La situazione sarebbe degenerata per il persistere della resistenza della Kercher. La Knox con il coltello da cucina avrebbe colpito al collo la vittima arrecandole ferite mortali, seppure il decesso sia avvenuto dopo una lunga ed atroce agonia. I tre imputati, subito dopo l'omicidio, le avrebbero sottratto i telefoni cellulari, per timore di generare allarme da parte di qualcuno che la chiamasse senza avere risposta. I tre si sarebbero diretti in direzioni diverse, Guede in una discoteca, la Knox e Sollecito a casa di quest'ultimo. La mattina seguente i due avrebbero tentato di cancellare le tracce del delitto e poi avrebbero rotto una finestra dell'abitazione per inscenare un finto furto per depistare le indagini.

Nel marzo 2010 attraverso i media si diffonde la notizia su una presunta confidenza che, secondo il racconto, Guede avrebbe proposto alla Kercher di partecipare ad un festino erotico, ma al rifiuto di lei sarebbe seguito un tentativo di stupro da parte di un misterioso uomo, degenerato con una ferita mortale con arma da taglio. Guede avrebbe tentato di soccorrere la ragazza ma l'altro, minacciandolo, gli avrebbe intimato di uccidere la ragazza, ciò che egli avrebbe poi fatto.

16 dicembre 2010: la Prima Sezione penale condanna Rudy Guede. Per gli altri due imputati, si è richiesto il processo d'appello. Le sentenze ricostruiscono dettagliatamente le modalità e le circostanze dell'omicidio, definito a movente "erotico sessuale violento".

I tre condannati nella sentenza di primo grado:

- 25 anni di carcere a  Raffaele Sollecito, nato il 26 marzo 1984 a Giovinazzo, Bari, studente universitario di 23 anni all'epoca dell'omicidio.

- 26 anni di carcere a Amanda Knox nata il 9 luglio 1987 a Seattle (Usa) studentessa ventenne che con Sollecito aveva una relazione al momento del delitto.

- 16 ani di carcere a Rudy Hermann Guede nato il 26 dicembre 1986 in Costa d’Avorio.

Poi, solo un anno dopo la condanna di primo grado, l'assoluzione in appello di Amanda Knox e Raffaele Sollecito.

- 3 ottobre 2011, alle ore 21:43, la Corte di Assise di Appello di Perugia, presieduta da Claudio Pratillo Hellmann, dopo aver disposto la parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato Amanda Knox a 3 anni di reclusione per il reato di calunnia, già scontati dall'imputata, ma ha assolto con la formula di non aver commesso il fatto entrambi gli imputati dalle accuse di omicidio e di violenza sessuale, e per insussistenza del fatto dall'accusa di simulazione di reato, e ne ha ordinato conseguentemente la scarcerazione immediata.

- 4 ottobre 2011 alle ore 11:45 : Amanda Knox lascia l'Italia diretta a Seattle  facendo scalo proprio nel Regno Unito, nella sala riservata alle alte personalità, per motivi di sicurezza, dell'aeroporto internazionale di Heathrow. Lo stesso giorno, prima della partenza, la Knox ha scritto una lettera al segretario generale della Fondazione Italia USA, Corrado Maria Daclon, nella quale ringrazia pubblicamente gli italiani che le sono stati vicini.

Il secondo processo ad Amanda Knox per calunnia.

- 15 novembre 2011: Amanda Knox è stata anche rinviata a giudizio, in prima udienza, per calunnia nei confronti di alcuni poliziotti della Questura di Perugia e una interprete. La Knox ha accusato in più circostanze, anche durante il dibattimento in primo grado, di aver subito percosse dalla Polizia durante l'interrogatorio che ha preceduto il suo arresto. I magistrati non hanno trovato riscontro per tali affermazioni e hanno chiesto ed ottenuto un nuovo processo per la cittadina americana con l'accusa di calunnia, reato per il quale rischia una condanna da due a sei anni di carcere.

- 14 febbraio 2012:  Il Procuratore Generale di Perugia, Giovanni Galati, in occasione del deposito del ricorso ha affermato che la sentenza di assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito "è una sentenza da cassare e che deve essere annullata". Per il Procuratore generale, infatti, si tratta di una sentenza con "tantissime omissioni" ed "errori".

Galati ha quindi parlato di "inconsistenza delle motivazioni" della sentenza di II grado.

- 26 marzo 2013: la Corte di Cassazione annulla il processo d'Appello che quindi deve essere rifatto; la sede scelta sarà quella di Firenze.

Perché Meredith e Raffaele sono innocenti. La tesi di Elena Colombo, giornalista di Quarto Grado che ha seguito il processo sin dalle sue prime battute, scrive Nadia Francalacci  su “Panorama”. Sembra che Firenze non si sia accorta del processo Kercher. Forse la città non lo sente suo. In una sola occasione c'è stato il tutto esaurito nell’aula del Tribunale: accadde quando, per la prima volta, si presentò Raffaele Sollecito. Ma la curiosità è durata poco. Non così altrove, dove - da sette anni -  “innocentisti” e “colpevolisti” continuano a battagliare quasi come il primo giorno. Anzi, di più. Un solo dato: alla prima udienza, nel 2007, si accreditarono 400 giornalisti di tutto il mondo, oggi sono oltre 500.  

Elena Colombo, giornalista di Quarto Grado, tu hai seguito fin dall’inizio la vicenda processuale sull’omicidio di Meredith Kercher e sei convinta che Amanda e Raffaele siano innocenti. Perché?

Perché sulla scena del delitto, ovvero nella stanza di Meredith non ci sono tracce della presenza di Amanda e Raffaele. Durante le udienze del precedente processo è stato detto più volte che la scena del delitto è stata ripulita ma anche questo punto non è vero in quanto sono state rilevate chiaramente le tracce di Rudy Guede. Dunque come è possibile pulire una scena del crimine di alcune tracce e lasciarne altre? Poi dobbiamo prendere in considerazione l’arma del delitto: un coltello trovato a casa di Raffaele. Questa era una delle prove a carico di Amanda perché su quell’arma era stato trovato il dna della studentessa americana ma anche una piccolissima traccia di dna di Meredith. Poi ulteriori perizie hanno sconfessato la presenza di sangue di Meredith. Ovviamente le tracce di Amanda c’erano in quanto, frequentando la casa di Sollecito, più volte aveva mangiato e dunque toccato quel coltello. Inoltre a suffragio della tesi innocentista c’è il movente: un movente camaleontico. Talmente camaleontico da definirlo “inesistente”. Nel primo processo si parlava di “gioco erotico” finito tragicamente, adesso nel processo “bis” di “attriti tra le due ragazze per la pulizia della casa” e della presunta rabbia di Meredith scoppiata dopo l'utilizzo del bagno da parte di Rudy Guede, bagno che avrebbe lasciato sporco. Direi che anche questo movente è del tutto inconsistente. Ed infine le prove a carico di Raffaele. Secondo l’accusa sul gancetto del reggiseno di Meredith ci sarebbe il dna di Raffaele. Ma quel gancetto è stato repertato dai Ris ben 46 giorni dopo il delitto e in un luogo diverso dalla scena del delitto. Quindi con probabilità è stato “contaminato”. Inoltre è poco probabile che Raffaele possa aver lasciato le sue tracce solo sul gancetto e non su altre parti del reggiseno. Insomma in questo processo non ci sono prove.

Che cosa farà Amanda se verrà condannata?

 Non tornerà sicuramente in Italia. Lei dell’Italia non ne vuole più sapere come ci ha detto nell’intervista che ci ha rilasciato per Quarto Grado. Amanda è difesa da un’intera nazione e non rientrerà mai nel nostro Paese per scontare un’eventuale pena.

E se invece verrà prosciolta la vedremo attrice di se stessa in un film-story?

Non lo so, ci può anche stare. Libro che ha scritto le ha fatto guadagnare moltissimi soldi, denaro che lei ha detto servirà per ripagare i propri genitori per le spese processuali. Lei ha voglia di rivalersi quindi non è escluso che possa decidere di diventare attrice in un film su se stessa.

Secondo te, dunque, l’unico colpevole è Rudy Guede?

Sì, solo lui. Guede aveva alcuni precedenti penali per furti in abitazione. Le modalità erano quelle di spaccare una finestra con un sasso ed entrare in casa. Anche nella casa di Perugia c’è una finestra rotta con un sasso quindi io credo che l’unico colpevole sia davvero Rudy Guede. Va precisato però che lui è stato condannato per “concorso in omicidio” quindi  la giustizia sta cercando “per forza e con forza” gli “altri colpevoli”.. e in questo caso non possono che essere Amanda e Raffaele. Ma i due ragazzi sono innocenti.

Una condanna a ogni costo, scrive Alessandro Perissinotto su “La Stampa”. C’era una volta l’assoluzione per insufficienza di prove. Era una macchia che ti portavi dietro per tutta la vita, più di una condanna. La condanna era il preludio alla redenzione, era il castigo dopo il delitto; l’insufficienza di prove era il sospetto che non ti scrollavi di dosso. E se per qualcuno l’insufficienza di prove corrispondeva a una sconfitta della giustizia, per altri rappresentava il momento più alto, quello in cui la giustizia stessa accetta i propri limiti, ammette che non si è in grado di andare oltre ogni ragionevole dubbio: una giustizia senza deliri di onnipotenza. Oggi, sebbene l’articolo 530 del Codice di Procedura Penale faccia ancora riferimento all’insufficienza della prova, sembra che nessuno sia più disposto a riconoscere che esiste un confine sul quale bisogna arrestarsi e il processo ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito lo dimostra. Condannati, poi assolti e poi condannati un’altra volta. E a ogni grado di processo, le prove diventano sempre più esili; ci si aggrappa a una piccola traccia del Dna di Amanda su un coltello da cucina che la ragazza può avere utilizzato per sgozzare l’amica o per tagliare le cipolle. Eppure, quelle tre lettere, Dna, sembrano essere la parola magica per aprire sempre e comunque lo scrigno della verità. Idolatriamo il dato scientifico come se questo, da solo, fosse capace a spiegare ogni cosa e dimentichiamo che i dati vanno interpretati. Arriviamo addirittura a mettere in secondo piano i moventi. Nel corso dei vari processi, il delitto di Perugia è stato presentato come esito di un festino erotico finito male, come violenza sessuale, fino a divenire, nella requisitoria del Procuratore Generale Alessandro Crini, l’epilogo di una lite per la pulizia della casa. Difficile, in queste condizioni, credere che la giustizia sapesse davvero dove stava andando. Ma non importa, basta un frammento di Dna a salvare la dignità della pubblica accusa. Nel marzo 2009, la casa di via della Pergola dove avvenne il delitto fu visitata dai ladri che rubarono il materasso su cui Meredith era stata uccisa e questo fu possibile perché la procura di Perugia, per non alterare la scena del crimine (!), aveva vietato che venissero apposte delle inferriate alle finestre. Ma si va avanti ugualmente, appellandosi all’evanescenza di qualche molecola, perché la pressione mediatica è troppo forte e nessuno vuole fare un atto di umiltà confessando che la verità può anche sfuggire. Abbiamo messo in piedi una vera industria mediatica del crimine: non c’è emittente televisiva che non abbia la propria trasmissione di «real crime». La cronaca nera diventa spettacolo, intrattenimento, morbosa esibizione di dolore; gli investigatori veri devono reggere il paragone con quelli della fiction, che non sbagliano mai, che risolvono tutto: chi mai vorrà ammettere di non essere alla loro altezza? E allora si va avanti.  Enzo Tortora disse una volta che, in Italia, si sarebbe dovuta proibire la messa in onda di Perry Mason perché, guardando la Tv, gli italiani si facevano un’idea sbagliata della giustizia. Non immaginava che le cose avrebbero potuto ancora peggiorare. Certo, dovremo leggere le motivazioni per capire se è bastata una traccia di Dna per emettere una sentenza così pesante, ma l’impressione di una condanna ad ogni costo è forte. E a questa amarezza se ne aggiunge un’altra, più sottile: a Raffaele Sollecito verrà tolto il passaporto, mentre per Amanda, ci dice la corte, non sono necessarie misure restrittive, tanto è già a Seattle: che tu sia sospettato di aver sgozzato una ragazza a Perugia, o di aver abbattuto una funivia a Cavalese, o di aver ucciso un funzionario italiano in Iraq, il fatto di essere cittadino statunitense dà sempre una certa tranquillità. La situazione inversa, quella di straniero accusato negli Stati Uniti, è molto più scomoda: ce lo ricorda il più che controverso caso di Chico Forti, condannato per omicidio a Miami, nonostante che la giuria stessa abbia ammesso l’inesistenza di prove.  

L'intervista, parla il giudice: "Ecco perché ho assolto Amanda". Prove mancanti, perizie, errori d'indagine: il giudice Pratillo Hellmann spiega a "Libero" perché in Appello ha scagionato la Knox e Raffaele Sollecito. Intervista di Roberta Catania su “Libero Quotidiano”. Claudio Pratillo Hellmann è un giudice in pensione. Non un giudice qualunque: lui, il 3 ottobre del 2009, aveva letto la sentenza (annullata l’altro ieri dalla Cassazione) con la quale Amanda Knox e Raffaele Sollecito erano stati assolti per non avere commesso l’omicidio di Meredith Kercher. All’epoca Pratillo era il presidente della Corte d’Assise d’appello di Perugia, chiamata a pronunciarsi sull’efferato delitto della studentessa inglese trovata morta il 2 novembre del 2007. A fare ricorso erano stati gli imputati, condannati in primo grado a 25 e 26 anni di carcere. Lunedì scorso, ripercorrendo la vicenda in Cassazione, per smontare l’assoluzione decisa dalla Corte d’Appello, il procuratore generale Luigi Riello ha usato parole forti: «Il giudice che ha preso quella decisione ha perso la bussola», quella sentenza d’assoluzione «è un concentrato di violazioni di legge e di illogicità».  Ebbene, ecco che cosa ne pensa il giudice che avrebbe perso la bussola: «Quella del pm è sempre un’opinione, è il giudice che emette la sentenza. Perciò è nelle motivazioni della Cassazione che bisognerà leggere se la Corte da me presieduta avesse perso la ragione. Ad ogni modo il pg avrà letto e interpretato i fatti in modo diverso dal nostro, ma le parole che ha usato nei nostri confronti mi sembrano eccessive. E soprattutto, quale legge avremmo violato?»

Appunto, presidente, ce lo dica lei. Ci sono state violazioni di legge? È vera la storia delle pressioni dall’America perché Amanda tornasse a casa da cittadina libera? 

«Assolutamente no. Basta tenere presente che noi abbiamo ereditato un processo “tutto in fatto”, nel quale cioè dovevamo solo valutare le prove. Non abbiamo disposto alcun supplemento di indagine, l’unica mossa avanzata da noi è stata quella di chiedere una perizia sulle prove genetiche, poiché sia l’accusa che la difesa  consideravano il Dna sui reperti la prova regina per vincere il processo».

Cioè, sostanzialmente vi siete basati sulle stesse prove che ai giudici di primo grado avevano ispirato condanne esemplari, a 26 e 25 anni di carcere, ma che per voi valevano un’assoluzione piena?

 «Esattamente. Abbiamo esaminato quelle prove, che a nostro giudizio non erano convincenti. Non erano convincenti soprattutto alla luce di un’attenta rilettura del codice di procedura penale, che obbliga “all’assoluta certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio”, che  - in questo caso - la Knox e Sollecito fossero colpevoli. Per questo in coscienza sono a posto. Lo siamo tutti. Eravamo consapevoli di andare incontro alle contestazioni che infatti ci sono state la sera stessa fuori dal tribunale, o a diverse interpretazioni come quella della Cassazione. Ma noi abbiamo agito secondo la nostra coscienza». 

Secondo lei Amanda e Raffaele sono innocenti?

«Non è questo il punto. Noi abbiamo cercato “la verità processuale”, che non è detto coincida con la verità oggettiva, ma che di sicuro ha bisogno di prove certe. In questo caso non c’erano prove. C’erano solo indizi e anche labili».

Quali erano questi indizi traballanti che in primo grado erano stati considerati prove schiaccianti?

«Tutto si fondava sul coltello trovato a casa di Sollecito e il reggiseno della vittima recuperato, in un secondo tempo, sulla scena del delitto. Tutti gli altri elementi a carico erano sciocchezze». 

Il Dna degli imputati sull’arma del delitto e sulla biancheria di Meredith non era una prova?

«No. Spiego il perché. Il giudice di primo grado non aveva ritenuto di dover chiedere una perizia tecnica. Si era basato su quella della Polizia Scientifica. Ai pm era bastata per chiudere il quadro d’accusa, ma quando la difesa degli imputati - in secondo grado - ha puntato proprio sulle contestazioni delle incongruenze riscontrate in quella perizia, abbiamo deciso di chiedere anche noi una consulenza super partes. I professori, a nostro avviso i migliori a disposizione, hanno però completamente smontato le prove biologiche». 

Non c’era il Dna degli imputati?  

«Sì, ma sulla lama del coltello le tracce erano talmente labili che la mappa genetica dei Dna a cui potevano essere ascritte era troppo ampia. Quelle tracce leggere - oltre alla Knox e a Sollecito - potevano essere ricondotte perfino a me, cioè in grado di compatibilità con il Dna del presidente della Corte».

E il gancetto del reggiseno di Mez?

«È vero che c’era un Dna ascrivibile a Sollecito, ma compariva anche quello di altri tre uomini. Dimostrando che la prova era stata compromessa dall’inquinamento della scena del delitto. Quel reperto, fotografato il primo giorno di indagini, era stato lasciato lì, nella camera da letto. Solo un mese e mezzo dopo è stato deciso di recuperarlo e analizzarlo. Ma si era subito notato che, rispetto alle foto della scena del delitto, il reggiseno era stato spostato di oltre un metro ed era finito sotto un tappeto».

Però, anche se gli altri tre Dna maschili potevano essere quelli dei poliziotti entrati successivamente nel corso di quel mese e senza le tute bianche, le tracce di Sollecito erano comunque sul reggiseno. 

«Ma Sollecito frequentava quella casa. Era il fidanzato della Knox, coinquilina della Kercher. E proprio il giorno del delitto era stato a pranzo nella villetta di via della Pergola». 

Ma non avrebbe avuto ragione di toccare la biancheria intima della coinquilina della fidanzata. 

«Non è detto che lo abbia fatto. Le tracce di Dna vengono lasciate anche da frammenti di cellule della pelle. Sostanze organiche infinitamente piccole, che possono essere state trasportate su quel gancetto in un secondo tempo. Dalla scarpa di un poliziotto entrato nella casa in quel mese e mezzo o anche da un colpo d’aria». 

E il famoso memoriale di Amanda dal quale pare che la Cassazione chiederà di ripartire? La confessione scritta con la quale accusava nei dettagli Patrick Lumumba?

«Non era tra le carte del processo e non ne conosco i contenuti».

Infatti il memoriale non era stato allegato al fascicolo del dibattimento, il giudice di primo grado lo aveva ritenuto inammissibile. Altro punto oscuro.

«Non sapevo neanche che esistesse. Ma se questo memoriale fosse stato tanto importante, i pm avrebbero chiesto di acquisirlo nel dibattimento d’appello».   

Secondo il pg, e forse anche secondo la Cassazione che ha accolto la richiesta di rifare il processo, le accuse a Lumumba sarebbero prova della colpevolezza di Amanda. Se innocente, non si accusa un altro. 

«Condannando la Knox per calunnia, abbiamo spiegato che la ragazza era stata sottoposta a un interrogatorio molto duro da parte della polizia. Senza difensore. Senza dormire e con un interprete che la invitava a porre fine a quel lungo confronto. In quel contesto, ha fatto il nome di Patrick. Non è uscito dal nulla, ma dopo che le era stato contestato uno scambio di sms con lui. Lumumba era il suo datore di lavoro, per questo si erano scritti. Accusarlo le potrebbe essere sembrata una via di uscita per scappare da quel confronto serrato. Ricordiamoci che Amanda era una ragazza molto giovane, arrivata da poco in Italia e che non parlava bene la nostra lingua. Per me era logico che in quel contesto potesse straparlare. Aspettiamo le motivazioni della Cassazione per capire cosa non abbia convinto quei giudici».

In questa Italia di m….. devi subire e devi tacere.

Ilaria Cucchi indagata dalla Procura di Roma per diffamazione degli agenti di polizia, scrive Paolo Brogi su “Il Corriere della Sera”. A chiederlo con una denuncia presentata in giugno è stato Franco Maccari, segretario di quel sindacato di polizia Coisp che a Ferrara è andato a manifestare sotto l’ufficio comunale di Patrizia Aldrovandi, la madre del giovane Federico morto durante un controllo di polizia. Il pm Luigi Fede ha dato seguito ora con un’istruttoria che vede indagata la sorella di Stefano Cucchi, per la cui morte sono stati condannati solo i medici e non gli agenti della penitenziaria. Ilaria Cucchi è stata convocata, come da prassi, per eleggere il domicilio. Ne è uscita con una determinazione ancor più rafforzata nella sua lunga battaglia. Anche perché con lei sono indagate Lucia Uva (sorella di Giuseppe, morto nel 2008 dopo essere stato fermato dai carabinieri) e Domenica Ferrulli (figlia di Michele, deceduto nel 2011 mentre quattro agenti lo stavano arrestando), che giovedì 30 hanno eletto domicilio rispettivamente a Varese e a Milano. Domani, venerdì 31, l’avvocato di Ilaria, di Lucia e di Domenica, Fabio Anselmo, andrà in Procura. Ilaria Cucchi ha appena affidato a Facebook alcune considerazioni, la cui sostanza ripete volentieri al telefono. Dice: «Ebbene si! Sono sottoposta ad indagini dalla Procura della Repubblica di Roma. Ho appena eletto domicilio, naturalmente non so neanche a che cosa devo questa querela. So solo che mi ha querelato il signor Maccari del sindacato Coisip. Sarei indagata per aver offeso l’onore della polizia di Stato e di tutti i poliziotti che ne fanno parte. Sono indagata per aver reclamato verità e giustizia per la morte di Federico, di Michele, di Giuseppe, di Dino e di tanti altri morti di Stato. Sono indagata per essermi ribellata alla mistificazione ed alle infamanti menzogne sulla morte di mio fratello. Io non mi fermerò, mai. Non avrò pace fino a quando non avrò ottenuto giustizia. Io voglio confessare tutto, ogni cosa. Queste morti offendono la polizia, questo è sicuro. Offendono lo Stato. Questo è altrettanto sicuro. Offendono tutti».

«Quella è una putt.., una zoccola. Il padre rompe sempre, è un coglione». Frasi pesantissime quelle pronunciate da due carabinieri che in una telefonata parlano del caso di Provvidenza Grassi, la donna messinese di 27 anni scomparsa a luglio e trovata morta pochi giorni fa a pochi passi dalla sua auto. La conversazione tra i due militari è stata registrata per caso e mandata in onda dalla trasmissione di RaiTre Chi l'ha visto?.

Filippo Facci: Va bene così. Le quotidiane cronache di malagiustizia e detenuti umiliati fanno notizia solo di mezzo c'è un appello a Napolitano. Quel che resta è un recondito senso di schifo. F.Z. ha ottenuto il permesso di far visita alla sua bambina di dieci anni, morente per un tumore all’intestino, ma solo per due ore e rigorosamente in manette. C.F. ha potuto presenziare ai funerali del figlio ma pure lui in manette. R.L. doveva essere trasferita in un ospedale carcerario, essendo gravemente malata, ma per 15 giorni nessuno ha eseguito il provvedimento: ed è morta in cella. A.M. ebbe un malore, e attese i medici per tre ore, poi ebbe un secondo malore ma in infermeria non riscontrarono nulla - pur risultando cardiopatica - e dopo un terzo malore morì in cella. G.d.G. era pure cardiopatico, aveva una valvola mitrale artificiale, era cirrotico e attendeva un trapianto di fegato: gli negarono gli arresti ospedalieri e morì in carcere. Potrei continuare: sono tutti casi che ho raccolto negli anni e che interessavano a politici e direttori a seconda del momento e dell’orientamento del giornale in cui scrivevo. Ieri un paio di giornaloni hanno sollevato un nuovo caso - un malato terminale che non vuole morire in galera, e che si è appellato a Napolitano - e va bene così. Senza Napolitano di mezzo, la storia non sarebbe esistita: ma va bene così. Funziona così, ed è meglio che niente. Anche se un recondito senso di schifo, questa banale e ineluttabile dinamica mediatica, te lo lascia sempre appiccicato addosso. 

Parlare di Amanda e di Raffaele e come parlare dei tanti Amanda e Raffaele figli di una giustizia schizofrenica.

MAI DIRE MAFIA: IL CALVARIO DI ANTONIO GIANGRANDE. Guerra aperta contro alcuni magistrati di Taranto: denuncia per calunnia e diffamazione alla Procura di Potenza, richiesta di ispezione ministeriale al Ministro della giustizia e richiesta di risarcimento danni per responsabilità civile dei magistrati al Presidente del Consiglio dei Ministri. «Non meditar vendetta! Ma siedi sulla riva del fiume e aspetta di veder passare il corpo del tuo nemico! Ed io ho aspettato…..affinchè una istituzione, degna dell’onor di patria, possa non insabbiare una mia legittima ed annosa aspettativa di giustizia. Perché se questo succede a me, combattente nato, figuriamoci a chi è Don Abbondio nell’animo. Già che sono in buona compagnia. Silvio Berlusconi: "Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti" ». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici. «Puntuale anche quest’anno è arrivato il giorno dedicato all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un appuntamento che, da tempo immemore ripropone un oramai vetusto ed urticante refrain: l’aggressione virulenta ai magistrati portata da tutti coloro che non fanno parte della casta giudiziaria.  Un piagnisteo continuo. Un rito liturgico tra toghe, porpore e carabinieri in alta uniforme. Eppure qualche osservazione sulle regole che presidiano e tutelano l’Ordine giudiziario italiano dovrebbe essere fatta. Faccio mie le domande poste da L’Infiltrato Speciale su Panorama. Quale sistema prevede una “sospensione feriale” per 3 mesi filati? Quale organizzazione non prevede un controllo sul tempo effettivo trascorso in ufficio ovvero regola e norma ogni forma di…telelavoro da casa? Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso? Ma, soprattutto, può il dovere di imparzialità del giudice sposarsi con lo svolgimento di vera e propria attività politica entro le varie “correnti” interne alla magistratura? Qualcuno potrà negare che diversi esponenti di magistratura democratica abbiano rivendicato apertamente le radici nel pensiero marxista leninista della propria corrente? Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Detto questo premetto che la pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca. La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art. 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza del 22 febbraio 2008, n. 4603).

Ed allora ecco alcuni brani dell’atto presentato alle varie istituzioni.»

"Si presenta, per fini di giustizia ed a tutela del prestigio della Magistratura oltre che per tutela del diritto soggettivo dell’esponente, l’istanza di accertamento della responsabilità penale ed amministrativa e richiesta di risarcimento del danno, esente da ogni onere fiscale, in quanto già ammesso al gratuito patrocinio nei procedimenti de quo. Responsabilità penale, civile ed amministrativa che si ravvisa per i magistrati nominati per azioni commesse da questi in unione e concorso con terzi con dolo e/o colpa grave. Elementi costitutivi la responsabilità civile dei magistrati di cui alla Legge 13 aprile 1988, n. 17:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

PER IL PRIMO FATTO

L’Avv. Nadia Cavallo presenta il 10/06/2005 una denuncia/querela nei confronti di Antonio Giangrande, sottoscritto denunciante, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in unione e concorso con Monica Giangrande, con denuncia-querela presentata all’A.G., incolpato Cavallo Nadia Maria del reato di truffa e subornazione, pur sapendola innocente. La denuncia di Cavallo Nadia Maria è palesemente calunniosa e diffamatoria nei confronti di Antonio Giangrande in quanto la denuncia di cui si fa riferimento e totalmente estranea ad Antonio Giangrande e non è in nessun modo riconducibile ad egli.

Insomma: la denuncia a firma di Antonio Giangrande non esiste.

Pur mancando la prova della calunnia, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

La dott.ssa Pina Montanaro apre il fascicolo n. 5089/05 R.G. notizie di reato. Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, chiede comunque in data 20 aprile 2006 il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande.

Il Dr Ciro Fiore nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di accusa in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque in data 02 ottobre 2006 il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande.

Il processo a carico di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande contraddistinto con il n. 10306/10 RGDT si apre con l’udienza del 06/02/07 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione di Antonio Giangrande è stralciata per vizi di notifica.

Il Dr Pompeo Carriere il 28/04/2010 riapre il procedimento Gip n. 2612/06, dopo lo stralcio della posizione di Antonio Giangrande rispetto alla posizione di Monica Giangrande per vizi di forma della richiesta di rinvio a giudizio. Su apposita richiesta della difesa di Antonio Giangrande di emettere sentenza di non luogo a procedere per il reato di calunnia ove ritenga o accerti che ci siano degli elementi incompleti o contraddittori riguardo al fatto che l'imputato non lo ha commesso, il dr. Pompeo Carriere, il 19  luglio 2010, disattende tale richiesta e dispone nei confronti del Pubblico Ministero l’ulteriore integrazione delle indagini e l’acquisizione delle prove mancanti per sostenere l’accusa in giudizio contro Antonio Giangrande. All’udienza dell’8 novembre 2010, il Pubblico Ministero non ha svolto le indagini richieste, anche a favore dell’indagato, e non ha integrato le prove necessarie. Ciononostante in tale data il dr. Pompeo Carriere, pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di calunnia.

Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10346/10 RGDT si apre con l’udienza del 01/02/11 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto. In quella sede ai diversi giudici succedutisi, in sede di contestazioni nella fase preliminare, si è segnalata la mancanza assoluta di prove che sostenessero l’accusa di calunnia.

Solo in data 23 gennaio 2014, nonostante l’assenza alla discussione con l’arringa finale dell’imputato (in segno di palese protesta contro l’ingiustizia subita) e del suo difensore di fiducia e senza curarsi delle richieste del Pubblico Ministero togato, che stranamente per questo procedimento è intervenuto di persona, non facendosi sostituire dal Pubblico Ministero onorario, ed a dispetto delle richieste dell’imperterrita presenza della costituita parte civile, l’avv. Nadia Cavallo, che ne chiedeva condanna penale e risarcimento del danno, il giudice Maria Christina De Tommasi, pur potendo dichiarare la prescrizione non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande per il reato di calunnia per non aver commesso il reato, in quanto non vi era prova della sua colpevolezza. Per la seconda accusa dello stesso procedimento penale riguardante la diffamazione, ossia per il capo B, la De Tommasi ha pronunciato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, nonostante avesse anche qui dovuto constatare che il fatto non era stato commesso, per la mancanza di prove a carico di Antonio Giangrande, in quanto l’articolo incriminato era riconducibile a terze persone, sia come autori, che come direttori del sito web.

Declaratoria di NON AVER COMMESSO IL REATO. Dopo 8 anni, un pubblico Ministero, due Giudici per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione, sostituita dalla dr.ssa Vilma Gilli ed a sua volta sostituita da Maria Christina De Tommasi.

Rita Romano ricusata per essere stata denunciata da Antonio Giangrande proprio per la sentenza di condanna adottata nei confronti di Monica Giangrande. Sentenza del 18/12/2007 con processo iniziato il 06/02/07. Esito velocissimo tenuto conto dei tempi medi del Foro. Nel processo nato a carico di Antonio Giangrande e Monica Giangrande su denuncia di Nadia Cavallo e poi stracciato a carico di Monica Giangrande, la stessa Monica Giangrande era accusata con Antonio Giangrande di calunnia per aver accusato la Cavallo Nadia di un sinistro truffa. Monica Giangrande affermava nella sua denuncia che la stessa Avv. Nadia Cavallo accusava lei, Monica Giangrande, di essere responsabile esclusiva del sinistro. In effetti Rita Romano stracciava la posizione di Antonio Giangrande per difetto di notifica del rinvio a giudizio e dopo l’espletamento del processo a carico di Monica Giangrande condannava l’imputata. Ciononostante lo stesso giudice riconosceva nelle sue motivazioni che la stessa Giangrande Monica accusava la Nadia Cavallo sapendola colpevole, perché proprio lo stesso giudice riconosceva tal Nigro Giuseppa come responsabile di quel sinistro che si voleva far ricondurre in capo alla Giangrande Monica, la quale, giustamente negava ogni addebito. L’appello contro la sentenza a carico di Monica Giangrande è stata inspiegabilmente mai impugnata dai suoi difensori, pur sussistendone validi motivi di illogicità della motivazione.

L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente. Inoltre l’avv. Nadia Cavallo è molto apprezzata dai magistrati Tarantini e da Salvatore Cosentino, ora alla procura di Locri. In virtù della sentenza di condanna emessa contro Monica Giangrande l’avv. Nadia Maria Cavallo ha percepito alcune decine di migliaia di euro a titolo di risarcimento del danno morale e oneri di difesa. Evidentemente era suo interesse fare la stessa cosa con il dr. Antonio Giangrande, con l’aiuto dei magistrati denunciati, il quale però non era di fatto e notoriamente autore del reato di calunnia, così come era falsamente accusato. Innocenza riconosciuta ed acclarata dal giudice di merito, però, dopo anni.   

PER IL SECONDO FATTO

In questo procedimento risultano esserci due querelanti e quindi due persone offese dal reato:

Dimitri Giuseppe querela in data 19/07/2004 Corigliano Renato perché si ritiene vittima di Falsa Perizia giudiziaria. Corigliano Renato controquerela Dimitri Giuseppe per calunnia e diffamazione per aver pubblicato la querela, in cui si producevano le accuse di falsa perizia contro il Corigliano ledendo il suo onore e la sua reputazione. Corigliano Renato non querela Antonio Giangrande. Dimitri Giuseppe per la diffamazione subita dal Corigliano controquerela Antonio Giangrande, pur non avendo il Dimitri Giuseppe legittimità a farlo, non essendo egli persona offesa.

Insomma: la querela di diffamazione da parte della persona offesa contro Antonio Giangrande non esiste.

Pur mancando la prova della diffamazione, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

Il Dr. Enrico Bruschi apre il fascicolo n. 3015/06 R.G. notizie di reato. Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta egli stesso la citazione a giudizio saltando l’Udienza Preliminare.

Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10244/10 RGDT si apre con l’udienza del 05/10/2010 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione di Antonio Giangrande è inviata al Giudice per le Indagini Preliminari per l’Udienza di Rito.

Il Dr Pompeo Carriere il 26/11/12 apre il procedimento Gip n. 243/12. Sostenuto dalla richiesta del PM Enrico Bruschi il dr. Pompeo Carriere, ciononostante non vi sia la querela di Corigliano Renato contro Antonio Giangrande e pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di Diffamazione.

Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10403/12 RGDT si apre presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto. In quella sede ai diversi giudici succedutisi, in sede di contestazioni nella fase preliminare, si è segnalata la mancanza assoluta di prove che sostenessero l’accusa di Diffamazione.

Solo in data 18 aprile 2013 Corigliano Renato è stato sentito ed ha confermato di non aver presentato alcuna querela contro Antonio Giangrande. Corigliano Renato e Dimitri Giuseppe hanno rimesso la querela, il primo perché non l’aveva presentata e comunque non aveva alcuna volontà punitiva contro Antonio Giangrande, il secondo non aveva addirittura la legittimità a presentarla. Il giudice Giovanni Pomarico  non ha potuto non acclarare il non doversi procedere nei confronti di Antonio Giangrande per remissione delle querele.

Declaratoria di NON DOVERSI PROCEDERE PER REMISSIONE DI QUERELA. Ma di fatto per difetto di legittimazione ad agire. Dopo 4 anni, un pubblico Ministero, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti ed a sua volta sostituita da Giovanni Pomarico.

L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente.

PER IL TERZO FATTO

L’avv. Santo De Prezzo, in data 06 novembre 2006, denuncia e querela il dr. Antonio Giangrande per violazione della Privacy per aver pubblicato sul sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie il suo nome, nonostante il nome dell’avv. Santo De Prezzo fosse già di dominio pubblico in quanto inserito negli elenchi telefonici, anche web, e nell’elenco degli avvocati del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi, anche web.

La dr.ssa Adele Ferraro, sostituto procuratore presso il Tribunale di Brindisi apre il proc. n. 9429/06 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., ed il 1° ottobre 2007 (un anno dopo la querela) decreta il sequestro preventivo dell’intero sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie, arrecando immane danno di immagine. Il Decreto è nullo perché non convalidato dal GIP ed emesso il 19 ottobre 2007, successivamente al sequestro. Il decreto è rinnovato il 09/11/ 2007 e non convalidato dal giudice Katia Pinto. Poi ancora rinnovato il 28/12/2007 e convalidato da Katia Pinto il 26/02/2008, ma non notificato.

La dr.ssa Katia Pinto apre il proc. n. 1004/07 RGDT e il 19/09/2008, dopo quasi un anno dal sequestro del sito web con atti illegittimi dichiara la sua incompetenza territoriale e trasmette gli atti a Taranto, ma non dissequestra il sito web.

In questo procedimento non risulta esserci il fatto penale contestato eppure si oscura un sito web di una associazione antimafia e si persegue penalmente il suo presidente, Antonio Giangrande.

Insomma: il fatto non sussiste. Pur mancando la prova della violazione della privacy, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

Il Dr. Remo Epifani sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto apre il fascicolo n. 8483/08 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta il rinvio a giudizio per ben due volte: il 23/06/2009 e difetta la notifica e il 28/09/2010, rinnovando  il sequestro preventivo del sito web, mai revocato.

Il Dr. Martino Rosati, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Taranto  apre il proc. n. 6383/08 GIP e senza indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., dispone con proprio autonomo decreto il 14/10/2008 il sequestro preventivo del sito web.

Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10329/09 RGDT, si apre il 03/11/2009, ma viene chiuso per irregolarità degli atti. Il nuovo processo contraddistinto con il n. 10018/11 RGDT si apre il 01/02/2011.

Solo in data 12 luglio 2012 lo stesso Pm dr. Gioacchino Argentino chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste ed in pari data il giudice dr.ssa Frida Mazzuti non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande perché il fatto non sussiste. Il Dissequestro del sito web www.associazionecontrotuttelemafie.org non è mai avvenuto e l’oscuramento del sito web è ancora vigente.

Declaratoria di ASSOLUZIONE PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE. Dopo 6 anni, due pubblici Ministeri, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti.

L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente.”

«Pare evidente la tricotomia della responsabilità penale: il movente, il mezzo, l’opportunità. Per questo si chiede la condanna per reati consumati, continuati, tentati, da soli o in concorso con terzi, o di altre norme penali, con le aggravanti di rito, e attivazione d’ufficio presso gli organi competenti per la violazione di norme amministrative. Altresì si chiede il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, liquidato in via equitativa dal giudice competente, per la sofferenza che si è riservata al sottoscritto ed alle persone che mi stimano per la funzione che io occupo e l’umiliazione e, soprattutto, per il dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di essere accusato  di calunnie tanto ingiuste quanto infondate. Nessuna Autorità degna del mio rispetto ha tutelato la mia persona. Le mie denunce contro queste ed altre ingiustizie sono state sempre archiviate. E’ normale allora che io diventi carne da macello penale. E’ normale che io sia lì a partecipare da 16 anni all’esame forense, sempre bocciato, se poi i magistrati, commissari di esame, contro di me fanno questo ed altro.»

Notificato nelle prime ore del mattino il divieto di espatrio a Raffaele Sollecito. Secondo quanto appreso, Sollecito è stato raggiunto da agenti della squadra mobile di Firenze e di Udine a Venzone, un paese tra Udine e Tarvisio, che aveva raggiunto nel primo pomeriggio di ieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Secondo quanto si è appreso i poliziotti hanno notificato a Raffaele Sollecito la misura cautelare, emessa dopo la condanna nella sentenza di appello bis per l’omicidio di Meredith Kercher, e ritirato il passaporto. “L'ordinanza è stata eseguita. Basta. Lui sta in Italia, la questione è chiusa qua”, ha detto il presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze, Alessandro Nencini, spiegando che al momento non sono previste altre misure nei confronti di Raffaele Sollecito. “Non c'è motivo di immaginare altro”, ha aggiunto Nencini. Venzone, dove si è recato Sollecito dopo la sentenza, è un comune della Carnia che dista circa cento chilometri da Villach, confine tra Italia e Austria. Da Venzone è anche facilmente raggiungibile il confine con la Slovenia, che dista una cinquantina di chilometri. Gli investigatori – secondo quanto si è appreso – hanno valutato se il giovane, condannato ieri in secondo grado a 25 anni di reclusione per l’omicidio di Meredith Kercher, avesse intenzione di lasciare l’Italia nel caso fosse stata applicata nei suoi riguardi la misura cautelare della custodia in carcere. Raffaele Sollecito era in viaggio con la fidanzata, una ragazza di 31 anni di Oderzo (Treviso). Viaggiavano a bordo di una Mini Cooper intestata alla ditta del padre della ragazza. L’auto è stata notata in transito in direzione Nord attorno alle 15.00 al rilevamento autostradale di Palmanova (Udine). I due, secondo la ricostruzione della Polizia, sono arrivati intorno all’una di notte in albergo a Venzone (Udine), località situata a circa 60 chilometri dal confine austriaco e 40 chilometri dal confine sloveno. La Mini Cooper con cui Raffaele Sollecito e la ragazza sono stati intercettati ieri era già transitata in Friuli Venezia Giulia il 28 gennaio. Sull'auto era stata apposta, in quella stessa data, la vignetta autostradale per l’ingresso in Austria. "Non ho mai pensato di fuggire. Nè prima nè tantomeno ora": a sottolinearlo è Raffaele Sollecito, attraverso uno dei suoi difensori, l’avvocato Luca Maori. Il legale ha spiegato che il giovane si è recato "spontaneamente" dalla polizia per consegnare il passaporto. "Ho fatto un giro in Austria. Poi sono rientrato in Italia. Mi sono fermato lì a riposare". "Appena ho saputo della sentenza mi sono spostato in territorio italiano". "Da uomo libero – ha poi detto personalmente il giovane - potevo spostarmi come volevo. Poi ho saputo della sentenza e sono subito tornato in Italia. Ero stanco – ha concluso Sollecito – e mi sono fermato nel primo posto utile". Al suo legale, l’ingegnere pugliese aveva ribadito di avere "mai pensato di fuggire, tanto meno ora". L'avvocato Maori ha spiegato che Sollecito ha raggiunto la fidanzata in Friuli perchè "stressato" dalle sue vicende processuali. "Il nostro assistito – ha ribadito il legale – non ha mai pensato alla fuga e ha consegnato spontaneamente il passaporto." "L'abbiamo svegliato questa mattina in albergo. Ci ha seguito spontaneamente in Questura dove a breve gli verrà notificato il provvedimento di divieto di espatrio" ha poi dichiarato confermando la versione il Vicequestore aggiunto Massimiliano Ortolan, capo della Squadra Mobile di Udine. Una volta espletate le formalità, Sollecito lascerà la Questura di Udine. Potrà recarsi ovunque nel territorio italiano. "Avvocato, io sono innocente. La battaglia va avanti": a dirlo è stato stamani Raffaele Sollecito ad uno dei suo difensori, l’avvocato Luca Mauri con il quale si è sentito al telefono dopo la notifica del divieto di espatrio disposto dalla Corte d’assise d’appello di Firenze dopo la condanna per l’omicidio di Meredith Kercher. "Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...". Il giovane ingegnere risponde con poche parole alle domande. E subito sottolinea: "della sentenza non parlo"."E' stato come essere travolta da un treno, non potevo credere a quello che stava succedendo...ora aspetto le motivazioni, ma è stata una cosa orribile. Ora ho bisogno dell’aiuto di tutti". Lo ha detto Amanda Knox, capelli corti, maglietta rosa, piangendo durante la sua prima intervista alla Abc dopo la sentenza. "La mia prima reazione è stata: 'Oh no, questo è sbagliato, non è possibile, è una cosa orribile". "Mi dovranno prendere e trascinare mentre scalcio e urlo in prigione, dove non merito di stare", aveva dichiarato Amanda Knox nei giorni scorsi al Guardian in una intervista che il giornale britannico pubblica oggi dopo la condanna dell’americana per il delitto di Meredith Kercher. "Non voglio assolutamente tornare indietro in Italia per mia volontà", ha detto Amanda, che spera che le autorità americane non autorizzino la sua estradizione. "Combatterò per provare la mia innocenza", ha aggiunto l’americana. La Knox ha detto anche al Guardian che in queste settimane prima della sentenza è stata in contatto con Raffaele Sollecito, anch’egli condannato dal tribunale di Firenze per l’omicidio della studentessa inglese, ma che non sono vere le voci secondo cui lui le avrebbe chiesto di sposarla per acquisire la cittadinanza Usa e sfuggire al carcere. "Non è vero – ha detto Amanda – Non capisco da dove la notizia arrivi". Risponde per un istante al cellulare Greta, la nuova fidanzata di Raffaele Sollecito, e poi chiude subito la conversazione: "..sì? chi parla? Sono io – dice all’ANSA – ma mi spiace, ora ho da fare, non posso rispondere..". L’audio della telefonata fa pensare che la ragazza sia ancora in viaggio, probabilmente assieme a Sollecito, con cui ha lasciato la Questura di Udine. Ha poco più di 20 anni e fa la hostess di terra per una compagnia aerea, al Marco Polo di Tessera, la nuova fidanzata di Raffaele Sollecito, Greta, di Ponte di Piave, che era assieme a lui in Friuli non distante dal confine. I due nei giorni scorsi erano stati visti diverse volte passeggiare amorevolmente per il centro di Oderzo, un comune che dista una decina di chilometri da dove l’assistente di volo vive assieme con i genitori. Il flirt tra i due è noto nella zona dove è conosciuta la giovane, una ragazza bionda e con gli occhi castani. Pare che si frequentassero da qualche settimana: l'incontro tra Greta e Raffaele sarebbe avvenuto a bordo di un aereo in un periodo in cui la ragazza faceva la hostess di volo. Della loro storia Sollecito ha parlato sul proprio profilo di Facebook, con frasi nelle quali l’ex fidanzato di Amanda Knox non nasconde il suo innamoramento. Così ieri, dopo la condanna, il primo pensiero è andato alla giovane trevigiana, che ha raggiunto a Ponte di Piave per poi intraprendere il viaggio verso l’Austria. "Penso che il peso politico degli Usa lo abbiano sentito i giudici, i giudici popolari". Lo ha detto il legale della famiglia Kercher, l’avvocato Francesco Maresca. "Può non dare serenità a chi deve giudicare – ha aggiunto – la pressione mediatica, specie per dei giudici non di professione". "Se è stato un processo mediatico questo è dovuto agli imputati, non alle parti civili" ha poi detto il legale commentando il processo. "Gli imputati – ha giunto – devono prendere atto della condanna, anche se sono negli Stati Uniti". "Può essere che non sapremo mai cosa è veramente successo quella sera. Ci dobbiamo mettere il cuore in pace" ha detto invece  la sorella di Meredith Kercher, Stephanie, in una conferenza stampa convocata a Firenze per commentare la sentenza di ieri. In attesa della Cassazione "siamo ancora in viaggio verso la verità – ha aggiunto – ma possiamo sperare di esserle vicini". "Niente ci riporterà Meredith – ha continuato il fratello Lyle - la cosa migliore che possiamo sperare è portare a conclusione questa vicenda, così tutti potranno andare avanti con la loro vita". "Non possiamo parlare di felicità, non è il momento della felicità". ha detto Lyle. "Prendiamo atto di una sentenza e del passo in avanti – ha aggiunto – ma per poter scrivere la parola fine dovremo aspettare ancora del tempo", ha detto riferendosi al fatto che le difese hanno annunciato ricorso in Cassazione. Uno dei loro legale, l’avvocato Francesco Maresca ha poi spiegato che i familiari di Meredith chiedono spesso informazioni sulla durata del procedimento esprimendo perplessità "sulla lunghezza dei tempi". La lettera che le avrebbe scritto Amanda Knox "non l’ho vista. Mi hanno detto che c'è, ma non voglio leggerla, non ne ho bisogno". ha detto Stephanie. Anche entrare in contatto con Amanda e tantopiù vederla "sarà difficile – ha continuato – non tanto per la condanna quanto perchè tante cose sono successe. Forse non vorremo farlo mai". Amanda Knox conferma in tv che attraverso i suoi legali ha inviato una sua lettera ai familiari di Meredith. "Auguro a loro – ha detto in lacrime – ogni bene". "Professionalmente sono molto soddisfatto per una sentenza giusta e condanne adeguate alla gravità del fatto, pensando alla povera Meredith Kercher che ha subito una morte orrenda": il sostituto procuratore generale di Perugia Giancarlo Costagliola commenta così la sentenza della corte d’assise d’appello di Firenze. E all’ANSA dice "è stata premiata la tenacia mia, del procuratore generale Giovanni Galati e dei colleghi Manuela Comodi e Giuliano Mignini che hanno gestito con me il processo di secondo grado a Perugia". Il magistrato ha comunque sottolineato di "non potersi mai dire contento per una condanna e quindi anche in questo caso". Secondo Costagliola "già l’appello di Perugia doveva mettere la parola fine a questa vicenda e invece c' è stata una sentenza poi giustamente annullata dalla Cassazione". "Il nostro ricorso - ha proseguito – è stato integralmente accolto in tutti i suoi punti anche per l’impegno del procuratore generale presso la Suprema Corte Luigi Riello". "Ora la pronuncia di Firenze – ha sottolineato – restituisce serenità ai nostri uffici. Accumuno ai pm la polizia, che ha fatto nel corso delle indagini un lavoro approfondito e puntuale che ha avuto meritato riconoscimento nella sentenza di primo grado di Perugia e in quella di ieri sera a Firenze".

Quel che resta di Amanda, Raffaele e Perugia. Il ritratto di due giovani e di una città rovinata da questa storia ma non solo, scrive Gabriella Mecucci su “Panorama”. Vite parallele. Roba da non crederci, eppure la sorte di una città italiana, la medievale Perugia è strettamente legata a quella di una bella ragazza nata nell'avveniristica Seattle, Amanda Knox. L'omicidio di Meredith Kercher è finito sotto i riflettori di mezzo mondo e da allora il capoluogo umbro non ha avuto più pace. Gli inviati l'hanno definito “una sorta di Ibiza, con una trasgressività però più cupa, più violenta, più densa di peccato”, con i cervelli dei ragazzi fatti “volare fra le canne d'hashish e le sniffate di coca” e poi “risciacquati nell'alcol”.  E' dal 2007, da quella terribile notte di Halloween che Perugia è diventata la “capitale della droga e del crimine”. Dietro il volto dolce e inquietante di Amanda e dietro quello un po' imbambolato di Raffaele Sollecito, è spuntata l'ombra di Sodoma e Gomorra. Quando lei arrivò, Corso Vannucci era ancora il centro di uno scrigno d'arte e di buon vivere in una provincia tranquilla. Lei, con quell'espressione angelicata, ebbe l'impatto di un uragano: in quattro e quattr'otto ne mutò l'immagine. I ragazzi facevano la fila pur d'invitarla a cena. E lei li sconvolgeva tenendo ben in vista sul divano di casa un vibratore. Andava a ballare sino all'alba alla Red Zone di Casa del Diavolo. Si chiama proprio così la piccola frazione a pochi chilometri da Perugia dove si consumavano le notti brave della ragazza di Seattle. Di giorno studiosetta e gentile, col buio aggressiva, sessuomane, impasticcata. E' l'epoca dell'Amanda perversa. Almeno così la raccontano. Il popolo dei pub di una città piena di universitari ne è affascinato ma anche un po' spaventato. Raffaele ne viene catturato. Lei impazza, è il vero dominus di quella vita spericolata. E sempre più le cresce intorno gelo e diffidenza. La terribile morte di Meredith fa calare su Perugia l'ombra lunga del male. Diventa la “casa del diavolo”.  Poi iniziano le indagini. Amanda è davvero strana. In questura appare molto disinibita: fa la spaccata, straparla, mette su un'aria da consumata seduttrice, racconta che l'amica è stata sgozzata. Voglia di protagonismo di una personalità borderline? Oppure ha assistito all'agonia di Meredith? Così ragionano gli inquirenti che vogliono chiudere il caso prima possibile. I “palazzi” politici ed economici della città non tollerano quella sovraesposizione che distrugge il mito della Perugia felix. Ma non c'è verso di finirla con quella brutta faccenda. Dopo gli articoli arrivano i libri. Negli Usa si è aperta la campagna pro Amanda. La raccontano chiusa nel carcere di Capanne che piange, prega, si affida alla guida spirituale del cappellano. Arriva il torrente di immagini da brava ragazza e arrivano gli sponsor della sua innocenza: fra questi nientemeno che Hillary Clinton. Scompare la “Venere in pelliccia” del primo 'periodo e affiora, fra i colori pastello, il volto sofferente, dolce, bellissimo di una povera giovane finita in mezzo per sbaglio. Per eccesso di ingenuità. Nasce l'Amanda indifesa e dal cuore d'oro. Il prestigioso “New Yorker” manda una grande inviata che scrive un libro per raccontare di una città chiusa e sessuofoba che non ha sopportato e non sopporta il fascino, la schiettezza, la femminilità di stampo americano. Perugia, da Ibiza viziosa e rumorosa, viene trasformata in una comunità immersa nell'esoterismo massonico e nel cattolicesimo integralista. Il  sostituto Giuliano Mignini  diventa un uomo del Vaticano, di quelli ottusi e reazionari. Amanda,  sia demoniaca o angelicata,   regala insomma al capoluogo umbro sempre e solo discredito. Il fastidio nei suoi confronti cresce e si moltiplica. Nel 2011 spunta l'Amanda numero tre. Dopo l'assoluzione in Appello se ne torna in America e – passeggiando per i prati di Seattle - inanella giudizi brucianti sull'Italia. Il processo di Perugia diventa nelle sue interviste una sequela di forzature e di trabocchetti. La ragazza ha trovato un nuovo fidanzato, accoglie con amicizia Raffaele, ma di rinverdire la loro love story non ne vuole sapere. Poi, finalmente, cala il silenzio.  Perugia sembra dimenticare, persino la casa di via della Pergola cambia. Il nuovo proprietario che l'ha acquistata, la risistema al meglio e l'affitta. La faccenda è chiusa? Pia illusione.  Il tribunale di Firenze ha emesso una nuova condanna: 28 anni per Amanda, 25 per Raffaele. Lei se ne sta tranquilla a Seattle. Lui rischia di tornare nel carcere di Capanne.  E forse per questo, l'hanno riacciuffato ad Udine poche ore dopo la sentenza. Il sostituto Mignini e gli inquirenti tutti vengono riabilitati. Finisce così? Neanche a pensarci, adesso si torna di nuovo in Cassazione. Perugia è diventata ormai una città piena di pericoli e di incubi. La sua immagine è a pezzi. Il delitto Meredith ne svelò la decadenza che era iniziata però ben prima di Amanda e Raffaele. C'è poco da arrabbiarsi, la crisi è reale e ha molti responsabili. E la ricostruzione non dipende dalle sentenze. Sarà lunga, tortuosa, difficile. 

Il ruolo dei mezzi d’informazione. Il processo è stato al centro di molte polemiche, soprattutto per l’esposizione mediatica dei protagonisti. I giornali statunitensi hanno accusato i mezzi d’informazione italiani di influenzare i giudici attraverso una rappresentazione negativa di Amanda Knox e la copertura troppo sensazionalista del caso. Timothy Egan sul New York Times ha criticato duramente il sistema giudiziario italiano: troppo lento e pieno di negligenze. “Il sistema italiano non è giusto. Il destino di una ragazza è nelle mani di sei giurati e due giudici, che si vedono due volte a settimana e che si prendono delle lunghe vacanze prima di decidere il verdetto”.

La malattia di Amanda Knox, scrive Claudio Giusti. Una virulenta malattia infettiva ha colpito in forma grave le morbose trasmissioni televisive del pomeriggio e della tarda serata. La liberazione di Amanda Knox ha dato il via ad una incredibile quantità di sciocchezze che si sono rincorse da una parte all’altra dell’Atlantico. I commentatori americani, scambiando per giurati i giudici popolari, hanno mostrato di sapere ben poco del sistema giudiziario italiano, mentre i nostri hanno ancora una volta dimostrato la loro assoluta ignoranza di quello statunitense. Non ho alcuna speranza di riuscire a cambiare questo stato di cose, ma per puro puntiglio voglio ancora una volta ricordare che quella che gli americani chiamano giustizia è molto, ma molto diversa da quanto si vede nei telefilm. Il Sistema giudiziario americano sembra funzionare così bene perché non fa i processi, non fa gli appelli e non motiva le sentenze. Infatti codesto sistema non rimane schiacciato dai 15 milioni di arresti che ogni anno compiono le 18.000 polizie americane perché il 95% del milione e duecentomila condanne annuali è ottenuto (senza contare i piccoli reati) con il patteggiamento. Le giurie, nel raro caso in cui qualcuno si prenda il disturbo di interrogarle, non devono argomentare le loro decisioni. L’appello è concesso molto raramente e consiste nella revisione meramente formale del verbale del processo di merito, senza la presunzione d’innocenza. Per le condanne a morte l’appello è invece obbligatorio, complesso e lunghissimo e questo è possibile perché la prescrizione americana si interrompe con l’inizio dell’azione giudiziaria e NON riparte più. Qualcuno pensa che Foxy Noxy sia stata vittima di un errore giudiziario. Lo penso anch’io, ma questo errore lo colloco al secondo processo. Comunque siamo stati costretti ad assistere alla solita manfrina dell’ “adesso chi paga”. Ovviamente nessun americano avrebbe detto una cosa così stupida. Intanto per non trovarsi davanti a un giudice a rispondere di insulto alla corte, poi perché, proprio nei giorni gloriosi di Amanda, l’America era squassata da una raffica di liberazioni, infine perché Giudici e Procuratori sono assolutamente immuni da cause civili. Anche se hanno commesso dei reati nell’esercizio delle loro funzioni non possono essere chiamati a rispondere civilmente delle loro decisioni. Possono essere perseguiti per via amministrativa o penale, ma NON possono esserlo in via civile. P.S. Il sistema giudiziario penale americano si caratterizza per la sua assoluta arbitrarietà, incoerenza e imprevedibilità ed è impossibile dire cosa sarebbe accaduto all’attraente americanina se l’assassinio di Meredith Kercher fosse avvenuto nello Stato di Washington, ma ho ipotizzato due scenari. Inizio togliendo di mezzo la polemica sulla polizia scientifica e i forensic laboratories e ribadendo che gli americani farebbero meglio a guardare in casa loro, dove una quantità di laboratori di polizia sono stati investiti da furiose polemiche e da inchieste che hanno riempito le pagine dei giornali. Mi limito a ricordare che il laboratorio dello Houston Police Department è stato chiuso d’autorità. Fra le molte ragioni quella che ci pioveva dentro, come del resto pioveva in quello di Dallas. Quelle due contee hanno avuto fatto più del 10% delle esecuzioni americane e la condizione della scienza forense texana (vedi Cameron Todd Willingham) è così penosa da avere indotto il Parlamento del Texas a istituire una commissione d’inchiesta. Tornando a Perugia iniziamo notando che il sistema giudiziario americano è completamente diverso dal nostro (come lo è dagli altri sistemi di common law) ed è basato sull’assoluta libertà d’azione di cui dispone il District Attorney. E’ il Procuratore che decide chi incriminare e per quali reati ed è sempre lui che decide se patteggiare e in che termini. Questa incondizionata autonomia consente una enorme pressione sugli accusati e produce una totale arbitrarietà nell’imposizione della pena. La Procura ha il completo controllo della situazione e decide se chiedere o meno la pena di morte (magari dopo essersi consultata con la famiglia della vittima) o se utilizzarne la minaccia per spingere a un patteggiamento. In Europa lo chiamiamo torturare la gente, ma in America accade spesso che le cose vadano così: ”Sei in prigione da due anni in attesa del processo quando si presenta un tizio che dice:  - Se ti dichiari colpevole questa è la condanna e fra due anni sei fuori, ma, se ti ostini a proclamarti innocente, fra un anno c’è il processo e se vinciamo noi ti ammazziamo -  Voi cosa fareste?”  Questo immenso potere consente di patteggiare il 70% delle condanne per omicidio e il 95% di quelle per i felonies (crimini che prevedono una pena superiore all’anno). Il processo americano è da tempo una specie in via d’estinzione e i 15 milioni di arresti si riducono a 100.000 processi penali. Nei casi di omicidio con più complici la funzione del Procuratore è stata accostata a quella di un regista che assegna le parti in una recita teatrale. Il paragone è calzante, non tanto perché è lui che decide tutto, quanto perché gli americani spezzettano il processo in tanti procedimenti quanti sono gli imputati, ognuno dei quali avrà il suo dibattimento. In ognuno di questi la Procura si sente libera di presentare alle giurie una versione dei fatti completamente diversa dalle altre, come di costringere un imputato, in cambio del patteggiamento, a fornire la testimonianza adatta alla sua parte. (vedi Jesse DeWayne Jacobs e Napoleon Beazley). Questa recita è allestita a beneficio di un pubblico esiguo ma scelto: i dodici giurati, le loro fobie e pregiudizi: con il vantaggio che il loro gradimento non è motivato, perché essi non devono spiegare le ragioni per cui accettano le tesi di una parte e non quelle dell’altra. I giurati decidono all’unanimità se l’imputato è colpevole o non colpevole del reato ascrittogli, ma non devono spiegare il ragionamento che li porta a tale conclusione. Nel processo americano (che non conosce la parte civile) vince chi inizia con gli opening statements più facilmente comprensibili e conclude con l’arringa (closing argument) che racconta una storia semplice da capire e ricordare. Quello che convince una giuria non è la solidità delle prove, ma la coerenza del racconto. Se la storia che le viene presentata funziona sotto l’aspetto narrativo è difficile che la giuria vada a vedere se ci sono prove sufficienti della colpevolezza dell’imputato. Solo così si spiegano certe condanne: la giuria ha gradito di più il racconto che le ha fatto l’Accusa. Più che un processo un premio letterario. In America, i tre di Perugia, sarebbero stati passibili di pena capitale, ma ben difficilmente questa sarebbe chiesta per tutti e gli scenari possibili erano almeno due. Nella prima sceneggiatura, che chiameremo “Impicca il negro”, la parte principale è assegnata all’imputato di colore, per il quale si chiede la pena di morte. Al ragazzo bianco sarà invece data la parte del complice pentito che, in cambio di una condanna all’ergastolo, fornisce alla giuria una versione concordata con l’Accusa. La ragazza, in questa versione della recita, se la caverebbe con poco o nulla; l’importante è che si atteggi a vittima delle circostanze. La seconda sceneggiatura è ben più intrigante e originale della prima e ha per titolo “Morte alla strega”. In essa la parte principale è assegnata alla ragazza (che l’Accusa chiamerà sempre Foxy Knoxy), mentre i due maschi reciteranno quella dei poveri coglioni irretiti dalla dark lady. La biondina dallo sguardo di ghiaccio sarà dipinta come una perversa mangiatrice di uomini che, nel suo delirio di onnipotenza, non si ferma davanti a nulla. Una sadica pervertita che merita la morte. Queste sono ovviamente le mie invenzioni di studioso, ma occorre tenere presente che la realtà supera sempre la fantasia. Non per nulla a Washington (lo Stato di Amanda Knox) un serial killer ha patteggiato 48 omicidi. Ricordo infine che in America l’appello non è un diritto previsto dalla Costituzione e che i nostri ragazzotti, non essendo stati condannati a morte, non avrebbero nemmeno goduto del beneficio della revisione formale del verbale del processo da parte della locale Corte Suprema. Dott. Claudio Giusti, Membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio sulla Legalità e i Diritti, Claudio Giusti ha avuto il privilegio e l’onore di partecipare al primo congresso della sezione italiana di Amnesty International ed è stato uno dei fondatori della World Coalition Against The Death Penalty.

Processo Kercher, il perché di due sentenze opposte, scrive Luca D'Auria su “Il Fatto Quotidiano”. La Corte d’appello di Firenze ha giudicato Amanda Knox e Raffaele Sollecito colpevoli di concorso nel reato di omicidio ai danni di Meredith Kercher, la giovane inglese uccisa nella notte di Halloween del 2007. La sentenza pareva scontata dopo che la Cassazione, nelle “istruzioni” di rinvio alla Corte fiorentina, aveva tracciato una rivalutazione del materiale probatorio in senso fortemente penalizzante per i due imputati. Normale dialettica processuale, regolata dal codice di rito; è vero. Ma il punto è un altro: com’è possibile che gli stessi elementi di prova siano stati valutati in maniera così diametralmente opposta da due Corti di Appello? La sensazione è che il giudice brancoli nel buio quando deve stendere la sentenza; che il nostro codice non gli fornisca gli strumenti per decidere nel modo più corretto. Invece non è vero, anzi. La regolamentazione prevista dal codice per la valutazione della prova è una delle più sofisticate nel panorama processuale internazionale. Non è questa la sede per snocciolare le disposizioni stringenti che impongono (o imporrebbero) al giudice decisioni logiche e giuste. È lecito chiedersi: ma cosa capita al giudice? Come possono giudici diversi avere pareri così radicalmente opposti sulle stesse prove? Credo che la risposta possa essere all’interno di quattro ambiti, diversi tra loro: uno antropologico-culturale, uno psicologico, uno sociale ed uno linguistico. Il primo: gli antropologi culturali ritengono che l’evoluzione delle idee (che prende il nome di innovazione) si generi darwinianamente come quella genetica, laddove gli apporti modificativi del codice di partenza divengono patrimonio del nuovo solamente se utili all’organismo (la sola differenza tra evoluzione ed innovazione è che la prima è rara e lentissima mentre la seconda continua e rapida). Ebbene, come mai l’evoluzione giuridica, seppure costituita da secoli di rinnovamento e modifica delle regole, pare relegare il diritto a corpo estraneo rispetto alla giustizia applicata? La risposta antropologica è chiara: la giustizia applicata non recepisce come utili le innovazioni giuridico-culturali in quanto potrebbero deviare da una gestione della giustizia in nome del “sentire popolare”, del “crime control” oppure del “sentire” del giudicante. Il secondo: la psicologia del ragionamento insegna come, sia il ragionamento induttivo (tipicamente processuale) ma anche quello deduttivo, soffrano di soggettivismi incontrollabili e del tutto istintivi che possono far deviare il giudizio dal binario più corretto. I due più comuni sono la ipervalutazione o ipovalutazione di taluni elementi che portano poi a creare dei sillogismi errati perché errate sono le premesse. Il terzo: tale ambito è definito sociale perché attiene alle ripercussioni sociali delle sentenze, cioè dire che il giudice non si sente tanto investito della soluzione giuridica della vicenda in oggetto, quanto della soluzione sociale riferibile a quella ipotesi di reato di cui l’imputato è accusato. Questa distorsione sociale incide profondamente nel giudizio sui reati ad alto tasso di coinvolgimento pubblico come quelli che afferiscono la criminalità organizzata. L’ultimo ambito è detto linguistico in quanto riguarda la modalità con la quale la norma scritta è in grado di esprimere la retrostante volontà del legislatore. Vi sono norme fondamentali del codice di cui c’è stato uno scarso sviluppo applicativo proprio per la criticità del loro “dire” e per la scarsa chiarezza del messaggio verso il giudicante. Tutti questi elementi, unitamente ad altri possibili, possono essere la risposta al vero “mistero del processo” (per parafrasare un testo di qualche decennio fa) che sembra togliere certezza al diritto, anche se la colpa non va ricercata nel diritto stesso.

Tutti i giudici di Amanda Knox, scrive Giancarlo Costa su “Il Fatto Quotidiano”. Conosco molti ragazzi che studiano da diversi anni per diventare magistrati o avvocati. A dirla tutta, anche io studio da diversi anni, fra tutto ormai sono quasi dieci, per lo stesso obiettivo. Si tratta di una fatica mica da poco.  In Italia siamo così bravi a trovare l’inganno, che siamo diventati anche estremamente raffinati nel pensiero giuridico. E di leggi ne abbiamo un sacco, e dunque a farla facile, è tutto davvero estremamente difficile. Prendi la decisione della Corte d’Assise d’Appello di Perugia. Il caso di Amanda, Raffaele e Rudy, per gli amici. I primi due assolti per non aver commesso il fatto, il terzo condannato a 16anni per l’omicidio di Meredith in concorso con ignoti. Ne ha parlato praticamente tutto il mondo, e io che ho seguito poco la vicenda, mi sono sentito un po’ tagliato fuori, come quando non hai visto la partita del Mondiale. Così sono corso ai ripari e ho guardato la tv,  letto qualche giornale, cercando di farmi un’idea. Ho capito che Amanda ha comprato le mutandine sexy dopo che è morta Meredith. Ho capito che questa Meredith, inglese, era una brava ragazza acqua e sapone, mentre quest’altra Amanda, era una più furba e più bella. Ho anche capito che per gli americani, essendo americana, Amanda è innocente, mentre per gli inglesi, essendo inglese Meredith, Amanda è una scaltra assassina. Ho visto che agli americani la sentenza è piaciuta un sacco. Amanda assolta. Un’altra guerra vinta. Le troupe delle tv statunitensi hanno perfino fatto festa. Agli inglesi invece la sentenza è piaciuta meno, specie alla famiglia di Meredith, che ha mantenuto però un stranissimo contegno, accettando la decisione senza nessuna critica alla giustizia italiana.”

Una buona fetta di italiani è invece molto arrabbiata. Fuori dall’aula si sente  gridare “vergogna, bastardi”.  Qualcuno saluta gli amici a casa. Io proprio non sapendo per chi tifare, aspetto di leggere le motivazioni della sentenza, o gli esiti del ricorso in Cassazione, anche se questi giudici devo proprio averla fatta grossa, se tutti gli altri giudici, decisamente popolari, manifestano di non condividere la decisione. Tantissime le sentenze emesse sui social network e tantissimi ovviamente i giudici. C’è il razzista al contrario, che considera Rudy innocente e Amanda e Raffaele colpevoli, perché, scrive, “vogliono farci credere che è stato il ragazzo di colore…andiamo aprite gli occhi”. C’è il perito della scientifica wannabe che contesta tutte le perizie, alla luce delle tante puntate di C.S.I visionate. C’è il rocambolesco fatalista, che sottolinea come “se in primo grado fosse stata assolta, in appello sarebbe stata condannata, la giustizia è davvero un terno al lotto”. E poi ci sono gli immancabili giudici della morale, profondi conoscitori dell’animo umano, ai quali di dettagli come le prove e regole procedurali non importa nulla, al cospetto di succosi dettagli erotico-sentimentali. Non manco i veri tifosi. Di Rudy, Amanda, o Raffaele. Dipende dalle bandiere e dai gusti. ( ma va detto che Amanda, molto bellina, la fa da padrona con migliaia di fans.). Occasione ghiotta anche per i censori della malagiustizia, pronti ad accodarsi al coro degli indignati, solidali alle vittime in quanto vittime anch’essi. Si passa dalla solidarietà del parente del carcerato,  al furioso condomino che ha perso nella lite civile col vicino di casa e cova vendetta contro la casta dei magistrati. Scandali a go-go, e visto il clima, e’ intervenuto anche il ministro Alfano. “I giudici non pagano mai”. Piatto ricco, mi ci ficco. Io invece non so cosa dire, non me la sento di dire assassini a due dichiarati innocenti, non  sento tutto questo desiderio di vendetta –  giustizia, non mi ritengo capace di giudicare i giudici, né di spacciare verità di cui so poco o nulla. Certo leggi che ti rileggi, un’ idea sul ferretto del reggiseno col DNA me la sono fatta pure io. Ma poi a buttarla lì nel mucchio, niente, proprio non mi sento capace di giudicare tragedie di cui ho solo sentito parlare davanti un piatto di spaghetti. Devono essere state tutte quelle cretinate che mi fanno studiare, tipo questa storia del ragionevole dubbio, del favorire la libertà, perché stupidamente, meglio un colpevole fuori, che un innocente all’ergastolo. Sarà che le decisioni della magistratura, mi hanno detto, si aspettano, si appellano, si criticano volendo, ma dove aver almeno letto cosa dicono, e che in ogni caso almeno un po’ , giuste o sbagliate ai nostri occhi, poi alla fine si rispettano. In verità, credo che non avendo seguito molto la cosa in tv, io di questo processo potrò comunque capire davvero poco. Forse il processo doveva svolgersi direttamente in televisione, senza robaccia da azzeccagarbugli di mezzo. Sarebbe davvero più semplice fare così, e molti sarebbero più soddisfatti. In futuro faremo così. Si organizzerà una grande diretta tv , tipo Forum ma più serio, e i personaggi della storia raccontano i fatti, le emozioni. Li interroga un conduttore, con le domande da casa e l’aiutino,sempre facendo attenzione agli aspetti morbosi: share assicurato. Così se ne parla un pò, si sente qualche criminologa in minigonna, qualche ombroso psicanalista, un’attrice, un po’ di gente così a casaccio, e alla fine col televoto si decide. Colpevoli o innocenti, pena a piacere del pubblico.

Delitto Meredith, condanna per la Knox e Sollecito. Parla il giudice Nencini: ho la coscienza tranquilla, scrive “Il Giornale di Sicilia”. Aveva annunciato almeno sette ore di camera di consiglio. Ma alla fine sono state 12. Tanto che, durante il pomeriggio, ieri la segretaria si è dovuta affacciare più volte in aula per comunicare che la lettura della sentenza sarebbe slittata. Il giorno dopo le condanne ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito, il presiedente della Corte d'assise d'appello di Firenze, Alessandro Nencini, spiega il perchè di tanta attesa per la decisione: «La mia logica è stata: prendiamoci il tempo che serve, dobbiamo uscire con la coscienza pulita. Così è stato». Intanto, nelle lunghe ore di "presidio" in aula, fra avvocati, giornalisti e pubblico partiva il gioco delle congetture: liti con i giudici popolari, liti sulle misure da disporre per i due imputati, reati da modificare, capi di imputazione da riscrivere. Nencini non ha gradito il chiacchiericcio di questi mesi attorno al processo, specie quello su giornali e tv. «I processi si fanno nelle aule, non sui media», dice. Poi sottolinea un aspetto di cui va orgoglioso. Nonostante i tempi della giustizia siano notoriamente lunghi, stavolta «in quattro mesi abbiamo fatto un processo con rinnovazione del dibattimento». Durante il processo Nencini ha dimostrato di essere un tipo spiccio. Più volte ha interrotto gli avvocati con brusca schiettezza. Oggi non racconta cosa sia successo ieri, però, «non ci sono da fare dietrologie - spiega - è stata una camera di consiglio normale, con una discussione normale. Il tempo è servito per l'esame degli atti: 12 ore non devono fare effetto». In fondo, basta fare due calcoli: «Il processo è composto 64 faldoni e 36 perizie - ricorda Nencini - e c'erano da valutare le ordinanze cautelari. La durata della camera di consiglio è stata fisiologica. I giudici popolari devono dare il loro contributo. Se non vogliamo che siano solo fantocci, dobbiamo metterli in condizione di confrontarsi con gli atti processuali, per far sì che possano pervenire a una decisione ragionata. È stata una camera di consiglio vera». Quando si è diffusa la notizia che per notificargli il divieto di espatrio, la polizia ha dovuto raggiungere Raffaele in un albergo alle porte con l'Austria, qualcuno ha pensato che la Corte potesse rivedere la misura, magari disponendone una più "pesante". Per ora non c'è bisogno. Per ora. «L'ordinanza è stata eseguita. Basta - ha detto Nencini - Lui sta in Italia, la questione è chiusa qua. Non c'è motivo di immaginare altro».

Omicidio Meredith, parla il giudice: «Amanda e Raffaele l'hanno uccisa perché quella sera non avevano niente da fare». Alessandro Nencini, il giudice dell’appello, spiega a Cristiana Mangani  de “Il Messaggero” la sentenza. «I giurati erano bombardati dalla tv, facevano tante domande». Di questo processo ricorderà la tensione di Raffaele Sollecito, le dichiarazioni scritte via e-mail da Amanda Knox, le continue domande dei giudici popolari, le dodici ore di Camera di consiglio.

Presidente Nencini è finita.

«È stato faticoso, ma il giorno dopo ci si sente liberati. Sono vicende drammatiche, che hanno sconvolto delle vite. Ho anche io dei figli e una famiglia. Arrivare alla decisione è stato pesante, ma una volta che il verdetto è stato emesso ci si sente sgravati». È la mattina successiva alla nuova condanna per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, il presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze, Alessandro Nencini, è già nel suo ufficio. Nella stanza al nono piano dell’iper moderno palazzo di giustizia, con ampie vetrate sulla città.

Dodici ore di Camera di consiglio, come mai così tanto tempo?

«Era il tempo necessario, c’era la necessità che i giudici popolari prendessero cognizione degli atti. I documenti di questo processo occupano mezza stanza. Si avvertivano due cose: la gravità della situazione. E poi, devo essere onesto, la sovraesposizione mediatica di questo caso, che non ha giovato. I giurati tornavano a casa e venivano bombardati da informazioni. E quando ci vedevamo, volevano sapere: "presidente, ma in tivù dicevano in un altro modo. Come è andata veramente?" Allora la mia logica è stata: prendiamoci il tempo che serve, dobbiamo uscire con la coscienza pulita. Così è stato».

Le motivazioni della Cassazione sembrano aver indicato un sentiero su cui procedere. Non saranno entrati un po’ troppo nel merito?

«Hanno solo spiegato che, in più occasioni, la sentenza di assoluzione mancava di argomentazioni e presentava difetti di logica. Non si poteva far finta di non vederle. Si può ritenere che siano condivisibili o meno, ma si deve anche spiegare perché».

La difesa di Sollecito ha suggerito la possibilità che i ruoli e le responsabilità dei due giovani venissero ben individuati e distinti. Avete preso in considerazione questa eventualità?

«Le difese di Knox e Sollecito sono state ad altissimo livello, hanno fatto delle scelte strategiche, ma i processi vanno fatti con le regole. Le due parti sono effettivamente diverse dal punto di vista processuale, perché Raffaele non è mai stato interrogato. C’è solo l’interrogatorio davanti al gip, fatto dopo l’arresto, ma non è utilizzabile. L’esame dell’imputato in questi anni, non è mai stato chiesto».

Pensa che sarebbe cambiato qualcosa?

«La facoltà di non farsi sentire nel processo è un diritto, ma priva il soggetto di una voce. La Knox ha parlato in vari modi, ha fornito diverse versioni, ha scritto memoriali. Per Sollecito si è ritenuto di non farlo parlare. Non abbiamo un suo contraddittorio processuale. Quanto questo abbia influito sulla decisione della Corte lo leggerete nelle motivazioni».

C’è poi il movente del delitto: a sfondo sessuale o per questioni legate alla pulizia della casa e a un litigio tra Mez e Amanda?

«Il movente è un problema che la sentenza affronterà. A livello generale, quando un fatto di sangue nasce all’interno di un’organizzazione criminale, è facile. Qui è nato e maturato in una serata tra ragazzi. Non c’è un movente prevalente che si possa desumere da un contesto. Fino alle 8 e un quarto della sera del primo novembre, Amanda doveva andare a lavorare al pub di Lumumba, e Raffaele doveva andare alla stazione a prendere la valigia di un’amica. Poi la situazione è cambiata. L’episodio nasce in una sera in cui nessuno aveva più da fare».

Un gioco del destino, come nel film Sliding doors? Una casualità? Un impulso?

«Non vorrei banalizzarlo con l’idea della casualità, ma se Amanda fosse andata a lavorare, probabilmente l’omicidio non sarebbe mai successo. Non si sarebbe creata questa occasione, e oggi non saremmo qui a discuterne. Cercare moventi può essere interessante, e negli atti vengono fornite diverse indicazioni. Sono consapevole che sarà la parte più discutibile delle motivazioni».

Pensa che la procura generale le chiederà l’arresto per Sollecito?

«L'ordinanza con il divieto di espatrio è stata eseguita. Lui sta in Italia, la questione è chiusa, non c'è motivo di immaginare altro».

«Mi sento liberato perché il momento della decisione è il più difficile. Ho anche io dei figli e infliggere condanne da 25 e 28 anni a due ragazzi è una cosa emotivamente molto forte», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Alle 10 del giorno dopo il giudice Alessandro Nencini è nel suo ufficio. Il presidente della Corte d’assise d’appello di Firenze che due sere fa ha ritenuto Amanda Knox e Raffaele Sollecito colpevoli dell’omicidio di Meredith Kercher è consapevole che «la sentenza aprirà un nuovo dibattito, soprattutto mediatico», ma proprio per questo accetta di spiegare come si è arrivati al verdetto.

Siete stati dodici ore in camera di consiglio. Il collegio era diviso?

«Gli atti di questo processo occupano mezza stanza, ci sono 30 perizie. I giudici popolari, che non sono addetti ai lavori, dovevano prendere cognizione del fascicolo per arrivare a una decisione condivisa, come deve essere quella di una Corte d’Assise. Bisogna esaminare i documenti, ragionarci sopra. Lo abbiamo fatto prendendoci tutto il tempo necessario tenendo conto che anche la vittima era una ragazza».

E poi avete raggiunto l’unanimità?

«Ho parlato di decisione condivisa. Posso dire che in tutti questi mesi e in particolare al momento dell’ultima riunione abbiamo avvertito la gravità di una sentenza che coinvolge ragazzi persone giovani e intere famiglie. Questa è una vicenda che ha stravolto molte vite».

Il vostro era un sentiero stretto, la Cassazione aveva sollecitato a «porre rimedio» rispetto alla sentenza di secondo grado che a Perugia aveva assolto i due imputati.

«Non è così, noi avevamo massima agibilità. Il vincolo era solo che in caso di assoluzione avremmo dovuto motivare in maniera logica. Non c’era alcun paletto».

Neanche rispetto alla sentenza emessa nei confronti di Rudy Guede?

«Effettivamente la particolarità del processo era proprio questa: una persona già condannata con rito abbreviato e in via definitiva per concorso nello stesso omicidio. La Cassazione ci chiedeva di valutare il ruolo dei concorrenti. Noi avremmo potuto dire che non erano i due imputati, motivandolo in maniera convincente. Ma non abbiamo ritenuto fosse questa la verità».

Perché avete deciso di non interrogare Guede?

«A che pro? Lui non ha mai confessato e anche se l’avessimo convocato aveva la facoltà di non dire nulla. Non l’abbiamo ritenuto necessario. Invece ci sembrava importante approfondire altri aspetti e infatti abbiamo disposto una perizia e ascoltato i testimoni sui quali c’erano dubbi. È il ruolo dei giudici di appello. In quattro mesi siamo riusciti ad arrivare alla definizione».

I legali di Sollecito vi avevano chiesto di separare le posizioni.

«Motiveremo in maniera approfondita sul punto spiegando perché non abbiamo ritenuto di accogliere questa impostazione. In ogni caso Sollecito ha deciso di non farsi mai interrogare nel processo».

E questo ha influito sulla scelta di condannarlo?

«È un diritto dell’imputato, ma certamente priva il processo di una voce. Lui si è limitato a dichiarazioni spontanee, ha detto soltanto quello che voleva senza sottoporsi al contradditorio».

Negli anni sono stati ipotizzati moventi diversi. Voi che idea vi siete fatti?

«Abbiamo una convinzione e la espliciteremo nella sentenza. Al momento posso dire che fino alle 20,15 di quella sera i ragazzi avevano programmi diversi, poi gli impegni sono saltati e si è creata l’occasione. Se Amanda fosse andata al lavoro probabilmente non saremmo qui».

Vuol dire che l’omicidio è stata solo una casualità?

«Voglio dire che è stata una cosa tra ragazzi, ci sono state coincidenze e su questo abbiamo sviluppato un ragionamento.

Sono consapevole che sarà la parte più discutibile».

La Cassazione ha demolito la sentenza di assoluzione. Lo farete anche voi?

«Non ne parleremo, noi dobbiamo concentrarci sul primo grado che nei fatti abbiamo confermato».

E non crede che ci siano stati degli errori?

«Non ho detto questo. Qualche cosa credo ci sia stata e la evidenzierò».

Avete condannato Amanda Knox ma non avete emesso alcuna misura cautelare nei suoi confronti. Perché?

«È legittimo che lei sia negli Stati Uniti. Al momento del delitto era in Italia per motivi di studio ed è tornata a casa sua dopo essere stata assolta. Lei è una cittadina americana. Il problema si porrà qualora dovesse esserci la necessità di esecuzione della pena. Adesso non credo fosse necessario un provvedimento».

E allora perché avete ritirato il passaporto di Raffaele Sollecito?

«Era il minimo sindacale. In questi casi l’ordinanza serve a prevenire qualcosa e noi dovevamo evitare che si rendesse irreperibile in attesa del giudizio definitivo».

E crede basti il divieto di espatrio?

«Sì, ci è sembrato più che sufficiente. Se poi dovessero esserci sviluppi li valuteremo».

Altro che Giuria pluricratica e popolare. E’ solo e sempre uno al comando, anche nell’errore/orrore.

Filippo Facci: così la Boccassini smaschera 20 anni di balle dell'antimafia. La Boccassini e l'antimafia: "Già nel '94 scrissi che il pentito Scarantino mentiva. Ma i pm non mi hanno voluto ascoltare...". È vero, Ilda Boccassini l’aveva detto che il pentito Vincenzo Scarantino era un falso pentito che mentiva e depistava: lo scrisse in una relazione del 12 ottobre 1994, come Libero ha ricordato più volte. Ma altri segnali certo non erano mancati, anche se i campioni dell’antimafia - ora santificatori del pm Nino Di Matteo - hanno fatto finta di niente per quasi vent’anni. L’altro giorno, in ogni caso, il procuratore Boccassini ha testimoniato al millesimo processo per la strage di via D’Amelio e ha puntualizzato per bene: «Se all’epoca la mia relazione fosse stata presa in considerazione, forse non saremmo a questo punto. Perplessità sulla caratura del personaggio ne avemmo da subito... stava raccontando un sacco di fregnacce, ed era pericoloso». Parla di Vincenzo Scarantino,  falso pentito che per infiniti anni fu accreditato da investigatori e giudici - in particolar modo dal pm Nino Di Matteo - ma che si era inventato tutto e cercò pure di ritrattare, ma gli fu regolarmente impedito. Un depistaggio? Un’oscura manovra di cui furono vittime, oltre alla verità, anche Di Matteo e gli altri pm che indagavano su via D’Amelio? Un complotto, cioè, ordito in primo luogo dall’allora questore Arnaldo La Barbera, investigatore morto nel 2002 e oggi obliquamente accusato? «Il dominus dell’indagine resta sempre il pm, mai l’investigatore», ha detto la Boccassini ai giudici, «e sono i pm che devono aver deciso di andare avanti con Scarantino». Peraltro La Barbera, ha fatto capire il procuratore, di dubbi su Scarantino ne aveva a sua volta.

I DUBBI

Dunque vediamoli, questi dubbi e segnali che sono stati ignorati per anni - dai pm, dai processi e dalla stampa antimafia - al prezzo di undici processi inutili e di ergastoli affibbiati a innocenti. 

1993. Compare Vincenzo Scarantino, meccanico semianalfabeta del rione Guadagna, drogato, riformato per schizofrenia, sposato ma anche fidanzato con transessuali, ritenuto credibile anche se i boss Salvatore Cancemi e Mario Di Matteo e Gioacchino La Barbera diranno che non l’avevano mai sentito nominare. Giovanni Brusca, in aula, dimostrerà che Scarantino fu da subito un ballista spaziale, un palese balordo che tuttavia convinse i giudici d’essere l’uomo che Totò Riina incaricò di una delle stragi più importanti della storia d’Italia, quella che uccise Paolo Borsellino. Ma fu lo stesso Scarantino, già nel 1993, a raccontare che i poliziotti l’avessero indotto a false accuse: «Mi ficiru inventare tutti ‘i cosi...’u verbale lu fici iddu poi mi fici firmare...». Traduzione: mi hanno fatto inventare tutto, il verbale lo hanno fatto, e poi me lo hanno fatto firmare. Ma fa niente. Il processo di primo grado seguirà comunque il suo corso e Scarantino sarà condannato a 18 anni, con l’ergastolo per i complici che aveva dapprima indicato. Le sue ritrattazioni non interessavano. 

1994. Ilda Boccassini, pm applicata per due anni in Sicilia, scrive la citata relazione dopo aver personalmente interrogato Scarantino: è un mentitore, non c’è da fidarsi - scrive assieme al collega Roberto Saieva. Durante l’estate il pm si rende disponibile a cercare i riscontri che potessero smascherare definitivamente Scarantino, ma il procuratore Capo Giovanni Tinebra le risponde che non è necessario. Un vertice per valutare le incongruenze di Scarantino viene rinviato di continuo, e non ci sarà mai. Sinché la Boccassini riparte per Milano e le sue indagini sono continuate da Carmelo Petralia, Annamaria Palma e Antonino Di Matteo.

IL SUPERPOLIZIOTTO

1995. Alla giornalista Silvia Tortora venne recapitata una vecchia lettera poi diffusa dall’allora onorevole Tiziana Maiolo: l’aveva scritta la moglie di Scarantino e si accusava gravemente il questore Arnaldo La Barbera di aver costretto il marito a false confessioni con «vere e proprie torture». La stessa moglie testimonierà che prima di ogni udienza, a casa loro, si presentavano degli individui per un ripasso delle cose da dire in udienza. La prospettiva che possa crollare il castello istruttorio costruito attorno a Scarantino, tuttavia, sembra terrorizzare la procura palermitana retta da Gian Carlo Caselli: è lui, in luglio, a convocare i giornalisti e a parlare di notizie «inquinate e inquinanti» e di «una campagna di delegittimazione contro i collaboratori di giustizia». La difesa del «superpoliziotto» La Barbera, quel giorno, è spettacolare e vi partecipa anche il prefetto Achille Serra: «Conosco La Barbera da tanti anni, è un funzionario leale e un grande investigatore». Aggiunge il procuratore generale Antonino Palmeri: «Barbera ha tutta la nostra solidarietà». Insiste Caselli: «È inaccettabile e calunnioso... il dottor La Barbera quotidianamente dimostra la sua trasparenza e il suo coraggio». Sempre in luglio, il 26, la procura di Caltanissetta ordina di distruggere una duplice intervista che Studio Aperto aveva appena fatto a Scarantino: un’intervista in cui Scarantino diceva la verità, o qualcosa di molto simile. Il falso pentito aveva raccontato ai giornalisti che fu torturato nel carcere di Pianosa e la sua deposizione fu tutta una montatura. Notevole che Scarantino fu costretto a rivolgersi a una tv Mediaset perché tutta la stampa «antimafia» era in linea con le procure e i loro sostituti: in ogni caso l’intervista sparì perché la magistratura la fece sequestrare. Non solo. La Procura di Caltanissetta ordinò di distruggere le cassette e poi convocò Scarantino perché ritrattasse la ritrattazione. Scarantino lo fece. Fu aperta addirittura un’inchiesta «per accertare eventuali comportamenti illeciti per convincere Scarantino a ritrattare». La verità morì quel giorno, con la collaborazione decisiva delle procure: misero a tacere ciò che si sarebbe scoperto - ufficialmente - quasi vent’anni dopo.

1998. Ogni dubbio su Scarantino viene tacitato assieme ai suoi tentativi di ritrattare. Dice il pm Palma sul Corriere della Sera del 16 settembre 1998: «Dietro questa ritrattazione c’è la mafia... Cosa nostra ha trovato un’altra strada, dimostrando di sapersi adeguare». Dice il pm Antonino Di Matteo in una requistoria: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni... L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa nostra... Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarsi di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di fare esplodere il sistema giudiziario».

Eppure altri dubbi saranno palesati anche dal giudice Alfonso Sabella, dall’informatico Gioacchino Genchi e dal collaboratore di Borsellino Carmelo Canale. Il senatore Pietro Milio della lista Pannella, nel febbraio 1999, presentò un’interrogazione al Guardasigilli per via di un verbale - reso da Scarantino nel 1994 - che era pieno di annotazioni e correzioni poi regolarmente recepite. Non ebbe risposta.  Eppure, sempre nel 1998, Scarantino mette ancora a verbale: «C’era la dottoressa Palma che mi diceva le domande che mi doveva fare l’avvocato… Mi preparava delle cose che io dovevo rispondere l’avvocato, e già io avevo la cosa come rispondere». Vero, falso? Non interessava. Ogni rilievo veniva accusato di mafiosità e di «delegittimazione della magistratura». 

2008. Per far luce su via D’Amelio, 17 anni dopo la strage, compare il pentito Gaspare Spatuzza: e cambia tutto. L’uomo dimostra di aver guidato personalmente la Fiat 126 al tritolo che uccise Borsellino. In pratica tutti i processi già celebrati - Borsellino primo, Borsellino bis, Borsellino ter, vari appelli e cassazioni - diventano spazzatura, un pattume avvalorato soltanto dalla testimonianza di un uomo che pure, per 17 anni, aveva disperatamente cercato di spiegare che di pattume si trattava e che c’erano in carcere degli innocenti condannati all’ergastolo. La Corte d’Appello di Catania dovrà liberarli tutti nell’autunno 2010.

LE SEVIZIE

2009. Ma intanto un sodale di Scarantino, Salvatore Candura, racconta ai pm di Caltanissetta che il questore La Barbera, prima di un interrogatorio con Ilda Boccassini, gli aveva intimato di continuare a incolpare Scarantino: in cambio, La Barbera gli avrebbe fatto avere degli aiuti. Pochi mesi dopo, in luglio, un altro teste, Francesco Andriotta, conferma tutto. Nel settembre successivo tocca a Scarantino a rimettere ancora una volta a verbale che lo avevano seviziato perché dicesse il falso. Va ricordato che nel frattempo La Barbera, nel 2002, era morto. Nel frattempo il fronte mediatico-giudiziario dell’antimafia corre ai ripari. Scarantino viene progressivamente indicato come uno strumento innestato dai «trattativisti» di Stato per depistare la verità dalle indagini su via D’Amelio: anche se, come visto, la patente di affidabilità di questo personaggio fu rilasciata proprio da chi ora denuncia il depistaggio: e uno è paradossalmente il pm Di Matteo, che oggi istruisce il processo sulla «trattativa» e forse dovrebbe interrogare se stesso.

Amanda Knox potrà essere estradata. Ecco perché, scrive Nadia Francalacci  su “Panorama”."Mi vogliono in prigione. Ma io sarò latitante". Queste sono state le parole, poche ore prima del verdetto della Corte d'Assise d'Appello di Firenze per l'omicidio di Meredith Kercher, di Amanda Knox pronunciate in un'intervista via Skype al New York Times. Amanda, davanti alla telecamera, è convinta e decisa. "Nulla potrà cancellare l'esperienza di essere stata ingiustamente imprigionata e per questo io non tornerò mai più in Italia" ha continuato la giovane di Seattle che, in attesa della lettura del verdetto, non ha resistito alla tentazione di cambiare il proprio look facendosi persino  accompagnare dal parrucchiere. Ma la studentessa americana che per anni ha convito un’intera nazione della sua innocenza, negli ultimi mesi ha cominciato a perdere credibilità anche tra l’opinione pubblica americana. Per i media statunitensi, infatti, l’immagine granitica della ragazza accusata ingiustamente ha cominciato a sgretolarsi. Molti giornali e tv, che per anni l’avevano difesa descrivendola come una “vittima” del sistema giudiziari italiano, hanno cominciato a parlare di lei come una persona diabolica, come una perfetta assassina. Una definizione che la ragazza dal look camaleontico, però, non ha mai accettato. "Io non sono così- ribadisce nell’intervista al NY Times - sono diversa da come mi hanno dipinta". Ma adesso c’è una sentenza, quella del processo “bis”, che la condanna a 28 anni e sei mesi di carcere. E' adesso, però, in considerazione delle sue dichiarazioni e di alcuni precedenti storici tra Italia e Usa che iniziano gli interrogativi: Amanda Knox sconterà la pena nelle strutture penitenziarie italiane? La magistratura italiana riuscirà a riportarla nel Belpaese oppure come pensano la maggior parte degli italiani  la bella studentessa americana riuscirà a “farla franca”? Proprio sull’esecuzione della pena, la storia di Amanda Know sarà destinata a creare polemiche e probabilmente anche attriti diplomatici tra il nostro Paese e gli Usa, come è già avvenuto in passato per altri due casi: la strage del Cermis e l’omicidio dell’agente del Sismi, i servizi segreti italiani, Nicola Calipari. In entrambi i casi le diplomazie dei due Paesi hanno dovuto ‘lavorare’ per riconoscere le colpe ai cittadini americani. E nel caso del Cermis i quattro ufficiali colpevoli della morte di 20 persone, non hanno mai sostenuto un processo in territorio italiano, Paese dove era avvenuta la strage. Strage del Cermis: il 3 febbraio 1998 un aereo militare Grumman EA-6B Prowler statunitense trancia il cavo della funivia del Cermis, in Val di Fiemme a Cavalese e provoca la morte di 20 persone. L’aereo era decollato dalla base aerea di Aviano alle 14:36. Durante un volo di addestramento a bassa quota, tranciò le funi del tronco inferiore della funivia del Cermis. La cabina, al cui interno si trovavano venti persone, precipitò da un'altezza di circa 150 metri schiantandosi al suolo dopo un volo di 7 secondi. Il velivolo, danneggiato all'ala e alla coda, fu comunque in grado di far ritorno alla base. Nonostante la presenza di testimoni, la dinamica dei fatti non apparve subito chiara. Solo la prontezza dei magistrati trentini, che sequestrarono immediatamente l'aereo incriminato nella base di Aviano, ha permesso di chiarire le responsabilità. In effetti l'aereo era già pronto per essere smontato e riparato. I pubblici ministeri italiani richiesero di processare i quattro marines in Italia, ma il giudice per le indagini preliminari di Trento ritenne che, in forza della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 sullo statuto dei militari NATO, la giurisdizione sul caso dovesse riconoscersi alla giustizia militare statunitense. L'episodio creò un clima di forte tensione tra statunitensi e italiani. Il presidente degli Stati Uniti d'America Bill Clinton si scusò per l'incidente solo alcuni giorni dopo, e promise alle famiglie delle vittime risarcimenti in denaro.Dopo poche settimane il Presidente del Consiglio, all’epoca Romano Prodi assieme ad una rappresentanza del governo italiano, volò in terra statunitense. Caso Calipari: Nicola Calipari viene ucciso a Baghdad il  4 marzo 2005 da un soldato statunitense duranti le fasi immediatamente successive alla liberazione della giornalista de Il Manifesto, Giuliana Sgrena.La vicenda crea immediatamente forti attriti diplomatici fra Italia e Stati Uniti d'America, come nel caso del Cermis. La magistratura italiana apre subito un'inchiesta sulla vicenda, incriminando il soldato Mario Lozano per l'omicidio di Calipari e il tentato omicidio di Giuliana Sgrena e dell'autista, Andrea Carpani, maggiore dei Carabinieri in forza al SISMI, entrambi rimasti feriti. Ma furono prodotte due versioni dell'accaduto, una italiana ed una americana, fra loro contrastanti in molti punti. La Procura della Repubblica di Roma il 19 giugno 2006 formalizza la richiesta di rinvio a giudizio per il militare americano Mario Lozano. Ma Mario Lozano risulta irreperibile: è mancata la collaborazione richiesta e non ottenuta dagli Stati Uniti. Le autorità americane respingono anche una rogatoria internazionale presentata dalla Procura di Roma. Con sentenza del 19 giugno 2008, la I Sezione penale della Corte di Cassazione rigetta il ricorso della Procura di Roma, confermando la mancanza di giurisdizione italiana sul caso. E adesso c’è un altro caso giudiziario che lega l’Italia all’Usa, quello di Amanda Knox.

Avvocato Stefano Toniolo, penalista dello studio legale Martinez e Novebaci,  Amanda knox è stata condannata ma lei da Seattle è stata categorica e ha fatto sapere che non tornerà in Italia. Adesso tecnicamente Amanda è latitante?

“No, non è latitante fino a sentenza passata in giudicata, fino alla sentenza della Cassazione. I giudici  della Corte d’Assise e d’appello di Firenze nella lettura della sentenza di condanna sono stati molto chiari e hanno specificato che Amanda Knox si trova “legittimamente” nel suo Paese”.

Quali strumenti ha a disposizione  la magistratura italiana per pretendere il rientro in Italia di Amanda affinché sconti la pena nelle carceri italiane?

“Occorrerà attendere il giudizio della Cassazione e se verrà confermata la sentenza del tribunale di Firenze, potrà essere applicata una Convenzione stipulata con gli Usa nel 1983 ed entrata in vigore l’anno successivo, che regola l’estradizione nel caso in cui la condanna superi un anno di carcere. Non solo, l’estradizione è prevista anche per tutti quei reati che sono considererai tali anche negli Usa, quindi anche il caso di Amanda Knox, fatta la sola eccezione per i reati di tipo politico e militare”.  

Molti italiani  credono e temono che possa verificarsi un  Cermis “bis”?

“La Convenzione del ’83 esclude dal trattato i reati di tipo militare e la strage del Cermis rientrava in questa fattispecie. Questo è un caso completamente diverso e credo che sia difficile che non venga concessa l’estradizione considerando anche i rapporti tra i due Stati anche se in rete, in queste ore, circolano pareri discordanti. Illustri penalisti sostengono che l’estradizione potrebbe essere ostacolata da una incompatibilità tra i trattati Usa-Italia e la Costituzione americana sul giusto processo. In tal caso, se Amanda non venisse estradata,  l’Italia ha la possibilità di chiedere l’esecuzione della condanna nelle carceri americane. Credo che quest’ultima sia l’ipotesi più probabile”.

C’è il rischio di una tensione diplomatica tra Italia e Usa?

“E’ molto difficile che questo accada ma adesso siamo ancora nel campo delle ipotesi. Forse qualche tensione potrebbe anche verificarsi in considerazione dell’impegno molto forte da parte dei media americani nella lotta per l’innocenza della Knox. Ma ripeto, adesso è ancora molto presto. Dobbiamo aspettare la sentenza della Cassazione”.

Amanda Knox: “Sono innocente. Ecco perché non torno in Italia”. L'Amanda che compare nel video girato da Oggi ha un viso più rilassato, ma la paura non è ancora stata cancellata dai suoi occhi. Per l'accusa nel processo è ancora colpevole «ma come può essere visto che non ci sono tracce della mia presenza nella stanza dove è stato commesso l'omicidio?», si chiede. Per Amanda è questa la vera prova della sua innocenza. Quattro anni della sua vita, racconta ancora, le sono stati rubati, ma continua ad avere «massima fiducia nella giustizia italiana, ecco perché sto qua a combattere ancora». L'Italia per Amanda è sinonimo di carcere e accuse. «Non ho più niente là, anni di terapia non mi hanno aiutato, neppure scrivere un libro mi ha liberato. Starei molto meglio solo se il giudice ammettesse di avere sbagliato». Abbiamo incontrato Amanda Knox a Seattle, alla vigilia del nuovo processo d'Appello per l'omicidio di Meredith Kercher. Ecco l'intervista esclusiva a Oggi. Amanda Knox parla a cuore aperto in un’intervista esclusiva che pubblica il settimanale Oggi in edicola. Svela di avere ancora paura, di essere stata dallo psicologo, di voler incontrare la famiglia di Meredith Kercher. Poi, ammette di essere “imbranata a letto”. E svela perché è innocente: “Sul luogo non c’è una sola mia traccia. Non una. Tornerei in Italia solo se gli inquirenti ammettessero di aver fatto un errore”. Ecco che cosa ci ha detto a Seattle, dove l’abbiamo incontrata alla vigilia del nuovo processo di Appello che si aprirà il 30 settembre a Firenze. «Sto cercando di ricostruirmi una vita», esordisce Amanda Knox nell’intervista esclusiva a Oggi in edicola. «Ne ho una sola, non posso permettermi di esporla al pericolo di un’altra ingiustizia. Mi hanno già rubato quattro anni, non ho più niente in Italia: tutto quello che potevo dire l’ho detto in un centinaio di udienze, tutto quello che possedevo – l’allegria, l’ingenuità, la fiducia negli altri -  mi è stato portato via. Ero una ragazzina quando mi hanno sbattuto in carcere. Ora mi sento come se avessi 40 anni in più di quelli che ho». «Io non ho ucciso Meredith», continua Amanda Knox nell’intervista a Oggi. «Non ho ucciso la mia amica e ho anche pensato di andarci, a Firenze, perché mi fa impazzire l’idea che qualcuno possa gonfiare il petto, puntare il dito contro la mia sedia vuota e dire che mi sono macchiata di un crimine che non ho commesso. Io posso capire che si possa costruire un’accusa, e una condanna, anche se manca la prova fumante, se manca il movente. Ma contro di me hanno esagerato». Nell’intervista al settimanale Oggi, Amanda Knox dice: «Dallo psicologo ci sono stata due volte, mia madre ha insistito tanto… Io non volevo, perché conoscevo solo gli psicologi del carcere e non posso dire che mi abbiano aiutato: pensavano solo a riempirmi di antidepressivi… La prima volta non sono riuscita a dire una parola. La seconda ho parlato per 15 minuti di fila e alla fine ho avuto un attacco di panico: non riuscivo, e non riesco ancora, a tirare fuori la tristezza, a cancellare la sensazione di essere braccata. Mi sento sempre come quegli animali che sono cacciati dagli animali più grandi. Dopo l’assoluzione, pensavo che sarei stata bene, che sarei tornata com’ero prima, allegra, spensierata. Cercavo di convincermi che stavo bene, che era questione di tempo, che la tristezza sarebbe passata. Ma non passava, la tristezza, i mesi scivolavano e io ero sempre spaventata, esausta. Ora ho accettato questo limbo, anche se forse ci tornerò, dallo psicologo. Neppure aver scritto il libro mi ha “curato”». «Io capisco gli inquirenti», prosegue Amanda Knox nell’intervista a Oggi. «Erano sotto pressione, dovevano trovare subito i colpevoli. Per me si sono fatti un’idea frettolosa e sbagliata del mio comportamento, della mia presunta freddezza, e hanno deciso che avevo qualcosa a che fare con l’omicidio: non sapevano cosa, esattamente, ma in qualche modo io c’entravo, ero colpevole e meritavo il carcere. Io sono molto arrabbiata con il pm Giuliano Mignini e con gli investigatori, ma li perdonerei in un istante se ammettessero di aver sbagliato. Non devono neanche dirmi sorry, mi dispiace. Non voglio vendette. Sentirei una tale pace, se Mignini ammettesse di aver sbagliato». Prosegue Amanda: «Dire che sono innocente, significherebbe ammettere non solo che è stato fatto un errore, ma che è stato fatto un errore sopra un errore, sopra un altro ancora, e tutto per coprire un mucchio di altri errori. E gli investigatori, i giudici, non vogliono ammettere a se stessi e al pubblico di aver sbagliato. È una questione di reputazione… Ma la giustizia è fatta di esseri umani, e gli esseri umani possono sbagliare». Nell’intervista a Oggi, Amanda Knox dice anche di non sentirsi in colpa nel lasciare il suo coimputato Raffaele Sollecito solo nell’aula del nuovo processo, che si aprirà il 30 settembre. «In colpa? E perché? Io faccio di tutto per stargli vicino: ci sentiamo sempre, gli faccio coraggio, dico a tutto il mondo che è innocente. Come potrei aiutarlo, tornando? Lui soffre più di me, perché tutto questo – la condanna ingiusta, l’accanimento dei pm e dei media – glielo sta facendo il suo Paese, la sua gente. Ma io non ho alcun potere… Sono semplicemente la sua amica. Un’amica orgogliosa: ho saputo solo leggendo il suo libro, che gli era stato offerto di distruggere il mio alibi in cambio della libertà, e che lui ha rifiutato. È una persona straordinaria. Gli voglio un bene enorme. È rimasto questo, l’affetto, ed è importante… Lui ha detto a Oggi che a letto ero imbranata? Raffaele sa di cosa parla. Certo, avrei preferito che proteggesse di più la mia privacy». «Contattare i Kercher? Non ci sono ancora riuscita», spiega Amanda Knox nell’intervista esclusiva a Oggi. «C’è questo abisso di dolore che ci separa, che è cresciuto durante processo: non ho avuto il coraggio di attraversarlo. Milioni di volte, ho pensato di avvicinarli, e in milioni di modi diversi: non l’ho fatto perché ho paura che loro la considerino una strategia legale o mediatica. Non voglio che pensino questo di me. Leggo le loro dichiarazioni sul processo, su Meredith. Ho letto il libro di John Kercher. Sono stata assorbita e annientata dalle udienze, dalla prigione. Non ho ancora avuto la forza di piangere, di metabolizzare la perdita di Meredith. Ma voglio essere in grado di incontrarli, un giorno, voglio andare con loro sulla tomba della mia amica. Senza “impormi” sul loro dolore: spero di incontrarli a metà strada. Anche se ora è presto: continuano a pensare che io sia colpevole, ed è una cosa che mi fa un male enorme».

"Quarto Grado" dedica una puntata al giallo di Perugia, scrive “La Stampa”. Intanto l'ex fidanzato Raffaele Sollecito scrive un sms alla trasmissione Mediaset dando il suo punto di vista della vicenda: "Siamo innocenti". Il nuovo Appello si sposta a Firenze. Sull'omicidio di Meredith Kercher avvenuto a Perugia, torna a dire la sua Raffaele Sollecito, assolto con Amanda Knox nel processo di appello. Processo che ora è da rifare, visto che la Cassazione ha annullato quella sentenza. "Qualsiasi teoria accusatoria è solo frutto di una fantasia torbida ed un accanimento insensato - dice Sollecito - Spero che questa Corte voglia approfondire e accettare le nostre richieste, non tenendo conto di pregiudizi e di giudizi sulla personalità, oltretutto deviati dalla stampa avida di gossip, che non hanno nulla a che vedere con qualsivoglia responsabilità". Ma la vera attenzione di Quarto Grado è su Amanda. Che è stata intervistata a Seattle, dove il programma l'ha raggiunta. Lei racconta la sua versione di quelle ore di incubo, nel 2007, quando il corpo di Meredith fu scoperto. "Non si pensa mai che vedrai una persona per l'ultima volta ma con Meredith fu così - dice Amanda -  Con Raffaele quel giorno siamo usciti, volevo vedere il film Amelie con Raffaele e lui non lo aveva mai visto. Abbiamo visto la fine di questo film, cucinato un pesce, abbiamo mangiato e abbiamo fumato uno spinello insieme. Abbiamo chiacchierato e fatto l'amore e poi ci siamo addormentati". Poi la scena si sposta: "Il giorno dopo volevamo andare a Gubbio, quindi sono andata a casa mia per cambiare i vestiti. La porta della casa era aperta. Ho gridato "c'è qualcuno?" ma nessuno mi rispondeva. Sono andata per fare la doccia e cambiare i vestiti. C'erano delle macchioline di sangue dentro il rasoio. Quando sono uscita dalla doccia ho visto una macchia di sangue più grande su un tappetino". Qui inizia il terrore. "Ho chiamato mia madre che mi ha detto di parlare con Raffaele di questa macchia. Non sapevo come chiamare la polizia. Ho spiegato a Raffaele cosa ho visto. Sono tornata con Raffaele e guardando in giro la casa ho visto qualcosa che mi ha spaventata". Poi Amanda dice: "C'era una finestra rotta dappertutto, i vestiti lasciati in giro, le cose spostate. La porta della stanza di Meredith era chiusa a chiave. A quel punto abbiamo chiamato la polizia". Ma intanto arrivano gli amici di Filomena Romanelli, l'altra coinquilina di Meredith, con la stessa Filomena. Tutti entrano forzando la porta di casa, "e Filomena gridava: un piede, un piede. Ho chiesto a Raffaele che significava un piede, mentre le forze dell'ordine ci facevano uscire dalla stanza. Non riuscivo a credere che Meredith fosse morta, perché, come poteva essere successo. Speravo che qualunque cosa avessero trovato non fosse lei. Ero persa. Mi sono appiccicata a Raffaele perché mi dava sostegno e siamo andati in questura". Don Saulo è l'unica persona di cui Amanda parla quando il giornalista Mediaset va a Seattle. "Raccoglievo le confidenze di Amanda - dice don Saulo - La prima volta che l'ho vista le ho chiesto come chiedo a tutti se vogliono parlare anche con il cappellano. Poi con lei nascerà un rapporto importante". "Hanno detto che avevo due anime, che avevo una parte di me maledetta, che ero fissata con sesso e violenza. Non c'era nessuna evidenza di questo, non c'è mai stato. La Cassazione ha sbagliato, hanno completamente ignorato prove di innocenza". E poi continua: "Oltre a tutte le prove c'è la prova che io non sono in quella stanza, non c'è una traccia di me. Se io ho partecipato a un'orgia, a un accoltellamento, a un attacco di una persona ci sarebbe una traccia di me e non c'è. Comunque non faccio pregiudizi su questa corte. Io ho molta speranza che loro vedranno la prova di innocenza, che il processo finirà e che possa andare avanti. Resto qua primo perché non ho risorse finanziarie per andarci. Tutto quello che ho guadagnato lo ho speso per ricompensare la mia famiglia, per pagare i miei avvocati. Inoltre c'è la paura che non potrei offrire in aula nient'altro che una distrazione, nel senso che ho già fatto la mia testimonianza. Ogni volta che entravo in quella stanza tutti i media guardavano me, non ascoltavano quello che diceva la difesa, era secondario tutto il resto. Inoltre sono stata in carcere quattro anni ingiustamente e non posso conciliare questo fatto con la scelta di tornare. Si può dire che un innocente non deve avere paura del carcere, ma mi è già successo e non voglio tornare a quello".  Amanda parla del carcere: "Avevo poco tempo per parlare con la mia famiglia. Penso che chiunque mediti il suicidio in quella situazione. Ero esausta e triste per quella esistenza. Non c'era privacy. Loro possono vederti e toccarti nuda come vogliono. Non c'è sicurezza rispetto alla violenza, sei un cane, non esisti come una persona normale. Un agente una volta mi ha seguito in bagno e mi ha preso tra le sue braccia. Sono riuscita a scappare. Altre volte venivo chiamata giù nella parte amministrativa. Il vicecomandante mi chiedeva quale biancheria intima portavo, in che posizioni volevo fare sesso, se avessi fatto sesso con qualcuno come lui. Questo è un uomo con le stellette sulle spalle". Il rapporto con Dio: "Ho pregato certe volte nel modo che don Saulo mi ha indicato. Dio, se ci sei, per favore aiutami. Lui mi ha regalato un ciondolo con una colomba, che rappresenta lo spirito santo che è la mia chiesa ma per te rappresenta la libertà". Don Saulo interviene in trasmissione: "Mi raccontò molte cose, tristezze e speranze. Ho condiviso le une e le altre. E poi questa colombina per ognuno ha un significato particolare".  Amanda parla di Raffaele: "Sono triste per lui, la gente dovrebbe accogliere la prova che anche lui è innocente. Sta provando a ritrovare un posto da chiamare casa. Non si sente più accettato. La nostra relazione non è innamoramento. Abbiamo passato un incubo insieme, siamo come soldati che hanno attraversato una guerra insieme, siamo uniti e possiamo fidarci l'uno dell'altro. Io speravo che sarei stata più felice di quanto sono. Ogni cosa che vivo ogni giorno ha un riflesso su cosa ho imparato in Italia". E ancora: "Ho imparato cose brutte. Non mi piace imparare che non mi posso fidare della gente. Voglio parlare agli italiani, non è giusto lasciarli giudicare me senza sapere chi sono". La ragazza si presenta: "Ciao sono Amanda, mi piace cercare il meglio in ogni persona. Vorrei più di un bambino, non importa che sesso. Sto facendo pratica con due gattini che hanno bisogno di amore e sostegno. Io vedo nel mio futuro la possibilità di essere madre, non mi vedo in prigione". Su Meredith: "Mi ha accolta dal primo giorno, mi portava in giro dal primo giorno, era gentile e aperta. Come non avrei potuto prendere a cuore questa persona? Vorrei andare sulla tomba di Meredith. La sua tomba è come parte della famiglia, è un posto intimo che non voglio invadere se loro non mi accolgono. Ho letto il libro di John Kercher (il padre) e ho trovato l'amore per Meredith e ho visto anche la loro inabilità di vedere oltre l'accusa. Affrontarli ora sarebbe affrontarli vedendomi come la persona responsabile della morte della loro figlia e questo non è affrontarli. Voglio che capiscano che sono innocente e vorrei che mi dessero una chance". 

Amanda Knox ha scelto di parlare a Quarto Grado, in un’intervista esclusiva, che è stata mandata in onda la sera del 20 settembre 2013. La ragazza di Seattle, nell’ambito dell’omicidio di Meredith Kercher, era stata condannata in primo grado e poi ha ricevuto l’assoluzione in appello. La Cassazione ha deciso di annullare la sentenza dei giudici di secondo grado e ha previsto un nuovo processo, che inizierà il 30 settembre a Firenze. Amanda Knox, prima dell’inizio di questo nuovo procedimento giudiziario, ha voluto rivolgersi agli italiani tramite le telecamere della trasmissione su Rete 4 condotta da Gianluigi Nuzzi. Amanda ha chiarito esplicitamente di non avere intenzione di ritornare in Italia per affrontare il nuovo processo. In questo momento la ragazza di Seattle ha dichiarato di avere paura. Ha affermato di aver trascorso 4 anni in carcere ingiustamente. Ha raccontato che, secondo lei, in quei 4 anni avrebbe subito abusi e umiliazioni: “Il ricordo peggiore del carcere non è un episodio violento: avevo la possibilità di telefonare alla famiglia per 10 minuti, una volta sola a settimana. Un giorno ho chiamato l’agente per telefonare, ma nessuno mi ha risposto. Ho pianto e urlato per mezz’ora, sbattendo la testa contro le sbarre e chiedendo di fare la mia telefonata, senza avere risposte. Mi sentivo come un cane e nessuno capiva perché ero così esausta, stanca e triste, perché piangevo e urlavo“. Amanda ha raccontato che in carcere un agente l’avrebbe seguita in bagno e l’avrebbe presa tra le braccia. Ogni sera sarebbe stata chiamata dal dirigente carcerario, il quale avrebbe avuto delle conversazioni con lei da solo nel suo ufficio. Gli argomenti sarebbero stati incentrati sul sesso e sul suo fisico. Il dirigente le avrebbe domandato che tipo di biancheria intima indossasse, che posizione sessuale preferisse e se avesse potuto avere rapporti sessuali con uno come lui. Amanda non lo avrebbe denunciato per paura di non essere creduta. Non riesce, in questo momento della sua vita, a conciliare l’idea di poter ricominciare e allo stesso tempo di ritornare nel nostro Paese. Qui sarebbe stata, sempre secondo la sua opinione, presa di mira dai mass media, catalizzando la loro attenzione. Amanda ha avuto l’impressione che quasi il suo atteggiamento e l’attenzione nei suoi confronti abbiano avuto la meglio sull’andamento del processo: “Mi ha condannata il giornalismo da tabloid, che ha focalizzato l’attenzione delle persone su cose irrilevanti e non vere. Tra le accuse più offensive che ho ricevuto, ricordo ‘gatta morta’, ‘luciferina’, ‘demone’, ‘strega’. Mi hanno accusata di avere uno spirito maledetto e di essere posseduta, di manipolare le persone, di essere fissata con il sesso e la violenza“. Nell’intervista Amanda ha parlato anche di Raffaele Sollecito. Lo ha definito una brava persona, sulla quale può contare. Ha detto di fidarsi di lui e poi ha specificato i termini della loro relazione, che non può essere definita amore, in quanto entrambi da Amanda sono stati paragonati a dei soldati “che hanno attraversato una guerra“. Amanda ha fatto riferimento anche alla vittima, Meredith. Secondo i suoi desideri, vorrebbe che i genitori di Meredith capissero la sua innocenza e avrebbe piacere di andare sulla sua tomba insieme alla sua famiglia, anche se non vorrebbe rendersi colpevole di un’invasione di un posto intimo. La ragazza statunitense ha ricordato anche Don Saulo, il suo padre confessore in carcere. Riguardo a lui ha detto: “Lui è una persona vera, che sa che esiste la sofferenza nella vita e ha capito come affrontarla. Ho trascorso tutto il giorno del verdetto d’Appello nell’ufficio del cappellano, a suonare assieme a lui. In quell’occasione mi ha regalato una catenina dicendomi “Questa è una colomba, che rappresenta lo Spirito Santo, la mia Chiesa. Per te è la libertà: la libertà che hai dentro, qualunque sia il verdetto“.

Gli occhi cerulei fissano la telecamera, poi si abbassano rapidi. E si riempiono di lacrime. Ma è difficile scrutarli a fondo: sembra ancora inaccessibile il mistero nascosto dietro allo sguardo di Amanda Knox, la ragazza di Seattle accusata di aver ucciso Meredith Kercher. Lei, l’americanina dissimulatrice ed astuta, è tornata a dichiarare la propria innocenza e lo ha fatto in un’intervista esclusiva a Quarto grado, la prima rilasciata ad un’emittente italiana. A dieci giorni dal nuovo processo d’Appello, previsto per il 30 settembre 2013 a Firenze, la ragazza si è confidata ai microfoni del programma di Rete4 condotto da Gianluigi Nuzzi. Lo scoop, messo a segno dal popolare giornalista, verrà trasmesso integralmente questa sera, in prime time.

Amanda Knox a Quarto Grado – Intervista e dichiarazioni.

Se fossi condannata, sarebbe un’esistenza terribile e scappare non sarebbe vita (…) non voglio che qualcuno punti il dito indicandomi come un’assassina. Ma non temo la condanna: so che è possibile un verdetto giusto. Mi aspetto l’assoluzione” ha affermato Amanda a Quarto Grado.

Sono stata in carcere ingiustamente per quattro anni, non posso conciliare questo fatto con la scelta di tornare” ha poi aggiunto la ragazza, che non sarà presente alle udienze del nuovo processo. Davanti a Nuzzi, Amanda ha lamentato di essere già stata condannata dal giornalismo dei tabloid, che “ha focalizzato l’attenzione delle persone su cose irrilevanti e non vere. Mi hanno accusata di avere uno spirito maledetto e di essere posseduta…”. Secondo la Knox, questo sistema mediatico, sarebbe nato per giustificare il lavoro della giuria: “altrimenti, come si spiegherebbe che una ragazza normale uccida brutalmente un’amica?“.

In Italia ho imparato cose brutte: ad avere paura ed a non fidarmi delle persone” ha detto l’ex studentessa a Quarto Grado, rivelando che i quattro anni trascorsi in carcere le hanno procurato depressione, attacchi panico, e continui incubi. Nel documento televisivo, Amanda ha anche riservato un pensiero all’amica Meredith, che secondo l’accusa sarebbe morta sotto i colpi delle sue coltellate.

Penso sempre a Meredith: vorrei andare sulla sua tomba con la sua famiglia, ma non voglio invadere un posto intimo come quello, se loro non mi accolgono. Voglio che i Kercher capiscano che sono innocente“.

Drammatico, e interrotto da ripetuti sospiri, il racconto che la ragazza ha fatto del periodo trascorso in carcere. “Un giorno ho chiamato l’agente per telefonare alla mia famiglia, ma nessuno mi ha risposto. Ho pianto e urlato per mezz’ora, sbattendo la testa contro le sbarre” ha ricordato Amanda, gettando poi ombre sulla condotta del dirigente carcerario: Chiedeva di parlarmi in un ufficio, solo lui ed io. Gli argomenti erano il sesso e il mio fisico: mi domandava che tipo di biancheria intima indossassi, che posizioni preferissi, se avrei potuto fare sesso con uno come lui. Non sapevo cosa fare. Non l’ho denunciato perché pensavo: “Chi crederebbe ad una persona accusata di omicidio e calunnia“.

"Io ed Amanda siamo innocenti e, più delle nostre parole, la nostra innocenza è chiara come la luce del sole nelle carte processuali. Qualsiasi teoria accusatoria è solo frutto di una fantasia torbida ed un accanimento insensato spinto dall'orgoglio e dall'avidità". E' il testo della dichiarazione inviata da Raffaele Sollecito via sms a Quarto Grado. Il messaggio verrà mostrato nel corso della puntata. "Spero che questa Corte voglia approfondire e accettare le nostre richieste, non tenendo conto di pregiudizi e di giudizi sulla personalità, oltretutto deviati dalla stampa avida di gossip, che non hanno nulla a che vedere con qualsivoglia responsabilità", aggiunge Sollecito.

«Io e lei abbiamo bisogno l'un dell'altra», racconta in esclusiva su Oggi il ragazzo pugliese che per l'intervista indossa lo stesso giaccone che era finito nel fascicolo processuale. Scopri perché... Raffaele Sollecito parla in esclusiva a Oggi: «Certo che andrò a trovare Amanda a Seattle. È stata lei a invitarmi. Io ho accettato con gioia. E non è detto che aspetti Natale. Potrei farlo anche prima. In qualunque momento. Ho voglia di rivederla, di parlare, di guardarla negli occhi». Il settimanale Oggi pubblica alcune confidenze del ragazzo pugliese assolto in secondo grado dall’accusa di avere ucciso, insieme con la fidanzatina americana, la povera Meredith Kercher. Queste sono le sue prime dichiarazioni in assoluto dopo la scarcerazione. Dice Raffaele : «Ci telefoniamo o ci scriviamo tutti i giorni, abbiamo bisogno l’uno dell’altra sia per tentare di capire cosa è successo sia per guardare avanti, verso un futuro che sembrava spezzato per sempre e che invece possiamo ancora costruire. Abbiamo tante cose da dirci, dopo aver passato quattro anni in un girone infernale che ci ha stritolato, ci ha procurato sofferenze indicibili, ci ha rovinato la vita». Sollecito durante l’intervista a Oggi indossa un cappotto grigio foderato di pelo. Lo stesso che aveva addosso Amanda Knox il 3 novembre 2007, quando la polizia scientifica compiva rilievi nella villetta di via della Pergola, Amanda e Raffaele aspettavano sull’uscio. Lei aveva freddo, lui si sfilò il giaccone, glielo mise, la abbracciò. Raffaele ha voluto indossare lo stesso giaccone durante il suo incontro con il nostro giornalista perché quel capo d’abbigliamento è finito nell’impianto probatorio e “racconta” il pressapochismo con cui sono state condotte le indagini. Marco Quintavalle, proprietario di un minimarket a Perugia, disse che, il giorno dopo l’omicidio di Meredith, Amanda si presentò la mattina presto nel suo negozio, a comprare candeggina (per lavar via le tracce, era il sottinteso). Il Pm Mignini gli chiese com’era vestita la Knox. Quintavalle non esitò: «Con un cappotto grigio», disse. Forse il negoziante, che si presentò a deporre un anno dopo la morte di Mez, aveva visto la foto del 3 novembre, e fece confusione, mischiò ricordi e ritagli di giornale. Perché Amanda in realtà non ha mai avuto cappotti: «Li odia», dice Raffaele. Raffaele Sollecito torna a parlare. Di Amanda Knox, di Meredith Kercher, dell' "incubo" in cui vive da 6 anni e delle prospettive per il suo futuro in un momento in cui gli manca la concentrazione necessaria per trovare un lavoro e la cattiva reputazione lo perseguita ovunque vada e, tuttavia, non intende andar via dall'Italia. In un'intervista alla BBC del 6 settembre Sollecito dice di essere ancora buon amico di Amanda e, anzi, di conoscerla molto meglio di prima. Racconta di esser stato respinto dai familiari di Meredith la ragazza inglese uccisa nel 2007 in quella serata ancora avvolta nel mistero, l'1 novembre, a Perugia. Nuove rivelazioni su Amanda che scardinerebbero l'immagine della studentessa di Seattle descritta fino ad oggi come una sorta di dark lady. A parlare attraverso un'intervista a Oggi sarebbe lo stesso Raffaele Sollecito "era timida, inesperta, un po' imbranata". Questo riporterebbero le colonne del noto settimanale in edicola domani. Sollecito attualmente si trova in America, in cerca di un lavoro nel settore dell'informatica ma il 30 settembre sia per lui che per l'ormai ex fidanzata americana si riapre il processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. "Amanda dea del sesso? Qui è la radice dell'errore degli inquirenti - ha affermato -, di quel teorema ridicolo dell'orgia. Amanda era timida, inesperta, un po' imbranata: come me, d'altronde. Non voglio entrare nei dettagli, perchè non sarebbe giusto. Ma le dico, a titolo di esempio, che molte volte preferiva che le pettinassi per ore i capelli piuttosto che fare altro". Al settimanale Sollecito ha confidato che dopo Amanda si è innamorato "una sola volta, di una ragazza straniera". "Non è durata: se non ho una vita - ha aggiunto -, come posso condividerla? La mia vita sentimentale è un casino. Spostandomi spesso, passo da una relazione all'altra. Finiscono tutte male. Ora sono single". "Sto girando gli Stati Uniti - ha detto ancora Sollecito a Oggi -, cerco lavoro. Sono un programmatore informatico, e la Mecca per me sarebbe la Silicon Valley, in California. Ma sono come in stand by, mi sento "congelato", immobile. Annullando la sentenza di assoluzione, la Cassazione mi ha di fatto rimesso in carcere". Secondo il settimanale il giovane ha deciso di restare negli Stati Uniti e dice che diserterà le prime udienze di appello a Firenze. "Saranno molto tecniche - sostiene Sollecito -, con la mia presenza distoglierei le attenzioni dai fatti". Ma ha spiegato che poi tornerà in Italia per difendersi. Sollecito ha anche lanciato un appello alla famiglia Kercher. "Ricevetemi - la sua richiesta - datemi la possibilità  di parlare con voi. So che è difficile: se quel che è successo a Meredith fosse successo a mia sorella Vanessa, sarei impazzito, non vorrei sentire nessuno. Ma io chiedo ai Kercher di avere una visione razionale dei fatti. Se mi assolvono - ha concluso Sollecito - cercherò di costruirmi una vita e una carriera fuori dall'Italia".

Un delitto che Sollecito continua a giurare di non aver commesso e non riesce tuttavia a togliersi dal pensiero, specialmente in vista della riapertura del processo, il 30 settembre 2013, davanti alla seconda sezione della Corte di assise di appello di Firenze dopo che la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione di secondo grado della Corte d'Assise d'Appello di Perugia, scrive Antonio Laterza su  “L'Huffington Post”. Sollecito, però, non si pente di aver incontrato Amanda nella propria vita, un amore "adolescenziale", "interrotto dagli eventi" anche se, dice "so che se non l'avessi conosciuta avrei avuto un destino differente". Eppure, continua "questo non cambia il fatto che non è stata lei a fare degli errori". Ma è stanco, dice, di vedere il proprio nome comparire assieme a quello di "Foxy Knoxy" com'è stata ribattezzata la giovane americana. Spiega che sono rimasti amici e sono ancora in contatto ma che, rispetto ai sentimenti, "sono andati avanti", passati oltre. Ed è proprio questo il desiderio del ragazzo italiano, potersi dedicare ad altro oggi che non passa un giorno senza che si debba preoccupare di quella vicenda. "La mia vita è in standby". "E' stato tutto molto surreale quella notte", ricorda Sollecito riferendosi a quel 1 novembre. "Non capivamo la gravità della situazione. Non abbiamo visto né capito niente. Avevo solo 23 anni e non vidi la scena del delitto. Non conoscevo Meredith così bene". E conferma nuovamente la stessa versione che i due ex-fidanzati hanno sostenuto in tutti questi anni: lui e Amanda si trovavano insieme da un'altra parte quando l'omicidio di Meredith è avvenuto. "Ne sono certo, Amanda era con me e non eravamo lì. E' assurdo che ci accusino". Riguardo la ragazza inglese rimasta uccisa - per il cui omicidio al momento si trova in carcere solamente un ragazzo ivoriano che all'epoca faceva lo spacciatore, Rudy Guede - Sollecito sostiene di aver tentato di riconciliarsi con i familiari della Kercher. Racconta di aver inviato una lettera, una settimana dopo l'accaduto, a cui non ha mai ricevuto alcuna risposta. Nel messaggio, gli comunicava "simpatia e compassione" e gli diceva di "esser certo che la verità sarebbe presto venuta fuori" ma specificava di "non aver niente a che fare, in alcun modo, con l'omicidio di vostra figlia". Perfino la sorella del ragazzo ha scritto alla famiglia inglese, senza successo. Parla, infine, della prigione: "un'esperienza forte" dove però ha trovato anche persone che lo hanno aiutato ed è diventato, dice, la "mascotte" di tutti i detenuti, per i suoi modi gentili ed educati. Amanda e Raffaele rischiavano, con la prima sentenza, 26 e 25 anni di reclusione ciascuno. Oltre al libro della Knox (Waiting to be heard) uscito ad aprile scorso, anche Sollecito ha pubblicato la propria versione dei fatti in un testo intitolato "Patto d'onore: i miei giorni all'inferno e ritorno con Amanda Knox" (Honor Bound: my journey to hell and back with Amanda Knox) uscito per ora solo negli States. "Non mi sento in colpa ad aver guadagnato dei soldi raccontando questa vicenda. Tutto il mondo ha parlato di me ed ho il diritto di parlarne anch'io", dice Raffaele che spiega anche di aver usato il ricavato del libro per ripagare i tantissimi debiti che ancora lo attanagliano: "Non riesco nemmeno a pagare le bollette". La data della prossima udienza si avvicina ma il legale di Amanda Knox ha fatto sapere che la ragazza non tornerà in Italia per prendere parte al processo, com'era stato previsto quando si annunciò la riapertura del caso. La riapertura del processo ai due ex amanti, per l'omicidio della studentessa 21enne del Surrey, è stato ordinato a marzo dalla Cassazione a causa di errori processuali. Raffaele, però, che pure potrebbe trasferirsi in un paese dove sia al sicuro dall'estradizione, ha deciso "senza dubbi" di rimanere in Italia dove la famiglia tuttora vive e dove intende proseguire la propria vita. "Non sono preoccupato. La verità, i fatti sono lì. Sono ancora dentro un tunnel, anche se intravedo la luce".

Incontro al Palazzo di Vetro dell'Onu con l'ex studente pugliese che con Amanda Knox venne condannato per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher avvenuto a Perugia nel 2007, delitto per il quale vennero poi entrambi assolti nel 2011. Ora, dopo l'annullamento di quella sentenza da parte della Cassazione, Sollecito verrà sottoposto ad un altro processo assieme alla sua ex fidanzata americana. Ai lettori de La VOCE di New York , scrive Stefano Vaccara, presentiamo il trascritto dell’intervista con Raffaele Sollecito realizzata lunedì all’interno del Palazzo di Vetro dell’ONU, intervista concessa in esclusiva a Radio Radicale.  Raffaele, che in queste settimane si trova negli Stati Uniti, aveva già concesso delle interviste ai network tv americani, e ha accettato di parlare con la Radio quando, venerdì 28 giugno, avevamo avvicinato Sollecito dopo averlo riconosciuto ad una importante conferenza sulla pena di morte che si è tenuta al Palazzo di Vetro. All’Onu Sollecito doveva tornare lunedì per altri incontri,  non ci ha voluto dire con chi, ma sospettiamo con organizzazioni che si occupano di giustizia internazionale e diritti umani. Ovviamente molti lettori conoscono la vicenda dell’allora laureando Raffaele Sollecito e della studentessa americana Amanda Knox, coppia di giovani innamorati finiti in carcere nel 2007 a Perugia con l’accusa di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher, che condivideva con Amanda l’appartamento. Poi i ragazzi furono assolti in appello nell’ottobre 2011 ma, notizia di queste ultime settimane, saranno sottoposti di nuovo a processo, questa volta a Firenze, dopo che la Cassazione ha annullato quella sentenza di secondo grado. Il loro caso ha diviso l’Italia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti tra innocentisti e colpevolisti, per un processo giudiziario che sembra infinito e che continua a trascinarsi con tempi che proprio non hanno nulla a che fare con quella giustizia “pronta” di cui parlava un certo Cesare Beccaria oltre due secoli fa. Eccovi il trascritto dell’intervista avuta con Raffaele Sollecito al Palazzo di Vetro e andata in onda giovedì su Radio Radicale.

Raffaele, sei qui a New York da circa un mese e mezzo, perchè sei venuto negli Stati Uniti?

«Prima di tutto vorrei dire che concedo questa intervista pro bono, perchè da quando ero un adolescente sono sempre stato un sostenitore dei radicali e quindi di Radio Radicale. Sono venuto qui ormai da un mese e mezzo, prima di tutto per visitare una parte della mia famiglia che è americana e che diversi membri della nostra famiglia in Italia non avevano mai conosciuto. Dall’altra parte sto tirando su i fondi necessari per la mia difesa attraverso la rete di sostenitori che ho qui negli Stati Uniti. Sto facendo interviste appunto, per rendere pubblica la situazione e spiegare la tremenda ingiustizia che sto vivendo. E dall’altra parte anche per riuscire a sostenermi economicamente per la prossima battaglia che dovrò affrontare.»

Quindi per la tua battaglia legale tu pensi che restare qui negli Stati Uniti ti possa dare più possibilità di trovare, oltre che dal lato economico, un supporto anche dal lato morale, emotivo? Ti senti qui in una situazione più a tuo agio che stando in Italia per quanto riguarda la tua vicenda, ti senti meglio in America che in Italia in questo momento?

«In questo momento direi che gli italiani sono molto condizionati dalla pessima pubblicità che si è sempre fatta su questo caso da parte dei media italiani, e qui ricevo molto supporto sia perchè ho scritto un libro, con la casa editrice americana Simon and Schuster, e sia perchè sono molto sensibili ai casi di ingiustizia qui, in quanto le regole, le leggi che ci sono negli Stati Uniti per quello che riguarda i diritti civili, sono molto più restrittive e chiare... Invece in Italia a quanto sembra si può andare avanti  facendo processi contro una persona ad ampio raggio, senza che nessuno possa mai mettere la parola fine appunto, così c’è qualcuno che nell’alto del suo potere può continuare a reiterare nei processi nei confronti dell’accusato.»

Anche se, per la verità, venerdì hai assistito ad una conferenza qui all’ONU dove sotto accusa e sulla pena di morte sono stati messi gli Stati Uniti, con ad esempio il caso dei tre di West Memphis, di quei condannati a morte che dopo 18 anni di galera, sono stati trovati non colpevoli. Quindi diciamo che anche qui negli Stati Uniti c’è un problema giustizia...

«Si certamente il problema giustizia c’è ovunque. Io parlo della sensibilità ai casi. Perchè, nel caso di West Memphis, dove ho notato che ci sono delle analogie su come è stata condotta l'indagine, come il pubblico ministero ha condotto le accuse, ci sono delle analogie che sono sconcertanti.»

Ci puoi dire qualcosa su queste analogie col tuo caso?

«L’ossessione della teoria accusatoria nei confronti di questi ragazzi, che per vie circostanziali purtroppo non si riuscivano a trovare delle prove solide anche perchè questo delitto è stato fatto all’aperto non al chiuso e ci sono molte differenze sul delitto stesso. Ma proprio la strategia accusatoria e la volontà accusatoria, che si è protratta con una teoria quanto meno, poco plausibile e assurda contro questi ragazzi, fino al punto di non dargli spazio per nessun tipo di teoria diversa e c’era appunto l’ostinazione dell’accusa stessa. Questi ragazzi non hanno avuto la possibilità di difendersi, ma ovviamente il caso di per sè è molto diverso. Però una volta che si è fatta chiarezza dopo anni e anni, lo Stato ed il sistema hanno cercato di porre rimedio al danno, nel caso mio invece, lo Stato sta perpetuando nell’errore e questa cosa è abbastanza deplorevole.»

Quindi tu in questo momento non ti fidi della giustizia italiana?

«Io non… semplicemente la giustizia italiana è diventata come una roulette, nel senso che non si sa mai quello che ti capita, perciò ho paura di come queste persone che mi accusano, abbiano questo enorme potere ed usano questo potere per distruggermi la vita, tenendo questo caso come molto personale. Ho visto ultimamente il capo della magistratura di Perugia,  sarebbe il procuratore capo, che in una conferenza stampa ha affermato parole del tipo “abbiamo vinto” o “la corte di cassazione ci ha dato ragione”. Sono stato sconcertato da queste parole, perchè non ho capito che tipo di lotta è questa o se magari è una partita dove ci sono persone in squadre che si fanno gol vicendevolmente, questa cosa mi lascia alquanto perplesso e disarmato perche si parla di vite umane. Non è una battaglia. Ed il fatto che loro l’abbiano presa così personalmente, mi fa tremendamente paura di come stanno affrontando la cosa. Oltretutto c’è da considerare un’altra cosa che per me è degna di nota, è che durante il processo di appello quando c’è stata la sentenza, molte persone provenienti dalla questura di Perugia, e dagli ambienti della procura perugina erano tutti in fila dietro, appoggiati al muro, in divisa, ad aspettare la sentenza in segno di disapprovazione. Questa cosa è un segno chiarissimo della loro presa di posizione personale nella vicenda ed è stato, posso elencare anche altri episodi, dove si è visto chiaramente che la polizia di Perugia e gli investigatori nel mio caso, hanno preso di petto la questione come se dovessero in qualche maniera vincere la battaglia o dimostrare qualcosa per forza per poter essere, in qualche maniera….per avere ragione in quello che dicono.»

Da quando sei arrivato negli Stati Uniti hai avuto contatti con Amanda? Vi siete sentiti?

«Certamente, ci siamo visti a New York per puro caso perchè lei doveva venire qui per parlar con la sua pubblicista ed io ero qui dai miei familiari.»

Perche lei è appena uscita da circa un mese col suo nuovo libro...

«Si ci siamo incontrati, ci siamo visti un giorno, e per puro caso è successo che ci siamo visti proprio il giorno che è uscita la sentenza, cioè che sono uscite le motivazioni della sentenza della Cassazione e questa cosa ovviamente non ci ha dato un buon incontro, nel senso che è stata una giornata un po’ travagliata e proprio perchè ci stavamo chiedendo come mai c’è questo accanimento.»

Ma lei ha capito, lei riesce, dato che ha passato tanti anni ormai in Italia, riesce a capire il sistema giudiziario italiano oppure ancora per lei è un oggetto misterioso?

«Ma diciamo che è un oggetto misterioso un po' per tutti penso. Dall’altra parte ovviamente lei era molto più sconcertata dall’atteggiamento e dalla decisione in sè, che non nel capire il sistema stesso. Anche perchè di questo passo, una persona può… diciamo che per l’accusa non fa niente quante volte una persona può essere assolta, tanto può sempre fare ricorso fino a che la Cassazione può rimandare tutto il processo, perchè magari non gli è piaciuta la sentenza.»

Da quando sei qui, negli Stati Uniti, tu ovviamente sei in contatto con i tuoi avvocati, con la tua famiglia, con i tuoi amici, ma da quando guardi alla tua vicenda dall’America  cosa è cambiato, c’è qualcosa che vedi di diverso, c'è qualcosa di cui magari ti rendi più conto da qua, che ti risulta più lucida, più chiara, oppure al contrario ti si è complicato ancora di più tutto?

«Diciamo per come sono andati i fatti, li conosco perfettamente quindi non c'è nessuna complicanza sui fatti di per sè. E' che guardando alle cose in modo più razionale, sono ancora più sconcertato e sono ancora più in disapprovazione rispetto alle metodologie e da come vengono condotte le cose nel nostro caso. Il pubblico fin dall’inizio in questo processo... io sono stato messo in carcere per degli indizi che non avevano nessuna sostanza e le prove, contro di me le hanno cambiate durante la mia detenzione. Cioè hanno fatto le indagini e sono venuti fuori con altre prove durante la mia incarcerazione, non prima di mettermi in carcere. Ho passato più di una settimana senza parlare con nessun avvocato, perchè mi è stato vietato da un documento che il pubblico ministero non ha mai messo agli atti e che ha sempre detto di aver avuto ma che non è mai uscito. Non mi è stata data la possibilità di discutere le prove del DNA durante tutti gli anni della mia incarcerazione fino all’appello. Il preciso momento in cui ho avuto la possibilità di avere una perizia da parte di persone indipendenti chiamate dalla corte sul DNA e sulle prove è stata soltanto in appello, non c’ è mai stata prima per me la possibilità di poter discutere di quello che la polizia aveva fatto, visto che ci è stata sempre negata anche la possibilità di accedere ai dati grezzi che riguardano le perizie stesse fatte dalla polizia scientifica.»

L’ultima domanda. Tu sei ancora giovane, hai 29 anni, da qui a 10 anni Raffaele Sollecito dove lo vedi? Cosa pensi farà? Sei ottimista o pessimista sul tuo futuro e dove ti vedi, in Italia o in un altro paese?

«Io sinceramente non so cosa pensare del mio futuro. Prima di tutto ne voglio costruire uno, a prescindere da quello che sia, devo avere la possibilità di farlo. Io sono ottimista altrimenti non sarei qui a combattere questa battaglia, sono ottimista di carattere e vivo per… Fondamentalmente la mia personalità è basata sui miei sogni e sulle emozioni che posso avere durante la vita quotidiana che possono essere una carezza, un abbraccio, l’avere una persona accanto che condivide con te ogni momento della vita come può essere una donna che ami. E quello che sono i sogni nella mia vita son sempre stati, cose semplici, tipo ad esempio avere una bella famiglia.  Avere una donna che amo e che mi ricambia nell'amore o avere un grosso cane e tanti figli, o avere la possibilità di fare nel mio lavoro quello che più mi piace. Tipo ho sempre sognato di programmare i videogiochi e di riuscire ad avere successo in questo, con la mia creatività e con la mia fantasia e i miei sogni e le mie speranze.»

AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO: C'E' UN GIUDICE A PERUGIA.

«Amanda, c’è un giudice a Perugia». Così, Vladimiro Zagrebelsky intitolava un articolo pubblicato su La Stampa nell’ottobre 2011 che, ora che sulla vicenda si è già pronunciata la Corte di Cassazione, qui riproponiamo. Le tappe del processo sono note: il 3 ottobre 2011 la Corte di Assise di Appello di Perugia aveva assolto con la formula “di non aver commesso il fatto” Amanda Knox e Raffaele Sollecito dalle accuse di omicidio e di violenza sessuale, e per insussistenza del fatto dall’accusa di simulazione di reato. Il 26 marzo 2013 la Cassazione ha poi annullato le sentenze di assoluzione del grado di giudizio precedente, rinviando lo stesso dinanzi alla Corte d’assise d’appello di Firenze. A distanza di un mese dal deposito delle motivazioni, riproponiamo questo interessante articolo pubblicato sul quotidiano “La Stampa” nell’ottobre 2011 (pochi giorni dopo la sentenza emessa dalla Corte di assise di appello di Perugia) da Vladimiro Zagrebelsky  (fino al 2010 giudice italiano presso la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo). Si tratta di un articolo molto interessante, oltre che per l’interesse mediatico della vicenda, anche per meglio comprendere le differenze esistenti tra il nostro sistema processuale e quello statunitense.

“Amanda, c’è un giudice a Perugia”, di Vladimiro Zagrebelsky, 6 ottobre 2011, La Stampa. Le reazioni alla sentenza della Corte di assise di appello di Perugia sono andate oltre l’immaginabile. Il Dipartimento di Stato americano si è compiaciuto (un’imputata è americana), il primo ministro britannico si è rammaricato (la vittima era inglese), la piazza di Perugia ha insultato i giudici, la folla di Seattle ha accolto l’imputata come un’eroina. Nessuno ha ancora letto la motivazione della sentenza (che non c’è ancora) e pochissimi hanno letto quella di segno contrario pronunciata dalla Corte di assise di primo grado. Ma molti evidentemente hanno la loro ferma opinione, non solo sull’innocenza o la colpevolezza degli imputati, ma anche sulle colpe dei giudici e del sistema in cui operano. Un sistema «medievale», si è detto, mentre è il sistema alternativo che affonda le sue radici nell’Inghilterra del dodicesimo secolo. Prima di dir qualcosa sul sistema italiano, va brevemente detto che negli Stati Uniti un’accusa come quella portata nel processo di Perugia avrebbe esposto gli imputati al rischio della condanna alla pena capitale e il giudizio sulla loro colpevolezza sarebbe stato reso da una giuria popolare con le semplici parole di «guilty» o di «not guilty», colpevoli o non colpevoli. Ben difficilmente l’appello sarebbe stato ammesso e comunque solo su questioni di procedura. Nessuna motivazione sulla valutazione della prova, nessun controllo o rinnovo del giudizio da parte di un altro giudice. Semplice e rapido, ma, come tutti sanno, non esente dal rischio di errore (tragico nel caso della condanna a morte). In Italia, ma anche in altri Paesi europei, come la Francia o il Belgio, i delitti più gravi, come l’omicidio, sono giudicati dalla Corte di assise, che da noi è un collegio di otto giudici, due magistrati e sei giudici popolari, estratti a sorte sulle liste elettorali. Ogni decisione è presa a maggioranza dei voti e, in caso di parità, prevale la soluzione più favorevole all’imputato. Dopo letto in aula il dispositivo della sentenza, segue la redazione e la pubblicazione della motivazione. Secondo la nostra Costituzione, tutti i provvedimenti giudiziari devono essere motivati. La motivazione obbliga il giudice a render conto dell’uso che ha fatto del potere pubblico che gli è assegnato, permette il controllo e la critica da parte dell’opinione pubblica e, infine, consente il controllo in appello e poi eventualmente in Cassazione. Motivazione e controllo vanno di pari passo, infatti dove, come nel sistema di giuria, non c’è motivazione non c’è nemmeno appello. Qui la legittimità della sentenza si fonda sulla motivazione, controllata da un altro giudice in un nuovo processo, là risiede invece nel giudizio immotivato «dei pari» (Medioevo, appunto). Il sistema processuale italiano, fondato sulla motivazione delle sentenze e sul loro controllo in appello e in Cassazione, tiene conto della problematicità e dell’opinabilità della valutazione delle prove. Accade (tanto più in un collegio ampio come quello della Corte di assise) che la conclusione sia adottata a maggioranza, sulla colpevolezza o la pena. Il pubblico non lo sa e si stupirebbe chi crede che la valutazione delle prove sia qualcosa di meccanico e matematico, che porta a un risultato che tutti dovrebbero condividere. Talora invece il collegio giudicante si divide. Accade anche, come in questo caso, che la conclusione raggiunta dai giudici di primo grado non sia condivisa da quelli di appello. Il sistema suppone che talora sia necessario correggere, che il giudizio di appello sia più attendibile di quello di primo grado e che il giudizio definitivo sia quello successivo della Cassazione. Ma l’esistenza della motivazione delle sentenze e lo svolgimento di un nuovo giudizio davanti ai nuovi giudici mette in luce la problematicità della valutazione della prova: la possibilità di conclusioni diverse ne è la conseguenza. Chi non ha esperienza del giudicare può essere sconcertato e chiedersi chi sbaglia. In realtà normalmente la questione non si pone in termini di giusto/sbagliato. Essa però richiede una soluzione del contrasto. Nel nostro sistema, come in tanti altri, la soluzione deriva dalla presunzione di non colpevolezza, dal principio «in dubio pro reo». La condanna viene pronunciata se i giudici concludono che l’imputato è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Essendo stata abolita dal nuovo codice di procedura penale (1989) la formula di assoluzione per insufficienza di prove, i giudici pronunciano sentenza di assoluzione, non solo quando vi sia la prova dell’innocenza, ma anche quando manchi, sia insufficiente o sia contraddittoria la prova. Ciò che spesso accade. La difficoltà dell’opera dei giudici in casi come quello di Perugia e la presunzione di innocenza degli imputati richiederebbero, attorno al processo, un poco di silenzio. Silenzio certo da parte dei magistrati, prudenza anche da parte degli avvocati e della stampa. Si tratta di esigenze fondamentali dell’equo processo, così come lo si intende in Europa. E’ in gioco l’indipendenza di giudizio dei giudici, che devono essere tenuti al riparo da pressioni e suggestioni esterne. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte notato che il clamore esterno e i «giudizi tramite stampa» possono influenzare i giudici, particolarmente quelli non professionali, e incidere sull’equità del processo. Ciò che è avvenuto attorno al processo di Perugia (e spesso accade in Italia) è lontano anni luce dal clima richiesto. Nell’altro sistema di cui si è parlato e in Europa particolarmente nel Regno Unito, si sarebbe più volte parlato di «contempt of court». Se non quel reato, almeno il costume che lo esprime potrebbe essere utilmente copiato. Un sistema così garantista ha dei prezzi. Produce fisiologicamente casi in cui un delitto resta impunito. Il delitto è stato commesso, ma non è raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio che una persona identificata ne sia responsabile. Donde il dolore delle vittime. Qui poi, come in tanti altri casi, vi è anche la lunga detenzione degli imputati nel corso del procedimento. La legge prevede un indennizzo in questi casi (se la sentenza di assoluzione diverrà definitiva). Si tratta di una somma di denaro a carico dello Stato. Le sofferenze, che la sentenza di assoluzione certifica essere state ingiuste, non possono essere riparate.

PARLIAMO DI MASSONERIA E DI MAFIA.

In internet un file ‘anonimo’ con tutti i dati. Ma non è aggiornato. 32 logge in Umbria fra Perugia, Terni, Spoleto, Foligno, Castello e Umbertide.

E’ spuntato in internet ed ha già attirato la curiosità di molti. E’ il file in formato excel dove sono riportati i nomi dei 26.409 iscritti alla Massoneria italiana. Con tanto di data di nascita, residenza, e professione. Il percorso è presto detto: si parte da Google e, una volta inserita nella stringa la parola chiave “elenco massoni” ecco che al primo posto (su un totale di 58.500 voci) fa bella figura di sè il “files.meetup.com/207935/pidue.xls”. Basta un click e il gioco è fatto.

Il documento non è di per sè una novità: si tratta di una lista datata, vecchia almeno di più decenni, già in parte pubblicata da quotidiani. Nel 1998 ci provò anche la rivista “Cuore” a pubblicare, a puntate, tutta quella massa di dati, ma l’esperimento si fermò al terzo numero. Nel 2004 il file arrivò alla redazione di Macchianera che non lo pubblicò perchè ormai era già disponibile nei siti peer to peer. Ma è evidente che chi oggi l’ha messa in rete, ha voluto gettare benzina sul fuoco del sempre tanto discusso e dibattuto tema della fratellanza: non fosse che lo stesso file, in chiusura, è stato ribattezzato “pidue”, quando nessuno dei 26mila risultava iscritto in quello della P2 di Licio Gelli che finì nel mirino della magistratura. Perchè, vale ricordarlo, essere iscritti ad una loggia non è reato. Diverso fu il caso della P2 i cui affiliati finirono coinvolti in diverse inchieste di eversione, stragi, depistaggi e tentato colpi di Stato. Ma torniamo al file. Alcuni di quella lista sono morti. Un centinaio infatti sono quelli che oggi avrebbero più di 100 anni. Non furono pochi quelli che, all’indomani dell’inchiesta del procuratore Agostino Cordova, uscirono dalla massoneria. “E’ fu un bene – dicono dagli ambienti ternani – molti erano entrati non perchè credessero nei nostri valori, ma perchè convinti che avrebbero potuto beneficiare di chissà quali favori. Chi ci credeva e ci crede è rimasto e alla fine quella indagine si rivelò una fortuna per l’onorabilità della massoneria”. Quelli rimasti hanno proseguito il loro ‘percorso’. A guardare quell’elenco c’è chi ha avuto fortuna. Ma c’è anche a chi non è andata affatto bene. Eccoli tutti insieme, tutti e 26.409: docenti, medici, impiegati, avvocati, commercianti, ferrovieri, geometri, ingegneri, agricoltori, bancari, farmacisti, architetti.

LA LISTA UMBRA: nel 1992 erano poco più del 4% gli umbri iscritti alle varie logge. 845 quelli residenti nella provincia di Perugia, 232 in quella di Terni. La parte del leone la facevano i nati nel capoluogo di regione (562), seguiti da Terni (156), Città di Castello (65), Foligno (35), Gubbio (17), Spoleto (16), Bastia Umbra (13), Assisi (11), Amelia (7) etc..

LE LOGGE: Tre i principali Ordini massonici. Il Grande Oriente d’Italia (GOI), il più numeroso con i suoi 30mila iscritti, la Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI) e la Gran Loggia d’Italia, l’unica a concedere l’accesso alle donne. Tutte hanno il loro sito internet al quale hanno affidato persino gli indirizzi delle loro strutture. Un po’ più difficile avere la lista degli iscritti (per quanto gli elenchi sono pubblici e dunque consultabili presso i rispettivi uffici). Grazie ad un iscritto ad una loggia di Perugia è possibile tracciare un quadro più aggiornato sugli iscritti in Umbria.

G.O.I: è la più antica, nata nel 1805 (il primo Gran Maestro fu Eugenio De Beauharnais, figliastro di Napoleone Bonaparte), e la più numerosa. Attualmente è presieduta dall’avvocato Gustavo Raffi. 29 in tutto le logge umbre, 24 in provincia di Perugia, 5 in quella di Terni. Perugia: La loggia storica per eccellenza è la “Francesco Guardabassi” (n. 146), una delle 18 logge perugine che vantano ca. 1.300 affiliati. Seguono “Fede e Lavoro”, “Riccardo Granata”, “Mario Angeloni”, “I Figli di Horus” (che si richiama al rito egizio di Memphis e Misraim), “Fratelli Bandiera”, “Concordia”, “Ver Sacrum”, “Bruno Bellucci”, “Luca Mario Guerrizio”, “Francesco Baracca”, “La Fermezza”, “Guglielmo Miliocchi”, “Humanitas”, “La Fenice”, “Quatuor Coronati”, “XX Giugno 1859” e “Enzo Paolo Tiberi” (la più recente, n. 1.325). Città di Castello: 150 i “muratori” che compongono le 4 logge presenti a Città di Cstello, ribattezzate “XI settembre”, “I Liberi”, “Armonia” e “Atlantide”. A Foligno sarebbero una trentina gli affiliati alla “Domenico Benedetti Roncalli” mentre un po’ di meno quelli alla “Luigi Pianciani” di Spoleto. Terni: cinque le logge per circa 200 iscritti. La prima ad essere aperta è la ‘Tacito’ seguita dalla “Giuseppe Petroni”, “Paolo Garofoli”, J.W. Goethe” e “Alessandro Fabri”.

G.L.R.I.: fondata da Giuliano Di Bernardo a seguito dello scisma nel 1993 dal GOI. Attualmente è presieduta dal dottr Fabio Venzi. In Umbria vanta un centinaio di iscritti e 4 logge: la “Luigino Marra” di Spoleto, Piero della Francesca” e “San Bevignate” di Perugia e la “Braccio Fortebraccio” di Umbertide. Tutte operano nel capoluogo di regione dove gli iscritti si ritrovano, a cadenza settimanale, in una nota struttura ricettiva.

G.L.I. (Obbedienza di Piazza Del Gesù Palazzo Vitelleschi): E’ un “Ordine iniziatico di uomini e donne”, l’unica infatti ad aprire le porte anche alle donne. Fondata nel 1910 è oggi retta dal professor Luigi Pruneti. La sede umbra (per gli Orienti di Terni e Perugia) è presso il Centro Sociologico Italiano in Via Valentini a Perugia. Gli iscritti sarebbero una cinquantina.

L'INCHIESTA di  CURZIO MALTESE su “La Repubblica”: Chi comanda nelle città. Perugia, il potere soft tra Medioevo e futuro.

Un viaggio in Umbria è sempre un viaggio nel tempo, in molti sensi. Anzitutto, non bisogna aver fretta. Il cuore d'Italia ha il battito lento, la terra dove "la calma si trova a due passi dalla passione" (De Musset) attira più pellegrini che turisti. Non solo ad Assisi. In fondo anche i milioni di visitatori di Umbria Jazz, di Eurochocolat, di "Cantine Aperte" e della marcia della Pace, a modo loro sono in pellegrinaggio verso santuari laici. Disposti a perdersi nell'incanto dei paesaggi, nelle valli belle come la Toscana, ma meno oleografiche, più ruspanti e segrete. Di gran moda fra le star, come Sting e Bruce Springsteen, che hanno appena traslocato famiglie e clan dal Chiantishire a Montone. Ed è un viaggio nelle epoche, in una regione sospesa fra Medioevo e futuro. Come la pittura umbra, che salta dal Perugino a Burri. Perugia, l'"Oxford italiana" di Indro Montanelli, con la sua università antica di sette secoli, le mura alte e perfette, la Rocca Paolina, è un museo vivente ma anche il laboratorio sociale di un felice "melting pot" all'italiana, con una popolazione di immigrati fra le più alte e un indice di criminalità fra i più bassi. Non esiste consiglio comunale che non abbia consiglieri immigrati ed è palestinese il deputato di Perugia, Ali Rashid di Rifondazione. L'università per gli stranieri è il miglior ponte culturale fra Italia e Cina, per non dire l'unico, visto che qui studia la metà degli studenti cinesi presenti nel nostro Paese. L'euforia di un'aria pulita, il carezzevole tratto degli orizzonti, lo splendore dell'arte, il profumo stordente dei fiori e delle utopie, tutto rende questa terra a prima vista paradisiaca. Perfino la globalizzazione in Umbria è stata dolce. E' arrivata prima che altrove, con i due colossi industriali, la Buitoni-Perugina e le acciaierie di Terni, finite nelle mani di Nestlè e Krupp. In compenso la perugina Colussi è diventata una multinazionale e fa shopping nel mondo dei marchi (Misura, Liebig, Sapori, Flora) e le medie imprese innovative si sono organizzate per rispondere con guizzi di originalità e oggi c'è chi vende frigoriferi agli eschimesi, legno ai canadesi, energia solare agli spagnoli, cioccolata agli svizzeri, cashmere agli indiani, jazz agli americani.  Medioevo e futuro s'intrecciano nelle strutture del potere. Perugia è un groviglio di circoli chiusi, impenetrabili come fortezze, con una massiccia presenza della massoneria: trentaquattro logge in una città di 160 mila abitanti. Il tradizionale legame fra università e massoneria si attiva molto in queste settimane di campagna elettorale per i rettorati. Sono favoriti gli uscenti, il microbiologo Francesco Bistoni all'università per italiani e l'italianista Stefania Giannini agli stranieri, ma si combatte a colpi di comizi e riunioni. E' la vera campagna elettorale perugina. Le altre si chiudono di fatto quando i Ds locali comunicano i nomi dei candidati alle poltrone di sindaco, presidenti di provincia e regione, seggio alla Camera e al Senato. E' diviso in feudi anche il potere nell'informazione, con i due giornali di Perugia, il Giornale dell'Umbria e il Corriere dell'Umbria, in mano a due cementieri, entrambi eugubini, il gruppo Colaiacovo (colosso con tremila dipendenti) e il concorrente Barbetti, che li usano per farsi la guerra, in omaggio a un vecchio adagio umbro: "Il sogno segreto/ dei corvi di Orvieto/ è mettere a morte/ i corvi di Orte". Con una netta prevalenza di Carlo Colaiacovo, al centro di un sistema di potere che comprende anche tre tv locali, la presidenza dell'associazione industriali e della fondazione bancaria, senza farsi troppi scrupoli di conflitto d'interessi. Eppure nel Medioevo umbro si aprono squarci di modernità. Non c'è forse un'altra regione in Italia, per esempio, dove s'incontrino altrettante donne nei posti di comando. Tutte nipotine di Luisa Spagnoli, la pioniera che nel 1907 fondò la Perugina, inventò il celebre "Bacio", si dice per amore di Francesco Buitoni, e poi la celebre catena di negozi, oggi gestita con talento dalla pronipote Nicoletta. Sono le sorelle Maria Grazia e Teresa a mandare avanti la Lungarotti, colosso del vino. Una quarantenne di Foligno, Catia Bastioli, amministratore delegato della Novamont, ha progettato una plastica biodegradabile e per questo è candidata al premio di inventore europeo dell'anno. Sono donne i sindaci di Todi e Città di Castello, la rettore dell'università degli stranieri e naturalmente lei, la "regina dell'Umbria", la presidente Maria Rita Lorenzetti. Contraria alle "quote rosa" perché non ne ha mai avuto bisogno. A meno di trent'anni era sindaco di Foligno, a trentacinque presidente della commissione parlamentare dell'ambiente, a quaranta (nel 2000) prima e unica governatrice d'Italia, riconfermata nel 2005 con un plebiscito, il 63,2 per cento, record nazionale. A conferma di una regione al femminile, come testimonial della Regione Umbria si è offerta Monica Bellucci, nata a Città di Castello. La popolarità della "regina" Lorenzetti si spiega con la ricostruzione dopo il terremoto del 1999 e con la fama di politico più antiberlusconiano d'Italia per via di alcune clamorose polemiche con l'ex presidente del Consiglio, sulla marcia Perugia-Assisi, sul 25 aprile e appunto sul terremoto. "Quando crollò quella scuola in Molise, Berlusconi ebbe il coraggio di dire: non faremo come l'Umbria. Perché non viene adesso a vedere come sono stati restaurati i borghi, più belli di prima?". Tutto vero, con qualche eccezione. Per esempio il centro storico di Nocera Umbra, ancora in macerie. "Guarda caso, l'unico dove c'è un sindaco di destra", risponde pronta. "Siamo circondati da una fama di regione vecchia, bella ma immobile. I problemi ci sono, a partire dall'invecchiamento della popolazione, duecentomila pensionati su ottocentocinquantamila abitanti. Ma guardi Perugia, il modo in cui ha integrato gli stranieri, eliminato il traffico cittadino con le scale mobili che ci copiano da tutto il mondo, inventato manifestazioni di successo nel mondo. Provi a visitare i nuovi distretti tecnologici verso il Trasimeno, a parlare con i giovani imprenditori e vedrà che stiamo vivendo una piccola rivoluzione". Seguo il consiglio e a una decina di chilometri da Perugia, vicino Corciano, visito quella che è forse la più piacevole fabbrica del mondo, la Cucinelli. Un borgo del '300, Solomeo, del tutto restaurato, dove le operaie lavorano nei casolari, all'ombra degli affreschi, guadagnano il doppio delle colleghe dei maglifici senza mai fare un'ora di straordinario e mangiano in una mensa da Gambero Rosso. Brunello Cucinelli, 43 anni, è il re del cashmere, esporta in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone, ora in Cina e India, ma è l'esatto contrario dell'esangue e manierato stilista. Figlio di contadini, un passato di estremista, ha l'aria del francescano di sinistra e ricorda da vicino Mario Capanna. La sua rivoluzione l'ha fatta con i colori e il cashmere, ma ora si preoccupa "di restituire alla società una parte della mia fortuna". Ha salvato Solomeo dalla distruzione, adesso pensa a costruire un teatro neoclassico, che Luca Ronconi dovrebbe inaugurare, parchi per la meditazione religiosa, fondazioni benefiche. Cita Sant'Agostino, San Benedetto e Aristotele molto più di quanto non parli del bilancio consolidato o delle sfilate milanesi. In maniera perfino sospetta per uno che aumenta il fatturato del 20 per cento all'anno. E' presidente dei quindici teatri umbri, uno più bello dell'altro, e direttore dello Stabile di Perugia. Come quasi tutti gli industriali umbri, coltiva ulivi e vigne. "L'amore per il territorio era un lusso e oggi è diventato un marchio di garanzia nei mercati internazionali". Un altro imprenditore filosofo è Gianluigi Angelantoni, erede di Giuseppe, a capo di un'altra fabbrica-convento, sullo splendido Cimacolle davanti a Todi, che è un gioiello della tecnologia italiana. L'Angelantoni è specializzata in ingegneria del freddo, ha costruito simulatori ambientali usati in cinque continenti, il più avanzato simulatore per testare i satelliti, venduto all'India e inaugurato nel febbraio scorso a Bangalore durante il viaggio di Prodi, il sistema per conservare l'Uomo di Similaun e altro ancora. La prossima scommessa di Gianluigi Angelantoni è il progetto Archimede, in collaborazione col premio Nobel Rubbia. "E' un nuovo sistema di produzione di energia solare mutuato dallo stesso concetto degli specchi ustori di Archimede" spiega. "Sarà destinato ad abbattere i costi dell'energia solare. Gli spagnoli l'hanno già prenotato su vasta scala. In Italia, come sempre, siamo molto prudenti...". La terza tappa dell'Umbria Jazz Economy mi porta in una specie di giardino dell'Eden, a Montefalco, la terra del Sagrantino. Le industrie Caprai, settore tessile, hanno trasformato in business il tradizionale hobby degli industriali umbri per la vinificazione. Marco Caprai ha investito sul Sagrantino, vino originalissimo e fra i migliori d'Italia, quando nessuno ci credeva. Il risultato è un boom paragonabile a quello del Brunello negli anni Novanta. E' appena tornato dalla California, dove due produttori gli hanno chiesto una consulenza per riprodurre il Sagrantino: "Avevo soltanto capito che prima o poi la gente si sarebbe stufata di bere soltanto Merlot, Cabernet e Chardonnay, bastava aspettare e resistere". Al ritorno a Perugia incontro Eugenio Guarducci, 42 anni, autentico mito nascente dell'imprenditoria umbra. E' l'uomo che ha inventato Eurochocolate, un milione di visitatori, una sagra della cioccolata moltiplicata per mille. "Sono uno che ha inventato l'acqua calda" dice lui. "Che cosa ci voleva? Perugia è la città dei baci di cioccolata, la capitale della dolcezza. La città è bellissima e gli stranieri ci vengono sempre volentieri. Bastava soltanto mettere i manifesti". Peccato che nessuno ci avesse pensato prima. Dopo il successo di Eurochocolate, anche gli svizzeri si sono accorti di non averci pensato prima e hanno chiamato Guarducci per organizzare la festa europea della cioccolata. Intanto a Perugia, con gli incassi della fiera, ha aperto un centro congressi e una catena di alberghi tematici, uno dedicato naturalmente alla cioccolata, un altro al vino e il terzo, appena inaugurato, al jazz. Grazie ai Cucinelli, Angelantoni, Caprai, Guarducci, alla vivacità dell'imprenditoria al femminile, l'Umbria cresce più del resto d'Italia e ha l'indice di disoccupazione più basso al di sotto della pianura padana. Qualche anno fa Ernesto Galli della Loggia, in un lungo dialogo con il deputato diessino Stramaccioni, dedicò un pamphlet ("Rossi per sempre") all'Umbria come metafora del declino nazionale. Se questo è il declino, ci possiamo stare.

I massoni di Perugia: questa persecuzione deve finire. Dall’archivio de “Il Corriere della Sera” l’inchiesta di Bruno Tucci. LA CAPITALE DEI VENERABILI. Mille affiliati. Li accusano di condizionare la città e loro: "Siamo eredi dei laici che hanno sconfitto il Papa Troppe calunnie, quel magistrato viola il codice. Mille iscritti alle logge sparsi per la provincia: tutti nelle stanze dei bottoni. Ospedali, banche, università e poi ancora in magistratura, negli ordini professionali, tra gli avvocati, i medici, gli ingegneri fino alle istituzioni. La mappa della massoneria in questo lembo del Paese raggiunge percentuali da capogiro. Perugia si sente afflitta e condizionata? "Non diciamo eresie", esclama il presidente del collegio venerabile, Giancarlo Zuccaccia. "Chi ha conquistato posti importanti nella società non lo deve certo a noi, ma esclusivamente alla propria professionalità". Eppure, le accuse sono specifiche: vengono da un giudice calabrese che punta il dito contro i massoni e cerca di inchiodarli con elementi e prove inconfutabili. Lo avrete capito: il magistrato in questione è Agostino Cordova, procuratore di Palmi, il quale sta combattendo una battaglia personale in un campo così delicato e difficile. Le parole di Cordova non ammettono dubbi di sorta. In Umbria, e specificamente nella provincia di Perugia, i massoni sono tanti, troppi e condizionano la vita della città. Tutto passa attraverso il controllo delle logge: assunzioni, promozioni, avvicendamenti, scatti di carriera. Come mai? Semplice: al timone della barca ci sono loro e soltanto loro. "Fandonie, fesserie, calunnie", risponde a tono Giancarlo Zuccaccia, presidente dell' Ordine degli avvocati dall'ottobre del 1992. Sibila: "Sono stato eletto con 250 voti. Dovrebbero avere tutti una stessa etichetta, secondo Cordova. Ed invece, non è così, glielo posso assicurare. La verità è che questo magistrato ha preso di mira la massoneria. Ha sguinzagliato per tutta Italia i suoi scherani e siccome non è riuscito a trovare un bel nulla, allora tira fendenti alla cieca. Ma, attenzione, sta violando il codice penale". Un' accusa pesante, avvocato... "Già, è vero. Allora non la scriva. Però, rimane il fatto che noi siamo alla gogna, criminalizzati per episodi che non esistono. Siamo stanchi, mi creda, perché ne dobbiamo sopportare di tutti i colori". Dunque, non avete stretto tra di voi patti di alleanza spartitoria? Insomma, una specie di lottizzazione massonica? "Non scherziamo. Chi di noi raggiunge risultati professionali lo deve soltanto alla bravura ed all'onestà. Il resto sono chiacchiere che non stanno né in cielo, né in terra". Il presidente venerabile si difende, ammette che in Umbria ci sono 24 logge tra Perugia, Terni, Spoleto e Città di Castello, ma non vuole sentir parlare di favoritismi e di clientelismo. Sono parole sconosciute nel vocabolario dei massoni. Ma chi sa e conosce Perugia e dintorni non è d'accordo. Legge delle indagini condotte da Agostino Cordova e si frega le mani. "Finalmente! Era ora", grida qualcuno. "Questa storia, prima o poi, doveva pur finire. Speriamo si faccia in fretta, perché i giovani non ne possono più di un simile condizionamento". Parlano i perugini che non hanno niente a che spartire con la massoneria, però si trincerano dietro l'anonimato. Hanno paura di tarparsi le ali, di non poter combinare più nulla in futuro, se dovessero essere scoperti. Con tale premessa vanno avanti nel racconto e confessano al cronista che chi non sta dalla parte dei massoni incontra grossi ostacoli. I favoritismi sono a senso unico. Un esempio: se vuoi assicurarti un posto o se desideri compiere un salto di qualità, non hai altra scelta se non rivolgerti a quelli che contano. E, guarda caso, nelle stanze dei bottoni ci sono soltanto loro. Così è all' università, nelle banche, in ospedale, negli enti pubblici, dappertutto. "Noi agiamo alla luce del sole", replica Giancarlo Zuccaccia. "Non siamo un partito, abbiamo sempre combattuto la lottizzazione", aggiunge un altro "fratello perugino", l'avvocato Giacomo Borrione. "Anzi, sa che cosa le dico? E' vero il contrario: abbiamo sofferto l'infiltrazione dei partiti. Noi interveniamo soltanto quando un "fratello" è in stato di bisogno. E chi aiuta non appare, rimane tutto avvolto nel segreto". La voce di popolo grida a gran voce l'esatto contrario. Cita nomi, cognomi di affiliati: gente di potere che solidarizza solo con chi è iscritto. Ad esempio, la famiglia De Megni, sulla quale sono stati spesi fiumi di parole. "Alle cene annuali in casa loro partecipa il fior fiore della massoneria, il vertice delle logge umbre". Non si salva nessuno, nemmeno il rettore dell'Università, alcuni commissari di polizia, ufficiali dei carabinieri. Chiacchiere? "Se sono bugie, lo vedrete il giorno in cui Cordova avrà completato la sua inchiesta", rispondono i perugini. Giancarlo Zuccaccia va su tutte le furie: "Io ai pranzi di De Megni non ci sono mai stato. Se mi chiedete se sono massone, rispondo di sì. Sono apparso in gonnellino pure alla tv. Ma non andiamo oltre, parlando di sette, di logge segrete, di clientelismo. Il venerabile Licio Gelli (come lo chiamate voi) lo abbiamo espulso nel 1976, avete capito?". Ed allora perché tanti massoni a Perugia o in Umbria, se preferisce? "E' semplice: perché siamo laici ed abbiamo subito la dominazione pontificia per 400 anni. Lo sa che il 20 giugno, puntualmente, Perugia festeggia la cacciata dei papalini? Ed è una festa a cui partecipa tutta la città, comune compreso. Questa persecuzione di Cordova deve finire. Io ho subito minacce telefoniche e sono in allarme per la mia incolumità". In Corso Vannucci, la strada dello struscio, scuotono la testa e commentano: "I massoni? Se non stai con loro, è meglio che emigri. Sono forti, fortissimi ed hanno tutte le leve del potere. Quindi..."

MASSONERIA – I MAGISTRATI DALLA A ALLA ZETA, di Rita Pennarola (pubblicato il 7 gennaio 2010) su “La Voce delle Voci” e ripreso da tantissimi siti web.

Può un magistrato venir meno al vincolo di fedeltà giurato, pena la morte, per entrare in massoneria? E quali prove possono addurre quei giudici o PM che affermano di esserne usciti? Qui sentiamo alcuni esperti e passiamo in rassegna le carriere di tante toghe che sicuramente quel patto di sangue lo avevano sottoscritto. Molti sono ancora in servizio. E rivestono ruoli apicali. Gli italiani lo hanno capito da tempo, a reggere davvero le sorti del Paese non sono né le banche né le istituzioni democratiche e nemmeno la magistratura: sono i massoni – regolari o, quasi sempre, appartenenti a logge coperte – che proprio in quei tre ambiti sono capillarmente infiltrati. A confermare questa consapevolezza arriva, da ultimo, il sondaggio lanciato sul sito della Voce, al quale hanno partecipato 466 lettori: un piccolo ma significativo campione, secondo il quale (56,8%) sono sempre loro, i confratelli, a detenere saldamente le leve del potere. E tutto attraverso quel vincolo di segretezza che, dopo l’iniziazione, si può cancellare solo con la morte. Lo dicono, chiaro e tondo, le parole stesse del giuramento: «prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra». Chiaro, no? Come la mettiamo, allora, con quei confratelli che rivestono ruoli apicali in settori nei quali è richiesta la loro facoltà decisionale? Basta insomma, per fare un esempio, che qualche magistrato se la cavi dicendo frasi del tipo «La massoneria? Io l’ho lasciata da tempo…», senza poterlo in alcun modo provare? E come si comporterà se l’imputato – o, più spesso, l’avvocato di quest’ultimo – è un grembiulino come lui? Cominciamo dal primo quesito. Giuseppe De Lutiis, uno fra i più autorevoli studiosi di eversione e di poteri occulti, consulente di numerose Procure della Repubblica, non ha dubbi: «dalla Massoneria si esce solo nel caso in cui si venga espulsi. Altrimenti si rimane “in sonno”, una condizione comunque revocabile in qualsiasi momento». Aggiunge un altro consulente, più volte fin dagli anni ‘80 al fianco dei PM in indagini sulle Logge segrete: «accade con una certa frequenza che un massone in sonno decida di rientrare tra i confratelli attivi, anche perché spesso la scelta dell’“assonnamento” è dovuta all’assunzione di cariche pubbliche. Il suo ritorno viene vissuto come una festa: non solo non occorre rifare tutti i complessi rituali dell’iniziazione, ma spesso riceve in dono il passaggio ad un grado superiore rispetto a quello che aveva lasciato. Questo indica che dalla massoneria non ci si può “dimettere”: loro lo vivono come un battesimo, che non prevede alcuna possibilità di “sbattezzarsi”». Tutto ciò riguarda le Logge regolari, con tanto di elenchi depositati, mentre sulle eventuali “norme” vigenti fra i massoni coperti non è possibile azzardare ipotesi. Di sicuro, il giuramento non viene meno né potrà essere mai svelata l’identità dei confratelli. Quali siano le “punizioni” per chi trasgredisce, si può a questo punto solo immaginarlo. È sulla base di questa premessa che siamo andati a cercare chi sono, dove sono ora e cosa fanno alcuni magistrati sulla cui originaria affiliazione massonica non ci sono dubbi. I 37 nomi che qui di seguito proponiamo, infatti, sono presi per buona parte dagli unici elenchi (comprensivi delle Logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ‘92 dall’allora procuratore capo di Palmi Agostino Cordova. Altri nomi li abbiamo invece ricavati dall’elenco ufficiale dei massoni pubblicato nel 2008 dalla Voce, che non include la consistente fascia di vip affiliati ad obbedienze cosiddette “non regolari”, ma assai più potenti e generalmente riconosciute da Logge estere. Sulla cima della piramide ci sarebbe in questo periodo, per fare un esempio, la “Gran Loggia Italiana Massonica”, i cui adepti, che si definiscono «un gruppo di Fratelli Massoni provenienti da varie Obbedienze, (G.O.I., Piazza del Gesù, Gran Loggia Regolare d’Italia, Gran Loggia Massonica Italiana, Logge di San Giovanni, Gran Loggia della Repubblica di San Marino)», adducono a fondamento della loro scelta la risibile motivazione di poter affiliare anche le esponenti del gentil sesso (facoltà ampiamente prevista da una delle due principali obbedienze regolari, vale a dire la Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi). Fondata ad Arezzo nel marzo 2002, la nuova compagine non poteva che essere benedetta da Licio Gelli in persona. Nessun problema, se non fosse per un piccolo particolare venuto a galla in un articolo della Nazione di fine 2006: la donazione fatta dal venerabile e dai suoi confratelli ai poveri del Sacro Cuore di Arezzo. Racconta al quotidiano il parroco, don Angelo Chiasserini: «Quello che valuto è la finalità dell’iniziativa, che è di beneficenza. È stato Tiberio Terzuoli, gran maestro della Serenissima Gran Loggia Nazionale, a contattarmi, spiegandomi successivamente che all’iniziativa avevano contribuito anche Gelli e Giuseppe Sabato, sovrano della Gran Loggia Massonica Italiana». Che di lì a poco si sarebbe invece ribattezzata Gran Loggia Italiana Massonica. Ma chi è Giuseppe Sabato il “sovrano”? Non sarà per caso lo stesso rampante manager di Banca Esperia, la holding finanziaria che fa capo a Silvio Berlusconi? Impossibile affermarlo con certezza, visto il segreto assoluto che vige nella neo-Loggia aretina. Di sicuro, però, oggi a dominar la scena sotto i cappucci sono i maghi dell’alta finanza. Come accade a Napoli, dove dominus incontrastato della Loggia Bovio è il commercialista Giovanni Esposito, assurto nell’olimpo supermassonico dell’Arco Reale, rito di York. «Il baricentro – dice ancora il nostro esperto – ai livelli medio-alti si sta spostando dalle Logge coperte a queste consorterie non riconosciute dalle obbedienze tradizionali, ma gemellate con compagini estere come la Loggia Montecarlo, che ha sede nel Principato di Monaco». Se questi sono ora gli assetti finanziari “globalizzati” dei confratelli, non meno interessante sarebbe definire quali e quanti magistrati vestono oggi il grembiule sotto la toga. Missione quasi impossibile, dal momento che a scoprire le carte dovrebbero essere i loro stessi colleghi, come in perfetto isolamento fece Cordova nel ‘92 e come, intorno al 2000, aveva provato a fare a Napoli un altro PM-coraggio, Luigi De Ficchy, attuale procuratore capo a Tivoli e all’epoca impegnato nell’inchiesta sulla Loggia deviata Spinello, naufragata nelle nebbie della Procura capitolina. Mentre i circa mille faldoni dell’inchiesta Cordova marciscono ancora nei sotterranei di piazzale Clodio, a Roma. Eppure, provando a scorrere le carriere delle toghe messe a nudo dal mastino di Palmi, più qualche nome venuto fuori in elenchi recenti, le sorprese non mancano. Ecco allora qui di seguito, in ordine alfabetico, alcuni esempi significativi fra i tanti magistrati che avevano giurato fedeltà alla massoneria.

ABBADESSA Lorenzo – Classe 1939, nato a Napoli (dove gli Abbadessa sono conosciuti come influente famiglia di medici), dal 2006 si è iscritto all’albo degli avvocati e risulta avere lo studio a Soverato, perla costiera della provincia di Catanzaro. Con la qualifica di “Magistrato” lo si ritrova invece negli elenchi dei massoni aggiornati a tutto dicembre 2007 e pubblicati dalla Voce nel 2008. Lorenzo Abbadessa è attualmente responsabile, proprio a Catanzaro, della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello, in via Falcone e Borsellino.

ALIBRANDI Tommaso – Nato a Roma l’8 agosto del 1933, è iscritto negli elenchi ufficiali della massoneria aggiornati a tutto il 2007 con la qualifica di “Magistrato al Consiglio di Stato”. Negli anni ‘90 era stato invece attivo presso la Corte dei Conti. Nel ‘93 il suo nome è fra gli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla telefonia dal PM della capitale Guglielmo Muntoni (giudice Maria Cordova) insieme – fra gli altri – a Carlo De Benedetti, al costruttore Mario Lodigiani e all’ex ministro Paolo Cirino Pomicino. In quegli anni Alibrandi era stato capo dell’ufficio legislativo del Ministero dei Beni Culturali, presidente del TAR della Val D’Aosta nonché ex “uomo ombra” dell’allora ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì. Di provata fede PRI è anche Alibrandi (già senatore del partito di Giorgio La Malfa), che nel 2003 ritroviamo in pista fra i promotori della resuscitata Voce Repubblicana. Dal 2008 esercita la professione di conciliatore bancario.

ARIOTI Alfredo – Un Alfredo Arioti nato a novembre del 1941 compare con la dicitura esplicita di “magistrato” negli elenchi ufficiali degli iscritti alla massoneria di Perugia a tutto dicembre 2007. Si tratta dello stesso Alfredo Arioti Branciforti presente nell’organico della magistratura italiana come “nato a Palermo il 26 novembre 1941”. Il che risulta fra l’altro dal suo curriculum pubblicato da E-Campus, formazione universitaria a distanza, nel quale viene specificato che «dopo essere stato uditore presso la Procura della Repubblica ed il Tribunale di Roma, veniva nominato pretore in Valle D’Aosta a Donnaz». Nel 1969 «si trasferiva a Perugia, dove svolgeva le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale». Dal 1981 Arioti è «sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Perugia. In tali funzioni esplicava numerose e delicatissime inchieste anche nei confronti di varie organizzazioni terroristiche quali Brigate Rosse, NAR, Prima Linea, Ordine Nuovo, talché subiva un attentato terroristico, perpetrato da una organizzazione eversiva, concretizzatosi in esplosioni di colpi di arma da fuoco nei confronti della sua abitazione».

Al CSM Arioti aveva dichiarato di essersi allontanato dalla Massoneria fin dal 1992, dopo che per ben due volte l’organo di autogoverno lo aveva dichiarato non idoneo a funzioni superiori proprio a causa di quella affiliazione, che gli aveva fra l’altro fatto meritare consistenti avanzamenti all’interno del sodalizio muratorio. Ne dava notizia, nel 2004, il bollettino di Magistratura Democratica, senza peraltro precisare quali prove avesse addotto il magistrato a riprova del suo allontanamento dalla massoneria, visto che il nome compare ancora negli elenchi 2007. Di Alfredo Arioti si sono comunque più recentemente occupate le cronache locali. È accaduto nel 2008, quando il coordinatore PdL Fabrizio Cicchitto (piduista) lo voleva come candidato a sindaco di Perugia; poi il diretto interessato preferì restare in magistratura – ci informa la Nazione il 19 novembre – e non se ne fece nulla.

ARMANI Giuseppe – Classe 1937, nato a Reggio Emilia, Armani è ancora presente in quanto “Magistrato” negli elenchi degli affiliati 2007, benché abbia da tempo lasciato la toga. Il suo nome venne alla luce già col sequestro Cordova nei primi anni ‘90 insieme a quelli di una ventina fra giudici, pretori e pubblici ministeri, tutti poi sottoposti al giudizio del CSM. Dedicatosi in seguito prevalentemente agli studi giuridici, Armani è autore di libri sulla Costituzione in uso negli istituti superiori. Nel 2006 ha pubblicato a Bologna un volume nel quale vagheggia l’idea di un’Italia laica e liberale.

CASOLI Giorgio – Compare negli elenchi 2007 pure Giorgio Casoli di Perugia, nato il 12 settembre del 1928. Anche il suo nome era rimbalzato alle cronache (e al Consiglio Superiore della Magistratura) dopo i sequestri del ‘92. Intrapresa la carriera come pretore ad Assisi e a Perugia, è a Milano come giudice di Corte d’Appello negli anni del terrorismo; passa poi in Cassazione dove diventa presidente di sezione. Di qui comincia anche la carriera politica: sindaco di Perugia dall’80 all’87, lo stesso anno entra a Palazzo Madama col PSI, dove siede nella giunta delle immunità parlamentari e nella commissione giustizia; sarà poi sottosegretario alle Poste nel governo presieduto da Giuliano Amato. Casoli torna alla ribalta nel 1996, quando conferma ai PM milanesi molte delle accuse lanciate dalla superteste Stefania Ariosto, cui è legato da antica amicizia. Soprannominato dagli amici “il Pertini dell’Umbria”, è considerato oggi in area PD, dopo l’avvicinamento di qualche anno fa al Partito Popolare.

D’AGOSTINO Luciano – La sua affiliazione esplode come una bomba nel ‘92, quando il napoletano D’Agostino, classe 1955, è PM a Locri. «Sono sconcertato – dichiara ai giornali – queste fughe di notizie sono inammissibili». Il vero problema era che il suo nome compariva negli elenchi di una Loggia coperta, la Luigi Ferrer del capoluogo partenopeo. Anche nel caso di D’Agostino assistiamo alle affermazioni – peraltro senza prove – su una presunta uscita dalla massoneria, proprio come si fa per dimettersi da un Cral: «prima di prendere servizio a Lamezia Terme avevo scritto alla loggia Luigi Ferrer di Napoli, regolare del Grande Oriente d’Italia, per segnalare che ritenevo l’esercizio di funzioni giurisdizionali non compatibile con l’appartenenza alla massoneria. Da allora non ho avuto alcun rapporto con i massoni». Basta la parola. Sapeva che era una Loggia coperta?, gli chiede il cronista del Corriere della Sera. E lui: «Un grande oratore del GOI ha detto che è una loggia coperta. Nel breve periodo in cui ne ho fatto parte, non lo era». Non riesce a convincere il CSM, che nel ‘95 gli infligge una sanzione disciplinare, dichiarando che l’appartenenza alla massoneria è lesiva dell’imparzialità dell’ordine giudiziario. Fino a inizio anni 2000 D’Agostino è sostituto procuratore a Catanzaro (dove si occupa, fra l’altro, della delicata questione del testimone di giustizia Pino Masciari), nel 2002 passa alle sezioni giudicanti dello stesso Tribunale. Dal 2007 è tornato a Locri, dove attualmente è giudice per l’udienza preliminare. Nel frattempo era stato alle prese come imputato in un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Salerno. L’accusa (condanna in primo grado per peculato e assoluzione in appello) riguardava l’affidamento ad una ditta dell’incarico di eseguire intercettazioni telefoniche, quando D’Agostino era in servizio alla DDA di Catanzaro.

DI BLASI Salvatore – Attualmente giudice al Tribunale civile di Milano, Di Blasi era fra le toghe iscritte alla massoneria dell’elenco Cordova. Nel 2001 aveva assunto anche il delicato incarico di presidente di sezione in seno alla Commissione Tributaria della Lombardia. In questo periodo il giudice Di Blasi si sta occupando invece della vicenda INNSE, la fabbrica milanese del legno a rischio chiusura.

FRANCIOSI Nicolò – Anche lui presente negli elenchi Cordova del lontano ‘92, oggi il giudice Franciosi, napoletano, classe 1942, è consigliere della Corte d’Appello a Milano. Nel 2003 fa parte della terna giudicante che respinge la richiesta avanzata dai legali di Cesare Previti di ricusazione dei giudici nel processo IMI-SIR. Turbolente le vicissitudini del giudice Franciosi dinanzi al CSM per quell’antica affiliazione: dopo la sanzione disciplinare fa ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Strasburgo condanna al risarcimento in favore di Franciosi non il CSM ma lo Stato italiano, reo di scarsa chiarezza sulle norme che regolano l’appartenenza alla massoneria nel caso di un magistrato. Il Consiglio Superiore, però, nel 2002 respinge la richiesta avanzata da Franciosi di revisione della sentenza di sanzione e, due anni dopo, dice no anche all’inserimento della sentenza europea nel suo fascicolo personale.

LA SERRA Renato – Ecco un magistrato-confratello di cui si sono praticamente perse le tracce. Le ultime notizie che lo riguardano risalgono al 1998 quando, nell’ambito dell’inchiesta a carico dell’ex procuratore generale di Roma Vittorio Mele e del ras della sanità pugliese Francesco Cavallari, vennero a galla i viaggi generosamente offerti dall’imprenditore agli amici in toga, compresa la leggendaria trasferta a Parigi cui prese parte anche l’allora pretore di Trani Renato La Serra. La sua affiliazione alle Logge, emersa negli elenchi Cordova del ‘92, gli era costata, due anni dopo, una sanzione disciplinare dinanzi al CSM.

MAESTRI Angelo Massimo – Classe 1944, originario della provincia milanese, è in servizio alla Corte d’Appello del Tribunale di Palermo. Un caso, il suo, analogo a quello di Nicolò Franciosi: dopo la scoperta dell’affiliazione attraverso il sequestro Cordova, riceve la sanzione disciplinare dal CSM, che sarà confermata anche in Cassazione. Nel 2004 la Corte di Strasburgo condanna lo Stato italiano a risarcire Maestri con 10.000 euro. I problemi, nella carriera di Maestri, però, sono stati anche altri: il suo trasferimento da La Spezia (dove era stato per lunghi anni pretore) a Palermo, era stato infatti disposto nel 2001 dal CSM, che lo accusava di aver ricevuto fidi bancari di consistente importo senza garanzie. Situazione che, sommata alle contestazioni per la affiliazione massonica, non solo determinò il trasferimento, ma anche la destinazione dell’ex pretore “ad un organo collegiale”.

MARSILI Mario – Carriera brillantissima per il genero del Venerabile Licio Gelli, del quale aveva sposato la figlia Maria Grazia. Venuto allo scoperto come massone in sonno nella P2 dopo il sequestro di Castiglion Fibocchi, il dottor Marsili si è gettato alle spalle l’onta di quello scandalo, ottenendo perfino una promozione dal CSM (nell’89), fino a balzare nel ruolo apicale che riveste oggi: sostituto procuratore generale al Tribunale di Roma. Una Procura del resto, quella di piazzale Clodio, che per anni aveva visto al vertice un altro piduista di fama, il massone Carmelo Spagnuolo.

Prima giudice istruttore ad Arezzo, poi alle sezioni giudicanti del Tribunale di Perugia, Marsili ebbe solo un piccolo incidente di percorso nell’84, quando fu sottoposto a procedimento penale dinanzi al Tribunale di Verona (per accuse relative alla sua carriera di piduista) e, per questo, gli fu sospeso lo stipendio. In seguito all’assoluzione, riprese la sua escalation nei ranghi della giustizia italiana. Tanto che furono affidate proprio a Marsili le indagini sull’eversione nera di stampo neofascista, comprese quelle a carico di Mario Tuti e l’inchiesta sulla strage dell’Italicus. Come sono andate a finire, lo sappiamo.

MEZZATESTA Michele – No, non era un’affiliazione massonica qualsiasi, quella del magistrato Michele Mezzatesta, nei primi anni ‘90 presidente del Tribunale fallimentare di Palermo. Perché alla stessa Loggia del capoluogo siciliano facevano capo anche fior di mafiosi (fra cui il “ragioniere” di Cosa Nostra Pino Mandalari e Salvatore Greco, fratello del “papa” Michele Greco), politici ed affaristi. “La pietra entra grezza ed esce levigata”, si leggeva all’ingresso di quel tempio, cui gli inquirenti erano arrivati seguendo le tracce di un narcotrafficante agrigentino.

La questione si è riaperta in qualche modo nei mesi scorsi, dopo che i pubblici ministeri di Caltanissetta hanno chiesto all’AISI, attuale sancta sanctorum dei servizi segreti italiani, di visionare gli archivi sulla strage di Capaci. In compenso Mezzatesta non figura più nei ranghi della magistratura italiana.

MONDELLO Fabio – Consigliere di Corte d’Appello a Roma, dopo il clamore seguito al ritrovamento del suo nome fra i massoni del sequestro Cordova, nel ‘96 Mondello finisce nuovamente nei guai a causa di un processo che lo vede imputato insieme all’allora presidente di Cassazione Filippo Verde per aver usufruito di viaggi offerti dalla Canon ad alti esponenti del Ministero di via Arenula, dove i due magistrati avevano prestato servizio nei primi anni ‘90. Il nome di Mondello rimbalzò contemporaneamente anche nell’ambito di un altro scottante procedimento, quello che vide coinvolto il gip della capitale Renato Squillante e l’avvocato Attilio Pacifico. In seguito alla condanna in primo grado riportata a Perugia per la vicenda Canon, Mondello ha lasciato la magistratura.

MONTI David – Un caso davvero spinoso, quello di David Monti, il cui nome è legato all’inchiesta, condotta quando era PM ad Aosta, denominata Phoney Money ed incentrata su traffici internazionali che coinvolgevano massoni, alti prelati e pezzi dello Stato. Correva l’anno 1996 e nessuno si ricordava più che il nome di David Monti era negli elenchi sequestrati da Agostino Cordova. Anche Monti, all’epoca, aveva fatto ricorso alla solita scusa: «la mia iscrizione alla massoneria? Una semplice curiosità giovanile». Sarebbe interessante sapere come ha fatto il magistrato (e con lui diversi altri colleghi) a cancellare il complesso rituale dell’affiliazione ma, soprattutto, a rinnegare il giuramento di sangue fatto dinanzi ai confratelli. Una bella letterina di dimissioni, come al circolo del golf? Di sicuro Monti ha proseguito senza impedimenti la sua carriera nell’ordinamento della magistratura italiana. Ed oggi è GIP a Firenze.

MONTI Mauro – Classe 1947, riveste attualmente l’alta carica di sostituto procuratore aggiunto al Tribunale di Bologna, la città dove è nato. Dopo la scoperta del suo nome negli elenchi sequestrati da Cordova, di Mauro Monti le cronache non si erano più occupate. Tornano a farlo ad agosto 2009 quando, su richiesta dello stesso Monti, il Tribunale accoglie le istanze avanzate in appello dai difensori di Saverio Masellis e Francesco Cardamone, esponenti del clan dei casalesi accusati per aver gestito bische clandestine nel riminese. Risultato: per i due la sentenza di condanna è stata annullata e gli atti tornano al GUP.

NANNARONE Paolo – I problemi cominciano fin dall’83, perché il nome di Nannarone è già lì, negli elenchi della Loggia Propaganda 2, insieme a quelli di altri magistrati. A differenza dei colleghi, Nannarone viene assolto dal CSM. E benché lo si ritrovi nuovamente negli elenchi Cordova del ‘92, il magistrato continua la sua carriera senza problemi; quello stesso anno presiede al Tribunale di Perugia (dove ha svolto la gran parte della sua attività) la Corte d’Appello che proscioglie il finanziere “a un passo da Dio” Pierfrancesco Pacini Battaglia, difeso dall’attuale parlamentare di AN Giulia Bongiorno. Nel ‘96 ritroviamo Nannarone a capo della Corte d’Assise chiamata a pronunciarsi sul delitto del giornalista Mino Pecorelli. Ritenuto incompatibile, sarà sostituito dal collega Giancarlo Orzella. Nel 2000, sempre a Perugia, pronuncia una storica sentenza: i clienti delle prostitute non sono punibili per favoreggiamento. Classe 1939, lasciata la magistratura Nannarone è oggi nell’organigramma di vertice della Banca Popolare di Cortona.

PINELLO Francesco – Classe 1932, presidente del Tribunale di sorveglianza di Palermo, nel 2005 fa parlare di sé per il regime di semilibertà concesso al pluriomicida del Circeo Angelo Izzo, tanto che l’allora guardasigilli Roberto Castelli decise di inviare gli ispettori in Sicilia. In precedenza il nome di Pinello era balzato alle cronache negli elenchi massonici del ‘92, che gli costarono un procedimento disciplinare del CSM a suo carico.

PONE Domenico – In quegli elenchi del ‘92 c’era anche Domenico Pone: una cosa da poco rispetto alla scoperta, avvenuta nel lontano 1983, della sua contemporanea affiliazione alla P2, proprio mentre prestava servizio alla suprema Corte di Cassazione. Segretario, all’epoca, di Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe, Pone rappresenta uno fra i pochissimi casi di magistrati rimossi dall’ordinamento giudiziario per appartenenza alla Loggia fondata da Licio Gelli.

RESTIVO Nicola – È giudice per le indagini preliminari a Perugia, Nicola Restivo. Una delle ultime operazioni che portano la sua firma risale a maggio 2009, quando convalida il sequestro di biomasse trasportate illecitamente nelle campagne umbre. Nel 2007 un altro blitz, questa volta a carico di operatori assenteisti nella locale azienda ospedaliera. Nel ‘92, quando era procuratore capo a Perugia, il suo nome rimbalzò fra quelli dei massoni nelle liste Cordova. Il che, come abbiamo visto, non ha intralciato la sua brillante carriera.

RINAUDO Antonio – Anche la iscrizione di Rinaudo alla massoneria viene a galla con gli elenchi del ‘92. Attualmente in servizio a Torino (la città in cui è nato nel 1948) come pubblico ministero, si è recentemente occupato dell’ex giocatore della Juve Michele Padovano, sotto accusa per un presunto traffico di droga col Marocco. Nel 2006 le intercettazioni a carico di Luciano Moggi disposte dalla Procura partenopea portano alla luce la frequentazione assidua fra l’ex plenipotenziario del calcio italiano ed il PM Rinaudo, fra cene con signore e scambi di regali natalizi. Ai magistrati napoletani che lo interrogano sulla sua possibile affiliazione alle Logge, Moggi risponderà: «Massone io? Mai»…

ROMAGNOLI Riccardo – È in servizio al Tribunale civile di Roma il dottor Romagnoli, che a gennaio dello scorso anno ha pronunciato una storica sentenza riguardante Poste Italiane. Nel 1996, a seguito del ritrovamento del suo nome negli elenchi massonici del ‘92, a Riccardo Romagnoli il CSM inflisse la perdita di due anni d’anzianità. Il che scatenò la vibrata protesta del Grande Oriente d’Italia.

ROMANO Guido – È presidente del TAR della Calabria, il magistrato Guido Romano. La sua affiliazione – il nome era presente negli elenchi del ‘92 – non ha dunque turbato una carriera piena di soddisfazioni professionali. La decisione dell’allora guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi.

SALEMI Guido – Consigliere di Stato, giudice al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche e componente della Commissione Tributaria Centrale. Queste le attuali qualifiche di Guido Salemi, che al Consiglio di Stato ha pronunciato nel corso degli anni numerose e rilevanti sentenze. La sua iscrizione in massoneria venne alla luce con gli elenchi del ‘92.

SCARAFONI Stefano – Fra quelle carte c’era anche il nome di Stefano Scarafoni. Romano, classe 1961, all’epoca giudice al Tribunale di Tolmezzo, Scarafoni doveva essersi iscritto giovanissimo alla massoneria. Oggi è in servizio come magistrato fra i più attivi alla sezione fallimentare del Tribunale di Tivoli.

SERGIO Ferdinando – Il suo nome – al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini – venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati, quando nel ‘77 erano stati eletti ai vertici della ANM.

SERIANNI Vincenzo – Originario di Motta Santa Lucia, in provincia di Catanzaro, fino al 2001 è stato presidente di Corte d’Appello a Milano. Presente negli elenchi del ‘92 (quando presiedeva una sezione giudicante al Tribunale di Torino), l’anziano magistrato calabrese, classe 1929, risiede da anni nella zona di Casale Monferrato, dove frequenta il locale Rotary e presiede la Giunta esecutiva alla Camera di Commercio.

SPINA Antonio – Ad aprile ‘95 il CSM gli commina la sanzione disciplinare per l’affiliazione alla massoneria, venuta alla luce con gli elenchi del ‘92, mentre Spina esercitava la funzione di pretore a Sciacca, in Sicilia. Attualmente non risulta presente nei ranghi della magistratura.

TONINI Paolo – Il nome di Tonini era compreso nella lista dei magistrati trovata nella villa sudamericana di Gelli (vedi Ferdinando Sergio). Da tempo Tonini è passato nei ranghi accademici come docente di diritto processuale penale, che insegna all’Università di Firenze. In tale veste organizza incontri patrocinati dal CSM per la formazione e il tirocinio delle nuove leve in magistratura.

TRAPANESE Mario – A lungo presidente di sezione al Tribunale di Ancona, dopo il ritrovamento del suo nome negli elenchi del ‘92 fu deferito – insieme ai colleghi-confratelli – alla sezione disciplinare del CSM dall’allora ministro Conso. Origini napoletane, l’anziano magistrato si dedica oggi, sempre ad Ancona, a sostenere le sorti di un’associazione benefica, la Lega del Filo d’Oro.

VELLA Angelo – Ha fatto epoca, nel 1990, la decisione di Palazzo dei Marescialli, che aveva bloccato la promozione di Vella a presidente di sezione del Tribunale felsineo per la sua dichiarata appartenenza alla massoneria. Un parere che scatenò le ire di Francesco Cossiga. Nel 1974 il giudice Vella si era occupato della strage dell’Italicus. In anni più recenti, almeno fino al 2001, è stato membro della Corte di Cassazione.

VITALI Massimo – Era sostituto procuratore a Brescia ai tempi della strage di Piazza della Loggia e proprio a lui, insieme ad altri due colleghi, furono affidate le indagini su una tragica vicenda della quale ancor oggi si cerca una verità. La affiliazione di Vitali alla Massoneria verrà alla luce solo con gli elenchi del ‘92. Cosa fa ora? Classe 1946, originario di Grosseto, Vitali è in servizio. Sempre a Brescia. Come consigliere di Corte d’Appello.

Una annotazione finale: diamo per scontato che tutti i magistrati qui elencati e le centinaia di colleghi iscritti alla massoneria svolgano il loro lavoro con diligenza e professionalità. Quello che il cittadino (vittima, imputato, parte offesa, imprenditore a rischio fallimento) ha il diritto di sapere è che restano legati fino alla morte a quel giuramento. Che la massoneria non è un gioco di società dal quale si esce a piacimento. E che violare quel patto ha significato, per molti, perdere la vita.

Ma la Massoneria non e’ solo magistratura: è pure politica.

Se a livello nazionale la polemica tra iscritti al Pd e massoneria crea imbarazzo, a livello locale molto meno, perlomeno laddove è tradizione consolidata. A Perugia, per esempio, dove più di qualcuno ha iniziato a fare “outing”. Mario Valentini, ex sindaco Psi negli anni Novanta e fondatore del Pd perugino, oggi ricorda: “L’esperienza della massoneria, della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino”. Il legame tra massoneria e Pd non un mistero in città, ma ora dopo il recente scandalo, il segretario locale invita alla calma: “Quella della massoneria è una questione sensibile – spiega Giacomo Leonelli -. Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente, altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti”. Sono soprattutto gli ex socialisti, ora confluiti nel Pd, ad avere dimestichezza con grembiuli e cappucci. Ma non tutti sono disposti ad ammettere di essere massoni. Cesare Fioriti dice: “Non sono massone, però difendo la massoneria. E poi i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee”. Angelo Pistelli, altro esponente Pd ex socialista, dopo la polemica non si sente più a suo agio nel partito: “In effetti del Pd ormai non condivido più tanto. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, a noi resta ben poco. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe”.

A tal proposito uscì un articolo: I grembiulini del Pd di Perugia di Marco Sarti su “Il Riformista”. Il Pd e la massoneria. Due realtà inconciliabili? Mentre in Italia infuria la polemica, a Perugia il tema non appassiona più di tanto. La sintesi tra squadre, compassi e militanza politica di sinistra, qui esiste da decenni. E nessuno si stupisce più. Perché se il capoluogo umbro è un feudo elettorale del Partito democratico, è anche vero che solo nelle vie del centro si contano almeno 19 logge. E così, nella nuova casa massonica perugina, in un antico palazzo a Corso Cavour, c'è persino chi si indigna di fronte all'ipotesi che qualche fratello possa venire epurato dal Pd. «Ma quale polemica… - si sfoga un responsabile del Collegio Venerabile - Nessuno ha mai fatto caso che ogni volta che c’è una crisi si tira fuori questo argomento? I nostri luoghi di ritrovo sono pubblici. Già nel lontano 1985 abbiamo sistemato una targa fuori dalla sede di Palazzo Giustiniani. Allo stesso modo abbiamo messo bene in chiaro i nostri riferimenti sull’elenco telefonico. Qualcuno si scandalizza se non viene resa pubblica anche l'identità dei nostri fratelli? Eppure mi sembra che persino gli elenchi degli iscritti a partiti e associazioni siano riservati». «I massoni del Pd? - racconta un anonimo militante - Vengono tutti dal Partito socialista». In effetti, a Perugia, il movimento storicamente più vicino al Grande Oriente è proprio quello un tempo guidato da Bettino Craxi. La gente ancora ricorda una storica seduta del Consiglio comunale, nei primi anni 90, quando il sindaco Mario Valentini (eletto nelle liste del Psi, poi fondatore del Pd perugino) rivendicò con orgoglio la sua appartenenza a un'influente loggia cittadina. «L'esperienza della massoneria - racconta oggi Valentini - della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. E non mi riferisco solo al periodo post-fascista, parlo anche della Perugia laica dopo il governo papalino. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Una vicenda fatta da uomini esempio di vita e rettitudine nel governo della cosa pubblica. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino». Che tra i quadri del Pd perugino, ancora oggi qualcuno si cimenti con cappucci e grembiule non è un mistero. Solo che, dopo il recente scandalo, nessuno è disposto a parlare. Giacomo Leonelli, segretario del Partito democratico della città, predica calma: «Quella della massoneria è una questione sensibile. Sono temi dove ognuno esprime le proprie idee secondo convinzioni personali. Per carità, sono convinto che chi si iscrive al Pd lo fa perché crede nel nostro progetto politico, non per altri fini». A scanso di equivoci, il segretario si appella allo statuto. «Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente. Altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti». Eppure sembra che fare politica tra Piazza Morlacchi e Corso Vannucci non possa prescindere da certi riferimenti. «Quando si governa a Perugia - conclude Leonelli - è normale entrare in contatto con determinate realtà cittadine». Contattati al telefono, i componenti della piccola pattuglia socialista nel Pd non si stupiscono di certi accostamenti. Ma negano, con cortesia, qualsiasi coinvolgimento personale. Cesare Fioriti fa parte del direttivo del Pd di Perugia. Ex capogruppo del partito socialista in consiglio comunale, qualche anno fa è riuscito a fare intitolare una via alla memoria di Vittor Ugo Bistoni, storico esponente del Psi cittadino, presidente del Collegio umbro dei Maestri Venerabili e fondatore della Loggia “Guglielmo Miliocchi”. «Certo che è strano - ripete anche Fioriti - questa vicenda della massoneria viene fuori a orologeria. Secondo me serve a spostare il baricentro dell’opinione pubblica altrove, rispetto a temi come la crisi. Ricordo un altro scandalo simile: accadde nei primi anni 90, ai tempi di Tangentopoli». Fioriti non è legato ad alcuna loggia: «No, non sono massone - precisa subito -. Però difendo la massoneria. La penso esattamente come Voltaire (altro “illuminato”, ndr) “Anche se disapprovo quello che dite, difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. I consiglieri comunali devono avere piena libertà di espressione, quindi anche di associazione. E poi scusi, i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee». Squadra e compasso non creano alcun imbarazzo. «Il fine della massoneria è l’evoluzione del pensiero - continua Fioriti -. Mi spieghi lei come fa il Pd a condannare un’organizzazione del genere». Angelo Pistelli è un altro esponente del Pd umbro. Anche lui di provenienza socialista, fino a poco tempo fa era nell'esecutivo regionale. Dopo le ultime polemiche sulla massoneria non si trova più molto a suo agio nel partito. «In effetti del Pd ormai non condivido tanto - ammette Pistelli -. Ma io mi sento di sinistra e non ci sono altri partiti in cui potrei militare. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, e a noi resta ben poco». Sembra quasi che Pistelli sia pronto a fare coming out, quando corregge il tiro. «Specifico che non sono un massone. Diciamo che difendo ogni espressione personale. Credo che anche all’interno del partito ognuno debba essere libero di aderire a quello che gli pare. Non vogliono i massoni? Allora io dico che non voglio l’adesione di tutti quelli che provengono dal Pci. Hanno calcolato che in Italia ci sarebbero 4mila iscritti legati alla massoneria. A occhio e croce non mi sembrano mica tanti. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe».

PARLIAMO DI MAFIA.

Secondo la Fondazione Caponnetto: L'UMBRIA NON E’ TERRA DI MAFIA MA LA MAFIA C'E' E FA OTTIMI AFFARI. La Fondazione Antonino Caponnetto, da quando è nata, segue con attenzione i fenomeni criminali ed esamina i fatti di cronaca avvenuti. Dalle attività svolte emerge una situazione delicata in merito alla presenza di organizzazioni mafiose attive in Umbria. L'analisi che segue, di natura socio-politica, basata sull'osservazione del territorio, si auspica possa servire a contrastare i fenomeni criminali, sia comuni che mafiosi, servendo da sprone a tutti e a ciascuno, per non far mai abbassare la guardia davanti a questi avvenimenti. Non si può non notare che i segnali presenti da tempo in Umbria sono probabilmente stati sottovalutati, confidando nel fatto che tale territorio, storicamente non mafioso, possedesse un tessuto sociale in grado di respingere i tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata. Diversi fattori devono essere presi in considerazione. I primi contatti sono avvenuti con tutta probabilità attraverso soggetti appartenenti a organizzazioni criminali inviati in Umbria in soggiorno obbligato. Scelgono altresì l'Umbria sodalizi mafiosi in fuga od in cerca di silenzio per la tranquillità che tale territorio offre e per la facilità nel riciclaggio del denaro sporco. Inoltre il dramma del terremoto ha permesso ad imprese mafiose provenienti da altre regioni di infiltrarsi nella ricostruzione. A preoccupare negli ultimi anni è soprattutto la possibilità e la capacità delle mafie italiane di realizzare sodalizi affaristici anche con le mafie straniere presenti sul territorio. Il tutto s'inserisce in un quadro economico internazionale che mostra una ripresa instabile, con la possibilità di rischi recessivi. La crescita degli Stati Uniti risulta essere lenta e l’incertezza sulla possibilità di tenuta di economie trainanti quali quelle emergenti dipinge un affresco economico globale ancora fragile. In Europa ha particolarmente pesato il debito pubblico dei singoli stati membri che ha costretto ad interventi di rientro dai disavanzi. Anche l’Italia ha fortemente risentito di una manovra finanziaria decisamente restrittiva. L’analisi della situazione sullo stato economico della regione Umbria considerando le rilevazioni Istat, mostra come siano state le imprese artigiane quelle maggiormente investite dalla crisi, le quali pur tornando a crescere nel 2010 non sono riuscite a compensare la flessione iniziale. Anche il settore edile ha attraversato un periodo assai negativo e la produzione industriale registra una situazione di difficoltà. Non stanno meglio il settore agricolo e quello turistico anche se quest'ultimo è in leggera ripresa. Tale quadro economico in crisi rappresenta il terreno ideale per l'infiltrazione criminale di tipo mafioso mirante all'investimento di soldi provenienti dalle attività illegali. Altro fattore di debolezza è la propensione al consumo delle droghe da una parte della popolazione. Ciò comporta, oltre agli inevitabili problemi di gestione sociale del problema il finanziamento diretto delle organizzazioni criminali organizzate mafiose e non da parte dei consumatori spesso vittime di overdose.

I sodalizi criminali presenti sul territorio sono numerosi. In particolare risultano presenti: Cosa Nostra, l'ndrangheta, i Casalesi, i colombiani, gli albanesi, i rumeni, i nigeriani, i nordafricani ed i cinesi. Siamo quindi di fronte alla classica situazione dei territori in origine non mafiosi dove, in mancanza di un gruppo autoctono, convivono diversi sodalizi venuti da fuori. In particolare i rapporti della DIA segnalano già da diversi anni la presenza mafiosa di esponenti campani collegati agli Schiavone, di Calabresi del gruppo Farao, di pugliesi e siciliani. I Casalesi per la DIA hanno una capacità criminale elevata in Umbria. Non mancano i traffici di donne e di droga gestiti dagli albanesi ed i traffici internazionali gestiti da colombiani e nordafricani. Tutti questi gruppi si mimetizzano molto bene in un contesto tranquillo. Il rapporto AISI del 2010 mostra, tra i suddetti sodalizi, in ascesa l'ndrangheta.

Il rapporto del DIS di inizio 2011 rileva un'influenza notevole delle varie forme di mafia con un'attenzione particolare all'arrivo dei cinesi in grado di approfittare della situazione economica arrivando ad impiantare imprese commerciali pulite anche in centri minori. Tale criminalità crea insediamenti propri ma mira al contempo ad imporsi nel controllo di tutte le attività economiche dei cinesi mettendo in difficoltà gli onesti. Sempre in questo rapporto in Umbria Cosa Nostra viene data in difficoltà, l'ndrangheta viene considerata solida ed i Casalesi in declino. Inquieta inoltre il fatto che le cosche italiane per rafforzarsi mirano ad infiltrarsi negli appalti pubblici nel comparto sanitario, agrituristico e nell'energia oltre che nelle grandi opere. (Perugia-Ancona) Le mafie straniere vengono definite dal rapporto maggiormente dinamiche ed in grado di ricorrere spesso a gang giovanili per condizionare la concorrenza.

Le numerose operazioni contro la mafia in tutte le sue forme messe assieme danno un quadro della situazione sul territorio.

1. Febbraio 2008 . Operazione “Naos” dei R.O.S., coordinata dalla DDA di Perugia, ha evidenziato la presenza di una sorta di alleanza sinergica tra camorra e l 'ndrangheta mirante ad impadronirsi di aziende pulite. In questo modo i sodalizi espandevano le proprie attività e miravano ad occuparsi di ambiziosi progetti infrastrutturali relativi ad appalti pubblici, anche per il tramite di politici “amici”. Il sodalizio mafioso era collegato al clan camorristico dei Casalesi e alla cosca della 'ndrangheta dei Morabito – Palamara -Bruzzaniti.

2. Ottobre 2008 . Operazione dei CC a Terni con l'arresto del latitante DI CATERINO inserito nell’elenco dei 100 latitanti più pericolosi, appartenente alla fazione stragista dei casalesi.

3. Maggio 2009 . Operazione DIA /CC relativa ad un ingente quantitativo di droga proveniente dall'Afghanistan all'Umbria e gestito da gruppi napoletani ed albanesi.

4. Giugno 2009 . Operazione contro il clan Terracciano della camorra, del valore di oltre 20 milioni di euro (immobiliare e non). Le città coinvolte sono: Perugia, Città di Castello e Monteleone di Orvieto.

5. Gennaio 2010 . Operazione Pandora contro il clan Gallo della camorra. I camorristi in un'intercettazione ritenevano che in Umbria gli affari sono buoni. Il valore dell'operazione è di svariati milioni di euro.

6. Febbraio 2010 . Dal rapporto DIA. Sequestro a Spoleto di un appezzamento di terreno e relativo casolare di proprietà di un ergastolano mafioso di Agrigento.

7. Febbraio 2010 . Dal rapporto DIA. Conclusione indagini “Little”, “Smeraldo 1” e “Smeraldo 2” su traffico droga criminalità albanese.

8. Marzo 2010 . Dal rapporto DIA. Sequestro a Foligno di alcuni beni e di una società di costruzioni riconducibili ad un mafioso di Carini.

9. Marzo 2010 . Operazione DIA/CC contro il clan di Cosa Nostra di Lo Cricchio collegato ai Lo Piccolo. Beni confiscati pari ad un milione e mezzo di euro. Alcuni dei quali a Terni.

10. Marzo 2010 . Dal rapporto DIA. Operazione “Iktus” inerente la criminalità rumena dedita alle truffe informatiche.

11. Agosto 2010 . Operazione CC/GDF di Montepulciano. Due residenti a Spoleto fra gli arrestati avevano messo una base dell'ndrangheta in Umbria per invadere la Toscana. Indagini partite da un incendio nel senese.

12. Dicembre 2010 . Aperta indagine su infiltrazione 'ndrangheta negli alberghi in Umbria collegata alle vicende che hanno portato l'ex senatore De Girolamo in carcere.

13. Febbraio 2011 . Operazione PS Black Passenger. Scoperto traffico di droga gestito da nigeriani passanti per l'Olanda.

14. Febbraio 2011 . Arrestato ad Orvieto Maurizio Sangermano esponente in passato collegato alla banda della magliana.

15. Febbraio 2011. Arrestato in Romania grazie ai contatti che teneva a Terni il latitante dell'ndrangheta Cosimo Scaglione.

Dai capitoli pregressi si evince che le attività scelte dalle organizzazioni criminali variano in più settori. Il sistema di libero mercato non ne trae in alcun modo beneficio, anzi al contrario ne è notevolmente danneggiato. Nel corso del tempo il sistema delle economie mafiose è cambiato; esso è complesso, quanto “virtuosamente” sinergico. Il mafioso non agisce personalmente e per il suo diretto profitto, ma operando attraverso dei prestanome, e richiamando l’intervento di specialisti dei vari settori economico – amministrativi crea una vera e propria impresa a partecipazione mafiosa. Nasce così, un'azienda apparentemente legale, i cui capitali mafiosi attraverso i prestanome, tramite l'acquisto di azioni e quote societarie, penetrano nell'impresa. In questo modo la mafia si presenta sul mercato con un aspetto legale, avvalendosi del “know-how” che l'impresa mafiosa, rispetto alla normale azienda, non possiede. Così facendo, la mafia altera le regole del mercato, mirando ad avere il monopolio o l'oligopolio in particolari settori e ambiti territoriali. In particolare le attività predilette sono:

1. Night/Locali notturni. Sinergia tra casalesi e calabresi.

2. Sfruttamento prostituzione. Soprattutto albanesi.

3. Riciclo denaro sporco. Tutti i gruppi presenti.

4. Traffico di rifiuti. Soprattutto i camorristi come si evince da numerose inchieste ed in particolare da quella di Bonini del 2008 su “La Repubblica”. Degne di nota anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia di Cosa Nostra relativamente ad un traffico di rifiuti proveniente da Trapani.

5. Agriturismi ed alberghi. Cosche italiane.

6. Appalti pubblici. Cosa Nostra ed 'ndrangheta.

7. Narco traffico. Tutti i gruppi presenti.

8. Ambiente ed Energia. Cosche italiane.

LUOGHI COMUNI

In un'apparente isola felice come l'Umbria è importante conoscere quali sono I luoghi comuni sulla mafia. Vediamo quali sono.

1) la mafia non esiste. Oramai è stato appurato il contrario. Ma fino al maxiprocesso del 1986 di Caponnetto era il più diffuso.

2) la mafia se esiste è puramente un fenomeno criminale. Persiste ancora e favorisce la sottovalutazione del problema. Se fosse un puro e semplice fenomeno criminale sarebbe stata già debellata da tempo.

3) si ammazzano tra di loro a noi non interessa. Errato. Quando c'è una guerra di mafia chi rimane vivo rafforza il proprio gruppo ed aumentano i problemi.

4) di mafia non bisogna parlarne perché si rovina la reputazione di un territorio. Errore gravissimo che tuttora persiste in quasi tutto il nord ed in parte del centro e del sud. Non parlare della mafia significa aiutare la sua espansione.

5) teoria dell'isola felice. Non esistono luoghi nel nostro paese ed in Europa ove la mafia in qualche sua forma non sia presente. Questo errore di valutazione ad oggi persiste specialmente nel centro nord.

6) la mafia nasce dalla povertà. Al contrario la mafia nasce nei territori potenzialmente ricchi e li rende poveri. In Sicilia Cosa Nostra ha iniziato nella conca d'oro con il traffico di limoni.

7) teoria della totale sconfitta dopo gli ultimi arresti. Errore strategico già commesso nel 1996. Mai vendere prima della sua morte la pelle dell'orso.

8) la mafia una volta era buona. Falso non lo è mai stata.

9) di mafia straniera non bisogna parlarne perchè si rischia il razzismo. Errore grave perchè parlarne significa aiutare gli stranieri onesti.

10) non si fanno passi avanti. Falso in Italia ne sono stati fatti molti. Non bastano però in quanto bisogna agire sul piano internazionale. In Europa sono messi peggio.

11) ci prendiamo solo i soldi del riciclo dei mafiosi. Tanto i mafiosi non arrivano. Falso. I mafiosi dopo arrivano. 12) la mafia è invincibile. Non è vero. I danni che ha subito sono notevoli.

La mafia è un virus. Un virus mutante. Superare i luoghi comuni è come un vaccino e rappresenta un primo passo per sconfiggerla.

L'Umbria per fortuna è una regione non abituata alla mafia. L'Umbria per fortuna non è un territorio mafioso, ma purtroppo la mafia c'è e non va in alcun modo sottovalutata. L'analisi contenuta nel dossier, che si fonda solo su notizie basate su rapporti pubblici o su fonti giornalistiche, serve a puntare l'attenzione sui fenomeni mafiosi presenti in regione. Al momento si può considerare verosimile un fatturato delle organizzazioni criminali pari a c.a. 2 miliardi di euro e pertanto, se non si interviene in tempo, l'economia di una bellissima regione come l'Umbria rischia di essere divorata dalla mafia. Non siamo ancora a questo punto ma vista la crisi economica attuale bisogna intervenire. A tal proposito è importante il fatto che il consiglio regionale si sia dotato di una commissione antimafia interna.

FAVORITISMI E RACCOMANDAZIONI. VOTO DI SCAMBIO: IN ALTRI POSTI E' CONSIDERATA MAFIA.

Un nuovo terremoto scuote la sinistra. Umbria, arrestato il vicepresidente del Consiglio regionale Orfeo Goracci (Prc). Da “Il Corriere della Sera”: Il vicepresidente del Consiglio regionale dell'Umbria Orfeo Goracci (Prc) è stato arrestato in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Perugia. A Goracci è stato imposto il divieto di colloquio con i suoi difensori, gli avvocati Franco Libori e Marco Marchetti, per cinque giorni. Goracci è accusato di una serie di «assunzioni facili» nel periodo in cui è stato - per due mandati, nel 2001 e nel 2006 - sindaco di Gubbio con un monocolore di Rifondazione comunista. Per questa vicenda era stato sospeso dal partito già da diversi mesi: dopo i primi avvisi di garanzia su assunzioni mirate in Comune e cambi di posto su presunte pressioni e i sospetti alimentati da denunce e lettere anonime sulla sua decennale attività del sindaco, il segretario regionale del Prc Stefano Vinti aveva chiesto a Goracci maggiore trasparenza. I vertici di Rc ne avevano quindi auspicato le dimissioni da vicepresidente del Consiglio regionale, incarico che invece ricopre tuttora. Oltre a Goracci, eletto sindaco nel 2001 e nel 2006, sono state arrestate altre otto persone: quattro finite in carcere - tra cui Maria Cristina Ercoli, ex-vice sindaco di Gubbio e Lucio Panfili nella giunta comunale all'epoca dei fatti - e altre quattro ai domiciliari, tra cui Nadia Ercoli e Antonella Stocchi entrambe in consiglio comunale a Gubbio nel periodo al vaglio degli investigatori. Sono in corso anche perquisizioni al Comune di Gubbio e negli uffici del Consiglio regionale dell'Umbria. A loro carico verrebbe ipotizzata - secondo quanto si è appreso finora - l'accusa di associazione per delinquere finalizzata all'abuso di ufficio e ad altri reati. Sull'inchiesta viene mantenuto il riserbo assoluto. Goracci, 53 anni, maestro elementare, venne eletto sindaco nel 2001 e confermato nel 2006, dimettendosi dopo la sua elezione a consigliere regionale nel 2010. In passato è stato anche parlamentare nonchè vicepresidente della Giunta umbra.

Da “Il Giornale”: Una nuova tegola sulla sinistra. L'ex sindaco di Gubbio Orfeo Goracci (Rifondazione comunista) è stato arrestato con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata all'abuso di ufficio e altri reati. Già in passato Goracci aveva ricevuto un avviso di garanzia per corruzione, concussione e abuso d'ufficio. Manette anche per l'ex vicesindaco di Gubbio, Maria Cristina Ercoli e per altri ex collaboratori ed ex assessori della giunta di Gubbio, tra cui alcuni esponenti dell'Idv. Una nuova tegola sulla sinistra. Un nuovo terremoto che scuote la rossa Umbria. In arresto il vicepresidente del consiglio regionale, Orfeo Goracci, fermato con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata all'abuso d'ufficio e ad altri reati. In contemporanea sono finite in manette altre otto persone. Goracci (Rifondazione Comunista) è stato sindaco della città di Gubbio e le accuse che gli vengono rivolte sono legate a una serie di assunzioni facili e di avanzamenti di carriera, avvenute proprio nel periodo in cui era primo cittadino. Già in passato Goracci aveva ricevuto un avviso di garanzia per corruzione, concussione e abuso d'ufficio, nell'ambito di un'indagine coordinata dai pm Mario Formisano e Antonella Duchini. In manette è finita anche l'ex vice-sindaco di Gubbio, Maria Cristina Ercoli, sindaco pro-tempore al posto di Goracci in un breve periodo del suo mandato, quando era stato eletto al Consiglio Regionale. Goracci si era autosospeso dal Prc nello scorso mese di novembre, poco dopo aver ricevuto un avviso di garanzia. E il partito lo aveva messo ai margini, contestando la scarsa aderenza alla linea e la mancanza di trasparenza sulla gestione comunale. Oltre a Goracci e a Ercoli, in carcere a Capanne sono finiti Graziano Cappannelli, ex assessore al Commercio al Comune di Gubbio, ora consigliere comunale dell’Idv sempre a Gubbio; l’ex assessore all’Ambiente e consigliere del Prc Lucio Panfili; la dirigente comunale Lucia Cecili. Ai domiciliari invece l’ex assessore a Lavori pubblici e Urbanistica del Prc Marino Cernicchi, l’ex dirigente della Polizia municipale Nadia Ercoli (sorella di Maria Cristina), l’ex presidente del Consiglio comunale Antonella Stocchi e l’ex segretario generale del Comune Paolo Cristiano. Al vicepresidente è stato impedito per cinque giorni di vedere i suoi avvocati difensori. Sono nel frattempo in corso una serie di perquisizioni al Comune di Gubbio e negli uffici del Consiglio regionale dell’Umbria.

Commento di “La Repubblica”: LA STORIA di MATTEO PUCCIARELLI. C'era un volta Gubbio la rossa fiore all'occhiello di Rifondazione. La città amministrata da Goracci è stata per lungo tempo un punto di riferimento per la sinistra radicale. L'arresto dell'ex sindaco pone fine ad una delle poche esperienze di governo post-comuniste. Era il 28 maggio 2001 e quel giorno nacque la leggenda della cittadina più rossa d'Italia. A Gubbio, provincia di Perugia, poco più di trentamila abitanti, aveva sede la scuola di formazione di Forza Italia. Il sindaco Ds ex Pci Ubaldo Corazzi si ritrovava al ballottaggio. Ma - incredibilmente - mica contro il centrodestra. No. Contro un ex maestro di campagna allora 44enne, Orfeo Goracci, già deputato di Rifondazione Comunista. Al primo turno Corazzi in testa con quasi il 40%, a ruota il rifondarolo con il 37%, Forza Italia e An ferme al 21%. Il Prc, da solo, prese il 20%. Due settimane dopo finì con Goracci vittorioso con il 55, e con 13 consiglieri comunali tutti rifondaroli, più altri 5 di maggioranza. Una piccola Stalingrado. Un monocolore che più rosso non si poteva. Quasi undici anni dopo, come un fulmine a ciel sereno, arriva la notizia dell'arresto di Goracci per concussione e abuso di ufficio. Goracci non è più sindaco di Gubbio, ma comunque la sua carriera l'aveva fatta: era vicepresidente del Consiglio Regionale, sempre con il Prc. E dentro Rifondazione i "compagni" di Gubbio erano portati come il fiore all'occhiello di un partito che negli ultimi anni se l'è passata brutta. Quando a novembre arrivò l'avviso di garanzia all'ex sindaco, Rifondazione lo sospese e gli chiese di dimettersi. Lui rimase al suo posto e commentò così: "Ad oggi parlano per me i quasi 30 anni di impegno e di militanza politica, i molteplici livelli istituzionali svolti sempre con correttezza, onestà e trasparenza, avendo come obiettivo solo e sempre l'interesse dei cittadini. Forse il decennio eugubino 2001-2011 è stato scomodo per qualcuno". L'inaspettata vittoria del 2001 fu condita da polemiche tra gli eredi del Pci. Con il diessino Corazzi che accusò Rifondazione di aver incassato circa 2 mila voti del Polo, al ballottaggio. "Berlusconi vi ha fatto un favore", sentenziò. "Sei amico dei poteri forti", rispose l'altro. Il segretario Fausto Bertinotti non ci mise bocca: "Questo partito non è una monarchia, i responsabili locali sono liberi". E via così per altri cinque anni. All'appuntamento del 2006, altro giro altre elezioni, stesso schema. E stesso risultato. Sfida fraticida, riformisti contro radicali. Il candidato ulivista al 40%, Goracci al 48%. Al ballottaggio fu un altro trionfo: vittoria con il 60%, e la lista del Prc si era portata a casa il 25%. Primo partito della città, più forte di Ds e Margherita insieme. Bertinotti era da poco presidente della Camera, Prodi al governo con il Prc, forse il momento più alto della storia di chi si oppose alla svolta di Occhetto. Poi, piano piano il sol dell'avvenire di Gubbio ha cominciato a tramontare. Ma molto più lentamente rispetto alle dinamiche nazionali, dove nel frattempo Rifondazione si era ritrovata fuori dal Parlamento e poi dilaniata per gli scontri interni fra Nichi Vendola e Paolo Ferrero. Finiti con la scissione di Sinistra e Libertà del governatore pugliese. Solo un anno fa, la sinistra stavolta tutta unita a Gubbio e capitanata dal Pd, vinse al primo turno con il 57%. Federazione della Sinistra e Sel, sommando i voti, presero il 20%. Come ai bei tempi di Goracci. Quando cominciò l'avventura della rossissima Gubbio Goracci si domandava "Sarò all'altezza?". E - profeticamente? Chissà - ammise: "Della nobiltà della politica è rimasto poco: amministrare ormai significa solo alchimia". Undici anni dopo, oggi, un freddo comunicato del Prc recita così: "Abbiamo fatto della questione morale una delle principali bandiere ed elementi identitari. Per tale ragione riteniamo politicamente che i rappresentanti dei cittadini nelle istituzioni debbano sempre dimostrare una specchiata ed incontrovertibile etica pubblica". La favola si chiude definitivamente così. Senza lieto fine.

Si insiste sulla questione, non per accanimento soggettivo, ma per dimostrare che non ci sono unti dal signore e che le disgrazie giudiziarie, come le collusioni e le omerta', ci sono in tutti i partiti politici.

L' inchiesta: Goracci accusato anche di violenza sessuale.

I carabinieri hanno bussato all'alba del 14 febbraio 2012 a casa di Orfeo Goracci, tra le mani cinquantacinque pagine di ordinanza e un bel paio di manette. «Associazione a delinquere», l'accusa principale per l'ex sindaco di Gubbio, ribattezzato lo «zar» tra i fedelissimi del suo partito, Rifondazione comunista. Insieme con lui arrestate altre otto persone, tutte appartenenti alla giunta di Rifondazione comunista in piedi fino al 2011, la più importante che il partito abbia mai amministrato in Italia. Un'inchiesta partita dalla denuncia di assunzioni facili in comune e arrivata a scoperchiare un sistema di potere che, secondo l'accusa, sarebbe in piedi dal 2002 «ed ancora in essere» finalizzato a commettere «una serie indeterminata di reati», abuso d'ufficio, concussione, falso in atti pubblici, soppressione di atti pubblici. Per Goracci, ex sindaco e poi vicepresidente del Consiglio regionale umbro, c'è anche un'accusa personale: violenza sessuale. A denunciare lo «zar», un'ausiliaria del traffico del comune di Gubbio, anche se il suo non sembrerebbe un caso isolato. C'è una testimone, ascoltata dai magistrati, che ha sintetizzato con una frase il sistema di potere: «La logica era chiara: o eri donna e cedevi alle avance del sindaco, o eri uomo e avevi agganci politici o di amicizia con Goracci o con persone riconducibili al suo gruppo, oppure eri fuori dai giochi». Già, il «gruppo». Sembrerebbe essere stato arrestato in blocco. Una sfilza di reati che il gip di Perugia Carla Giangamboni ha contestato oltre all'ex sindaco, anche all'ex vicesindaco Maria Cristina Ercoli; agli ex assessori poi consiglieri comunali Lucio Panfili e Graziano Capannelli (Italia dei Valori); a Lucia Cecili, funzionaria comunale; ad Antonella Stocchi, consigliere comunale; Paolo Cristiano, già segretario generale e dirigente del comune di Gubbio; Marino Cernicchi, ex assessore; Nadia Ercoli sorella dell'ex vicesindaco. Nelle pagine dell'ordinanza del gip e di quelle della richiesta dei pm di Perugia Antonella Duchini e Mario Formisano, non vengono usati mezzi termini: il «gruppo» agiva instaurando «un clima di intimidazione e di paura all'interno del comune di Gubbio» e «piegando lo svolgimento delle pubbliche funzioni al perseguimento di interessi privati, consistenti in vantaggi politico-elettorali, mantenimento delle posizioni di potere e sviluppo della carriera, vantaggi economici per se stessi e per soggetti loro legati da vincoli di vicinanza politica, amicizia e sentimentali (per il Goracci)». Difficile aver conto dei vincoli sentimentali dello «zar», secondo l'accusa. L'uomo che aveva battezzato «Lenin» il circolo di Rifondazione comunista di Gubbio, avrebbe inanellato relazioni sentimentali (extraconiugali) come perle. L'indagine, iniziata per denunce di dipendenti, genera imbarazzo nelle file di Rifondazione comunista. Paolo Ferrero, segretario nazionale del partito, prende le distanze dalla vicenda: «Per quanto riguarda i rapporti tra Rifondazione comunista e gli indagati, il partito ha immediatamente sospeso chi ha ricevuto avvisi di garanzia già nel mese di novembre e abbiamo chiesto pubblicamente a Goracci di dimettersi dalla sua carica di vicepresidente del Consiglio regionale dell'Umbria in quanto chi è indagato non deve, a nostro parere, ricoprire incarichi istituzionali».

Doveroso dare spazio anche alla difesa: Ha respinto tutte le accuse davanti al gip, Orfeo Goracci. "Ha contestato ogni addebito in modo convincente sostenendo la legittimità del suo operato", riferisce l'avvocato Franco Libori. Goracci, sempre secondo quanto detto dal legale, ha negato l'esistenza di un "gruppo Goracci" alla guida del Comune di Gubbio, come ipotizzato nella ricostruzione accusatoria. "Al gip - sostiene l'avvocato Libori - il mio assistito ha ribadito di non aver mai voluto favorire o sfavorire nessuno. La nostra ricostruzione è diversa da quella dei pm e la sosterremo con prove documentali".

Il commento di Alessandra Arachi sul “La 27esimaora” de “Il Corriere della Sera”.

C’era una volta Gubbio la Rossa, hanno titolato i giornali in questi giorni. Ma a dispetto dell’incipit, la storia non ha certo i contorni di una favola. E adesso che a Gubbio la magistratura ha decapitato i vertici di Rifondazione comunista, c’è una domanda che sorge spontanea: le donne dov’erano in tutti questi anni? Già, perché la storiaccia giudiziaria di Gubbio la Rossa passa tutta per le vicende umane di Orfeo Goracci, l’ex-sindaco di Rifondazione che a Gubbio ha governato indisturbato per un decennio. Generando un clima di intimidazione, sostiene l’accusa. Ma, soprattutto, approfittando del suo potere per approfittare delle donne che gli stavano intorno. Secondo il più antico dei clichè maschilisti: o ci stai o sei tagliata fuori. Non era un mistero il comportamento di Goracci, fra le mura eugubine. Anzi. Lo sapevano tutti. Ne parlavano tutti. Marito e padre di una figlia adolescente, di Orfeo Goracci era praticamente l’intero paese a vociferare. A vociferare del suo sport preferito: le avances. Chi si è opposta alle sua attenzioni, ha pagato. Come ha raccontato ai giudici un’ausiliaria del traffico del comune, una storia di molestie vissute e respinte, sulla sua pelle. L’ausiliaria per fare quella denuncia ha avuto coraggio. Ma non ha trovato sponde, da nessuna parte. A quanto pare, è stata lasciata sola.

Dov’erano le donne di Gubbio la Rossa?

C’è un circolo di Rifondazione comunista intitolato a Lenin nella cittadina dei ceri. E’ il circolo di Goracci. Ma è popolato da tante donne: nessuna ha mai parlato. Denunciato. Reagito. E le donne del Pd? C’è una sede dei democratici a Gubbio: hanno sempre chiuso gli occhi in questi anni? Come mai? In queste ore, poi, il silenzio più assordante è quello dell’unica donna della giunta a guida Pd, quella che ha sostituito la giunta di Goracci: Michela Tinti, di Sinistra e libertà, ha anche la delega alle pari opportunità. Neanche i comitati di “Se non ora quando” sono riusciti ad intercettare questo fenomeno eugubino. Cinzia Guido, del comitato promotore e responsabile dei territori, allarga le braccia: “Quando c’è di mezzo il potere le donne fanno fatica a parlare. E’ triste e grave, ma è così. Sulla gestione femminile, poi, l’Umbria ha un profilo assolutamente a sé. E’ l’unica regione dove un presidente donna è succeduta ad una donna, ma non c’è minimamente spazio per un percorso di genere. I nostri comitati sono transitati per Gubbio, ma non hanno trovato alcun terreno fertile”.

Clamoroso da Panorama. I guai giudiziari del Partito democratico stanno diventando un feuilleton estivo. Le procure di mezza Italia sembrano avere rinunciato alle vacanze appositamente per partecipare a quest’opera collettiva sul presunto lato oscuro delle amministrazioni a guida Pd. L’ultimo episodio della saga è ambientato in Umbria, dove l’inchiesta dei pm Sergio Sottani e Mario Formisano, soprannominata Sanitopoli, non riguarda il finanziamento illecito al partito o ai suoi dirigenti e funzionari (su cui indagano, per esempio, le procure di Roma e Monza), ma un tema altrettanto avvincente per gli amanti del genere: il voto di scambio e le amministrazioni pubbliche usate come uffici di collocamento. 

Sottani (neoprocuratore di Forlì) e Formisano nei giorni scorsi hanno inviato l’avviso di chiusura indagini a 21 persone; tra questi almeno cinque politici di rango: l’ex governatrice Maria Rita Lorenzetti, oggi presidente di Italferr, società partecipata di Ferrovie dello Stato, l’ex vicepresidente della giunta Carlo Liviantoni, l’ex assessore al Bilancio (appena nominato assessore allo Sviluppo economico) Vincenzo Riommi, l’ex assessore alla Sanità Maurizio Rosi e il consigliere regionale Luca Barberini (già presidente della Valle umbra servizi). Tra gli indagati anche il direttore generale della Asl 3 Maria Gigliola Rosignoli e l’ex capo di gabinetto di Lorenzetti, Sandra Santoni. Nel nuovo capitolo i reati più citati sono l’abuso d’ufficio, la falsità ideo-logica e quella materiale. Ma partiamo dal principio.

La storia diventa intrigante quando entra in scena un militante del Pd, il 27enne David Alpaca, indagato per tentata estorsione e turbativa d’asta insieme con un amico imprenditore. Le intercettazioni sembrano scritte da uno sceneggiatore. Il giovanotto è in contatto con i dirigenti del Pd locale e si preoccupa di rastrellare nuovi iscritti in vista delle primarie. In cambio di questo lavoro Alpaca accampa pretese. Per esempio afferma che bisogna dire al sindaco di Foligno che «deve sistemare chi ha fatto anche 100 tessere». I carabinieri del nucleo investigativo di Perugia trascrivono le sue parole: «Adesso ci sono le regionali bimbi miei, lì non si fanno scherzi, io non posso fare nomi, ma c’è qualcuno che ha cacciato 2 mila euro e non c’entrava nulla con la politica».

Gli investigatori annotano i vizi del ragazzo: gioca con le macchinette nei bar e «conta i soldi in tasca per la droga». Diventa una mina vagante per il Pd umbro. Prima chiede lavoro per un amico, poi per se stesso. E inizia a minacciare: «In particolare faceva presente in più occasioni di essere a conoscenza che diverse persone erano state assunte in amministrazioni pubbliche senza concorso, in quanto legate da vincoli di parentela con alcuni amministratori o perché vicini politicamente agli stessi e in grado di procurare voti» scrivono gli inquirenti. Promette al telefono di rivelare la cosa «agli organi di stampa»: «Prima di picchiarli li mando in galera» sbotta. Risultato: il capo di gabinetto della giunta regionale Santoni e il direttore della Asl 3 Rosignoli si attivano per procurare ad Alpaca un impiego alla Sogesi (1.400 euro al mese per sterilizzare i ferri chirurgici), una società di servizi per la sanità. Un favore che la Sogesi non può rifiutare visto che, annotano i magistrati, «la richiesta proveniva dal direttore della Asl 3» e la società «gestiva diversi appalti per le aziende sanitarie e ospedaliere della Regione Umbria».

Le minacce di Alpaca (che riceve oltre al posto di lavoro anche una testa di cane mozzata in giardino) incuriosiscono i pm che iniziano a scavare. Alpaca, accusato di estorsione, in procura, però, perde la loquacità e non collabora. Sottani e Formisano individuano ugualmente una pista e si concentrano sulla Webred servizi, società pubblica di proprietà della regione, dove sarebbero state pilotate diverse assunzioni. Negli atti è citata la vicenda di Isabella M., raccomandata da Barberini. Nel suo caso una manina «provvedeva a correggere il voto riportato dalla candidata in una delle prove orali, consentendo così il superamento della prova selettiva» sostiene l’accusa. Lo stesso escamotage sarebbe stato adottato per almeno altre cinque persone segnalate da Riommi. E visto che un buon posto di lavoro in Umbria non si nega a nessuno, anche Santoni, terminata l’avventura a fianco del presidente Lorenzetti, si adopera per non tornare a fare l’impiegata al Comune di Foligno e in un’intercettazione spiega a Rosignoli che se «la fa andare là con 1.500 euro al mese poi non sa cosa mangiare». Il registro cambia, da noir diventa strappalacrime. Per questo la giunta guidata da Lorenzetti (indagata per abuso d’ufficio) si mette una mano sul cuore e il 5 ottobre 2009 delibera la sua assunzione come dirigente della Asl 3. Per raggiungere l’obiettivo, ecco spuntare un’altra manina: questa volta viene alterato «l’atto di richiesta di autorizzazione di assunzione del personale»: l’efficiente Soccorso rosso modifica il numero di dirigenti, portandolo da tre a quattro «mediante una correzione a penna». Il posto in più è di Santoni.

Che per i pm queste non siano eccezioni, ma spie di un sistema emerge da un altro capo d’imputazione: Liviantoni, Rosi e altri sono accusati di falsità ideologica per avere indotto la giunta regionale ad approvare la delibera numero 46 del gennaio 2009 relativa alla «autorizzazione alle aziende sanitarie locali e ospedaliere ad assumere personale» nonostante «tale provvedimento risultasse mancante dei suoi contenuti essenziali». Insomma la festa in Umbria doveva avere più invitati possibile. Per i magistrati gli amministratori del Pd hanno gestito la sanità pubblica come una «cosa loro» e per dimostrarlo citano anche episodi minori, come le visite specialistiche ottenute da Lorenzetti e Barberini presso la Asl 3 «violando il corretto iter amministrativo e burocratico», quello cioè che ogni cittadino deve seguire.

I risultati delle indagini della procura di Perugia non sorprendono l’avvocato Fiammetta Modena, candidata governatrice alle ultime elezioni regionali per Pdl e Lega nord: «La filosofia messa in luce dalle inchieste è chiara: posti di lavoro in cambio di voti, per le elezioni e per le primarie. Solo così si spiega l’ipertrofia degli apparati regionali: la piccola Umbria (900 mila abitanti) ha 5 aziende sanitarie locali, 2 aziende ospedaliere, 1 agenzia sanitaria per gli acquisti e 5 comunità montane, una persino del lago Trasimeno, con soli 525 mila ettari di monti e ben 964 dipendenti». Nel frattempo Sanitopoli dalle assunzioni si sta estendendo agli appalti pubblici. Un filone che potrebbe dare materia per un nuovo paragrafo sulle disavventure del Pd. E altri dispiaceri ai vertici del partito.

E poi ci meravigliamo che il cattivo esempio della classe dirigente venga emulato dai cittadini. 

Ci voleva l’assassinio di una povera ragazza inglese (da parte di un italiano, un’americana e un congolese) per aprire gli occhi ai tetragoni amministratori umbri. Adesso finalmente è un coro di voci di uomini politici che mettono al centro il problema sicurezza.

Ma che Perugia fosse una città invivibile si sapeva da tempo. Da quando venne fuori nitidamente che era diventata una delle tre o quattro piazze più importanti dello spaccio della droga. Un fiume di cocaina solcava il centro storico dove dopo le dieci di sera non è più possibile passeggiare. C’è stata la protesta dei cittadini del quartiere dove ha sede l’Università per Stranieri, sempre più spaventati dal degrado. Nel silenzio di tanti, troppi amministratori e anche della stessa opposizione è toccato ad Italia Nostra protestare per la pericolosa involuzione di una fra le città più belle e più civili d’Italia. Basta scorrere qualche dato – proprio fornito dal Ministero degli Interni: una volta la capitale degli scippi era Napoli, adesso Perugia le contende il primato.

Il traffico della droga – come è noto – è in mano ai nordafricani, sempre più numerosi e difficili da controllare. Ma la droga è solo uno dei problemi. Di recente sono stati fermati – con una operazione per la verità eccessivamente spettacolare – un gruppetto di anarchici che si dilettavano a mandare in giro lettere con all’interno qualche pallottola. Il capoluogo umbro è diventato anche una sorta di capitale del terrorismo islamico: basti ricordare gli arresti a Ponte Felcino dove vivevano e operavano uomini che, mentre invocavano Allah, arruolavano kamikaze. E il campo antimperialista di Assisi - nel silenzio del centrosinistra locale e di tanti altri - tutte le estati diventa un punto di aggregazione di loschi figuri, ricercati un po’ ovunque per le loro gesta di violenza.

Insomma, si può sommessamente dire che Perugia è ormai una città con tassi di presenza straniera pericolosi, simili a quelli di alcune realtà del Nord, tipo Brescia. E si può dire che fra extracomunitari e non, questi si annidano personaggi pericolosi: spacciatori, terroristi e quant’altro. Il lassismo della sinistra di governo ha favorito tutto ciò: il Comune di Perugia addirittura pagava una quota d’affitto dell’imam di Ponte Felcino che addestrava uomini per fare attentati. In nome di un buonismo peloso è stato attaccato duramente chiunque ponesse il problema dell’eccessiva densità di stranieri e del clima insopportabile che - fra droga e islamisti - si veniva creando. I giornali – pochi per la verità – che nel recente passato lanciarono l’allarme, sono stati accusati di allarmismo. E un trattamento analogo lo ebbe il vescovo di Perugia quando fra il 2003 e il 2004 sollevò il tema della sicurezza e della circolazione della droga nel centro storico e nell’intera città.

Adesso la gente è veramente spaventata, gli amministratori locali piangono le lacrime del coccodrillo, e l’opposizione, solo da poco, ha cominciato a farsi sentire. Il guasto è fatto. Una delle più belle e più vivibili città d’Italia, un tempo colta e sicura, è stata trasformata in un luogo pericoloso per incapacità e per eccesso di demagogia. Una brutta fine che era evitabile.

Ma questo non è il solo cruccio di Perugia.

Blitz delle forze dell'ordine per arrestare 30 tra dirigenti pubblici, imprenditori e altri personaggi legati al mondo degli appalti umbri finiti nel mirino della Procura della Repubblica che ha ipotizzato, da due settimane, un' associazione a delinquere e altri reati del tipo turbativa d'asta e frode.

L'azione coordinata dal Pm Comodi ha fatto già una vittima illustre il vice-presidente di Confindustria, Carlo Carini, nonchè presidente dell'Ance - i cementieri e costruttori - che proprio mercoledì aveva consegnato le proprie dimissioni da tutti i ruoli istituzionali. Dimissioni che non sono state accolte.

Sarebbero 8 le persone portate al carcere di Capanne; a tutti gli altri - 30 le ordinanze di custodia cautelare emesse - sarebbero stati concessi gli arresti domiciliari. Secondo alcune indiscrezioni provenienti dalla Procura, il motivo della custodia cautelare scattata molto tempo dopo l'avvio degli avvisi di garanzia sarebbe stata determinata dal rischio sia di inquinamento di prove che dalla possibilità di una fuga all'estero di alcuni indagati. Non sono stati ufficializzati gli altri nomi degli arresti.

Il procuratore della Repubblica, Nicola Miriano, con una nota è intervenuto per precisare i numeri dell'azione portata avanti questa mattina dalla Squadra mobile a riguardo dell'inchiesta sugli appalti truccati in provincia di Perugia. Il Procuratore ha precisato che al di là delle 35 custodie cautelari, sono 51 i funzionari della Provincia di Perugia coinvolti a vario titolo nell'operazione. I reati: associazione a delinquere finalizzata alla ridistribuzione di appalti ad uno stretto cerchio di imprenditori, truffa e turbativa d'asta.

Nelle rete della Procura sono caduti esponenti di spicco delle istituzioni perugine.

E non è la sola indagine attivata.

Ventiquattro avvisi di garanzia, un assessore provinciale del Pd, Riccardo Fioriti, coinvolto, e tra i presunti imprenditori favoriti dalla macchina pubblica spunta persino il nome dell'imprenditore più importante della regione, Carlo Colaiacovo, in qualità di presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia.

Il magistrato Manuela Comodi sta indagando su appalti stradali che riguardano gran parte dei comuni dell'Umbria nord: da Perugia, passando per Gubbio-Gualdo, toccando Pietralunga, Città di Castello e Umbertide. Nel fascicolo compare anche il progetto del "Nodo di Perugia" offerto dalla Fondazione Cassa di Risparmio alla Regione.

Il teorema è quello degli appalti e delle bitumature affidate ad imprenditori vicini al dirigente o all'amministrazione comunale, provinciale e regionale: il reato ipotizzato è quello di concussione e corruzione. Al momento non ci sono elementi che permettano di fare collegamenti maggiori.

Resta ancora da capire il fascicolo riguardante l'avviso di garanzia ad un dirigente del comune di Perugia su un abuso edilizio che riguarda le torri residenziali di via del fosso della Oikos; società dove compare il nome dell'imprenditore Leonardo Giombini - già inquisito per fatturazioni false e per corruzione nei confronti di alcuni magistrati tra cui esponenti della Cassazione -. L'imprenditore non ha ricevuto però avviso di garanzia.

E poi la ciliegina sulla torta.

Avvocati armati di cronometro piazzati davanti ai semafori per misurare la durata del giallo, una psicosi da incrocio e atti di teppismo che dalle parti di Perugia sono cosa rara, scrive Antonio Signorini su "Il Giornale". Poi, soprattutto, un malcontento sconosciuto in una città che in sessant’anni non ha mai voluto cambiare colore all’amministrazione. La causa è un’epidemia di multe.

Uno «tsunami» di verbali, tutti figli degli stessi genitori: il Foto-red e il T-red. Nomi entrati nel gergo dei perugini e che indicano due apparecchi posti negli incroci tra le strade più trafficate della città, installati da una società, la Citiesse, su incarico del Comune. Il meccanismo è lo stesso dell’Autovelox: le telecamere inquadrano le vetture che passano con il rosso e scattano la foto. Il comune intasca la multa tranne una parte che va alla società.

All’inizio i due cilindri piazzati sopra i semafori non hanno preoccupato più di tanto gli automobilisti perugini. Poi sono cominciate ad arrivare le multe: tante (tra 15 e 20mila su una popolazione di 160mila abitanti) e salatissime (158 euro e sei punti di patente in meno). Ci sono automobilisti che si sono visti recapitare anche quattro verbali, che significano uno stipendio polverizzato e la certezza di avere la patente ritirata.

Troppo anche per i pacifici perugini che si sono ammassati davanti all’ufficio dei vigili urbani per chiedere spiegazioni e ricevere copia dell’immagine incriminata, sostenuti da alcuni consiglieri dell’opposizione di centrodestra che si sono piazzati con un camper davanti al municipio per dare assistenza legale. Anche le associazioni dei consumatori si sono mobilitate e sono fioccati i ricorsi.

La temperatura è salita a livelli critici quando è scoppiato il caso del «giallo». Il sospetto che si è fatto strada è che la durata del tempo intermedio tra il verde e il rosso sia stata artificiosamente diminuita in modo da cogliere in fallo gli automobilisti umbri, forse troppo disciplinati per far scattare un numero soddisfacente di sanzioni. Quando l’assessore alla Mobilità, Antonello Chianella, ha smentito («nessuna manipolazione, basta controllare la scatola nera presente in ogni semaforo»), un avvocato perugino - racconta il Corriere dell’Umbria- si è munito di cronometro e telecamera e ha documentato l’anomalia: «Nei semafori con il Foto-red T-red, il giallo dura tre secondi e non quattro come è stato detto dal comune». Senza contare che in altri incroci sprovvisti di telecamere, il giallo dura fino a cinque secondi. Fondata o no, la tesi del giallo ha spinto i multati più arrabbiati a darsi al teppismo. Armati di bastoni, hanno sabotato le telecamere, puntandole verso il cielo.

Sulle ragioni di un’applicazione tanto rigida e sistematica del Codice della strada l’opposizione ha pochi dubbi. Il Comune guidato dal sindaco Ds, Renato Locchi, questa in sintesi la tesi del centrodestra, sta cercando di ripianare il buco nei conti. Un altro modo di fare cassa, dopo l’aumento delle addizionali Irpef. È di questa idea il capogruppo di Forza Italia in Regione, Fiammetta Modena, che in qualità di avvocato, insieme alla sorella Laura, è andata oltre il ricorso per annullare multe e ha chiesto il risarcimento dei danni al comune per un suo cliente.

Il sindaco Locchi ha lasciato ancora una volta rispondere l’assessore Chianella: «Nessun secondo fine, se non quello di salvaguardare vite umane». Se questo era l’obiettivo è stato mancato, ha protestato il consigliere di An, Daniele Porena, che ha notato un aumento dei tamponamenti in prossimità degli incroci a causa di automobilisti che inchiodano al primo accenno di giallo.

Una situazione imbarazzante anche per il centrosinistra. Tanto che ieri i principali esponenti hanno preso le distanze. A partire dalla potentissima presidente della Regione, Rita Lorenzetti, che si è chiesta se «gli automobilisti che circolano per Perugia siano davvero quelli che risultano dal numero delle infrazioni».

PERUGIA INSICURA.

Perugia ostaggio degli spacciatori. Viaggio nella capitale italiana della droga raccontato da Antonio Libonati su “Agora Vox”. Un morto per overdose ogni 15 giorni. Quasi 300 arresti all’anno. Più di 100.000 siringhe da insulina, quelle usate per iniettarsi l’eroina, vendute nelle farmacie comunali, e oltre 200 interventi del 118 che hanno salvato la vita a persone che rischiavano la vita per overdose. Questi dati non si riferiscono a Scampia o a Quarto Oggiaro, ma a quella che fino a pochi anni fa era considerata una delle città più vivibili e tranquille d’Italia: Perugia. Perugia è ormai la capitale della droga. In qualunque altra regione o provincia del Nord e del Sud i morti per overdose scendono anno dopo anno e qui invece salgono. Nel 2011 il capoluogo umbro ha raggiunto il non invidiabile primato europeo del consumo di eroina, con ben 5 dosi giornaliere ogni 1000 abitanti, e se si pensa che al terzo posto si è piazzata Terni con 3 dosi al giorno, si capiscono le dimensioni di un problema che ha ormai da moltissimo tempo superato la soglia di guardia. Corso Garibaldi, Via dei Priori, Parco Santa Giuliana, Parco del Pellini, Piazza Grimana, Arco di Porta Pesa, Corso Bersaglieri, la Stazione, sono solo alcune delle piazze di spaccio a Perugia. Ma il punto nevralgico è il centro della città, proprio davanti al Duomo, dove può capitare che i pusher ti offrano direttamente la droga, per poi vendertela nei vicoli lì vicino. La città è letteralmente assediata dagli spacciatori, e non si esagera. La Polizia calcola che ogni giorno a Perugia venga spacciato oltre mezzo chilo di eroina al giorno, e che siano più di 500 gli spacciatori quotidianamente attivi su piazza, per lo più tunisini. Sono i numeri di una guerra. Le cause sono molteplici: la presenza di migliaia di studenti, la centralità geografica della città, la scarsità di risorse delle forze dell’ordine, l’immigrazione clandestina. Ma la diffusione così ingente di questo fenomeno fa emergere anche un altro dato, se possibile ancor più allarmante, per non dire deprimente. La città quasi sempre, davanti a una situazione così grave, troppo spesso preferisce voltare la testa da un’altra parte. I commercianti e i frequentatori del centro tollerano che lo spaccio e il consumo avvenga a cielo aperto, forse temendo ritorsioni. Accanto alla “Perugia omertosa” c’è poi la “Perugia complice”, una zona grigia della città che guadagna con l’indotto della droga e, quindi, ha convenienza a tacere su tutto. Si tratta di avvocati che adottano ogni escamotage per proteggere gli spacciatori con alta disponibilità di liquidi, di commercialisti pronti a offrire contratti di lavoro fittizi per coprire l’attività di spaccio dei pusher, di proprietari di casa che affittano scantinati senza chiedere spiegazioni. Salvo poi lamentarsi della situazione ormai insostenibile. A questo si aggiunga che l’80% dei consumatori sono persone residenti in Umbria. Quando arriva la sera, a Perugia c’è il coprifuoco, la gente si chiude dentro casa. I residenti vanno via, lasciando il centro in mano ai tunisini. Al posto degli eleganti negozi e cioccolaterie di Corso Vannucci, sempre di più aprono paninoteche, kebabbari e baretti che vendono alcolici a basso prezzo. Lo spaccio porta altra criminalità, come dimostrato nei video. Le risse e gli atti vandalici in pieno centro storico sono ormai all’ordine del giorno. Il 9 maggio c’è stata anche una sparatoria, una faida tra spacciatori tunisini e albanesi per un mancato pagamento. Il tutto davanti al Duomo della città. Quella stessa città che ha ormai smarrito sé stessa, e che viene abbandonata dai suoi stessi cittadini. Un incubo, da cui Perugia non sembra saper uscire.

MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO KERCHER.

26 marzo 2013. Raffaele Sollecito: Oggi è il suo compleanno, compie 29 anni. Tutto da rifare, scrive “Il Corriere della Sera”. Torna alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007. I due imputati, Raffaele Sollecito e Amanda Knox, dovranno comparire nuovamente davanti ai giudici, ma questa volta a Firenze perché a Perugia c'è un solo collegio di Corte d'Assise d'Appello. Si sgretola la sentenza di assoluzione di secondo grado che, sulla base di un'articolata perizia tecnica, aveva assolto i due ragazzi indicati dall'accusa come gli autori del delitto in complicità con l'ivoriano Rudy Guede. Amanda, che ha seguito le fasi finali del processo dalla sua abitazione di Seattle, negli Usa, ha confidato al proprio avvocato: «Continuano a non credermi». Raffaele Sollecito, che nel giorno della sentenza ha compiuto 29 anni, ha invece confidato all'avvocato Luca Mauri: «Sono deluso. Ma io sono innocente e posso continuare ad andare avanti a testa alta». «Pensavo si potesse mettere la parola fine a questa vicenda»., ha aggiunto. Sollecito ha telefonato ad Amanda, come ha riferito la compagna del giovane rispondendo al citofono ai cronisti: «Vedranno cosa fare». La ragazza, sentita dal Tg3 Veneto, ha poi detto che Raffaele è distrutto e «non sta parlando con nessuno. Ricominciare è dura». Nella sua requisitoria, il procuratore generale della Cassazione, Luigi Riello, aveva duramente criticato i giudici d'appello: «In questo processo il giudice di merito ha smarrito la bussola», ha detto Riello. «Ci sono tutti i presupposti perché non cali il sipario su un delitto sconvolgente di cui per ora resta come unico condannato Rudy Guede». La Cassazione ha anche confermato la condanna a tre anni inflitta ad Amanda Knox per il reato di calunnia ai danni di Patrick Lumumba, il musicista del Congo da lei inizialmente indicato come autore dell'omicidio di Meredith. La condanna a tre anni risulta già scontata, perché compresa nel periodo che la studentessa americana ha passato sotto custodia cautelare in carcere, prima di essere assolta con il verdetto d'appello dall'accusa di omicidio. Lumumba era, dopo le accuse di Amanda, risultato completamente estraneo al delitto. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato dai difensori della Knox per questo capo di imputazione.

E' da rifare il processo d’appello a Raffaele Sollecito e Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher: lo ha deciso la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del Pg che ha chiesto l’annullamento della sentenza di secondo grado con cui erano stati assolti i due ex fidanzati «perchè il fatto non sussiste», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Si celebrerà a Firenze il nuovo processo d’appello per l’omicidio di Meredith Kercher. Lo ha deciso la Cassazione. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di Amanda Knox contro la condanna a tre anni di reclusione per calunnia nei confronti di Patrick Lumumba, da lei accusato del delitto di Meredith Kercher. La condanna diventa così definitiva. La Knox ha già interamente scontato la pena. Il gesto del pugno in segno di vittoria: così l’avvocato Francesco Maresca, difensore della famiglia Kercher, ha accolto la sentenza di annullamento da parte della Cassazione dell’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio della studentessa inglese Meredith. Assente in aula, al momento della lettura del dispositivo della sentenza sull'omicidio Meredith, il padre di Raffaele, che ieri invece aveva trascorso la giornata in attesa al Palazzaccio. “Non per pessimismo” ma Francesco Sollecito, papà di Raffaele, che ieri ha seguito tutto il giorno l’udienza in Cassazione, stamane invece era assente perchè “è una persona stanca che si è battuta come un leone. E non se la sentiva di essere ancora aggredita dai giornalisti”, lo ha detto il legale di Raffaele, l’avvocato Luca Maori, commentando la sentenza dei giudici della Cassazione. “Del resto – ha aggiunto l’avvocato – questo non è un processo, ma un processo mediatico” e “il padre di Raffaele non vuole più essere oggetto del clamore mediatico di questi cinque anni”, ha concluso il legale. «Pensavo si potesse mettere la parola fine a questa vicenda». Lo ha detto Raffaele Sollecito, parlando con l’avvocato Luca Mauri, uno dei suoi difensori. «Ho parlato con lui poco fa ed è deluso», ha aggiunto Mauri. «Oggi è il suo compleanno, compie 29 anni, ma non deve essere deluso perchè è innocente».

La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima.  Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»

Il racconto di Raffaele Sollecito: "Amanda in questura chiedeva aiuto". In un libro pubblicato solo negli Stati Uniti, la versione del ragazzo che dovrà affrontare un nuovo processo per l'assassinio di Meredith Kercher, scrive Meo Ponte su “La Repubblica”. Raffaele Sollecito non parla. In compenso scrive. Anzi ha già scritto un libro "Honor Bound: my journey to hell and back with Amanda Knox" ( Patto d'onore: i miei giorni all'inferno e ritorno con Amanda Knox). E' il racconto della vicenda giudiziaria che lo ha visto protagonista a partire dal novembre 2007 dopo la scoperta del cadavere di Meredith Kercher nella casa di via Della Pergola 7. Il libro, inedito per ora in Italia, è uscito negli Usa dove è atteso anche quello di Amanda. La donna ha firmato con Harper Collins un contratto in esclusiva per quattro milioni e 300mila dollari; nei giorni scorsi ha incassato la prima rata, un milione. Repubblica è in grado di anticipare un brano del libro di Sollecito. Si tratta probabilmente delle pagine più drammatiche del volume, quelle in cui Raffaele ricostruisce la notte in questura, il suo interrogatorio e quello di Amanda senza risparmiare pesanti accuse alla polizia. Quella notte si concluse con la confessione di Amanda che accusò del delitto Patrick Lumumba (poi scagionato da un testimone, un professore svizzero) e con l'arresto della ragazza di Seattle e di Raffaele.

«Appena i miei inquirenti aumentarono la pressione, mi chiesero di vuotare le tasche. Io capii immediatamente che questo non era un buon segno. Io ho tirato fuori un fazzoletto, il mio portafoglio, il mio cellulare e alla fine, con tutta l'attenzione su di me, il coltellino tascabile. Uno di loro prese il coltellino con un panno e lo portò rapidamente fuori dalla stanza. Ho provato a spiegare che era qualcosa che portavo con me in giro, ma che non avevo lavato. Mi rendevo conto che le cose non sarebbero andate bene a lungo. "Non ho il diritto di avere un avvocato?" Io chiesi. Mi risposero di no. "Posso almeno chiamare mio padre?", "Tu non puoi chiamare nessuno". Mi ordinarono di mettere il mio cellulare sul tavolo. Le persone entravano ed uscivano dalla stanza con grande intensità. Ad un certo punto, mi sono trovato solo con un poliziotto. Questi si chinò verso di me e mi disse: "Se provi ad alzarti e ad andartene, ti riduco in poltiglia e ti uccido. Ti lascio in un bagno di sangue." La serata è stata descritta in maniera molto diversa dagli ufficiali di polizia in Tribunale. Essi negarono che io avessi richiesto un avvocato o che fossi stato sottoposto a violenza. Daniele Moscatelli, il poliziotto di Roma, disse: "Qualsiasi cosa domandò, acqua o altro, gli fu messa completamente a disposizione." Ma, posso garantire, che io ero spaventato a morte e completamente frastornato. Ero stato educato a pensare che la polizia è onesto difensore della sicurezza pubblica. Mia sorella faceva parte dei carabinieri, nientemeno! Al momento mi sembrò che si comportassero più come gangster. Poi arrivò un suono che gelò le mie ossa: la voce di Amanda che chiedeva aiuto nella stanza a fianco. Lei gridava in italiano "Aiuto!Aiuto!". Io chiesi che cosa stava succedendo e Moscatelli mi disse che non c'era niente di cui preoccuparsi. Ma questo era assurdo. Io potevo sentire gli ufficiali di polizia urlare e Amanda singhiozzare e pianger per altre tre o quattro volte. Che cosa stava succedendo? Quando tutto ciò sarebbe finito? A questo punto, Amanda era già crollata. Come più tardi racconterà, gli inquirenti sostenevano di avere concrete prove che lei si trovasse nella casa di via della Pergola la notte che Meredith fu uccisa. Quando lei disse di non ricordare tutto ciò, loro la minacciarono con trenta anni di carcere e la colpirono ripetutamente alla testa. (La polizia ha negato di averla minacciata in qualsiasi modo). Per almeno un'ora, Amanda fu interrogata in italiano. Gli ufficiali di polizia dissero che Amanda sembrava capire abbastanza bene le domande, ed il verbale che loro redassero descriveva le sue capacità lessicali relative alla lingua italiana come adeguate. Poi, alcuni minuti dopo la mezzanotte, arrivò un interprete. Lo stato d'animo di Amanda era peggiorato. Lei non ricordava affatto di aver inviato un messaggio a Patrick, non era, dunque, nella posizione di analizzare il contenuto del messaggio. Quando le fu suggerito che lei non solo avevo inviato a lui un messaggio ma che aveva anche organizzato un incontro, la sua serenità venne meno; lei scoppiò in un pianto incontrollabile, e portò le sue mani sulle sue orecchie come per dire, io non voglio più sapere niente di tutto questo. Per me la notte non era ancora terminata. Mentre Amanda viveva il suo incontro faccia a faccia con Mignini, io fui portato in un'altra stanza e fui coperto di minacce ed di insulti. "Tu non sai cosa hai fatto" disse qualcuno. "La tua famiglia sarà distrutta. Tu passerai i prossimi 30 anni in prigione". O ancora: "Il tuo povero padre, come prenderà questa storia. Cosa ha fatto per meritarsi un figlio come te? Tu devi dirci cosa è successo!". Ripensandoci, io non sono sicuro che essi volessero spingermi a confessare il crimine. Il loro interesse più urgente era che io fornissi testimonianza che incriminassero Amanda. Ad un certo punto uno degli inquirenti apri la porta rumorosamente, si avvicinò e mi schiaffeggiò. "Tuo padre è una persona onesta", egli disse. "Non si sarebbe mai meritato un figlio come te, uno che sta con una puttana come Amanda". Le persone entravano ed uscivano. Qualche volta venivo lasciato solo. Alcune volte venivo sgridato. E poi giunse il mattino. Io fui portato al reparto medico della Questura e mi fu detto di spogliarmi. "Levati tutto," mi dissero, "anche le tue mutande". Io ero già stato senza scarpe per la maggior parte della notte, ma questo fu un nuovo livello di umiliazione. Mi fu chiesto del mio tatuaggio manga giapponese che ricopre la maggior parte della mia scapola sinistra - un regalo che mi feci dopo aver passato un brutale programma d'esame nel 2004 - e mi fecero camminare attorno di fronte ad un dottore donna. Mi sono sentito così imbarazzato che non l'ho neanche guardata. Dopo alcuni minuti, lei prese un paio di forbici e mi tagliò alcuni capelli dalla testa e un campione del mio pelo pubico. Questo fu fatto per stabilire il mio profilo del DNA, essi dissero. Di certo, avrebbero potuto prelevare un campione con un tampone dalla mia bocca. O prendere i campioni di peli con i miei vestiti ancora addosso. Così io fui accompagnato in un'altra parte della Questura. Attraversai una cella di custodia e all'interno udii Amanda piangere come una bambina. Io non potevo vederla, ma si riusciva a sentire bene attraverso la piccola fessura della porta. Le chiesi velocemente sugli eventi della notte, ma lei era troppo isterica per ragionare.

L'intervista, parla il giudice: "Ecco perché ho assolto Amanda". Prove mancanti, perizie, errori d'indagine: il giudice Pratillo Hellmann spiega perché in Appello ha scagionato la Knox e Raffaele Sollecito. Intervista di Roberta Catania su “Libero Quotidiano”. Claudio Pratillo Hellmann è un giudice in pensione. Non un giudice qualunque: lui, il 3 ottobre del 2009, aveva letto la sentenza (annullata dalla Cassazione) con la quale Amanda Knox e Raffaele Sollecito erano stati assolti per non avere commesso l’omicidio di Meredith Kercher. All’epoca Pratillo era il presidente della Corte d’Assise d’appello di Perugia, chiamata a pronunciarsi sull’efferato delitto della studentessa inglese trovata morta il 2 novembre del 2007. A fare ricorso erano stati gli imputati, condannati in primo grado a 25 e 26 anni di carcere. Lunedì scorso, ripercorrendo la vicenda in Cassazione, per smontare l’assoluzione decisa dalla Corte d’Appello, il procuratore generale Luigi Riello ha usato parole forti: «Il giudice che ha preso quella decisione ha perso la bussola», quella sentenza d’assoluzione «è un concentrato di violazioni di legge e di illogicità». Ebbene, ecco che cosa ne pensa il giudice che avrebbe perso la bussola: «Quella del pm è sempre un’opinione, è il giudice che emette la sentenza. Perciò è nelle motivazioni della Cassazione che bisognerà leggere se la Corte da me presieduta avesse perso la ragione. Ad ogni modo il pg avrà letto e interpretato i fatti in modo diverso dal nostro, ma le parole che ha usato nei nostri confronti mi sembrano eccessive. E soprattutto, quale legge avremmo violato?»

Appunto, presidente, ce lo dica lei. Ci sono state violazioni di legge? È vera la storia delle pressioni dall’America perché Amanda tornasse a casa da cittadina libera? «Assolutamente no. Basta tenere presente che noi abbiamo ereditato un processo “tutto in fatto”, nel quale cioè dovevamo solo valutare le prove. Non abbiamo disposto alcun supplemento di indagine, l’unica mossa avanzata da noi è stata quella di chiedere una perizia sulle prove genetiche, poiché sia l’accusa che la difesa consideravano il Dna sui reperti la prova regina per vincere il processo».

Cioè, sostanzialmente vi siete basati sulle stesse prove che ai giudici di primo grado avevano ispirato condanne esemplari, a 26 e 25 anni di carcere, ma che per voi valevano un’assoluzione piena? «Esattamente. Abbiamo esaminato quelle prove, che a nostro giudizio non erano convincenti. Non erano convincenti soprattutto alla luce di un’attenta rilettura del codice di procedura penale, che obbliga “all’assoluta certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio”, che - in questo caso - la Knox e Sollecito fossero colpevoli. Per questo in coscienza sono a posto. Lo siamo tutti. Eravamo consapevoli di andare incontro alle contestazioni che infatti ci sono state la sera stessa fuori dal tribunale, o a diverse interpretazioni come quella della Cassazione. Ma noi abbiamo agito secondo la nostra coscienza».

Secondo lei Amanda e Raffaele sono innocenti? «Non è questo il punto. Noi abbiamo cercato “la verità processuale”, che non è detto coincida con la verità oggettiva, ma che di sicuro ha bisogno di prove certe. In questo caso non c’erano prove. C’erano solo indizi e anche labili».

Quali erano questi indizi traballanti che in primo grado erano stati considerati prove schiaccianti? «Tutto si fondava sul coltello trovato a casa di Sollecito e il reggiseno della vittima recuperato, in un secondo tempo, sulla scena del delitto. Tutti gli altri elementi a carico erano sciocchezze».

Il Dna degli imputati sull’arma del delitto e sulla biancheria di Meredith non era una prova? «No. Spiego il perché. Il giudice di primo grado non aveva ritenuto di dover chiedere una perizia tecnica. Si era basato su quella della Polizia Scientifica. Ai pm era bastata per chiudere il quadro d’accusa, ma quando la difesa degli imputati - in secondo grado - ha puntato proprio sulle contestazioni delle incongruenze riscontrate in quella perizia, abbiamo deciso di chiedere anche noi una consulenza super partes. I professori, a nostro avviso i migliori a disposizione, hanno però completamente smontato le prove biologiche».

Non c’era il Dna degli imputati? «Sì, ma sulla lama del coltello le tracce erano talmente labili che la mappa genetica dei Dna a cui potevano essere ascritte era troppo ampia. Quelle tracce leggere - oltre alla Knox e a Sollecito - potevano essere ricondotte perfino a me, cioè in grado di compatibilità con il Dna del presidente della Corte».

E il gancetto del reggiseno di Mez? «È vero che c’era un Dna ascrivibile a Sollecito, ma compariva anche quello di altri tre uomini. Dimostrando che la prova era stata compromessa dall’inquinamento della scena del delitto. Quel reperto, fotografato il primo giorno di indagini, era stato lasciato lì, nella camera da letto. Solo un mese e mezzo dopo è stato deciso di recuperarlo e analizzarlo. Ma si era subito notato che, rispetto alle foto della scena del delitto, il reggiseno era stato spostato di oltre un metro ed era finito sotto un tappeto».

Però, anche se gli altri tre Dna maschili potevano essere quelli dei poliziotti entrati successivamente nel corso di quel mese e senza le tute bianche, le tracce di Sollecito erano comunque sul reggiseno. «Ma Sollecito frequentava quella casa. Era il fidanzato della Knox, coinquilina della Kercher. E proprio il giorno del delitto era stato a pranzo nella villetta di via della Pergola».

Ma non avrebbe avuto ragione di toccare la biancheria intima della coinquilina della fidanzata. «Non è detto che lo abbia fatto. Le tracce di Dna vengono lasciate anche da frammenti di cellule della pelle. Sostanze organiche infinitamente piccole, che possono essere state trasportate su quel gancetto in un secondo tempo. Dalla scarpa di un poliziotto entrato nella casa in quel mese e mezzo o anche da un colpo d’aria».

E il famoso memoriale di Amanda dal quale pare che la Cassazione chiederà di ripartire? La confessione scritta con la quale accusava nei dettagli Patrick Lumumba? «Non era tra le carte del processo e non ne conosco i contenuti».

Infatti il memoriale non era stato allegato al fascicolo del dibattimento, il giudice di primo grado lo aveva ritenuto inammissibile. Altro punto oscuro. «Non sapevo neanche che esistesse. Ma se questo memoriale fosse stato tanto importante, i pm avrebbero chiesto di acquisirlo nel dibattimento d’appello».

Secondo il pg, e forse anche secondo la Cassazione che ha accolto la richiesta di rifare il processo, le accuse a Lumumba sarebbero prova della colpevolezza di Amanda. Se innocente, non si accusa un altro.  «Condannando la Knox per calunnia, abbiamo spiegato che la ragazza era stata sottoposta a un interrogatorio molto duro da parte della polizia. Senza difensore. Senza dormire e con un interprete che la invitava a porre fine a quel lungo confronto. In quel contesto, ha fatto il nome di Patrick. Non è uscito dal nulla, ma dopo che le era stato contestato uno scambio di sms con lui. Lumumba era il suo datore di lavoro, per questo si erano scritti. Accusarlo le potrebbe essere sembrata una via di uscita per scappare da quel confronto serrato. Ricordiamoci che Amanda era una ragazza molto giovane, arrivata da poco in Italia e che non parlava bene la nostra lingua. Per me era logico che in quel contesto potesse straparlare. Aspettiamo le motivazioni della Cassazione per capire cosa non abbia convinto quei giudici».

Ma Amanda e Raffaele quante volte bisognerà processarli? Si chiede a Giorgio Dell'Arti. Il processo d’appello ad Amanda Knox e a Raffaele Sollecito dovrà essere fatto daccapo, la Cassazione ha dato ragione al procuratore generale Luigi Riello, autore di una requisitoria durissima contro i suoi colleghi che avevano assolto i due ragazzi. «Il giudice di merito ha perso la bussola, ha smarrito l’orientamento. I colleghi di secondo grado hanno frantumato gli elementi indiziari, hanno rivelato una buona dose di snobismo. Hanno travisato la prova. Hanno sposato una non logica valutazione dei plurimi indizi. La sentenza è un raro concentrato di violazioni di leggi e illogicità e credo che debba essere annullata». E infatti è stata annullata.

Senta, ma quanti processi si fanno intorno allo stesso fatto? «È uno dei mali gravi della giustizia italiana e riguarda tutti i procedimenti, specialmente quelli che suscitano l’interesse dell’opinione pubblica. Non per cambiare argomento, ma Dell’Utri, per esempio, è in ballo di 22 anni e di processi ne ha subìti 18. Sarà pure colpevole (e per giunta accusato di mafia), ma la giustizia non può funzionare così. Le faccio lo schemino per farle capire a che punto siamo nella procedura di Perugia. Nel primo processo Amanda e Raffaele erano stati condannati a 26 e 25 anni. La difesa dei due imputati ricorse in Appello. Ci fu una superperizia e basandosi su questa, i giudici di questo secondo grado di giudizio invece li assolsero. Amanda tornò felice in America e adesso sta per pubblicare un libro grazie al quale ha già incassato quattro milioni di dollari dalla HarperCollins. Raffaele ha ripreso a Verona gli studi sulla realtà virtuale e ha scritto un libro anche lui, però destinato ai soli americani (in questo libro racconta che i giudici gli chiesero di testimoniare il falso e incastrare Amanda). Naturalmente, dopo l’assoluzione in Appello, l’accusa ricorse e il terzo grado di giudizio è la Cassazione. La Cassazione ha sentenziato, dopo quell’impressionante requisitoria del procuratore generale che abbiamo riassunto all’inizio, che la sentenza di assoluzione del secondo grado non sta in piedi e che l’Appello va rifatto. Il delitto risale alla sera del 1° novembre 2007. Cioè siamo in ballo già da cinque anni e mezzo, e non si vede la fine. Dopo questo secondo Appello, la parte soccombente ricorrerà di nuovo in Cassazione. E così via.»

Sa che il delitto non me lo ricordo bene? C’era di mezzo una qualche pratica sessuale…«Un’orgetta in questa casa di Perugia finita col taglio della gola di Meredith, studentessa inglese nell’università per stranieri, 22 anni. Nella casa, Meredith abitava con Amanda Knox, americana, iscritta anche lei all’università e appena ventenne. Una bellissima ragazza, questa Knox, fidanzata in quel momento con un giovane barese, Raffaele Sollecito. Non è provato che Raffaele fosse in casa quella sera. È certo invece, in base alle tracce organiche, che all’orgetta parteciparono – con Meredith – Amanda e un cittadino della Costa d’Avorio, Rudy Guede. Costui ebbe con Meredith, forse semiconsenziente, un rapporto sessuale. Guede, riacchiappato in Germania dove era fuggito, è stato condannato a 16 anni per «concorso in omicidio». Come dissero subito i genitori della povera Meredith – persone che in tutta la vicenda hanno conservato un senso della misura esemplare – se si trattava di “concorso”, vuol dire che qualcun altro aveva partecipato al delitto. Quindi l’assoluzione di Raffaele e di Amanda, concessa dai giudici dell’Appello, sembrò subito insensata. Badi che non era solida nemmeno la sentenza di primo grado, quella che aveva condannato i due: la ricostruzione dell’accusa – posizione dei protagonisti al momento fatale, movente, ecc. – era assai poco credibile. Nessuna prova vera, poi, sull’arma del delitto.»

Perché, se la sentenza di prima grado era discutibile, la sentenza d’assoluzione di secondo grado è parsa tanto scandalosa? «L’assoluzione si basò su una superperizia condotta con metodo piuttosto discutibile. Per esempio, i reperti furono raccolti, invece che con pinzetta sterile e monouso, con guanti di lattice, che si sporcano subito e inquinano irrimediabilmente il contesto. Scrivemmo questo anche allora, basandoci sulle dichiarazioni di Edoardo Mori, un luminare di queste materie.»

Sarà possibile ottenere dagli Stati Uniti l’estradizione di Amanda? «Non credo. La stampa americana – tranne Barbie Latza Nadeau, corrispondente di News- week – prese subito le difese della ragazza, montando una campagna sensazionale e, a occhi neutri, molto poco credibile. Gli americani non vogliono mai che i loro cittadini siano processati da qualcun altro. Valga l’esempio terribile del Cermis.»

La giustizia italiana ne esce male, eh? «Meglio tacere. Il processo Stasi, quello dei due ragazzini finiti nel pozzo in Puglia, il caso Scazzi, il caso Claps, la persecuzione di Enzo Tortora, il caso di via Poma. Mi basta questo elenco, stilato a memoria, per risponderle.

Amanda Knox, la giustizia italiana e le accuse dei media Usa. 27/03/2013 - L'Atlantic definisce il nostro sistema giudiziario "carnevalesco", dopo la decisione della Cassazione. Non è il solo, scrive Alberto Sofia. Un sistema giudiziario italiano definito “carnevalesco”, dopo la sentenza della Cassazione sul caso del delitto Meredith e le assoluzioni annullate per Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Negli Stati Uniti parte dei media non ha ben accolto il verdetto: lo dimostra soprattutto un articolo dell’Atlantic, dove viene contestata la decisione della Corte suprema, con il processo da rifare. Quello con protagonista la studentessa americana accusata di aver ucciso la sua compagna di stanza, la britannica 21enne Meredith Kercher, nel 2007 a Perugia. Ma l’Atlantic non è il solo a criticare: pesanti anche i media di Seattle, dove adesso la ragazza vive, con le accuse del Seattle Post-Intelligencer che parla di “ennesima svolta sorprendente”. Più misurato il Nyt: si ricorda comunque come i media locali abbiano spesso dipinto Knox come vittima delle disfunzioni nel nostro sistema giudiziario, mentre si parla di nuova “svolta drammatica” nel caso. Non sono quindi mancate le accuse dei media statunitensi, che hanno sempre seguito con attenzione il caso del delitto Meredith. Il giudizio più pesante arriva proprio dall’Atlantic, che definisce “carnevalesco” il nostro sistema e parla di “un’intera indagine viziata da errori impressionanti”. In un articolo di Olga Khazan, si ripercorrono le tappe della vicenda, riprendendo spunto anche da articoli italiani. Non è un caso che venga citato il Giornale, non proprio benevolo solitamente nei confronti della magistratura e delle decisioni della giustizia. Si ricorda come, nel 2011, quattro anni dopo l’iniziale arresto per l’accusa di omicidio della studentessa, il quotidiano italiano avesse commentato il verdetto spiegando: “Amanda e Raffaele assolti: sono i magistrati che dovrebbero essere condannati”. Dopo la decisione della Cassazione – che ha accolto il ricorso del Pg che chiedeva l’annullamento della sentenza di secondo grado con cui erano stati assolti i due fidanzati, ndr – il nuovo processo si terrà a Firenze, dato che a Perugia esiste soltanto una sezione del collegio di secondo grado. Il riesame del caso avverrà entro la fine dell’anno. Per l’Atlantic non è la prima volta: “A quanto pare, questa improvvisa rivisitazione del verdetto di appello non è qualcosa di insolito nei grandi casi giudiziari d’Italia”. Si riportano anche le parole del giornalista Tobias Jones, che sul Guardian, subito dopo il verdetto di assoluzione del 2011, spiegò come nel nostro paese “quello che succede di solito è lasciare la porta aperta fino al successivo grado di giudizio. Così tra appello e Cassazione, tutto può essere stravolto”. Un eccesso di “garantismo” o un sistema contorto, secondo i media americani. La Cassazione ha accolto il ricorso della famiglia Kercher, che aveva dichiarato come la sentenza di assoluzione fosse “contraddittoria e illogica” (in primo grado erano arrivate pesanti condanne, 26 anni per Knox, 25 per Sollecito, ndr). Ma l’Atlantic critica questa ricostruzione, affermando come ai pubblici ministeri mancasse un motivo o una prova evidente che collegasse Amanda Knox alla scena del delitto. E si spiega come Knox fosse stata “lasciata per quattro anni dietro le sbarre”: va ricordato però come Knox sia stata condannata anche a tre anni di reclusione per calunnia nei confronti di Patrick Lumumba, accusato del delitto. Una condanna diventata definitiva – la Knox ha già scontato la pena – dopo il rigetto del ricorso. Vengono forniti altri dettagli: “Quando Sollecito chiama i carabinieri, arrivarono due ufficiali, ma erano soltanto due membri della polizia postale, che di solito si occupa soltanto di frodi in Rete”, si legge. E vengono accusati di non aver protetto la scena del delitto, evitando che le prove venissero inquinate. Ma l’accusa più pesante arriva proprio quando il nostro sistema viene definito “carnevalesco”: “I processi in Italia non finiscono mai, avvocati e imputati possono costantemente interrompere il procedimento con gemiti e fischi e gesticolazioni selvatiche”. Vengono poi citati diversi sondaggi realizzati in Italia, dove si spiega come la maggioranza degli italiani ritenga Knox e Sollecito colpevoli. Così nel 2011, quando fu annunciato il verdetto, non pochi fuori dall’aula “gridarono in coro appellativi come “bastardi” e parlarono di “vergogna”. Si rincara la dose: “Gli incarichi giudiziari in Italia sono decisi con logiche nepotistiche, mentre le giurie non sono preparate: tutto il sistema ha bisogno di una riforma rapida e totale”, si conclude. Non meno critici altri quotidiani, compresi quelli di Seattle, dove la ragazza vive: il Seattle Post-Intelligencer commenta il verdetto parlando di “svolta sorprendente”: “L’annullamento della sentenza prolunga una questione ormai diventata celebre anche negli Usa”, si legge. Altri parlano di verdetto ribaltato, come il Seattle Times, mentre il New York Times ricorda come la ragazza nei media locali sia stata spesso definita come una vittima del nostro sistema giudiziario. Si spiega infine come non sia ancora chiaro se Knox tornerà volontariamente dagli Stati Uniti, oppure se ci sarà una richiesta di estradizione: “Se non comparirà in aula, il caso potrebbe andare comunque avanti in sua assenza”, si conclude.

AMANDA MARIE KNOX: giocatrice di calcio, appassionata di yoga ma anche amante della lettura e delle scrittura, Amanda nasce a Seattle il 9 luglio del 1987. Adora la musica dei Beatles e suona la chitarra. Cresce a West Seattle e qualche anno dopo la sua nascita si trova a vivere in una famiglia allargata. La madre, Edda Mellas, insegnante di matematica alle scuole primarie e il padre, Curt Knox, si separano. Frequenta un liceo privato e poi si iscrive alla locale università, al corso di lingue e scrittura creativa. Agli inizi di ottobre 2007 arriva a Perugia per seguire un corso di italiano e prende in affitto una stanza del casolare di via della Pergola, dove conosce Meredith. Poco dopo conosce Raffaele Sollecito, con il quale inizia una relazione.

RAFFAELE SOLLECITO: nasce il 26 marzo del 1984 a Bari e trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza a Giovinazzo. I genitori si separano quando lui ha appena otto anni. La madre muore nel 2005, a seguito di un arresto cardiaco. Raffaele rimane con il padre, il medico urologo Francesco Sollecito e la sorella più  grande Vanessa. Tra le sue passioni quella per la kick boxing, il computer, i videogiochi e i fumetti manga. Raffaele frequenta e si diploma al liceo scientifico di Molfetta e, nel 2003, si iscrive ad Informatica, all'Università degli studi di Perugia. Si laurea in carcere, dopo il suo arresto. Attualmente frequenta il corso di specialistica in realtà virtuale all'Università di Verona.

Lunedì 25 marzo 2013, quando i giudici della Cassazione si sono riuniti, Raffaele Sollecito era nervoso, ma non lo dava a vedere, scrive Andrea Priante su “Il Corriere della Sera”. «Tengo tutto dentro, sono fatto così», spiegava a chi, riconoscendolo, lo avvicinava per scambiare qualche parola d’incoraggiamento. Perché, tra i suoi compagni di università, nessuno ha mai avuto paura di lui né ha ceduto alla tentazione di considerarlo un mostro: nessun dubbio sulla sua innocenza. E forse è proprio per questo che il 29enne ha scelto di non aspettare la sentenza nella sua Giovinazzo, in Puglia, ma di rimanere con gli amici di Verona, la città nella quale si è trasferito lo scorso anno per concludere gli studi. In mattinata aveva svolto alcune commissioni e poi era andato nella sede del Dipartimento di Scienze per incontrare i professori. È lì che, per qualche minuto, aveva parlato con i compagni. Poi, poco dopo mezzogiorno, era entrato in un bar di Borgo Roma e ne era uscito solo per salire in auto e dirigersi fuori città, ad attendere la decisione circondato dalle persone più fidate. Troppa tensione per restare da solo e troppi giornalisti in giro restare a casa. «Tutti mi cercano per parlare con me...». È inevitabile, ormai l’ha imparato, da quando il volto di questo ragazzo e quello della sua ex fidanzata Amanda Knox sono stati associati all’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, avvenuto a Perugia la sera dell’1 novembre 2007. Arrestati pochi giorni dopo, vennero condannati in primo grado ma assolti «per non aver commesso il fatto» dalla Corte d’Appello. Lunedì, Sollecito era convinto di potersi finalmente lasciare alle spalle quell’orrendo delitto. Invece i giudici avevano spiazzato tutti, rinviando la sentenza al giorno successivo. E così per lui è iniziata un’altra giornata da incubo: nel giorno del suo compleanno i giudici hanno annullato l’assoluzione, rinviando a un nuovo processo d’Appello. «Non me l’aspettavo, anche se inevitabilmente avevo pensato a questa eventualità. Dicono che ci sono alcuni aspetti della precedente sentenza che vanno approfonditi, ma fino a quando non leggerò le motivazioni non so proprio quali possano essere. Dopo tutti questi anni pensavo fosse finita, non è così: continuerò la mia battaglia per avere giustizia e la porterò fino in fondo», ha spiegato prima di contattare Amanda Knox negli Stati Uniti, per commentare la sentenza. Poi è ricominciata la fuga dai giornalisti, mentre i siti internet di mezzo mondo diffondevano la notizia. Tutti a commentare la decisione dei giudici: parenti, professori e avvocati. Perfino una fantomatica nuova compagna veronese che raccontava in tivù di un Raffaele disperato: «Non sta parlando con nessuno. Ricominciare è dura». E lui che al telefono col suo avvocato Giulia Bongiorno è costretto a smentire: «Non ho alcuna fidanzata e vivo da solo». In serata è tornato a casa. Presto raggiungerà i genitori, in Puglia, per trascorrere la Pasqua. Ma prima di partire deve sistemare le ultime cose, incontrare i professori. Perchè a Verona ci tornerà solo per affrontare i quattro esami che gli mancano per conseguire la laurea specialistica in ingegneria informatica. La decisione l’aveva presa già da tempo, quando ancora pensava che la Cassazione avrebbe definitivamente sancito la sua innocenza: dire addio al Veneto e trasferirsi in Svizzera, a Lugano. Lontano dall’Italia, dove tutti hanno imparato a conoscere il suo volto e a etichettarlo come «quello dell’omicidio di Metz». Se non ci saranno impedimenti legali, è possibile che l’annullamento della sentenza d’appello non lo costringa a cambiare i piani, ma per ora ha rassicurato i compagni di studi: «Tornerò a Verona per gli esami e per rivedervi». Ieri è apparso scoraggiato. Credeva di potersi costruire un futuro, invece i fantasmi di Perugia sono tornati. L’aveva scritto anche sulla sua pagina Facebook, poche settimane fa: «Non voglio dimenticare, ma prima devo riavere quello che mi hanno tolto».

L'omicidio di Meredith Kercher l'ha convinto a lanciarsi nella sua nuova avventura. Che però è finita ancor prima di iniziare, visto che la Corte di Cassazione ha sentenziato che il processo d'Appello è da rifare. E per Raffaele Sollecito significa tornare in aula con Amanda Knox per difendersi dall'accusa di aver ucciso la studentessa inglese. Quasi una beffa del destino, visto che il 29enne, che in primo grado era stato condannato a 25 anni di reclusione, ha scelto proprio di aprire una società che si occupi di casi giudiziari irrisolti. A scoprire il business di Sollecito è stato il Corriere della Sera, secondo cui il giovane ha iscritto il 21 novembre 2012 l'azienda all'Ufficio del registro del commercio del Canton Ticino. La sede della Exprerience teller media & web - che si propone di raccogliere informazioni, testimoni rilanciando mediaticamente i cold case - è infatti a Lugano e il 29enne figura come l'amministratore delegato. L'azienda sarebbe anche il motivo per cui Sollecito, proprio nel giorno in cui la Cassazione riapriva il caso Kercher, era pronto per partire verso la Svizzera. E questo l'ha costretto a rinviare il progetto di aprire altri cold case. A confermare i progetti del giovane laureando all'Università di Verona in Ingegneria e scienze informatiche, è il docente che l'ha seguito negli studi. «Per partire concretamente, stava solo aspettando la conferma dell'assoluzione», ha detto Roberto Segala al Corsera che conferma come l'idea «sia molto legata alla sua esperienza personale». L'azienda di Lugano ha un capitale azionario di 100 mila franchi svizzeri (circa 82 mila euro) e per offrire «l'estensiva raccolta di informazioni su casi giudicati irrisolti» e «suscitare nuovi interesse su larga scala», si ispira alla raccolta dei fondi con «contatti con case editrici, di produzione cinematografiche». In fondo un po' di esperienza l'ha maturata nel settore: a dicembre 2012 ha pubblicato il suo libro Honor bound scritto con il giornalista americano Andrew Gunter. Avrebbe voluto riaprire i cold case. Ma il caso irrisolto più importante, per Sollecito, rimane quello di Kercher, uccisa il 1 novembre 2007 e ancora senza il nome dell'assassino. Visto che Rudy Guede è stato condannato per concorso in omicidio. Con chi? Solo i giudici possono dirlo. O forse un giorno l'azienda del 29enne.

Amanda Knox chiede "un'inchiesta oggettiva", definendo "dolorosa" la notizia dell'annullamento dell'assoluzione in secondo grado per l'omicidio di Meredith Kercher, avvenuto nel 2007 a Perugia, deciso dalla Corte di Cassazione, scrive Tmnews. "E' stato doloroso apprendere che la Corte Suprema italiana ha deciso di rinviare il mio processo per una revisione, nonostante la teoria dell'accusa di un mio coinvolgimento nella morte di Meredith si sia rivelata a più riprese interamente infondata e ingiusta" ha dichiarato Knox in un comunicato diffuso dal suo portavoce a Seattle, negli Stati Uniti, dove abita. "Credo che tutte le questioni relative alla mia innocenza debbano essere esaminate con un'inchiesta oggettiva e dei procuratori competenti" ha aggiunto. Amanda, 25 anni, era stata assolta nell'ottobre 2011, dopo una prima condanna a 26 anni di carcere. Il suo ex fidanzato, Raffaele Sollecito, condannato a 25 anni, dovrà a sua volta affrontare un nuovo processo. L'avvocato della ragazza Carlo Dalla Vedova, parlando alla Cnn dopo la sentenza ha definita la Knox "sconvolta" dalla decisione della Cassazione, aggiungendo che "è pronta ad andare avanti e noi siamo pronti a combattere". Il libro di memorie di Amanda Knox "Waiting to be heard" verrà pubblicato nei tempi prestabiliti nonostante l'annullamento dell'assoluzione per l'omicidio della studentessa Meredith Kercher. Come scrive il Mirror online, tra l'altro, verrà modificato il capitolo sulla giustizia italiana (e tolte le critiche ai pm, ai giudici e alla polizia). "Verranno abbassati i toni, per evitare ritorsioni", raccontano gli avvocati della ragazza americana. HarperCollins, la casa editrice della 25enne di Seattle, ha confermato quindi i piani per il lancio del libro e per le interviste promozionali: Waiting to be heard sarà nelle librerie a partire dal prossimo 30 aprile. La Knox, che dovrà affrontare nuovamente il processo di secondo grado dopo l'annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza di assoluzione per lei e Raffaele Sollecito, ha firmato un contratto editoriale da quattro milioni di dollari nel 2012 per la pubblicazione delle sue memorie. Nel testo la ragazza racconta la sua esperienza in carcere, il rapporto con la polizia italiana, oltre a nuovi dettagli sul caso che l'ha vista coinvolta. La sera del 30 aprile verrà trasmessa anche la prima intervista televisiva di Amanda sulla rete Abc, con la giornalista Diane Sawyer.

Amanda Knox protagonista di un libro shock, scrive Annalisa su “Quotidianamente”. Come si costruisce una strega nel Duemila e come la si getta in pasto alla gente. La strega è Amanda Knox, accusata con il fidanzato Raffaele Sollecito di aver assassinato, il 1° novembre 2007, Meredith Kercher durante un’orgia a base di sesso, sangue e stupefacenti. Quattro anni di carcere, sofferenze e una condanna a 26 anni prima dell’assoluzione con formula piena in Appello. La sua bellezza? Uno svantaggio «Amanda era la strega perfetta: americana, giovane, bella, disinibita, dissoluta, peccatrice, infida, dedita ad ogni vizio e ad ogni eccesso, dal sesso agli stupefacenti e soprattutto capace di dominare il maschio, di farne uno strumento nelle sue mani. Ricordate come Giulia Bongiorno, nella sua arringa, definì il “maschio” Raffaele Sollecito? Un allegato di Amanda», dice Mario Spezi, giornalista e scrittore fiorentino che ha pagato a caro prezzo il suo giornalismo investigativo sui delitti del Mostro di Firenze: 23 giorni di carcere con l’accusa di essere stato uno dei mandanti degli omicidi delle coppiette. Poi, un anno fa, il proscioglimento da ogni accusa. Adesso Amanda e Raffaele contano le ore che li separano dall’ultimo appuntamento con la giustizia: il 25 marzo si pronuncerà la Corte di Cassazione. Sapranno se saranno finalmente due ragazzi innocenti oppure se ricomincerà il calvario perché il processo d’Appello dovrà essere rifatto. Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone» Per il 30 aprile 2013 ha già fissato due appuntamenti: la sua prima intervista in esclusiva per l’emittente televisiva Abc e il lancio del suo libro Waiting to be heard («Aspettando di essere ascoltata»). Ma intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce».

L’ex fidanzato di Amanda Knox, Raffaele Sollecito, racconta in un libro la sua storia con la studentessa americana accusata, insieme a lui, di aver ucciso la studentessa britannica Meredith Kercher. Raffaele Sollecito, che insieme ad Amanda Knox è stato accusato e condannato in primo grado per l'omicidio di Meredith Kercher prima di essere assolto in secondo grado, ha scritto un libro, Honor bound. Sulla notte dell'omicidio Sollecito ammette di ricordarsi poco poiché lui e Amanda avevano fumato marijuana. Vi si raccontano le incomprensioni tra i due, l'effetto che gli fecero i ritratti confezionati dai tabloid. E poi Amanda che diventa 'Knoxy Foxy' dopo aver acquistato biancheria intima dopo l'uccisione dell'amica. Ricorda Sollecito di quando l'accarezzò e si baciarono, ignari che le telecamere dei notiziari televisivi li stessero riprendendo dall'altra parte della strada. Anche Amanda Knox sta scrivendo un libro, che uscirà successivamente. Ha firmato un accordo con Harper Collins per 4 milioni di dollari. Sollecito critica spesso la polizia per la gestione del caso, e secondo lui la vicenda si spiega con un furto andato male commesso da Rudy Guede, il terzo imputato condannato dopo aver patteggiato. Sollecito ricostruisce anche com'è nato il rapporto con Amanda, conosciuta dopo aver finito i suoi studi universitari in informatica ad un concerto di musica classica il 25 ottobre 2007, una settimana prima della morte della Kercher. Raffaele le ha chiese il numero di telefono e lei gli disse di tornare al bar dove lavorava più tardi, quella stessa notte. Alla fine del turno, scrive, fecero una passeggiata, si tennero per mano e ad un certo punto la baciò. Accettò l'invito a recarsi a casa sua e trascorse lì la notte. La coppia divenne inseparabile. Sollecito descrive anche la sua prima notte in carcere, dicendo che oscillava tra "grandi ondate di indignazione e un fastidioso senso di colpa". Era arrabbiato con se stesso per avere un ricordo fumoso della notte dell'uccisione, colpa della marijuana. Dopo l'assoluzione in secondo grado Sollecito ricorda di aver sentito "una gioia indescrivibile". Amanda quel giorno gli strinse la mano e gli disse che non vedeva l'ora di vedere la sua casa e gli amici. Ma la Knox, com'è noto, è subito tornata a Seattle. La coppia è stata imprigionata per la morte nel novembre 2007 ed in primo grado i due sono stati condannati rispettivamente a 26 anni e 25 anni. La corte d'appello li ha assolti il 3 ottobre 2011, data in cui sono tornati liberi. Nel libro, continua a sostenere la sua innocenza e quella della ex e cerca di ricostruire i malintesi che hanno provocato il coinvolgimento della coppia nel caso. Ma, per la prima volta, ammette di essersi comportato stranamente durante le indagini. Raffaele e Amanda, infatti, erano stati visti per le strade di Perugia mentre si scambiavano effusioni, con l’indagine della Polizia ancora in corso. La loro indifferenza aveva portato gli inquirenti sulle loro tracce. Maurizio Molinari sul “La Stampa” rendiconta da New York su un vicenda che mai in Italia si sarebbe potuta analizzare. Durante il processo di Perugia sull’assassinio di Meredith Kercher vi fu una trattativa segreta che vide il pubblico ministero Giuliano Mignini far conoscere, attraverso intermediari, alla famiglia di Raffaele Sollecito l’offerta di una pena più mite se il coimputato avesse avvalorato le accuse di omicidio nei confronti di Amanda Knox. A rivelarlo è lo stesso Sollecito nel libro «Honor Bound» che esce negli Stati Uniti per i tipi di Gallery Book, scritto assieme al giornalista inglese Andrew Gumbel, ex corrispondente dall’Italia per «Reuters» e «The Independent». Con le 270 di pagine «Honor Bound» Sollecito anticipa Amanda nella pubblicazione di un libro-verità sul processo e la maggiore novità si incontra quando racconta che dopo la conclusione del processo di primo grado «la mia famiglia venne a contatto con il mondo della giustizia di Perugia pieno di buchi e fughe di notizie» riuscendo a sapere «dietro le quinte» di «discussioni all’interno dell’ufficio del procuratore». Si resero conto che la determinazione di Mignini a far condannare Raffaele era solo tattica per tentare di far crollare Amanda Knox. Fu in tale contesto che «venne detto alla mia famiglia che Mignini non era interessato a me se non come canale per arrivare ad Amanda» fino al punto che «Mignini sarebbe stato disposto anche a riconoscere che ero innocente se gli avessi dato qualcosa in cambio, incriminando direttamente Amanda oppure semplicemente non sostenendola più» nella ricostruzione di quanto avvenuto. Si trattò di «discussioni» delle quali Sollecito, che si trovava in prigione, non venne messo al corrente mentre il protagonista fu lo zio, Giuseppe, che «venne contattato dall’avvocato di uno studio privato di Perugia a cui chiese cosa avrei potuto fare per mitigare la sentenza. L’avvocato gli disse che avrei dovuto accettare un accordo, confessando di aver avuto un ruolo minore, come ad esempio aver aiutato a ripulire la scena del delitto pur non avendovi avuto alcun ruolo» si legge a pagina 220. «Raffaele potrebbe ricevere una condanna da 6 a 12 anni - disse l'avvocato allo zio - ma poiché non ha precedenti penali avrebbe la condizionale e dunque uscirebbe senza fare altra prigione». La sorella di Raffaele, Vanessa, affermò che «non era moralmente possibile» accettare di confessare reati mai commessi ma la trattativa dietro le quinte andò avanti ed ebbe una seconda fase grazie a «un altro avvocato, che aveva rapporti stretti con Mignini che lo aveva perfino invitato al battesimo del figlio più piccolo in estate». Fu questo secondo legale che disse con franchezza alla famiglia Sollecito: «Credo che Raffaele sia innocente e Amanda colpevole». Il risultato fu di dare alla famiglia Sollecito l’impressione che il procuratore la pensava nella stessa maniera anche perché il legale si offrì di «intercedere con Mignini» pur «senza fare alcuna promessa». L’accelerazione della trattativa avvenne nell’estate del 2010 quando il padre di Raffaele sfruttò il canale informale fino al punto da ritenere possibile un incontro di Mignini e la vice Manuela Comodi con Giulia Bongiorno, difensore di Raffaele, per verificare la possibilità di un accordo. Ma quando la Bongiorno comprese di cosa si trattava «fu inorridita e minacciò di lasciare l’incarico perché una trattativa segreta costituiva la violazione della procedura legale». Fu allora che il padre di Sollecito fece marcia indietro e «si mostrò mortificato» pregando la Bongiorno di non lasciare la difesa e spiegando che non si era reso conto di cosa stava facendo. Raffaele Sollecito seppe tutto a posteriori ma la vicenda lo ha segnato molto perché, come confessa nel libro, «mi chiedo come sia possibile per un pm credere nell’innocenza dell'imputato e al tempo stesso tentare di convincere la giuria a condannarlo alla pena dell’ergastolo». La trattativa dietro le quinte viene indicata da Sollecito per dimostrare quali e quante furono le pressioni da lui ricevute per spingerlo a far crollare l’alibi di Amanda, come ad esempio avvenne durante i primi interrogatori subiti quando «mi chiesero in continuazione di ricordare i tempi della notte del delitto fino a farmi cadere in contraddizione con Amanda» o allorché l’arresto venne minacciato, schiaffeggiato e denudato. Oppure il tentativo della polizia di provare che la madre nel 2005 era morta «non di cuore ma per suicidio» per dimostrare «insanità mentale nella storia di famiglia» con l’intento di fiaccare la sua credibilità e dunque l’alibi di Amanda. Nelle ultime pagine Raffaele si sofferma sulla vacanza in America dopo l’assoluzione con l'incontro con Amanda a Seattle. «Mi sembrò di essere nella tana del Leone» scrive, facendo capire di aver preso atto che la storia d’amore era finita. Come dire, entrambi guardiamo avanti senza però dimenticare Perugia.

Intanto da Giuseppe Caporale su “La Repubblica” una denuncia: Che spreco quel video su Meredith e la Corte dei conti chiede i danni ai pm.

A Perugia, 182mila euro per la ricostruzione del delitto da mostrare in udienza. I magistrati contabili aprono un fascicolo per verificare se la spesa per il filmato sia stata congrua. I magistrati che al processo per l'omicidio Meredith Kercher avevano chiesto l'ergastolo per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, sono ora sotto inchiesta contabile. E rischiano una condanna per danno erariale. Così, mentre i due giovani imputati - assolti in appello con formula piena "per non aver commesso il fatto" - attendono il definitivo pronunciamento della Cassazione, i loro accusatori, il sostituto procuratore di Perugia Giuliano Mignini e il pubblico ministero, Manuela Comodi, si trovano al centro di un'indagine della Corte dei conti dell'Umbria. Sotto la lente d'ingrandimento della procura contabile c'è una fattura da 182mila euro. Si tratta di una consulenza richiesta, nel corso del processo di primo grado, dai due magistrati perugini a una società specializzata nella video-grafica (la Nventa Id srl). Il risultato è stato un'animazione in 4D della dinamica del delitto, costruita in base alle tesi dell'accusa. Il filmato fu proiettato in aula durante la requisitoria della procura, ma non fu mai reso disponibile come copia agli avvocati della difesa. La scelta fu motivata dagli inquirenti che precisarono di voler "evitare le speculazioni dei media e l'utilizzo televisivo del filmato". Il video - rimasto dal primo grado in poi nei cassetti della procura di Perugia - dura circa venti minuti e ricostruisce il delitto partendo dal pomeriggio del primo novembre 2007. Il filmato inizia con alcune immagini tratte da Google Maps per poi, con il passare dei secondi, arrivare a inquadrare la casa del delitto. Mez, Amanda, Raffaele e Rudy Guede (l'ivoriano processato con rito abbreviato e, dopo l'assoluzione di Knox e Sollecito, unico condannato per l'omicidio) nel video sono mostrati in forma stilizzata, quasi da cartone animato. Meredith indossa una felpa Adidas (che sarà poi ritrovata in terra insanguinata) e un paio di jeans. Amanda compare invece con jeans e maglia a collo alto, Raffaele con una giacca sportiva. La scena dell'aggressione è stata riprodotta al rallentatore e per realizzarla sono state utilizzate anche diverse foto scattate sul luogo del delitto. Nel video si vede Mez sbattuta contro il muro e che cerca di reagire, compressa tra Amanda con il coltello in mano e Raffaele che tenta di strapparle il reggiseno. Nel filmino dell'orrore Mez, una volta aggredita, crolla sul fianco destro, subito dopo Amanda e Raffaele prendono i telefonini e fuggono, mentre resta in casa solo Rudy che, dopo la scena dell'aggressione, si porta le mani alla testa. Ed è sempre Rudy - secondo la ricostruzione - che prova ad aiutare Mez a rialzarsi e poi se ne va. Il filmato termina la mattina del 2 novembre con l'arrivo di Sollecito e Knox nella casa di via della Pergola, con le telefonate - fasulle, secondo l'accusa - di Sollecito al 112: l'audio integrale chiude il video del delitto. Ora il procuratore della Corte dei conti, Agostino Chiappiniello, con questa istruttoria sui costi del processo Meredith vuole capire se la fattura da 182mila euro per il video in 4D sia stata una spesa "congrua" e necessaria per le casse pubbliche, o se si sia trattato di spreco di denaro pubblico. Certo è che se la Cassazione dovesse confermare la sentenza d'appello il costo del video (182 mila euro) resterà a carico dello Stato, quindi dei cittadini.

Lunedì 3 ottobre 2011 Amanda e Raffaele: innocenti!!!

Da “Il Giornale”. Non ci sono vincitori, ma un solo sconfitto: la giustizia italiana. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti dalla Corte d’assise d’appello di Perugia dall’accusa di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher nel 2007 a Perugia. La gioia e le lacrime degli imputati, arrivati in aula visibilmente tesi. In primo grado i due erano stati condannati a 26 e 25 anni di reclusione. Ora sono stati scarcerati, dopo quattro anni di detenzione.

Amanda Knox ha lasciato il carcere perugino di Capanne a bordo di una Mercedes di colore nero. La giovane americana ha passato la notte con la famiglia in un agriturismo e farà ritorno a casa a Seattle. Partirà stamani per gli Stati Uniti con un volo della British Airways. Raffaele Sollecito invece è tornato in Puglia, protetto da amici e parenti.

"Rispettiamo la decisione dei giudici ma non comprendiamo come sia stato possibile modificare completamente la decisione di primo grado". Così la famiglia di Meredith Kercher, in una nota diffusa subito dopo la sentenza. "Restiamo comunque fiduciosi nel sistema giudiziario italiano sperando che la verità possa finalmente essere accertata".

In carcere per il delitto, avvenuto quasi quattro anni fa, rimane quindi solo Rudy Guede, l’ivoriano che sta scontando 16 anni di reclusione. L’assoluzione degli ex "fidanzatini" era, in un certo senso, attesa, tanto che nel pomeriggio la famiglia Kercher ha tenuto una conferenza stampa in cui, pur ribadendo la propria fiducia nella magistratura italiana, ha lamentato il fatto che Meredith fosse stata "dimenticata" dai mass media.

La studentessa inglese era stata uccisa nel capoluogo umbro la notte del 1 novembre 2007. In primo grado Amanda e Raffale erano stati condannati rispettivamente a 26 e 25 anni. Nel dibattimento in appello, le prove fornite dall’accusa erano state giudicate in più occasioni imprecise e non decisive. La Knox (condannata a tre anni già scontati per il reato di calunnia) e Sollecito hanno assistito in aula alla lettura della sentenza.

La decisione dei giudici della corte d’Appello del tribunale di Perugia è arrivata dopo oltre 10 ore di camera di consiglio. Il presidente della Corte, Claudio Pratillo Hellmann aveva chiesto, prima di entrare in camera di consiglio, di evitare "fazioni" e "tifo da stadio".

Amanda, già tesissima all’inizio della lettura della sentenza, è scoppiata in lacrime. Alla lettura della sentenza l’aula è esplosa in un boato. Amanda ha pianto e ha abbracciato la sorella, presente in aula con gli altri familiari. Grande la gioia anche di Raffaele. Entrambi si svegliano da un incubo durato 1.448 giorni.

"Torniamo a casa, è finalmente finita...". Così Francesco Sollecito, il padre di Raffaele, alla domanda dell’Agi su quale sarà la prima cosa che la famiglia farà dopo questa sentenza assolutoria. "Lo ripeto, torniamo a casa. Raffaele è stato assolto per non aver commesso il fatto, non so se questo lo abbiate capito o meno. Voglio che sia chiaro, deve essere chiaro per tutti".

"Amanda ha sofferto per 3 anni per un crimine che non ha commesso. Siamo grati ai legali per la loro assistenza. Loro non hanno solo difeso Amanda, ma le hanno voluto bene. Grazie a tutte le persone che si sono prese del tempo per analizzare il caso. Li ringraziamo per avere avuto il coraggio di portare alla luce la verità. Ora chiediamo che ci venga concessa la privacy per riprenderci da questo periodo che per noi è stato un incubo", ha dichiarato la sorella di Amanda Knox, Deanna, all'uscita dal tribunale di Perugia.

"E' il verdetto che ci aspettavano, se la perizia fosse stata disposta anni fa non ci sarebbero stati anni di sofferenza e dolore". Così Giulia Bongiorno, avvocato di Raffaele Sollecito commenta la sentenza che ha assolto con formula piena il suo assistito e Amanda Knox. "Voglio porre l’accento sul risultato estremamente positivo- ha aggiunto - Un sentenza che non si è fermata all’apparenza e ha tolto ogni dubbio. C’è stato in questo caso un pieno e assoluto riconoscimento dell’estraneità di Raffaele Sollecito".

"Gli Stati Uniti apprezzano lo scrupoloso riguardo con cui il caso (di Amanda Knox) è stato trattato dal sistema giudiziario italiano". Così il portavoce del dipartimento di Stato, Victoria Nuland ha commentato la notizia dell’assoluzione in appello di Amanda dall’accusa di omicidio della britannica Meredith Kercher. Nuland ha aggiunto che l’ambasciata a Roma continuerà a fornire assistenza consolare ad Amanda e alla sua famiglia.

Il resoconto da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 4 ottobre 2011. Non sono stati Raffaele Sollecito e Amanda Knox a uccidere Meredith Kercheril 1° novembre di quattro anni fa. Lo ha stabilito la Corte di assise di appello di Perugia che ha assolto il 27enne ingegnere di Giovinazzo e la 24enne studentessa di Seattle (Stati Uniti), che invece furono condannati rispettivamente a 25 e 26 anni in primo grado dalla Corte di assise dello stesso capoluogo umbro. Sollecito e Knox sono stati assolti per non aver commesso il fatto loro addebitato (omicidio aggravato, violenza sessuale, furto e simulazione di reato) mentre la sola Amanda è stata condannata a 3 anni di reclusione, già ampiamente scontati, per aver calunniato Patrick Lumumba, il gestore di un pub che fu arrestato, e poi rilasciato, a causa delle dichiarazioni della ragazza.

La sentenza è stata letta dal presidente della Corte in un’aula nella quale il silenzio la faceva da padrone. Quando il presidente ha pronunciato la parola «assolve», Amanda è scoppiata in un pianto a dirotto mentre all'esterno del palazzo di giustizia scoppiavano liti e tafferugli tra innocentisti e colpevolisti.

Quello di Perugia è stato un processo che si è giocato soprattutto sulla prova chimica legata alle tracce di Dna rilevate sui vari oggetto repertati dagli agenti della Polizia Scientifica sul luogo del delitto e in quelli frequentati dagli imputati. La Corte d'assise d'appello, accogliendo la richiesta formulata dai difensori dei due giovani, ha disposto la perizia sollecitata già in primo grado ma rifiutata allora dai giudici. Il nuovo esame, depositato lo scorso 29 giugno, ha ritenuto «non attendibili» gli accertamenti tecnici della Scientifica, per il Dna attribuito alla Kercher sul coltello considerato l'arma del delitto e a Sollecito sul gancetto di reggiseno indossato dalla studentessa inglese quando venne uccisa, su cui ci sono tracce genetiche «di più individui di sesso maschile»; ed inoltre «non si può escludere» che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione. Dopo aver stabilito di non poter ripetere le analisi sulle tracce, Stefano Conti e Carla Vecchiotti dell'Istituto di Medicina legale dell'Università La Sapienza di Roma hanno riassunto in 145 pagine le loro valutazioni sul lavoro della Polizia Scientifica. A loro avviso nelle indagini chimiche in via della Pergola «non sono state seguite le procedure internazionali di sopralluogo ed i protocolli di raccolta e campionamento». Riguardo al coltello i periti hanno sottolineato che «il reperto 36 è stato inserito, anche per le analisi, in un contesto ove erano già stati analizzati un numero rilevanti di campioni appartenenti alla vittima e pertanto non si può escludere che possa essersi verificata una contaminazione». Dopo avere esaminato i tracciati elettroforetici, Conti e Vecchiotti hanno concordato con la Scientifica nell'attribuire alla Knox la traccia di Dna sull'impugnatura del coltello (sequestrato in casa di Sollecito, allora suo fidanzato con il quale talvolta viveva) ma non alla Kercher quella sulla lama ritenuta indicativa di un campione «Low copy number» (rilevabile da pochissima quantità di «materia prima»). Per il gancetto di reggiseno, 165B, i periti non hanno invece condiviso la conclusione su un profilo genetico compatibile con l'ipotesi di una mistura di sostanze biologiche «solo» di Sollecito e della Kercher, parlando di «non corretta interpretazione degli elettroferogrammi ». Per gli esperti la componente maggiore è rappresentata da Dna della vittima, quella minore dal codice genetico «proveniente da più individui di sesso maschile». Conti e Vecchiotti hanno sottolineato quindi che il gancetto venne recuperato 46 giorni dopo l'omicidio. «Sul pavimento - hanno scritto -, ove era prevedibilmente a contatto con polvere ambientale composta in larga misura da cellule, peli, capelli di origine umana ». Che «in ambienti chiusi può contenere decine di microgrammi di Dna per grammo».

«Un colpo secco alla prova scientifica» lo aveva definito Luciano Ghirga, uno dei difensori della Knox, ricordando che nelle 427 pagine della sentenza di primo grado, invece, si fa esplicito riferimento alla prova scientifica quando si sostiene che «i due fidanzati ferirono al collo Mez: prima Sollecito, dopo avere tagliato il reggiseno, provocando la ferita più piccola con un coltello che portava sempre con sé e quindi la Knox, che provocò la lesione maggiore con quello da cucina poi sequestrato in casa del giovane pugliese dopo un ultimo grido fortissimo di dolore».

Ai difensori aveva risposto, in aula, il Pm Manuela Comodi chiedendo, senza successo, una nuova perizia, istanza poi riproposta in sede di conclusioni al termine della requisitoria (per una valutazione biostatistica del lavoro svolto dalla scientifica e per l'esame di una nuova traccia individuata sulla lama del coltello). Per il magistrato c'erano «dati oggettivi che rendono irrimediabilmente lacunosa» la perizia di Conti e Vecchiotti. E questo perché gli esperti avrebbero «omesso di riferire alla Corte» di macchinari in grado di leggere tracce anche minime di Dna sul coltello. «I periti - aveva sottolineato il magistrato - non hanno risposto ai quesiti ma lanciato dubbi».

Il processo di Perugia è un problema serio, al di là delle stesse vicende drammatiche, che hanno investito la vittima, i due giovani condannati ed un colpevole riconosciuto, che si proclama innocente.

Arriva fino a Hillary Clinton il caso di Amanda Knox, la ragazza americana giudicata “colpevole”, insieme a Raffaele Sollecito, dell’omicidio della studentessa britannica Meredith Kercher. La sentenza del tribunale di Perugia ha fatto il giro del mondo in poche ore: del caso si sono occupate testate come il Washington Post e il New York Times. L’America grida allo scandalo e proclama l’innocenza della studentessa di Seattle. La senatrice democratica Maria Cantwell cavalca l’onda: “È una sentenza oltraggiosa” dice, sostenendo che “non esistevano prove sufficienti per spingere una giuria imparziale a concludere, oltre ogni ragionevole dubbio, che Amanda fosse colpevole”. E interessa il Segretario di Stato Hillary Clinton. Che prima ammette: “Non ho un’opinione sul caso” perché “impegnata ad occuparmi di Afghanistan”. Poi apre. In una intervista al programma domenicale della rete televisiva Abc, This Week, assicura che sarà disposta a incontrare chiunque abbia dei timori riguardo al modo in cui è stato gestito il processo: “Ascolterò il senatore Cantwell, o chiunque altro abbia preoccupazioni” sulla gestione del processo.

Al di là di ogni ragionevole dubbio è chiaro come il pessimo lavoro fatto dai mezzi di informazione abbia nutrito la confusione di indagini approssimative, non solo nel caso Kercher, ma anche per quanto riguarda la signora Franzoni o Alberto Stasi.

Per tutti e tre quei processi, amatissimi dai salotti tv, dai cronisti di giornali in crisi di vendite e dagli assetati di gossip si è assistito ad un balletto di presunte prove scientifiche che cambiavano dalla mattina alla sera, di armi del delitto mai trovate, di computer analizzati in modo non sempre avveduto, di contaminazioni della scena del crimine, di plastici, biciclette e zoccoli negli studi televisivi, di ‘opinionisti’ all’oscuro dei fatti, ma messi a cercare colpevoli quasi fossero l’ispettore Derrick. Tre casi celebri, accomunati da elementi simili. Innanzitutto la confusione delle indagini: prove che vengono raccolte, poi cambiate, e mentre il processo è in corso. Coltelli, reggiseni, pigiami, biciclette, zoccoli e computer che entrano ed escono di scena come fondali intercambiabili invece che elementi certi di accusa. Oggetti totemici per il pubblico che, alla fine, mai si sono rivelati prove indiscutibili.

Anna Maria Franzoni, Amanda Konx, Raffaele Sollecito sono i casi noti di un universo molto più vasto di processi nei quali la certezza assoluta della colpevolezza non c’è. Decine di cittadini in carcere in attesa di giudizio, condannati per errore, assolti in secondo grado o in cassazione.

Invece di cercare le prove e le confessioni, le televisioni e le aule dei tribunali si sono riempite di discussioni su profili psicologici, comportamenti, preferenze sessuali, persino analisi sulle espressioni del volto o sul tipo di abbigliamento.

In mancanza di certezze, il processo italiano si è spesso rifugiato nella costruzione di teoremi: il colpevole non è colui che ha indiscutibilmente fatto il male, ma colui che avrebbe potuto o voluto farlo. Nasce qui l’uso e l’abuso dei «profili» psicologici, la depressione non ammessa di Annamaria a Cogne, le ossessioni nascoste di Alberto Stasi, e la violenza da baccanale fatta esplodere da Amanda. Tutti colpevoli in quanto «inclini ad esserlo», invece che indiscutibilmente provati tali dai fatti.

Anna Maria Franzoni doveva piangere al funerale del piccolo figlio assassinato, Alberto Stasi essere più discorsivo, Amanda Knox “morigerata” e Raffaele Sollecito “pentirsi”, secondo le bislacche valutazioni di non pochi ‘esperti’.

La sentenza del processo di Perugia per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, che ha visto condannare la coinquilina Amanda Knox e il suo ex-fidanzato Raffaele Sollecito rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere, non solo ha suscitato grande scalpore nel mondo anglosassone, ma ha anche acceso un dibattito su quanto i giudici italiani siano stati influenzati da fattori esterni nel trarre le proprie conclusioni e nell’esprimere il verdetto di colpevolezza.

Ne parla esplicitamente il giornale britannico della domenica “The Observer”, in un articolo di John Hooper, che scandaglia l’iter delle indagini e del dibattimento per dimostrare come la sentenza di primo grado sia, in realtà, poco risolutiva e, soprattutto, non chiarisca fino in fondo come siano andati i fatti.

Il dubbio di fondo insinuato da Hooper è che per «salvare la faccia» di chi ha condotto le indagini e, più in generale, dell’Italia come Paese in cui i delitti vengono risolti e puniti, i giudici e la giuria abbiano ignorato la sostanziale mancanza di prove decisive contro la Knox, influenzati dai racconti dei media che spesso l’hanno dipinta come una spietata assassina.

Macchie di sangue e dna, contraddizioni e omissioni sospette, non sarebbero stati, insomma, gli unici elementi a condizionare l’esame della corte e, forse, una loro analisi più approfondita sarebbe stata rimandata al processo d’appello, sempre, secondo Hooper, per salvare la reputazione del sistema di giustizia italiano. Se, infatti, la sentenza venisse rovesciata in appello, sostiene il giornalista, l’opinione pubblica non imputerebbe il fatto agli errori commessi durante le indagini o il processo, bensì alle «pressioni internazionali» che sono arrivate dagli Stati Uniti.

Del resto, l’accusa ha sì ricostruito minuziosamente le modalità dell’aggressione a Meredith Kercher (con l’ivoriano Rudy Guede che tentava di violentarla, mentre Sollecito la pungolava con un coltello con cui Amanda le avrebbe dato il colpo di grazia), ma non avrebbe accertato con precisione il movente, legato a un imprecisato odio della Knox nei confronti della coinquilina, forse scatenato dai differenti stili di vita (Meredith si sarebbe scocciata delle frequentazioni maschili dell’amica, che spesso portava uomini a casa) o da questioni economiche (dalla camera di Meredith potrebbero essere spariti dei soldi, un “furto” di cui avrebbe accusato la compagna).

Comunque sia, anche in questo caso, non sarebbe chiaro come mai Guede (peraltro giudicato con rito abbreviato, che avrebbe dovuto assicurargli uno sconto di pena) sia stato condannato a 30 anni di carcere, pur non essendo considerato il killer materiale, mentre Amanda (ritenuta la mano assassina e calunniatrice) soltanto a 26 anni.

Resta inoltre da capire come sia possibile, nel caso Sollecito e Knox siano davvero colpevoli, che nella camera dove la vittima è stata uccisa non ci siano impronte digitali dei due ragazzi, mentre abbondino quelle di Guede. Se i due ex-fidanzati avessero cancellato le proprie, infatti, inevitabilmente avrebbero fatto sparire anche quelle dell’ivoriano, mentre così non è stato. «Solo una libellula avrebbe potuto entrare in quella stanza senza lasciare impronte – ha sottolineato Giulia Bongiorno, avvocato difensore di Sollecito – e siccome i due ragazzi non sono certo libellule, bisogna concludere che siano innocenti».

In un caso ancora pieno di ombre e misteri, insomma, anche all’indomani della sentenza di primo grado, l’unica certezza che rimane è che ci sia ancora molto da scavare.

Esemplare è la presa di posizione di Fiorenza Sarzanini, giornalista del Corriere della Sera, che sul caso ha scritto un libro”Amanda e gli altri” di stampo colpevolista.  “Per Amanda e Raffaele l'effetto della sentenza è stato comunque devastante. Il loro appello finale per proclamarsi ancora una volta innocenti ha commosso i giurati, però non è servito a convincerli. E questo nonostante i punti oscuri che il processo ha contribuito a evidenziare. Perché la maggior parte dei testimoni sono apparsi confusi, contraddittori. E perché gli elementi offerti dalle prove scientifiche non hanno fornito la certezza sulla presenza dei due giovani nella casa, come invece era accaduto per Rudy. Certamente hanno pesato le contraddizioni emerse nelle versioni fornite da tutti e due subito dopo l'omicidio, la mancanza di un alibi, la personalità complessa che entrambi hanno. Ora sperano nell' appello. Ma sanno bene che la strada per uscire dal carcere diventa sempre più impervia”.

«Ritengo che le cose siano andate in maniera prevedibile. Hanno avuto uno sconto della pena, la Knox è stata condannata a 26 anni, Sollecito a 25, invece che all'ergastolo. L'opinione pubblica li ha già condannati, ma spero che in appello la ragionevolezza consenta di condannare le persone che sono realmente colpevoli. Credo che la sentenza vada rispettata, ma non c'è una certezza delle prove sulle quali si basa, non c'è nulla». Lo ha detto il criminologo Francesco Bruno, commentando la sentenza. «Gli indizi che ci sono, sono dubbi. Indicano la loro presenza in quella casa, ma non indicano con certezza la loro partecipazione all'omicidio».

«Non abbandonerò mai mio figlio in carcere e lo difenderò finchè avrò forza». Francesco Sollecito, il padre di Raffaele, ha il piglio deciso e il cuore in subbuglio. «La Corte – dice il medico pugliese – ha sposato in toto la tesi dell’accusa, non si è spostata di una virgola. Come difese potevamo anche non esserci. E questo è davvero scandaloso. Hanno ragione certe posizioni americane ». Il padre di Raffale si chiede perchè i giudici non abbiano disposto le perizie alle quali avevano fatto riferimento i legali del figlio. «Sarebbero state dirimenti – afferma – perchè in questa vicenda ci sono ancora aspetti non spiegati. Perchè non abbiamo diritto a sapere cosa è successo?». Riguardo alla pena che è stata inferiore alle richieste dei pm (ergastolo con isolamento per Sollecito e per Amanda Knox), secondo Francesco Sollecito «la Corte dopo avere sposato le tesi dell’accusa ha dovuto almeno concedere le attenuanti generiche».

Quali sarebbero quindi i vostri «diritti negati»?

«L’analisi sul computer di Raffaele è stata compiuta dalla polizia postale con un software che rileva solamente l’ultima operazione effettuata. Ci è stata negata l’analisi del pc con un programma che leggesse l’intera memoria. Noi sosteniamo che all’ora del delitto Raffaele stava utilizzando il computer in casa sua. E c’è un altro computer di Raffaele, che la Corte ci ha negato di far ispezionare. Quindi ci sono stati negati esami più approfonditi sul dna trovato sulla scena del delitto, sul gancetto del reggiseno della vittima, sull’impronta e sulla compatibilità del coltello sequestrato con la ferita mortale». 

MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO BIANZINO.

L'arrivo di Rudra Bianzino al Congresso dei radicali italiani a Chianciano ha fatto riaprire un caso, almeno nella coscienza della società civile, che non ha ancora una verità giudiziaria. Rudra è il figlio più piccolo del falegname “morto di carcere” a Perugia in circostanze misteriose nell'autunno 2007, quando Aldo Bianzino fu trovato morto dopo la notte passata in carcere: presentava lesioni e un fegato “strappato”, come se avesse ricevuto un calcio. Ma dopo diversi mesi il tribunale di Perugia presentò richiesta di archiviazione: non c'era stato nessun omicidio per i magistrati e Aldo era morto per un aneurisma al cervello che i referti medici indicherebbero con chiarezza.

La prima volta però la richiesta di archiviazione – è l'ottobre del 2008 – viene respinta. Alla seconda ha fatto opposizione, con una articolata memoria, la famiglia che non si è arresa alla tesi incidentale. La famiglia di Aldo (la sua compagna Roberta è mancata qualche mese fa) non si dà per vinta e vuole che il caso continui a restare aperto anche alla luce di quanto continua ad emergere dopo la morte di Stefano Cucchi. I due casi sono infatti assai simili con la differenza che allora la vicenda di Aldo fu oscurata a Perugia dal caso di Meredith Kercher e la sua storia “minore” non registrò l'attenzione che, fortunatamente, si è ora riversata sull'oscura serie di fatti che circondano la morte di Stefano.

Tutti i media hanno parlato della terribile vicenda accorsa a Stefano Cucchi, arrestato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché trovato in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti e deceduto dopo una settimana in circostanze non ancora chiarite. Altrettanto scalpore hanno destato le immagini - diffuse dai mezzi d'informazione - del suo corpo e del suo volto, in cui erano ben visibili lesioni e traumi di grave entità. Mauro Casciari delle “Iene” di Italia 1 decide di occuparsi di un caso di cronaca analogo, quello di Aldo Bianzino, un falegname di 44 anni morto il 14 ottobre 2007 in circostanze ancora sconosciute. Due giorni prima del decesso, Aldo e la compagna Roberta, residenti a Capanne - nell'Appennino umbro marchigiano - vengono arrestati e portati presso il carcere di Capanne perché, in seguito ad una perquisizione, vengono trovate nella loro tenuta alcune piante di marijuana. La mattina del 14 ottobre Roberta viene scarcerata e solo in quel momento apprende della morte del marito. Tuttora non si sa niente sulle cause del decesso, quel che è certo è che al momento dell'ingresso in carcere il certificato medico dimostra che entrambi godevano di perfette condizioni di salute. Il medico legale nominato dalla famiglia assiste alla prima autopsia dichiarando che il corpo dell'uomo presentava lesioni al fegato, alla milza, al cervello e due costole rotte. Dell'argomento si era già interessato Michele Pietrelli, un collaboratore attivo sul blog di Beppe Grillo il quale aveva raccolto la testimonianza della moglie della vittima, scomparsa nel 2009, di cui le Iene mostrano il filmato. Un servizio di denuncia ma non solo; la coppia aveva un figlio che , dopo la morte della madre, vive con lo zio, tornato dalla Germania apposta per accudire il nipote e che, per questo, ha perso il suo posto di lavoro.

«In limine vitae» è scritto nella relazione finale dei due medici legali Luca Lalli e Anna Aprile. Le «evidenti lesioni viscerali di indubbia natura traumatica» che Aldo Bianzino riportava la mattina del 14 ottobre 2007, il giorno del suo oscuro decesso nel carcere di Capanne a Perugia, erano da collocarsi «in limine vitae». Letteralmente sulla soglia della vita, l’attimo tra la vita e la morte. Quelle lesioni, cioè il completo distacco del fegato, per la perizia ordinata dalla procura di Perugia sarebbero frutto di un disperato tentativo di rianimare Aldo in seguito a un aneurisma cerebrale. Per la famiglia la prova evidente di un pestaggio mortale. Nel limbo del «limine vitae» Aldo, che aveva quarantaquattro anni, pesava non più di 50 chili e faceva il falegname, è rimasto 22 minuti. Suo figlio Rudra, invece, due anni interi. Passati a combattere la morte che si è portata via, oltre al padre, anche la madre e la nonna, e a cercare la vita, la verità su Aldo.

Quando scende dall’autobus che lo riporta a casa, Rudra, per gli induisti «colui che allontana i dolori», ha una felpa bianca, un giaccone nero al braccio e due occhi che riflettono il colore del cielo. A Pietralunga sono otto gradi e piove leggero. Il paese è adagiato sopra il fianco di una collina. Dietro l’Appennino e le Marche, davanti l’Alta valle del Tevere e, sessanta chilometri più giù, Perugia. Lontana. Rudra ha sedici anni, frequenta con profitto il liceo scientifico di Umbertide ed è magro come un chiodo. Possiede un Ape 50 con il quale da casa raggiunge il paese e poi con l’autobus, dopo un’ora, la scuola. «Quel giorno ce l’ho scolpito nella mia testa» ricorda. Quel giorno, il 12 ottobre del 2007, un venerdì, arrivarono in cinque a casa dei Bianzino, un rudere ristrutturato in mezzo al nulla. Quattro poliziotti (tre uomini e una donna), un finanziere e un cane anti droga. Bussarono alle porta alle 6,30 del mattino. Cercavano 100 piante di marijuana che Aldo coltivava non distante dall’abitazione. Tra una fitta vegetazione andarono a colpo sicuro. «Mio padre si accusò subito». La polizia se lo portò via, assieme alla compagna Roberta Radici, la mamma di Rudra. Lui restò solo per tre giorni con la nonna novantenne. «La domenica sera mia madre tornò». Senza il compagno. Aldo era già morto, la mattina. Lo trovarono agonizzante nella sua cella di isolamento solo con una t-shirt bianca addosso. Colpito da un aneurisma due, forse nove, ore prima. «In verità quando lo soccorsero era già deceduto» dice l’avvocato Massimo Zaganelli, «il tentativo di rianimazione è una farsa».

Al cimitero di Pagialla, tra le querce dell’Appennino, Aldo è sepolto vicino a Roberta. L’uno di fianco all’altra, a terra, in fila. Sopra la tomba di Aldo una croce di legno, su quella di Roberta dei fiori gialli. Nonostante la venerazione per Sai Baba e l’India entrambi hanno avuto il rito cristiano per la sepoltura. «Mia madre è morta a giugno» dice Rudra. Di epatite «C». Era in lista per un trapianto. «Se non avessero ammazzato mio padre sarebbe ancora viva, di questo sono sicuro». È lei che si rivolse per la prima volta a Zaganelli, uno degli avvocati più in vista di Città di Castello, e quest’ultimo al professore Giuseppe Fortuni, docente di medicina legale all’Università di Bologna. Il quale eseguì, dopo molti giorni dalla morte, una perizia sul corpo di Aldo. Non l’unica per la verità. Aldo venne anche visionato, oltre che da Lalli e dalla Aprile, anche dal medico legale Walter Patumi incaricato dalla prima moglie Gioia Toniolo. Fu Patumi a parlare per primo di un pestaggio esperto. La perizia di Fortuni, famoso per aver seguito il caso Pantani, evidenziò un distacco totale del fegato in seguito a «pressione violenta». Dovuto a che cosa? Ai 22 minuti di massaggio cardiaco, decretò il rapporto ufficiale. Talmente violento da strappare il fegato, ma non abbastanza forte da incrinare neanche una costola. In 30mila autopsie, spiegò Fortuni, «mai visto un fegato devastato così da un massaggio cardiaco, sebbene la letteratura medica citi qualche caso». Rarissimo, tra l'altro, e riferito a persone ancora in vita.

Ma Aldo era vivo? Secondo il pubblico ministero Giuseppe Petrazzini, lo stesso che firmò gli atti di custodia cautelare proprio per Aldo e Roberta, era «in limine vitae». Tra la vita e la morte. Per questo ha avanzato ben due richieste di archiviazione. La prima è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari Claudia Matteini nel febbraio del 2008, la seconda l’11 dicembre 2009 davanti al gip Massimo Ricciarelli. Rudra ora abita nel rudere in mezzo al nulla con lo zio materno Ernesto tornato dalla Germania. Ernesto è in cerca di un lavoro e sta per prendere la patente. «Del civile non mi importa nulla» dice Rudra, «anche se ho bisogno di soldi» (Beppe Grillo ha raccolto 68mila euro vincolati in un conto corrente). «Però mi devono spiegare perché mio padre era nudo, perché hanno coperto le altre celle per non farlo vedere al momento del suo passaggio, perché non è stata fatta una perizia all'interno della sua cella. Lo Stato mi deve dire come ha fatto mio padre a morire». E farlo finalmente uscire dal suo limbo, dal suo «limine vitae».

Una lettera aperta del padre di Aldo Bianzino, ucciso nel carcere di Capanne, a Perugia nella notte tra il 13 e il 14 ottobre del 2007. Per chiedere ancora una volta verità e giustizia e ribadire che la morte di Aldo, come quella di Stefano Cucchi, ricade sullo stato.

“Il caso recente di Stefano Cucchi e, quello ancor più recente, di Giuseppe Saladino a Parma, hanno richiamato l’attenzione sui casi di Marcello Lanzi e di mio figlio Aldo Bianzino, anch’essi morti in carcere in circostanze tutte da chiarire (chissà quando e sopratutto se). Ora, volendo esaminare il caso di Aldo, bisogna precisare alcune cose.

Il pubblico ministero dott. Giuseppe Petrazzini, che aveva fatto arrestare Aldo e la sua compagna la sera del venerdì 12 ottobre 2007, è lo stesso magistrato che ha in carico le indagini sul suo successivo decesso avvenuto nella notte tra il 13 e il 14, Aldo era stato messo in cella di isolamento nel carcere Capanne di Perugia. Era stato visto da un medico, che l’aveva riscontrato sano e da un avvocato d’ufficio, col quale aveva parlato verso le 17 di sabato. Non sono disponibili registrazioni di telecamere su ciò che è avvenuto successivamente, né, dopo il decesso, la cella risulta sia stata isolata e sigillata, né che siano stati chiamati per un intervento i reparti speciali di indagine dei carabinieri. A detta degli altri detenuti del reparto, durante la notte Aldo aveva suonato più volte il campanello d’allarme ed aveva invocato l’assistenza di un medico, sentendosi anche, pare, mandare al diavolo dall’assistente del corridoio, la guardia carceraria poi indagata. Fatto sta che verso le 8 del mattino di domenica le due dottoresse di turno, arrivate a svolgere il loro turno di servizio, trovarono il corpo di Aldo, con indosso solo un indumento intimo (e siamo a metà ottobre, non ad agosto). I suoi vestiti si trovavano nella cella, accuratamente ripiegati (cosa che Aldo, in 44 anni, non aveva fatto mai). Le due dottoresse provarono di tutto per rianimarlo, ma alla fine dovettero desistere: Aldo era morto. L’autopsia, svoltasi il giorno dopo, diede risultati controversi: si parlò prima di due vertebre poi di due costole, rotte, poi tutto fu negato. Di certo ci fu un’emorragia celebrale e un’altra di 200 ml. al fegato. Segni esterni di percosse o violenze, nessuno (i professionisti sanno come si fa, C.I.A. insegna).

Ora, l’emorragia cerebrale è stata imputata ad un aneurisma, quella epatica ad un maldestro tentativo di respirazione artificiale, che le due dottoresse respingono nel modo più assoluto (e ci mancherebbe, si tratta di medici, mica di personale non qualificato), ma nessun altro ha affermato d’aver fatto tentativi in tal senso. Ora, può accadere quando si è nelle mani delle «forze dell’ordine», lo abbiamo purtroppo visto in molti casi, basterebbe pensare al G8 di Genova, e magari al colloquio recentemente intercettato nel carcere di Teramo (i detenuti non si massacrano in reparto, ma sotto!). L’emorragia cerebrale potrebbe benissimo essere stata la conseguenza di uno stress per colpi ricevuti in altre parti del corpo, immaginatevi l’angoscia e il terrore di una persona in quelle condizioni. In ogni caso credo proprio di poter dire in tutta coscienza che Aldo è stato assassinato in un ambiente violento e omertoso, del quale non si riesce neppure a sapere i nomi del personale presente quella notte nel carcere. Quanto al dott. Petrazzini, mi sembra che dignità gli imporrebbe di passare ad altri il suo incarico, date le omissioni, invece di insistere come sta facendo, per ottenere l’archiviazione del caso.

Ma i veri assassini sono coloro che hanno voluto ed ottenuto una legge sulle «droghe» come l’attuale, persone che nella loro profonda ignoranza, considerano in modo globale, senza distinzioni. Una legge fascista e clericale, da stato etico e peggio, da stato che manda in galera (con le conseguenze che si sono viste) il poveraccio che coltiva per uso personale qualche pianta di cannabis, mentre, se la droga (quella pesante, cocaina o altre sostanze) circola nei festini dei potenti, non succede nulla. Vorrei dire comunque che un paese che considera delitto la detenzione e l’uso di droghe, magari solo marijuana, o l’essere «clandestino», pur non avendo colpe e quasi sempre per sfuggire a condizioni di vita impossibili, uno stato che avendo preso in custodia delle persone, è responsabile a tutti gli effetti delle loro vite e della loro salute, uno stato che non riconosce come reato gravissimo la tortura, uno stato che difende i forti e i potenti e non i deboli, è uno stato che non può ritenersi civile e non può chiedere ai suoi cittadini (o sudditi?) di amare la propria patria." In fede Giuseppe Bianzino 

MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO DELLA PICCOLA MARIA GEUSA.

Non intende smettere di lottare Massimo Geusa: dopo aver chiesto al Presidente della Repubblica la grazia per sua moglie, Tiziana Deserto, è arrivato in televisione per perorare la sua causa, scrive Maura De Gaetano su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 27.04.2013. L’uomo è stato ospite de “I fatti vostri”, popolare programma di Rai2, nella mattinata di ieri. Sostenuto dalla presenza fisica del suo legale, Giuseppe Caforio, e da quella ideale dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, Geusa ha spiegato al conduttore, Giancarlo Magalli, i motivi della sua richiesta. «Mia moglie ha subito una grande ingiustizia – ha ribadito l’uomo – perché è stata condannata praticamente senza prove, come se già non fosse sufficiente il male che ha subito, con la perdita di nostra figlia». Tiziana Deserto dovrà scontare 15 anni di reclusione per concorso nell’omicidio e nella violenza sessuale della piccola Maria, figlia concepita con il marito e morta, a meno di 3 anni nel 2004, per mano del nuovo compagno della donna. «Quelle violenze sessuali reiterate non ci sono mai state – ha affermato ancora una volta Geusa – perché altrimenti sarei stato il primo ad accorgermene, vivendo in casa con la bimba. Sono certo che mia moglie non avrebbe mai affidato nostra figlia nelle mani di un uomo, sapendo che costui la violentava». Il devoto marito di Tiziana ha raccontato alle telecamere, ancora una volta, la sua versione dell’accaduto: la benevolenza dimostrata dall’assassino Giorgio Giorni, condannato all’ergastolo, e la fiducia che questi si era conquistato tanto presso la mamma, quanto presso il papà di Maria. A un Magalli stupefatto dell’amore dimostrato, nonostante tutto, da Geusa a sua moglie, l’uomo ha spiegato: «Da tempo ho perdonato il suo tradimento e la sua storia con Giorni. Non potrei mai perdonarla, però, del concorso nell’omicidio di nostra figlia. Se ho chiesto la grazia per lei, è perché sono convinto della sua buona fede». La domanda di grazia, inviata a Giorgio Napolitano lo scorso mese, è al momento al vaglio del ministro di Grazia e giustizia, che ha avviato le procedure del caso. «Ho ancora fiducia nella giustizia – conclude Geusa – e spero che la verità sulla morte di Maria venga a galla: Tiziana è innocente».

«Ho commesso una leggerezza, ma amavo mia figlia. Non le avrei mai fatto nulla di male». Così Tiziana Deserto, in carcere da quasi un anno per il concorso nell’omicidio della figlia Maria Geusa, racconta con dolore la morte della bambina di due anni e mezzo uccisa il 5 aprile 2004 a Città di Castello da Giorgio Giorni, datore di lavoro del marito, Massimo Geusa, e sogno di una vita insieme per lei, scrive Egle Priolo su “L’Espresso”. Lei che in un anno (ne deve scontare altri 11) ha cambiato tre istituti penitenziari a causa delle sue pessime condizioni di salute. Da fuori, il marito Massimo continua a sostenerla in ogni modo. Ha già chiesto al presidente della Repubblica la grazia per la sua Tiziana (la pratica è stata inoltrata) e ora, dopo la lettura delle motivazioni della sentenza con cui la Corte di cassazione ha reso definitiva la condanna a 15 anni (tre condonati per l’indulto), vuole addirittura la revisione del processo per quanto riguarda l’accusa di concorso in violenza sessuale. La Corte, che ha ribadito quanto stabilito in primo e secondo grado, ha però ritenuto fondato il motivo del ricorso che riguarda l’aggravante dell’uso di sevizie e crudeltà. Non cambia nulla dal punto di vista della pena («ininfluente sul trattamento sanzionatorio», ribadiscono i giudici), ma per i genitori di Tiziana e per Massimo è lo spiraglio per chiedere la revisione del processo. Un’ipotesi che l’avvocato della Deserto, Giuseppe Caforio, conferma di star studiando. «Stiamo valutando questa possibilità», spiega il legale, mentre Massimo si sta impegnando a cercare una consulenza medico legale che possa sostenere la convinzione che ha da sempre. «Ho perso una figlia, non voglio perdere anche una moglie - racconta oggi -. Le ho perdonato il tradimento, ma non avrei perdonato a Tiziana gli abusi sulla nostra bambina. Ma quegli abusi non ci sono stati, sono sicuro. Ho cambiato Maria fino al giorno precedente l’omicidio e non aveva nessun segno, nessuna ferita. Niente di niente che possa far pensare a una violenza sessuale. I giudici hanno sbagliato». I giudici, secondo Massimo, hanno sbagliato sei volte (i tre gradi per Giorni e i tre per Tiziana), stabilendo una verità processuale, ma non scientifica. Basata su quell’«alta suggestione», cioè alta probabilità della violenza. «Probabilità, non certezza», insiste Massimo Geusa. Che ora, operaio in Puglia, quando non va a trovare Tiziana in carcere, passa il tempo su internet a informarsi sulle violenze sui minori, su riscontri e prove, cercando di individuare professionalità che possano dare un sostegno scientifico alle sue convinzioni. Paradossalmente, se ci riuscisse, potrebbe aiutare l’uomo che ha ucciso sua figlia per salvare la sua amata Tiziana. Che da maggio scorso (si è presentata in carcere il 18 maggio) ha perso più di venti chili e adesso non riesce neanche a mangiare. «Non trattiene più nessun alimento - racconta l’avvocato Giuseppe Caforio - ed è in un preoccupante stato di prostrazione psicofisica». Anche per questo motivo, l’avvocato ha richiesto il suo trasferimento già due volte: da Lecce a Foggia e da Foggia a Trani. Ma sembra che le sue condizioni non migliorino. Prostrata e distrutta, a ripetere solo di non aver mai fatto del male alla piccola Maria.

MAGISTROPOLI.

Il procuratore generale è finito ancora sotto inchiesta.

Il procuratore generale presso la corte d’appello dell’Umbria, Giancarlo Armati accusato di falsa testimonianza e favoreggiamento nell’ambito della vicenda giudiziaria che oppone dagli anni ’90, lo stesso Armati, ex pm a Roma, e i fratelli Wilfredo e Claudio Vitalone, quest’ultimo ex magistrato ed ex sottosegretario al ministero degli Esteri.

Nei confronti di Armati, il procuratore aggiunto di Firenze, Francesco Pappalardo, aveva chiesto al gip Giacomo Rocchi, l’archiviazione del procedimento. Istanza respinta dal giudice che ha disposto l’imputazione coatta. L’ipotesi di falsa testimonianza scaturisce dalla deposizione di Armati nel processo celebrato nei confronti di Anna Pavoni.

Armati, che aveva un legame negli anni ’90 con la Pavoni, “negò in aula di averle espresso durante un incontro sentimenti di odio e di inimicizia nei confronti dei fratelli Vitalone”.

L'ex procuratore capo di Viterbo e attuale procuratore generale a Perugia Giancarlo Armati è indagato, anche, per peculato dalla procura di Firenze. Ad accusare il magistrato è stato suo figlio.

Secondo l'ipotesi di accusa, Armati, mentre era in servizio a Viterbo, avrebbe utilizzato il telefono cellulare di servizio, intestato all' assessorato ai Lavori pubblici del Comune, così come quelli di altri magistrati, per chiamare i suoi familiari, in particolare la figlia.

L'inchiesta è condotta dal Pm Francesco Pappalardo ed è stata assegnata a Firenze per competenza territoriale. Le indagini a carico di Armati sono scaturite da un esposto presentato dal figlio dello stesso magistrato che, a seguito di dissapori con il padre, lo ha denunciato per peculato, svelando appunto che l'ex procuratore capo di Viterbo avrebbe fatto un uso "improprio" del telefonino di servizio.

Legislatura 15 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-02084

Atto n. 4-02084 Pubblicato il 31 maggio 2007  Seduta n. 159

CORONELLA - Al Ministro della giustizia. -

Premesso che, per quanto risulta all'interrogante:

il 18 luglio 2006, l’on. Francesco Cafarelli ha denunciato ai Titolari dell’azione disciplinare una grave e circostanziata serie di fatti dei quali si sarebbe reso protagonista, nell’esercizio delle pregresse funzioni di magistrato della Procura di Roma, il dott. Giancarlo Armati, attuale Procuratore generale della Corte d’appello di Perugia;

l’on. Cafarelli, nell’evocare i singolari svolgimenti di un processo da lui subito nella cosiddetto stagione di “tangentopoli”, insieme all’allora Ministro dei lavori pubblici Giovanni Prandini, processo conclusosi poi definitivamente con pronuncia liberatoria a favore di tutti gli imputati, ha precisato che la fonte d’accusa, tal Romualdo Di Corato, imprenditore legato agli appalti ANAS, aveva ottenuto dal magistrato inquirente – il citato dr. Armati, appunto – un inspiegabile trattamento di scandaloso favore. Addirittura, si legge nell’esposto, nel corso dell’esame cui il Di Corato era stato sottoposto l’11 febbraio 1993, l’Armati, anziché invitarlo alla nomina di un difensore quale indagato per corruzione, gli aveva attribuito del tutto arbitrariamente la qualità di persona offesa da una presunta concussione. Nessuna indagine – prosegue l’on. Cafarelli – fu mai svolta dal dr. Armati a carico del Di Corato, nonostante le numerose prove della falsità delle dichiarazioni che egli aveva reso nei confronti di tutte le persone poi prosciolte;

a distanza di anni – soggiunge ancora l’on. Cafarelli – è stata acquisita la costernante spiegazione delle “ragioni” che avevano ispirato il comportamento dell’Armati nei confronti del Di Corato: i due - al tempo dell’indagine - erano legati da intensi rapporti d’indole inequivocabilmente corruttiva;

la prova del mercimonio è contenuta nella drammatica denuncia presentata al Procuratore della Repubblica di Roma il 30 giugno 2006 dal dott. Federico Armati, alto funzionario del Ministero dell'interno, contro il padre Giancarlo nel contesto il sindacato parlamentare, il dott. Federico Armati afferma testualmente: “Posso dichiarare con certezza che negli anni 1989, 1990, 1991,1992 e 1993, mio padre, il dr. Giancarlo Armati, all’epoca sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma riceveva in modo continuato regali di valore rilevante dal sig. Di Corato Romualdo, pugliese di Trani, titolare di un'importante impresa di costruzioni di autostrade. Tra i regali di cui ho diretta conoscenza ricordo un orologio di platino marca Cartier mod. Pasha con cinturino in pelle marrone, un orologio d’oro marca Piaget, gemelli da camicia in oro e smalto nero con diamante di Bulgari, servizio completo di posate da tavola di argento massiccio del gioielliere Buccellati, un prezioso servizio da tavola di porcellana, un servizio di bicchieri di cristallo Baccarat, una coppia di preziosi candelabri d’argento d’epoca con incisione alla base, un servizio di bicchieri-coppe in oro zecchino (…) giacche, maglioni ci cachemire, calzini di cachemire, camicie ed altro, provenienti, per la maggior parte, dai negozi di Roma, Ravasi di via del Babbuino ed Hermes di via Condotti”;

con successiva denuncia del 26 luglio 2006, il dr. Federico Armati ha riferito di essere stato oggetto – a causa della sua iniziativa – di pesantissime intimidazioni persino in ambito familiare, con l’esplicito avvertimento di uno strettissimo congiunto, qualificatosi “messaggero”: “se non ritiri la denuncia sarai rovinato, sarai distrutto”,

si chiede di sapere se sia a conoscenza di quali iniziative siano state intraprese e se e quali provvedimenti siano stati adottati, nell'ambito di propria competenza, dal Ministro in indirizzo, dal Procuratore generale della Corte di cassazione e dal Consiglio superiore della magistratura, anche in via interdittiva, a tutela del prestigio dell’ordine giudiziario e della delicatissima funzione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Perugia.

PARLIAMO DI TERNI

CARCERI. MORIRE DI STATO.

Detenuto suicida a Terni: la procura apre un’inchiesta, scrive Damiano Aliprandi su  “Il Garantista”. Novità dopo la pubblicazione della lettera shock da parte de il Garantista. Carlo Florio, il garante dei detenuti della regione Umbria, grazie all’interessamento del suo collaboratore Gabriele Cinti, ha presentato un esposto presso la Procura della Repubblica di Terni. La lettera in questione è una denuncia coraggiosa da parte del detenuto Maurizio Alfieri contro le guardie carcerarie del penitenziario. L’accusa è quella di aver istigato un detenuto rumeno al suicidio durante l’estate del 2013. Maurizio Alfieri racconta che a quel tempo era recluso nel carcere di Terni e ha sentito urlare due ragazzi «che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico». A quel punto ha chiesto spiegazioni, voleva capire bene cosa fosse accaduto, e gli riferiscono che «un loro amico di 31 anni era stato picchiato dalle guardie perché lo avevano trovato che stava passando un orologio, da 5 euro, dalla finestra con una cordicina». Così lo avrebbero chiamato sotto e picchiato dicendogli che «lo toglievano anche dal lavoro di barbiere». A quel punto testimoniano che il ragazzo avrebbe minacciato le guardie che si sarebbe impiccato se lo avessero chiuso;  ma dopo le botte lo mandarono in sezione e lui – sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera – cercò di impiccarsi, per fortuna in maniera vana perché i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo che fungeva da cappio. Ma le guardie lo avrebbero chiamato e preso a schiaffi dicendogli che «se non si impiccava , lo uccidevano loro». Il detenuto sarebbe salito in sezione e dentro la cella avrebbe preparato un’altra corda per potersi impiccare. I suoi amici se ne sarebbero accorti ed avrebbero subito avvisato la guardia penitenziaria, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura e inizia a chiudere le celle. Ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo. A quel punto – sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera – i due testimoni avrebbero gridato all’ispettore che il ragazzo si stava impiccando e per tutta risposta «ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella». Presi dalla paura anche loro sono rientrati, ma dopo aver visto che il loro amico romeno «si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo». Le guardie avrebbero chiuso tutte le celle, tornando dopo un’ora con il dottore «che ne constatava la morte, facendo le fotografie al morto». Maurizio Alfieri, nella lettera che ci ha inviato, racconta che i detenuti lo avevano pregato di non denunciare l’accaduto perché avevano paura di qualche ritorsione. Solo ora ha potuto denunciare questa terribile storia perché, secondo i suoi calcoli, i detenuti sono liberi. Noi de il Garantista abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. Dopo la denuncia, corredata dal nostro articolo, presentata dal Garante dei detenuti dell’Umbria , confidiamo nella Procura di Terni affinché faccia luce su questa terribile vicenda. All’interno delle carcere, un istituzione totalizzante, vicende come queste sono storie di ordinaria follia e si uccide senza nemmeno fare un graffio perché il sistema penitenziario- giudiziario induce al suicidio: l’omicidio di Stato “perfetto”.

E le guardie gli dissero: «Impiccati o ti ammazziamo». Nell’estate del 2013, un recluso nel carcere di Terni si sarebbe suicidato su istigazione da parte delle guardie penitenziarie. A denunciarlo è il detenuto Maurizio Alfieri tramite una coraggiosa lettera che sta facendo il giro tra i siti web di controinformazione. Abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. all’interno della propria cella singola. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre della stessa cella. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. La lettera che noi de Il Garantista riportiamo integralmente, racconta la storia che ci sarebbe stata dietro questo suicidio, rivelata dal detenuto Maurizio Alfieri su “Il Garantista”. «Carissimi/e compagni/e, Prima di tutto vi devo dire una cosa che mi sono tenuto dentro e mi faceva male… ma la colpa non è solo mia e poi potete capire e commentare la situazione in cui mi sono trovato e che ora rendiamo pubblica. L’anno scorso mentre a Terni ero sottoposto al 14 bis arrivarono due ragazzi, li sentivo urlare che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico… Così mi faccio raccontare tutto, e loro mi dicono che un loro amico di 31 anni era stato picchiato perché lo avevano trovato che stava passando un orologio (da 5 euro) dalla finestra con una cordicina, così lo chiamarono sotto e lo picchiarono dicendogli che lo toglievano anche dal lavoro (era il barbiere), lui minacciò che se lo avessero chiuso si sarebbe impiccato, così dopo le botte lo mandarono in sezione, lui cercò di impiccarsi ma i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo, così quei bastardi lo chiamarono ancora sotto e lo presero a schiaffi dicendogli che se non si impiccava lo uccidevano loro. Così quel povero ragazzo è salito, ha preparato un’altra corda, i suoi amici se ne sono accorti ed hanno avvisato la guardia, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura, l’agente iniziò a chiudere le celle, ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo, i due testimoni gridano all’ispettore che il ragazzo si sta impiccando e per tutta risposta ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella, finché dalla paura anche loro sono rientrati dopo aver visto che il loro amico romeno si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo, e quei bastardi hanno chiuso a tutti tornando dopo un’ora con il dottore che ne constatava la morte e facendo le fotografie al morto…Quei ragazzi mi hanno scritto la testimonianza quando sono scesi in isolamento, poi li chiamò il comandante Fabio Gallo e gli disse che se non dicevano niente li avrebbe trasferiti dove volevano… quei ragazzi vennero da me piangendo, implorandomi di non denunciare la cosa e di ridargli ciò che avevano scritto, io in un primo tempo non volevo, mi arrivò una perquisizione in cella alla ricerca della testimonianza ma non la trovarono, loro il giorno dopo furono trasferiti, poi mi scrissero che se pubblicavo la cosa li avrebbero uccisi, io confermai che potevano fidarsi. I fatti risalgono a luglio 2013, ai due ragazzi mancava un anno per cui ora saranno fuori. La testimonianza è al sicuro fuori di qui, assieme ad un’altra su un pestaggio di un detenuto che ho difeso e dice delle cose molto belle su di me. Ecco perché da Terni mi hanno trasferito subito! Ora possiamo far aprire un inchiesta e a voi spetta una mobilitazione fuori per supportarmi perché adesso cercheranno di farla pagare a me, ma io non ho paura di loro. Perdonatemi se sono stato zitto tutto questo tempo ma l’ho fatto per quei ragazzi che erano terrorizzati… Ora ci vuole un’inchiesta per far interrogare tutti i ragazzi che erano in sezione, serve un presidio sotto al Dap a Roma così a me non possono farmi niente. Non possiamo lasciare impunita questa istigazione al suicidio… Devono pagarla. Ora mi sento a posto con la coscienza, sono stato male a pensare alla mamma di quel povero ragazzo che lavorava e mandava 80 euro alla sua famiglia per mangiare, quei due ragazzi erano terrorizzati, non ho voluto fare niente finché non uscissero, adesso per dare giustizia iniziamo noi a mobilitarci… Sono sicuro che voi capirete perché sono stato zitto fino ad ora. Un abbraccio con ogni bene e tanto amore. Maurizio Alfieri, detenuto nel carcere di Spoleto.»

MASSONI TERNANI.

Anteprima dell’inchiesta di Terni Magazine. Parla un ex affiliato. Per capire meglio cosa spinge un qualsiasi individuo ad entrare a far parte della Massoneria e per analizzare in dettaglio come questa istituzione possa raggiungere le sue finalità all’interno della società, abbiamo intervistato un membro della Massoneria, che ha ricevuto il permesso di accedere all’interno del Grande Oriente d’Italia.

-Quando è nata in lei la volontà di iscriversi alla Massoneria?

«Prima di tutto vorrei evidenziare il fatto che non ci si “iscrive” alla Massoneria; dopo un’attenta indagine, l’individuo viene “iniziato” e poi creato Massone e così rimane per tutta la vita. C’è la possibilità che un membro si metta “in sonno” (una specie di pausa), ma è prevista la riammissione. La prima volta che feci la richiesta, ormai venti anni fa, mi fu contestata a causa della mia assenza di fede nella divinità; fui iniziato soltanto sette anni dopo».

-Perché fece la scelta di aderire alla Massoneria?

«È molto semplice, mi ero reso conto di aver bisogno di ricercare la spiritualità, la verità delle cose, inoltre è stato positivo vedere come si può essere di aiuto nei confronti del prossimo; ho imparato ad essere tollerante e comprensivo con gli altri».

-Quanti e quali tipi di Massoneria sono presenti in Italia?

«Oggi ci sono due ordini principali qui in Italia: il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani e la Gran Loggia d’Italia di Piazza di Gesù, che nacque nel 1905 dopo una “rottura” a causa delle diverse convinzioni, tra le due congregazioni, sulle scuole religiose e pubbliche; i due ordini, infatti alternavano riavvicinamenti a delle separazioni. Infine, si divisero definitivamente, creando nuovi ordini, seppur minori».

-Esistono ancora oggi delle Massonerie segrete?

«Sinceramente non lo so. La cosa sicura è che 300 anni fa molte erano segrete, ma semplicemente per una questione di difesa, in quanto erano composte soprattutto da gente molto povera, mentre con il passare del tempo si aggiunsero in maggioranza gli intellettuali e i nobili.Oggi, le istituzioni massoniche non operano più in gran segreto, basti pensare che ogni anni il Grande Oriente d’Italia organizza un congresso aperto al pubblico, chiamato “La Gran Loggia”».

-Dunque, lei appartiene al Grande Oriente d’Italia?

«Si, come ho affermato prima, ormai da tredici anni».

-I Massoni di oggi sono intellettuali, aristocratici o c’è anche “il semplice operaio”?

«La maggior parte non sono dei “muratori”, ma soprattutto dirigenti, imprenditori, ingegneri, comunque quasi tutti diplomati o laureati. Sono sincero, non conosco nessun operaio appartenente alla Massoneria, ma penso ce ne saranno, seppur in minor numero».

-Come può fare un semplice cittadino a diventare membro della Massoneria? A chi deve rivolgersi?

«In primo luogo può attingere dalla fonte più grande del mondo: Internet, ci sono siti della Massoneria, dove è possibile prendere contatti, oppure dall’elenco telefonico di Roma, è possibile rintracciare il numero telefonico del Grande Oriente che indicherà a chi rivolgersi nella località di residenza. La Massoneria accetta tutti indistintamente, purché di “buoni costumi”».

-Lei è all’interno della politica? O comunque è a contatto con politici membri della Massoneria?

«Si, sono anche un politico, ma questo non è problema, l’istituzione massonica lascia molta libertà, ognuno ha il diritto di avere qualsiasi idea politica o religiosa, anche se ciò non deve essere motivo di discussione all’interno delle assemblee».

-Il suo partito sa che lei è massone?

«Si, ma come le ho detto prima, il problema non sussiste; in passato sicuramente esisteva un’incompatibilità tra politica e massoneria, ma ora assolutamente no».

-Conosce parlamentari che hanno aderito alla Massoneria?

«Di persona non conosco nessuno, ma sono al corrente che ci sono parlamentari membri, sia nel partito di destra, che di sinistra; da ciò, si può affermare che la Massoneria, non fa alcune discriminazioni».

-Quale schieramento politico è maggiormente vicino alla Massoneria?

«Beh, visto che nel passato essa è stata la “radice”, la “madre” dell’Illuminismo, in molti, pensano che sia più vicina alle idee liberal-socialiste, ma sono assolutamente in disaccordo. La costituzione Americana del 1776 è stata fortemente voluta dai Massoni, così come quella Francese. Inoltre la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo è stata scritta dai dirigenti del potere degli Usa, che è costituito da iniziati».

Ricordiamo che, l’adesione ad una loggia massonica non è reato. Lo era nel caso della P2 perchè aveva scopi eversivi. La lista degli iscritti alla massoneria, non rappresenta una violazione alla privacy in quanto per legge detti elenchi devono essere pubblici. Queste liste sono in continuo aggiornamento per l’andirivieni degli affiliati, poi ci sono gli scomparsi. Le liste fino a quando non ne abbiamo dato notizia circolavano sul web (per la pubblicazione degli elenchi dei massoni di Terni e Perugia, infatti, ci vorrebbero libri, non magazine).

LA MAFIA A TERNI.

''Non si deve confidare solo su magistratura e forze dell'ordine nella lotta alle infiltrazioni mafiose in Umbria, quindi contiamo sull'aiuto che la commissione d'inchiesta del consiglio regionale potrà darci. Per quanto riguarda il territorio ternano, sono pochi i provvedimenti giudiziari al riguardo, ma questo non può far escludere che ci siano fenomeni sommersi da far emergere. Non dobbiamo enfatizzare per non creare allarmismi, ma nemmeno minimizzare i fenomeni, perchè si abbasserebbe la guardia. Il territorio di Terni e provincia è ancora una zona "felice", dove si può facilmente "restare nell'ombra", quindi occorre un alto livello di sorveglianza e attenzione'': questi alcuni passaggi dell'intervento del procuratore della Repubblica di Terni, Fausto Cardella, pubblicato su “Umbria Left” nel corso dell'audizione odierna nella commissione d'inchiesta di Palazzo Cesaroni sulle infiltrazioni criminali in Umbria. Cardella - riferisce un comunicato della Regione - ha detto che a Terni si registra una ''cospicua'' presenza di soggetti che per provenienza geografica, parentele o precedenti si richiamano a famiglie di Campania, Calabria e Sicilia, i quali svolgono attività lecite ma potrebbero costituire, all'occorrenza, possibili appoggi per altre attività. ''Il prefetto ha disposto controlli su cave e cantieri - ha reso noto il procuratore - che hanno portato ad accertare la presenza di numerosi lavoratori a cottimo dalle più disparate provenienze geografiche. Tali controlli hanno dato esito positivo, non facendo emergere situazioni significative, ma non possiamo abbassare la guardia. Inoltre nel carcere di Terni ci sono presenze importanti, che comportano flussi di arrivi di visitatori, amici e parenti che spesso si installano in zona, generando altre situazioni a rischio, che comunque si possono risolvere, se necessario, con il trasferimento del detenuto''. Parlando del riciclaggio di denaro, Cardella ha detto che ''si ha la quasi certezza dell'esistenza del fenomeno, ma non le prove tangibili. E' un reato di difficile accertamento, ma non vuol dire che non ci sia. Le banche segnalano i movimenti di denaro più consistenti e noi facciamo accertamenti ma, al momento, non ci sono reati. L'usura è un canale privilegiato per il riciclaggio, in quanto reato tipicamente sommerso, difficile da scoprire se non ci sono denunce, ma non è detto che sia sempre sintomo di infiltrazione mafiosa, essendo un fenomeno antico. Nel nostro territorio non registriamo la presenza di associazioni criminali, che sono situate altrove, semmai di alcune propaggini di esse''. Il presidente della commissione d'inchiesta del consiglio regionale, Paolo Brutti (Idv), ha assicurato ''il massimo impegno delle istituzioni nel cercare di fornire strumenti utili alla causa, a cominciare dal monitoraggio sul fenomeno del riciclaggio e dalla possibilità di intensificare il sequestro dei beni, ipotesi già discussa con il Procuratore di Perugia, Giacomo Fumu, seppure tale ipotesi possa divenire concreta solo in presenza di denunce''. Per Cardella ''sarebbe utile assicurare la riservatezza del denunciante o far abbassare la soglia entro la quale si possa controllare la provenienza del denaro. Il problema di certe operazioni è proprio il contante: sarebbe meglio far lasciare tracce, attraverso carte di credito e assegni''. I componenti della commissione (Gianluca Cirignoni, Vincenzo Riommi, Orfeo Goracci e Maria Rosi) hanno allargato la discussione ad altre tematiche connesse alle infiltrazioni criminali in Umbria. E' emerso che a Terni lo spaccio di sostanze stupefacenti è consistente, ma non avviene nel centro della città. Ci sono canali di ingresso per lo più stranieri, ma non un controllo ''centralizzato'' del mercato della droga. Secondo Cardella, non c'è una gestione unica. Non è, invece, particolarmente rilevante il fenomeno della mafia cinese: tale comunità rappresenta un ''circolo chiuso - ha detto Cardella -. Non denunciano nulla, non danno fastidio nè si segnalano episodi di risse''. Il lavoro della commissione d'inchiesta proseguirà con le ultime audizioni programmate, quindi, al termine dell'estate, entrerà nella seconda fase, quella propositiva, con il coinvolgimento di tutto il consiglio regionale nella ricerca degli strumenti normativi più adeguati per sostenere le richieste emerse negli incontri con magistrati e forze di polizia.

Umbria, una regione dove prosperano affari mafiosi, scrive Francesco Pullia su “Notizie Radicali”. S’intitola “La mafia in Umbria” il nuovo libro-inchiesta di Claudio Lattanzi, coraggioso giornalista orvietano, corrispondente locale di un quotidiano fiorentino, noto e apprezzato per avere già pubblicato, lo scorso anno, “Orvietopoli. La casta, gli affari, la politica all’ombra della Rupe” e, quest’anno, insieme a Stefania Tomba, “Scacco al monsignore. I retroscena e gli intrighi del caso Scanavino”, sul caso del vescovo della diocesi di Todi e Orvieto sollevato dal Vaticano. Anche stavolta è edito da Intermedia (intermediaedizioni.it), piccola ma grintosa casa che, a poco a poco, si sta facendo notare non solo per gli argomenti trattati ma, soprattutto, per il modo con cui vengono affrontati. Il sottotitolo è emblematico e conferma quanto già da lungo tempo i radicali umbri denunciano: “cronaca di un assedio”, e cioè come ‘ndrine e cosche varie siano penetrate in quella che ancora qualcuno ingenuamente ritiene “regione del buon vivere” o, come recitava un vecchio e fortunato slogan,“cuore verde d’Italia”. In realtà, dietro paesaggi rurali d’indubbia seduzione, opere d’arte o architettoniche di notevole valore e fascino, luoghi come Assisi, intrisi di profonda spiritualità, si cela un mondo torbido in cui si mescolano affarismo e politica. Il quadro rassicurante, scrive l’autore, “sta mutando rapidamente sotto gli occhi di tutti e lo dimostrano gli ultimi, cruenti episodi come la sanguinosa sparatoria avvenuta a maggio di quest’anno a Maceratola di Foligno dove due calabresi hanno ammazzato in mezzo alla strada un rom e ferito gravemente un altro. Un’esecuzione agghiacciante su cui aleggia il sospetto del regolamento di conti fra bande rivali. Noi umbri”, continua Lattanzi,“ stiamo oggi vivendo l’assalto delle nuove generazioni di mafiosi, quelli che operano soprattutto nell’economia e che puntano al riciclaggio di denaro sporco, mirando agli appalti pubblici, all’edilizia, alle attività commerciali, alla gestione dei rifiuti, ma anche al traffico di esseri umani attraverso le leve della prostituzione, allo spaccio di droga, al controllo dei locali notturni, all’acquisto di strutture turistiche”. All’appello non manca, purtroppo, nessuno. In prima fila ci sono i nuclei della ‘ndrangheta seguiti dal clan dei casalesi e da Cosa nostra. “La mafia in Umbria”, specifica Lattanzi, “è quella dei colletti bianchi, dei mafiosi di terza generazione che hanno studiato e che sono alla ricerca spasmodica di prestanome a cui intestare aziende sporche, ma anche della delinquenza brutale che qui assume modalità organizzative del tutto particolari legate al fato che non è finora esistito alcun gruppo criminale autoctono con cui fare i conti e al quale rapportarsi una volta messo piede nella regione”. Va aggiunto, e dal libro lo si intuisce molto bene, che le organizzazioni malavitose sono riuscite, via via, ad attecchire grazie anche ad un apparato politico-burocratico nient’affatto, purtroppo, impermeabile, come è emerso dalle molteplici indagini in corso da qualche anno. Si leggano, a questo proposito, il sesto e l’undicesimo capitolo, dedicati rispettivamente al business del cemento in occasione della ricostruzione dopo il terremoto del ’97 e all’affare dei “rifiuti che scottano” che investe l’intera regione. Non è un caso se il sostituto procuratore antimafia di Perugia, Antonella Duchini, abbia affermato che la presenza della mafia in Umbria non è per nulla episodica e che “non deve passare inosservata una virgola di soprusi nei concorsi pubblici, negli appalti”. Parole che fanno eco a quanto sostenuto dall’attuale procuratore di Terni, Fausto Cardella: “Già dagli anni Novanta si parlava dell’Umbria come uno dei possibili covi freddi della criminalità organizzata”. Ed ecco, allora, gli appalti truccati e i subappalti concessi ad aziende minori dalle ditte vincitrici di gare, con una percentuale che in Umbria solo nel 2010 era pari al 61,5% di tutti i lavori pubblici e imprenditori “puliti” che, in cambio di benefici concreti, fanno da prestanome. “I prestanome”, come chiosa Sandro Gulino, presidente della Confesercenti umbra, “da soli non potrebbero bastare se nell’avventura imprenditoriale i mafiosi non si facessero aiutare da alcuni intermediari finanziari i quali, pur non essendo associati alle organizzazioni criminali, non disdegnano di dedicarsi all’attività di riciclaggio e di reinvestimento, nascondendosi dietro uno schermo costituito da società di comodo”. Vale la pena ricordare, a questo punto, l’ “appaltopoli” umbra che nel 2008 portò in carcere trentacinque persone tra cui dirigenti e funzionari della Provincia di Perugia, e la “sanitopoli” umbra, da oltre un anno all’attenzione della magistratura, con la segretaria dell’ex presidente della Giunta Regionale indagata di rilievo e, insieme ad altri diciannove, forse destinata al rinvio a giudizio. Dalle millecinquecento pagine ricavate dai tre dvd in cui son o stati ordinati i vari file con tanto di nomi, cognomi, richieste di raccomandazioni, favori, “marchette” (sono chiamate proprio con questo termine) emerge un ritratto del sistema politico umbro (incentrato sull’ininterrotto monopolio ieri Pci-Psi ed oggi PD) tutt’altro che lindo. A parte le pressioni per garantire determinati posti di lavoro o cariche politiche in svariati enti, sono venuti alla luce del lavoro svolto dal Reparto operativo nucleo investigativo dei carabinieri appunti in cui si parla di ben 2.324.065,05 euro finanziati con delibera di Giunta Regionale 5481 del 1998 per ristrutturare il Seminario vescovile umbro e, come si legge, “praticamente buttati al vento”. In un file, poi, del 4 febbraio 2008 viene citato “un bando in cui la ditta vincitrice sarebbe stata in qualche modo favorita”. Ecco, allora, che, stringi stringi, si comprende benissimo come la mafia in Umbria non sia altro che una delle tante facce della peste partitocratica. Si legga in modo approfondito il libro di Lattanzi e se ne traggano le debite conseguenze.

In libreria "Orvietopoli": sessant'anni di potere orvietano ricostruiti da Claudio Lattanzi in un libro-inchiesta con rivelazioni inedite e clamorose. Infiltrazioni della camorra nel business dei rifiuti e nell’edilizia, una mega tangente pagata al partito comunista di Orvieto e Terni per i lavori di consolidamento della rupe. Sono questi due degli aspetti clamorosi che tratta il libro-inchiesta “Orvietopoli. La Casta, gli affari e la politica all’ombra della rupe” scritto da Claudio Lattanzi per Intermedia Edizioni. In quasi 400 pagine viene descritto e ricostruito il formidabile sistema di potere su cui, secondo l'autore, si sarebbe retta Orvieto per oltre sessant’anni. Un’analisi minuziosa e corposa che passa in rassegna le varie forme attraverso le quali gli uomini del Pci-Pds-Ds sarebbero stati in grado di esercitare per decenni un controllo totale su Orvieto, sulla sua economia, sulla sua vita pubblica e sociale. Conflitti d’interesse, accordi di potere, sovrapposizione tra politica e affari, gestione clientelare: questi i mali di “Orvietopoli” presi in esame da cui, secondo Lattanzi, discendono anche i molti problemi economici con cui la città si trova oggi a fare drammaticamente i conti. Le tesi dell'autore, di certo destinate a fare scalpore e a riaprire vecchi e nuovi scenari, sono accompagnate e suffragate da clamorose testimonianze e rivelazioni inedite. La vicenda di Orvietopoli viene ricostruita attraverso diciotto capitoli dai titoli eloquenti: "La Legge speciale, l'odore dei soldi, la puzza delle tangenti", "Come è nata la candidatura Concina", "Le cooperative rosse", "Falce e mattone. Perché le case ad Orvieto costano tanto", "Le infiltrazioni della malavita campana ad Orvieto", "L'ideologia. Cosa c'è nella testa di chi ha sempre governato Orvieto", "Cimicchi e il cimicchismo", "Il turismo? Cosa loro", "La politica in camice bianco, l'ospedale malato", "L'ombra della camorra", "Il disastro delle partecipate", "La monnezza che odora", "Lavori pubblici da brividi", "Il trucco dell'acqua che costa come lo champagne", "Lo sbandamento della casta", "La guerra del vino, la moltiplicazione dell'Orvieto".

Orvietopoli. Un'intervista di Sara Simonetti a Claudio Lattanzi su “Orvieto News”. Un sistema di potere solidissimo che si è basato sul controllo capillare di quasi ogni attività economica, sociale, culturale, sportiva, associativa, ma anche un accordo di potere occulto tra gli esponenti dell'ex Pci e settori importanti del mondo economico. Questi, secondo il giornalista Claudio Lattanzi, gli elementi essenziali che hanno contraddistinto Orvieto negli ultimi venti anni, tra conflitti d'interesse e ombre inquietanti. La tesi, esplicitata nei sedici capitoli di "Orvietopoli. La Casta, gli affari e la politica all'ombra della Rupe", edito da Intermedia, sta facendo discutere e, soprattutto, incuriosisce e ha determinato ottime vendite. Per concessione di Intermedia, riportiamo di seguito, da Tuttorvieto Magazine, un'intervista di Sara Simonetti a Claudio Lattanzi, in cui l'autore parla di alcuni tra i passaggi più significativi del suo lavoro.

Orvietopoli è concentrata soprattutto dai primi anni 90 al 2009, perché questa impostazione del libro?

«Perché è agli inizi degli anni 90 che vengono compiute tutte quelle scelte che hanno contribuito a plasmare la città come la conosciamo oggi e con tutti i problemi attuali. Nel 93 inizia il potere di Stefano Cimicchi che crea una maggioranza politica a propria immagine, estromettendo i socialisti dal Palazzo e dando vita ad un inedito (per quell'epoca) schieramento di centrosinistra. In quella fase, inizia l'uso intensivo della discarica finalizzato a sostenere quel sistema di società partecipate che erano nate dalla fase precedente, cioè dalla Legge Speciale e che sono diventate quasi tutte dei carrozzoni mangia-soldi. Si compie la colossale privatizzazione delle attività di assistenza a favore delle cooperative sociali vicine al partito che, da allora ad oggi, hanno costituito un formidabile strumento di consenso della sinistra oltre ad una forte anomalia rispetto alle dimensioni economiche della città. Da quel momento si spinge inoltre l'acceleratore su una politica urbanistica piuttosto sfrenata e si cominciano a tessere rapporti di potere sempre più solidi tra la politica e una parte rilevante dell'imprenditoria mentre il partito diventa un padrone assoluto della vita orvietana. Ad inizio anni 90 si avvia insomma una fase di cambiamento caratterizzata da una crescita solo apparente, fondata esclusivamente sull'indebitamento in cui erano contenute le premesse della degenerazione successiva con la quale stiamo facendo i conti ancor oggi drammaticamente».

Quale è l'elemento conduttore di questo ventennio?

«Innanzitutto il potere personale costruito da Cimicchi intorno alla sua persona. A livello politico c'è stato il tentativo di mettere in moto e far crescere ciò che era stato abbozzato con la Legge speciale, dunque: il teatro, il palazzo dei congressi, il turismo congressuale, la politica dei grandi eventi poi il Centro studi, le società partecipate. Questo castello è crollato perché nessuno è stato in grado di farlo funzionare al di fuori dell'assistenzialismo garantito dai soldi pubblici che è stato l'altro grande elemento distintivo del periodo, così come il clientelismo, figlio a sua volta di una subordinazione totale di ogni attività alla sfera politica».

I conflitti d'interesse di cui si parla diffusamente?

«I conflitti di interesse e la sovrapposizione di ruoli economici e politici in capo alle stesse persone sono stati la conseguenza, da un lato dell'importanza abnorme assunta dalla politica e, per un altro verso, da una concezione ispirata all'impunità e a una certa arroganza con cui questa vera e propria Casta ha concepito l'esercizio della funzione pubblica. Nel libro ci sono molti esempi e molti nomi, riferiti al settore delle costruzioni, delle progettazioni e dell'ingegneria, del turismo, non solo ad Orvieto, ma anche a Fabro, Baschi».

Neanche la Chiesa si salva.

«Nel sistema di potere che ha stritolato Orvieto durante gli anni Novanta e Duemila un ruolo di primo piano l'ha svolto anche l'ex vescovo Decio Lucio Grandoni a cui è riservato parecchio spazio. E' stato il gemello siamese di Stefano Cimicchi. Speriamo che, dall'alto dei Cieli, vorrà perdonare».

Quale è l'eredità che Orvietopoli ci ha lasciato?

«La tesi centrale del libro è che alcuni tra i più gravi problemi economici della Orvieto di oggi sono la diretta conseguenza del sistema di potere costruito sapientemente dalla classe politica (ma l'esatta definizione sarebbe "gruppi di potere") che ha dominato la scena in quella lunga stagione. Non si è trattato di un gioco a somma zero, ma di un meccanismo che ha prodotto effetti nefasti nel corso del tempo. Faccio alcuni esempi, come i prezzi delle abitazioni che sono i più alti dell'Umbria, la mancanza di sviluppo economico, le carenze della sanità, i prezzi ugualmente elevati dei beni di consumo, la mancata soluzione della questione Piave e tanti altri ancora. Prendiamo il mercato immobiliare. Nel libro si descrive per filo e per segno il sistema attraverso il quale la politica ha consegnato, nei fatti, il mercato immobiliare nelle mani di pochi costruttori attraverso un sistema di incentivazione economica che ha favorito il passaggio delle proprietà fondiarie edificabili dai singoli, piccoli proprietari direttamente ai costruttori. Per fare questo si sono usati precisi strumenti urbanistici. Per quale motivo ad Orvieto non esiste il fenomeno dei proprietari che decidono di costruirsi la casa sul proprio terreno e ci sono esclusivamente le lottizzazioni realizzate dai costruttori? Rispondendo a questa domanda, si svela tutto il meccanismo».

In realtà, non è ingeneroso accusare solo la sinistra di aver perseguito interessi di parte? Non ci sono state anche importanti categorie economiche che hanno tratto vantaggio da quel sistema?

«Nel libro si sostengono due argomenti: che la sinistra abbia perseguito finalità di parte e che, nel tempo, ci siano stati due importanti accordi taciti tra sinistra politica e destra economica. Il primo è questo che abbiamo accennato con i costruttori. Il secondo è stato quello con i commercianti. Il partito post comunista ha tenuto questi due settori al riparo della concorrenza per anni, facendo il gioco degli imprenditori a danno dei cittadini-consumatori. Nel campo del commercio, è stata perseguita una politica a favore della Coop Centro Italia che ha beneficato della protezione garantita da piani del commercio anacronistici. Questi piani hanno bloccato fino a dieci anni fa l'arrivo delle grande distribuzione. Tutelando gli interessi della Coop che vantava comunque già una pozione di rilievo nel mercato locale, venivano protetti indirettamente anche i piccoli commercianti. Quando la Coop ha deciso che doveva fare un importante investimento nella grande distribuzione per stare al passo con i tempi, cioè l'imminente discount di via Costanzi, allora la politica ha risposto con prontezza ed ha cambiato immediatamente, dal giorno alla notte, i piani del commercio e la stessa impostazione commerciale, mandando a monte gli accordi taciti con l'altra imprenditoria, non legata direttamente al partito».

Il risultato?

«Il risultato è stato, in questo come in tutti gli altri esempi illustrati nel libro, che i politici ci hanno guadagnato potere e voti, gli imprenditori vicini alla sinistra e gli altri ci hanno guadagnato tanti soldi e gli unici a rimetterci sono stati i cittadini. Non a caso, oggi l'inflazione calcolata su base locale vede Orvieto al primo posto in Umbria. Alla fine, ricostruire come è stato gestito il potere di Orvietopoli significa comprendere che l'origine dei problemi economici attuali- quelli delle famiglie, delle aziende così come quelli della comunità sintetizzati in un bilancio municipale letteralmente depredato-risiede proprio nel meccanismo di potere perverso che ha regnato finora, tutto costruito solo in funzione degli interessi di una Casta, composta da poche centinaia di persone».

Perché ha scritto questo libro e non ha timore di ripercussioni ad aver messo in piazza affari a cui finora si è accennato solo sotto voce e con una certa soggezione ?

«Il libro nasce dal tentativo di individuare le radici del malessere e dello spaesamento di cui oggi Orvieto soffre terribilmente. Per quanto riguarda il resto, l'unico timore l'ho provato quando mi sono reso conto di quanti documenti e quanto materiale avrei dovuto cercare e consultare prima di arrivare alla fine di questo lavoro, molto stimolante e molto avvilente per la realtà che ne è emersa».

MAGISTROPOLI.

Terni, magistrato pedinato e intercettazioni illegali: ex capo della Digos indagato, scrive “Terni Oggi”. Ufficialmente trasferito presso la questura di Roma nell’ambito della rotazione degli incarichi dei funzionari della polizia di Stato, secondo quanto riferito da una nota della questura ternana. Contemporaneamente alla notizia del trasferimento, emerge però che l’oramai ex capo della Digos di Terni, Moreno Fernandez, è indagato dalla Procura: accusato di 9 capi d’imputazione. Le accuse mosse nei confronti del funzionario di polizia e avanzate dal sostituto procuratore della Repubblica, Elisabetta Massini, variano dall’abuso d’ufficio all’induzione a violare il segreto d’ufficio, falso in atto pubblico, false dichiarazioni al pm, rivelazioni di segreto d’ufficio e omessa denuncia di reato. Tra le varie accuse c’è quella inerente ai collaboratori di giustizia: infatti, secondo l’accusa, Fernandez avrebbe effettuato omissioni e pressioni per impedire il trasferimento da Terni di un pentito, con tanto di divulgazione di notizie d’ufficio. Altro fatto contestato al funzionario di polizia riguarda ipotesi di reato commesse ai danni della moglie di un collaboratore di giustizia. Tra i reati contestati risulta esserci anche una questione relativa alle intercettazioni di un profilo Facebook richieste sulla base di motivazioni non fondate. Dei fatti che vengono addebitati a Fernandez, c’è n’è uno più inquietante degli altri: sarebbe responsabile del pedinamento di un giudice del tribunale di Terni, Pierluigi Panariello, e di intercettazioni a carico della moglie, un’avvocatessa. I fatti sarebbero collegati a vicende giudiziarie riguardanti alcuni Daspo comminati ad altrettanti tifosi. Di questa vicenda che tocca da vicino il gip, se ne sta occupando la procura di Firenze che è competente in materia di magistrati del tribunale ternano. Fernandez, prima di prendere servizio nella nuova questura, si è recato presso il tribunale dove, per tre ore, ha raccontato la sua versione dei fatti.

Terni, questura nel caos il pm chiede misura cautelare per dirigente della Digos, scrive “Il Messaggero”. Dopo l’interrogatorio durato tre ore il magistrato Elisabetta Massini è tornata alla carica chiedendo per l’ex dirigente della Digos Moreno Fernandez la misura cautelare dell’interdizione dai pubblici uffici, nell’ambito delle indagini a suo carico. Nei giorni scorsi era stata respinta dal gip quella degli arresti domiciliari. Fernandez (da pochi giorni trasferito a Roma) è accusato di aver portato avanti indagini parallele e illegali. Difeso dall’avvocato Gianni Ranalli, ha risposto punto per punto alle accuse mosse dalla magistratura ternana con ben nove ipotesi di reato, fornendo chiare spiegazioni dei suoi comportamenti. Le accusa vanno dall’abuso di ufficio al favoreggiamento personale la violazione e rivelazione di segreti d’ufficio e il falso in atto pubblico. In sostanza c’è l’ipotesi da parte della Procura che il dirigente della questura a volte abbia agito aldilà delle regole fissate dalla legge. Ora la indagini mirano ad individuare se qualcuno lo abbia aiutato e se abbia avuto autorizzazioni in tal senso: il numero degli indagati potrebbe aumentare. Tra gli episodi più gravi c’è sicuramente quello che riguarda il giudice ternano Pierluigi Panariello e sua moglie (avvocato). Secondo l’accusa il giudice sarebbe stato fatto pedinare per conoscere le sue abitudini mentre il telefono della donna sarebbe stato intercettato. Episodi nati, secondo la ricostruzione accusatoria, dopo che lo stesso giudice Panariello aveva smontato le indagini su un gruppo di curdi e italiani che avevano messo su un’organizzazione per fornire falsi permessi di soggiorno in tutta Italia che aveva portato all’arresto di nove persone, facendo cadere a sorpresa l’accusa di associazione a delinquere. Un’attività di intercettazioni e pedinamenti di giudice e signora che per l’accusa sarebbero state condotte in modo «arbitrario e sulla base di risentimenti personali, e senza l’avallo della procura». Questa indagine probabilmente verrà stralciata e inviata alla Procura competente in questo caso di Firenze. Tra gli episodi contestati a Fernandez c’è anche quella delle pressioni, sempre secondo l’ accusa, per far rimanere a Terni un collaboratore di giustizia. Ma anche quella che ha meno rilevanza giudiziaria e riguarda la richiesta di un politico fatta a Fernandez di controllare acquisire i dati personali di un profilo Facebook di una donna ternana, senza le dovute autorizzazioni. Un favore intercettato dalla Procura che però ora si è ritorto contro di lui. Ma c’è anche quella sul mondo del tifo relativa all’emissione di Daspo, le misure che vietano l’accesso allo stadio. Ora sarà, il gip Simona Tordelli a dover decidere se accogliere la richiesta interdittiva fatta dal pm Elisabetta Massini. Certo è che in questura il nervosismo aumenta con molti uffici che sono in ebollizione.

E poi, ancora.

Telefonate, richieste di aiuto, appuntamenti all' estero, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Anche la procura di Firenze indaga su don Gelmini. Sono stati i magistrati di Terni a trasmettere una parte del fascicolo. Lo stralcio riguarda i rapporti tra il fondatore della comunità Incontro e Cesare Martellino, l' ex procuratore di Terni attuale rappresentante per l' Italia di Eurojust, la struttura di giustizia europea. E dunque dovranno essere i pubblici ministeri toscani - competenti a valutare eventuali reati commessi dalle toghe umbre - a stabilire se siano leciti quei contatti avvenuti dopo l' apertura dell' inchiesta per violenza sessuale che il sacerdote avrebbe commesso nei confronti di alcuni ospiti della comunità. Nove ragazzi che, dice l'accusa, sarebbero stati costretti a subire le sue attenzioni particolari. Il primo ad occuparsi delle denunce contro don Gelmini fu proprio Martellino. Nel 2000, Michele Iacobbe, 34 anni, si presentò ai magistrati di Bari per denunciare di essere vittima di abusi. Il fascicolo fu trasmesso a Terni, ma il 28 maggio 2002 la procura ritenne infondata la querela e decise per l' archiviazione. Cinque anni dopo Iacobbe ha presentato una nuova denuncia. Non è stato l'unico. Altri ragazzi hanno confermato il suo racconto descrivendo nel dettaglio le molestie. E sono ripartiti gli accertamenti. Interrogatori, controlli, intercettazioni telefoniche. Quando la notizia dell' inchiesta è diventata pubblica, don Gelmini ha contattato Martellino. «Il citato magistrato - si legge in una delle informative depositate agli atti - ha esternato la sua meraviglia per il riproporsi di indagini aventi lo stesso contenuto di quelle da lui personalmente archiviate e ha consigliato al prelato di assumere un valido difensore». Fin qui nulla di strano. Ma ad insospettire chi indaga è quanto era accaduto prima. Vincenzo Di Marzo, un imprenditore romano che è stato preside dell' Istituto tecnico situato all' interno della comunità di Amelia, si sarebbe attivato per cercare di saperne di più. «Si è recato a Torino - annotano gli investigatori - per acquisire informazioni circa le dichiarazioni di P.M., indicato da un altro tossicodipendente, D.B., come una delle vittime di abusi. E poi si è recato all' Aja, in Olanda, per avere un incontro con il dottor Martellino al fine di avere da quest' ultimo consigli su come don Gelmini dovesse comportarsi nella specifica vicenda». Anche le trascrizioni di queste telefonate e la ricostruzione degli spostamenti dell' imprenditore sono state inserite nel fascicolo spedito a Firenze. Perché i magistrati dovranno valutare se il comportamento di Martellino e di chi cercava di scoprire quali elementi fossero stati raccolti dalla polizia, abbia in qualche modo favorito l' indagato. Un' accusa già rivolta a due suoi collaboratori, Luigi La Rocca e Gianpaolo Nicolasi. Entrambi avrebbero cercato di convincere uno dei ragazzi, G.P., a ritrattare le accuse. E per farlo avrebbero potuto contare sull' aiuto della madre Patrizia Guarino, adesso sotto inchiesta con loro per favoreggiamento e rivelazione del segreto istruttorio. Fui proprio lei ad informare La Rocca che il giovane era stato interrogato e aveva raccontato di aver subito violenza. Sono numerose le denunce citate negli atti, ma alla fine soltanto in nove casi i pubblici ministeri hanno ritenuto che ci fossero indizi concreti per formalizzare le accuse nei confronti di don Gelmini. Uno di loro, D.B. si era confidato con suo padre che era detenuto ed è stato l' uomo, con una lettera inviata al giudice di sorveglianza di Torino, a denunciare le presunte molestie subite dal figlio. Gli inquirenti ritengono che il viaggio nel capoluogo piemontese dell' imprenditore Di Marzo, avesse come scopo proprio quello di saperne di più su questa segnalazione. La vicenda. Sotto accusa Don Pierino Gelmini, 83 anni, fondatore di «Incontro», una comunità di recupero per tossicodipendenti, dal 3 agosto scorso è indagato dalla procura di Terni per presunte molestie sessuali La denuncia A denunciare il religioso sono stati cinque ospiti allontanati dalla comunità e denunciati perché sorpresi a rubare bottiglie di liquori e una macchina fotografica Dieci anni A don Gelmini la Procura contesta di avere costretto 9 ospiti della comunità a «soddisfare le sue richieste sessuali» mediante «la minaccia di avvalersi della sua autorità e della conoscenza di numerosi politici influenti». I fatti sarebbero avvenuti tra il ' 97 e lo scorso ottobre L' iter Giovedì si sono concluse le indagini. I legali di don Gelmini hanno 20 giorni per presentare istanze istruttorie, poi la procura deciderà se chiedere il rinvio a giudizio.

MALAGIUSTIZIA

Una storia incredibile, che sa di Medioevo. E’ la storia di Alessandro Maiorano, che molti di voi forse già conoscono, perché ha avuto una grande risonanza dopo che il Papa Benedetto XVI l’ha ricevuto, insieme al suo bambino, in Vaticano. Tutto sarebbe iniziato cinque anni fa, quando un dentista residente a Terni avrebbe fatto segno con minacce di morte sia l’uomo che il figlioletto di tre anni. Una tempesta di inquietanti minacce –spiega- che, anziché prendere di mira direttamente la ex del dentista, sono state dirette verso di lui, quale nuovo compagno, e il figlioletto nato dalla relazione di coppia. In un paese che si dice civile sarebbe bastata una semplice denuncia per sciogliere in fretta i nodi di questo stalking. In realtà non è stato così. Solo cinque anni dopo, quando Maiorano presenta alla Procura di Prato un’altra denuncia-querela, per le reiterate minacce di morte ricevute in toscana, il gip emette un decreto di citazione a giudizio nei confronti del dentista ternano. Nel frattempo, Alessandro Maiorano scrive pure al Consiglio Superiore della Magistratura e denuncia un magistrato di Terni, relativamente ai presunti reati di “abuso d’ufficio” e “omissione di atti d’ufficio”. Sicuramente, ci sono tanti aspetti da chiarire in questa vicenda, ma se non fosse stato per un monsignore che riuscì a fargli avere udienza da Benedetto XVI, la vicenda non sarebbe mai saltata alla ribalta della cronaca. Il Santo Padre, dopo avere ascoltato il racconto di Alessandro e della sua compagna, avrebbe mormorato «Qui bisogna fare qualcosa». Forse anche temendo che dalle minacce si potesse arrivare all’irreparabile. «La vera vergogna –scrive Alessandro a Umbria Cronaca - è stato l’immobilismo delle istituzioni. Come si è potuto lasciare per anni che un bimbo fosse minacciato di morte senza intervenire? Oggi ricevo lettere dall’ONU dove mi si indica la strada per denunciare la procura di Terni alle Nazioni  Unite per i diritti negati al mio bimbo. Con i miei avvocati ci siamo già attivati e così facendo il fatto esploderà a livello internazionale. Siamo stati vittime di minacce di stalking, ad opera del dentista ternano (…), ex marito della mia attuale compagna dal 2005 al 2009. Le minacce avvenivano telefonicamente ma anche ocularmente ogni volta che, per ragioni di udienze, tra  il dentista e la mia compagna dovevamo venire a Terni. Per anni ci ha seguito, minacciato, pedinato e persino una volta ha tentato di buttarci fuori strada con la sua macchina…Anni d’inferno, la mia serenità  compromessa nella vana speranza che la Procura di Terni si fosse attivata in difesa  del mio bimbo. CHIMERA nonostante avessi presentato 31 denuncie in Umbria, ricevendo indifferenza e menefreghismo. Arrivai persino a pensare di farmi giustizia da solo, ma poi avrei rovinato la vita non a quel pezzo di m…, ma ai miei famigliari. Pensai allora di arrivare in alto, dove nessuno può arrivare…Attraverso mie personali  conoscenze con Cardinali e vari incontri a Roma con alti prelati, il Papa mi ha ricevuto per ben due volte, poi ho chiesto ad un mio amico Cardinale di farmi incontrare il presidente Usa, anzi l’ex presidente, per chiedergli aiuto. Aver incontrato i potenti della terra non è stato motivo di vanto, bensì di sconfitta».

Ma non basta. Un magistrato del Tribunale di Terni sarebbe riuscito a delegare le indagini a un ispettore di polizia su un procedimento in cui quest’ultimo figurava come indagato. Proprio così: l’agente avrebbe indagato su se stesso, chiedendo e ottenendo la propria assoluzione. Incredibile ma vero, il pm del processo non si sarebbe accorto dell’anomalia, tanto che avrebbe chiesto l’archiviazione. Una leggerezza, spiegano nei corridoi del palazzo di giustizia, probabilmente dovuta al sovraccarico di lavoro. Ricapitolando, un ispettore della Procura ternana sarebbe stato indagato in seguito a una denuncia insieme con un’altra persona per una serie di reati dalla calunnia all’abuso d’ufficio. E il magistrato competente avrebbe attribuito all’interessato gli accertamenti sul caso. Dopo qualche settimana, il poliziotto arriverebbe alla conclusione, scontata, che le accuse contro di sé sono infondate. Il pubblico ministero non avrebbe battuto ciglio e avrebbe chiuso il caso. A denunciare il paradosso sarebbe stato il querelante, che avrebbe dimostrato l’evidente violazione del segreto istruttorio. Il magistrato solo a quel punto avrebbe chiesto la revoca dell’archiviazione e avrebbe affidato gli atti a un altro ispettore, collega dell’indagato. Il quale sosterrebbe che il poliziotto non si sarebbe reso conto di indagare su se stesso. A metter fine alla catena di assurdità dovrebbe essere adesso il gip. (Fonte il Giornale.it) su Terni Magazine.

MEDIOPOLI. IL CASO BOFFO.

Boffo e il pasticciaccio brutto di Terni. Da piccolo scandalo di provincia a caso nazionale. Si riporta l'articolo di "Panorama". È quasi un contrappasso: nella terra di San Valentino e delle promesse d’amore eterno scambiate sulla sua tomba il 14 febbraio, nella città della leggenda di Sabino e Serapia, un Romeo e una Giulietta d’epoca imperiale, Terni è salita alla ribalta per le molestie telefoniche a una ragazza e per le voci maligne su un presunto e indimostrato amorazzo (negato dai diretti interessati) fra il direttore dell’Avvenire Dino Boffo e un aitante assistente di volo ternano. La storia, senza il nome di lei e di lui, è stata tirata fuori venerdì 28 agosto sulle colonne del Giornale di Vittorio Feltri, che ha citato un’informativa anonima inviata ai vescovi italiani e l’allegato decreto di condanna del tribunale di Terni, per “molestie”, contro Boffo. Il lunedì successivo non deve essere stato facile per quest’ultimo sollevare il telefono, come risulta a Panorama, e chiamare Vincenzo Paglia, da nove anni vescovo della città umbra, per confrontarsi sulla delicatissima questione delle molestie telefoniche che ha avuto il suo epicentro a Terni. La ragazza molestata, 29 anni, bruna e graziosa, corpo tornito dall’atletica (a giugno è arrivata nona a una gara podistica), è la rampolla di una delle due famiglie più in vista del mondo cattolico ternano. Il capofamiglia è un uomo minuto e discreto, con il viso impreziosito da un pizzetto bianco, rappresentante di commercio, presidente parrocchiale dell’Azione cattolica, ma soprattutto presidente della radio diocesana Tna (Terni-Narni-Amelia), megafono del vescovo, appartenente al circuito InBlu il cui direttore è proprio Boffo. La madre, chioma canuta, ex insegnante di liceo, fa parte della consulta nazionale degli organismi socioassistenziali della Caritas ed è impegnata nel Centro italiano femminile (Cif), l’associazione delle donne cattoliche. La signora ha anche scritto una biografia di Caterina Franceschi Fannucci, letterata ed educatrice ottocentesca, a cui sembra ispirarsi nello stile semplice e austero. I coniugi sono pure responsabili dell’ufficio diocesano della famiglia. La coppia da martedì scorso si è limitata a respingere gli assalti dei giornalisti nell’elegante palazzina dove abita. Sino all’ultimo hanno provato a negare il coinvolgimento della famiglia nella vicenda, sostenuti nel catenaccio dall’arcigno legale, Giovanni Cerquetti. Poi, quando l’argine è crollato, la ragazza, voce da bambina, con Panorama ha risposto al cellulare: “Non rilascio dichiarazioni”. Lo ha fatto sua madre: “La vicenda si era completamente risolta e se qualcuno oggi l’ha ritirata fuori a noi sembra una cosa impropria”. Quindi la famiglia ha cercato rifugio a Roma. Ma ormai il caso era straripato. Come prevedibile. Lunedì 31 agosto i giornalisti avevano chiesto copia degli atti del fascicolo su Boffo. Il procuratore Fausto Cardella si era pronunciato favorevolmente, ma il gip Pierluigi Panariello aveva deciso di “liberare” solo un paio di fogli. In cui il nome della parte offesa era protetto da un omissis. Uno scrupolo compassionevole, un colpo di pennarello nero per proteggere la privacy della vittima. La precauzione, però, non è bastata: un cronista del Giornale dell’Umbria ha controllato in filigrana le carte e ha decrittato il nome della ragazza molestata. È lei la giovane che dall’agosto 2001 al gennaio 2002 ricevette le telefonate ingiuriose di un uomo che l’aveva apostrofata dandole anche della “cornuta” e che faceva pesanti riferimenti alla vita sessuale sua e del fidanzato. All’epoca la madre della giovane sporge denuncia contro ignoti. La procura tutela l’onorabilità della fanciulla con un controllo dei tabulati telefonici. Ricevendo una sorpresa: l’importunatore chiamava utilizzando un’utenza del quotidiano Avvenire, l’organo ufficiale dei vescovi italiani. In particolare quel telefono risulta “nella disponibilità” di Boffo. L’imbarazzo è grande. Dopo qualche mese la famiglia (forse per evitare di ingigantire uno scandalo con protagonisti tutti interni alla Chiesa) decide di ritirare la querela, ma per le molestie il pm, come prevede la legge, procede d’ufficio. La valanga è partita in silenzio e nel 2004 Boffo paga l’ammenda da 516 euro, previsti come massima pena pecuniaria per reati del genere, pensando forse di aver seppellito per sempre la vicenda. Nelle motivazioni della sentenza si legge che Boffo è stato condannato per “le ripetute chiamate sulle utenze telefoniche della ragazza nel corso delle quali ingiuriava anche alludendo ai rapporti sessuali con il suo compagno (condotta di reato per la quale è stata presentata remissione di querela), per petulanza e biasimevoli motivi recava molestia a…”. Il direttore di Avvenire, nei giorni scorsi, ha dato la sua versione dei fatti: avrebbe conciliato per evitare guai a un giovane tossicodipendente, indicato come autore di quelle chiamate usando di nascosto il suo telefono. In città molti gli credono e domandano ai colpevolisti: il direttore del giornale dei vescovi, uno stimato intellettuale, può essere così dissennato da utilizzare il suo cellulare per ricoprire una ventenne di contumelie irriferibili? Nella scorsa primavera il decreto penale di condanna e l’informativa anonima a esso allegata sono finiti sulle scrivanie di vescovi e direttori di giornale. Feltri ha interrotto il profluvio di gossip da bar, di gomitate e strizzate d’occhio, pubblicando, con qualche rischio, la “velina”. Comprese le voci, non confermate negli atti giudiziari, sul presunto rapporto omosessuale tra Boffo e il fidanzato della ragazza. Risultato: quasi un caso diplomatico tra Stato e Chiesa. In città sono iniziate subito le ricerche per lumeggiare i rapporti tra Boffo e la famiglia, per scoprire a quando risalga, se esiste, la conoscenza. Gli esperti di cose ecclesiastiche citano un’assemblea diocesana del marzo 2001 intitolata: “Domenica, giorno che salva”. Boffo era uno dei relatori, la famiglia della ragazza era ospite premurosa. È in quell’occasione che Boffo ha conosciuto l’allora ventenne studentessa di lingue orientali alla Sapienza di Roma, e pure il suo ragazzo, classe 1970, steward dal fisico slanciato e dai modi delicati? Chi conosce bene quest’ultimo esclude tendenze gay. Per esempio Leonardo G., maresciallo della Guardia di finanza, una delle otto persone inserite sul social network Facebook tra gli amici dell’uomo (la ragazza molestata ne ha invece 155, tra cui l’attrice ternana Camilla Ferranti), spazza via i sospetti con una risata: “Il mio amico omosessuale? Non scherziamo”. Il diretto interessato, oggi single e direttore di un’agenzia di un’importante banca italiana in provincia di Modena, raggiunto da Panorama preferisce glissare sull’argomento: “Non ho niente da dichiarare. Ho dei clienti davanti a me”. Di certo la ragazza e il fidanzato di allora si sono conosciuti a metà degli anni Novanta, quando erano entrambi assidui frequentatori degli incontri organizzati all’interno della diocesi. Un amico li ricorda impegnati una volta al mese nella Scuola di preghiera, la Lectio divina, un appuntamento mensile a partire dal 1992. Già allora il ragazzo si distingueva per il portamento signorile e la dimestichezza con le lingue straniere. Altri compagni lo ricordano alle Giornate mondiali della gioventù in Francia mentre recita la parte del mimo-giullare, con eleganza stilizzata. La sua parte, in francese, prevedeva la lettura di due pergamene bruciacchiate durante la messinscena di un funerale medioevale, con tanto di dedica finale “alla mia povera mamma che per causa mia, Dio lo sa, ebbe amaro dolore e immensa tristezza”. L’anno dopo partecipò alle giornate di dialogo interconfessionale della comunità monastica fondata dal pastore calvinista frère Roger Schultz (ne fanno parte, dagli anni Quaranta, cristiani, protestanti, ortodossi) di Taizé, al centro della Francia, una Woodstock in miniatura per giovani cristiani. Tanto che un frate apostrofò così i ragazzi: “Qualcuno viene qui per farsi una spiritualità, qualcuno per farsi una donna, qualcuno per farsi e basta”. A Taizé si può ballare e bere sino alle due di notte, in un angolo di prato allestito con pub e discoteca. In quell’occasione la ragazza non è presente, ma la storia tra i due giovani prosegue senza intoppi. Sino alla vicenda di Boffo, una prova che la coppia sembra superare. Nel frattempo lei si diploma al Pontificio istituto di studi arabi e islamici (che ha rappresentato al festival cinematografico dei Popoli e delle religioni), quindi entra, come interprete, in un’azienda di import-export alle porte di Terni. Lui scende dagli aerei e atterra in banca. Le loro strade si separano. L’uomo si trasferisce in Emilia. Quasi tutti gli amici ne perdono le tracce. “Io non ne so più nulla, non ho più nemmeno il suo numero di cellulare” dichiara Stefano S., presidente dell’Azione cattolica cittadina e ottimo amico della ragazza. “Della vicenda di Boffo non sapevo nulla” assicura. “Io ho incontrato lui e mi ha detto che non si è ancora ripreso dopo la fine della storia con lei” giura un’altra amica. Forse, per risolvere le pene d’amore del ragazzo, servirebbe un voto a San Valentino. O magari la sua intercessione per chiudere definitivamente questo pasticcio consumato all’ombra della curia.

LE TAPPE DELLA VICENDA

Gennaio 2002 Dino Boffo viene denunciato per ingiuria e molestia alle persone.

9 agosto 2004 Il direttore di Avvenire viene condannato al pagamento di un’ammenda di 516 euro, nel frattempo viene ritirata la querela per ingiuria.

19 luglio 2005 Il Tribunale di Terni rifiuta la visione degli atti del procedimento giudiziario al giornalista Mario Adinolfi che ne dà notizia sul suo blog.

24 luglio 2006 Nuova agenzia radicale riferisce nuove voci sulla condanna di Boffo per molestie.

12 gennaio 2008 Panorama pubblica la sentenza del Tribunale di Terni.
28 agosto 2009 Vittorio Feltri torna sulla vicenda e cita un’informativa sulla presunta “omosessualità” del direttore di Avvenire.

29 agosto 2009 Boffo viene riconfermato alla direzione del quotidiano e riceve la solidarietà del presidente della Cei Angelo Bagnasco e del segretario di Stato Tarcisio Bertone.

3 settembre 2009 Il direttore di Avvenire, con una lettera di 4 pagine al Presidente della Conferenza Episcopale Angelo Bagnasco rassegna le sue dimissioni. Irrevocabili: “La mia vita”, scrive, “e quella della mia famiglia, le mie redazioni, sono state violentate con una volontà dissacratoria che non immaginavo potesse esistere”.